Contratto ImpresaEuropa

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Contratto ImpresaEuropa
PUBBLICAZIONE SEMESTRALE
ANNO XI - N. 2 LUGLIO-DICEMBRE 2006
ISSN 1127-2872
Contratto e impresa / Europa
2
anno undicesimo
a cura di
F. Galgano e M. Bin
Sentenze su class actions statunitensi ed esecuzione
in Europa
Contratto: democrazia economica
e disciplina del contratto europeo;
etica e contratto tra civil law e common law
Antitrust: i nuovi poteri dell’Autorità garante
Diritto comunitario: delocalizzazioni industriali;
notifiche nell’U.E.
Germania: condictio indebiti; Corporate Governance Kodex;
recesso nei contratti porta-a-porta
Restituzioni e arricchimento ingiustificato nei diritti europei
«Discriminazioni a rovescio» nell’accesso alle professioni
Organizzazione Mondiale del Commercio:
telecomunicazioni; attività giurisdizionale (2004-2006)
Privacy e viaggi aerei negli Stati Uniti
La legge comunitaria (2006)
2006
Contratto e impresa / Europa
2
anno undicesimo
a cura di
F. Galgano e M. Bin
Sentenze su class actions statunitensi ed esecuzione
in Europa
Contratto: democrazia economica
e disciplina del contratto europeo;
etica e contratto tra civil law e common law
Antitrust: i nuovi poteri dell’Autorità garante
Diritto comunitario: delocalizzazioni industriali;
notifiche nell’U.E.
Germania: condictio indebiti; Corporate Governance Kodex;
recesso nei contratti porta-a-porta
Restituzioni e arricchimento ingiustificato nei diritti europei
«Discriminazioni a rovescio» nell’accesso alle professioni
Organizzazione Mondiale del Commercio:
telecomunicazioni; attività giurisdizionale (2004-2006)
Privacy e viaggi aerei negli Stati Uniti
La legge comunitaria (2006)
2006
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
´ Copyright 2006 by Cedam - Padova
A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la
riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro.
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Contratto e impresa / Europa
2
anno undicesimo
a cura di
F. Galgano e M. Bin
INDICE SOMMARIO
DIBATTITI
RICONOSCIMENTO ED ESECUZIONE IN EUROPA
DI SENTENZE STATUNITENSI RELATIVE AD UNA «CLASS ACTION»
The Recognition and Enforcement of US Class Action Judgments in
England di Jonathan Harris . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
617
Would French Courts Enforce U.S. Class Action Judgments? di Marina
Matousekova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SAGGI
Alessandro Somma, Esportare la democrazia economica. Diritti e doveri nella
disciplina del contratto europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sommario: 1. Dal diritto privato come sistema di diritti al diritto privato
come sistema di doveri. – 2. L’economia sociale di mercato e il sistema dei
diritti e dei doveri nella disciplina del contratto europeo. – 3. Diritto contrattuale europeo e tutela dell’ambiente: contratto turistico e turismo sostenibile. – 4. Diritto contrattuale europeo e tutela dei lavoratori: contratto
standard e consumerismo critico.
Antonio Lordi, Valori etici e principio di complementarità tra sistemi giuridici . .
VI
INDICE SOMMARIO
Sommario: 1. Premessa. – 2. Economia di mercato e diritto: la nascita della distinzione tra « contratto isolato » e « contratto di mercato ». – 3. L’influenza del civil law sul common law: compravendita di beni immobili e rimedi di Equity. – 4. Etica puritana e diritto dei contratti: dall’absolute contract al new spirit del contratto. – 5. Il giurista italiano tra civil law e common
law.
Paolo Cassinis, I nuovi poteri dell’Autorità nell’ambito della dialettica tra public
e private enforcement . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
719
Sommario: 1. Premessa. – Parte I: 2. I “nuovi” poteri dell’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato. – 2.1. Le misure cautelari. – 2.2. Le decisioni con impegni. – 2.3. Il programma di clemenza. – Parte II: 3. Rapporti
ed interrelazioni tra public e private enforcement – 3.1. Tutela “binaria” del
diritto antitrust: ruoli e funzioni del public e private enforcement. – 3.2. Caratteristiche degli illeciti antitrust: la natura segreta delle intese hard-core. –
3.3. Rapporti tra procedimento antitrust e giudizi civili antitrust: ambiti e limiti. – 3.3.1. Coordinamento tra procedimento antitrust e giudizio civile:
efficacia della decisione antitrust nei giudizi civili: A) Le decisioni della
Commissione: artt. 16, 10 e 9, Reg. CE 1/2003; B) Le decisioni delle autorità di concorrenza nazionali: la « soluzione tedesca »; la « soluzione inglese »; la « situazione italiana »; le opzioni del Libro Verde. – 3.3.2. Strumenti di cooperazione e raccordo tra public e private enforcement. – 3.3.3. Garanzie di funzionalità del procedimento amministrativo: tutela della riservatezza e le opzioni del Libro Verde. – 4. Conclusioni.
Ermenegildo Mario Appiano, Parlamento Europeo e Commissione a confronto sulle delocalizzazioni industriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sommario: 1. Introduzione. – 2. La posizione iniziale del Parlamento Europeo. – 3. La posizione iniziale della Commissione. – 4. Il compromesso.
Luigi A. Scarano, Notificazione e comunicazione di atti nell’Unione europea . .
Sommario: 1. Unione europea, spazio giuridico europeo e « comunitarizzazione » della disciplina in tema di comunicazione e notificazione di atti
giudiziari ed extragiudiziali. – 2. Ambito oggettivo della disciplina. a) La
materia civile e commerciale. – 3. Segue: b) Atti giudiziari ed extragiudiziali. – 4. Segue: c) Trasmissione a scopo di notificazione o comunicazione. – 5. Segue: d) Recapito noto del destinatario dell’atto. Recapito ignoto
e destinatario irreperibile. – 6. Caratteri essenziali della disciplina. a) Semplificazione del procedimento e sistema decentrato. – 7. Segue: b) Accelerazione della trasmissione. – 8. Segue: c) Lingua dell’atto. – 9. Modalità e
forma principale di notificazione o comunicazione. – 10. Data di notificazione o comunicazione dell’atto. Il principio della “scissione” tra perfezionamento ed efficacia della notificazione o comunicazione. – 11. Segue:
Il principio della “scissione” nell’ordinamento italiano. Rilievi critici. – 12.
INDICE SOMMARIO
VII
Segue: La soluzione accolta dal Regolamento: critica. – 13. Modalità alternative o sussidiarie. a) Notificazione o comunicazione (“indiretta” e “diretta”) per via consolare o diplomatica. – 14. Segue: b) Notificazione o comunicazione postale “diretta”. – 15. Segue: c) Forme particolari di notifica.
– 16. Segue: d) La domanda “diretta” di notificazione. – 17. L’art. 19 quale
fonte di disciplina processuale uniforme. – 18. Segue: a) La regolare costituzione del contraddittorio. La sospensione necessaria (cd. europea) del
processo. – 19. Segue: b) Contumacia del convenuto e rimessione in termini. – 20. Osservazioni conclusive.
André Janssen, La restituzione dei pagamenti fatti agli «Schenkkreise» tedeschi pag.
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Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le fattispecie giustiziate dal BGH. – 3. Le
valutazioni giuridiche contenute nelle due sentenze (letteralmente identiche) del BGH. – 3.1. I presupposti della condictio indebiti secondo il § 812,
comma 1°, periodo 1°, alternativa 1a, BGB. – 3.2. L’impedimento alla condictio di cui al § 817, periodo 2°, BGB nell’ipotesi d’immoralità bilaterale. –
4. In sintesi.
Michele Rondinelli, Il Deutscher Corporate Governance Kodex . . . . . . . . .
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901
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le fasi che hanno preceduto la realizzazione
del DCGK. – 3. I destinatari e la struttura del DCGK. – 4. Il contenuto del
DCGK: raccomandazioni, suggerimenti e altre regole. – 5. Il § 161 della
legge azionaria. Entsprechenserklärung e divergenze dal principio anglosassone del «comply or explain ». – 6. Gli obblighi pubblicitari previsti dal § 161
della legge azionaria e dai §§ 285 n. 16, 314 comma 1°, n. 8, 325 comma 1°,
del codice di commercio. – 7. Natura e conseguenze giuridiche dell’obbligo
informativo ex § 161 della legge azionaria. – 8. Segue: sull’ipotesi di fehlende
Entsprechenserklärung. – 9. Segue: sull’ipotesi di Entsprechenserklärung non
veritiera. – 10. Segue: sull’ipotesi di Entsprechenserklärung rivolta al futuro
nel caso di devianza da essa nel corso dell’anno. – 11. Il DCGK dalla prima
versione del 2000 alle recenti modifiche. – 12. Il DCGK nella prassi. – 13.
Critiche e prospettive del DCGK. Considerazioni conclusive.
Cristiana Cicoria, Il diritto di recesso dai contratti porta-a-porta: il caso delle
« Schrottimmobilien » in Germania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il contratto di mutuo porta-a-porta e il
diritto di recesso: la normativa tedesca e comunitaria prima della sentenza
Heininger. – 3. L’applicazione della direttiva in Germania e la sentenza
Heininger: questioni di compatibilità. – 4. Gli effetti del recesso sul contratto di mutuo. – 5. Gli effetti del recesso sul contratto di vendita: la normativa sui contratti collegati. – 6. Le critiche alla giurisprudenza del BGH e le
tendenze attuali. – 7. Il giudizio di rinvio: opinioni e pareri e la decisione
della Corte di giustizia delle Comunità europee. – 8. Conseguenze della
decisione della Corte di Giustizia per i consumatori tedeschi: alcune alter-
VIII
INDICE SOMMARIO
native. – 9. Il dovere di informativa della banca: le attuali problematiche
nel diritto civile tedesco. – 10. Conclusioni.
Antonio Albanese, Il rapporto tra restituzioni e arricchimento ingiustificato dall’esperienza italiana a quella europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
922
Sommario: 1. Un problema europeo. – 2. L’influenza del sistema francese.
– 3. L’influenza del sistema germanico. – 4. L’influenza del common law. –
5. Il sistema italiano: commistione e complementarità delle obbligazioni
restitutorie. – 6. I requisiti dell’azione di arricchimento nel modello anglotedesco. – 6.1. La sussidiarietà. – 7. I Principles of European Unjustified Enrichment Law.
Najdat Al Najjari-Erica Mussato, L’impatto del diritto comunitario nell’ordinamento interno: in particolare, il problema della discriminazione « a rovescio » nell’accesso alle professioni tra giurisprudenza e interventi normativi . .
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Sommario: 1. Premessa: il concetto di discriminazione « a rovescio ». – 2.
La discriminazione « a rovescio » e le professioni regolamentate: una ricostruzione storica. – 3. Origine delle discriminazioni « a rovescio ». – 4. I
possibili rimedi di natura giurisdizionale: Corte di Giustizia e Corte Costituzionale. – 5. La giurisprudenza recente della Corte di Giustizia e la professione di avvocato. – 6. Altre decisioni rilevanti in tema di discriminazioni « a rovescio ». – 7. La posizione della Corte Costituzionale. – 8. Segue. Il
principio di uguaglianza tra Corte di Giustizia e Corte Costituzionale. – 9.
La Corte Costituzionale e le discriminazioni « a rovescio ». – 10. L’articolo
2, comma 1°, lett. h), della legge comunitaria 2005. – 11. Campo di applicazione soggettivo: le attività professionali e commerciali. – 12. Prospettive
ed attuazione del divieto. – 13. Conclusioni.
Eugenia C. Laurenza-Miriam Kominarecova, Some Reflections from the
WTO Mexico – Telecommunications Dispute . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Contents: 1. Introduction. – 2. The WTO Telecommunication Framework. – 2.1. The General Agreement on Tariffs and Trade and the Annex. –
2.2. The Reference Paper on Telecommunication Services. – 3. The Telmex
Case. – 3.1. Background of the dispute. – 3.2. The Panel Report. – 3.2.1. Interconnection at « Cost Oriented Rates ». – 3.2.2. The prevention of anticompetitive practices. – 3.2.3. Access and use of public telecommunication
networks. – 4. Lessons from the Telmex Case. – 5. Conclusions.
OSSERVATORIO SUL DIRITTO EUROPEO
Repertorio dell’attività giurisdizionale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Eugenia C. Laurenza-Paolo R. Vergano . . . . . . . . . .
INDICE SOMMARIO
IX
Note minime in margine alla pronuncia della Corte di giustizia delle
Comunità europee sul trasferimento dei dati personali dei passeggeri dei vettori aerei verso gli Stati Uniti di Alessandro Mantelero . pag. 1075
OSSERVATORIO SULL’ATTUAZIONE IN ITALIA DELLE NORMATIVE CE
L’ITER della comunitaria 2006: lo stato dell’arte del disegno di legge
di Rossana Pennazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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1083
Hanno collaborato a questo numero:
Antonio Albanese, avvocato in Bologna; dottore di ricerca in Diritto Civile;
Najdat Al Najjari, avvocato in Treviso;
Ermenegildo Mario Appiano, avvocato in Torino; dottore di ricerca in Diritto delle
Comunità Europee;
Paolo Cassinis, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Servizio Giuridico;
Cristiana Cicoria, referente presso la Camera di Commercio di Amburgo;
Jonathan Harris, Professor of International Commercial Law, School of Law, University of Birmingham, United Kingdom; Barrister, Brick Court Chambers, London.
André Jannsen, assistente scientifico nell’Università di Münster, Germania;
Miriam Kominarecova, avvocato in Bruxelles;
Eugenia C. Laurenza, avvocato in Bruxelles;
Antonio Lordi, General Counsel - Europe della Union Switch & Signal Inc., Pittsburgh,
Pa., U.S.A.;
Alessandro Mantelero, ricercatore di Diritto commerciale presso il Politecnico di
Torino;
Marina Matousekova, avvocato in Parigi;
Erica Mussato, dottore in giurisprudenza;
Rossana Pennazio, dottore di ricerca in Diritto Civile;
Michele Rondinelli, dottore in giurisprudenza;
Luigi A. Scarano, magistrato;
Alessandro Somma, professore ordinario di Diritto Privato Comparato nell’Università di Ferrara;
Paolo R. Vergano, avvocato in Bruxelles.
Per eventuali contatti con gli autori si rimanda all’indirizzo e-mail della rivista.
Dibattiti
RICONOSCIMENTO ED ESECUZIONE IN EUROPA DI SENTENZE
STATUNITENSI RELATIVE AD UNA « CLASS ACTION »
La Direzione è lieta di offrire ai lettori due contributi di alto valore scientifico all’appena sbocciata discussione su un problema nuovo, ma di grande
rilevanza. Sempre più spesso, invero, attori stranieri cercano di intentare
« class actions » negli Stati Uniti: laddove è ovvio che quello relativo alla possibilità di ottenere il riconoscimento e l’esecuzione dell’eventuale sentenza favorevole fuori degli Stati Uniti diviene interrogativo fondamentale sul piano
pratico non solo a posteriori, ma addirittura a priori, giacchè i convenuti in
« class actions » davanti a Corti statunitensi tentano di bloccare preliminarmente il giudizio asserendone l’inammissibilità per inutilità in quanto l’eventuale sentenza di accoglimento non potrebbe di fatto trovare esecuzione.
*
The Recognition and Enforcement of US Class Action Judgments in
England
1. - Introduction
There is no clear English authority as to whether, and in what circumstances, a United States class action judgment is entitled to recognition
and enforcement in England. Accordingly, where a class member has not
participated in the US proceedings, and has simply failed to opt out of the
class, one cannot confidently predict whether such a judgment would be
recognised. There are arguments that can be made for and against recognition. Nevertheless, on the present state of English law, it is suggested
that a cogent case can be made for the recognition and enforcement of
the judgment in England.
There is also academic support for the view that there is a good prospect
of recognition in England. One author, Dixon (1), remarks as follows:
(1) Dixon, The Res Judicata Effect in England of a US Class Action Settlement, (1997) 46
International and Comparative Law Quarterly, p. 134.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
I reach the conclusion that . . . [a US class action] Order has a good chance of supporting a plea of res judicata in England. It is a final judgment of a court of competent jurisdiction which disposes of the rights of the parties . . . The judge, acting under an
obligation to protect the absent class members, held a hearing, considered the evidence and made a ruling. That ruling is entitled to be upheld by the English court, and
is unlikely to be rejected on the grounds of breach of natural justice (2).
This chapter will consider a range of arguments in support of this
viewpoint. We shall see that the English rules on recognition and enforcement of foreign judgments, as stated in the authorities and leading
works, (3) are concerned with the position of the defendant and not
that of the claimant. Furthermore, even if an English court were prepared to consider applying its rules on recognition and enforcement of
foreign judgments to an overseas claimant, a good case can be made
for arguing that the judgment would not normally be considered to be
contrary to English standards of natural justice or public policy, provided that the court of origin takes reasonable steps to adopt the procedures necessary to give notice to potential members of the class and
provide procedural safeguards for absent class members. Moreover,
English law itself recognises the concepts of group and representative
actions. A number of important English cases stress that comparison of
the relative merits of the procedures of overseas jurisdictions with
those of English law is best avoided, save in extreme cases. Furthermore, as a matter of practice, US courts, when considering whether to
certify a class which includes claimants resident in England who have
not opted out of the action, may require a very high standard of proof
by the defendant to show that it is almost certain that the judgment
would not be recognised in England. Given the lack of authority and
the considerable uncertainty as to the position in England, it would be
very difficult to argue that this standard of proof could be discharged
on the present state of English law. This may well be sufficient to satisfy a US judge that the English claimants should be certified as members of the class.
(2) At p. 136.
(3) See, in particular, Briggs-Rees, Civil Jurisdiction and Judgments (LLP, 4th edn,
2005); North-Fawcett (eds.), Cheshire and North: Private International Law (Butterworths,
13th edn, 1999); Collins et al (eds.), Dicey, Morris and Collins on the Conflict of Laws
(Sweet & Maxwell, 14th edn, 2006) and Hill, International Commercial Disputes in English
Courts (Hart Publishing, 3rd edn, 2005).
DIBATTITI
619
2. – The prospects of a separate action by an absent class member in the English courts
An important initial point concerns the likelihood of an English
claimant who has been certified as a member of a US class action in practice choosing to instigate separate proceedings against the defendant in
England. The losses suffered by the claimant would need to be sufficient
to justify the time and expense of commencing proceedings in England.
Given the likelihood that experts on US law may be required, witnesses
from overseas may be necessary and discovery may be difficult, this is
rarely likely to be an attractive prospect (4). The US class action is likely to
be a more efficient and effective means for the claimant to obtain damages. Even a claimant who obtains a lesser sum in US proceedings in
which he did not actively participate might prefer to accept the settlement
than to seek to sue afresh in the courts of England (5). One author observes that:
The risk that absent class members will sue again in the courts of their home countries
is often more theoretical than actual. A number of barriers, including lack of contingent fees, smaller damage awards, and the concentration of the evidence outside of
the claimants’ home countries, make suing again on the same set of facts outside of
the United States unrealistic . . . If judges were to weigh these factors more carefully
when considering certification of a class, in most cases they would discover that the
risk of repeat litigation in foreign courts is minor and does not justify exclusion of foreign claimants (6).
Nonetheless, if a claimant were to seek to commence litigation in an
English court (7) in a matter that was not res judicata, an English court
might well have jurisdiction to hear the case. If the defendant is a company that is domiciled in a Member State of the European Union (8) within
(4) See Re Lloyd’s American Trust Fund Litigation, 1998, WL 50211 (SDNY), pp. 15-16.
(5) See further Re DaimlerChrsyler AG Sec Litigation, 216 FRD 291, pp. 300-301 (D Del
2003); Buschkin, The Viability of Class Action Lawsuits in a Globalized Economy- Permitting
Foreign Claimants to Be Members of Class Action Lawsuits in the US Federal Courts (2005) 90
Cornell L Rev., p. 1563.
(6) Buschkin, ibid., p. 1596. The author notes that such a conclusion was reached in Re
US Financial Securities Litigation, Société Generale de Banque v Touche Ross & Co 69 FRD
24, pp. 48-49 (1975).
(7) See also Parsons vs. McDonald’s Restaurants of Canada Ltd 250 DLR (4th) 224 (2005)
(Ont CA), where a claimant who did not opt out of an Illinois class action and took no part
in the US proceedings chose to sue afresh in Ontario and was permitted to do so.
(8) Other than Denmark, to which the earlier Brussels Convention applies: see the
620
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
the meaning of Article 60 (9) of Council Regulation (EC) No 44/2001 of 22
December 2000 on jurisdiction and the recognition and enforcement of
judgments in civil and commercial matters (« the Brussels I Regulation »),
on the basis that its statutory seat (i.e. registered office) is in a Member
State, then the Brussels I Regulation will apply (10). The same will be true
if the defendant is an individual domiciled in England according to the
statutory rules of English law (11).
Normally, a claimant should sue a defendant domiciled in a European
Member State in the state where that defendant is domiciled (12). Nevertheless, a claimant may have the option to sue in a state other than that of
the defendant’s domicile. For example, Article 5(1) of the Brussels I Regulation gives special jurisdiction in matters relating to contract to the
courts for the place of performance of the obligation in question. Article
5(3) grants jurisdiction in matters relating to tort to the place where the
harmful event occurred or there is a risk of it occurring. However, although the claimant may have a choice of fora in the European Union, he
may only commence proceedings in one Member State. Once he does so,
Civil Jurisdiction and Judgments Act 1982, schedule 1. In the case of defendants domiciled in Iceland, Norway, or Switzerland, the Lugano Convention on jurisdiction and the
enforcement of judgments in civil and commercial matters is applicable: see the Civil Jurisdiction and Judgments Act 1982, schedule 3C.
(9) Article 60 provides as follows:
1. For the purposes of this Regulation, a company or other legal person or association of
natural or legal persons is domiciled at the place where it has its:
(a) statutory seat, or
(b) central administration, or
(c) principal place of business.
2. For the purposes of the United Kingdom and Ireland "statutory seat" means the registered office or, where there is no such office anywhere, the place of incorporation or, where
there is no such place anywhere, the place under the law of which the formation took place.
(10) The Brussels I Regulation rules apply, within the scope of the Regulation, to defendants domiciled in Member States of the European Union (other than Denmark).
(11) There is no European autonomous definition of the domicile of individual defendants. Each Member State adopts its own rules to determine whether an individual defendant is domiciled in that state. English provides that a person is domiciled in the United
Kingdom if he resides there and the nature and circumstances of his residence indicate that
he has a substantial connection with the United Kingdom: see Civil Jurisdiction and Judgments Order 2001, SI 2001/3929, para 9(2) (formerly section 41(2) of the Civil Jurisdiction and
Judgments Act 1982). There is a rebuttable presumption that a substantial connection exists
after three months or more continuous residence: para 9(6) of the 2001 Order. An individual
defendant is domiciled in England if the same criteria are satisfied in relation to that country.
(12) See Article 2 of the Brussels I Regulation.
DIBATTITI
621
the « court first seised » mechanism of Articles 27 and 28 acts to remove
the jurisdictional competence of the courts of other Member States.
If, on the other hand, the defendant is domiciled outside the European Union (13) (and, more particularly, in the United States), then, with
certain exceptions, the English common law rules of jurisdiction will normally determine the English court’s jurisdiction (14). An English court has
jurisdiction as of right if the defendant can be validly served with a claim
form. This will be permitted where he is present in the jurisdiction (15).
However, the defendant might seek to obtain a stay of the English proceedings on the basis that another state is a more appropriate forum (16). If
the English court could not take jurisdiction as of right, then the claimant
must persuade the court to exercise its discretion to serve the claim form
on the defendant outside the jurisdiction. He must show a good arguable
case that the claim falls within one of the bases contained in the Civil Procedure Rules (CPR), Part 6.20. These bases include provisions on contract
and tort claims. As to the former, the rules allow for service out, where,
inter alia, a claim is made in respect of a contract where the contract: was
made within the jurisdiction; was made through an agent trading or residing within the jurisdiction; is governed by English law; or contains a term
to the effect that the court shall have jurisdiction to determine any claim
in respect of the contract (17). They also apply where a claim is made in respect of a breach of contract committed within the jurisdiction (18). Service of the claim form outside the jurisdiction is possible with the permission of the court for a claim in tort where damage was sustained within
the jurisdiction or the damage sustained resulted from an act committed
(13) And is also domiciled outside the states to which the Lugano Convention applies.
The common law rules also apply if the litigation falls outside the subject matter of the European rules.
(14) Pursuant to Article 4 of the Brussels I Regulation. In matters within the scope of
the Brussels I Regulation, the court first seised mechanism of Articles 27 and 28 is still applicable, even where an English court exerts common law jurisdiction.
(15) In the case of corporate defendants, see the rules on service contained in the Companies Act 1985; and see the procedures for serving a company detailed in CPR Part 6.
(16) See Spiliada Maritime Corp vs. Cansulex Ltd [1987] AC 460. The defendant must
first prove that there is another available forum which is clearly or distinctly more appropriate for resolution of the dispute. If he succeeds, the burden of proof passes to the
claimant, who may nonetheless resist a stay if he shows that it would be unjust to require
him to sue overseas. The first limb is concerned with objective questions about the dispute;
the latter deals with more subjective issues relating to the circumstances of the parties.
(17) CPR 6.20(5).
(18) CPR 6.20(6). See also CPR 6.20(7).
622
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
within the jurisdiction (19). However, since the matter remains within the
discretion of the English courts, the claimant must still satisfy the court
that England is the proper place in which to hear the matter (20) and assert
in his application that he believes that he has a reasonable prospect of
success on the merits (21).
It is not necessary to dwell on the question of the English court’s jurisdiction for present purposes. We have seen that there will rarely be sufficient incentive for the claimant to commence separate proceedings in
the English courts. Moreover, the English court’s jurisdiction only becomes relevant if the US judgment does not render the matter res judicata.
The key question is rather whether the English court would recognise and
enforce a US class action judgment between the same parties (including
the absent class members). If so, then this would make the claim res judicata in England and any aggrieved claimant (unless they had earlier opted
out of the US action) could not in any event commence litigation afresh
in the English courts.
This chapter will consider the position under English law in the event
that an English class member does not participate actively in the US proceedings and argues that any ensuing US judgment is not entitled to
recognition in England. First, the chapter considers briefly the relevant
rules on the recognition and enforcement of foreign judgments in England. It then reflects upon the application of those rules to US class action
judgments.
3. – An outline of the common law rules on the recognition and enforcement
of foreign judgments in England
(A) The schemes of recognition and enforcement of foreign judgments applicable in England
Four major schemes of recognition and enforcement of foreign judgments are applicable in England: the Brussels I Regulation; the Administration of Justice Act 1920; the Foreign Judgments (Reciprocal Enforcement) Act 1933; and the common law (22). The appropriate scheme depends upon the court which delivered judgment and/or the basis of its ju(19) CPR 6.20(8).
(20) CPR rule 6.21(2)(a). See further Spiliada Maritime Corp vs. Cansulex Ltd [1987] AC
460; Seaconsar (Far East) Ltd vs. Bank Markazi Jomhouri Islami Iran [1994] 1 AC 438.
(21) CPR rule 6.21(1)(b).
(22) For detailed discussion, see Dicey-Morris-Collins, The Conflict of Laws, chapter 14.
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risdiction. In the case of a judgment from the United States, the common
law rules are applicable.
(B) The key requirement for recognition of a foreign judgment at common
law: jurisdictional competence in the eyes of English law
A judgment will not be recognised in England if the foreign court was
not jurisdictionally competent in the eyes of English law. The English
court will assess this question for itself, rather than being concerned with
whether the foreign court considered itself to have jurisdiction. The English courts will regard the overseas court as jurisdictionally competent either if the defendant had the requisite territorial connection with the foreign state, or if the defendant submitted to proceedings in that state.
These alternative requirements are considered in turn below.
(i) Territorial connection
Where the defendant is an individual, it is somewhat uncertain
whether the defendant must be resident in the state of origin, or whether
his presence at the time of instigation of proceedings will suffice. The
judgment of Buckley LJ in Emanuel vs. Symon (23) suggests that residence
is required. However, the court in Adams vs. Cape Industries (24) reviewed
the law and suggested (albeit, strictly speaking, obiter) that presence
would also be sufficient.
Where there is a corporate defendant, it was decided in Adams vs.
Cape Industries (25) that there must be a fixed place of business maintained at the company’s own expense from which it has carried out its
own business, either directly or through a subsidiary which it controls, in
the overseas jurisdiction. It will suffice that its business is transacted at
that place through representatives of the company carrying out the corporation’s business (26). In Adams, an English company was held not to be
caught by these provisions where it operated in the US through a marketing organisation, since the US company was found to be engaged in its
own business and not that of the defendant. Particularly relevant in this
respect will be whether it may enter into contracts on the corporation’s
behalf. So in Vogel vs. R & A Kohnstamm Ltd (27), an English defendant
(23) [1908] 1 KB 302.
(24) [1990] Ch 433.
(25) Ibid.
(26) See also Littauer Glove Corp vs. FW Millington (1928) 44 TLR 746.
(27) [1973] QB 133.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
who sold goods in Israel through an agent resisted enforcement of an Israeli judgment on the grounds that the agent had merely acted as a channel of communication without any authority to bind the defendant.
Where any defendant is sued in a federal jurisdiction, it was suggested
in Adams vs. Cape Industries that it must have the requisite connection
with the particular State which gave judgment (for example, Texas, not
simply anywhere in the US), unless the judgment is from a federal, rather
than a State, court (28).
(ii) Submission
A foreign court to which a defendant has submitted will also be seen as
jurisdictionally competent in the eyes of English law. The most obvious
means of submitting is by voluntarily pleading to the merits. However, the
defendant will be protected if he appears solely to challenge the jurisdiction
of the foreign court by section 33 of the Civil Jurisdiction and Judgments
Act 1982, which states that an appearance solely to contest the jurisdiction
of the court or to ask it to dismiss or stay proceedings for another country’s
courts or for arbitration, or to protect or obtain the release of property
seized or threatened with seizure shall not constitute submission (29).
Nonetheless, the scope of the provision is uncertain (30) and hence a
defendant still needs to tread very carefully. However, it is tentatively suggested that appearing, for example, to have a default judgment set aside,
or pleading both to jurisdiction and to the merits at the same time because local procedure so requires should not constitute submission. In all
cases, the key issue is whether the purpose was solely to challenge jurisdiction. Hence, an appeal on the merits to a higher court against a default
judgment would constitute submission.
A defendant may also have contractually agreed (31) to submit litigation to the courts of a particular State. It is uncertain whether the contractual term must be express or can also be implied into a contract. It was suggested obiter in Blohn vs. Desser (32) that a sleeping partner in a firm which
had been conducting business in Austria could be treated as implicitly
(28) [1990] Ch. 433, pp. 484-492.
(29) Compare the pre-Act position in Henry vs. Geoprosco International Ltd [1976] QB
726.
(30) See Briggs-Rees, pp. 541-543.
(31) In a suitable case of reasonable detrimental reliance on a party’s assurance that he
will agree to litigation in a particular jurisdiction, submission might occur by estoppel.
(32) [1962] 2 QB 116.
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625
agreeing with all parties who contracted with the firm in Austria to submit
all disputes to the Austrian courts. However, the court in Vogel vs. R & A
Kohnstamm Ltd (33), thought that an agreement must be express. It is difficult to see any reason for this. As Briggs and Rees succinctly put it: « as
long as submission is not inferred too loosely, it is hard to see a convincing
doctrinal objection to the implication of . . . [the clause’s] existence » (34).
Finally, it is important, if not self-evident, to note that a claimant, by
instigating proceedings, will be deemed to have submitted to the court.
This can be very important, since he is then estopped at the enforcement
stage from contesting a judgment against him in a counter-claim by the
defendant. Where there are a number of co-defendants, a submitting codefendant will be deemed to have submitted to any claims which another
co-defendant might properly bring arising from the action (35).
(C) No other basis of competence; the focus is on the position of the defendant
No other basis of jurisdictional competence in a foreign court can be
found at common law. The key point to note is that the requirements of jurisdictional competence are all focused on the position of the defendant.
There is nothing in English law to suggest that a foreign court’s jurisdictional competence depends upon the position of the claimant to the action.
There is no recognised requirement of competence over the claimant.
As Lindley M.R. remarked in Pemberton vs. Hughes:
There is no doubt that the courts of this country will not enforce the decisions of foreign courts which have no jurisdiction in the sense above explained - i.e., over the
subject matter or over the persons brought before them . . . But the jurisdiction which
alone is important in these matters is the competence of the court in an international
sense - i.e., its territorial competence over the subject matter and over the defendant.
Its competence or jurisdiction in any other sense is not regarded as material by the
courts of this country (36).
Furthermore, this view is fortified by the fact that the private international law rules on the jurisdiction of English courts at common law are
concerned with competence over the defendant (37).
(33) [1973] QB 133. The Court of Appeal in Adams thought that clear evidence of agreement was needed.
(34) Briggs-Rees, p. 543.
(35) Murthy and Another vs. Sivajothi and Others [1999] 1 WLR 467.
(36) [1899] 1 Ch. 781, at p. 791, (emphasis added).
(37) See Dicey-Morris-Collins, The Conflict of Laws, chapter 11.
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Hence, assuming that the requisite connection exists between the defendant and the court giving judgment, a good argument can be made
that the jurisdictional competence requirement for recognition of the foreign judgment is satisfied, as long as principles of natural justice and public policy would not be offended (38).
(D) Judgment must be a final and conclusive judgment on the merits
The judgment of the court of origin must be final and conclusive on the
merits in order to qualify for recognition in England. The word “final”
means that the judgment is binding in the court which gave judgment and
cannot be re-opened therein, even if the same matter can be appealed to a
higher court (39). Where a default judgment is delivered overseas, that judgment may not be regarded as final if a given period is laid down for setting
that judgment aside in the foreign court, unless and until the time for setting aside the judgment has expired (40). The judgment will not be conclusive if further defences to its recognition are available in the overseas court.
The requirement that the judgment be « on the merits » means simply
that the decision of the court of origin « . . . establishes certain facts proved
or not in dispute, states what are the relevant principles of law applicable
to such facts and expresses a conclusion with regard to the effect of applying those principles to the factual situation concerned » (41). It will be
rare for this requirement not to be satisfied (42).
(E) Enforcement of foreign judgments
Enforcement of a judgment is required where the claimant seeks a
remedy from the English court, such as damages. For a judgment to be
enforced, it must first be entitled to recognition.
Judgments for specific performance cannot be enforced in England at
common law and a claim for damages can be enforced only if the amount
to be paid can be definitively qualified. The English court will also not enforce a foreign penal, revenue or public law judgment. This is but a part of
the general private international law rule that such laws will not be enforced or applied in an English court. An order to pay penal damages will
(38) On which, see below.
(39) Nouvion vs. Freeman (1889) 15 App Cas 1.
(40) Briggs-Rees, p. 547.
(41) The Sennar(No 2) [1985] 1 WLR 490, at p. 500, per Lord Brandon.
(42) A decision that an action was time-barred would be on the merits– Foreign Limitation (Periods) Act 1984, section 3.
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627
certainly not be enforceable if payable to a state authority (43). However,
penal damages which are awarded to a private individual should not be
caught by this exclusion (44). In any event, if it is possible to sever the
compensatory part of a judgment, that alone may be enforced (45).
The judgment must also not order the payment of multiple damages.
The Protection of Trading Interests Act of 1980 is particularly concerned
with certain types of orders made in the courts of the United States. It
provides that where a judgment is « for an amount arrived at by . . . multiplying » the sum assessed as compensation, it shall not be enforced (46). If
the defendant has already paid the multiple, he may reclaim it in an English court (47).
(F) Defences to recognition and enforcement
Assuming that these various requirements are satisfied, the foreign
judgment meets the basic requirements for recognition and enforcement
in England. If so, then one needs to consider the possibility that a defence
to recognition and enforcement of the judgment exists.
It should be noted that it is no defence to the recognition of a foreign
judgment that the judge overseas made an error of law (48). This serves a
strong public interest in ensuring that matters cannot readily be reopened in England. Nor is it a defence that the foreign court lacked jurisdiction by the procedural law of that State: even if it is alleged that the
particular court which heard the case in the State of origin lacked jurisdiction, this will be irrelevant, unless the error made the judgment null and
void in that State (49).
However, a number of valid defences exist to the recognition of enforcement of foreign judgments, including that the judgment: was procured by fraud; is contrary to natural justice; is contrary to English public
policy; was obtained in breach of a jurisdiction or arbitration clause; or is
inconsistent with an English judgment, or with a prior foreign judgment
entitled to recognition in England. Of these defences, two are particularly
(43) Huntington vs. Attrill [1893] AC 150.
(44) SA Consortium General Textiles vs. Sun & Sand Agencies Ltd [1978] QB 279.
(45) Raulin vs. Fisher [1911] KB 93.
(46) Section 5.
(47) Section 6. See also Lewis vs. Eliades (No.2) [2003] EWCA Civ 1758, [2004] 1 WLR
692; Neuhaus, Power to Reverse Foreign Judgments: The British Clawback Statute Under International Law, (1981) 81 Colum L Rev 1097, pp. 1102-1103.
(48) Godard vs. Gray (1870) LR 6 QB 288.
(49) Vanqueilin vs. Brouard (1863) 15 CBNS 341; Pemberton vs. Hughes [1899] 1 Ch. 781.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
relevant in the present context: that the foreign judgment is in breach of
natural justice; and that it is contrary to English public policy. These defences are examined below (50).
(G) Is the judgment in breach of natural justice?
The defendant must have had the opportunity adequately to defend
himself. This means that he must have been served with due notice of the
proceedings, been allowed properly to arrange his defence, and that the
procedures of the foreign court must have been acceptable. However, it is
important to note that the English courts have traditionally been reluctant
to condemn foreign procedures. In the judgment of Lindley M.R. in Pemberton vs. Hughes, (51) his Lordship remarked that:
If a judgment is pronounced by a foreign court over persons within its jurisdiction
and in a matter with which it is competent to deal, English courts never investigate
the propriety of the proceedings in the foreign court, unless they offend against English views of substantial justice. Where no substantial justice, according to English
notions, is offended, all that English courts look to is the finality of the judgment
and the jurisdiction of the court, in this sense and to this extent - namely, its competence to entertain the sort of case which it did deal with, and its competence to require the defendant to appear before it. If the court had jurisdiction in this sense and
to this extent, the courts of this country never inquire whether the jurisdiction has
been properly or improperly exercised, provided always that no substantial injustice,
according to English notions, has been committed.
