Bernard Herrmann, il lato oscuro dell`innocenza. Una lettura sacro

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Bernard Herrmann, il lato oscuro dell`innocenza. Una lettura sacro
Bernard Herrmann
&
Nino Rota
Atti del Convegno Internazionale
Conservatorio di Santa Cecilia Roma,
9-10 settembre 2011
a cura di
Roberto Giuliani e Sergio Miceli
Libreria Musicale Italiana
B. POMERIGGIO 9 SETTEMBRE 2011
Ennio Morricone
Ennio Morricone
Parlare di un compositore collega e amico è per me un po’ imbarazzante e un po’ emozionante. Raccontare ciò che penso di Franco Piersanti
è un esercizio di sincerità, di verità, senza concessione alla professione e
all’amicizia che ci unisce.
Alcuni anni fa ero abbonato, insieme a mia moglie, a varie stagioni teatrali. Ascoltavo musiche che mi lasciavano indifferente. Ma alcune volte
rimasi sorpreso dalla bontà e dall’efficacia di alcune. La cosa sorprendente
è che tutte le volte (tutte le volte), trovavo sul programma che Franco
Piersanti ne era l’autore.
Quando conobbi personalmente Franco gli confessai la mia riflessione.
Ho trovato poi sempre conferma del suo talento in tanti film: mi è
sempre sembrato che Piersanti fugga dall’ovvio, che cerchi sempre una
strada personale, originale, pur nelle occasioni difficili, nelle strade strette
che il compositore che si dedica al cinema deve percorrere. Sento che la
sua è una vocazione indirizzata alla ricerca attenta e appassionata. L’anno
scorso ho ascoltato con molto interesse il suo Requiem marino che ha
confermato al pubblico e a me la stima che si è conquistato anche per la
musica assoluta. Ciò che ho detto sono felice di poterlo affermare in
questa occasione, presentando non la sua musica ma la sua relazione di
Franco su Bernard Herrmann.
Franco Piersanti
Franco Piersanti
Buongiorno, in breve, sono doppiamente confuso per queste parole
dette da quello che comunque certamente è un amico ed è un privilegio
avere come amico, però resta un grande maestro per me e per tutti i musicisti della mia generazione, anche quella successiva, comunque mi confonde, e vorrei anche confortare Ennio, dicendogli che anch’io avendo
frequentato il conservatorio mi nascondevo lì in fondo, ci siamo nascosti
in molti, io mi nascondevo quando c’era Franco Ferrara che faceva lezione di direzione, ci nascondevamo tutti, ed era il periodo in cui Rota
circolava, per amicizia con Ferrara e con tanti altri musicisti di allora,
erano gli anni felici Sessanta e Settanta, insomma, in queste sale 1. Non
voglio parlare della mia conoscenza con Rota perché, e non è un tradimento, ho preferito parlare di Herrmann, dandogli anche questa denominazione, Il lato oscuro dell’innocenza. Una lettura sacro-profana della sua
musica.
1.
Si riferisce a un discorso precedente fatto “fuori microfono”, in cui Morricone aveva
ricordato che, da allievo del Conservatorio, usava entrare nella Sala Accademica per
ascoltare di nascosto le lezioni del celebre organista Fernando Germani [NdC].
Bernard Herrmann, il lato oscuro dell’innocenza.
Una lettura sacro-profana della sua musica
Franco Piersanti
Sto facendo del mio meglio per analizzare sentimenti e futuro […] cerco di
guardare dentro di me con onestà… sia come uomo che come artista, ed è
possibile che io sia un terribile fallimento in entrambe le cose […].
Ora so che ho avuto molte idee sbagliate sul mio conto e sul mio lavoro
[…]. Sempre più sento di non possedere nessun talento reale. Forse è l’eco
di un talento il mio ed è per questo che posso impegnarmi in differenti attività musicali, ma infine sono sempre e soltanto echi lontani, mai una
voce autentica […]. Forse non sono un vero compositore, un vero direttore, resterò sempre ai margini dell’arte […]. Molta della musica che ho
scritto, nel migliore dei casi non è importante, e la mia direzione, le mie
interpretazioni, difficilmente potranno essere considerate […].
I miei sentimenti e desideri sono quelli di un compositore del IX secolo
[…] sono completamente fuori sincrono con il presente […]. Capisco ora
che erano i film a sfinirmi […] a togliere la mia forza, la mia energia.