In Adams vs. Cape Industries, (52) it was confirmed that the court
could refuse to recognise and enforce a foreign judgment if the foreign
proceedings amounted to a denial of substantial justice. In that case, the
judge in Texas had issued a judgment that had not clearly allocated damages on the basis of the relative merits of each plaintiff’s claim and in circumstances which demonstrated a lack of procedural propriety. The
Court of Appeal held that compensation should be objectively and independently assessed and said obiter that this amounted to a breach of natural justice (53).
Unfortunately, considerable uncertainty still surrounds the meaning
of the term « substantial justice ». But, it must be stressed that it is very
rare for a court to deny recognition to a foreign judgment on natural jus(50) For discussion of other defences, see the works cited in note 3 above.
(51) [1899] 1 Ch. 781, p. 790.
(52) [1990] Ch. 433.
(53) Ibid., pp. 494-502.
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629
tice grounds. Cheshire and North (54) observe that « The English courts
are reluctant to criticise the procedural rules of foreign countries . . . and
will not measure their fairness by reference to the English equivalents . . . ». They continue: « If the foreign court, in proceedings in personam, is prepared to dispense with notice of the proceedings, or to allow
notice to be served in a manner inadequate to satisfy an English court, it
is not for the English court to dispute the foreign judgment . . . » (55).
(H) Would recognition of the judgment be contrary to English public policy?
This defence is rarely sustained. The mere fact that a foreign judgment
was obtained on the basis of laws of which an English court disapproves
should be irrelevant, as the defence relates to the judgment itself and not
the underlying cause of action. Dicey, Morris and Collins remark that
« There are very few reported cases in which foreign judgments in personam have been denied enforcement or recognition for reasons of public
policy at common law » (56). The defence was, however, applied in Re
Macartney (57) to deny enforcement of a perpetual maintenance order
made against a father for his illegitimate child.
In Israel Discount Bank of New York vs. Hadjipateras (58), the defendant
alleged that a New York judgment for the claimant was obtained because
his father had exercised undue influence over him to make him enter into a contract of guarantee. The public policy defence to enforcement was
rejected by the Court of Appeal, on the basis that New York law on undue
influence was substantially similar to English law. Accordingly, the defendant could have raised the issue overseas. Having failed to do so, the defendant could not now raise the defence in the English court.
4. – Application of the English law on recognition and enforcement of foreign judgments to a US class action judgment
(A) The effect in England of a judgment in favour of the defendant
The most complex situation is where the judgment is in favour of the
defendant, who seeks to rely upon this in England as a defence to a fur(54) Cheshire and North’s Private International Law, p. 451.
(55) Citing Jeannot vs. Fuerst (1909) 100 LT 816 and Vallée vs. Dumergue (1849) 4 Exch
290, 303.
(56) At p. 629.
(57) [1921] 1 Ch. 522.
(58) [1983] 3 All ER 129.
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ther action by the claimants. It is normally the case that a decision of a
foreign court, between the same parties and concerning the same cause of
action, creates a cause of action estoppel in England, preventing the matter from being reopened in England (59). But this, of course, applies only
if the foreign judgment is entitled to recognition.
On this question, there is no governing English law precedent and, accordingly, the position in England is uncertain. A number of issues need
to be considered.
(B) Can the English rules on jurisdictional competence and the requirements of natural justice be applied to a claimant in US proceedings?
We have seen that the English rules on the jurisdictional competence
of a foreign court have focused upon the position of the defendant and
not that of the claimant. Similarly, English law has a defence that the foreign judgment was in breach of natural justice, which is normally pleaded
by the overseas defendant. Indeed, all of the law and learning on the
recognition of foreign judgments concerns the position of the defendant.
The claimant’s position is not normally regarded as relevant (60).
Briggs and Rees (61) nevertheless contend that a US class action judgment should not give rise to an estoppel in respect of an absent claimant
in a US class action (62). They argue that « [A] claimant who is neither present nor resident [in the state of origin] cannot be bound by a foreign
judgment any more than can a defendant in the same position: the judgment cannot therefore be seen as res judicata so far as such a claimant is
concerned » (63). They go on to suggest that the fact that the absent party
(59) See Briggs-Rees, Civil Jurisdiction and Judgments (4th edn, 2005), pp. 569-73.
(60) But see Parsons vs. McDonald’s Restaurants of Canada Ltd 250 DLR (4th) 224 (2005)
(Ont CA), where the court denied preclusive effect to a foreign judgment in respect of a
claimant who did not opt out of an Illinois class action and took no part in the US proceedings. The court applied its rules on the recognition and enforcement of foreign judgments to both parties in the Illinois proceedings. As the claimant had not been given adequate notice of the Illinois proceedings, he was permitted to sue afresh in Ontario.
(61) Civil Jurisdiction and Judgments (4th edn, 2005), pp. 572-573.
(62) This view has been accepted on occasion by US courts in refusing to certify a class
including English claimants: see, for example, Bersch vs. Drexel Firestone Inc 519 F 2d 974,
pp. 996-997 (1975); Re US Financial Securities Litigation, Société Generale de Banque vs.
Touche Ross & Co 69 FRD 24, pp. 48-49 (1975); Re Lloyd’s American Trust Fund Litigation
1998 WL 50211 (SDNY); Re DaimlerChrsyler AG Sec Litigation 216 FRD 291, pp. 300-301 (D
Del 2003).
(63) Briggs-Rees, p. 573.
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is a claimant, not a defendant, is immaterial. They argue that if a “natural” defendant to a class action, D, were to seek a declaration of non-liability against an absent class member, C, the judgment would not be recognised unless the court was jurisdictionally competent over C, the defendant to that particular action; and that it follows that if the absent class
member, C, were instead in the position of a claimant in an action against
D (as is the case in the US class action), it should similarly be the case
that jurisdictional competence must be established over D.
It is suggested that this argument is not altogether compelling. The
fact is that the English conflict of laws does attach a great deal of weight
to the question of which party is the defendant in the proceedings in
question. So, if C sues D in an English court, the question of whether
the court has jurisdiction is determined by the personal connections of
the defendant, D, in the instant proceedings before the English court. If
D instead commences proceedings against C for a declaration that he is
not liable to C, then the court must have in personam jurisdiction over C,
who is the defendant to this particular action. In other words, it is the
defendant in the English action over whom the English court must have
jurisdiction (in the first example, D; in the second example, C), and it is
his situation (the defendant’s situation) which is key to whether the
court has jurisdiction. One cannot, accordingly, argue that just because a
state of affairs is so if C sues D, it should necessarily be so if D sues C
(or if D seeks to invoke a res judicata defence in some future proceedings) (64). The English authorities on the recognition and enforcement of
foreign judgments are similarly focused upon the position of the defendant overseas and not the claimant overseas. Barnett, the author of the
only book devoted to the preclusive effect of foreign judgments in England, (65) comments in relation to class actions that « ‘. . . jurisdiction in
the international sense’ emphasizes jurisdiction over the defendant and
does not refer to the situation where the foreign claimant may deny submission to the jurisdiction . . . » (66).
In the English Court of Appeal’s decision in Jacobson vs. Frachon (67),
Atkin LJ remarked that the principles of natural justice require that the
court « has given notice to the litigant that they are about to proceed to de(64) See also see Parsons vs. McDonald’s Restaurants of Canada Ltd 250 DLR (4th) 224
(2005) (Ont CA), paras 19-21.
(65) Barnett, Res Judicata, Estoppel, and Foreign Judgments (OUP, 2001).
(66) Ibid, at p. 73, n. 81.
(67) [1927] 138 LT 386.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
termine the rights between him and the other litigant » (68). However, it is
clear that Atkin LJ did not have in mind the rights of the claimant in an action overseas. Moreover, the remark by Atkin LJ was made when considering the judgment of Lindley M.R. in Pemberton vs. Hughes (69), who had
stated the general principle (to which a limited natural justice exception
exists) that « A judgment of a foreign Court having jurisdiction over the
parties and subject-matter - i.e., having jurisdiction to summon the defendants before it and to decide such matters as it has decided - cannot be impeached in this country on its merits » (70). In other words, these cases had
in mind the position of the defendant to the foreign action and do not provide clear support for the non-recognition of a judgment where it is the
claimant who is bound by proceedings which he did not expressly opt into.
In Campos vs. Kentucky & Indiana Terminal Railroad Company (71), McNair J commented that: « . . . in accordance with English private international law a foreign judgment could not give rise to a plea of res judicata in
the English Courts unless the party alleged to be bound had been served
with the process which led to the foreign judgment ». This casts some
doubt upon the question of the enforcement of a United States court’s
class action judgment in respect of an absent claimant who did not opt out
of the class. However, this remark did not form part of the ratio of the case,
since the claim failed on other grounds. Moreover, the context of the decision shows that this comment was induced partly by the prior finding that
even in the United States, the claim in Campos was not thought to be a
class action capable of binding the claimants. Some sentences previously
(72), McNair J had said that «. . . the defendants . . . have not satisfied me
that the . . . action was a true class action or that in accordance with American law the judgment in that case bound anyone who was not an original
party or did not intervene ». The typical class action scenario case is clearly
distinguishable, in that the intention of the United States action is to bind
all members of the class. Hence, although the Campos decision certainly
requires due consideration, it is by no means a clear or binding authority.
It is suggested that the decision in Rossano vs. Manufacturers Life Insurance Co (73) does not add anything to the Campos case. In that case, the
(68) Ibid, at p. 392.
(69) [1899] 1 Ch. 781, 792.
(70) Emphasis added.
(71) [1962] 2 Lloyd’s Rep 459, 473.
(72) At p. 473.
(73) [1962] 1 Lloyd’s Rep 187.
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633
English court did refer to the need for the Egyptian court to have jurisdiction over the “plaintiff”, Rossano. However, the court was referring to
him as the “plaintiff” in the English proceedings now before it. In respect
of the proceedings in Egypt, Rossano was alleged to owe money to the
would-be garnishor, the Egyptian revenue authorities, who sought to recover payment from Rossano’s insurers. In other words, he was not a
claimant in Egypt; to the contrary, as an alleged debtor in Egypt, he was,
effectively, in the position of a defendant in that country, and as such, the
English court insisted that the Egyptian court should have jurisdiction
over such a party.
Finally, it should be noted that Briggs and Rees, who had argued that
a US class action judgment against an absent claimant who failed to opt
out of proceedings should not be recognised in England, go on to acknowledge that the correctness of their view is not free from doubt and
that « . . . it may be said that the class action has been developed in response to a social problem faced by multiple small claimants confronting
a single powerful defendant, and that the rules on recognition and enforcement of judgments should be allowed to evolve to accommodate
and support, and not to frustrate, such litigation » (74). It might be argued
that, given the lack of clear authority on the entitlement to recognition
of a US class action judgment against an absent claimant in the US proceedings, the English courts should not be actively looking to find ways
to deny recognition in what are expedient, multiple party proceedings in
the US.
In conclusion, it can be argued that unless and until a specific exception evolves (and none has evolved yet in English private international
law), there is a good case for the recognition of a US class action judgment in England, where the US court has jurisdiction over the defendant
in the eyes of English law.
(C) Privity of interest
Even if the English courts were to decide that the requirements of jurisdictional competence could and should be applied to absent claimants as
well as to defendants, a further possibility is that there is a privity of interest between the absent claimants and other claimants over whom the court
has jurisdictional competence, such as to render the absent claimants
bound by the US class action judgment. There is uncertainty as to the
(74) Briggs-Rees, Civil Jurisdiction and Judgments, p. 573.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
scope of this doctrine (75). In Gleeson vs. J Wippell & Co. Ltd, Megarry V-C
stated that:
I do not say that one [party] must be the alter ego of the other: but it does seem to me
that, having due regard to the subject matter of the dispute, there must be a sufficient
degree of identification between the two to make it just to hold that the decision to
which one was party should be binding in proceedings to which the other is party. It is
in that sense that I would regard the phrase ‘privity of interest’ (76).
In House of Spring Garden vs. Waite (77), the court applied the privity of
interest doctrine in the context of the liability of joint tortfeasors. In the
case of a US class action, the US court would not certify the class unless
the interests of the various claimants were sufficiently similar as to merit
such class action and give rise to a number of common questions of fact
and law. It is possible that an English court would conclude that the interests of claimants in a US class action are not sufficiently different from
the House of Spring Garden scenario and, accordingly, that the absent
claimants should be bound on this basis.
Barnett (78) comments that “The trend in the common law world has
been that all members of the class whom a party purports to represent
will be deemed parties and thus bound by an order of the court, provided
that the representative party has acted bona fides in the interests of the
class” (79).
He goes on to suggest that the English courts might additionally require that:
(i) the claimant in the subsequent proceedings had notice of the foreign class action
and had the chance to withdraw or object; and (ii) the foreign court, acting under an
obligation to protect absent class members, held a hearing, considered the evidence
and made a ruling as to membership.
If the interests of the absent class members are fairly and properly represented by members of the class participating in the US proceedings, it
(75) See Carl Zeiss Stiftung vs. Rayner & Keeler Ltd and Others (No 2) [1967] 1 AC 853;
Gleeson vs. J Wippell & Co. Ltd [1977] 1 WLR 510; House of Spring Garden vs. Waite [1990] 1
QB 241.
(76) [1977] 1 WLR 510, at p. 516.
(77) [1990] 1 QB 241.
(78) Barnett, Res Judicata, Estoppel, and Foreign Judgments (2001), at p. 73.
(79) Citing Wytcherley vs. Andrews (1871) LR 2 P&D 327; Cox vs. Dublin City Distillery Co
(No 3) [1917] 1 IR 203; Naken vs. General Motors of Canada Ltd (1983) 144 DLR (3d) 385;
and Carnie vs. Esanda Finance Corp (1995) 183 CLR 398, 423-4 (High Court of Australia).
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635
is, accordingly, possible that the English courts would conclude that there
was sufficient privity of interest to bind those absent claimants (80). However, it should be reiterated that this point would only become relevant if
the English courts were first to conclude that they should apply their rules
of jurisdictional competence to claimants at all.
(D) If a natural justice argument could, in principle, be asserted by the
claimant, would it be sustained by an English court?
Doubt surrounds the question of whether an absent claimant in a US
class action could object to the recognition of the US judgment on the
grounds of breach of natural justice. This defence has developed to protect the position of defendants rather than claimants. Even if it were the
case that a natural justice argument could be made by an absent claimant
in the US action in subsequent proceedings in England in response to a
res judicata defence asserted by the defendant, it does not follow that this
would be made out on the facts of any given case. The leading private international law commentators in England recognise that the natural justice defence is narrowly construed and that examples of its successful establishment are very few and far between.
In this respect, there is a convincing argument that a US class action
judgment would not normally amount to a denial of substantial justice in
the eyes of English law. Unlike in Adams vs. Cape Industries (81), there will
normally be no suggestion of a lack of procedural proprietary in the US
courts. Notice will usually be provided to the absent class members in the
class action and that they will be informed of their right to opt out, in
clear language, using a number of different media. Indeed, it has been observed that « If the foreign class members do not receive adequate notice,
they cannot be bound to the class settlement or final judgment, because
binding them without proper notice would violate their due process
rights » (82).
(80) See also the recent discussion of this issue in Canada: Bank of Montreal vs. Mitchell
(1997), 143 DLR (4th) 697 (Ont Gen Div [Commercial List]), at p 739, aff'd (1997), 151 DLR
(4th) 574 (Ont CA.); Banque Nationale de Paris (Canada) vs. Canadian Imperial Bank of
Commerce (2001), 52 O.R. (3d) 161 (Ont CA); Shaw vs. BCE Inc [2004] OTC 28 (Ont SCJ), aff'd (2004) 189 OAC 9 (Ont CA); Parsons vs. McDonald’s Restaurants of Canada Ltd 250 DLR
(4th) 224 (2005) (Ont CA), paras 44-51.
(81) [1990] Ch. 433.
(82) Buschkin, The Viability of Class Action Lawsuits in a Globalized Economy- Permitting Foreign Claimants to be Members of Class Action Lawsuits in the US Federal Courts
636
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Nevertheless, in Parsons vs. McDonald’s Restaurants of Canada Ltd (83),
the Ontarian Court of Appeal ruled that an Illinois class action judgment
did not give rise to an estoppel in respect of a claimant who did not opt out
of the Illinois class action and took no part in the US proceedings. The
claimant was, accordingly, permitted to sue afresh in Ontario. However,
the court accepted that such a judgment could, in principle, qualify for
recognition and enforcement in Ontario. The problem in the instant case
was that the Canadian claimant had not been given adequate notice of the
Illinois proceedings and had not had sufficient opportunity to opt out.
Sharpe JA commented that « . . . comity requires that, in appropriate cases,
Ontario law should give effect to foreign class action judgments » (84). He
continued:
. . . provided the interests of non-resident class members were adequately represented,
recognition and enforcement of foreign class proceedings would seem desirable. Recognition of the judgment would encourage the defendant to extend the benefits of the settlement to non-residents. Non-resident class members would receive a benefit without
resorting to litigation and the defendant would buy peace from further litigation (85).
This illustrates the importance of proper notice being provided to
the claimant. In Parsons, the court found that notice had been provided in overly-technical language, in a publication not normally used for
this purpose and disseminated to only a small proportion of the
claimants in the class. Recognition of the Illinois judgment was, accordingly, regarded as contrary to natural justice. If, however, ample
opportunity is given to absent class members to participate in the action directly and, at a later stage, to object to any proposed settlement,
then the Parsons case suggests that the judgment should be recognised
and enforced (86). There is typically no reason to suppose that an action on behalf of the class will not be fairly and rigorously heard by the
US court, or any cause for concern that it will reach a decision that is
substantively unfair to any claimants who do not opt out (87). Howev(2005) 90 Cornell L Rev. 1563, pp. 1582-1583, citing Mullane vs. Cent Hanover Bank & Trust
Co 339 US 306, pp. 314-315 (1950).
(83) 250 DLR (4th) 224 (2005) (Ont CA).
(84) Ibid, para 15.
(85) Ibid, para 27.
(86) Provided, of course, that it otherwise satisfies the criteria for recognition and enforcement of foreign judgments in the state where recognition is sought.
(87) See further Phillips Petroleum Co vs. Shutts 472 US 797; Bassett, US Class Actions
Go Global: Transnational Class Actions and Personal Jurisdiction (2003) 72 Fordham L Rev 41.
DIBATTITI
637
er, is important that the measure of damages awarded to an absent
claimant should reflect the extent of their loss or interest. If the damages are allocated on the basis of the claimants’ recognizable damages
pursuant to a plan that will require approval by the US court, then an
English court may conclude that the US proceedings do not amount
to a denial of substantial justice.
(E) Representative and group actions in English courts
English law permits group and representative actions in English
courts (88). The availability of such actions in English courts may be an
indication that English courts will not regard the US class action procedure as so unfamiliar to an English court as to warrant a refusal to
recognise a US class action judgment.
The Civil Procedure Rules (CPR) Part 19.6 allow for representative
actions. It states that:
(1) Where more than one person has the same interest in a claim –
(a) the claim may be begun; or
(b) the court may order that the claim be continued, by or against
one or more of the persons who have the same interest as representatives of any other persons who have that interest.
(2) The court may direct that a person may not act as a representative.
(3) Any party may apply to the court for an order under paragraph (2).
(4) Unless the court otherwise directs any judgment or order given in a
claim in which a party is acting as a representative under this rule–
(a) is binding on all persons represented in the claim; but
(b) may only be enforced by or against a person who is not a party to
the claim with the permission of the court.
Hence, a representative action brought under this English procedure will normally bind those on whose behalf the claim is brought
and may also bind, pursuant to CPR 6.19(4)(b), persons who are not
a party to the claim with the permission of the court (89). It is true
that such actions would not be available where damages would have
(88) See Mulheron, The Class Action in Common Law Legal Systems: a Comparative
Perspective (Hart Publishing, 2004), especially chapter 4. See also Hodges (ed.), Multi-Party
Actions (OUP, 2001), especially chapters 13-15; Andrews, Multi-Party Proceedings in England
(2001) 11 Duke J of Comp and Intl Law 249; Mildred in Howells (ed.), The Law of Product
Liability (Butterworths, 2000), p. 375.
(89) Compare Moon vs. Atherton [1972] 2 QB 435, p. 441.
638
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
to be proved individually (90), and it may well be that such an action
would not be permitted on the facts which give rise to a class action
in the United States (91). Moreover, in Markt & Co vs. Knight
Steamship Co (92), Fletcher Moulton LJ commented that « In representative actions . . . [t]he plaintiff is the self-elected representative of
the others. He has not to obtain their consent. It is true that consequently they are not liable for costs, but they will be bound by the
estoppel created by the decision”.
It is also the case that section 151(1) of the Supreme Court Act 1981
defines a “party” as « any person who pursuant to or by virtue of rules
of court or any other statutory provision has been served with notice
of, or has intervened in, those proceedings ». But even if one accepts
that an English representative action would not be available on the
facts of a given case, it by no means follows that an English court
would not enforce a US class action judgment in that matter. The approach taken in the United States may be viewed as a legitimate, albeit
different, method of dealing with actions involving multiple claimants,
to which due deference should be given in English courts.
English law now also recognises the concept of the Group Litigation Order (GLO) (93), where actions raise common issues of fact or
law, but where the interests of the parties concerned are not identical.
CPR 19.12 states that:
(1) Where a judgment or order is given or made in a claim on the group register in
relation to one or more GLO issues –
(a) that judgment or order is binding on the parties to all other claims that are
on the group register at the time the judgment is given or the order is made
unless the court orders otherwise; and
(b) the court may give directions as to the extent to which that judgment or order is binding on the parties to any claim which is subsequently entered on
the group register.
It is true that English law would require a person to issue a claim
against the defendant and to request to be added to the registered group
(90) Markt & Co vs. Knight Steamship Co [1910] 2 KB 1021.
(91) Although, of course, a procedural mechanism exists in the United States to administer a plan of allocation after a class action judgment favourable to claimants, whether by
settlement or otherwise, to determine individual losses.
(92) [1910] 2 KB 1021, p. 1039.
(93) For criticism of the uncertain scope of the regime, see Mulheron, The Class Action
in Common Law Legal Systems: a Comparative Perspective, pp. 97-110.
DIBATTITI
639
of litigants. However, one must equally recognise that, inevitably, some
differences in the procedural approach of English and United States
courts exist (94).
The key question is whether the « opt out » approach in a class action
distinguishes it sufficiently from English law’s « opt in » approach as to
lead to the non-recognition of a United States court’s judgment on natural justice grounds. In this respect, although the matter is far from certain,
it can be argued that the procedures are not so different as to justify the
habitual non-recognition of US class action judgments. Both the English
and United States procedures are concerned with the virtues of efficient
and consistent handling of multiple claimants’ actions against the same
defendant. Both are concerned, in different manners, with trying to take
reasonable steps to ensure that the action is brought to the attention of
potential claimants, and that they are given sufficient time to decide
whether to participate in the action. It is true that the class action requires
an « opt out »; but all reasonable steps will normally be taken to bring this
to the attention of potential claimants, and a reasonable period of time
given to opt out. The mere fact that the procedure adopted in the United
States is different ought not to be reason enough in and of itself to refuse
to recognise the judgment.
Dixon comments on the enforceability of a US class action settlement
that:
Accordingly, because English law allows absent represented parties to be bound, it is
likely that an English court would hold that a US court was a court of competent jurisdiction over the parties. This element of the plea of res judicata is thus satisfied (95).
Later, he concludes: (96)
Accordingly, a defendant should be able to maintain in any English litigation that as
the manner in which the judgment was obtained does not offend English concepts of
substantial justice or, more positively, that as the US Order comports with natural justice, it ought to be upheld . . . This is particularly true because, in the US class action
context, irrespective of the ability of a class member with notice of the action to take
steps to protect his or her own interests . . . the judge is under an obligation to protect
the interests of the absent class members.
Of course, the English court’s own rules of civil procedure do not
need to be mirrored when it comes to the recognition and enforcement of
(94) See also Hodges (ed.), Multi-Party Actions, para 3.28.
(95) (1997) 46 International and Comparative Law Quarterly 134, at p. 146.
(96) Ibid, at p. 150.
640
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
foreign judgments in England. An English court need not necessarily
adopt identical, or even similar, rules in the conflict of laws when recognising and enforcing foreign judgments to those applied in the domestic
context of litigation in England. But the approach of English courts in the
domestic setting is indicative of the English court’s views as to acceptable
standards of procedural protection, and suitable methods of efficiently
bringing multi-party litigation. There should be cogent reasons for the
court to depart from those values when it comes to the recognition of a
foreign court’s judgment. At the very least, the English court’s view in the
domestic context is persuasive as to the standards of procedural fairness
and natural justice which it is likely to accept from foreign courts. The
standards applied in English domestic law are a benchmark by which an
English court may assess the standards applied in a foreign court. This
point is accepted by Barnett, who observes that: « The addition of these
rules offers, at least, a template for assessing foreign rules governing group
litigation . . . » (97).
Furthermore, it has been argued that the rules on representative actions in English courts have been applied sufficiently liberally in more recent cases as to share many common attributes with class actions. A case
for the introduction of some form of class action procedure in England
has been made (98). Mulheron notes that in a recent case, Independiente
Ltd vs. Music Trading On-Line (HK) Ltd (99), the court applied the representative rule to an alleged copyright infringement and acknowledged the
possibility of separate defences, and separate claims for damages for account of profits, being brought by different class members. Indeed, she
notes that a representative action was permitted even though « The court
indeed accepted that these representative proceedings had not been
specifically authorised by all class members » (100). The Independiente decision was followed in Howells vs. Dominion Insurance Co. Ltd. (101) Mul-
(97) Barnett, Res Judicata, Estoppel, and Foreign Judgments, at p. 74.
(98) Mulheron, Some Difficulties with Group Litigation Orders- and Why a Class Action
is Superior (2005) 24 Civil Justice Quarterly 40; Mulheron, From Representative Rule to Class
Action: Steps Rather than Leaps (2005) 24 Civil Justice Quarterly 424.
(99) [2003] EWHC 470 (Chancery Division).
(100) (2005) 24 Civil Justice Quarterly 424, p. 442.
(101) [2005] EWHC 552 (QB). See also Prudential Assurance Co Ltd vs. Newman Industries Ltd [1981] Ch 229; Irish Shipping Ltd vs. Commercial Union Assurance Co plc (The Irish
Rowan) [1991] 2 QB 206 (CA); Bank of America National Trust and Savings Association vs.
Taylor (The Kyriaki) [1992] 1 Lloyd’s Rep 484 (QB).
DIBATTITI
641
heron observes that: « Thus, the Independiente and Howells decisions affirm that silence cannot be taken to infer disagreement with the representative action instituted. This is precisely the same situation as occurs in
class action regimes elsewhere » (102).
Mulheron concludes with the following observations:
Various judicial statements have sought to interpret the English representative rule as
containing elements of a class action, a wider device than the strict representative action, under which a commonality, rather than identicality, of interest is sufficient, and
where separate contracts, separate defences and different claims for damages are easily tolerated. It is highly arguable that the less restrictive class action criteria which the
English judiciary have struggled to fit over the rubric of the representative action
should be expressly implemented in this jurisdiction. This would serve to lessen the
artificiality of judicial interpretations which strain the boundaries of the language used
in r.19.6. Secondly, it is not a huge leap from the representative rule, as judicially interpreted, to the class action as legislatively drafted. Somewhat similar superiority assessments, numerosity tests, attitudes toward class description and members' identities, adequacy of representation, recognition of sub-classes, and the absence of any requirement for an express mandate from class members, are evident under both representative rule and class action (103).
In relation to the Group Litigation Order (104), Mulheron comments
elsewhere that:
All multi-party litigation schemas seek to achieve various economies of scale for their
participants. The GLO is no different in that regard. To decry a structured class action
regime such as that which exists in the US because it allegedly increases the rate of litigation both ignores the potential for GLOs to do exactly the same; and undermines
the aim of ensuring greater access to justice which both schemas seek to provide (105).
Even if English law stops short of introducing a class action (106), the
(102) (2005) 24 Civil Justice Quarterly 424, 442.
(103) Ibid, at p. 448. See further Mulheron, The Class Action in Common Law Legal Systems: a Comparative Perspective, pp. 78-90; 111. Mulheron observes (ibid, p. 94) that « The
statutory embodiment of a class action in England would (if it occurred) simply reflect judicial developments that have already occurred, sporadically, within the English jurisdiction to combat the restrictions of Markt ».
(104) See also Davies (Joseph Owen) vs. Eli Lilly & Co [1987] 1 WLR 1136 (CA), at p. 1139.
(105) Mulheron, The Class Action in Common Law Legal Systems: a Comparative Perspective, p. 75.
(106) See ibid, pp. 68-77 for discussion of objections made in England to the introduction of a class action and for rebuttal of these arguments. Mulheron notes, in particular,
642
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
emergence of the representative action in English domestic law, and the
more liberal interpretation of its constituent ingredients, indicates a level
of tolerance to proceedings which seek to promote the efficiency and expediency of multi-party litigation. Arguably, such an attitude should be
reflected in a willingness to give effect to foreign class action judgments.
It is in the very essence of private international law, and the recognition of foreign judgments in particular, that English courts will be faced
by procedures, and substantive rules, applied in a foreign court which are
different to those that an English court might have applied. Arguably,
something more is needed before the judgment can be denied recognition. Briggs and Rees comment that:
All civilised systems of civil procedure strike their own balance to protect the rights of
the parties and to get at and expose the truth; it is inappropriate to point to an isolated difference between the corresponding rules of English and foreign law, wrenched
out of their context, and allege that the comparison exposes the risk of an injustice to
the claimant (107).
Dicey, Morris and Collins state that a judgment of a foreign court is not
« . . . impeachable because the court admitted evidence which is inadmissible in England or did not admit evidence which is admissible in England
or otherwise followed a practice different from English law » (108).
In a different, but relevant context, Lord Goff, discussing the English
common law rules on taking jurisdiction, and the question whether an
English court should refuse to stay proceedings where the centre of gravity of a case lies overseas but the claimant alleges that he would not obtain justice in the foreign court, stated that:
The key to the solution of this problem lies, in my judgment, in the underlying fundamental principle. We have to consider where the case may be tried suitably for the interests of all the parties and for the ends of justice . . . Now, as a general rule, I do not
think that the court should be deterred from granting a stay of proceedings, or from
exercising its discretion against granting leave under R.S.C. Ord. 11, simply because
the plaintiff will be deprived of such an advantage, provided that the court is satisfied
that substantial justice will be done in the available appropriate forum. Take, for example, discovery. We know that there is a spectrum of systems of discovery applicable
in various jurisdictions, ranging from the limited discovery available in civil law counthat concerns that the class action is too inflexible, and that its introduction might lead to a
greatly increased volume of litigation, are overstated and that such fears have not been realised in Australia and Canada, where forms of the class action have been introduced.
(107) Briggs-Rees, Civil Jurisdiction and Judgments, 4th edn, at p. 315.
(108) At pp. 633-4.
DIBATTITI
643
tries on the continent of Europe to the very generous pre-trial oral discovery procedure applicable in the United States of America. Our procedure lies somewhere in the
middle of this spectrum. No doubt each of these systems has its virtues and vices; but,
generally speaking, I cannot see that, objectively, injustice can be said to have been
done if a party is, in effect, compelled to accept one of these well-recognised systems
applicable in the appropriate forum overseas (109).
In Lubbe vs. Cape plc (110), the House of Lords was faced with an action
by a large number of claimants who had suffered asbestos poisoning in
South Africa. They had worked for the South African subsidiary of an
English company. In deciding whether the English courts should hear the
case, Lord Bingham said the following:
The plaintiffs, as a ground for challenging the appropriateness of the South African forum, relied on the absence of established procedures in South Africa for handling
group actions such as the present. They compared that situation with the procedural
situation here, where the conduct of group actions is governed by a recently-developed but now tried and established framework of rules, practice directions and subordinate legislation. I do not regard this objection, standing alone, as compelling. It involves the kind of procedural comparison which the English Court should be careful
to eschew and the evidence is clear that South African Courts have inherent jurisdiction to adopt procedures appropriate to the cases they are called upon to handle (111).
A similar principle emerges in Connelly Respondent vs. RTZ Corporation Plc. (112).
In summarising the principles of jurisdiction of English courts at common law, Briggs and Rees observe that: « Moreover, the courts have been
firm and consistent in their assertion that any attempt by a claimant to
make general and disparaging comparisons between English and foreign
procedures is impermissible, the more so if there is no firm evidential basis for the allegations advanced » (113).
All this indicates that English courts should show considerable caution before condemning United States’ procedure as a breach of natural
justice. If English courts routinely did this when the procedural law of a
state of origin differed from English civil procedure, the recognition and
enforcement of foreign judgments would be rendered largely ineffective.
(109) Spiliada Maritime Corp vs. Cansulex Ltd [1987] AC 460, p. 482.
(110) [2000] 2 Lloyd’s Rep 383.
(111) Ibid, at p. 393.
(112) [1998] AC 854.
(113) Civil Jurisdiction and Judgments, 4th edn, p. 315.
644
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
It does not follow that simply because United States’ procedural law differs from English law, the foreign judgment would necessarily not be
recognised in England.
(F) Public policy
It has been show that successful invocation of the public policy defence in English courts is extremely rare. Briggs and Rees comment that:
« The usual colourful examples are an order to pay damages for breach of
a contract to kidnap or to sell narcotics, or those based on openly racist
laws » (114). It is clear that the vast majority of US class action judgments
will be very far from the typical, extreme cases where the public policy
has been used successfully. Moreover, this defence normally relates either
to the award itself, or, occasionally, to the substance of the law applied in
the foreign court. In most cases, there will be no reason to object to the
law applied in the US court, and certainly no reason to believe that any
ensuing court judgment will necessarily be repugnant to an English court
on its substance. The only arguments will normally relate to the procedure adopted in the US court; and we have already seen that English
courts are loathe to make comparisons between the procedures of different states. It is suggested that the public policy defence adds nothing in
the present context to the defence of natural justice. If the foreign judgment is unobjectionable on natural justice grounds, there is no reason to
think that it will be objectionable on public policy grounds.
(G) The impact of the European Convention on Human Rights (ECHR)
At this stage, the possible impact of the ECHR on the recognition of
foreign judgments is highly uncertain and undeveloped and one cannot
be sure what effect it will have (115). In Pellegrini vs. Italy (116), it was suggested that an Italian court was bound to deny recognition to a judgment
(114) Ibid, at p. 557.
(115) See Dicey-Morris-Collins, pp. 632-3; Briggs-Rees, pp. 559-560; Kinsch, The
Impact of Human Rights on the Application of Foreign Law and on the Recognition of Foreign
Judgments, in Einhorn-Siehr (eds.), Intercontinental Cooperation Through Private International Law (TMS Asser Press, 2004). See also Muir Watt, Evidence of an Emergent European Legal Culture: Public Policy Requirements of Procedural Fairness under the Brussels and
Lugano Conventions (2001) 36 Tex Int’l LJ 539; Loudon Vest, Cross-Border Judgments and
the Public Policy Exception: Solving the Foreign Judgment Quandary by Way of Tribal Courts
(2004) 153 U Pa L Rev. 797, p. 819.
(116) (2002) 35 EHRR 44.
DIBATTITI
645
of a non-Member State of the European Union (Vatican) where a fair trial had not taken place in the state of origin. But in Government of USA vs.
Montgomery (No 2) (117), the House of Lords distinguished the decision in
Pellegrini (on the basis that a special Concordat existed between Italy and
the Vatican) and held that the ECHR does not normally apply with respect to an order from a United States court. Lord Carswell (118) commented thus:
In considering these arguments it is necessary to have regard to the territoriality
principle, governing the territorial reach of the Convention and its limitations, aptly
described in para. [86] of the judgment of the European Court in Soering v United
Kingdom (1989) 11 E.H.R.R. 439,466: ‘Article 1 of the Convention, which provides
that ‘the High Contracting Parties shall secure to everyone within their jurisdiction the
rights and freedoms defined in Section 1,’ sets a limit, notably territorial, on the reach
of the Convention. In particular, the engagement undertaken by a contracting state is
confined to ‘securing’ (‘reconnaître’ in the French text) the listed rights and freedoms
to persons within its own ‘ jurisdiction’. Further, the Convention does not govern the
actions of states not parties to it, nor does it purport to be a means of requiring the
contracting states to impose Convention standards on other states.’
Given this territorial limitation, it is difficult to see how registration of the US
court’s order could constitute a direct breach of its terms . . .
His Lordship went on to note that, in exceptional cases, the provisions
of the ECHR, and Article 6 in particular, could be applied to a judgment
of a state not party to that Convention but noted (119) that « . . . the European Court has strongly emphasised the exceptional nature of such a jurisdiction and the flagrant nature of the deprivation of an applicant’s
rights which would be required to trigger it » (120) His Lordship referred also to two other recent decisions of the House of Lords in R (Ullah) vs.
Special Adjudicator (121) and in R (Razgar) vs. Secretary of State for the
Home Department (122). The latter two cases suggested, according to Lord
Carswell in Montgomery, that this « . . . would have to amount to a virtually complete denial or nullification of his Art. 6 rights, which might be ex-
(117) [2004] UKHL 37; [2004] 1 WLR 2241.
(118) At para 17, p. 2249.
(119) At para 24, p. 2252.
(120) See Soering vs.United Kingdom (1989) 11 EHRR 439.
(121) [2004] UKHL 26; [2004] 2 AC 323.
(122) [2004] UKHL 27; [2004] AC 368. See also Application No 17837/03 Tomic vs. United Kingdom, judgment of 14 October 2003 (unreported).
646
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
pressed in terms familiar to lawyers in this jurisdiction as a fundamental
breach of the obligations contained in the article » (123). Accordingly, even
if it were the case that the ECHR may provide a separate defence to
recognition of foreign judgments from outside Europe in certain cases, it
is clear that the threshold for this to be invoked is extremely high.
Nevertheless, let us consider the position if, for the sake of argument,
a claimant sought to rely upon the ECHR as a defence to a United States
court’s class action judgment, and the English court did not summarily
dismiss the matter. Article 6(1) of the ECHR provides that: « In the determination of his civil rights and obligations or of any criminal charge
against him, everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time by an independent and impartial tribunal established by
law ». There is no reason to suppose that an action in the United States
will not typically be “fair”, or heard « within a reasonable time » and « by
an independent and impartial tribunal established by law ».
It is true that in Miragall Escolano and Others vs. Spain (124). the court
did say that: « The parties must be able to avail themselves of the right to
bring an action or to lodge an appeal from the moment they can effectively apprise themselves of court decisions imposing a burden on them
or which may infringe their legitimate rights or interests » (125). However,
in the preceding sentence, it showed that the facts of the case were concerned with a different point, namely an allegation that the Spanish court
had infringed the applicants’ right to a fair hearing by ruling that for the
purposes of lodging an appeal, time had started to run from the date of
delivery of its judgment in proceedings. This was alleged to be « . . . an unreasonable construction of a procedural requirement which prevented a
claim for compensation being examined on the merits and thereby entailed a breach of the right to the effective protection of the courts » (126).
In the typical class action case, there will be no suggestion that the United States court will do anything other than properly and fairly apply US
law (including the US principles of due process under the US constitution) on the permissibility of bringing a class action.
In this regard, one could also certainly argue that the typical United
States action will allow a proper consideration of the claim for compensation and afford the claimant the effective protection of the courts. It
(123) [2004] UK HL 37; [2004] 1 WLR 2241, para 26, p. 2253.
(124) Miragall Escolano and Others vs. Spain (2002) 34 EHRR 24.
(125) Para 37 of the judgment.
(126) Ibid.
DIBATTITI
647
would also certainly be difficult to argue that a United States court had
shown a «. . . flagrant . . . deprivation of an applicant’s rights » (127). Accordingly, although there is no precedent, it may cogently be argued that Article 6(1) of the ECHR would not normally provide a basis for an English
court to refuse to recognise a United States class action judgment.
(H) Cause of action estoppel
Assuming that the conditions for recognition of a US class action
judgment in England are satisfied, there may be a further question as to
whether the causes of action available in the United States and in England are sufficiently similar so as to give rise to an estoppel, should the
claimant seek to sue afresh in the English courts. In Carl Zeiss Stiftung vs.
Rayner & Keeler (128), the court urged caution in the application of the
estoppel doctrine, stressing that it may be very hard to determine whether
a foreign court has decided a particular issue in reaching its judgment. A
court must satisfy itself that the issue in question in the foreign and English courts is identical, that the parties are identical and that the foreign
ruling was final and conclusive.
However, the court in that case was concerned with issue estoppel and
the problem of determining whether a particular issue was conclusively resolved in a foreign court. The major issue in the case of the recognition of
a US class action judgment is likely to be one of cause of action estoppel.
The question is if the United States judgment, otherwise entitled to recognition, creates a cause of action estoppel such as to prevent the matter being litigated afresh in England. Recent case law tends to suggest that the
phrase « cause of action » is broadly construed in this context. In the
House of Lords case of The Indian Grace (129), goods were damaged in
transit. A small amount of the cargo was discarded in France; the remainder was found to be unusable when unloaded in India. An action was
brought in India in personam for short delivery of the cargo discarded in
France. A second action was then brought in rem in the English courts in
relation to the remaining cargo. The House of Lords held that cause of action estoppel prevented the second action, notwithstanding that it concerned a different portion of the cargo. The cause of action was held to be
(127) The language used by Lord Carswell in Government of USA vs. Montgomery (No 2)
[2004] UKHL 37; [2004] 1 WLR 2241.
(128) [1967] 1 AC 753.
(129) [1993] AC 410.
648
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
the same. Nor did the fact that the first action was in personam and the second action was in rem shake the court’s view (130). In short, if the United
States action is otherwise entitled to recognition in England, an English
court may very well conclude that this estopps the claimant from bringing
a fresh action in England on the basis of English rules of procedure.
(J) Judgment in the claimant’s favour
(i) For a sum with which the claimant is not satisfied
Of course, it is possible that the judgment might be delivered in the
claimant’s favour, but for a lesser sum than he had hoped to recover. He
might seek to disregard the United States court’s judgment and instead to
sue afresh in England. Normally, a successful claimant overseas is
estopped from doing so by section 34 of the Civil Jurisdiction and Judgments Act of 1982, which provides that:
No proceedings may be brought by a person in England and Wales or Northern
Ireland on a cause of action in respect of which a judgment has been given in his
favour in proceedings between the same parties, or their privies, in a court in another
part of the United Kingdom or in a court in an overseas country, unless that judgment
is not enforceable or entitled to recognition in England and Wales or, as the case may
be, Northern Ireland.
In the case of a class action where the claimant did not know of the action overseas and was awarded a sum of money with which he is not content, the foreign judgment might be seen effectively as a burden on the
claimant. Accordingly, in such circumstances, it is suggested that the
same principles should apply as where the judgment is given in the defendant’s favour. For the reasons given above, there is a good argument that
such a judgment should be recognised and enforced in England.
(ii) For a sum with which the claimant is satisfied
If the judgment were to be delivered in the claimant’s favour for a sum
with which he is satisfied, then it might not in any event be necessary for
the claimant to seek enforcement in England. The defendant will very frequently have substantial assets in the US which can be foreclosed upon. In
any event, if efforts were made by a claimant who had not participated in
(130) The Indian Grace (No 2) [1998] AC 878.
DIBATTITI
649
the US proceedings but had failed to opt out of the class to enforce the
judgment in England, a strong case for enforcement would exist. A party
who believes that he has been denied natural justice overseas may have the
right to contest a foreign judgment on that basis; but he cannot sensibly be
obliged to do so. If that party nevertheless chooses to rely upon a judgment, he has effectively simply waived any objections to that judgment.
Suppose, however, that the defendant seeks to resist recognition and
enforcement of the judgment against it, on the basis that the US court
had no jurisdictional competence in the eyes of English law over the
claimant, or that the claimant was denied natural justice in the US court.
It is suggested that a defence to recognition of a foreign judgment should
be pleaded by the person relying upon it. If the claimant chooses not to
plead that defence, there is no reason to deny recognition to the judgment. In particular, it would be very curious if the defendant could in such
circumstances seek to resist recognition and enforcement of the judgment
on the basis that the claimants were denied natural justice. For these reasons, a good argument for the recognition and enforcement of the US
judgment exists in such circumstances.
(iii) Settlements in US proceedings
If a settlement is reached in a US class action, it is likely that the proof
of claim form will include a release of the defendant’s liability. If an absent class member in England subsequently accepts the settlement, and
the consequential discharge of the defendant’s liability, the settlement
will then be the product of a consensual agreement between the parties. If
so, then both parties can be viewed as having waived any objections to the
instigation of proceedings in the US court and it seems that the agreement would be enforceable in England (131).
(K) The requisite standard of proof as to whether the US class action judgment would be recognised in England; certification of the class in US proceedings
Irrespective of whether the judgment is delivered in favour of the
claimants or the defendant, a final, important observation concerns the
(131) Of course, if such a settlement is not reached between absent class members and
the defendant, or is not accepted by those absent class members, more involved questions
arise as to the effect of the US judgment in England. These are considered in detail above.
650
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
burden of proof. The possibility that the English court might not recognise a US judgment will normally be insufficient to prevent certification
of the class in US proceedings. This chapter demonstrates that there is
considerable uncertainty as to whether, and in what circumstances, a US
class action judgment would be entitled to recognition and enforcement
in England as against an absent claimant. Cogent arguments for the
recognition of the judgment exist. It would be extremely difficult to contend that it is anything like a certainty, or a near certainty, that the judgment would not be enforced in England. Indeed, no English author has
expressed the view that it is a near certainty that such a judgment would
not be recognised in England (132). This suggests that the high threshold
required in many US states to strike out absent claimants from membership of a class, on the basis that the judgment would not be recognised in
England, will be very difficult to meet (133).
5. – Conclusion
From the above analysis, it has been shown that it is impossible to be
certain on the existing state of English law whether a judgment in a US
class action would be recognised and enforced in England in respect of
absent claimants who did not opt out of the class action. However, a good
case for such a judgment’s recognition and enforcement in England can
be made. This is on the assumption that the United States court is jurisdictionally competent in the eyes of English law over the defendant and
meets the criteria for recognition. Orthodox principles of English law are
concerned with jurisdictional competence over a defendant and not over
a claimant. Nor does an English court normally apply its natural justice
defence to claimants. Even if it were now to do so, the English court
could well conclude that the fact that United States rules of procedure differ from the English law on group and representative actions does not
amount to a denial of substantial justice and does not prevent the recognition of the judgment in England.
Jonathan Harris
(132) Furthermore, as we have seen, there is published support for the view that it
should be recognised.
(133) At least, unless and until there is clear, binding authority as to the position in England.
Would French Courts Enforce U.S. Class Action Judgments?
1. – Introduction
American courts have imported from England (1) the equity concept
of a collective action. Since the early 1800s, the American practice of
« lawsuits filed by one or few plaintiffs on behalf of a large number of people
who together seek a legal remedy for some perceived [common] wrong » (2),
nowadays known as « class actions », has considerably developed.
The current set of provisions governing American class actions is contained in Rule 23 of the United States Federal Rules of Civil Procedure,
which has been enacted in 1938 but was reshaped overtime. Rule 23 was
firstly and mainly amended in 1966, with the definitive abandonment of
the «opt in » procedure in favour of the «opt out » procedure (3), which
granted American class actions their unique feature. More recently, in
2005, the institution was again reformed, in a more restrictive way, with
the enactment of the Class Action Fairness Act. Such reform aimed at
providing remedies to abuses committed by class action lawyers, broadening class action litigants’ access to federal courts, and offering greater
protection for class members’ individual interests (4).
Under Rule 23, one or more individuals, known as class representative(s) or lead plaintiff(s), may bring an action on behalf of a class of persons with similar alleged rights. The class representative(s) must have the
(1) Yeazell, From Medieval Group Litigation to the Modern Class Action, Yale Univ.
Press, 1987, cited in Hensler-Pace-Dombey-Moore, et al., Class Action Dilemmas: Pursuing Public Goals for Private Gain, RAND 2000, p. 10.
(2) Hensler-Pace-Dombey-Moore, et al., Class Action Dilemmas: Pursuing Public
Goals for Private Gain, RAND 2000, p. 3.
(3) Under the «opt in » procedure, individual class members seeking for money damages in the context of a class action were required to affirmatively join the class. Under the
«opt out » procedure, all individuals meeting the class description are included in the class
unless they explicitly withdraw from the class. Before the 1966 Act, the opt out procedure
existed only in class actions for declaratory or injunctive relief (i.e. in environmental, discrimination or other social cases) but it was not allowed in class actions for damages.
(4) In the U.S., most of the critics on class action did not target the institution itself but
rather the modalities of its application, which are the consequences of American procedural tools such as discovery, punitive damages, non professional juries, and the attribution of
class action cases to local courts (instead of federal ones), which elected judges may be motivated by purely local or political interests.
652
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
class certified by a U.S. court so that the members of the proposed class
may be bound by the result of the action. Rule 23(a) requires, as prerequisites for certification of a class action, that (1) the class be so numerous
as to render joinder of all members impracticable, that (2) the questions
of law or fact be common to the class, that (3) the claims or defenses of
the representative parties be typical of the claims or defenses of the class,
and that (4) the representative parties fairly and adequately protect the interests of the class.
Once certification is obtained, the action proceeds as a class action
and includes all similarly situated individuals, known as « class members »,
who, upon notice of the action through a combination of mails, publications in newspapers, postings on wire services or on the Internet, do not
choose to withdraw (or to «opt out ») from the class.
France does not – or not yet – have an American type of class action
institution. A controversial debate has however arisen as to the necessity
to adopt in France a similar device since the French President made public, during his 2005 New Year speech to the nation, his intention «to propose an amendment of the law so as to allow consumers’ group and their associations to bring collective actions in courts against abusive practices observed on certain markets » (5). The EC Commission Green paper on Damages Actions for Breach of the EC Antitrust Rules has added to the discussion by stating that «It will be very unlikely for practical reasons, if not
impossible, that consumers and purchasers with small claims will bring an
action for damages for breach of antitrust law. Consideration should therefore be given to ways in which these interests can be better protected by collective actions. Beyond the specific protection of consumer interests, collective
actions can serve to consolidate a large number of smaller claims into one action, thereby saving time and money » (6).
Apart from that debate, it is noticeable that, in recent years, with the
growing business globalisation trend, some American class action lawyers
have started to appeal to classes including European class members. Moreover, with the increasing number of international financial scandals, many
securities class actions have involved European multinationals as defendants. However, apart from securities cases, American practice of class actions covers a wide range of collective damage cases, including consumer
(5) Declaration of President Jacques Chirac, New Year address to the Nation, 4 January
2005 (www.elysees.fr).
(6) Green Paper Damages actions for breach of the EC antitrust rules, http://europa.eu.int/comm/competition/antitrust/others/actions_for_damages/gp_en.pdf.
DIBATTITI
653
cases, mass torts cases (such as asbestos, tobacco, drugs, breast implants or
environmental cases), employment cases (discrimination cases) and civil
rights cases, which may involve French class members or defendants.
The issue of whether an American class action judgment could be
recognised and enforced in France, which has not yet been referred to any
French judge (7), is of practical importance for two reasons.
First, in the context of class certification, an American court will certify a class only if it has some guarantee that the class action judgment may
be enforced against the foreign defendants and may have res judicata
against all foreign class members. Indeed, under Bersch vs. Drexel Firestone, Inc. (8), the test for an American court to certify a class including
non-American class members is that there be a «near certainty » that the
foreign legal system at stake will grant the American judgment with a
binding effect upon its citizens. Absent such near certainty, the American
court will exclude the foreign members from the class.
Second, a class action judgment obtained in the U.S. may be relied
upon before a French court, either by the defendants in seeking to dismiss a similar claim brought in France by an absent class member, or by
absent class members seeking to enforce the judgment against defendants
having assets in France.
Under French law, absent any applicable bilateral or multilateral convention, recognition of a foreign judgment needs to be endorsed by a
court decision known as exequatur (9). Such decision of exequatur is a necessary condition for a party to avail itself of the two legal consequences
resulting from recognition, which are res judicata (10) and enforcement.
(7) Such fact is not yet very surprising since more than 90% of American class actions
get resolved by way of amicable settlement.
(8) Bersch vs. Drexel Firestone, Inc., 519 F.2d 974, 996 (2nd Cir. 1975).
(9) Under French law, all “patrimonial” and “declarative” judgments (i.e. judgments of
a patrimonial nature, which effect is to proclaim an existing right) require a decision of exequatur from a French court so that they may be granted res judicata and/or enforcement in
France. The only exception to that requirement of an exequatur applies to “extra-patrimonial” judgments (i.e. judgments related to state and capacity of individuals) and to “constitutive” ones (i.e. judgments creating a new legal situation such as those opening insolvency proceedings against a company or pronouncing a divorce). Indeed, those judgments are
granted a de plano res judicata effect. However their enforcement still require a decision of
exequatur.
(10) Under Article 1351 of the French Civil Code, the res judicata effect only applies to
the subject matter of a dispute. In other words, said effect may be invoked only if the
claims had the same object and cause, and if they were raised between the same parties and
in the same capacity.
654
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
The conditions for the recognition and enforcement are those provided
by French general principles of Private International Law, as set forth by
the Munzer vs. Munzer (11) and Fairhurst vs. Simitch (12) cases.
The Munzer case marked the abandonment of the “revision” of foreign
decisions, whereby French courts used to refuse to recognize a foreign
judgement if they would have reached a different solution, whether in fact
or in law. Such method, which obliged parties to retry their case, was contrary to the internationalist spirit, which now characterises French Private
International Law.
The policy lying behind Munzer is that the foreign judgement deserves
respect as such. Indeed, it now suffices for the foreign judgment to be recognized and enforced in France that the five following conditions be met:
(I) the foreign court must have indirect jurisdiction over the case (« compétence indirecte »), which condition has, as we shall see, been substantially alleviated by the French Supreme Court in the Simitch case; (II) the foreign proceedings must have been conducted in a regular manner; (III) the
foreign judge must have applied the law designated by the French rules
on conflicts of laws; (IV) the foreign judgment must not be contrary to
the French conception of international public policy; and (V) the foreign
judgment must not have been obtained by fraud.
We will analyse in turn each of those conditions, as applied to the hypothesis of a U.S. Class action judgement.
2. – The U.S. Court’s Indirect Jurisdiction
French case law used to require, as a condition for recognition, that
the foreign court have jurisdiction over the case according to the French
rules of conflicts of jurisdiction. Such test has been substantially alleviated in Fairhurst vs. Simitch (13), whereby the Supreme Court held that the
foreign court's requirement of indirect jurisdiction is satisfied if the three
following conditions are met: (A) the case does not fall within the exclusive jurisdiction of a French court, (B) the case is linked in a « characterized manner » («lien caractérisé ») to the foreign forum, and the choice of
(11) Cass. Civ., 1st Sect., 7 January 1964, Munzer vs. Munzer, Grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed., 2001, p. 367 ss.
(12) Cass. Civ., 1st Sect., 6 February 1985, Fairhurst vs. Simitch, note by Ancel and Lequette, Grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed., 2001, p. 638 ss.
(13) Cass. Civ., 1st Sect., 6 February 1985, Fairhurst vs. Simitch, note by Ancel and Lequette, Grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed., 2001, p. 638 ss.
DIBATTITI
655
the foreign court has not been fraudulent (such condition is also provided
by Munzer and will be dealt with in Section V hereinafter).
A. No Exclusive Jurisdiction of French Courts Over the Case
When ruling on the recognition and enforcement of a U.S. judgement, French courts will first verify that they had no exclusive jurisdiction
over the case.
Such exclusive jurisdiction could be based on the parties’ will. For example, in a securities class action, the defendant company’s bylaws could
possibly provide for an exclusive choice of forum clause. Exclusive jurisdiction of French courts could also possibly be provided by the law, depending on the subject matter of the dispute. In France, such statutes exist, for example, for real estate issues (14), bankruptcy proceedings15,
labour law (16), patents (17), capacity (18) and wills (19).
Yet, the most likely argument that could be raised against the recognition of an American class action judgment would rely on the privileges of
jurisdiction conferred by French law on its nationals. Indeed, even absent
any link between the dispute and the French forum, French claimants and
(14) Pursuant to Article 44 of the French Code of Civil Procedure, disputes relating to
real estates are subject to the jurisdiction of the courts of the place where the estate is located.
(15) Article 1 of the Decree n°85-1388 of 13 December 1985 provides that the courts of
the place where the company has its registered offices or, absent registered offices in
France, the courts of the place where the company has its main establishment, have jurisdiction to hear disputes relating to bankruptcy proceedings.
(16) Pursuant to Article R. 517-1 of the French Labour Code, employment disputes are
subject to the jurisdiction of the Labour Court of the place where the employee performed
his work.
(17) Articles L. 615-17 and R. 631-1 of the French Code of Intellectual Property grant a
limited number of French courts, which are designated by Decree, with exclusive jurisdiction to hear disputes relating to patents.
(18) Pursuant to Articles 1046 ss. of the French Civil Code of Procedure, disputes relating to status and legal capacity shall be brought either before the courts of the place where
the record of civil status has been issued, or before the courts of the place where the interested party has established his residence.
(19) Pursuant to Articles 822 of the French Civil Code and 45 of the French Code of
Civil Procedure, disputes relating to wills are subject to the law of the place where the proceedings for the settlement of the estate were opened. Article 110 of the French Civil Code
adds that the place where the proceedings for the settlement of the estate are opened is determined pursuant to the domicile of the deceased, which, according to French case law,
corresponds to his last domicile.
656
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
defendants are respectively provided, by Articles 14 and 15 of the French
Civil Code, with a privilege to sue or be sued before French courts due to
their French nationality. Such privileges apply to both individuals and legal entities (20).
Privileges of nationality are set aside by many bilateral conventions on
the recognition and enforcement of foreign judgments, as well as by the
Brussels Convention of 1968, the Lugano Convention of 1988, and EC
Regulation 44/2001 (21).
In the context of a class action, the issue of nationality privileges
should first be dealt with in respect to the defendant, and second with respect to the absent class members.
a. Defendants’ Privilege
Article 15 of the French Civil Code (22) provides that French nationals
“may” be sued before French courts, even in cases where the cause of action has no link with France. Although Article 15 literally provides for a
mere possibility for French courts to retain jurisdiction over a case involving a French defendant, French case law has for long construed that provision as setting an exclusive jurisdiction of French courts (23).
Assuming that the defendant company is a French company, and that
class members would seek to obtain enforcement of the U.S. class action
judgment in France, the French company could therefore try to invoke
Article 15 to oppose such petition.
b. Absent Class Members’ Privilege
Article 14 of the French Civil Code (24) provides that a French citizen
may bring proceedings against a foreign defendant before French courts,
(20) Cass. Civ., 1st Sect., 3 June 1986, n° 84-17880.
(21) Article 3 of those Conventions expressly state that the provisions of Articles 14 and
15 of the French Civil Code are not applicable against persons domiciled in Contracting
States.
(22) Art. 15 of the French Civil Code states that French persons may be summoned before French courts for obligations contracted by them in a foreign country, even with an
alien.
(23) Mayer, Private international law, Montchrestien, 8th Ed., 2004, p. 272.
(24) Article 14 of the French civil Code provides that an alien, even if not residing in
France, may be summoned before French courts for the fulfilment of obligations contracted
by him in France with a French person; and that an alien may be summoned before French
courts for obligations contracted by him in a foreign country towards French persons.
DIBATTITI
657
even for obligations contracted by such defendant in a foreign country.
Like for Article 15, French courts have for long construed such provision
as setting an exclusive jurisdiction of French courts. A French absent class
member could therefore seek to oppose the recognition of the U.S. judgment by arguing that the res judiciata of such decision deprived him of his
“exclusive” right to sue in France.
Article 14 should not, normally, be applied in the context of the recognition of a foreign decision since, where a French claimant submits a
claim to a foreign court, he is deemed to have waived the privilege of Article 14 by suing abroad and he is thereafter estopped from invoking that
provision to challenge the validity of the foreign judgment rendered
against him. Yet, one could argue that the position of an absent class
member (i.e. of an individual who will be part of the class without any
positive action but merely because he meets the class description and did
not opt out from the class) is peculiar because he never gave his consent
to be part of the class and to be represented by the class representative.
From that perspective, the argument could be made that an absent class
member should be treated, with regard to his right to sue in France, as if
he were a defendant. On such basis, it could be imagined that a French
absent class member would object to the recognition of the U.S. judgment on the ground that such judgment frustrated his right to pursue the
same cause of action against the defendants in France.
The issue will then be whether the privileges of Articles 14 and 15 apply in the context of recognition of a foreign judgment, and, in the affirmative, whether the privilege raised by the defendant or by an absent
class member may be waived.
c. Should Articles 14 and 15 be Applied in the Recognition Context?
There always was an issue as to whether Articles 14 and 15 should be
applied in the context of a French court ruling on the indirect jurisdiction
of a foreign court’s decision. Indeed, apart from the fact that, as seen
above, the wording of those Articles merely provides for an optional
ground for jurisdiction of French courts, the use of French nationals’ privileges in the context of recognition and enforcement of a foreign decision,
which would be compliant with all other Munzer requirements, characterises a major distrust of the French system towards regularly rendered
foreign legal decisions.
The French Supreme court had, until now, consistently ruled that the
privilege provided by Article 15 of the Civil Code in favour of French de-
658
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
fendants was to be interpreted as setting an exclusive jurisdiction of
French courts, and could therefore be invoked by French defendants to
oppose the recognition and enforcement in France of a foreign decision.
Said case law has been strongly disapproved by French scholars. As
Prof. Huet rightly wrote: «all contemporary scholars consider that Article 15
only sets a rule of direct jurisdiction in favour of the claimant, and not in
favour of the French defendant. They all denounce its transformation by case
law into a rule of indirect jurisdiction [i.e. a rule on the basis of which a
French judge, ruling on the recognition of a foreign judgment, assesses
whether the foreign court had jurisdiction according to his own rules on
conflict of jurisdiction] and all the evil which derives from this in international judicial cooperation » (25). Professor Audit also considers that «Article 15 [. . .] only permits to initiate [. . .] an action before French courts against
a French national; nothing authorizes to construe this rule as a rule of indirect exclusive jurisdiction. [. . .]. From a practical point of view, the appropriateness of [making a rule of indirect jurisdiction out of a] a privilege of jurisdiction is also highly debatable. [Such privilege] establishes a discrimination in favour of French justice in international relations and could dissuade
a well-informed foreigner from dealing with a French citizen. There are very
few examples of [similar privilege] in comparative law (it was abandoned in
Germany [and Italy]) and it is set aside, with regard to France, by many treatises relating to the recognition and enforcement of judgments. Certainly,
there are in the world countries which judicial practices are open to criticism,
but there are other means to ensure a party’s defense, amongst which the control of the jurisdiction [of the foreign judge] exercised on the basis of true criterions instead of a systematic denial of the foreign jurisdiction in respect of
French defendants. Another mean to avoid the consequences of undesirable
case law lies in the concept of procedural public policy » (26).
Endorsing French scholars’ position, the Paris Court of Appeal had
rendered, years ago, innovative decisions, which denied French defendants the right to use Article 15 as a ground for refusal of recognition of a
foreign judgment. Even though they were overruled, said lower courts’
decisions apparently paved the way for a reversal of precedent (27).
(25) Huet, note under Cass. Civ., 1st Sect., 5 May 1976 and Trib. Paris, 20 May 1976, in
RCDIP, 1977, p. 144.
(26) Note by Audit under App. Court Paris, 22 November 1990, in Dalloz, 1992, Somm.
p. 169; see, in the same direction: Droz, Réflexions pour une réforme des articles 14 et 15 du
code civil français, in RCDIP, 1975, p. 18 ss.
(27) App. Court Paris, 22 November 1990, in Dalloz, 1992, Somm. p. 169, note by Audit;
App. Court Paris, 15 November 1991, in Dalloz, 1992, IR p. 62.
DIBATTITI
659
Indeed, the French Supreme Court has, in a very recent case dated 23
may 2006, (28) finally reversed its prior case law by ruling that: «Article 15
of the French Civil Code only provides for an optional jurisdiction of French
courts, which is unfit to exclude the indirect jurisdiction of a foreign court so
long as the dispute is linked in a characterized manner to the State, which jurisdiction is seized, and so long as the choice of that jurisdiction is not fraudulent”. This decision, which has been given the maximum level of publicity (29), is meant by the Supreme Court to set forth a principle that will
have controlling authority in all cases where the recognition of a foreign
judgment is at stake. Moreover, the decision comes back to a literal interpretation of Article 15, which language only provides for an optional, and
not an exclusive, jurisdiction of French courts. By implication, the decision similarly rules out Article 14 of the French Civil Code as a ground for
barring recognition of a foreign judgment (30).
Articles 14 and 15 of the French Civil Code should therefore no longer
be obstacles to the recognition and enforcement in France of an American
class action judgment. We will nevertheless, for the sake of completeness,
examine how the issue of waiver to Articles 14 and 15 would be dealt with
in the context of an action for recognition of a U.S. class action in France.
d. Waiver of the Privilege
French rules on privileges of jurisdiction are not mandatory and may
be waived.
In respect to the defendant, the waiver can be inferred from a failure
to challenge the U.S. court’s jurisdiction. French case law considers that a
defendant who appears before a foreign court without raising an objection
for lack of personal jurisdiction is deemed to have waived his right under
Article 15 (31). Yet, French case law does not require the defendant who
(28) Cass. Civ., 1 st Sect., 23 May 2006, Prieur vs. Montenach, n° 04-12777.
(29) P + B + R + I: “P” means that the case is published in the «Bulletin des arrêts de la
Cour de cassation », “B” means that it is published in the «Bulletin d’information de la Cour
de cassation », “R” means that it is published in the «Rapport annuel de la Cour de cassation » and finally “I” means that the case is posted online on the website of the French Cour
de cassation amongst the Grands arrêts de la Cour de cassation (i.e. the greatest cases of the
Cour de cassation).
(30) Although, as seen above, the use of Article 14 in the context of indirect jurisdiction
was very rare since by referring a case to a foreign court a French claimant was presumed to
have waived its privilege.
(31) Cass. Civ., 1st Sect., 25 October 1966, Hochapfel vs. Ghebali, in Bull., 1966, I, n° 481;
Cass. Civ., 1st Sect., 2 May 1979, Verdier vs. Orihuela, in RCDIP, 1980, p. 362; Cass. Civ., 1st
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wishes to preserve its right to the privilege of jurisdiction to expressly invoke Article 15; a general denial of the jurisdiction of the foreign court
will suffice to preserve his right (32). There may be some uncertainty, however, when the objection to the U.S court’s jurisdiction is raised in a restrictive way, exclusively with regard to the subject matter of the dispute
and not with regard to the foreign court’s personal jurisdiction.
In respect to the absent class members, the question is more complex.
The issue will be whether, by remaining silent after having received notice of
the action, the absent class member waived its right to the “exclusive” jurisdiction of French courts, as provided by Article 15 of the French Civil Code
against non-E.U. defendants (33). This question is debatable. The situation
of an absent class member could be compared to that of a defendant who
failed to appear before the court. French case law is, however, divided on the
issue of whether the failure of a defendant to appear before a foreign court is
equivalent to a waiver of its privilege of jurisdiction. The Paris Court of Appeal replied affirmatively to that question in a 30 January 1975 decision (34),
then overruled by a Supreme Court’s decision dated 5 May 1976 in the same
case (35), while the Paris Tribunal (which is authoritative in international
matters) again ruled in the affirmative in a subsequent case (36). However,
considerations of good faith should lead to consider that a person who received notice of the action and failed to react – for example, in the hope that
the action may prove beneficial – should not be allowed to oppose the
recognition of the U.S. judgment. Ultimately, it is the French court’s assessment of the effectiveness of the notice, which is likely to determine its decision in respect of the recognition in France of the U.S. judgment.
B. The Link Between the Dispute and the United States
Under Simitch, it is sufficient for the U.S. court to have jurisdiction
that there be a «characterized link » between the case and the foreign forum seized (i.e. the United States), irrespective of the fact that another
court may also have jurisdiction on the same facts.
Sect., 15 November 1983, Schenk vs. Banque Nationale d’Algérie, n° 82-12626; Cass. Civ., 1st
Sect., 15 November 1994, X vs. Y, n° 92-18971.
(32) Cass. Civ., 1st Sect., 13 June 1978, unpublished.
(33) No such privilege being in force against E.U. defendants pursuant to the Brussels
Convention of 1968, the Lugano Convention of 1988 and the EC Regulation 44/2001.
(34) App. Court Paris, 30 January 1975, unpublished.
(35) Cass. Civ., 1st Sect., 5 May 1976, in RCDIP, 1977, p. 144, note by Huet.
(36) Trib. Paris, 20 May 1976, in RCDIP, 1977 p. 144, note by Huet.
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There are no precise criteria to define such « characterized link » between the case and the foreign forum. Thus, the judge will proceed to a
global assessment of the circumstances of the case, using the so-called
method of the grouping of connecting factors.
French courts adopt a rather liberal interpretation of the characterized
link requirement. In French law, the test is not whether the foreign court
was an appropriate forum, but whether it was not inappropriate in the eyes
of French law (37). In other words, the Simitch test (as opposed to the previous Munzer test) does not require the French judge to verify that the foreign judge had jurisdiction according to the French rules of conflict of jurisdiction, but only that the case had sufficient connections with the foreign forum, so that the foreign court’s exercise of jurisdiction was not inappropriate.
In a securities class action, the fact that some allegedly false and misleading pieces of information were disseminated on the NYSE could, for
instance, be interpreted as a sufficient link with the U.S. forum. Similarly,
in a drug mass tort case, the fact that the deficient drugs were manufactured or advertised in the U.S., or that some of the victims were American, could be regarded as a sufficient link.
Lastly, it must be noted that under the Alien Tort Claims Act (38), U.S.
courts have jurisdiction to rule on any civil action brought by an alien on
the ground of a tort committed in violation of the law of nations or a
treaty of the United States. Such Act provides U.S. courts with a kind of
« universal jurisdiction » in cases involving human rights violations or environmental violations, as soon as rules seen by the American forum as
«commanding the general assent of civilized nations » (39) are infringed,
even absent a material link with the U.S. forum. Whether such mere
“moral” link, resulting from a sort of duty to interfere, would be sufficient
in the eye of a French court to recognise the U.S. court’s indirect jurisdiction is more questionable.
3. – The Regularity of the Proceedings Conducted Abroad
According to Munzer, the judge requested to enforce a foreign judgment needs to verify that the proceedings before the foreign court were
(37) Ancel-Lequette, Les grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed.,
2001, p. 651.
(38) 28 USCA § 1350.
(39) Filartiga vs. Pena-Irala, 630 F.2d 876 (2d Cir. 1980).
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regular. The scope of such verification is, however, limited. The Supreme
Court has in fact ruled, in Bachir vs. Bachir (40), that «the regularity of the
proceedings before the foreign judge is to be valued exclusively in respect to
the requirements of French international public policy and to the requirements of due process ».
Thus, what matters is not the compliance by the foreign judge with its
own rules of procedure, but the acceptability of the foreign proceedings
with regard to the French conception of a good administration of justice.
In other words, the condition of regularity of the foreign proceedings is
absorbed by that of compatibility of the proceedings with the French conception of international procedural public policy. In that respect, the fact
that class actions are not allowed in France will not be sufficient to bar the
recognition and enforcement in France of the U.S. judgment.
The requirement of procedural regularity has two aspects.
First, the judge has to verify that the decision which “exequatur” is
sought qualifies as a judgment according to the foreign applicable law,
and that it is enforceable in the country of origin.
Second, the foreign proceedings have to comply with the French conception of due process, which basically means that each party must have a
fair opportunity to present its case and to respond to the other’s arguments (see below Section IV on international public policy).
4. – The Application by the U.S. Court of the Substantive Law Designated by
the French Conflict of Laws Rules
The third Munzer condition requires the foreign court to apply the
substantive law designated by French rules on conflict of laws.
It must be noted that, in practice, French courts almost never apply
such requirement as a ground for refusing the recognition or enforcement
of foreign courts decisions. As Prof. P. Mayer writes, «it is extremely rare
that a refusal of enforcement of a foreign judgment be based on [the condition that the foreign judge applied the law designated by French rules of
conflict] [. . .]. The review of the law applied by the foreign judge is nowadays
harshly criticized by many scholars. In fact France is amongst the very rare
countries, which impose that condition [. . .], and many international treaties
exclude it. [. . .] It is perfectly possible, as shown by a comparative private international law analysis, to assess whether a foreign judgment can be en(40) Cass. Civ., 1st Sect., 4 October 1967, Bachir vs. Bachir, Grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed., 2001, p. 413 ss.
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forced without caring about the law applied by the foreign judge and his reasoning. [. . .] Generally speaking, conflict rules are not mandatory, as they only express an assessment as to the localisation of a particular situation,
which assessment may with no inconvenience be replaced by another one. [. . .]
Therefore, there is no reason in theory to impose, on a general basis, a review
of the application by the foreign judge of the applicable law » (41).
The choice of law requirement must, however, still be taken into account. Yet, it is substantially alleviated by the fact that French law admits
an exception to the rule when there is substantial equivalence between
the law applied by the foreign judge and French law, i.e. when the application of French law would have led to a substantially equivalent outcome (42). What matters in this respect is not that the procedures be identical in the two jurisdictions, but that their outcome be of the same nature,
i.e. that they lead to a possible civil liability and to an obligation to compensate the loss suffered by the aggrieved parties (43).
In other words, a law according to which a certain fact is considered to
be lawful would not be considered as equivalent to a law according to
which the same fact is unlawful. To the contrary, two laws qualifying the
same fact as unlawful would be considered equivalent, even though the
procedures to obtain a declaration of liability of the party having committed such fact may differ.
Likewise, it should not, in our view, be considered that the foreign
and French law are not equivalent on the sole basis that one would qualify the defendants’ liability as contractual, while the other would qualify it
as tort. As stated above, the concept of equivalence refers to an equivalence of the solutions, and not to an equivalence of the qualifications. As a
consequence, a tort action could be considered as equivalent to a contractual action, provided that they both lead to the same result. Finally, the
fact that the amount of damages granted in the two jurisdictions may differ is similarly irrelevant, as long as no punitive or exemplary damages are
granted by the U.S. court (44). It should be recalled, in this respect, that
French law considers loss assessment as a matter left to the sovereign valuation of the judges of the merits, which is not therefore subject to the
(41) Mayer, Private international law, Montchrestien, 8th Ed., 2004, pp. 282-283.
(42) Req. 29 July 1929, Drichemont, Dalloz, 1929, Jur. p. 458.
(43) App. Court Paris, 4 February 1958, in RCDIP, 1959, p. 380; App. Court Paris, 8 May
1980, in RCDIP, 1981, p. 700.
(44) The issue of punitive damages will be analysed in more details in the section of this
article on public policy.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Supreme Court’s review (45). Likewise, there is no reason to allow French
judges to review the assessment made by a foreign judge in respect to
damages.
5. – The Conformity of the U.S. Class Action Judgement With the French
Conception of International Public Policy
The main objection, which is likely to be raised against the recognition of a U.S. class action judgment is its purported contradiction with
French principles of public policy.
Based on the Munzer test, French courts may set aside a foreign judgment where the recognition and enforcement of the judgment would be
contrary to the French conception of international public policy. There is
no precise definition of what international public policy is, as this concept
may evolve over time depending on the values that the French forum
wants to protect.
The concept of international public policy is actually twofold. Indeed,
one must distinguish between rules of substantive public policy and rules
of procedural public policy.
Regarding substantive rules, the concept of public policy is construed
in a restrictive manner. As a consequence, France may tolerate situations, which would be contrary to French domestic mandatory rules,
when such situations have been created abroad without fraud. The
Supreme Court accordingly held, in Rivière vs. Roumiantzeff, that: «the
reaction [of the forum] against a provision contrary to public policy differs
when such provision relates to a right to be acquired in France, or to the effects in France of a right acquired without fraud in another country, in accordance with the law competent pursuant to French rules of private international law » (46). In other words, international public policy may only bar
the recognition of a foreign judgment in France in situations involving
breaches of the most fundamental principles (theory of the « effet atténué
de l’ordre public »). In the field of torts, the French Supreme Court has
accordingly determined that «foreign rules on torts are not contrary to the
French conception of international public policy merely because they differ
from mandatory provisions of French law, but only insofar as they infringe
(45) Cass., Ass. Plen., 26 March 1999, n° 95-20640; Cass. Com. 19 October 1999, n° 9712554; Mixed Chamber, 6 September 2002, n° 98-14397.
(46) Cass. Civ., 1st Sect., Rivière vs. Roumiantzeff, 17 April 1953, Grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed., 2001, p. 690 ss.
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principles of universal justice considered in the French conception as having
universal value » (47).
In the context of a U.S. class action, the issue will therefore be
whether a French court would hold that the class action mechanism hurts
fundamental principles of French law.
It should first be analysed whether class actions should per se be considered as incompatible with French legal tradition (a). Then, specific arguments shall be addressed. One should notably wonder whether the class action mechanism infringes the principle of the parties’ equality (b) and
whether recognition of such action would violate the French rules prohibiting « regulatory judgments » («arrêts de règlement ») (c) and contingency
fees (d). Three further possible – and maybe more critical – objections
against recognition of a U.S. class action lie in the fact that class members
would be deprived of their individual right of justice (e), in the French principle «nul ne plaide par procureur » (f), and in the principle according to
which only direct and foreseeable damages may be compensated (g).
a. The Compatibility of the Class Action Mechanism With French Legal
Tradition
As said above, although there is currently a debate on their possible
introduction, class actions similar to those provided by Rule 23 of the
U.S. Federal Rule of Civil Procedure do not exist in France. Nevertheless,
the mere fact that such actions do not currently exist in French law does
not make them incompatible with our legal tradition.