Spero sinceramente di non vedere più Hollywood finché vivo. 1
Scriveva così Herrmann trentottenne, tra il 1947 e il ’48, alla moglie
Lucille Fletcher, dalla quale si stava separando dopo quasi dieci anni di
matrimonio. Un periodo della sua vita difficile e cupo quello, un periodo
denso di amarezza, «a Winters Journey»,2 “un viaggio d’inverno” come lo
definisce lui stesso sempre per lettera alla ex-moglie, verso la quale nutriva forti sensi di colpa sia per averle reso la vita difficile, sia per il pro1.
2.
Si tratta di tre lettere di Herrmann a Lucille Fletcher riportate da STEVEN C. SMITH,
A Heart at Fire’s Center, University of California Press, Berkeley 1993, p. 136 (29 ottobre 1947); p. 137 (novembre 1947); p. 138 (7 gennaio 1948). Trad. it. di F. Piersanti [NdC].
Ivi, p. p. 138 [NdC].
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Franco Piersanti
prio non facile carattere, sia per il – chiamiamolo pure così – tradimento
con la cugina di lei, Lucy Anderson, che qualche anno dopo Herrmann
avrebbe sposato.
Questo breve contributo vuole essere una libera, liberissima ricognizione attorno a Herrmann. Di lui oramai si sa tanto e tanto è stato
scritto. Guardo a lui, oggi, con lo sguardo del compositore, un musicista
che svolge oltretutto quel suo stesso mestiere, scrivere musica per il cinema.
Ho conosciuto Herrmann – la sua musica intendo – tra il 1975 e il ’76
vedendo Taxi Driver e, colpito dal film e dalla musica, ho riscoperto i
tanti film visti in precedenza negli anni senza considerare che fosse lui il
compositore. Da allora ho iniziato ad apprezzare e capire sempre di più il
suo lavoro nella musica per il cinema.
Ma torniamo a quelle lettere.
Certo, colpisce leggere quel consuntivo così amaro considerando gli
eventi della sua vita in quegli anni. Quando Herrmann scrive quelle parole nel ’48 ha, ripeto, trentotto anni, appena sette anni prima, nel 1941,
ha iniziato a comporre per il cinema. Com’è noto il leggendario Citizen
Kane di Orson Welles è il primo film grazie al quale s’impone a Hollywood, tanto che lo stesso anno compone le musiche per The Devil and
Daniel Webster3 di William Dieterle col quale vince l’unico Oscar della
sua carriera. Seguono: The Magnificent Amberson, Jane Eyre, Hangover
Square, Anna and the king of Siam, The Ghost and Mrs. Muir. Un film all’anno, tutti di successo e nei quali è già delineata l’intera poetica di
Herrmann.
Perciò è legittimo porsi la domanda: da dove proveniva tutta quella insoddisfazione? Perché tutto quel pessimismo?
Guardando le foto che appartengono alla sua storia personale e che appaiono spesso accanto ai saggi, agli articoli o nei libri scritti su di lui, al cune attraggono particolarmente la mia attenzione. La prima è quella del
3.
In Gran Bretagna il film era uscito col titolo All That Money Can Buy [NdC].
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padre, Abraham Herrmann, (Dardick era il vero cognome) ritratto sulla
soglia del suo negozio di optometrista a New York. Mi colpiscono in
modo significativo le insegne, cartelli pubblicitari, insomma, che – come
si usava un tempo – rappresentavano la categoria, la professione esercitata. Fuori e dentro la vetrina: un solo grande occhio spalancato, iride
dettagliata a spicchi, pupilla fissa. Sembrano immagini uscite da un film
di Alfred Hitchcock (anzi, ne avrebbero poi davvero fatto parte in quei
sogni illustrati da Dalì per Spellbound – Io ti salverò – con musica di
Rózsa). Quei singoli, abnormi occhi, carichi di un super sguardo penetrante, mostrano in quella inquietante fissità una loro particolare qualità:
scrutano dentro chi li osserva e suonano come una premonizione (la foto
è del 1915, Bernard Herrmann aveva quattro anni), non tanto per la mitica futura collaborazione con Hitchcock, ma come sintesi simbolica
della sorprendente capacità del compositore di entrare nella profondità
dei caratteri, nelle viscere delle storie che il cinema, spesso, mostra fino a
un certo punto. Una qualità con la quale Herrmann riesce ineluttabilmente a mettere in asse musica e drammaturgia, scovando e accrescendo
il potenziale segreto e nascosto del film. Esiti considerevoli sul piano
emotivo, psicologico e musicale.
Torniamo alle foto, e stavolta all’espressione che affiora dal volto di
Herrmann.