It should be noted, in this respect, that the principle according to
which a plaintiff is allowed to represent a group of individuals is not totally unknown in France. There are situations, under French law, in which it
is admitted that a legal action be brought in court in the name of individuals who did not individually and expressly consent to it.
The main example of such tendency may be found in the field of
labour law. French law indeed allows, in specific situations (Article L. 1223-16 of the French Labour Code (48)), trade unions to initiate actions in
(47) Cass. Civ., 1st Sect., Lautour vs. Guiraud, 25 May 1948, Grands arrêts du droit international privé, in Dalloz, 4th Ed., 2001, p. 239 ss.
(48) Article L. 122-3-16 of the French Labour Code (the same rule is also enshrined in
Art. L. 125-3-1, L. 124-20, L. 123-6, L. 321-15, L. 341-6-2, L. 135-4, L. 721-19) provides that
trade unions may initiate an action in court on behalf of an employee without being authorized by proxy to do so. The employee must be informed of the action by notice in the
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the individual interest of employees with no requirement of a written authorisation from the same, provided that (i) said employees have been informed of the action, (ii) they have not objected to the action being
brought on their behalf, and (iii) they are identified or identifiable.
Those actions are considered, under French law, as protecting both
the individual and collective interests of employees. The French Constitutional Court ruled, on 25 July 1989 (49), that said trade unions’ actions
are not contrary to the French Constitution, provided individuals are duly informed of the action and have the possibility to oppose it.
Another action of a collective nature exists in the field of IP law. Article L. 321-1 of the Code of Intellectual Property (50) provides that professional associations of authors and artists (such as the Société des Auteurs
Compositeurs et Editeurs de Musique – SACEM (51) have the right to act in
court on behalf of the interests of their members. In application of said
law, the SACEM may for instance request an attachment in guarantee of
amounts due as copyright to an artist (52). However, the SACEM brings
the action by virtue of an assignment of its members’ copyright (53), and
not as a trustee or agent (54).
French consumer law also provides for four a variety of collective actions, which may to a certain extent be compared to class actions.
Pursuant to Article L.421-1 of the Consumer Code (55), consumer as-
form of a registered letter and must not oppose the action within 15 days from the notice.
The employee may always intervene in the action and end it at any time.
(49) Constitutional Court, 25 July 1989, n° 89-257 DC.
(50) Article L. 321-1, second paragraph, of the French Intellectual Property Code (formerly Article 38 of the 3 July 1985 law), provides that duly established associations are entitled to take legal action to defend the rights for which protection they have been constituted. Article L. 331-1, second paragraph, of the same Code (formerly Article 65 of the 11
March 1957 law), also provides that entities regularly constituted to protect professional interests are entitled to institute legal proceedings to defend the interests entrusted to them
by their statutes.
(51) In respect of the SACEM, it is generally held that authors assign their rights to it. As
a consequence, it should be considered that, when it acts in the name of an artist, the
SACEM also does so in its own name, and not only as its assignee.
(52) Cass. Civ., 1st Sect., 10 February 1987, n° 85-12074.
(53) Article 17 of the SACEM’s bylaws provide that each member of the SACEM, by adhering to its bylaws, acknowledges the SACEM’s right to bring an action in court for any
dispute arising out of the exploitation of its works as well as in respect of any dispute concerning the collective interests of its members.
(54) Cass. Crim., 20 June 1990, n°86-92597; Cass. Crim., 29 March 1990, n° 86-93349.
(55) Under that Article, duly declared associations, which purpose is to protect con-
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667
sociations may exercise a civil action to obtain compensation for the injuries caused by criminal offences to the collective interests of consumers.
However, the damages obtained in such action will be allocated exclusively to the association and not to the individual victims. Under Article
L.421-6 of the Consumer Code, consumer associations may exercise an
action to enjoin a party from pursuing an illicit behaviour or to obtain an
order to suppress an illicit contractual clause (56). Yet, such action does
not provide for a compensation mechanism in favour of the aggrieved
consumers. Another available procedural device enabling consumers association to sue for the protection of the collective interests of consumers
is, pursuant to Article 421-7 of the Consumer Code (57), the right of intervention, which permits consumers associations to join in a civil action
brought by individual consumers for the compensation of their damages.
Yet, the consumer action closest to class actions is the « joint representation » provided by Article L. 422-1 of the Consumer Code (58), which
enables approved associations to take legal action on behalf of at least two
consumers to obtain damages for losses individually suffered by the
same. The main difference with U.S. class actions is that the « joint representation » action requires the association to be given written proxies to
act on behalf of the concerned individuals. In practice, such action proved
to be inefficient due to its large costs, to the impracticability of the management of individual mandates, and to the difficulty to collect them
since the only permissible means to solicit the mandates is by press. Such
sumer interests, may exercise the rights conferred upon civil parties in respect of events,
which directly or indirectly prejudice the collective interest of consumers.
(56) Said article provides that the associations mentioned in article L. 421-1 and other
organisations included in the list published in the Official Journal of the European Communities pursuant to article 4 of directive 98/27/CE of the European Parliament and Council related to consumer protection may take legal action to obtain an injunction to stop or
prohibit any illicit action in respect of the provisions transposing the directives on consumer protection.
(57) Under that Article, the associations mentioned in article L. 421-1 may intervene, by
notably requesting the application of the measures provided by article L. 421-2, in proceedings brought by one or more individual consumers before civil courts to obtain compensation for damages they suffered due to torts that do not qualify as criminal offences.
(58) Under that article, where several individuals suffered damages caused by the same
action, any approved national representative association may, if its has been duly authorised in writing by at least two of the consumers concerned, institute legal proceedings to
obtain compensation before any court on behalf of such group of consumers. The mandate
may not be solicited by means of a public appeal on radio or television, nor by means of
posting of information, by leaflets or personalised letters.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
situation brought the French Senate to issue a report envisaging the possibility of the introduction in France of a true class action mechanism (59).
Although it is not clear whether French law will adopt a class action
device similar to that in force in the United States, there is undeniably a
trend towards broadening the availability of representative actions. Thus
the fact that a person may act in court on behalf of one or more individuals should not, in itself, be deemed contrary to the fundamental principles
of our legal tradition.
b. The Principle of the Parties’ Equality
Another argument that could be raised against class actions is their
contrariety with the defendant’s right to a fair trial. Indeed, while claimant
knows who it is litigating against, defendant ignores the identity of each
individual member of the class. Such situation would therefore be in
breach of the principle of equality of parties (which is protected by Article
6 of the ECHR).
The argument, however, disregards the specific nature of the class,
which consists in grouping plaintiffs into a category. As a consequence,
the claimant party that the defendants face in court is the class itself
(through its court appointed representatives and counsel), rather than
each single member of the class. It should be noted, in this respect, that
just like a French trade union is conferred, by French law, a status enabling it to represent a category of plaintiffs, the class is granted a similar
status by the court decision certifying it.
Besides, the breach of the parties’ equality argument may be successfully invoked only where the defendant would, by virtue of its ignorance
of the identity of the class’ single members, have been deprived of an opportunity to raise a defense that would be personal to one of the class
members, such as, for example, contributory negligence. However, such
defenses seem rather unlikely in a class action case.
c. The Prohibition of the So-Called Regulatory Judgments (« Arrêts de Règlement »)
Another possible argument raised against the recognition of a U.S.
class action judgment is that such decision would be contrary to Article 5
of the French Civil Code. Such Article prohibits the rendering of so-called
(59) French Senate’s Report on Class Actions, presided by J.J. Hyest, 14 March 2006,
n° 249.
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« regulatory judgments » («arrêts de règlement »), i.e. judgments, which decide a solution in general and abstract terms and which do not merely refer to the case in dispute. In the meaning of Article 5 of the French Civil
Code, « regulatory judgments » are characterized by the fact that (i) they
are meant to abstractly bind all persons in similar situations (e.g. the consumers, or shareholders in general), and (ii) they are meant to apply to future similar cases (60).
However, as Prof. Frison-Roche rightly puts it, class action judgments
are not « regulatory judgments » in that (i) they do not apply to all persons
in a broadly similar situation (e.g. shareholders in general), but only to a
particular category of the same (e.g. those who purchased the securities of
a particular company during a determined period, during which wrongful
acts were purportedly committed by the managers of said company), and
(ii) they do not apply to future situations: «it appears that decisions defined as regulatory judgments are meant to bind all persons, not only the parties identified in a particular dispute; furthermore, and the criteria is cumulative, they set forth a solution that will govern future situations since such situation will be applied to subsequent cases. Yet, class action judgments do not
apply to future situations; they are very classical jurisdictional acts, which resolve past disputes » (61).
d. The Contingency Fees System
Another argument against the recognition of a U.S. class action judgment is its alleged speculative character. According to that argument, class
actions would essentially benefit the attorneys’ own financial interests.
Undeniably, the contingency fees system is alien to our tradition and is
opened to criticism in many respects. Nevertheless, it can hardly be denied that, on their face, class actions are initiated in the interest of class
members, and not merely in the personal interest of class counsels.
To put it in general terms, the fact that lead counsels are paid on a
contingency fees basis should not be deemed contrary to the French conception of international public policy insofar as such fees compensate a
service effectively rendered in a manner compatible with the local professional and ethical bar rules.
(60) Cass. Soc., 12 May 1965, Bull. 1965, I, n° 371; Cass. Soc., 23 April 1975, n° 74-12439.
(61) Frison-Roche, Les résistances mécaniques du systèmes juridique français à accueillir la
class action: obstacles et compatibilités, in Les Petites Affiches, 10 June 2005, n° 115, p. 22 ss.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
e. The Absent Class Members’ Right to Sue Individually
An argument against the recognition in France of a U.S. class action
could conceivably be that the absent class members were in a way
“forced” to litigate in the United States, thus losing their right to bring
suit individually, which would be contrary to the French conception of international public policy.
As convincing as it may seem, the argument is not without flaws.
First, it cannot be said that absent class members are deprived of their
right to be heard. As a matter of fact, such right is ensured before the U.S.
court. The only difference with an ordinary proceeding is that absent class
members will be represented in court instead of acting in their individual
capacity. However, insofar as there are reasonable grounds to believe that
the absent class members received notice of the action, and had a reasonable opportunity to opt out, it is difficult to see why such situation should
be deemed contrary to their fundamental rights.
It is true, in this respect, that the 25 July 1989 decision of the Constitutional Court (62) requires each represented party in the collective action
to be individually informed of the action, which would imply the receipt
of a personal letter. However, that decision refers to the legal conditions
under which a collective action could be introduced in France, and there
is in our view no reason to believe that French case law would necessarily
set such a stringent standard for the exequatur of a foreign class action
judgment. The conditions pursuant to which the class members of a U.S.
class action will be informed are governed by U.S. law, and there is no
reason to believe that a notice by publication should not be accepted by
the French system as long as it complies with the applicable foreign rules
and it is reasonably sufficient to provide each class member with adequate
information.
In this respect, it should be recalled that notifications by way of publication are not unknown in France. For example, French companies ordinarily communicate with stockholders and inform them of general meetings or changes in material corporate matters through non-individual
postings. Indeed, under French company law, even in case of important
decisions affecting shareholders’ rights and obligations (for example,
changes in the company’s bylaws, changes in the composition of the
board, capital increases or reductions, dissolution of the company) notices to attend the shareholders’ assembly can be made by way of publica(62) Constitutional Court, 25 July 1989, n° 89-257 DC.
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tion (63). We cannot see any reason why French law should permit that
such an important information as the meeting of a shareholders’ assembly
convened to decide an increase of capital be communicated by way of
publication, while requiring that information concerning a class action be
necessarily communicated by individual notice.
More generally, the idea that a party’s right should never be disposed of
without an express declaration of intent is also opened to debate. For example, French law admits that a party be bound by commitments taken
without his consent where his behaviour was such that third parties could
believe that the author of the commitments was his agent (theory of the
«mandat apparent »). In the field of insurance contracts, Article L. 112-2 of
the Insurance Code (64) provides that the insured can be bound by an
amendment or an extension of the insurance contract if it remained silent
after having received a notification from the insurer. It is also admitted, in
French civil law, that a party be bound by its silence if it failed to react to the
notification of an offer made in its exclusive interest (65). Likewise, French
law admits that a party can waive a right by remaining silent (66). Finally, Article 9-1 of the 17 February 1983 Geneva Convention on agency in international sales of goods (67), which has been signed by France, provides that
the mandate given by the principal to the agent may be express or implied,
which does not rule out that silence can be equivalent to an authorization.
In French procedural law, there are also situations in which it is admitted that a person or legal entity be party to a procedure on the basis of
a publication. For instance, Article 656 of the French Code of civil proceedings states that, if it is impossible to notify a writ of summons to the
defendant personally, the notification may be deemed valid if published
for three months at the city hall of the place where the defendant had his
last domicile.
(63) Article 124 of the Decree n° 67-236 of 23 March 1967 provides that notices of
meetings are inserted (i) in the official journal of legal notices of the place where the
company has its registered offices, and also (ii) in the Bulletin of legal notices if the company is listed.
(64) Subparagraph 5 of Article L. 112-2 of the French Insurance Code provides that an
offer made by registered letter to extend or to amend an insurance policy, or to bring a suspended insurance policy contract back into force, shall be deemed accepted if the insurer
does not refuse said offer within ten days after receipt thereof.
(65) Cass. Civ., 1st Sect., 1st December 1969, in Bull., 1969, I, n° 375; Cass. Civ., 1st Sect.,
10 October 1995, n° 93-14227; Cass. Soc., 21 July 1986, n° 84-11626.
(66) Com. 26 January 1993, n° 91-12606.
(67) Article 9-1 of the Geneva Convention.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
French bankruptcy law provides for another comparable example. Articles L. 621-43 of the French Code of commerce and 66 of the 27 December 1985 Decree state that, in case of bankruptcy, the proceedings are published in an official journal (BODACC) and the curator of the bankruptcy
(représentant des créanciers) informs the creditor by letter. Said publication triggers a two months time-limit (four months if the creditor is domiciled abroad) for the creditor to petition for the admission of his credit into the bankruptcy. Failing the creditor to make such petition, the credit is
extinguished. According to consistent case law, if the curator of the bankruptcy fails to inform the creditors personally, the time-limit is nevertheless triggered on the basis of the sole publication in the BODACC, with
the consequence that the right of a creditor – be him domiciled in France
or abroad – to participate in the payments made pari passu by the bankruptcy to all creditors may be extinguished on the basis of his failure to
consult the publication into the BODACC (68). Such situation can be transposed to that of an absent class member. As a matter of fact, the opening
of the bankruptcy can, to a certain extent, be compared, for the creditor,
to the initiation of a lawsuit as it triggers a legal and judicial process for
the admission of the credit in the bankruptcy.
Such examples are of course quite different from the situation of an
absent class member, but they illustrate that the American class actions’
opt out mechanism should not necessarily be deemed incompatible with
the French conception of international public policy on the ground that it
permits the disposal of a party’s right absent a clear expression of such
party’s intent.
Ultimately, the issue is one of representation: may the class representatives validly represent absent class members in court? Given that the issue of representation applies to proceedings before a U.S. court, such
question should be regulated by U.S. law rather than by French law.
In any event, French case law does not consider the jus standi of the
plaintiff in the foreign proceedings to be part of the French conception of
international public policy (69). As a consequence, the lack of jus standi
(under French principles) of the class representatives to represent absent
class members before the U.S. court should not constitute a valid ground
to refuse recognizing the U.S. judgment.
(68) Cass. Com., 11 October 1988, n° 87-12791; Cass. Com., 29 January 1991, n° 89-16421;
Cass. Com., 6 July 1999, n° 97-11191; Cass. Com., 23 January 2001, n° 98-15487.
(69) Supreme Court, Commercial Sect., Bail Marine vs. Vessereau, 10 May 1982, n°8016125; App. Court Paris, 1st Sect. C. Gothaer vs. Taffin, 6 December 2001, n° 00-13409.
DIBATTITI
673
f. The Principle « Nul Ne Plaide Par Procureur »
Another possible argument against the recognition of a class action
judgment is that the class action mechanism would be contrary to the
very old French principle according to which no one is entitled to represent another individual’s interests in court « except the King » («Nul en
France ne plaide par procureur, hormis le roi »).
This principle, however, should not be understood as preventing a
party from representing a class of non-identified individuals in court. The
rule «Nul en France ne plaide par procureur » simply means that a party to
a lawsuit cannot present itself as acting in its own interest when, in reality, it exercises the rights of a third party whose identity is concealed. In other words, the purpose of the principle is to avoid procedural fraud (for instance, to prevent a defendant, who does not know the identity of the real claimants, from invoking specific defenses against those persons). The
Paris Court of Appeal accordingly held, in the context of an action to set
aside an arbitral award, that «the rule “nul en France ne plaide par procureur” requires the owner of the rights which are exercised in court not to
hide himself and to reveal his identity in order not to prejudice the respondent’s defenses which might be linked to his identity, and to avoid procedural
fraud » (70).
In the case of a class action, there is no concealment of the nature of
the action since the defendant knows that the lead plaintiffs represent the
class members. Class actions are in fact allowed by U.S. courts on the prerequisite, among others, that the claims or defenses of the representative
parties be typical of those of the class.
In addition, the principle «nul ne plaide par procureur . . .» relates to
the capacity of the plaintiff (71), and is not part of the French conception of
international public policy (72). The principle therefore only applies in do-
(70) Paris, 1st Sect. C. Syrian Arab Republic vs. AAO Golan, 19 June 2003, Les cahiers de
l’arbitrage, Vol. II, July 2004, p. 343; see also App. Court Paris, Gothaer vs. Kansa, 6 December 2001, n° 00-13406; App. Court Montpellier, Piquet vs. Commune de Belveze du Cazes,
26 June 1991, Unpublished; App. Court Aix-en-Provence, Marseillaise de manutention et de
transport vs. Prodelec, 20 November 1980, n° Jurisdata 1980-600747.
(71) Paris, 1st Sect. C., 6 December 2001, Gothaer vs. Taffin, n° 00-13409; see also the
Supreme Court judgment holding that the inadmissibility defense based upon the lack of
capacity of a party is not of public policy and can therefore not be raised ex officio: Bail Matine vs. Vessereau, 10 May 1982.
(72) App. Court Paris, 5th Sect. B, Chenue vs. Brachot, 24 October 1991, n° Jurisdata 1991024339; App. Court Colmar, Kruger vs. Fougerolle, 30 April 1996, n° 94-05667; App. Court
674
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
mestic actions before French courts (73), and cannot be used to set aside a
foreign judgment or award. Indeed, in a case where a party objected to the
recognition in France of an Italian decision arguing that the foreign court
had disregarded the principle «nul ne plaide par procureur », the Supreme
Court held that the appellate judges had rightly enforced the Italian decision and did not have to determine whether the invoked rule also applied
in Italy (74).
g. The Principle of Direct and Foreseeable Damages
Even though the assessment of the amount of damages is a matter traditionally left to the sovereign assessment of the judges of the merits, civil law systems have a general principle according to which damages
should have a compensatory nature, i.e. that their scope should be limited to compensating direct and foreseeable losses.
In certain types of class actions, namely those related to very serious
offences such as physical injuries, punitive or other special or exemplary
damages may be recovered before common law courts (75).
Punitive damages may be defined as damages in excess of actual damages, which are assessed as a form of punishment of the wrongdoer and to
deter both the negligent party and others from committing the same reckless or malicious acts.
It is doubtful that a French court will accept to enforce a class action
judgment from a U.S. court awarding such punitive damages. France, unlike other European countries, does not yet, in our knowledge, have case
law on that particular issue. However, German (76), English (77) and Italian
(78) courts held that the recognition of an American judgement awarding
punitive damages is contrary to public policy and should be denied. To
the contrary, a Swiss court has enforced a Californian judgment awarding
punitive damages in application of English law (79).
Paris, 1st Sect. C., Mandel vs. Coprim, 27 October 1998, n° 97-06011; App. Court Paris, 1st
Sect. C. Gothaer vs. Taffin, 6 December 2001.
(73) Cass. Civ., 2nd Sect., 3 April 2003, Fitzpatrick vs. Berner, n° 99-21024.
(74) Cass. Civ., 2nd Civ., 4 April 1973, Eurasia vs. Agenzia Marittima Tirreno, n° 71-14100.
(75) Laroche-Gisserot, Les Class Actions Américaines, Petites Affiches, 10 June 2005,
p. 7.
(76) Bundesgerichshstof, June 4, 1992, Bundesverfassungsgericht, Dec. 7, 1994.
(77) Lewis vs. Eliades [2003] EWHC 368 (QB), [2003] 1 All. E.R. (Comm.) 85.
(78) Venice Court, October 15, 2001.
(79) Basel Civil Court, February 1st, 1989, quoted by Court de Fontmichel, L’arbitre,
DIBATTITI
675
Assuming that a French court would consider the principle of compensation of actual damages to be part of the French conception of international public policy, a partial recognition of the U.S. decision could
however be envisaged since punitive damages are awarded separately and
in addition to compensatory damages.
6. – The Absence of Fraud
Under Munzer, the foreign judgment must not have been obtained by
fraud.
The concept of fraud, which has to be assessed on a case-by-case basis,
is threefold. First, the judge has to verify that the foreign judgment was
not obtained through deceitful procedural manoeuvres or by depriving
the defendant of its due process rights. Second, the judge has to verify
that the action was not brought before the foreign court with the purpose
of avoiding the application of the proper French substantive law rule.
Last, the judge has to verify that the obtaining of a class action judgment
in the U.S. was not geared toward avoiding the effects of a judgment that
could have been rendered by a French court.
7. – Concluding Remarks
U.S. class actions are the subject of a heated debate, and they are indeed many valid reasons to consider that the current American procedure
of collective actions for money damages is subject to criticism. Still, such
criticism is not, in our view, sufficient to deny the recognition and enforcement of U.S. class action judgments in France. Indeed, principles of
international cooperation and comity advocate a liberal approach of foreign judgments favourable to their recognition. In the context of class actions, we have seen that most of the conditions traditionally applied by
French courts to assess the regularity of a foreign decision – absent any
applicable bilateral or multilateral convention – are not likely to preclude
the recognition of a U.S. class action. Such is the case of the indirect jurisdiction requirement, of the review of the law applied by the foreign
judge, of the regularity of the proceedings abroad and of the requirement
of absence of fraud. At the end of the day, the issue comes down to
whether U.S. class actions should be deemed compatible with the French
le juge et les pratiques illicites du commerce international, Panthéon Assas, 2004, p. 392, citing
Brand, Punitive Damages and the Recognition of Judgments, in NILR, 1996, p. 169.
676
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
conception of international public policy. Given that public policy is a
subjective concept, which evolves in time, this is of course an issue for debate. However, in the authors’ view, the modern needs of international
cooperation and comity in a globalized world impose to restrict the international public policy defense, which is localistic by nature, to the only
flagrant and intolerable violations of the most fundamental principles of
the forum. Arguably, as criticisable as they may be, foreign class actions
do not constitute such intolerable offence to the French forum.
Marina Matousekova
Saggi
ALESSANDRO SOMMA
Esportare la democrazia economica.
Diritti e doveri nella disciplina del contratto europeo
Sommario: 1. Dal diritto privato come sistema di diritti al diritto privato come sistema di
doveri. – 2. L’economia sociale di mercato e il sistema dei diritti e dei doveri nella disciplina del contratto europeo. – 3. Diritto contrattuale europeo e tutela dell’ambiente:
contratto turistico e turismo sostenibile. – 4. Diritto contrattuale europeo e tutela dei
lavoratori: contratto standard e consumerismo critico.
1. – I cultori dell’antropologia economica che hanno studiato il succedersi dei sistemi di redistribuzione della ricchezza, osservano come il modello esaltato dal liberalismo economico abbia prevalso unicamente nel
diciannovesimo secolo. Solo durante questo arco di tempo si sarebbe imposta l’idea secondo cui il mercato – l’arena nella quale dall’incontro della domanda e dell’offerta scaturiscono i prezzi delle merci – deve essere
lasciato « libero ». E solo durante questo periodo ciò avrebbe condotto ad
una sorta di desocializzazione dell’economia: l’isolamento del fenomeno
economico dai restanti fenomeni sociali e in particolare la separazione del
primo dal circuito della politica (1).
Prima del diciannovesimo secolo la redistribuzione della ricchezza
non sarebbe stata condizionata dal libero mercato o da meccanismi assimilabili. Questi ultimi non si sarebbero trascurati, ma avrebbero assunto
una posizione subordinata rispetto a sistemi incentrati su « due principi
del comportamento non primariamente associati all’economia: la reciprocità e la redistribuzione » (2).
È noto come, sul piano del diritto, una simile evoluzione sia stata supportata da costruzioni volte ad attrarre entro l’orbita della libera contratta-
(1) Al proposito da ultimo Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo (2004), Torino,
2005, p. 87 ss.
(2) Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974, p. 62 ss.
678
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
zione le vicende che – stante la prevalenza di sistemi di redistribuzione
della ricchezza diversi dal mercato – erano un tempo condizionate dall’appartenenza di ceto. Questo è stato il senso delle trasformazioni che
hanno condotto all’affermazione del soggetto unico di diritto e della credenza nella sua capacità di autodeterminarsi, valutata sulla scorta di criteri meramente formali. Il tutto al fine di porre la volontà al centro della vicenda contrattuale – valutata nella sua essenza di atto – e trascurare le vicende di ordine sostanziale comunemente contemplate in sede di valorizzazione del vincolo.
Tutto ciò sino alla conclusione del diciannovesimo secolo. Successivamente si sarebbe invece assistito ad un processo di risocializzazione
dell’economia, in particolare attraverso una sua subordinazione al circuito della politica. Questo il senso della « grande trasformazione » determinatasi in occidente nei contesti in cui si è affermato il fascismo. Si tratta
di una trasformazione – richiesta dagli operatori di un « sistema economico che era in pericolo di disfacimento » – che ha interessato le istituzioni economiche liberali e che si è realizzata attraverso l’affossamento
delle istituzioni politiche liberali: « la soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato, raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le
istituzioni democratiche, tanto nel campo dell’industria che in quello
dell’economia » (3).
Dal punto di vista del diritto, le nuove istanze si sono tradotte nel formale scardinamento di un principio dello stato moderno: quello secondo
cui il diritto privato costituisce essenzialmente un sistema di diritti dell’individuo posti a presidio dell’ingerenza dei pubblici poteri. Prevale ora
il profilo dei doveri dell’individuo, che determina fra l’altro l’esaltazione
del contratto come « strumento di cooperazione delle forze economiche
generali e di quelle individuali per il raggiungimento dei fini indicati » dal
potere politico (4). In tal senso si discorre di transizione dalla « signoria
della volontà » alla « autonomia del volere » che « non è sconfinata libertà
del potere di ciascuno »: « se legittima nei soggetti un potere di regolare il
proprio interesse, nel contempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell’orbita delle finalità che questo sanziona » (5).
(3) Ivi, p. 297.
(4) Putzolu, Panorama del Codice civile fascista, in Riv. dir. civ., 1941, p. 405.
(5) Relazione al Re, n. 8, cit. da Pandolfelli-Scarpello-Stella Richter-Dallari,
Codice civile – Libro delle obbligazioni illustrato con i lavori preparatori e disposizioni di attuazione e transitorie, Milano, 1942, p. 156 s.
SAGGI
679
Una simile evoluzione ha condotto molti a considerare il controllo statale sulla contrattazione come un tratto caratteristico dei sistemi totalitari,
anche laddove esso si è sviluppato entro sistemi in cui la risocializzazione
dell’economia avviene nel rispetto dei capisaldi dello stato di diritto (6). Si
tratta di un evidente equivoco – se non di una ricostruzione volutamente
fondata su forzature – dal momento che la mediazione del meccanismo
democratico conduce a mutare radicalmente l’esito del controllo statale tipico dei sistemi totalitari. In questi ultimi il controllo è finalizzato a promuovere la cooperazione dei consociati in funzione del risultato economico di cui il potere politico si rende garante ed a reprimere così il conflitto
tra consociati. Laddove il meccanismo democratico si limita invece a riequilibrare la posizione dei partecipanti al conflitto, senza imporre loro un
determinato risultato: valorizza la dialettica tra i consociati, esattamente
come avviene nei modelli liberali, evitando tuttavia di favorire la mera riproduzione dell’esito determinato dall’azione del mercato (7).
Inoltre si consideri che la rilettura in chiave totalitaria del diritto contrattuale non altera l’essenza del sistema delle libertà economiche di matrice liberale. Queste ultime – diversamente dalle libertà politiche – sono
nate funzionalizzabili e mai sono state viste in termini assoluti: tanto è vero che i teorici della celeberrima mano invisibile esaltano l’interesse personale in chiave utilitaristica e lo promuovono quindi nella misura in cui
esso conduce ad un « vantaggio per la società » e in particolare ad incrementare la « ricchezza delle nazioni » (8).
Altrimenti detto, la conformazione del mercato, ove costituisca l’esito
di una sua risocializzazione mediata dal meccanismo democratico, non
rende totalitario il sistema in cui essa viene realizzata. E lo stesso dicasi per
la valorizzazione del contratto come vicenda in cui il profilo dei doveri delle parti prevale su quello dei loro diritti. Come vedremo, totalitario – o almeno autoritario – è semmai il sistema eretto a livello comunitario. Quest’ultimo è invero tutto incentrato sulla riaffermazione della separazione
netta tra economia e politica, che è in verità finalizzata ad eliminare la mediazione del meccanismo democratico nella costruzione del mercato.
(6) Per tutti Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, p. 19.
(7) Cfr. Somma, Buona fede contrattuale e gestione del conflitto sociale, in D’AngeloMonateri-Somma, Buona fede e giustizia contrattuale. Modelli cooperativi e modelli conflittuali a confronto, Torino, 2005, p. 90 ss. V. anche Ruland, Solidarität, in NJW, 2002, p. 3518
e Monateri, Ripensare il contratto: verso una visione antagonistica del contratto, in Riv. dir.
civ., 2003, I, p. 409 ss.
(8) Smith, La ricchezza delle nazioni (1776), Roma, 2005, p. 389 ss.
680
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Il tutto riproducendo uno schema perfezionatosi ai tempi del totalitarismo, quando il controllo della politica sull’economia avveniva nel pieno
rispetto delle istanze provenienti dagli operatori del mercato. Anche all’epoca si era invero affidato alla politica il compito di generare « una coscienza che supererà gli interessi di classe e arriverà all’interesse globale
della produzione e quindi agli interessi nazionali, i quali non possono
scindersi dagli interessi della produzione » (9).
2. – È banale affermare che a livello comunitario la massima della separazione tra la politica e l’economia sia concepita per escludere o limitare fortemente la mediazione democratica nella definizione delle modalità
attraverso cui realizzare la redistribuzione della ricchezza. L’intero sistema delle libertà fondamentali contemplate nel trattato istitutivo viene del
resto inteso, in senso funzionalista, come sistema di divieti di ingerenza
dei pubblici poteri e di obblighi di questi ultimi di assicurarne l’esercizio
anche contro le invadenze dei privati (10). Se dunque si hanno forme di
conformazione del mercato, e quindi di compressione delle libertà fondamentali, esse discendono dal proposito di sacrificare la condotta individuale alle necessità concernenti il mantenimento e lo sviluppo del sistema nel suo complesso. Del resto nel mercato « contano i flussi complessivi » e « non gli apporti individuali » (11).
Il medesimo schema si ritrova nella proposta di Costituzione europea dove è riassunto nella formula « economia sociale di mercato » (art.
I-3) (12). Quest’ultima è stata coniata in area tedesca alla conclusione del
conflitto mondiale, per alludere alla situazione in cui il diritto alimenta un
sistema di libero mercato, interpretando in chiave funzionalista i diritti riconosciuti in capo ai suoi operatori: affermandoli se consentono di ottenere le finalità assunte ad orizzonte del sistema – riassunte fra l’altro nella locuzione « crescita economica » (13) – e negandoli invece nel caso con(9) Rocco, Il congresso nazionalista di Roma (1919), in Id., Scritti e discorsi politici, vol.
2, Milano, 1938, p. 478 s.
(10) Ad es. Riesenhuber, System und Prinzipien des Europäischen Vertragsrechts, Berlin,
2003, p. 86. In prospettiva generale Mayer-Scheinpflug, Privatrechtsgesellschaft und die
Europäische Union, Tübingen, 1996, part. p. 25 ss.
(11) Schlesinger, Mercato, diritto privato, valori, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 327.
(12) Citazioni in Somma, Tutti per uno. Scienza giuridica, economia e politica nella costruzione del diritto privato comunitario, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 307 ss.
(13) Per tutti Fikentscher, Wirtschaftsrecht, Bd. 2, München, 1983, p. 35 s. e Mestmäcker, voce Diritto dell’economia, in Enc. Sc. soc., vol. 3, Roma, 1993, p. 93. Per rilievi critici Gärtner, Zum Standort des Verbraucherrechts, in JZ, 1992, p. 73 ss.
SAGGI
681
trario. Ne discende che la redistribuzione della ricchezza costituisce un
esito solo indiretto della mediazione democratica, che si esprime attraverso interventi normativi direttamente volti a coordinare il mercato. Altrimenti detto, la conformazione del mercato deve mirare unicamente a rimediare ai suoi fallimenti, mentre alla redistribuzione della ricchezza tendono le sole misure che operano fuori dai confini del mercato, attraverso
interventi di carattere prevalentemente fiscale (14).
Il diritto contrattuale in linea con simili intenti si fonda evidentemente sulla massima dell’autonomia privata che tuttavia, dal punto di vista
funzionale, viene compressa se il suo esercizio si traduce in comportamenti capaci di mettere a rischio l’equilibrio del sistema economico e la
sua crescita (15).
In termini generali, il sistema delle libertà contrattuali funzionalizzate
viene descritto nell’ambito delle note iniziative volte ad « accrescere la
coerenza dell’acquis comunitario » attraverso l’elaborazione di un « quadro comune di riferimento », in cui siano contenute « le soluzioni ottimali in termini di norme e terminologia comuni » (16). Si precisa che occorre
nel merito ispirarsi al principio della « libertà contrattuale » e che esso deve essere funzionalizzato al proposito di determinare un « armonico funzionamento del mercato ». E ciò si ottiene, fra l’altro, promuovendo « la
fiducia dei consumatori e delle imprese nel mercato interno attraverso un
elevato livello comune di protezione dei consumatori » e realizzando « l’eliminazione degli ostacoli al funzionamento del mercato interno » (17).
Da un simile punto di vista il contratto viene ancora descritto come il
libero incontro di volontà – le volontà in cui si esprime il senso della domanda e dell’offerta di beni e servizi – che l’ordinamento è chiamato a favorire tutelando la capacità delle parti di autodeterminarsi. Da ciò l’idea,
su cui si fondano le speranze di chi intende salvare il diritto privato nelle
sue strutture tradizionali (18), che i contraenti sono deboli se viene intacca(14) Müller-Armack, Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft (1946), Bern e Stuttgart,
1976, p. 116 ss.
(15) Per tutti Grundmann, La struttura del diritto europeo dei contratti, in Riv. dir. civ.,
2002, I, p. 378 ss. e Riesenhuber, System und Prinzipien des Europäischen Vertragsrechts, cit.,
p. 553 ss.
(16) COM (2003) 68 def. (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al
Consiglio « Maggiore coerenza nel diritto contrattuale Europeo – Un piano d’azione »).
(17) COM (2004) 651 def. (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al
Consiglio « Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis: prospettive per il futuro »).
(18) Ad es. Dreher, Der Verbraucher – Das Phantom in den opera des europäischen und
deutschen Rechts?, in JZ, 1997, p. 167 ss.
682
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
ta la loro capacità di autodeterminazione. E che devono essere così tutelati con misure volte prevalentemente a consentire l’accesso alle informazioni circa i termini dell’affare (19) e condizioni idonee ad assumere decisioni razionali e meditate: misure come quelle discendenti dal principio di
trasparenza del contratto o dalla previsione del cosiddetto ius poenitendi.
Peraltro, come si è detto, simili misure hanno il fine di preservare l’autodeterminazione dei contraenti solo se consentono di evitare alterazioni
del meccanismo concorrenziale. Esse costituiscono pur sempre forme di
risocializzazione dell’economia, che tuttavia sono funzionali a rimediare
ai fallimenti del mercato, ma non anche a redistribuire ricchezza sulla
scorta di meccanismi alternativi all’incontro di domanda e offerta. E lo
stesso dicasi per il divieto di discriminazione che, seppure riferito a vicende rilevanti per la dimensione sociale della costruzione comunitaria, nasce e si sviluppa per promuovere il proficuo incontro di domanda ed offerta in termini sostanzialmente rispettosi del contenuto dell’operazione
economica cui il divieto si riferisce (20).
Se così stanno le cose, si comprende come il sistema del diritto contrattuale comunitario sia costruito attorno al concetto di diritto – seppure
funzionalizzato – e come esso non lasci uno spazio apprezzabile al profilo
dei doveri. Questi ultimi consentirebbero infatti forme di risocializzazione dell’economia capaci di conformare il mercato e renderlo uno strumento di redistribuzione della ricchezza concepito nei termini e nei modi
decisi all’interno del circuito democratico. A ben vedere di doveri comunitari si discorre nel Trattato istitutivo, laddove si dice che « i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti » dall’articolato (art. 17). Non vi sono tuttavia precetti che specifichino l’enunciazione
e lo stesso accade nella proposta di Costituzione europea, in cui si riprende la formula del Trattato (art. I-10) e si riporta inoltre il preambolo alla
Carta dei diritti fondamentali, con la precisazione che le posizioni in essa
contemplate fanno « sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future » (Preambolo Parte II). Una diversa soluzione sarebbe del resto « contraria allo spirito liberale del diritto comunitario e della cittadinanza dell’Unione » (21).
(19) Per tutti Grundmann, Privatautonomie im Binnenmarkt. Informationsregeln als Instrument, in JZ, 2000, p. 1133 ss.
(20) Citazioni in Somma, Social Justice and the Market in European Contract Law, in ERCL, 2006, p. 187 ss.
(21) Reich, Il consumatore come cittadino – il cittadino come consumatore: riflessioni sull’attuale stato della teoria del diritto dei consumatori nell’Unione europea, in Nuova giur. civ.,
2004, II, p. 355. V. anche Jarass, EU-Grundrechte, München, 2005, p. 50.