In molte istantanee scattate durante le registrazioni, in compagnia o da
solo, durante i viaggi e ancor più in quelle dove è in posa, affiora spesso
uno sguardo severo, intenso, dove il pensiero è lontano. Un’espressione
amara, talvolta irritata. Certe volte appare – almeno a me sembra – insoddisfatto, distaccato; sfinito e arruffato se lo vediamo in sala di registrazione, affiancato dal sorridente regista di turno, ma lontano dal sembrare
appagato per il lavoro appena concluso. È proverbiale la sua irascibilità, il
suo carattere duro e scontroso, il suo essere spesso in rotta di collisione
con il mondo circostante (il nome Bernard viene dal tedesco Bernhard =
forte come un orso).
A me sembra ci sia sempre un altro Herrmann dietro o dentro di lui,
un po’ prigioniero, muto e giudicante; più complesso del compositore di
musica per il cinema che tutti apprezziamo, e mi affascina il percorso e
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Franco Piersanti
gli incontri che il destino pone sul suo cammino conducendolo, segmento dopo segmento, da New York a Hollywood e infine a Londra.
Dedito alla direzione d’orchestra fin da giovanissimo e contemporaneamente alla composizione, si considerava – lo dice lui stesso – un compositore prestato al cinema. Il suo interesse e l’amicizia con il già maturo
e misconosciuto Charles Ives, l’incontro e l’amicizia col versatile George
Antheil, l’ingaggio come direttore d’orchestra alla CBS, poi la lunga stagione wellesiana del Mercury Theatre on the Air che, grazie all’amicizia fra
i due, lo condurrà a Quarto Potere e al grande schermo.
Tra il 1929 e il 1938, quindi non ancora trentenne e prima del debutto nel cinema nel 1941, Herrmann scrive un cospicuo numero di
composizioni da camera, sinfoniche e sinfonico-corali dalle quali traspare
un universo armonico e una sensibilità che sembra appartenere più a un
compositore europeo. Nel linguaggio lirico e drammatico, che condenserà poi in una formidabile sintesi nelle partiture per il cinema, Herrmann è già Herrmann. Il suo interesse fin da ragazzo, incoraggiato dal
padre, verso la poesia e la successiva intensa esperienza radiofonica, per la
quale scrive settimanalmente musica di commento ai testi messi in onda,
consolidano i motivi della sua ispirazione che segue fortemente il richiamo proveniente da suggestioni figurative e da sollecitazioni poetiche:
musica a programma, insomma, un’anticipazione del lavoro sull’immagine in movimento che così tanto importante sarà per lui nella creatività
futura.
Scorriamo rapidamente il catalogo delle composizioni di quel decennio, ricordando, fra gli altri:
The Forest, A tone poem for large orchestra (poema sinfonico), 1929;
The Dancing Faun e The Bells, Two Song for medium voice and small
chamber orchestra, 1929;
Twilight, per violino e pianoforte, 1929;
November Dusk, A tone poem for large orchestra (poema sinfonico),
1929;
Tempest and Storm: Furies Shrieking!, 1929.
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Già la scelta dei titoli, rivela la suggestione di un paesaggista e vengono
in mente i dipinti di Turner:
Aubade (31 July 1933); rivisto e ribattezzato Silent Noon, a Idyll, nel
1975;
Prelude to Anathema, for 15 instruments, 1933;
Cynara, Melodram for narrator and orchestra, testo di Ernest Dawson da
Non Sum Qualis Eram Bonae Sub Regno Cynarae (before July 1935);
Sinfonietta, for strings, 1935;
Currier and Ives Suite, 1935. Si tratta in quest’ultimo caso di una sorta di
Quadri di un’esposizione, solo che qui i temi herrmanniani prendono
spunto dalle incisioni e dalle litografie di Nathaniel Currier e James
Merrit Ives, che rappresentano momenti vita popolare. Currier and
Ives Suite nei suoi sketches non è estraneo da influenze raveliane (La
Valse) e da una rudezza che richiama Prokof ’ev o ancora quel sapore
vittoriano proprio di Elgar.