SAGGI
683
Questa situazione pone notevoli problemi dovuti alla progressiva
espansione del mercato – e con esso dello strumento contrattuale – oltre i
suoi confini tradizionali: soprattutto nel campo delle attività classicamente ricondotte ai compiti attribuiti allo stato sociale (22). Peraltro in area comunitaria vi sono ancora forme di resistenza alla desocializzazione dell’economia in settori dell’ordinamento – quali il diritto del lavoro ed il diritto ambientale – in cui tipicamente assume rilievo il modo di produrre.
Certo anche il diritto del lavoro e il diritto dell’ambiente sono in fase
di trasformazione: sono sempre più concepiti come la fonte di strumenti
direttamente volti a contribuire al mantenimento ed allo sviluppo del sistema economico e solo di riflesso a realizzare forme di tutela dell’individuo e dell’ambiente in cui conduce la sua esistenza. Del resto le sorti del
sistema economico dipendono pur sempre dalla garanzia di un certo livello di pace sociale e di una corretta allocazione di risorse – quelle ambientali – non certo inesauribili.
Peraltro i problemi maggiori sorgono nel momento in cui ci si trova di
fronte a beni che circolano in area comunitaria e che sono stati prodotti in
zone del mondo in cui la produzione non avviene in base agli standard lavoristici e ambientali europei. In simili ipotesi potrebbe essere opportuno
ricorrere al diritto contrattuale – e in particolare al sistema di tutela del
consumatore – per favorire indirettamente il rispetto degli standard in discorso: per realizzare una sorta di esportazione della democrazia economica. Nel prosieguo ci dedicheremo a questi aspetti trattando esemplarmente di due figure: il contratto turistico ed il contratto standard. Lo faremo muovendo dalle soluzioni individuate a livello comunitario – soluzioni in linea con lo schema dell’economia sociale di mercato – mettendo in
luce gli ostacoli che di volta in volta impediscono il raggiungimento della
finalità enunciata.
3. – Il proposito di difendere il consumatore turista e nel contempo di
realizzare forme di tutela ambientale può richiedere interventi normativi
inconciliabili. Ciò accade soprattutto quando il turista è un cittadino europeo, la cui protezione concerne il rispetto di standard occidentali da
parte di operatori turistici attivi nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. In
(22) Al proposito il documento del Gruppo di studio sulla giustizia sociale nel
diritto privato europeo, Giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo: un manifesto, in
Riv. crit. dir. priv., 2005, p. 102. V. anche Galgano, Diritto ed economia alle soglie del nuovo
millennio, in Contr. e impr., 2000, p. 197 e Id., La categoria del contratto alle soglie del terzo
millennio, ivi, p. 919 ss.
684
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
tal caso si determina sovente un depauperamento delle risorse locali –
ambientali e non – che sono messe a disposizione del turista e sottratte alla popolazione del paese in cui si reca o comunque costrette entro meccanismi distributivi di tipo mercantile, estranei alla cultura di quel paese (23).
È questa una delle innumerevoli manifestazioni della tendenza totalizzante del mercato: « la presenza di un mercato a monte è spesso una condizione indispensabile per il funzionamento ottimale di un determinato
mercato » (24).
La disciplina comunitaria del contratto turistico risente di una simile
contraddizione, che si manifesta particolarmente a causa del suo essere
incentrata sulle tematiche tipicamente sviluppate dai fautori dell’economia sociale di mercato. Così è per le motivazioni che si considerano poste
alla base dell’emanazione della nota direttiva sui cosiddetti servizi tutto
compreso (25). Essa mira infatti a far fronte ai fallimenti del mercato ed a
creare le condizioni per incrementare la fiducia dei destinatari dei servizi
in discorso: intende porre rimedio – secondo formule ricorrenti nelle norme di tutela dei consumatori – alle « distorsioni di concorrenza tra gli operatori » (2° considerando) ed incrementare la capacità di « attirare i turisti »
(7° considerando).
In linea con le massime alimentate in seno all’economia sociale di
mercato sono anche le forme di tutela predisposte dalla direttiva (26). L’accento viene invero posto sul tema della trasparenza del contratto turistico
e più in generale sulla chiarezza e completezza delle informazioni relative
al servizio destinate al consumatore (artt. 3 e 4) (27).
In tal modo la debolezza cui fa fronte la disciplina comunitaria è tale
se assume i connotati della incapacità di valutare razionalmente i termini
dell’affare. La si potrebbe chiamare debolezza individuale, in quanto attiene al ripristino della capacità di autodeterminarsi, che si suppone intaccata da momentanee distorsioni del meccanismo di mercato. Diverso sa(23) Ad es. Reich, Diverse Approaches to Consumer Protection Philosophy, in Journ.
Cons. Pol., 1992, p. 286.
(24) Deaglio, voce Mercato, in Enc. Sc. soc., vol. 5, Roma, 1996, p. 613.
(25) Direttiva 90/314/CEE.
(26) Anche se essa deve coordinarsi con la disciplina comunitaria sulla contrattazione
standard, che per alcuni aspetti realizza forme di tutela più in linea con il proposito di risocializzare l’economia. Al proposito citazioni in Somma, Diritto comunitario vs. diritto comune europeo, Torino, 2003, p. 66 ss.
(27) Per tutti Tonner, Richtlinie 90/314/EWG des Rates über Pauschalreisen – Vorbemerkungen, in Grabitz-Hilf, Das Recht der Europäischen Union – Kommentar, Bd. 3, München, 1999, p. 8.
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rebbe se si considerasse la debolezza, che potremmo dire sociale, del contraente: quella di ordine strutturale, riconducibile al contesto economico
e sociale che irrimediabilmente condiziona la libertà di scelta (28).
Occorre ora domandarsi quali possano essere gli strumenti di diritto
contrattuale che, pur compatibili con lo schema normativo descritto, consentano di rendere il contratto sui servizi tutto compreso uno strumento
adatto ad esportare democrazia economica: a divenire, pur con le precisazioni che formuleremo, un contratto del cosiddetto turismo sostenibile.
Con questa espressione – entrata anche nel lessico comunitario – si intende il turismo che « svolge un ruolo di rilievo nella conservazione e nel
miglioramento del patrimonio culturale e naturale », con particolare riferimento a settori da « quello artistico alla gastronomia locale, all’artigianato
o alla tutela della biodiversità » (29).
La filosofia di fondo cui si ispira il turismo sostenibile è illustrata nell’ambito delle riflessioni attorno all’idea di sviluppo sostenibile. Se ne parla nel Trattato CE come di un obbiettivo (art. 2) che deve essere preso in
considerazione nell’adozione di misure in materia di turismo (art. 3) e
ambiente (art. 6) e che deve inoltre informare le politiche di cooperazione
allo sviluppo (art. 177). Il concetto viene evidentemente ripreso nel progetto di Costituzione europea, in particolare nella medesima disposizione
in cui si parla di economia sociale di mercato (art. I-3). Locuzione che abbiamo visto alludere a vicende di ordine mercantile, inesorabilmente destinate ad escludere la mediazione democratica nella definizione dei modi di essere del sistema economico (30).
Di ciò si trova conferma nei documenti comunitari, in cui si parla di
sviluppo sostenibile come della situazione in cui « la crescita economica
sostenga il progresso sociale e rispetti l’ambiente » e « la politica sociale
sia alla base delle prestazioni economiche » (31).
(28) Cfr. Somma, Der Schutz der schwächeren Vertragspartei: Rechtshistorische und rechtspolitische Aspekte, in Schulze (Ed.), New Features in Contract Law, Baden-Baden, 2006 (in
corso di pubblicazione). V. inoltre Reifner, Der Schutzbereich eines Verbraucherschutzgesetzes und die Schutzwürdigkeit des Verbrauchers, in Journ. Cons. Pol., 1978, p. 203 ss. e Marella, Note critiche in tema di soggettività giuridica e diversità, in Pol. dir., 1998, p. 591.
(29) COM (2006) 134 def. (Comunicazione della Commissione « Rinnovare la politica comunitaria per il turismo: una partnership più forte per il turismo europeo »).
(30) In termini generali v. anche il Preambolo alla Parte II. V. poi gli artt. II-97 e III-119
in materia di tutela dell’ambiente e l’art. III-292 in tema di cooperazione allo sviluppo.
(31) COM (2001) 264 def. (Comunicazione della Commissione « Sviluppo sostenibile in Europa per un mondo migliore: strategia dell’Unione europea per lo sviluppo sostenibile »).
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Per un verso si utilizzano espressioni da cui ricavare l’intento di promuovere forme di risocializzazione dell’economica e così di ampliare il
ruolo affidato alla mediazione democratica. Si discorre infatti della necessità di « una notevole redistribuzione degli investimenti pubblici e privati
verso nuove tecnologie compatibili con l’ambiente » e di « un nuovo approccio alla politica », capace fra l’altro di intervenire su una delle « principali minacce per lo sviluppo sostenibile »: « la povertà e l’esclusione sociale ». Il tutto « senza permettere che limitati interessi settoriali prevalgano
sul benessere della società nel suo complesso » e soprattutto avendo presente la necessità, se non di esportare la democrazia economica, quanto
meno di valorizzare la valenza extraeuropea dei comportamenti economici comunitari: « i consumi dell’UE hanno effetti che travalicano i nostri
confini e per questo è necessario garantire che tutte le nostre politiche
contribuiscano ad aprire prospettive per lo sviluppo sostenibile su scala
mondiale » (32).
Si tratta peraltro di enunciazioni di principio che non trovano riscontro
in affermazioni più puntuali. Invero, da un lato, la riflessione è incentrata
sul primato del fenomeno economico rispetto ai restanti fenomeni sociali.
Dall’altro lato, essa muove dal ricorso esclusivo a strumenti mercantili,
tutti fondati sul libero incontro tra domanda ed offerta come motore della redistribuzione delle ricchezza. In particolare – dopo aver ribadito la necessità di promuovere lo sviluppo sostenibile con misure concordate ad
esito di « un processo politico aperto » – si precisa che ciò comporta soprattutto un « dialogo con i rappresentanti dei consumatori » (33): come se
la mediazione tra la politica e l’economia si possa esaurire nel coinvolgimento di soggetti individuati attraverso categorie mercantili. Si allude poi
direttamente al meccanismo di formazione dei prezzi, su cui occorre incidere attraverso l’attribuzione di un prezzo all’inquinamento (34), ma che
tuttavia non viene messo in discussione: come se la risocializzazione dell’economia non comportasse, ove combinata con il meccanismo democratico, l’individuazione di meccanismi di redistribuzione della ricchezza
alternativi al mercato. Ciò mentre la lotta all’esclusione sociale viene concepita come azione volta a creare « le condizioni economiche necessarie
per una maggiore prosperità » e ad incidere sul mercato del lavoro con so(32) Ibidem.
(33) Ibidem.
(34) Ibidem. Si allude al principio « chi inquina paga » di cui all’art. 174 Trattato CE. Sul
punto ad es. Meli, Le origini del principio « chi inquina paga » e il suo accoglimento da parte
della Comunità europea, in Riv. giur. amb., 1989, p. 217 ss.
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luzioni – come in particolare il divieto di discriminazione tra uomini e
donne – in linea con la massima dell’economia sociale di mercato (35).
Il primato del mercato come meccanismo di redistribuzione della ricchezza si conferma anche nei documenti comunitari dedicati al turismo
sostenibile. Quest’ultimo è invero considerato un obbiettivo il cui raggiungimento è « determinato soprattutto dal consumatore » e dipendente
dal « successo economico che ne deriva ». In tal senso il turismo sostenibile costituisce un essenziale contributo allo « sviluppo sostenibile » ed in
quanto tale una « condizione » per la « vitalità, crescita economica, competitività e successo commerciale di questo settore importantissimo dal
punto di vista economico ». Altrimenti detto, il turismo sostenibile assume rilievo in quanto « produce a sua volta un impatto positivo sulla creazione di crescita e di occupazione » (36).
Comunque sia, si tratta di obbiettivi che al momento sono in fase di
studio e che non hanno prodotto molti risultati concreti. E le poche misure adottate restituiscono il senso della centralità del metro mercantile nella definizione delle politiche sul turismo sostenibile. Si dice infatti che, dal
punto di vista dell’offerta, alimentare il turismo sostenibile significa incentivare – nell’ambito di iniziative volte « a liberalizzare ulteriormente il settore del turismo nel quadro dell’Organizzazione mondiale del commercio
e del GATS » – la « crescita della qualità piuttosto che della quantità ». E si
mostra di ritenere che il ricorso al servizio di qualità debba costituire l’esito di una scelta libera e informata del suo destinatario. In tal senso si intende l’azione comunitaria come prevalentemente volta a promuovere,
anche attraverso forme di « autoregolamentazione », « la sensibilizzazione
dei consumatori » e l’istituzione di « reti per lo scambio o la divulgazione
di informazioni utili ». Similmente si è promossa la creazione di « sistemi
approvati di gestione, revisione, certificazione ed etichettatura dei prodotti » (37). Sistemi il cui funzionamento trae spunto dalla filosofia di fondo
che ha ispirato la direttiva comunitaria sui servizi tutto compreso (38).
In tal modo l’esportazione della democrazia economica – effetto indiretto di misure immediatamente volte a far fronte ai fallimenti del merca-
(35) COM (2001) 264 def., cit.
(36) COM (2006) 134 def., cit.
(37) Ibidem. Sulla produzione comunitaria precedente v. Tonner, Europäische Tourismuspolitik und nachhaltige Entwicklung, in Reich-Heine-Mernick (Hrsg.), Umweltverfassung und nachhaltige Entwicklung in der Europäischen Union, Baden-Baden, 1997, p. 105 ss.
(38) V. soprattutto il Regolamento CE 1980/2000 relativo al sistema comunitario, riesaminato, di assegnazione di un marchio di qualità ecologica.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
to – viene fatta dipendere dalla capacità del turista di autodeterminarsi
nella scelta del prodotto turistico. Ma soprattutto l’implementazione delle politiche di sviluppo sostenibile viene subordinata alle inclinazioni ed
alla sensibilità di chi incarna la domanda e l’offerta del servizio in discorso: non intacca la centralità che il profilo dei diritti assume entro il sistema del diritto contrattuale europeo e con ciò la subordinazione del circuito della politica al circuito dell’economia nella definizione degli obbiettivi
comunitari (39).
Se dunque non è realistico pensare all’imminente sviluppo di un sistema di doveri del turista – e di un relativo diritto dei contratti – occorre interrogarsi circa la possibilità di definire almeno un sistema di diritti del turista sostenibile. Occorre in altre parole verificare se lo strumentario a misura di economia sociale di mercato è utilizzabile per ottenere, seppure
entro un ordinamento ispirato al principio della libertà contrattuale funzionalizzata, alcuni risultati accostabili a quelli cui mirerebbe un processo
di effettiva risocializzazione dell’economia.
Su tali aspetti si è interrogata soprattutto la letteratura nordeuropea.
Sono stati analizzati i termini della tensione tra politiche consumeristiche
e politiche ambientali: le prime tradizionalmente ispirate al principio – corollario delle teorie sul mercato concorrenziale – secondo cui « la soddisfazione del consumatore si definisce esclusivamente in termini di guadagno a corto termine » (40) e le seconde necessariamente riconducibili a visioni non edonistiche del consumo (41). Queste ultime avrebbero iniziato
a trovare riscontro nella produzione normativa comunitaria a partire dall’Atto unico europeo e soprattutto dal Trattato di Maastricht e tuttavia
non sarebbero chiari i termini del coordinamento tra istanze consumeristiche tradizionali e istanze ambientaliste (42).
A ben vedere ci sembra di aver dimostrato – anche alla luce della più
recente proposta di Costituzione europea – che il coordinamento tra le
istanze in discorso avviene nel nome del metro mercantile: che, anche
(39) Per tutti Tonner, Europäische Tourismuspolitik, cit., p. 115.
(40) Hedemann-Robinson, EC Law, the Environment and the Consumers: Adressing the
Challenge of Incorporating an Environmental Dimension to Consumer Protection at Community Level, in Journ. Cons. Pol., 1997, p. 2. V. anche Codeluppi, I consumatori. Storia, tendenze, modelli, 3a ed., Milano, 1995, p. 45.
(41) In termini generali ad es. Scherhorn, Consumers’ concern about the environment
and its impact on business, in Journ. Cons. Pol., 1993, p. 171 ss.
(42) Hedemann-Robinson, EC Law, cit., p. 3. V. anche Thøgersen, The Ethical Consumer. Moral Norms and Packaging Choice, in Journ. Cons. Pol., 1999, p. 437 ss.
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nella versione ultima, i concetti di sviluppo e turismo sostenibile si coordinano con una « visione impreso-centrica » e con il relativo intento di degradare le istanze extramercantili « da principio a mero limite esterno »
(43). Il tutto mentre sono decisamente insoddisfacenti – o almeno incapaci di favorire in modo certo forme di risocializzazione dell’economia – gli
interventi della prassi applicativa comunitaria concernenti le ipotesi in cui
sono ammessi divieti o restrizioni alla circolazione dei beni (art. 30 Trattato CE) o dei servizi (ex art. 55 Trattato CE) (44).
Se così stanno le cose, occorre, come si è detto, verificare la possibilità
di sviluppare un diritto dei contratti del turismo sostenibile a partire da
strumenti di impostazione mercantile. Ce ne occuperemo trattando di
contrattazione standard e consumo critico: un tema che comprende riflessioni concernenti la contaminazione tra istanze ambientali e istanze consumeristiche e che pertanto potrà offrire utili spunti di riflessione.
4. – Come abbiamo detto, il diritto dei consumatori, nella prospettiva
mercantile finora tratteggiata, non costituisce uno strumento di esportazione della democrazia economica e non realizza pertanto un obbiettivo
formalmente ricondotto alle pratiche di sviluppo sostenibile. Quel diritto
si occupa invero di vicende che concernono la circolazione del prodotto o
del servizio, ma non anche delle circostanze relative alle fasi precedenti il
momento in discorso: almeno se si prescinde dalla disciplina del cosiddetto contatto sociale con il consumatore (45) – in qualche modo valorizzata dalla direttiva sulle garanzie postvendita (46) – la cui considerazione
non muta tuttavia i termini del discorso.
Le vicende trascurate dal diritto contrattuale comunitario sono esattamente quelle su cui concentra l’attenzione il consumerismo critico ed in
(43) È il rischio discusso da Lucarelli, Sub Art. 37, in Bifulco-Cartaria-Celotto (a
cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Bologna, 2001, p. 262 in sede di analisi della disciplina comunitaria di tutela ambientale. Sul punto Grasso, Solidarietà ambientale e sviluppo sostenibile tra costituzioni nazionali,
Carta dei diritti e progetto di costituzione europea, in Pol. dir., 2003, p. 593.
(44) Cfr. ad es. D’Acunto, La libera circolazione dei servizi, in Colucci-Sica (a cura di),
L’Unione Europea, Bologna, 2005, p. 238 ss. e Mattera, La libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione Europea, ivi, p. 251 ss.
(45) Su cui per tutti Alpa-Bessone, La responsabilità del produttore, 4a ed. a cura di Toriello, Milano, 1999, p. 141 s.
(46) Art. 2 Direttiva 99/44/CE. In prospettiva generale per tutti Bin, Per un dialogo con
il futuro legislatore dell’attuazione: ripensare l’intera disciplina della non conformità dei beni
nella vendita alla luce della direttiva comunitaria, in questa rivista, 2000, p. 403 ss.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
particolare il consumerismo promosso dai fautori del commercio equo e
solidale: il proposito di instaurare rapporti tra produttori e consumatori –
solitamente localizzati nel sud del mondo i primi e nel nord del mondo i
secondi – valorizzando circostanze relative al modo di produrre (47) e valutate sulla scorta di standard come quelli fissati nei documenti delle Nazioni Unite (48).
In un certo senso il consumerismo critico valorizza il meccanismo
mercantile che, facendo leva sull’immagine del consumatore come re del
mercato, ricorre tradizionalmente al motto « un dollaro un voto » (49). Esso si coordina eventualmente con la richiesta di misure interventiste, volte a vietare la commercializzazione di prodotti e servizi realizzati senza tenere conto di standard concernenti la tutela ambientale e le condizioni in
cui versano i lavoratori (50). Tuttavia le misure su cui si concentra l’attenzione incidono sul meccanismo di incontro della domanda e dell’offerta e
concernono l’immissione di valutazioni di ordine in senso lato etico nella
definizione delle scelte di consumo: si invita infatti a premiare con l’acquisto chi mette in circolazione beni e servizi nel rispetto degli standard
ricordati ed a punire con il boicottaggio chi invece non ne tiene conto (51).
(47) Per tutti Gesualdi, Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale, 2a ed., Milano, 2002, part. p. 67 s.
(48) In materia di lavoro cfr. fra le altre la Dichiarazione dell’OIL sui diritti fondamentali
dei lavoratori del 1998. Sulla tutela ambientale v. specialmente l’Agenda 21 dell’ONU – Programma d’azione per lo sviluppo sostenibile del 1992.
(49) Leoni, La sovranità del consumatore e la legge (1963), in Id., La sovranità del consumatore, Roma, 1997, p. 117. V. anche Mayer-Scheinpflug, Privatrechtsgesellschaft und die
Europäische Union, cit., p. 26 con specifico riferimento alla dimensione comunitaria.
(50) Cfr. Centro nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico. Informazioni
sul comportamento delle imprese per un consumo consapevole, 3a ed., Bologna, 2000, p. 25 ss.
Si precisa che, in tema di tutela ambientale, « costituiscono motivo di valutazione negativa:
1. le condanne o le multe per aver trasgredito le leggi di tutela ambientale; 2. le critiche argomentate di associazioni ambientaliste e della stampa per violazioni ambientali in qualsiasi parte del mondo; 3. la produzione di pesticidi particolarmente tossici o di altre sostanze
dannose per l’uomo o per l’ambiente; 4. le confezioni che producono molti rifiuti e che non
sono riciclabili ». Con riferimento alle « misure assunte a salvaguardia della sicurezza dei lavoratori e al rispetto dei loro diritti previsti dai contratti e dalla legge », si afferma che « costituiscono motivo di giudizio negativo: 1. gli incidenti gravi o mortali dovuti ai ritmi di lavoro elevati o a scarse misure antinfortunistiche avvenuti negli ultimi cinque anni; 2. multe subite da parte delle autorità antinfortunistiche; 3. multe e condanne per evasione dei
contributi previdenziali e per la trasgressione di altre leggi sul lavoro; 4. licenziamenti senza giusta causa e atteggiamenti antisindacali denunciati dai lavoratori o dal sindacato ».
(51) Per tutti Centro nuovo modello di sviluppo, Boycott. Scelte di consumo scelte di
giustizia, 5a ed., Foggia, 1996, p. 21 ss.
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È infatti dalla libera scelta dei consumatori – e non da una precisa opzione del circuito della politica – che deriva la loro trasformazione in « sindacalisti per il sud del mondo » (52) e con ciò lo sviluppo di forme di risocializzazione dell’economia attente al nesso tra produzione e consumo di
beni (53).
Anche i documenti comunitari che si occupano di commercio equo e
solidale privilegiano una prospettiva in ultima analisi mercantile, senza
peraltro contenere la contestuale richiesta di una forte « azione delle autorità e delle istituzioni in favore dell’equità e dello sviluppo » (54). Essi recano invero un richiamo alle disposizioni del Trattato CE che trattano di
sviluppo sostenibile con riferimento ai rapporti con i cosiddetti paesi in
via di sviluppo, tuttavia enfatizzando il proposito di contribuire in tal modo alla « integrazione di questi ultimi nell’economia mondiale » (art. 177).
Altrimenti detto – e in ciò risiede l’intento di concepire l’emancipazione
sociale esclusivamente come effetto di misure mercantili – il commercio
equo e solidale viene valorizzato nella sua essenza di strumento attraverso cui intervenire sui meccanismi di formazione del prezzo idonei a creare « nuovi sbocchi sul mercato » e, solo di riflesso, « una migliore tutela
sociale ed ambientale nei paesi in via di sviluppo ». Altre misure sono invece screditate come iniziative che, non facendo leva su « un sistema di
incentivi » e « sulla scelta dei consumatori », « cercano di manovrare il
commercio o di erigere barriere per impedire l’accesso al mercato di taluni paesi » (55).
Il tutto nella convinzione, smentita dai fatti, che « il presupposto fondamentale del commercio equo solidale è quello di consentire ai produttori dei paesi in via di sviluppo di cogliere le opportunità offerte dalla mondializzazione » e nel rispetto della filosofia di fondo che ha ispirato la costituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio. Rispetto da cui discende l’affermazione perentoria secondo cui solo « fintantoché le iniziative di commercio equo e solidale restano a carattere privato e vengono realizzate a titolo volontario », esse possono « considerarsi compatibili con un
(52) Becchetti, Il consumo socialmente responsabile nei mercati globalizzati, in Cons. dir.
e merc., 2006, p. 119.
(53) Già Scherhorn, Die Entstehung vom Verbraucherproblem im Spannungsfeld von
Konsum und Arbeit, in Journ. Cons. Pol., 1980, p. 102 ss.
(54) Ibidem.
(55) COM (1999) 619 def. (Comunicazione della Commissione al Consiglio sul « commercio equo e solidale »). V. anche la risoluzione del Parlamento europeo A3-0373/93 (sulla promozione del commercio equo e solidale tra nord e sud).
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
sistema commerciale multilaterale non discriminatorio ». In altre parole,
« le iniziative di commercio equo e solidale agiscono alla stregua di un
meccanismo di mercato che offre una scelta più ampia sia ai produttori che
ai consumatori » e pertanto, « se i governi volessero introdurre provvedimenti normativi basati sul commercio equo e solidale, essi dovrebbero tenere conto degli obblighi derivanti dalla loro appartenenza all’OMC » (56).
Simili affermazioni sono riprese anche in un recente documento comunitario, in cui il commercio equo e solidale viene ricondotto alla categoria più ampia del commercio etico e quindi considerato un aspetto della cosiddetta responsabilità sociale dell’impresa (57). In tal senso si esplicita il proposito di ricorrere ad uno strumentario tipicamente privilegiato
dall’economia sociale di mercato: il meccanismo informativo, inteso come strumento idoneo a consolidare « il potere esercitato dai cittadini in
qualità di consumatori » in una fase caratterizzata – attraverso i processi di
mondializzazione – dalla « configurazione del mondo come una società di
consumatori ». Il tutto condito da un rilievo riconducibile ad una preoccupazione ricorrente presso i fautori dell’economia sociale di mercato:
che l’incontro di domanda ed offerta non sia alterato da asimmetrie informative e che queste non producano « una mancanza di fiducia a scapito di
tutti » (58).
Alla luce di ciò si ribadisce che il commercio equo e solidale « dipende da una serie di sistemi basati sulla conoscenza concepiti per informare
i produttori e i fornitori di beni e servizi » e che ciò comporta il ricorso a
misure « che garantiscano ai consumatori il soddisfacimento dei loro desideri » (59): misure – evidentemente considerate in linea con un nuovo modo di intendere l’edonismo consumistico – quali lo sviluppo di un sistema
di certificazione attraverso marchi « fair trade » (60).
(56) COM (1999) 619 def., cit.
(57) Parere del Comitato economico e sociale sul tema del Commercio etico e programmi di
garanzia per i consumatori del 10 ottobre 2005, in G.U.C.E., C 28, 3 febbraio 2006. Nel documento si definisce il commercio etico come « il tentativo consapevole di adeguare le attività commerciali (produzione, vendita, acquisto) di un’impresa, organizzazione o singolo
individuo ad una serie di valori etici ». Il commercio equo solidale è invece « il commercio
in cui gli operatori coinvolti, siano essi produttori, consumatori o acquirenti, non sono
svantaggiati e ottengono un beneficio ragionevole e proporzionato ».
(58) Ibidem. Al proposito i rilievi critici di Wilhelmsson, The Abuse of the « Confident
Consumer » as a Justufucation for EC Consumer Law, in Journ. Cons. Pol., 2004, p. 317 ss.
(59) Parere del Comitato economico e sociale sul tema del Commercio etico, cit.
(60) Su cui ad es. la risoluzione del Parlamento europeo A4-0198/98 (sul commercio
equo e solidale).
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693
Si vuole dunque un « approccio non vincolante », in linea « con le necessità di un mercato libero ed efficiente » e in particolare con le politiche
elaborate a livello comunitario in tema di responsabilità sociale delle imprese (61). Politiche tutte incentrate sul ricorso a strumenti di soft law, come le dichiarazioni congiunte e i codici di condotta sui diritti fondamentali dei lavoratori (62).
Anche in tema di commercio equo e solidale, come in materia di turismo sostenibile, l’approccio mercantile promosso a livello comunitario
impedisce così di individuare fondamenti per un diritto contrattuale in linea con istanze differenti rispetto a quelle espresse in seno all’economia
sociale di mercato. Occorre dunque tentare una rilettura della disciplina
esistente, onde verificare la possibilità di renderla almeno in parte uno
strumento di risocializzazione dell’economia.
In letteratura, constatata l’impossibilità di costruire un sistema di doveri del consumatore idoneo a trasformarlo in un acquirente equo e solidale, si è riflettuto circa la possibilità di costruire un sistema di diritti riconoscibili in capo ad un simile acquirente. Si tratta certo di un sistema incapace di sostituire misure maggiormente interventiste – siano esse pubblicistiche o privatistiche ma incentrate sul tema dei vincoli all’azione individuale – in quanto pensato in funzione dell’interesse del singolo contraente (63).
Una soluzione muove dal concetto di conformità del bene al contratto di vendita: concetto che sappiamo essere ora alla base della disciplina
comunitaria sulle garanzie postvendita. Si dice che i valori incarnati dal
commercio equo e solidale possono essere esplicitamente richiamati dal
venditore in occasione della pubblicizzazione del prodotto e divenire in
tal modo il fondamento per azionare un rimedio contrattuale. Si tratta di
una soluzione che in area scandinava ha prodotto risultati apprezzabili,
soprattutto per quanto attiene al rispetto dei valori ambientali (64).
Ci si è inoltre chiesti se si possa parlare di difetto di conformità anche
nelle ipotesi in cui le caratteristiche del prodotto non sono menzionate in
occasione della sua presentazione al pubblico. Anche in tal caso si muove
(61) Parere del Comitato economico e sociale sul tema del Commercio etico, cit. Tra i documenti comunitari in tema di responsabilità sociale delle imprese v. COM (2001) 366 def.
(Libro verde « Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese »).
(62) COM (1999) 619 def., cit.
(63) Wilhelmsson, Contribution to a Green Sales Law (1993), in Id., Twelve Essays on
Consumer Law and Policy, Helsinki, 1996, p. 269 ss.
(64) Ivi, p. 276 ss.
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da formule ora contenute nella disciplina comunitaria sulle garanzie postvendita. Si dice infatti che l’azione del consumatore può fondarsi sulle sue
legittime aspettative e si aggiunge che possono essere tali quelle concernenti le caratteristiche del bene concernenti il suo impatto ambientale: in
particolare se si tratta di caratteristiche contemplate da provvedimenti amministrativi relativi agli standard di produzione (65).
Simili proposte, come la soluzione ora accolta a livello comunitario,
presentano un punto debole: ampliano le ipotesi di responsabilità del
venditore e determinano così lo sviluppo della grande distribuzione a scapito della piccola distribuzione, con effetti forse positivi sui consumatori,
ma non certo sui lavoratori. È questo un aspetto che forse ha un peso ridotto nel contesto nordeuropeo, ma che tuttavia può sconvolgere assetti,
economici e non, radicati in area sudeuropea (66).
Altri hanno riflettuto sull’estensione del ricorso allo ius poenitendi.
Ad esempio un gruppo di studiosi impegnati sul tema della giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti ha proposto di utilizzare il rimedio
del recesso del consumatore per le vendite di beni confezionati sfruttando il lavoro minorile. Ciò si afferma valorizzando la circostanza che il diritto comunitario conosce oramai un insieme di norme di livello in senso lato costituzionale e che è pertanto opportuno accedere ad una rilettura del diritto privato europeo alla luce dei valori incarnati da dette norme (67).
Anche questa soluzione presenta alcuni inconvenienti. Riferirsi ai valori costituzionali europei – in particolare quelli codificati nella Carta dei
diritti fondamentali e trasfusi nella proposta di Costituzione europea – significa valorizzare schemi di politica del diritto concepiti a misura di una
economia sociale di mercato. E si tratta di schemi, di cui pure si tenta l’esportazione attraverso l’inserimento di clausole specifiche entro gli accordi di cooperazione internazionale sottoscritti dall’Unione europea (68), che
conducono a concepire la conformazione dell’attività economica come
(65) Ivi, p. 279 ss. Cfr. altresì Reich, Diverse Approaches to Consumer Protection Philosophy, cit., p. 285.
(66) Nella letteratura sociologica v. sul punto Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi
e non luoghi del consumo, in Triani (a cura di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Milano, 1996, p. 66 ss. V. anche Alpa-Bessone, La responsabilità del produttore, cit., p. 139 s.
(67) Gruppo di studio sulla giustizia sociale nel diritto privato europeo, Giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo, cit., p. 123.
(68) Da ultimo Pinelli, Le clausole sui diritti umani negli accordi di cooperazione internazionale dell’Unione, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 39 ss.
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mera reazione ai fallimenti del mercato, ma non anche per implementare
efficacemente valori sociali (69).
Da un simile punto di vista sembra opportuno individuare una soluzione che, pur non determinando l’individuazione di doveri in capo al
consumatore, produca almeno una diminuzione dei diritti ad esso solitamente riconosciuti e renda così il bene ed il servizio equo solidale competitivo rispetto ai beni ed ai servizi tradizionali. I primi – e sono i documenti comunitari a riconoscerlo – sono più costosi dei secondi, in quanto
il loro prezzo risente del trattamento di favore riservato ai loro produttori
o erogatori: tanto che « non tutti i consumatori hanno la capacità economica di acquistarli » (70).
Se così stanno le cose, non sono evidentemente sufficienti le iniziative, come quelle privilegiate a livello comunitario, esclusivamente volte a
far sì che i consumatori « possano avere la certezza » che gli operatori economici del circuito equo e solidale « mantengano realmente le loro promesse e non promettano esplicitamente o implicitamente più di quanto
possano mantenere » (71). Occorre che i beni e servizi del circuito equo solidale possano circolare a prezzi concorrenziali ottenuti, come abbiamo
detto, attraverso una riduzione dei diritti dell’acquirente. Ciò al fine di determinare una riduzione dei costi che il produttore o l’erogatore dovrebbe
altrimenti trasferire sul consumatore finale.
Riteniamo che ciò sia possibile muovendo dalla disciplina comunitaria
sulla contrattazione standard e in particolare dalla precisazione che « il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al
momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto, o
di un altro contratto da cui esso dipende » (72).
Secondo alcuni autori – sensibili alle riflessioni in termini di analisi
economica del diritto e in tal modo a schemi politico normativi in linea
con i modelli comunitari – la disposizione conduce a ritenere che, per la
disciplina in discorso, « ciò che è abusivo ad un prezzo può essere perfettamente equo ad un altro » (73). E nel caso del commercio equo e solidale
(69) Citazioni in Somma, Diritto comunitario e patrimonio costituzionale europeo: cronaca di un conflitto insanabile, in Pol. dir., 2004, p. 263 ss.
(70) Parere del Comitato economico e sociale sul tema del Commercio etico, cit.
(71) Ibidem.
(72) Art. 4 Direttiva 93/13/CEE.
(73) Pardolesi, Clausole abusive (nei contratti dei consumatori): una direttiva abusata?,
in Foro it., 1994, V, c. 149 che riprende una formula coniata da Atiyah.
696
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
ciò conduce a non ritenere abusiva una clausola che sarebbe tale, ove non
fosse bilanciata dall’impegno a soddisfare determinati standard concernenti la produzione del bene o l’erogazione del servizio: impegno esplicitato appunto nelle condizioni generali di contratto o eventualmente ricavabile implicitamente dall’essere il bene o il servizio messo in circolazione da un soggetto chiaramente riconoscibile come operatore del circuito
equo e solidale (74).
È appena il caso di rilevare che il percorso ermeneutico proposto può
essere utilizzato anche per il commercio etico, oltre che per il commercio
equo e solidale. Lo può essere a maggior ragione se è vero che – come rilevato in sede comunitaria – i costi aggiuntivi sostenuti dalle imprese sono « giustificati dalle ulteriori garanzie ottenute in termini di immagine
delle imprese » (75).
Come abbiamo anticipato, le soluzioni proposte non consentono di
sviluppare forme di esportazione della democrazia economica che mettano in discussione la centralità del meccanismo mercantile. Del resto la risocializzazione dell’economia, in quanto fondata sulla mediazione del circuito democratico, necessita di un diritto contrattuale incentrato sul tema
dei doveri e non dei soli diritti del contraente debole. Ma un simile sistema non sembra essere ricompreso nell’attuale agenda comunitaria e pertanto nel breve e medio termine appare realistico e opportuno riflettere –
come si è tentato di fare – sul modo di alterare attraverso l’interpretazione l’impostazione dell’attuale disciplina. Non si realizzerà la risocializzazione dell’economia, ma almeno si eviterà di alimentare l’attuale fase incentrata sulla sua desocializzazione.
(74) Per ulteriori riflessioni cfr. Somma, Mercato liberista e mercato solidale. Riflessioni
minime sull’equilibrio economico-sociale nel diritto dei contratti, in Vettori (a cura di), Squilibrio e usura nei contratti, Padova, 2002, p. 623 ss.
(75) Parere del Comitato economico e sociale sul tema del Commercio etico, cit.
ANTONIO LORDI
Valori etici e principio di complementarità tra sistemi giuridici
Sommario: 1. Premessa. – 2. Economia di mercato e diritto: la nascita della distinzione tra
« contratto isolato » e « contratto di mercato ». – 3. L’influenza del civil law sul common
law: compravendita di beni immobili e rimedi di Equity.– 4. Etica puritana e diritto dei
contratti: dall’absolute contract al new spirit del contratto. – 5. Il giurista italiano tra civil
law e common law.
1. – « Il genio dell’italiano è per la teoria; il genio dell’inglese è per l’amministrazione pratica . . . Ciascuno ha ancora molto da imparare dall’altro . . . Il diritto inglese è il prodotto dei giudici che eseguono il loro lavoro
giornaliero di amministrare la giustizia; il diritto italiano è la creazione del
pensiero » (1). Stallybrass oltre a stigmatizzare la differenza tra civil law e
common law, continuava esaltando il ruolo di guida del diritto italiano nel
campo del diritto penale, affermando « L’Italia è stata chiamata la patria del
diritto penale, e con giustizia . . . i nomi di Beccaria, Carrara, Lombroso e
Ferri hanno conquistato gli onori non solo dell’Italia, ma del mondo » (2).