Moby Dick, Cantata for male chorus, soloists, and orchestra (February
1937 – August 1938). Assieme alla Sinfonietta per archi, trovo la cantata Moby Dick, il lavoro più rilevante di Herrmann di questo decennio. Quello che mi colpisce di Moby Dick è l’impianto drammaturgico: fulminante nella sua concezione così come la musica. E ascoltando questa scura e massiccia Cantata non può non venire in mente il
colore e il mondo sonoro che Britten porterà sul palcoscenico nel ’45
con il suo capolavoro Peter Grimes o il successivo Billy Budd del ’51,
tratto da Melville. In Herrmann c’è una visione e una sensibilità prettamente anglosassone nel modo di interpretare il mare, la vicenda di
Achab e del suo equipaggio e la tragedia che aleggia sopra di loro.
Ecco, forse in tutti questi presentimenti, in queste architetture goticheggianti, si potrebbe ravvisare un sottile retaggio ebraico filtrato attraverso l’Europa. E Moby Dick, con il suo denso simbolismo biblico, l’ossessione e il conflitto tra il Bene e il Male, rappresenta al meglio tutta la
poetica sotterranea che Herrmann svilupperà in molte partiture per il cinema. La sua è una contemplazione introspettiva, psicologica, rivolta soprattutto all’interno. Comunque niente Copland o il suo amato Ives, ma
neppure Richard Strauss. Dico questo perché pare che nei giorni successivi alla rottura del sodalizio con Hitchcock, l’ottusità e la superficialità
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Franco Piersanti
del geniale regista si manifestarono in pieno quando gli gridò al telefono:
«Non ho bisogno di Richard Strauss!».
Iniziando di lì a poco – nel 1941 – a comporre musica per il cinema,
aderendo in modo così nuovo e personale al linguaggio cinematografico,
Herrmann si allontanerà sempre più da quello spazio aperto e illimitato
che la sua radice musicale richiedeva, proprio per le esigenze che l’industria del cinema imponeva e impone.
La sua produzione musicale al di fuori del cinema, tra il 1941 e il ’75,
è di una esiguità estrema. La Sinfonia è del ’41, mentre Herrmann investirà poi dieci anni nella composizione dell’opera Wuthering Heights,
tratto da romanzo di Emily Brontë e mai andata in scena Herrmann in
vita, e siamo nel ’51. Nel 1965, quattordici anni dopo, Herrmann torna
alla musica “pura” componendo Echoes per quartetto d’archi. Un unico
brano con andamenti interni diversi.
Nella bella e intensa biografia herrmanniana Steven Smith scrive che in
Echoes Herrmann mette in campo tutti i suoi meccanismi collaudati, ed
elenca i film da cui sono tratti i richiami tematici. 4 Stranamente non segnala l’hitchochkiano Marnie, il cui tema principale, anche se sotto una
luce diversa, dà proprio l’avvio al quartetto. Ma questo non è importante.
In Echoes Herrmann si abbandona completamente, appare desolato e scoperto come raramente in altre composizioni. Il titolo stesso, Echoes,
sembra riportare alla mente le sue parole di tanti anni prima: «il mio è
l’eco di un talento».5 C’è una grande desolazione, come sempre tanta nostalgia, una grande tenerezza nel suo sguardo tutto rivolto al tempo trascorso, di chi ha consapevolezza di aver perduto qualcosa di prezioso per
sempre.
La composizione “pura” procede sempre più faticosamente fra titoli di
film memorabili e non. E attraverso questo dato e la consistenza delle sue
opere che considero Herrmann come il primo compositore, forse, a vivere il conflitto tra musica assoluta e musica applicata col quale molti
altri musicisti dopo di lui e fino ad oggi hanno dovuto fare i conti.
4.
5.
SMITH, A Heart at Fire’s Center cit., pp. 264-265.
Ivi, p. 137 [NdC].
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Tornando a Echoes. Ecco: questa musica mi commuove molto, forse
per via anche di quella forte impronta raveliana che rivela in pieno
quanto per Herrmann fosse importante la necessità di comunicare in
modo diretto. Il cosmo musicale ed emotivo herrmanniano – intendo la
musica “pura” – è tutto rivolto al passato, mentre al contrario, nella musica che via via concepisce per il cinema è sempre incredibile sperimentatore e innovatore. Un geniale musicista e poeta.
Quella sua innata inclinazione, predilezione per il gotico, la spiritualità, l’alternanza di chiaro e scuro, l’enfasi irresistibile attraverso la quale
ci parla della Vita e della Morte, così come autenticamente e senza retorica riesce sempre a centrare l’obiettivo, atterrendo gli ascoltatori-spettatori, quando affronta musicalmente il conflitto tra Bene e Male. Pensiamo a Citizen Kane, a The Devil and Daniel Webster, a On Dangerous
Ground, a Vertigo, a Cape Fear, a Psycho, a Marnie, a La mariée était in
noir, a Sisters, a Obsession e all’ultimo grandioso Taxi Driver.