L’Italia ha avuto il primato mondiale del diritto in tre epoche storiche
diverse: durante l’impero romano (3), nel periodo dei glossatori e dei commentatori (4) che va di pari passo con lo svilupparsi del diritto canonico, e
(1) Stallybrass, A Comparison of the General Principles of Criminal Law in England
with the « Progetto definitivo di un nuovo codice penale » of Alfredo Rocco, 13 Journal of Comparative Legislation & International Law, 203, 204 (1931). La traduzione è mia. La versione
originale recita: « The genius of the Italian is for theory; the genius of the Englishman is for
practical administration . . . Each still has much to learn from the other . . . English law is the
product of the judges carrying out their daily duty of administering justice; Italian law is the
creature of thought ».
(2) « Italy has been called the patria del diritto penale, and with justice . . . The names of
Beccaria, Carrara, Lombroso and Ferri have won the homage not only of Italy but of the
world ».
(3) Haskins, ricordando lo Ihering che osservava come Roma conquistò il mondo in tre
modi, con le sue armi, con la sua chiesa e con le sue leggi, aggiungeva che la conquista che
Roma fece con il diritto fu una conquista d’ordine spirituale, « che perdurò quando l’impero era scomparso da tempo e gli eserciti ridotti in polvere ». Haskins, La rinascita del dodicesimo secolo, Bologna, 1972, p. 165.
(4) In proposito mi sia consentito di rinviare a Lordi, Towards a Common Methodology
in Contract law, in 22 Journal of Law & Commerce, 1, 2002.
698
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
nel periodo della scuola positiva del diritto penale. Nessun altro sistema
giuridico è riuscito ad esprimere la quantità di concetti, teorie e regole
pratiche che ha prodotto il sistema giuridico italiano nei suoi duemilaequattrocento anni di storia (se utilizziamo come data di partenza le dodici tavole (5). Il diritto italiano (6) si è costruito con il continuo evolversi del
pensiero giuridico così come si manifesta nelle aule di tribunale, nei lavori dell’accademia e nella vita degli affari e dell’impresa. Nonostante la professione di giurista in Italia non sia disciplinata in modo unitario (7), essendo le categorie professionali divise in avvocati, magistrati e notai, il diritto italiano mantiene una sua connotazione culturale tipica che dal diritto romano sino alle codificazioni ottocentesche esprime i valori dell’italianità giuridica, trasfusi poi nei valori giuridici dell’occidente (8).
Nel periodo attuale, sebbene si assista ad un’apparente preponderanza
delle dottrine e della metodologia del common law, dovuta anche alla pratica necessità dell’utilizzo della lingua inglese nei rapporti commerciali internazionali, il patrimonio giuridico del civil law, e in particolare l’evoluzione e gli adattamenti dati ad esso dalla dottrina e dalla giurisprudenza
italiana, giocano un ruolo importante nello sviluppo di una cultura giuridica internazionale comune sia al civil quanto al common lawyer.
La flessibilità del giurista italiano (9) si riscontra sia nell’attività professionale, quanto nella capacità di adottare strumenti e metodi di altre esperienze giuridiche, avendo quale obiettivo la loro integrazione nel sistema
e quindi tenendo in considerazione la teoria generale del diritto.
Tuttavia, un ruolo di leadership internazionale richiede come tale la
comprensione e il consenso delle altre esperienze e tradizioni giuridiche.
(5) La data delle Leges XII Tabulorum è 451-450 a.C. In argomento v. Guarino, Diritto
privato romano, Napoli, 1976, p. 114.
(6) Ai fini del presente scritto utilizzo una nozione molto lata di diritto italiano ricomprendente tutto il diritto che ha avuto origine in Italia. Quindi in esso rientra il diritto romano, il diritto canonico e il diritto dell’alto e basso medioevo sino al diritto pre e postunitario. Per quanto riguarda i termini Roman law e civil law, essi vengono usati, soprattutto
dalla giurisprudenza e dottrina anglofona, in modo promiscuo, ossia come riferentesi in generale al diritto di origine continentale. Nel testo utilizzo dei riferimenti consistenti con le
citazioni.
(7) Merryman, The Civil Law Tradition. An Introduction to the Legal Systems of Western
Europe and Latin America, Stanford, Ca., 1985, p. 101 ss.
(8) Alpa, Tradition and Europeanization in Italian Law, London, 2005, p. 1 ss.
Wieacker, Storia del diritto privato europeo, vol. I, Milano, 1980, p. 529 definisce l’Italia
« terra d’origine della scienza giuridica europea ».
(9) Sul punto si veda l’indagine di Alpa che evidenzia le aperture del giurista italiano al
diritto straniero: Alpa, Tradition, cit., p. 97 ss.
SAGGI
699
In particolare di quella anglo-americana, di quella franco-romana e di
quella germanico-romana (10).
Nel presente scritto mi soffermerò sulle ragioni della separazione del
civil e del common law e sui loro punti di contatto e convergenza, tra etica
ed economia, identificando nello sviluppo di valori etici il vero motore
dell’evoluzione storica del diritto.
2. – Uno dei temi che ha contribuito a separare il civil law dal common
law è stato quello della relazione tra economia di mercato e diritto. La tesi proposta dai liberisti (11) è che gli obiettivi dell’economia di mercato siano meglio raggiungibili se il diritto fosse creato dai giudici, in quanto in
tal modo, il diritto non interverrebbe all’inizio del processo economico,
disciplinandone ogni sua fase, ma, e solo eventualmente, a valle se vengono a crearsi le condizioni per un intervento giudiziario. Nell’ottica liberista il common law sarebbe un’ipotesi di ordine spontaneo e per ciò solo
maggiormente in linea con la libertà individuale. In effetti, il modo in cui
il civil law e il common law si atteggiano nei confronti dell’economia di
mercato si presenta in maniera differente per ragioni, sia di carattere logico, che di carattere ontologico.
Mentre il diritto continentale è nato come risposta ordinatrice al caos
giuridico e al vuoto (12) di regole creatosi all’indomani della crisi e della
caduta delle istituzioni politiche e religiose d’Europa, e quindi era diretto
a regolare il lassaiz faire, il diritto inglese, sin dal XVII secolo si è svilup(10) Questa è la distinzione riportata recentemente da Galgano in Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005, p. 9. Tuttavia, per le considerazioni che
svolgeremo in prosieguo, la mancata aggettivizzazione di romana al modello anglo-americano non è del tutto condivisibile. Come si vedrà, infatti, il diritto inglese ha recepito molte regole e teorie del diritto romano e del civil law. Inoltre il diritto anglo-americano continua ad essere notevolmente influenzato dal diritto civile continentale. La suddivisione degli ordinamenti di diritto privato in gruppi e famiglie è terreno tipico del comparatista.
Wieacker propone una divisione generale tra gruppi di diritti dell’Europa continentale e
gruppi di diritti anglosassoni. Nell’ambito del primo gruppo poi distingue tra famiglia romanza e famiglia mitteleuropea (Wieacker, Storia del diritto privato europeo, vol. II, Milano 1980, p. 223). Una nuova e originale divisione è stata proposta da Glenn, il quale sostiene la diversità delle diverse tradizioni giuridiche che significherebbe « accettare . . . non tollerare », considerandole come « reciprocamente interdipendenti » (Glenn, Legal Traditions
of the World, 2000, p. 333). Condivido la tesi di Glenn, ma preferisco parlare di “complementarità” tra sistemi giuridici per rimarcare la tendenza verso l’unitarietà.
(11) Hayek, Legge, legislazione e libertà, Milano, 1994; Id. The Constitution of Liberty,
Chicago, 1960; Leoni, Freedom and the Law, 1961 (3a ed., Indianapolis, IN., 1991).
(12) Galgano, op. cit., p. 46.
700
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
pato non quale « prodotto della volontà di qualcuno, ma piuttosto come
una barriera ad ogni potere, incluso quello del re » (13). Basti pensare al
noto Bonham’s Case (8 Co. Rep. 107a, 114a C.P., 1610) dove Sir Edward
Coke affermava « appare nei nostri libri che in molti casi il common law
controllerà gli atti del parlamento e talvolta li giudicherà totalmente nulli:
quando un atto del parlamento è contrario al diritto comune e alla ragione, o ripugnante, o impossibile da essere eseguito, il common law lo controllerà e giudicherà tale atto nullo » (14).
In realtà, la nascita del pensiero liberista occidentale non è stata il frutto di una politica del diritto da parte delle nuove istituzioni politiche, nate
all’indomani della rivoluzione francese, ma della crisi delle istituzioni decadute alla fine del settecento: la Chiesa di Roma e la monarchia assoluta.
In mancanza di direttive da parte delle istituzioni, il mercante poteva finalmente agire liberamente e, alla richiesta di un intervento statale (« que
faut-il faire pour vous aider? », chiedeva Colbert al mercante Legendre),
rispondere « nous laisser faire » (15). Il liberismo economico nasce in un
momento di sfiducia nelle istituzioni politiche e sociali, e non è un caso
che quindi anche oggi nelle democrazie post-industriali si faccia appello al
liberismo quante volte tali istituzioni entrino in crisi (16).
In questi termini possiamo affermare che il sistema giuridico di common law si è trovato ad essere naturalmente più preparato del sistema di
civil law nell’affrontare la crisi istituzionale e politica della fine del settecento, e ciò in quanto anche laddove viene a mancare il potere legislativo,
il common law è pur sempre in grado di funzionare e di produrre diritto.
Viceversa, il sistema continentale di civil law, di fronte alla crisi istituzionale deve logicamente attendere una ripresa delle istituzioni, ossia del potere legislativo e di governo, e soltanto successivamente, può riprendere
la sua normale attività (17).
(13) Hayek, Legge, cit., p. 110
(14) In inglese recita come segue: « it appears in our books, that in many cases, the Common Law will controul Acts of Parliament, and sometimes adjudge them to be utterly void:
for when an Act of Parliament is against common right and reason, or repugnant, or impossible to be performed, the Common Law will controul it, and adjudge such Act to be void ».
In argomento v. Kelly, Storia del pensiero giuridico occidentale, Bologna, 1996, p. 280; in inglese il titolo dell’opera è A Short History of Western Legal Theory, Oxford, 1992, p. 223.
(15) Keynes, The End of Laissez Faire 1926, Amherst, NY, 2004, pubblicato originariamente nel 1926, p. 22, nota 2.
(16) È appunto quanto sembra essere avvenuto anche in alcuni Stati dell’Unione Europea, compresa l’Italia, e negli Stati Uniti.
(17) D’altronde, questo collegamento tra istituzioni politiche e diritto caratterizza il civil
SAGGI
701
Oltre a tale differenza logica, v’era una difficoltà ontologica del civil
law a disciplinare l’economia di mercato così come si andava sviluppando
alla fine del settecento e agli inizi dell’ottocento. Mi riferisco alla caratteristica personalizzante del civil law (18) che si era sviluppato su rapporti interpersonali, e che quindi con il sorgere dell’economia di mercato perdeva l’oggetto del proprio studio. L’economia di mercato non faceva più riferimento a questo o quel singolo venditore e/o compratore, ma alle forze impersonali della domanda e dell’offerta (19).
Con l’economia di mercato nasce quindi una nuova categoria di contratto: il contratto di mercato che si affianca a quella già presente del contratto isolato. In quest’ultimo la disciplina è dettata in funzione della persona e del rapporto interpersonale che si viene a creare. Nel contratto di
mercato invece la disciplina tende a regolare la domanda e l’offerta (20).
Tale distinzione trova peraltro anche un fondamento nell’etica degli affari. In quest’ambito vengono a distinguersi tre livelli di affari. Il livello micro, ossia le regole dello scambio equo tra due individui, il livello macro
che riguarda le regole istituzionali e culturali del commercio nell’intera
società e infine il livello cd. molare che interessa l’impresa in forma societaria (21).
La non considerazione di vicende interpersonali o personali nella disciplina dei rapporti giuridici, trovava terreno fertile nella cultura puritana anglosassone che si esprimeva anche nella cd. teoria dell’absolute contract (22). Viceversa, la cultura cattolico-romana era sempre stata attenta
alle vicende personali sottostanti il rapporto giuridico, e aveva costruito
law sin dalle sue origini. Sul punto v. le riflessioni di Grossi, secondo cui, con riguardo al
civil law, la riscoperta del diritto romano giustinianeo « autentico » nell’epoca del rinascimento giuridico italiano del XII secolo, si inquadrerebbe nell’esigenza del giurista di « trovare un momento di validità per il proprio discorso », perché « il produttore del diritto è solo nel vuoto che il potere generalmente lascia intatto ancora per molto tempo ». Grossi,
L’ordine giuridico medievale, Bari, 1995, p. 155 ss.
(18) Sul punto v. Glenn, op. cit., p. 116 ss.
(19) Sul punto Weber, Economy and Society. An Outline of Interpretative Sociology, I,
Berkeley, Ca., 1978, p. 588.
(20) Le categorie del contratto isolato e del contratto di mercato le ho trattate in un precedente lavoro al quale mi permetto di rinviare Lordi, Il prezzo nel contratto di scambio, Napoli, 2001, p. 162 ss.
(21) Solomon, Business Ethics, in Singer (edited by), A Companion to Ethics, Malden,
Ma., 1991, p. 359 ss.
(22) Paradine v. Jane (1647) Aleyn 26, in Beale-Hartkamp-Kötz-Tallon, Cases, Materials & Text on Contract Law, Oxford, 2002, p. 608.
702
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
regole giuridiche ispirate al valore dell’equità (23). Queste regole e questi
valori sebbene non venissero del tutto trascurati dal common lawyer, erano confinati, data la loro eccezionalità, in una giurisdizione a sé stante, la
Court of Equity, appunto (24).
La sociologia e la storia economica c’insegnano che l’etica cattolica
mal si confaceva al mutamento sociale portato dalla rivoluzione industriale. « Qualsiasi tipo di relazione personale tra uomo e uomo, di qualsiasi
sorta persino includendo la schiavitù può essere soggetta a requisiti etici
ed essere eticamente regolata », scriveva Weber, ma « non vi è nessuna
possibilità, in pratica o in teoria, di qualsiasi regolazione caritativa delle
relazioni che sorgono tra azionisti e operai di una fabbrica, tra importatori di tabacco e operai stranieri della piantagione, o tra industriali e minatori che hanno scavato dalla terra i materiali grezzi che sono usati nelle
fabbriche di proprietà degli industriali. La crescente impersonalità dell’economia . . . segue le proprie regole, la disobbedienza delle quali porta al
fallimento economico e, nel lungo periodo, alla rovina economica ». Se
tuttavia secondo i dettami cattolici una carriera nel mondo degli affari era
concepibile solo per chi fosse lassista sotto il profilo etico rendendo quindi incolmabile la differenza tra la concezione di vita cattolica e quella capitalista (25), d’altro canto l’etica protestante, e in particolare quella purita-
(23) Rosmini, Filosofia del diritto, vol. I, 1865. La copia da me consultata è in inglese The
Philosophy of Right. Rights of the Individual, vol. II, Glasgow, 1993. In particolare Rosmini
tratta dell’equità nei paragrafi 1185 ss. Sul concetto di aequitas canonica e su come essa sia
stata influenzata dalla scuola civilistica bolognese v. Grossi, op. cit., p. 210.
(24) Kerly, An Historical Sketch of the Equitable Jurisdiction of the Court of Chancery,
Cambridge, 1890. Atiyah osserva che durante il diciottesimo secolo la Court of Equity interveniva sui contratti e che quindi il motto secondo il quale « la corte non fa il contratto al posto delle parti » va ristretto al diciannovesimo secolo. Atiyah, The Rise and Fall of Freedom
of Contract, Oxford, 1979, p. 173. Si pensi anche alla tematica della giustizia contrattuale,
sulla quale peraltro negli ultimi anni tanto in Italia, quanto nei paesi anglosassoni, s’è avuta una notevole produzione editoriale. Di recente in Italia v. Volpe, La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Napoli, 2004 e Caccavale, Giustizia del contratto e presupposizione, Torino 2005 e ivi bibliografia citata. Negli Stati Uniti v. Benson (edited by), The
Theory of Contract Law. New Essays, Cambridge, 2001 e ivi bibliografia citata. Circa le relazioni tra common law ed Equity in Inghilterra prima e dopo il Supreme Court of Judicature
Acts 1873-1875 v. Eddey-Darbyshire, On the English Legal System, London, 2001, p. 140 ss.
(25) Fanfani, Catholicis, Protestantism and Capitalism, Norfolk, Va., 2003, p. 118. La
versione originale in italiano è Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del
capitalismo, Milano 1934. Recentemente, nella direzione di una convergenza tra pensiero
cattolico e pensiero capitalista v. Todeschini, I mercanti e il tempio, Bologna, 2002; Ceccarelli, Il gioco e il peccato, Bologna, 2003; Bazzichi, Alle radici del capitalismo. Medioevo e
SAGGI
703
na sviluppatasi nel mondo anglofono, interpretava il successo negli affari
come il frutto di un modo razionale di vita (26). Per la nuova etica, la più
alta forma di obbligazione morale dell’individuo era proprio quella di
adempiere i suoi doveri negli affari (27). È questa la nuova etica che permeava il common law britannico prima, e quello nordamericano, poi. Alla
domanda « quali forze per oltre due secoli trasformarono l’Inghilterra dei
Tudor nell’impero che guidò il mondo e trasformò tredici piccole colonie
nordamericane nel successore dell’impero, gli Stati Uniti » Phillips (28) risponde « dei tanti ingredienti, dal commercio all’individualismo, dalla potenza sui mari, alla forma di governo parlamentare, il più importante fu
inizialmente il protestantesimo . . . Il protestantesimo velocemente diventò una delle più forti auto-identificazioni dell’Inghilterra. Religione e
nazionalismo inglese iniziarono quello che sarebbe stata una memorabile
convergenza ». Questo processo d’identificazione coinvolse anche il diritto e « la rivoluzione puritana dal 1640 al 1660 stabilì la supremazia del
common law sui suoi rivali » (29). In materia di diritto dei contratti la rivoluzione puritana portò la sostituzione della teoria morale del contratto
con la teoria dell’affare (bargain theory) la cui applicazione si riflette nel
leading case Paradine v. Jane (30) (su cui infra al paragrafo 4).
Da quanto sin qui descritto, si può affermare che la differenza tra civil
law e common law in riferimento all’economia di mercato riguarda una
differenza di atteggiamento che i due sistemi giuridici hanno avuto di
fronte alla crisi delle istituzioni e all’emergere dell’economia di mercato
alla quale, per le ragioni indicate, meglio si addiceva l’etica puritana che
non quella cattolica. In effetti, se è vero che l’Inghilterra con la sua economia ha dominato il mondo nell’ottocento, le cause sono da riscontrare
anche in tutta una serie di fattori che poco hanno a che vedere con lo sviluppo del sistema giuridico di common law. Come scriveva Tawney (31) a
scienza economica, Torino, 2003; Chafuen, Faith and Liberty. The Economic Thought of the
Late Scholastics », Lanham, Md., 2003.
(26) Weber, Economy and Society, cit., p. 588.
(27) Giddens nella prefazione a Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, New York, 2002, p. xii.
(28) Phillips, The Cousins’ Wars. Religion, Politics, & the Triumph of Anglo-America,
New York, 1999, p. 8.
(29) Berman, The Religious Sources of general Contract Law: An Historical Perspective, 4
Journal of Law & Religion 103 (1986) 115, ora in Berman, Faith and Order. The Reconciliation
of Law and Religion, Grand Rapids, Mi., 1993, p. 187 ss.
(30) Paradine v. Jane (1647) Aleyn 26, in Beale-Hartkamp-Kötz-Tallon, op. cit., p. 608.
(31) Tawney, Religion and the Rise of Capitalism, New York, 1926, p. 8.
704
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
proposito del sorgere del capitalismo, « l’arena più importante è l’Inghilterra perché è in Inghilterra, con la sua nuova posizione geografica come
l’enterpôt tra l’Europa e l’America, il suo raggiungimento di unità economica interna due secoli prima della Francia e due secoli e mezzo prima
della Germania, la sua rivoluzione costituzionale, e la potente bourgeoisie di banchieri, armatori e mercanti, che la trasformazione della struttura della società è la più anticipata, rapida e completa ». Di recente una
bella, quanto rigorosa, sintesi dei formanti della rivoluzione industriale è
stata offerta da Sachs. « Perché fu prima la Gran Bretagna? Perché non la
Cina, che era stata leader mondiale della tecnologia per quasi un millennio, dal 500 d.C. al 1500 d.C.? Perché non altri centri di potere sul continente europeo o in Asia? » (32). Le risposte per Sachs sono: 1) la società
britannica era relativamente aperta rispetto alle altre società nel mondo e
con maggiore possibilità per iniziativa individuale e mobilità sociale; 2)
aveva rafforzate istituzioni di libertà politiche e proteggeva i diritti di proprietà privata che reggevano l’iniziativa privata; 3) era il centro europeo
della rivoluzione scientifica (il riferimento è ai Principia Mathematica di
Isaac Newton pubblicati nel 1687); 4) aveva cruciali vantaggi geografici;
5) aveva minori rischi di invasioni militari esterne; 6) aveva il carbone
che, data l’invenzione della macchina a vapore, era la più importante
fonte d’energia dell’epoca. « La combinazione di nuove tecnologie industriali, il potere del carbone e le forze del mercato crearono la rivoluzione industriale » (33). Il common law prima di altri ordinamenti si è trovato
a dover esaminare le problematiche giuridiche che nascevano nella nuova società che andava formandosi, le cui caratteristiche erano: a) l’urbanizzazione; b) la mobilità sociale; c) il diverso ruolo dell’uomo e della
donna nella società e quindi i cambiamenti nell’istituzione della famiglia; d) la divisione del lavoro (34).
È interessante notare che se il liberismo che ha elogiato il common law
come sistema giuridico più confacente ad un economia di mercato, è stato capeggiato da un austriaco, Friedrich August von Hayek, la critica mag-
(32) Sachs, The End of Poverty. Economic Possibilties for our Time, New York, 2005, p. 33.
Sul punto si veda anche la ricostruzione che fa Rifkin della scomparsa delle corporazioni
medievali e la nascita dell’economia di mercato. Rifkin, The European Dream. How Europe’s Vision of the Future is Quietly Eclipsing the American Dream, New York, 2004, p. 161 ss.
(33) Circa le cause della povertà e del perché alcune società si sono evolute più di altre
oltre a Sachs, op. cit. v. Diamond, Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies,
New York, 1999, il quale ricollega la differenza a ragioni di carattere geografico-ambientale.
(34) Sachs, op. cit., p. 35 ss.
SAGGI
705
giore al liberismo è provenuta proprio da un inglese, John Maynard Keynes, il quale nel proclamare la fine del laissez faire affermava: « la conclusione che gli individui agenti indipendentemente per il proprio vantaggio
producano il massimo volume complessivo di ricchezza dipende da una
varietà di presupposti irreali, come ad esempio, che i processi di produzione e consumo non sono in alcun modo organici, che esiste una sufficiente conoscenza preventiva delle condizioni ed esigenze e che vi sono
possibilità adeguate di ottenere questa conoscenza. Perciò gli economisti
in genere riservano ad una fase posteriore del loro ragionamento le complicazioni che sorgono: (1) quando le unità efficaci di produzione sono
grandi rispetto alle unità di consumo; (2) quando sono presenti costi generali o costi connessi; (3) quando le economie interne tendono ad estendersi al complesso della produzione; (4) quando il tempo necessario per
gli adeguamenti è lungo; (5) quando l’ignoranza prevale sulla conoscenza;
e (6) quando monopoli e combinazioni interferiscono con l’eguaglianza
nelle negoziazioni – essi riservano, per così dire, ad una fase successiva la
loro analisi dei fatti reali » (35). Keynes rigetta così l’individualismo liberista e la propugnata « armonia sostanziale fra gli interessi sociali e quelli individuali » (36), propone un interventismo statale nell’economia, ma non
indica alcuna preferenza per il sistema di civil o di common law.
Al centro del dibattito tra Hayek e Keynes non è il civil law versus il
common law, ma è di come « far sorgere un’organizzazione sociale che sia
la più efficiente possibile senza offendere le nostre nozioni di un soddisfacente sistema di vita » (37) o, come scrive Pound (38), di trovare l’equilibrio tra il desiderio degli esseri umani di essere uguali e il loro desiderio
di essere liberi. Problema aperto quest’ultimo che continua a stimolare i
contributi soprattutto degli studiosi del contratto (39).
3. – La materia contrattuale è il campo in cui si è maggiormente verificata quello che potrebbe definirsi un processo di “osmosi giuridica” tra civil law e common law (40). Di fronte allo svilupparsi delle problematiche
(35) Keynes, op. cit., p. 31 ss.
(36) Id., op. cit., p. 23.
(37) Id., op. cit., p. 45
(38) Pound, An Introduction to the Philosophy of Law, New Haven, Ct., 1922, p. 168.
(39) V. bibliografia citata in nota 24.
(40) Molto suggestivi sono anche gli studi che osservano gli scambi culturali avvenuti alle origini del common law durante il periodo normanno. Circa alcune analogie tra il sistema
giurisdizionale in Sicilia ed in Inghilterra v. Caravale, La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica dai Normanni ai Borboni, Bari, 1998, p. 25 ss. Per una tesi che indivi-
706
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
giuridiche della società industriale, i giuristi delle diverse esperienze, così
come è accaduto in altri campi della cultura e del sapere, hanno reagito
interscambiandosi le conoscenze (41). Il commercio internazionale ha reso
sempre più permeabili le decisioni giudiziarie e arbitrali ai principi e alle
regole di diversi paesi (42). Lo stesso sta avvenendo in materia societaria e
di tutela del risparmio. Viceversa, altri settori del diritto privato, come ad
esempio il diritto di famiglia e il diritto del lavoro rimangono per il momento fuori da tale processo. Mentre, un discorso a parte, che non è possibile svolgere in questa sede, meriterebbe il diritto pubblico ed in particolare il diritto costituzionale (43).
Dal punto di vista storico sia il diritto inglese (44), quanto il diritto
americano (45), hanno enfatizzato l’attrazione che il civil law ha avuto per
dua le origini del common law nel diritto islamico che sarebbe arrivato nell’Inghilterra normanna tramite la Sicilia normanna v. Makdisi, The Islamic Origins of the Common Law, in
North Carolina Law Review, 1999, p. 1635 ss.
(41) Stein, Roman Law in European History, Cambridge, 1999, p. 125.
(42) Galgano, op. cit., p. 76.
(43) Nel diritto costituzionale statunitense, sembra che vi sia una separazione tra chi accetti, almeno in linea di principio, l’influenza di altre culture giuridiche e chi invece rifiuti la
possibile contaminazione del « Con law ». Una decisione della Corte Suprema, nella quale
è possibile vedere le due tendenze a confronto è Lawrence et al. v. Texas 539 US 558 (2003).
Infatti, mentre il redattore dell’opinion, Justice Kennedy, nel supportare la motivazione faceva riferimento alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo affermando persino che sebbene
« the doctrine of stare decisis is essential to the respect accorded to the judgments of the
Court and to the stability of the law », comunque, « it is not . . . an inexorable command »,
dall’altro lato, Justice Antonin Scalia, nel redigere la sua dissenting opinion rigettava fermamente la possibilità di complementare il diritto americano con il diritto straniero e, citando
una precedente decisione del Justice Clarence Thomas, affermava « the Court’s discussion
of these foreign views . . . is therefore meaningless dicta. Dangerous dicta, however, since
“this Court . . . should not impose foreign moods, fads, or fashions on Americans.” Foster v.
Florida, 537 U.S. 990, n. (2002) ».
(44) Maitland, English Law and the Renaissance, Cambridge, 1901. Si vedano anche le
riflessioni di Blackstone, Commentaries on the Laws of England, vol. I, Oxford, 1765, p. 19
ss. che osserva come in realtà lo scisma tra civil law e common law sia avvenuto all’interno
della stessa Inghilterra prima di avvenire tra l’Inghilterra e il resto d’Europa. In effetti, il civil law era il diritto studiato dai vescovi e dal clero, mentre il common law veniva studiato
dalla nobiltà e dai laici.
(45) Hoeflich, Roman & Civil Law and the Development of Anglo-American Jurisprudence in the Nineteenth Century, Athens, Ga., 1997, p. 2 il quale espone così la sua tesi: « sebbene il diritto romano e il civil law non siano stati ricepiti nel common law anglo-americano
durante l’era moderna, essi, in realtà, esercitarono una significativa influenza nel pensiero
di alcuni tra i più importanti giuristi e teorici del diritto del diciannovesimo secolo in entrambe Inghilterra e Stati Uniti e pertanto giocarono un ruolo nello sviluppo del diritto an-
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707
il giurista anglofono (46). Infatti, se anche si è precisato (47) che l’ordinamento inglese non ha operato la « recezione » del diritto romano come gli
ordinamenti continentali, d’altro canto se ne riconosce (48) l’importanza
per i principi e i valori che esso esprime.
Sia nella materia dell’illecito civile che in quella del contratto, il common law non esita a recepire principi di civil law (49).
In realtà dalle fonti (50) si evince che nel XVI secolo in Inghilterra si fece strada l’idea della « recezione » del civil law affinché si rimediasse ai
« difetti del diritto inglese » (51). Per il common lawyer « non v’è dubbio »
che il diritto inglese è molto caotico, e la soluzione al problema potrebbe
essere di « recepire il diritto civile dei romani che ora è il diritto comune di
quasi tutte le nazioni cristiane » (52). Circa la formazione culturale del
common lawyer, sebbene non sembri che la conoscenza del diritto romano
possa essere d’aiuto all’avvocato innanzi le corti inglesi, lo studio del civil
glo-americano ». Sull’utilizzo del diritto romano dalla Corte Suprema degli Stati Uniti v.
Astorino, Roman Law in American Law: Twentieth Century Cases of the Supreme Court, 40,
Duquesne Law Review, 627, 2002.
(46) Holmes, The Common Law, Boston, 1881, p. 196 e p. 265. A p. 196 Holmes cita il caso Coggs v. Bernard (2 Anne, A.D. 1703) in cui Lord Holt cita ampiamente il diritto romano.
Per altro verso, v. a p. 253 la critica di Holmes al recepimento nel common law del concetto
di causa dell’obbligazione.
(47) Holdsworth, The Reception of Roman Law in the Sixteenth Century, I, 27, The Law
Quarterly Review, 1911, p. 387 ss., il quale a p. 392 richiama Melacthon, nel Lexicon Iuris Civilis di Jacob Spiegel (1549), c. 255 (visionabile su internet all’indirizzo: http://www.ub.unibielefeld.de/diglib/spiegel/lexicon) per evidenziare come i civil lawyers, a differenza dei common lawyers, si mettono a discutere di problematiche puramente teoriche come quella se il
testamento di Lazzaro fosse o meno valido dopo la sua resurrezione. « Nihilo saniores iurisconsulti fuere qui disputarunt de Lazaro, valueritne testamentum poseaquam revixit, et
hoc genus innumera ».
(48) Kerly, op. cit., passim.
(49) Bacon, The Elements of the Common Lawes of England, London, 1630. Circa l’illecito civile, mi riferisco alla massima « in jure non remota causa, sed proxima spectatur » (regola 1), circa il contratto, alla massima « verba fortius accipiuntur contra proferentem » (regola 3).
(50) Maitland, op. cit., p. 7, nota 11.
(51) Id., op. loc. cit.
(52) In inglese dell’epoca recita come segue: « thys ys no dowte but that our law and ordur teherof ys over-confuse . . .Ther ys no stabyl grounde therin, nor sure stay; but euery
one that can coloure reson makyth a stope to the best law that ys before tyme deuysyd . . .
The wych al by thys one remedy schold be amendyd and correct, yf we myght induce the
hedys of our cuntrey to admyt the same: that ys, to receyue the cyuyle law of the Romaynys,
the wych ys now the commyn law almost of al Chrystyan natyonys »: Id., op. loc. cit.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
law è stato considerato importante per la carriera diplomatica e notevole
considerazione ebbe l’insegnamento del diritto civile proprio di un italiano: Alberico Gentili (53) (1552-1608), Regius Professor di Civil Law ad
Oxford. La stima che di Gentili ebbe il Maitland fu tale che lo spinse ad
affermare che espellendo dall’Italia uomini come Gentili, l’Italia « rinunciò alla sua preminenza nel mondo degli studi giuridici » (54).
Maitland (55) ricorda come Maine nel suo Roman Law and Legal Education (1856) avesse a torto ritenuto che negli Stati Uniti il diritto romano
avrebbe avuto gran diffusione. L’erronea valutazione si fondava sull’adozione nello Stato della Louisiana del codice civile di stampo napoleonico:
« ora è questo codice, e non il common law dell’Inghilterra al quale i nuovi stati americani stanno attingendo il fondamento delle loro leggi, . . . il
diritto romano, pertanto, sta divenendo la lingua franca della teoria del diritto universale » (56).
In realtà il processo d’infiltrazione del civil law nel common law era già
iniziato secoli prima attraverso la Court of Equity (57). Il civil law veniva
considerato dal common lawyer in Equity come un « repertorio di principi
morali » (58). Tra le teorie che il common law ha mutuato dal civil law, vanno ricomprese le seguenti: la specific performance, l’estoppel by deed e l’equitable conversion. Sebbene queste doctrines attengano alla materia dei
contratti, la loro collocazione sistematica nel common law sono nella compravendita immobiliare, che viene studiata nell’ambito dei diritti reali.
La specific performance, che potremmo tradurre in esecuzione in forma specifica, consiste nel rimedio che una Court of Equity può dare a un
venditore o a un compratore se il risarcimento in forma generica, ossia
pecuniario, risulta inadeguato (59). Si tratta di un rimedio equitativo e come tale è nella discrezione del giudice di concederlo o meno.
Con l’equitable conversion l’Equity considera come accaduto ciò che
(53) V. alcune note biografiche in Simpson, Biographical Dictionary of the Common Law,
London, 1984.
(54) Maitland, op. cit., p. 14, nota 30.
(55) Id., op. cit., p. 32, nota 73.
(56) « Now it is this code, and not the Common Law of England which the newest
American States are taking for the substratum of their laws . . . The Roman law is, therefore, fast becoming the lingua franca of universal jurisprudence ». V. anche Stein, op. cit., p.
124, che ricorda un saggio nel quale Maine affermava « the immensity of the ignorance to
which we are condemned by ignorance of Roman Law ».
(57) Kerly, op. cit., p. 100.
(58) Id., op. cit., p. 101.
(59) Dukeminier - Krier, Property, New York, 2002, p. 588.
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709
dovrebbe essere accaduto. Si tratta in altri termini di ciò che in diritto italiano chiameremmo principio del consenso traslativo che rileva soprattutto ai fini di allocare il rischio per la distruzione della cosa venduta (risk of
loss). Si tratta di un rimedio esercitabile solo in Equity in quanto normalmente per il common law degli Stati Uniti la vendita non ha efficacia traslativa. Per meglio chiarire questo punto occorre brevemente menzionare
quali sono le fasi di acquisto di un immobile (60). Venditore e compratore
dopo aver negoziato il prezzo firmano il contratto di compravendita il
quale stabilisce la data (generalmente sessanta giorni) del closing. Il compratore al momento della firma del contratto deve depositare una caparra
(earnest money) che il venditore avrà diritto d’incassare se il compratore
recede dal contratto. Nel periodo che intercorre tra la firma del contratto
di vendita e il closing vengono svolte tre attività principali: 1) ci si assicura
che il venditore abbia un valido titolo di proprietà non attaccabile da terzi. La ricerca del titolo di proprietà può essere o diretta (andando a verificare tutta la chain of title) oppure fatta tramite estratti. In alternativa il titolo può essere stabilito da una compagnia assicurativa che rilascia al
compratore apposita polizza assicurativa; 2) il compratore può ispezionare o far ispezionare l’immobile per verificare che non vi siano vizi tali da
diminuirne il valore (in tal caso potrà ottenere una riduzione del prezzo);
3) il compratore può ottenere il mutuo da un istituto di credito. Al closing
il compratore riceve il titolo di proprietà (il deed) dal venditore e lo registra presso la county courthouse. Il momento traslativo è quindi rinviato al
closing, essendoci prima d’allora l’efficacia meramente obbligatoria della
vendita. Ne risulta, che tra il momento della conclusione del contratto, e
quello del trasferimento del titolo di proprietà, il rischio per il perimento
della cosa dovrebbe essere sopportato dal venditore.
Pertanto, con il rimedio equitativo dell’equitable conversion i giudici
considerano (61) il compratore come se fosse il proprietario, affermando
che il rischio per il perimento fortuito della cosa incombe sul compratore
anche se non ha ancora il possesso della cosa. L’Equity regards as done
that which ought to be done. È così che il principio dell’efficacia traslativa
dei diritti reali entra nel sistema anglosassone (62).
(60) Id., op. cit., p. 559.
(61) Paine v. Meller, 6 Ves. Jr. 349, 31 Eng. Rep. 1088 (Ch. 1801), citato in DukeminierKrier, op. cit., 2002, p. 589.
(62) Ma occorre sottolineare che non entra a far parte del common law, ma del limitato
ed eccezionale mondo dell’Equity. Per tali motivi non appare condivisibile l’inciso di Galgano secondo cui « il principio consensualistico regola i contratti traslativi nel common
710
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Altro esempio d’influenza del civil law sul common law attraverso la
Court of Equity, è l’istituto dell’estoppel by deed, che presenta notevoli affinità con la disciplina della vendita di cosa altrui contenuta nell’articolo
1478 c.c. Il tema richiede dei cenni sul concetto di deed a cui si è fatto riferimento in precedenza. In genere vi possono essere tre tipologie di deed:
1) il general warranty deed con cui il grantor (il garante, così viene chiamato il venditore al momento del closing) garantisce il titolo di proprietà contro qualsiasi difetto precedente o successivo al momento in cui egli divenne titolare; 2) lo special warranty deed, che contiene solo garanzie rispetto
ad atti del garante, ma non di terzi; 3) il quitclaim deed che non contiene
alcun tipo di garanzia.
L’estoppel by deed è applicabile laddove il venditore trasferisca al compratore un bene immobile di cui non sia proprietario ma garantendone la
proprietà. In tal caso, se il venditore ne dovesse successivamente acquisire la proprietà, questa passa automaticamente al compratore. In altri termini, e spiegando l’etimologia giuridica dell’istituto, al venditore è estopped, ossia impedito, di affermare che non era proprietario al momento
della consegna del deed. Si tratta di un’applicazione del principio di economia dei mezzi giuridici che evita l’azione del compratore nei confronti
del venditore sulla base del warranty deed, trasferendo automaticamente
la proprietà al compratore.