A proposito di Psycho si pensi come e cosa Herrmann riesce a far trapelare da quelle immagini. A come la storia squallida dei due amanti di provincia si tinge di tragico senza via d’uscita incrociandosi con la più oscura
delle patologie. Un grande Hitchcock ma un grandissimo Herrmann. Lì
a mio avviso, la trovata, l’intuizione, non sta tanto nell’ormai acquisito
“bianco e nero degli archi” (espressione utilizzata dallo stesso Herrmann),
quanto nel sistema tonale che adotta, proprio per l’irrazionalità e la patologia, la malattia che il film contiene. Ed è quel mondo armonico così
malato che s’infiltra nel film e nella storia fino ad intriderli totalmente, e
non il contrario. E quel sistema tonale proviene dalla Sinfonietta per archi
del ’38.
Contraltare di Norman in Psycho è l’alienato tassista Travis in Taxi
Driver, nelle sue isolate peripezie mentali. Basti ricordare l’effetto totemico degli ottoni quando violentemente s’infrangono contro quegli elementari semplicissimi accordi minori di settima e nona che risolvono su
Do maggiore.
Nella prima scena del II Atto di The Turn of a Screw di Benjamin
Britten, tratto dall’omonimo bellissimo romanzo di Henry James, i due
spettri protagonisti dell’opera, il malefico Quint e la sua amante miss
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Jessel, concludono i loro allucinati e lividi soliloqui e colloqui lanciando
una sorta di anatema-condanna verso i due bambini, Miles e Flora, loro
vittime inconsapevoli. «The ceremony of innocence is drawned» («La cerimonia dell’innocenza è annegata»). Questo verso, tremendo e bellissimo, Britten ha voluto inserirlo prendendolo da un poema altrettanto
bello e tremendo di William Butler Yeats, The Second Coming.
Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.6
Questi versi e la scena a cui appartengono mi hanno sempre fatto pensare irrazionalmente ad Herrmann. Inconsciamente li ho sempre associati
a lui per via della sua straordinaria, penetrante capacità d’interpretazione
di quel che si annida nella natura umana e della lotta che avviene tra la
luce e l’ombra.
6.
WILLIAM BUTLER YEATS, Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Mondadori, 1974,
The Second Coming (1919-21), Il Secondo Avvento [NdC]:
Ruotando e roteando nella spirale che sempre più si allarga,
Il falco non può udire il falconiere;
Le cose si dissociano; il centro non può reggere;
E la pura anarchia si rovescia sul mondo,
La torbida marea del sangue dilaga, e in ogni dove
Annega il rito dell’innocenza;
I migliori hanno perso ogni fede, e i peggiori
Si gonfiano d’ardore appassionato.
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Bene, ringrazio Franco per tutte le cose che ha scoperto e che ha detto
su Herrmann. Una di quelle che mi ha fatto molta impressione è il problema che lui ha, che ho io, che hanno i compositori che fanno con coscienza la propria professione nel cinema, quella di gettare nella creatività
cinematografica – infilandosi nei vicoli che, dicevo prima, il regista lascia
– le proprie esperienze personali, i propri amori personali, questo è stato
molto bello ascoltarlo.
Ho anche molto apprezzato le ispezioni interiori che hai fatto di Herrmann, questa è la cosa che mi fa molta impressione, perché so quanta difficoltà c’è, qualche volta, a farsi capire dal regista. Quante volte è capitato
a me, che sapevo di fare un pezzo molto difficile, pur stando alle istruzioni e alle richieste del regista, quanto era difficile fare un pezzo che appartenesse a me, pur servendo il film. Beh, io qualche volta, quando ho
osato molto, ho scritto una partitura che mi piaceva, ma ho fatto subito
la seconda versione. Quando il regista ha sentito la prima versione mi ha
detto: «Ma, si possono fare delle correzioni?», io ho capito subito, perché
già lo sapevo, l’ho tolta e ho fatto la seconda versione, che andava subito
bene. Questo è il problema, io mi sono assunto spesse volte i rischi che al
regista non andasse bene quello che scrivevo, forse è capitato anche a te.
Bisogna entrare nell’idea del regista, ma sempre comunque con un’estetica e una morale personale, un rispetto della propria professione, che ci
deve sempre essere, e anche con un po’ di presunzione, di voler fare qual cosa che ci appartenga completamente e non appartenga soltanto all’opera cinematografica.