4. – Una delle aree del diritto dei contratti in cui maggiormente il civil
law ha manifestato la sua influenza sul common law è quella del mutamento successivo delle circostanze (63) sia nel senso dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione contrattuale, quanto in quello della sua eccessiva onerosità. La regola sull’impossibilità sopravvenuta è contenuta
nel Digesto (D. 45, 1, 23), quella sull’eccessiva onerosità ritrova il suo rife-
law ». L’equitable conversion, come si è visto, è un prodotto della Court of Equity, non del
common law: Galgano, op. cit., p. 50.
(63) Sul tema delle sopravvenienze contrattuali e della gestione del contratto, v. da ultimo Marasco, La rinegoziazione e l’intervento del giudice nella gestione del contratto, in Contratto e impresa, 2005, p. 539 ss. (e ivi bibliografia citata), nel quale viene commentato il lodo del Collegio arbitrale, composto dai professori Alpa, Nanni e Sbisà, che, da un lato, riconosce che nell’ordinamento italiano « il dovere di correttezza contrattuale possa tradursi
in un obbligo di rinegoziare il contratto » e dall’altro interviene riequilibrando « i termini
del rapporto alle mutate condizioni, dichiarando non dovuto un corrispettivo previsto in
contratto ». Circa il common law, oltre alla considerazione di Atiyah in nota 24 v. infra nel
testo come la teoria dell’absolute contract sia stata lentamente erosa sino a scomparire e con
essa il motto secondo cui « le corti non fanno il contratto per le parti ».
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711
rimento principale nel principio rebus sic stantibus (64) di difficile collocazione storiografica, ma, per i fini che interessano in questa sede, di sicura
marca civilian.
In effetti, il tentativo di far entrare il principio dell’impossibilità della
prestazione nel diritto inglese fu proprio fatto dal locatario nel leading case Paradine v. Jane. Il locatore citava in giudizio il locatario per mancato
pagamento del canone. Il locatario eccepiva che a causa di fatti eccezionali (l’occupazione dell’immobile da parte di militari), non aveva potuto godere dell’immobile e pertanto non doveva essere tenuto al pagamento del
canone. I giudici affermarono che, trattandosi non di un obbligo derivante dalla legge, ma di un’obbligazione contrattuale, era solo al contratto
che bisognava far riferimento. Di conseguenza, se nel contratto non era
contemplato l’evento giustificativo dell’inadempimento, il contraente non
poteva andare esente da responsabilità. Le ricerche di Berman e Witte inquadrano questa decisione nell’emersione in Inghilterra della cultura puritana nel XVII secolo che attaccò « la giustizia discrezionale del Chancellor » (65). Tale sfiducia nella Court of Equity si ricollegava ad una rigida veduta della responsabilità contrattuale (66). I tre principi del puritanesimo
del XVII secolo erano: a) la credenza in un superiore ordine divino che richiede obbedienza e autodisciplina, pena la dannazione eterna; b) la credenza nella totale depravazione degli uomini e la totale dipendenza della
salvazione dalla grazia di Dio; c) la credenza in una relazione contrattuale
tra Dio e l’uomo in cui Dio promette di redimere la sua gente in cambio
della loro volontaria sottomissione alla Sua volontà (67). I puritani in questo modo crearono un collegamento diretto tra l’ordine divino e la responsabilità contrattuale oggettiva. « Qualsiasi contratto, è un’obbligazione tra persone circa cose, in cui esse godono di una libertà di volere e hanno il potere di accettare o di rifiutare. Ma avendo scelto, sono obbligate ad
adempiere » (68).
Da un lato, abbiamo la cultura puritana con la teoria dell’absolute contract, dall’altro l’Equity che continua a importare nel diritto inglese princi-
(64) Osti, La così detta clausola « rebus sic stantibus » nel suo sviluppo storico, in Riv. dir.
civ., 1912, p. 1 ss., che traccia l’origine del movimento di pensiero della teoria in Seneca e
Cicerone. Si tratta di un principio morale che lentamente si « infiltra nel campo giuridico »
(p. 11) in Italia attraverso la filosofia scolastica e i glossatori.
(65) Berman, op. cit., p. 118.
(66) Ibidem.
(67) Id., op. cit., p. 119.
(68) Id., op. cit., p. 122.
712
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
pi e teorie del civil law continentale. È da questa tensione dialettica che si
sviluppa sino ai nostri giorni il diritto anglo-americano.
In effetti, la teoria espressa in Paradine v. Jane venne poi superata da
Lord Blackburn (69) in Taylor v. Caldwell (70). Anche in questo caso si trattava della concessione (let, non un lease) di un immobile (un teatro) al fine di eseguire dei concerti, che, senza colpa del convenuto, andò distrutto per un incendio. L’attore chiedeva che gli venissero rimborsati i costi
sostenuti in preparazione dei concerti. Il giudice inglese dovendo sancire
il principio della impossibilità sopravvenuta della prestazione contrattuale, invocava il civil law, citando il Digesto (D. 45, 1, 23) (71) e Pothier (Traité
des Obligations, parties 3, chap. 6, art. 3, sec. 668) e concludeva affermando: « sebbene il civil law non sia di per sé autoritativo (72) per una corte inglese, esso fornisce grande aiuto nella ricerca dei principi sui quali il diritto si fonda ».
Anche negli Stati Uniti alla fine dell’ottocento la giurisprudenza inizia
ad utilizzare principi di civil law. Nel caso Tulsa Opera House Co. et al. v.
Mitchell et al (73) la corte afferma (74): « è da lungo tempo stabilito dalle
corti inglesi e da quelle di questo paese, statali e federali, che quando le
parti concludono un contratto sul presupposto che una determinata cosa,
essenziale per la sua esecuzione, continuerà ad esistere e sarà disponibile
per lo scopo e nessuna parte accetta di essere responsabile per la sua continuata esistenza e disponibilità, il contratto dev’essere considerato come
soggetto ad una condizione implicita che, se precedentemente al tempo
dell’adempimento e senza colpa di nessuna parte, la determinata cosa cessa di esistere o di essere disponibile per lo scopo, il contratto sarà risolto e
le parti liberate dall’obligo di eseguirlo. Taylor v. Caldwell, 3 Best & Smith
826; In re Shipton, Anderson & Co. (1915) 3 K. B. 67; Horlock v. Beal (1916)
1 A. C. 486, 494, 496, 512; Bank Line, Ltd., v. Arthur Capel and Co. (1919)
A. C. 435; The Tornado, 108 U.S. 342, 349-351, 2 S. Ct. 746, 27 L. Ed. 747;
Chi., Milwaukee & St. Paul Ry. Co. v. Hoyt, 149 U.S. 1, 14, 15, 13 S. Ct. 779,
37 L. Ed. 625; Wells v. Calnan, 107 Mass. 514, 9 Am. Rep. 65; Butterfield v.
(69) V. note biografiche in Simpson, op. cit.
(70) Taylor v. Caldwell, King’s Bench, 1863 3 B.&S 826, 122 Eng. Rep. 309 in Farnsworth-Young-Sanger, Contracts. Cases and Materials, 6th ed., New York, 2001, p. 803.
(71) Guarino, op. cit., p. 895.
(72) La parola in inglese è authority che ha il significato giuridico di regola giurisprudenziale vincolante. De Franchis, voce Authority, in Dizionario giuridico, vol. 1, Milano 1984.
(73) 1933 OK 469.
(74) In inglese recita come segue: « it long has been settled in the English courts and in
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Byron, 153 Mass. 517, 27 N.E. 667, 12 L. R. A. 571, 25 Am. St. Rep. 654;
Dexter v. Norton, 47 N.Y. 62, 7 Am. Rep. 415; Clarksville Land Co. v. Harriman, 68 N.H. 374, 44 A. 527; Emerich Co. v. Siegel, Cooper & Co., 237 Ill.
610, 86 N.E. 1104, 20 L. R. A. (N. S.) 1114 ».
Come si vede il leading case segnalato è proprio Taylor v. Caldwell che
fa riferimento a principi di civil law. In George W. Hall v. School District
Number Ten (75) la corte afferma « la clausola rebus sic stantibus è da considerare implicita nei casi in cui sia dalla natura del contratto quanto dai
suoi termini, il contratto sarebbe non operativo senza quell’assunzione ».
Infine, in una delle « più controverse decisioni giurisprudenziali » (76)
in tema di sopravvenienze contrattuali, i giudici etichettano come « vecchio » (77) lo spirit of law di Paradine v. Jane e decretano la nascita di un
nuovo spirito del diritto contrattuale. Nel nuovo diritto contrattuale non
c’è più spazio per la massima del common law secondo cui « the courts will
not make a contract for the parties » perché « courts today can indeed
make contracts for the parties » (78). La decisione è supportata dalla disamina dei rimedi previsti in altri paesi, quando il contratto, in considera-
those of this country, federal and state, that where parties enter into a contract on the assumption that some particular thing essential to its performance will continue to exist and
be available for the purpose and neither agrees to be responsible for its continued existence and availability, the contract must be regarded as subject to an implied condition that, if
before the time for performance and without the default of either party, the particular thing
ceases to exist or be available for the purpose, the contract shall be dissolved and the parties excused from performing it ».
(75) 1887 WL 1528 (Mo.App.).
(76) Farnsworth-Young-Sanger, op. cit., p. 854 e ivi bibliografia citata. In breve, il caso riguardava l’adeguamento del prezzo del contratto tra l’Alcoa (Aluminium Company of
America) e il gruppo Essex. Con tale contratto l’Alcoa s’impegnava, per un periodo di sedici anni, a convertire l’allumina del gruppo Essex in alluminio fuso. Il prezzo venne disciplinato in una apposita « price formula » (alla cui redazione partecipò peraltro anche l’economista Alan Greenspan), che, per quanto riguarda i costi diversi dal costo del lavoro, faceva riferimento all’indice dei prezzi dei beni di consumo (Whole-Sale Price Index-Industrial Commodities, cd. WPI). Il problema fu che il costo dell’energia (richiesta per il processo di fusione dell’allumina), era soltanto una minima componente dell’indice WPI, sicché la formula si manifestò inadeguata con il lievitare dei costi energetici dovuto alle pressioni dell’OPEC e alla legislazione ambientale. I giudici decisero che sebbene l’Alcoa avesse l’aspettativa di ricevere un profitto di quattro centesimi per libbra, le parti avevano previsto un’oscillazione del profitto da uno a sette centesimi per libbra. Di conseguenza, riformarono il prezzo affinché all’Alcoa venisse corrisposto un profitto non inferiore a un centesimo per libbra. Le parti poi terminarono la lite con una transazione stragiudiziale.
(77) Alcoa v. Essex co. (499F. Supp., 53, 1980), p. 89.
(78) Alcoa v. Essex co. (499F. Supp., 53, 1980), p. 91.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
zione delle mutate circostanze, non può più essere considerato « giusto ».
Tra questi paesi c’è l’Italia con l’art. 1467 del c.c. il quale riconosce, dicono i giudici, il concetto di rebus sic stantibus. L’approccio del giurista al
contratto divenuto squilibrato non è più quello del common lawyer, ossia
di tenere le parti obbligate a rispettare i doveri originariamente assunti,
ma quello del civil lawyer (e dell’Equity lawyer anglofono). Gli approcci indicati dai giudici sono quattro: « 1) cercare di stabilire l’originaria posizione economica delle parti e il loro intento; 2) cercare di distribuire le conseguenze dell’evento imprevisto in modo eguale tra le parti; 3) cercare di
determinare che cosa le parti avrebbero accettato se avessero saputo cosa
sarebbe accaduto; e 4) risolvere il contratto a meno che la parte contro la
quale è domandata la risoluzione offre di modificare equamente il contratto ».
Questa decisione consacra la recezione definitiva dei principi civilistici
continentali, e soprattutto italiani, nel diritto anglo-americano dei contratti. La difficoltà delle problematiche contrattuali che generano liti giudiziarie come quella di Alcoa v. Essex palesano l’insufficienza dell’etica puritana sottostante al common law e richiedono l’intervento mitigatrice, modificativo e distributivo del civil law: « il tempo del diritto mercantile è passato, – si legge nella motivazione di Alcoa v. Essex – e il nostro sistema
giuridico differisce dai loro, ma l’America non ha il monopolio sulla saggezza e ben può profittare dall’esperienza e dall’educazione di altre nazioni » (79).
5. – A volte il giurista italiano sembra manifestare insofferenza alla
cultura giuridica straniera (80) e alla sua espansione. In questa direzione
si è mosso di recente il notariato italiano definendo il modello angloamericano come « essenzialmente individualista » a cui sarebbe « sconosciuto il concetto di protezione collettiva » e in cui non vi sarebbero
« pubblici registri capaci di fornire certezza erga omnes » (81). Inoltre ven(79) « The time of the Law Merchant is past, and our legal system differs from theirs,
but America has no monopoly on wisdom and may well profit from the experience and
learning of other nations ». Tuttavia, come si è visto in precedenza alla nota 43 del presente lavoro, alcuni giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti (Scalia e Thomas) continuano a sostenere un atteggiamento di chiusura verso il diritto straniero.
(80) V. Alpa, Tradition, cit., p. 100 che cita in nota 195, Brugi, I danni dell’imitazione
straniera nella nostra giurisprudenza, in Atti della R. Accademia Lucchese di Scienze, Lettere
ed Arti, vol. XXXXVI, 1919, p. 7.
(81) Piccoli, Il congresso di Pesaro: il notaio tra « Civil law » e « Common law », in Notariato, 2005, p. 465.
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gono a citarsi le riflessioni su globalizzazione ed enti monetari internazionali di Stiglitz (82) e ad evidenziare il ruolo di certezza e legalità che
assolve il notaio nella società.
Non credo che sia corretto definire il modello anglo-americano come
« essenzialmente individualista ». Oltre alle considerazioni già svolte in
materia contrattuale, occorre ricordare che gli Stati Uniti, così come l’Inghilterra, sono caratterizzati da un forte interventismo pubblico nell’economia (83). Già Schumpeter (84) notava come le idee degli economisti italiani dell’epoca corporativa fossero in teoria accettabili agli economisti
americani.
Negli anni trenta Franklin Delano Roosvelt, in linea con quanto ritroviamo nello scritto di Keynes sulla fine del lassaiz faire, varò una serie di
provvedimenti diretti a creare un forte governo federale e una serie di enti pubblici. Le riforme del New Deal cambiarono per sempre negli Stati
Uniti il rapporto tra Stati e Governo Federale e posero le fondamenta dell’interventismo pubblico nell’economia di matrice kelseniana (85).
Per i motivi che seguono poi non credo che il riferimento a Joseph Sti-
(82) Stiglitz, Globalization and Its Discontents, New York, 2003.
(83) Sul punto v. anche Rifkin, op. cit., p. 159. In effetti, in questo periodo negli Stati
Uniti il tema dell’interferenza dell’Amministrazione nei diritti del cittadino è molto critico,
considerato soprattutto l’effetto che ha avuto sull’opinione pubblica la decisione della Corte Suprema nel caso Kelo v. New London (545 U.S. 2005). Con tale sentenza i nine justices
estendono il potere di esproprio dal public use, stabilito nel quinto emendamento, anche al
caso di public purpose. Ne deriva che un costruttore privato, avendo subito il rifiuto a vendere dai proprietari degli immobili di un’area in cui era interessato a costruire un nuovo sviluppo residenziale, può ottenere a suo vantaggio l’esproprio dell’area e ciò in quanto il progetto creerà nuovi posti di lavoro e maggiori tasse a vantaggio della pubblica amministrazione.
(84) Schumpeter, History of Economic Analysis, Oxford, 1954, p. 1156, nota 6.
(85) Sul punto v. Friedman, American Law in the 20th Century, New Haven, Ct., 2002, p.
151 ss. V. anche il discorso inaugurale di Franklin Delano Roosvelt nel marzo del 1933 col
quale veniva delineata la politica del New Deal in Bruun-Crosby, Our Nation’s Archive.
The History of the United States in Documents, New York, 1999, p. 589 ss. dove Roosvelt affermava « there must be a strict supervision of all banking and credits and investments, there must be an end to speculation with other people’s money, and there must be provision
for an adequate but sound money ». Circa le riforme in materia di tutela del risparmio e
della costituzione della Securities Exchange Commission, mi sia consentito di rinviare a Lordi, Corporate governance e prezzo contrattuale. Contributo allo studio delle regole formanti la
giustizia contrattuale. Profili comparativi, in Contratto e impresa, 2005, p. 338 ss. Circa l’osservazione che negli Stati Uniti mancherebbero dei pubblici registri capaci di fornire certezza erga omnes, mi limito a rinviare a quanto riporta la manualistica statunitense sui diritti reali, su cui v. Dukeminier-Krier, op. cit., pp. 661-743.
716
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
glitz sia del tutto appropriato. Joseph Stiglitz, così come Jeffrey Sachs, è
membro del Center on Capitalism and Society presso la Columbia University di New York (http://www.earthinstitute.columbia.edu/ccs). Il
Centro è un think-tank nel quale studiosi di economia e diritto studiano le
istituzioni del capitalismo. L’interrogativo al quale si cerca di dare risposta
è quale siano le ragioni che spiegano l’eccezionale prosperità e produttività dell’economia americana. Lo scopo della ricerca è di « trasformare il
capitalismo da un oggetto di fede o di odio ad un sistema di istituzioni e
meccanismi ragionevolmente ben compresi le cui fondamenta sociali possono essere ben valutate in modo illuminato e razionale » (86). Connotazione comune a questi studiosi è una riscoperta delle teorie keynesiane,
peraltro come si è notato penetrate già con successo negli Stati Uniti tramite il New Deal, ed un loro aggiornamento ed applicazione al panorama
economico globale dei nostri giorni. Stiglitz, in particolare, si riferisce a
Keynes paragonando la situazione in cui si trova ora il capitalismo al periodo della grande depressione (87) degli anni trenta, e augurandosi che così come Keynes salvò il capitalismo allora, ciò possa accadere di nuovo.
Nel libro di Sachs è molto suggestiva la citazione di Keynes che alla fine della prima guerra mondiale fermamente chiese la cancellazione dei
debiti di guerra della Germania: « se questi debiti sono perdonati, sarà dato uno stimolo alla solidarietà e alla vera amicizia delle nazioni. L’esistenza di grandi debiti di guerra è una minaccia alla stabilità finanziaria ovunque » (88). Keynes avverte che la mancata soluzione al problema dei debiti
avrebbe portato ad una calamità, come è poi accaduto con il sorgere del
bolscevismo e del nazismo (89). La storia c’insegna che povertà e ingiusta
distribuzione della ricchezza possono portare a conseguenze disastrose se
non arginate in tempo e il drammatico inizio di millennio con l’attentato
al World Trade Center dell’undici settembre sembra confermare la tesi.
Entrambi questi autori ragionano in termini di economia globale e
quindi cercano soluzioni socioeconomiche che siano applicabili su larga
scala ai sistemi economici del pianeta. Non difendono particolarismi e nazionalismi, ma s’interrogano su come il mondo dei ricchi può salvare il
mondo dei poveri. Se proprio il giurista (90) dovesse trarre una lezione da
(86) http://www.earthinstitute.columbia.edu/ccs/mission.html/.
(87) Stiglitz, op. cit., p. 249.
(88) Sachs, op. cit., p. 102 che si riferisce a Keynes, The Economic Consequences of the
Peace, 1919.
(89) Id., op. loc. cit.
(90) Altro profilo di ricerca che si presenta interessante per il giurista è quello dei rap-
SAGGI
717
tali autori, questa andrebbe nel senso opposto a quello della difesa dei nazionalismi giuridici ed, in ogni caso, le loro analisi sembrano essere ben
lontane dall’Italia, paese in cui l’intervento dello Stato nell’economia è
stato sempre molto presente ed in cui viceversa il pensiero liberista non si
è mai fatto strada (basti pensare che solo in tempi relativamente recenti si
è avviato un processo di dismissione del sistema a partecipazione statale,
non ancora terminato) (91).
A mio parere tra gli ingredienti più importanti per avere il primato
mondiale nella produzione della scienza giuridica, vi dev’essere la consapevolezza della “complementarità” degli ordinamenti giuridici. La caratteristica del diritto italiano in passato è stata proprio quella di accogliere
nuove teorie, di trasformarle e incorporarle nel sistema costruendo un’unitarietà giuridica (92). Nel diritto, a differenza che nell’economia capitalista, non avviene quel processo definito da Schumpeter (93), di « distruzione creativa ». Lo sviluppo della cultura giuridica non distrugge la precedente, la globalizzazione non porta con sé la scomparsa delle identità giuridiche, ma un’osmosi delle culture dirette ad armonizzarsi tra loro. Il
processo di osmosi giuridica di questi anni è caratteristica tipica della
scienza giuridica. La storia del diritto è storia di scambi culturali. Tale processo è stato interrotto, o soltanto rallentato, nel XIX secolo con la nascita del razionalismo e del nazionalismo che portarono con loro le codificazioni e la nascita del diritto comparato, che « in pratica enfatizzava le differenze tra i vari sistemi giuridici nazionali invece di enfatizzare ciò che
essi avevano in comune » (94). Ma oggi la situazione è cambiata e il diritto
comparato sembra basarsi più sulle somiglianze, che sulle differenze (95).
Più che di comparazione si tratta di “complementarità”, si cerca cioè nell’ordinamento straniero al proprio il principio, la regola o talvolta il meto-
porti tra diritto privato e diritti umani. In argomento, v. Friedmann-Barak-Erez (edited
by) Human Rights in Private Law, Oxford, 2001.
(91) Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma
1997; Bemporad-Reviglio (a cura di), Le privatizzazioni in Italia 1992-2000 / IRI, Roma,
2001.
(92) Grossi, op. cit., 159 dove riferendosi ai glossatori e ai commentatori li definisce
« costruttori d’una reale unità giuridica europea ».
(93) Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, New York, 1942, p. 81 ss.
(94) Berman-Reid, Roman Law in Europe and the Jus Commune: A Historical Overview
with Emphasis on the New Legal Science of the Sixteenth Century, 20 Syracuse J. Int’L & Com.
1, 26, 1994.
(95) Lerner, A proposito dell’armonizzazione, del diritto comparato e delle loro connessioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, p. 504.
718
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
do che possa aiutare a definire un problema nuovo (96). Il giurista italiano,
come è già accaduto in passato, si trova a dover elaborare e utilizzare principi, regole e metodologie esterne. Proprio tra le caratteristiche della scuola bolognese, v’è stata quella di studiare testi scritti in una lingua diversa
da quella utilizzata (come ad esempio le Istitutiones di Giustiniano, che in
parte erano in greco (97) e provenienti da una cultura, cronologicamente e
socialmente, a loro distante.
Ho citato Sachs e Diamond per le loro teorie sulle cause della ricchezza e della povertà, sulle istituzioni del capitalismo e su come intorno
a queste si siano sviluppati il civil law e il common law scambiandosi vicendevolmente regole, principi e teorie. Ma abbiamo anche visto l’importante ruolo che il pensiero etico ha svolto nella formazione del sistema giuridico anglo-americano e quanto quest’ultimo sia stato aperto alle
infiltrazioni del civil law tramite la giurisdizione di Equity, specialmente
in materia contrattuale. La globalizzazione sta certamente accelerando il
processo d’osmosi, ma questo in realtà s’è continuato a svolgere senza
soluzione di continuità sin dal periodo della nascita della scienza giuridica europea.
La storia del diritto non è l’effetto di condizioni naturali, e la storia,
malgrado i recenti lavori di Sachs e Diamond sembrino indicare una direzione diversa, « non è già un fenomeno naturale, ma un fenomeno morale » (98) e sarebbe un « errore fondamentale » (99) credere l’inverso. Il primato nel mondo del diritto non deriva, e non può derivare dalla forza
economica, militare o politica di un paese, ma dai valori etici che è in grado di esprimere. Ed è sul campo di tali valori e il loro sviluppo che, com’è
avvenuto in passato, il vero confronto tra i sistemi giuridici sta avendo
luogo.
(96) Da ultimo v. Alpa, Il giudice e l’uso delle sentenze straniere. Modalità e tecnica della
comparazione giuridica. La giurisprudenza civile, relazione presentata al congresso avente lo
stesso oggetto tenutosi a Palazzo della Consulta il 21 ottobre 2005, consultabile nella pagina web della Raccolta Studi Giuridici del Consiglio Nazionale Forense: http://www.consiglionazionaleforense.it/.
(97) Guarino, op. cit., p. 151 ss.
(98) Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1925, p. 272.
(99) Ibidem.
PAOLO CASSINIS (*)
I nuovi poteri dell’Autorità nell’ambito della dialettica
tra public e private enforcement
Sommario: 1. Premessa. – Parte I: 2. I “nuovi” poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. – 2.1. Le misure cautelari. – 2.2. Le decisioni con impegni.
– 2.3. Il programma di clemenza. – Parte II: 3. Rapporti ed interrelazioni tra public
e private enforcement – 3.1. Tutela “binaria” del diritto antitrust: ruoli e funzioni del
public e private enforcement. – 3.2. Caratteristiche degli illeciti antitrust: la natura segreta delle intese hard-core. – 3.3. Rapporti tra procedimento antitrust e giudizi civili antitrust: ambiti e limiti. – 3.3.1. Coordinamento tra procedimento antitrust e
giudizio civile: efficacia della decisione antitrust nei giudizi civili: A) Le decisioni
della Commissione: artt. 16, 10 e 9, Reg. CE 1/2003; B) Le decisioni delle autorità
di concorrenza nazionali: la « soluzione tedesca »; la « soluzione inglese »; la « situazione italiana »; le opzioni del Libro Verde. – 3.3.2. Strumenti di cooperazione
e raccordo tra public e private enforcement. – 3.3.3. Garanzie di funzionalità del procedimento amministrativo: tutela della riservatezza e le opzioni del Libro Verde. –
4. Conclusioni.
1. – Il d.l. 223 del 4 luglio 2006 (c.d. Decreto Bersani sulle Liberalizzazioni), convertito con modifiche con la legge n. 248 del 4 agosto 2006 (1),
modificando la legge antitrust (n. 287/1990), ha accresciuto i poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella sua veste di public enforcer del diritto nazionale e comunitario della concorrenza.
Si tratta di un intervento che, almeno in parte, si iscrive nell’ambito di
un vasto e rimarchevole processo di spontanea convergenza delle legislazioni antitrust nazionali degli Stati membri verso il « sistema comunitario », a seguito delle profonde innovazioni introdotte dal Regolamento
CE 1/2003.
Le predette modifiche normative, inoltre, incidono indirettamente sui
rapporti ed interrelazioni tra public e private enforcement, divenuti oggetto
di particolare attenzione specie a seguito della riforma della “modernizzazione” introdotta dal predetto Reg. CE 1/2003, il quale, come noto, ha
esteso l’ambito di intervento dei giudici nazionali in materia antitrust, ren-
(*) Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Servizio Giuridico. Le opinioni
espresse non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituzione di appartenenza.
(1) Pubblicata in G.U. n. 186 dell’11 agosto 2006, Suppl. ord. n. 183.
720
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
dendo direttamente applicabile anche l’art. 81.3 CE (nel sistema della c.d.
«eccezione legale »), nonché stabilendo meccanismi di cooperazione e
coordinamento specie tra l’attività della Commissione europea e dei giudici nazionali. Il dibattito sui predetti rapporti ed interrelazioni è stato alimentato dalla pubblicazione, nel dicembre 2005, del Libro Verde della
Commissione sulle azioni di risarcimento del danno per violazione delle
norme antitrust comunitarie (2), a cui è seguita una consultazione pubblica,
ed ha coinvolto anche l’International Competition Network (ICN) (3).
Il presente contributo si articola in due parti: la prima descrive brevemente le modifiche introdotte dalla citata legge n. 248/2006, la seconda
analizza alcune delle problematiche connesse a rapporti ed interrelazioni
tra public e private enforcement in materia di intese ed abusi di posizione
dominante (4), con particolare riferimento all’ordinamento italiano ed alla
luce dell’esperienza comunitaria.
Quest’ultima analisi sarà preceduta da alcune necessarie considerazioni sui distinti ruoli e funzioni dei due tipi di enforcement, nonché sulle caratteristiche degli illeciti antitrust (5).
Parte I
2. – Come accennato, il d.l. 223 del 4 luglio 2006, convertito con modifiche con la legge n. 248 del 4 agosto 2006, ha accresciuto i poteri di intervento dell’Autorità, tramite l’aggiunta di alcune specifiche disposizioni
normative alla legge n. 287/1990. Esse riguardano il potere di disporre misure cautelari, il potere di adottare decisioni con impegni senza accerta(2) (COM(2005)672), disponibile sul sito internet della Commissione europea, DG
Comp. La Commissione ha concluso la consultazione pubblica su tale documento a cui dovrebbe seguire un Libro Bianco entro il 2007. È atteso per l’inizio del prossimo anno un report del Parlamento europeo sull’argomento.
(3) Alla conferenza annuale ICN, tenutasi nel maggio 2006 a Città del Capo, è stato
presentato un apposito rapporto: Interaction of public and private enforcement in cartel cases,
disponibile sul sito internet ICN (www.internationalcompetitionnetwork.org/capetown2006/
index.html).
(4) Molte sono le problematiche suscitate dal Libro Verde della Commissione. Di esse,
tuttavia, solo alcune riguardano direttamente i rapporti tra public e private enforcement, come si avrà modo di dire, mentre molte altre chiamano in causa questioni di carattere più
generale, riguardando i principi stessi che governano la responsabilità civile ed il processo
civile negli ordinamenti nazionali, e non verranno quindi analizzate.
(5) La seconda parte del presente lavoro riprende la relazione dal titolo « Rapporti tra
public e private enforcement » presentata al VII Convegno UAE-LIDC « Antitrust between
EC and national law », Treviso 18-19 maggio 2006.
SAGGI
721
mento dell’infrazione ed il potere di predisporre un programma di clemenza.
2.1. – Il nuovo articolo 14-bis della legge n. 287/90 (6), al primo comma,
prevede che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – ove ricorra il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile « per la concorrenza »
– possa disporre, d’ufficio, misure cautelari laddove a seguito di un sommario esame emerga la sussistenza di un’infrazione antitrust (7). Nonostante l’apparente genericità della formulazione usata dal legislatore, la
collocazione della disposizione in oggetto, dopo l’art. 14, che riguarda le
istruttorie per intese ed abusi di posizione dominante (ex artt. 2 e 3, legge
n. 287/90 ed artt. 81-82 CE (8)), induce a ritenere che sia proprio in relazione a queste tipologie di infrazioni che potranno essere disposte misure
cautelari (9).
Per quanto riguarda le infrazioni ex artt. 81-82 CE, in realtà la disposizione in esame esplicita un potere già ricavabile in via interpretativa (10).
Il nuovo 14-bis, ai commi 2 e 3, precisa talune modalità attuative e profili sanzionatori connessi all’adozione delle predette misure.
Con riguardo alle modalità attuative, analogamente all’art. 8 Reg. CE
(6) « Art. 14-bis. – Misure cautelari
1. Nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza, l’Autorità può, d’ufficio, ove constati ad un sommario esame la sussistenza di un’infrazione, deliberare l’adozione di misure cautelari.
2. Le decisioni adottate ai sensi del comma l non possono essere in ogni caso rinnovate o
prorogate.
3. L’Autorità, quando le imprese non adempiano a una decisione che dispone misure cautelari, può infliggere sanzioni amministrative pecuniarie fino al 3 per cento del fatturato ».
(7) I primi provvedimenti cautelari dell’Autorità sono stati, nell’ordine: A364 MerckPrincipi attivi; I675 Associazione bancaria italiana; I678 Problematiche acquisto farmaci OTC
e SOP. Negli ultimi due casi, le misure cautelari sono state adottate contestualmente al
provvedimento di avvio dell’istruttoria.
(8) L’art. 54, comma 5, l. 52/1996, dispone che l’Autorità applica gli artt. 81-82 CE « utilizzando i poteri ed agendo secondo le procedure di cui al titolo II, capo II » della legge n.
287/90.
(9) Con riguardo, alle operazioni di concentrazione, l’art. 17, comma 1, legge n. 287/90
già contiene una disciplina specifica della “sospensione temporanea dell’operazione di concentrazione” in sede di avvio d’istruttoria, mentre un eventuale intervento cautelare in fase
pre-istruttoria appare residuale.
(10) Cfr. Corte CE (ord.), 17 gennaio 1980, causa 792/79R, Camera Care, in Racc., p. 119;
Reg. CE n. 1/2003, art. 5; Tar Lazio, sez. I, n. 1713/2006, caso Merck-Principi Attivi.
722
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
1/2003, viene disposto che il potere dell’Autorità è esercitatile solo d’ufficio (11), indicando – anche in ciò – una netta distinzione rispetto all’intervento cautelare del giudice ordinario in sede di private enforcement delle
norme di concorrenza.
Diversamente, invece, da quanto previsto per la Commissione europea dall’art. 8 del citato regolamento CE, in sede di conversione del d.l.
223/06 in legge, è stata esclusa la possibilità che la misura cautelare, una
volta disposta, possa poi essere rinnovata e prorogata, il che inciderà, probabilmente, sulla durata iniziale della misura stessa, estendendola per tutta la durata dell’istruttoria.
Sono infine disciplinate le conseguenze sanzionatorie dell’inottemperanza alle misure cautelari, stabilendo la possibilità per l’Autorità di irrogare una sanzione fino al 3% del fatturato dell’impresa (inferiore, quindi,
a quella massima a disposizione della Commissione in circostanze analoghe) (12).
2.2. – L’articolo 14-ter della legge n. 287/90 (13), innovando la precedente disciplina nazionale, prevede che l’Autorità possa chiudere un procedimento istruttorio senza accertamento dell’infrazione, laddove l’impresa in(11) Si veda in proposito la Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce in G.U.U.E., C101, 27 aprile 2004, punto 80: « . . . Dall’articolo 8 del regolamento 1/2003 risulta chiaramente che gli autori di una denuncia ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento stesso non possono chiedere misure cautelari. Misure cautelari possono essere chieste dalle imprese alle giurisdizioni degli Stati membri che sono nella posizione
idonea per decidere in merito a tali misure ». In tal senso si vedano anche le Circolari Assonime n. 47 del 4 dicembre 2003, p. 23 e n. 43 del 19 ottobre 2006, p. 5.
(12) L’art. 23, par. 2, lett. b, del Reg. CE 1/2003 prevede una sanzione fino al 10% del fatturato.
(13) « Art. 14-ter. – Impegni
1. Entro tre mesi dalla notifica dell’apertura di un’istruttoria per l’accertamento della violazione degli articoli 2 o 3 della presente legge o degli articoli 81 o 82 del Trattato CE, le imprese possono presentare impegni tali da far venire meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria. L’Autorità, valutata l’idoneità di tali impegni, può, nei limiti previsti dall’ordinamento comunitario, renderli obbligatori per le imprese e chiudere il procedimento senza accertare l’infrazione.
2. L’Autorità in caso di mancato rispetto degli impegni resi obbligatori ai sensi del comma
l può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato.
3. L’Autorità può d’ufficio riaprire il procedimento se:
a) si modifica la situazione di fatto rispetto ad un elemento su cui si fonda la decisione;
b) le imprese interessate contravvengono agli impegni assunti;
c) la decisione si fonda su informazioni trasmesse dalle parti che sono incomplete inesatte
o fuorvianti ».
SAGGI
723
teressata dall’istruttoria presenti impegni valutati come idonei a rimuovere
le preoccupazioni antitrust connesse alle condotte oggetto dell’istruttoria.
In tal caso, come subito si dirà, la norma stabilisce che l’Autorità può, con
propria decisione, rendere gli impegni obbligatori per le imprese, prevedendo a tal fine una serie di strumenti giuridici (specie sanzionatori), prima
inesistenti, da usare in caso di inottemperanza.
La disposizione riprende la disciplina sostanziale delle decisioni con
impegni introdotta per la Commissione europea dal Reg. CE 1/2003,
estendendola espressamente alle infrazioni “nazionali” (ex artt. 2 e 3, legge n. 287/90).
Analoga a quella prevista nell’ordinamento comunitario (in particolare all’art. 9, par. 2 ed art. 23, par. 2, Reg. CE 1/2003) è la disciplina (riapertura dell’istruttoria ed immediata irrogazione di sanzioni fino al 10% del
fatturato (14)) introdotta per l’ipotesi di inottemperanza degli impegni accettati e resi obbligatori dall’Autorità. Ancora, analoga a quella comunitaria (in particolare, l’art. 9, par. 2, Reg. CE 1/2003) è la disciplina relativa alle ipotesi di riapertura dell’istruttoria già chiusa con decisione con impegni, salva la precisazione che si tratta di un potere esercitabile « d’ufficio ».
Occorre sottolineare che la disposizione in esame conferisce all’Autorità un potere ampiamente discrezionale (15), da esercitarsi caso per caso,
analogo a quello della Commissione europea. La disposizione precisa,
inoltre, che le decisioni con impegni potranno essere adottate dall’Autorità « nei limiti previsti dall’ordinamento comunitario », operando così un
rinvio implicito al Reg. CE 1/2003. Il richiamo dei predetti “limiti” indica,
già di per sé, che si tratta di uno istituto non di generale applicazione, ma
il cui ambito conosce delle limitazioni. Invero, il principale compito istituzionale dell’Autorità, di accertare gli illeciti antitrust e di sanzionare le
imprese che ne sono responsabili (anche al fine di prevenire nuove infrazioni), non può dirsi radicalmente cambiato dall’art. 14-ter in esame.
Infatti, l’eventuale presentazione di impegni e la loro successiva valutazione (ai fini dell’art. 14-ter) nell’ambito di un procedimento istruttorio,
rappresenterà pur sempre una fase “eventuale” e “derogatoria” rispetto al
normale iter dell’istruttoria che l’Autorità avrà avviato per accertare una
determinata infrazione antitrust (come ben chiarito dall’art. 14-ter, comma
1, legge n. 287/90, analogamente all’art. 9, Reg. CE 1/2003).
(14) Non sono invece previste penalità di mora.
(15) Si veda in proposito quanto indicato dall’Autorità nel provvedimento di chiusura
dell’istruttoria I641 – Rifornimenti Aeroportuali del 14 giugno 2006, pubblicato nel bollettino
dell’Autorità n. 23/2006, punto 280.
724
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Con riguardo ai predetti limiti all’utilizzo di queste decisioni, esse dovrebbero essere escluse laddove l’istruttoria abbia ad oggetto condotte
che, ove accertate, rappresenterebbero gravi e palesi infrazioni antitrust e
comporterebbero sicuramente l’irrogazione di pesanti sanzioni (16), come
in particolare le intese segrete hard-core (17).
L’esclusione di queste ultime risiede nell’esigenza, sia di non privare di
efficacia deterrente le sanzioni per infrazioni così gravi, sia – in relazione ai
cartelli – di non pregiudicare l’efficacia del programma di clemenza volto a
favorire la loro destabilizzazione ed emersione (18). Sotto un diverso profilo,
si osserva che nell’esercizio del potere discrezionale sulla scelta se adottare
o meno una decisione con impegni, l’Autorità – al pari della Commissione
europea – potrà comunque considerare l’opportunità di adottare una decisione di accertamento dell’infrazione per stabilire un chiaro precedente in
relazione a determinate condotte che presentino profili di novità (19), ovvero per riaffermare l’illiceità di talune condotte e prevenire la reiterazione.
La conclusione del procedimento istruttorio, nei predetti casi, avrebbe
anche un evidente impatto positivo su eventuali azioni promosse in sede
di private enforcement che troverebbero nell’accertamento svolto dall’Autorità un valido e talvolta indispensabile supporto fattuale e valutativo
(cfr. oltre punto 3.2).
Problemi particolari sembrano porsi circa l’ammissibilità – salvo al ricorrere di circostanze eccezionali – del tipo di decisione in parola con riferimento ad istruttorie aventi ad oggetto condotte già cessate, stante la necessità che gli impegni (comportamentali o strutturali) siano comunque
idonei a far venir meno « i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria »
che quindi, in linea di principio, dovrebbero esser ancora attuali.
L’adozione di decisioni con impegni potrebbe rivelarsi utile in relazione a fattispecie nelle quali l’attuazione di rimedi strutturali o comportamentali può offrire soluzioni immediate ed efficaci a problemi concorrenziali connessi a condotte aventi caratteristiche di particolare complessità.
A tal fine, gli impegni dovranno consistere in misure specifiche, da realizzare in tempi rapidi e definiti, il cui pieno rispetto sia di facile verifica. Ciò
(16) Cfr. considerando n. 13, Reg. CE 1/2003.
(17) Analoghe esclusioni sono state previste anche dall’Office of Fair Trading, nel disporre delle linee-guida in materia di decisioni con impegni: cfr. Enforcement, dicembre 2004,
pp. 11-17, disponibile sul sito internet dell’OFT.
(18) A ciò si aggiunga che, nel caso di un cartello hardcore, l’impegno proposto dalle
imprese non potrebbe che consistere nel mero rispetto per l’avvenire delle norme antitrust.
(19) Si vedano in proposito le considerazioni svolte in dottrina: Cook, Commitment decisions: The law and practice under article 9, World Competition, June 2006, p. 213.
SAGGI
725
appare anche necessario a garantire l’efficacia e l’economicità dell’intervento antitrust.
Sotto il profilo procedurale, l’art. 14-ter prevede un termine (tre mesi)
entro cui le imprese possono presentare impegni (20). Tale termine, in via
transitoria, è stato inteso come decorrente dalla data di entrata in vigore
della legge n. 248/2006, relativamente ai procedimenti istruttori pendenti
dinnanzi all’Autorità. È stata di recente adottata dall’Autorità una comunicazione recante prime indicazioni di tipo procedurale, tra cui figura la
previsione di una consultazione pubblica sugli impegni (21).
Sotto un diverso profilo, si segnala che laddove l’istruttoria riguardi infrazioni ex artt. 81-82 CE, l’eventuale adozione di una decisione con impegni dovrà seguire la procedura di informazione preventiva della Commissione europea di cui all’art. 11.4, Reg. CE 1/2003.
In relazione a procedimenti riguardanti operatori del settore delle comunicazioni, appare dubbia l’obbligatorietà del meccanismo di preventivo invio della bozza di decisione all’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCom) per il relativo parere. Invero, dal momento che con una
decisione con impegni l’Autorità non accerta alcuna violazione in base
agli artt. 2, 3, 4 legge n. 287/90, o agli artt. 81-82 CE (quindi, non si da ad
essi applicazione), sembrerebbe che detto parere non debba essere richiesto (ex art. 1, comma 6, lett. c, n. 11, legge n. 249/97). Ciò appare confermato anche dall’art. 14-bis della legge n. 248/2006, il quale nell’introdurre
una specifica disciplina per la presentazione di impegni anche nelle procedure dinnanzi all’AGCom, ha espressamente fatto salve « le competenze
assegnate dalla normativa comunitaria e dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287,
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato », senza prevedere alcun meccanismo di consultazione obbligatoria. Ragioni di opportunità
potranno tuttavia suggerire, caso per caso, la richiesta di un parere all’AGCom in relazione ad eventuali profili tecnici o regolamentari coinvolti dagli impegni proposti dall’impresa nel corso della procedura antitrust.
(20) Termine questo non previsto dal Reg. CE 1/2003 il cui art. 9 dispone che gli impegni sono presentati a seguito di una « Valutazione preliminare » della Commissione circa i
profili antitrust suscitati dalle condotte oggetto dell’istruttoria; quest’ultima, peraltro, come
noto, non è avviata con una decisione formale.
(21) Comunicazione sulle procedure di applicazione dell’art. 14-ter della legge 287/90,
pubblicata sul bollettino dell’Autorità n. 39 del 16 ottobre 2006. In data 23 ottobre 2006 ha
avuto inizio la prima consultazione pubblica su impegni presentati ai fini dell’art. 14-ter, con
la loro pubblicazione sul sito internet dell’Autorità; nel caso di specie, si trattava di uno dei
procedimenti già in corso al momento di entrata in vigore della legge n. 248/06 (I651 – Metro/Audipress).
726
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Infine, benché l’art. 14-ter non lo chiarisca, in analogia con l’art. 9 Reg.
CE 1/2003, sembra possibile che la decisione con impegni sia adottata dall’Autorità per un periodo di tempo determinato.
2.3. – Il nuovo comma 2-bis dell’art. 15 della legge n. 287/90 (22) prevede che l’Autorità possa predisporre – « con proprio provvedimento generale »
– un programma di clemenza (c.d. leniency programme), il quale indichi i
casi e le condizioni al verificarsi dei quali, in cambio della fattiva collaborazione delle imprese all’accertamento di infrazioni antitrust (sia nazionali che comunitarie) a cui esse abbiano partecipato, venga concessa una riduzione della sanzione ovvero la non irrogazione della stessa.
Si tratta di una disposizione a lungo attesa che sana un’anomalia della
nostra disciplina antitrust rispetto a quella della gran parte degli ordinamenti nazionali degli Stati membri, oltre che comunitario (23) e dei maggiori paesi extra-UE, molti dei quali già dispongono da tempo dello strumento della leniency, che si è dimostrato essere assai efficace nel destabi-
(22) « Art. 15. – Diffide e sanzioni
1. Se a seguito dell’istruttoria di cui all’articolo 14 l’Autorità ravvisa infrazioni agli articoli
2 o 3, fissa alle imprese e agli enti interessati il termine per l’eliminazione delle infrazioni stesse. Nei casi di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell’infrazione, dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del
fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla
notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l’impresa deve procedere al pagamento della sanzione.
2. In caso di inottemperanza alla diffida di cui al comma 1, l’Autorità applica la sanzione
amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato ovvero, nei casi in cui sia stata
applicata la sanzione di cui al comma 1, di importo minimo non inferiore al doppio della sanzione già applicata con un limite massimo del dieci per cento del fatturato come individuato al
comma 1, determinando altresì il termine entro il quale il pagamento della sanzione deve essere effettuato. Nei casi di reiterata inottemperanza l’Autorità può disporre la sospensione dell’attività d’impresa fino a trenta giorni.
2-bis. L’Autorità, in conformità all’ordinamento comunitario, definisce con proprio provvedimento generale i casi in cui, in virtù della qualificata collaborazione prestata dalle imprese nell’accertamento di infrazioni alle regole di concorrenza, la sanzione amministrativa pecuniaria può essere non applicata ovvero ridotta nelle fattispecie previste dal diritto comunitario ».
(23) Nell’Unione Europea, a fine agosto 2006, programmi di clemenza, oltre che a livello comunitario, erano presenti nei seguenti Stati membri: Austria, Belgio, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Slovacchia, Svezia e Regno Unito. Altri paesi, tra cui la
Danimarca, stanno lavorando alla loro adozione, mentre il Portogallo ha approvato una legge sulla leniency il 18 maggio 2006.
SAGGI
727
lizzare i cartelli, incentivando le imprese che ne fanno parte « ad uscire allo scoperto » (24). L’inefficacia di un programma di clemenza riposa anche
sull’applicazione di severe sanzioni per chi partecipa ai cartelli (25).
Occorre sottolineare che la nuova disposizione richiama espressamente la “conformità” del programma di clemenza all’ordinamento comunitario e ne limita l’applicabilità alle « fattispecie previste dal diritto comunitario ». Pertanto, si può prevedere che l’Autorità che a breve adotterà il proprio programma di clemenza terrà conto di quello della Commissione europea, recentemente rielaborato all’esito del lavoro svolto in seno all’European Competition Network, culminato con l’adozione di un ECN Model
Leniency Programme, che reca principi comuni ai programmi di clemenza
all’interno dell’Unione Europea (26).
Parte II
3. - 3.1. – Fatta questa prima ricognizione dei poteri attribuiti all’Autorità, occorre affrontare l’altro tema dei rapporti tra public e private enforcement. A tal fine, appare opportuno prendere le mosse dalla considerazione della distinzione dei rispettivi ruoli e funzioni e più in generale della
“struttura” stessa della tutela della concorrenza.
Nel nostro ordinamento, come nella maggior parte degli altri paesi dell’Unione Europea, il meccanismo di attuazione delle norme poste a tutela
della concorrenza ha una struttura “binaria”, pubblica e privata, caratteristica questa assai singolare e non comune a molti altri settori del diritto:
– da un lato, su un piano pubblicistico, opera l’Autorità garante della
(24) A titolo esemplificativo, sono state circa 180 le richieste pervenute alla Commissione europea sulla base della comunicazione nella leniency del 2002 (comunicazione della
Commissione relativa all’immunità dalle ammende e alla riduzione dell’importo delle ammende nei casi di cartelli tra imprese, G.U.C.E., C 45, 19 febbraio 2002).
(25) Wils, Leniency in antitrust enforcement: theory and pratice, di prossima pubblicazione su World Competition, vol. 30, n. 1, marzo 2007.
(26) Si vedano in proposito i documenti resi disponibili sul sito internet della Commissione in data 29 settembre 2006: il progetto di nuova comunicazione della Commissione; il
testo dell’ECN Model Leniency Programme, nonché i seguenti documenti illustrativi: Commission and other ECN members co-operate in use of leniency to fight cross border cartels
(IP/06/1288), MEMO/06/357, Commission proposes changes to the Leniency Notice - frequently asked questions; MEMO/06/357, the European Commission Network launches a Model
Leniency Programme - frequently asked questions. Si veda anche Kroes, Delivering on the
crackdown: recent developments in the European Commission’s campaign against cartels, The
10th Annual Competition Conference at the European Institute, Fiesole, 13 ottobre 2006, disponibile sul sito della Commissione europea.
728
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
concorrenza e del mercato, cui è istituzionalmente affidata dalla legge la
funzione di « autorità nazionale competente per la tutela della concorrenza » (27) (art. 10, comma 4, legge n. 287/90) e che agisce anche d’ufficio,
nell’interesse pubblico ed in posizione di indipendenza, per dare attuazione alle norme che vietano intese ed abusi di posizione dominante (28),
sia nazionali (artt. 2, 3, 4, legge n. 287/90) che comunitarie (artt. 81-82
CE). In quest’ultimo caso, essa opera come parte della rete dell’European
Competition Network (di cui, come noto, fanno parte le autorità di concorrenza nazionali e la stessa Commissione Europea), nel quadro creato
dal Reg. CE 1/2003 ed avvalendosi degli strumenti di cooperazione e
coordinamento ivi previsti. L’Autorità ha poteri di accertamento degli illeciti antitrust, poteri di ordinarne la cessazione (29), di disporre misure
cautelari e di comminare sanzioni pecuniarie di natura amministrativa
idonee a svolgere una funzione deterrente (30). Inoltre, come accennato,
l’Autorità ha ora il potere di rendere obbligatori impegni presentati dalle
imprese. Infine, essa è dotata di poteri di segnalazione (advocacy), espressione significativa della missione pubblicistica di tutela oggettiva del
mercato (31);
(27) Il Cons. Stato, sez. VI, nella sentenza n. 1397/2006 resa sul caso Test diagnostici per
diabetici, ha chiarito che la legge n. 287/90 « ha istituito l’Autorità Garante della Concorrenzae
del Mercato (art. 10), la cui funzione è per l’appunto quella di garantire la libera concorrenza e
il corretto funzionamento del mercato, considerati valori riconducibili ai principi sanciti dall’art. 41 della Costituzione, di cui la legge è attuativa (cfr. art. 1, primo comma, della legge stessa). Per realizzare detta funzione all’Autorità sono stati attribuiti poteri di indagine, di denunzia e di segnalazione, di diffida, nonché poteri di applicare sanzioni amministrative pecuniarie
(cfr. arti. 15 e 19 della legge) ». Negli stessi termini la sentenza della Corte di Cassazione,
sez. un., n. 8882 del 29 aprile 2005.
(28) Il Consiglio di Stato ha ribadito più volte che l’Autorità è l’istituzione nazionale a
cui è affidato il compito di « perseguire l’interesse pubblico alla tutela oggettiva del diritto di
iniziativa economica » (Cons. Stato, 14 giugno 2004, n. 3865, caso Nokia Italia c. Marconi
Mobile-Ote; 21 marzo 2005, n. 1113, caso S.E.C.I.-Co.Pro.B.-Finbieticola c. Eridania).
(29) Il potere di diffida comprende l’ordine di non reiterazione per il futuro dell’infrazione accertata (e di condotte analoghe), ordine che può avere contenuto conformativo, al
fine di assicurare la cessazione della condotta illecita e la rimozione dei suoi effetti (Tar Lazio, sez. I, 12726/2005, caso Sisal c. Lottomatica; Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2004, n. 926,
caso Pellegrini c. Consip).
(30) Da ultimo, l’importanza della funzione deterrente che le sanzioni antitrust dovrebbero assicurare è stato sottolineata dal Consiglio di Stato in alcune pronunce (VI, decisioni: n. 397/2006, relativa al caso Test Diagnostici per diabete; n. 1271/2006, relativa al caso
Comportamenti abusivi di Telecom Italia).
(31) Il ruolo di advocacy dell’Autorità è stato notevolmente valorizzato dal d.l. 223/2006,
convertito con legge n. 248/2006; cfr. in particolare, l’art. 1, comma 1.
SAGGI
729
– dall’altro lato, in sede civile, operano i giudici ordinari (32) i quali, su
domanda di singoli interessati, garantiscono la tutela delle loro posizioni
giuridiche soggettive che siano state lese da condotte d’impresa in violazione delle norme antitrust, nazionali e comunitarie, come noto, dotate di
efficacia diretta (33).
I giudici possono condannare gli autori di un’infrazione antitrust a risarcire i danni causati, possono accertare la nullità dei negozi tramite cui
si è realizzato l’illecito, ordinare l’esecuzione o la non esecuzione di
un’obbligazione, nonché disporre misure cautelari strumentali a tali azioni (34-35). In linea di principio, l’azione davanti al giudice civile non è subordinata ad una previa pronuncia dell’Autorità, in virtù dell’autonomia
dei rapporti tra azione amministrativa e giudiziaria (36).
La distinzione tra public e private enforcement è stata messa bene in luce in una recente sentenza del Tar Lazio (37), nella quale i giudici ammini-
(32) Incidentalmente, si osserva che l’eccessiva frammentazione delle competenze dei
giudici ordinari (Corti d’Appello, per le violazioni ex artt. 2 e 3, legge n. 287/90; Giudici di
Pace e Tribunali, per le violazioni degli artt. 81-82 CE) è oggetto di critica da parte della dottrina, la quale esprime l’auspicio dell’attribuzione di una competenza “unificata” in capo alle se- zioni specializzate dei tribunali in materia di proprietà intellettuale e industriale, create con il d. lgs. n. 168/2003. Giova ricordare, in proposito, che il Codice della proprietà industriale (d. lgs. n. 30/2005, artt. 120 e 134) ha conferito alla competenza delle sezioni specializzate i giudizi in materia di illeciti antitrust, nazionali e comunitari, « afferenti all’esercizio dei diritti di proprietà industriale ».
(33) La diretta applicabilità dell’art. 81.1 e dell’art. 82 CE è stata affermata da costante
giurisprudenza (tra le altre, Corte CE, 30 gennaio 1974, causa 127/73, BRT c. SABAM, in
Racc., p. 51, punto 6; 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage, in Racc. p. I-6297, punto
23; 13 luglio 2006, cause riunite C-295/04 – C298/04, Manfredi ed altri, non ancora pubblicata in Racc., punto 39). Il Reg. CE 1/2003 (artt. 1, 5, 6) ha inoltre disposto che l’art. 81, nella sua interezza (incluso quindi anche l’art. 81, n. 3), è direttamente applicabile da autorità
di concorrenza e giudici nazionali.
(34) In virtù di questa distinzione di ruoli e funzioni è stata posta in dubbio la correttezza della stessa espressione private enforcement in materia antitrust, nel nostro ordinamento: Fattori-Todino, La disciplina della concorrenza in Italia, 2004, pp. 414-416.
(35) In proposito si osserva che il private enforcement si esplica assai frequentemente attraverso la richiesta al giudice di misure cautelari che consentono, in via d’urgenza, di tutelare ciò che – specie in determinate fattispecie (es. rifiuti di accesso ad un’infrastruttura) –
rappresenta l’interesse primario dell’impresa, vale a dire, accedere ad un determinato mercato ovvero continuare ad operare in esso.
(36) Tavassi-Scuffi, Diritto processuale antitrust, 1998, p. 174; Libertini, Il ruolo del giudice civile nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, p. 959.
(37) Tar Lazio, sez. I, n. 1713/2006, caso Merck-Principi Attivi. In essa, dopo aver ricordato che « l’Autorità è l’istituzione nazionale cui è affidato il compito di perseguire l’interesse pub-
730
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
strativi hanno sottolineato la « diversità dei presupposti » della tutela pubblica « che soddisfa un’esigenza diversa da quella concessa dal giudice ordinario, laddove quest’ultimo si pronuncia soltanto su ricorso di parte (in genere, imprese concorrenti) per la tutela di un interesse privato, mentre l’Autorità agisce di sua iniziativa per tutelare l’interesse pubblico primario di rilevanza comunitaria e costituzionale, alla salvaguardia di un mercato concorrenziale ».
Pertanto, a differenza delle autorità antitrust – che anche quando si attivano a seguito di denuncia perseguono la loro missione istituzionale
coincidente con l’efficace applicazione delle norme antitrust (38) alle condotte oggetto di indagine nella loro complessità – l’applicazione delle stesse da parte dei giudici è, per così dire, sempre un’applicazione « in via incidentale », nel senso che presuppone l’avvio, su istanza di parte, di un giudizio tra privati (39), risolvibile dal giudice con ricorso alle previsioni delle
predette norme antitrust, nei limiti della domanda.
Nonostante questa distinzione di ruoli e funzioni, occorre tuttavia sottolineare che lo scopo della tutela offerta dalle norme antitrust – a prescindere da quale sia l’ambito della loro applicazione – è pur sempre « la con-
blico alla tutela oggettiva del diritto di iniziativa economica, con l’incarico, espressamente attribuito dall’art. 54 della legge n.52/1996, di applicare, a livello nazionale, gli artt. 81 e 82 CE »,
il Tar Lazio ha chiarito la distinzione tra il private enforcement del diritto antitrust, ossia « latutela dei diritti soggettivi dei singoli eventualmente lesi dalla violazione degli artt. 81 e 82
CE », la cui competenza è attribuita ai giudici ordinari, ed il public enforcement, la cui competenza è attribuita all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, « finalizzato alla
garanzia di un assetto concorrenziale del mercato, che, per costante giurisprudenza, costituisce
un interesse pubblico la cui tutela ha rilevanza costituzionale ».
(38) Sotto questo profilo, i giudici amministrativi, riprendendo un analogo orientamento comunitario, hanno più volte ribadito che il denunciante non ha diritto a che l’Autorità
avvii un’istruttoria e che « l’unica esigenza di tutela . . . che il denunciante può far valere innanzi al giudice amministrativo riguarda l’interesse a che l’Autorità prenda in esame e si pronunci sulla sua denuncia » (tra le altre, Tar Lazio, sez. I, n. 2639/2002 e n. 8329/2002, confermata da Cons. Stato, sez. VI, n. 7265/2003). Peraltro, il Consiglio di Stato nella decisione n. 926/2004 ha riconosciuto l’indiretto beneficio che i concorrenti possono ricavare dall’accertamento di una pratica abusiva da parte di un’Autorità di concorrenza: « il fatto che
dall’accertamento dell’infrazione e dall’irrogazione delle conseguenti sanzioni possano in via
indiretta beneficiare proprio i soggetti denuncianti costituisce un fisiologico effetto della disciplina antitrust, in cui i soggetti che si ritengono lesi da un comportamento anticoncorrenziale
possono rivolgersi all’autorità per i provvedimenti di sua competenza ».
(39) Pertanto, il raggiungimento di un accordo transattivo tra le parti, fa cessare il giudizio civile, a differenza del procedimento amministrativo antitrust. Negli Stati Uniti, i giudizi per danni in materia antitrust si concludono in massima parte con dei settlements.
SAGGI
731
correnza, non i concorrenti », come pacificamente ricordato dalla giurisprudenza statunitense (40), dalla stessa disciplina comunitaria (41) ed anche
dalla Corte di Cassazione (42). Ciò vuol dire che anche in sede di private
enforcement, il presupposto della tutela interindividuale – ad esempio, risarcitoria – è pur sempre costituito dall’accertamento di una condotta
avente per oggetto o per effetto un pregiudizio alla struttura concorrenziale del mercato, che abbia leso posizioni giuridiche soggettive dei singoli.
È anche per questo che la giurisprudenza comunitaria (caso Courage (43) ed il Reg. CE 1/2003 hanno chiarito che il private enforcement delle norme comunitarie a tutela della concorrenza (con particolare riguardo alla tutela risarcitoria) contribuisce a « garantire la piena efficacia di
tali norme ».
In particolare, il Reg. CE 1/2003 (considerando 7) ha sottolineato che
le giurisdizioni nazionali « svolgono un ruolo complementare » rispetto a
quello delle autorità antitrust nazionali e della stessa Commissione.
I vari aspetti di questa “complementarietà” – che le Comunicazioni
della Commissione hanno ben evidenziato (44) – sono caratterizzati da
un tratto comune, quello per cui forme distinte di tutela della concorrenza (pubblica e privata), possono tuttavia accrescere l’efficacia complessiva
(40) Corte Suprema, Copperweld Corp. v. Independence Tube Corp., 467 US 752, 767 n. 14
(1984). Sul punto, anche in relazione ai rischi di over-enforcement connessi agli strumenti di
private enforcement presenti nel diritto statunitense, si veda Ginsburg, Comparing antitrust
enforcement in the United States and Europe, in Journal of competition law & economics, vol.
I, n. 3, sept. 2005, p. 427.
(41) Cfr. considerando 9, Reg. CE 1/2003.
(42) La Corte di Cassazione, sez. un., nella sentenza n. 2207/05 ha chiarito che la disciplina a tutela della concorrenza, risponde all’esigenza di « tutela della struttura e della logica
competitiva del mercato » e che « oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio
del concorrente . . . bensì un più generale bene giuridico» (p. 12). Tuttavia, un illecito antitrust,
« può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno, dell’autore » dell’illecito stesso.
In precedenza la Cassazione aveva chiarito che «a fondamento delle tutele che la legge
[n.287/90] introduce sta il libero mercato in quanto tale, cioè l’interesse pubblico a conservarlo
e non quello del singolo a difendere il proprio diritto » (Cass., 1° febbraio 1999, n. 827).
(43) Corte CE, 20 settembre 2001, causa C-453/99, cit., punti 25-27. Da ultimo si veda
anche la sentenza 13 luglio 2006, cause riunite C-295/04 e C298/04, Manfredi ed altri, cit.,
punti 90-91.
(44) Si vedano in proposito: Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, punto 5; Comunicazione sulla procedura applicabile alle denunce presentate alla Commissione ai sensi degli artt. 81-82 CE, punti 12-18
(entrambi in G.U.U.E., C101, 27 aprile 2004).
732
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
della tutela offerta dalle norme antitrust (45). In definitiva, tale « doppio
ambito di tutela » – caratteristico della disciplina antitrust (e di pochi altri
settori del diritto) – arricchisce le possibilità e le conseguenze giuridiche
della sua attuazione, determinando così un rafforzamento dell’efficacia
della disciplina stessa e della sua deterrenza. In altri termini, è indubbio
che il possibile accertamento della nullità di un contratto contrastante
con le norme a tutela della concorrenza così come il risarcimento del
danno causato dall’illecito antitrust da parte del giudice a favore del singolo finiscano per svolgere, di fatto, anch’essi una funzione dissuasiva (46),
complementare a quella propria delle sanzioni comminate dalle autorità
antitrust (47), anche perché l’entità di queste ultime assai difficilmente
può essere fissato ad un livello ottimale che ne assicuri adeguatamente la
deterrenza (48).
Ciò detto, il Libro Verde della Commissione pone alcune questioni attinenti i rapporti tra public e private enforcement, che vanno a mio avviso
risolte coordinando al meglio i due tipi di tutela, senza tuttavia confondere né l’identità, né – soprattutto – pregiudicare la funzionalità di ciascuna
di esse.
È quindi opportuno considerare ora la particolare natura delle forme
più gravi di infrazioni antitrust.
3.2. – Particolare considerazione meritano le caratteristiche degli illeciti antitrust, segnatamente di quelli ritenuti più gravi per la collettività, vale a dire i “cartelli” (49), la cui repressione rappresenta generalmente una
priorità per tutte le autorità di concorrenza.
Ci si riferisce ad un particolare intrinseco di tali illeciti rappresentato
dal fatto che trattasi di condotte che, per sussistere, operare nel tempo
(45) In tal senso si vedano anche le conclusioni dell’Avvocato Generale Geelhoed del
26 gennaio 2006, cause riunite C-295/04, C-296/04, C-297/04 e C-298/04, Manfredi ed altri,
punto 64.
(46) Invero, le conseguenze civilistiche di una infrazione antitrust determinano un aumento dei costi attesi per le imprese che vi prendono parte: Prosperetti-Siragusa-Beretta-Merini, Economia e diritto antitrust, Roma 2006, p. 353.
(47) Tavassi, Which role for national courts in competition protection?, atti del Convegno
VI UAE-LIDC «Antitrust between EC and national law », Treviso, maggio 2004, ed. 2005,
p. 88.
(48) Wils, Optimal antitrust fines: theory and practice, in Journal of competition law &
enforcement, World Competition, june 2006, p. 183.
(49) Le forme più gravi di cartelli, detti “hard-core” sono quelle aventi ad oggetto la fissazione dei prezzi, la ripartizione dei mercati e dei clienti e la limitazione della produzione.
SAGGI
733
(anche per decenni (50)) e raggiungere l’obiettivo collusivo perseguito, devono rimanere “segrete”. Il loro accertamento, infatti, oltre a condurre ad
un ordine di cessazione, esporrebbe i partecipanti a pesanti conseguenze
economiche (sanzionatorie (51) e risarcitorie) e, in taluni ordinamenti (52),
anche penali.
L’esperienza empirica dimostra che le imprese utilizzano particolari
cautele per evitare che le forme di coordinamento diretto da esse poste in
essere nei casi di cartello vengano scoperte, come attestato dalla estrema
difficoltà di reperire le c.d. «smoking guns », vale a dire, prove dirette dell’accordo collusivo (53).
Inoltre, le intese anticoncorrenziali possono assumere le forme più
sfumate delle pratiche concordate e delle pratiche facilitanti, nel tentativo
di far passare come normali condotte (o reazioni) di mercato (il c.d. « parallelismo consapevole »), forme di coordinamento collusivo.
L’accertamento di tali violazioni, in particolare dei cartelli, presenta
problemi particolarmente complessi e delicati, in primo luogo sul fronte
del reperimento di sufficienti prove ed indizi. Per questo, le normative a
tutela della concorrenza generalmente dotano le autorità antitrust non solo di poteri d’indagine particolarmente penetranti ed efficaci (54), ma anche – ed è questo uno degli aspetti qualificanti della riforma introdotta dal
Reg. CE 1/2003 – di strumenti di cooperazione “investigativa” con auto-
(50) Il cartello Organic Peroxides (C37.857) accertato dalla Commissione nel dicembre
2003 ebbe una durata record di quasi 29 anni dal 1971 al 1999 incluso. Si veda in proposito
l’analisi di sintesi svolta da Veljanovski, Penalties for Price Fixers: An analysis of Fines imposed on 39 cartels by the EU Commission, in European Competition Law Review, n. 9/2006,
p. 510.
(51) Si vedano i criteri sanzionatori particolarmente severi per la partecipazione a cartelli segreti hard-core ora previsti dalle recenti Linee-guida per il calcolo delle sanzioni
adottate dalla Commissione europea il 28 giugno 2006 (Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23, paragrafo 2, lettera a, del regolamento CE n. 1/2003,
in G.U.U.E., C210, 1° settembre 2006, punto 25) a cui si ispirerà anche l’Autorità.
(52) Nell’Unione Europea, sanzioni penali sono previste, ad esempio, nel Regno Unito
ed in Irlanda. In altri paesi, tra cui l’Austria, la Germania e l’Italia, condotte di bid-rigging
possono costituire violazioni penali.
(53) Di tale difficoltà di prova vi è piena consapevolezza in giurisprudenza: Corte CE, 7
gennaio 2004, cause riunite C-204/00P-C-219/00P, Aalborg, Racc., p. I 123, punto 55. In ambito nazionale, si veda da ultimo, Lazio, sez. I, n. 12726/2005; cfr. anche Tar Lazio, sez. I,
nn. 2715, 2717, 2718, 2719, 2721/2004; ed anche Cons. Stato, sez. VI, n. 1671/2001.
(54) Per svolgere i suoi accertamenti l’Autorità si avvale anche della collaborazione della Guardia di Finanza, Nucleo speciale tutela concorrenza e mercato (legge n. 52/1996, art.
54 e legge n. 262/2005, art. 22).
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
rità di altri Stati membri (55). La medesima difficoltà di accertamento dei
cartelli, inoltre, ha suggerito – in moltissimi ordinamenti – l’adozione di
specifici meccanismi per incentivare l’emersione delle predette violazioni
antitrust tramite auto-denuncia alle autorità di concorrenza da parte di imprese coinvolte nell’intesa, noti come programmi di clemenza (leniency
programme) (vedi sopra, punto 2.3).
Il public enforcement appare quindi “strutturalmente” più adatto all’accertamento delle predette condotte, rispetto al private enforcement. Non a
caso, il recente Libro Verde della Commissione sulle azioni risarcitorie
identifica tra i principali ostacoli allo sviluppo delle azioni risarcitorie derivanti da illeciti antitrust, proprio quello della raccolta delle prove in sede
giurisdizionale, specie, in quegli ordinamenti giuridici – come quelli dell’Europa continentale – fondati sul principio dispositivo (a cui è sottoposto il giudice) e dell’onere della prova (in capo all’attore), nei quali non
esiste un meccanismo di discovery che obblighi la parte accusata di aver attuato un illecito antitrust (che abbia causato danni), di produrre in giudizio tutta la documentazione in suo possesso (56). In particolare, con riferimento al nostro ordinamento, è stato osservato che nel giudizio civile antitrust la produzione documentale offerta dalle parti ha un rilievo “essenziale” (57).
Sebbene i giudici civili dispongano di strumenti – quali le presunzioni
(ex art. 2729 c.c.) – che consentono, entro certi limiti, di delineare un quadro collusivo partendo da prove indirette (di solito, pur sempre documen(55) Ben noti sono gli strumenti di cooperazione introdotti dal Reg. CE 1/2003, che consentono lo scambio e l’uso come prove di informazioni raccolte da altre autorità di concorrenza facenti parte dell’ECN nei rispettivi territori (articoli 12 e 22). Di tale cooperazione da
conto la Relazione della Commissione sulla politica di concorrenza 2005, punto 201 ss.
(56) Il problema dell’accesso alle prove, come noto, non è l’unico che ostacola le azioni
civili di risarcimento danni, essendo numerosi i disincentivi a tali azioni, tra cui, i costi i legali: si vedano in proposito le opzioni del Libro Verde della Commissione ed il relativo allegato tecnico. Per un’analisi del private enforcement nel sistema statunitense ed i relativi
strumenti che ne incentivano l’uso relativamente all’accesso alle prove (discovery), all’entità
del risarcimento (treble damage) ed ai costi legali (contingent fees), si rinvia a Gerber, Private enforcement of competition law: a comparative perspective, in corso di pubblicazione,
Cambridge U. Press, Moellers and Heinemann, eds. Dopo la novella introdotta dall’art. 2,
legge n. 248/2006, l’art. 2233 c.c. consente ora accordi scritti tra avvocato e cliente sui compensi professionali, che potrebbero anche assumere la forma di patti di quota lite, agevolando notevolmente l’accesso al private enforcement da parte di singoli consumatori, sul modello dei contingency fees arrangements del diritto statunitense.
(57) Scuffi, L’istruttoria nei giudizi antitrust: collaborazione informativa e strumenti di indagine a disposizione del giudice nazionale, in Dir. ind., 2005, pp. 473-474.
SAGGI
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tali), tuttavia, di fatto, azioni civili indipendenti (c.d. stand-alone actions)
relative a cartelli segreti sono poco frequenti, persino in ordinamenti caratterizzati da strumenti di discovery, come quello inglese (58).
Più frequentemente, le azioni di risarcimento danni seguono (c.d.
follow-on actions) l’accertamento svolto dall’autorità di concorrenza, le
cui decisioni (solo talvolta giuridicamente vincolanti per i giudici) (59)
rappresentano comunque un punto di riferimento valutativo assai rilevante per il giudice (60). Se così è, appare quindi necessario che, in caso
di svolgimento in parallelo del procedimento amministrativo antitrust e
del giudizio civile per danni, la funzionalità del primo non venga pregiudicata, potendo risultare preferibile – anche in considerazione della
minor durata della procedura antitrust (e del relativo giudizio di impugnazione) – che il public enforcement si concluda e che i suoi esiti vengano poi utilizzati come valido supporto valutativo per il private enforcement.
Il tratto della segretezza (e le conseguenti difficoltà di prova) non è,
tuttavia, comune a tutte le tipologie di condotte d’impresa che possono
configurare un illecito antitrust. Non lo è, ad esempio, per gli abusi di posizione dominante che si estrinsecano in rifiuti all’accesso o a contrarre,
nei quali la prova del rifiuto è, di norma, facilmente dimostrabile (anche
documentalmente) (61) o, per ragioni analoghe, per le intese verticali che
abbiano anch’esse una base contrattuale (es. accordi di distribuzione) (62).
In relazione a queste fattispecie che non pongono particolari problemi
di prova – tanto che sempre più spesso i soggetti danneggiati chiedono ai
giudici inibitorie cautelari – si pone, piuttosto, il diverso problema dell’ac-
(58) Nazzini, Concurrent Proceedings in Competition Law, Procedure, Evidence and Remedies, Oxford 2004, p. 84.
(59) Cfr. infra, punto 3.3.1.
(60) Scuffi, L’istruttoria nei giudizi antitrust: collaborazione informativa e strumenti di indagine a disposizione del giudice nazionale, cit. p. 475.
Talvolta, l’accertamento dell’illecito antitrust in sede civile si esaurisce nel prendere atto dell’accertamento già svolto dall’Autorità Garante sulla medesima fattispecie. Si veda, in
proposito, App. Napoli, 3 maggio 2005, Nigriello c. Sai, in Foro it., 2005, I, c. 1880.
(61) Evidenze documentali sono di norma disponibili anche nelle ipotesi di boicottaggio
collettivo, che si sostanzi nella interruzione di rapporti contrattuali pregressi (App. Milano,
11 luglio 2003, Bluvacanze c. Viaggi del Ventaglio).
(62) In Francia, la quasi totalità dei giudizi civili antitrust ha riguardato contratti di distribuzione; Thill-Tayara, Private antitrust enforcement litigation in 19 jurisdictions worldwide, 2006, Global competition review, p. 37.
736
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
certamento e della valutazione del contesto economico e giuridico in cui
esse si collocano, al fine di apprezzarne la restrittività concorrenziale.
3.3. - 3.3.1. – A) Come noto, ai fini della coerente applicazione delle regole di concorrenza, l’articolo 16 (primo paragrafo) del Reg. CE 1/2003 –
sulla scia di un noto orientamento della Corte di Giustizia (casi Delimitis (63) e Masterfoods (64) – ha stabilito per i giudici nazionali un esplicito
vincolo di uniformità con le decisioni adottate (o adottande) dalla Commissione laddove essi si trovino a dover giudicare sugli stessi casi (65-66).
Anche le decisioni “positive” di inapplicabilità degli articoli 81-82 CE, eventualmente adottate dalla Commissione ex art. 10, Reg. CE 1/2003 (67), rappresenterebbero un vincolo per i giudici che si trovassero a valutare successivamente la “stessa” condotta oggetto di tali decisioni. In entrambi i casi,
rimane aperta per i giudici la possibilità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (68). Sono invece prive di tale efficacia “vincolante” le decisioni della Commissione di accettazione di impegni ex art. 9 Reg. CE
1/2003, che quindi – in linea di principio – non impedirebbero a giudici na-
(63) Cfr. Corte CE, 28 febbraio 1991, causa C-234/89, in Racc., p. I-935, punto 47.
(64) Cfr. Corte CE, 14 dicembre 2000, causa C-344/98, in Racc., p. I-11369, punto 52.
(65) Si veda in proposito la Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione
degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, cit., punti 12-13. Sebbene con riferimento a decisioni
in materia di aiuti di Stato, si veda Cass. 17 novembre 2005, n. 23269.
(66) Incidentalmente, si ricorda che al fine di garantire coerenza applicativa in caso di
applicazione parallela di norme comunitarie e nazionali di concorrenza, l’art. 3, par. 2, Reg.
CE 1/2003 pone, anche per i giudici nazionali, una «regola di convergenza » nella valutazione delle intese. In base ad essa, non possono considerasi vietati in base a norme antitrust
nazionali (eventualmente più rigorose) accordi, decisioni o pratiche concordate atte a pregiudicare gli scambi intra-comunitari, ma che non siano in contrasto con l’articolo 81.1 CE,
ovvero che soddisfino le condizioni dell’art. 81.3 CE, ovvero ancora che siano “coperte” da
regolamenti comunitari di esenzione per categoria.
(67) Questa norma prevede che la (sola) Commissione possa, per ragioni di interesse
pubblico comunitario ed agendo d’ufficio, intervenire eccezionalmente in relazione a singoli casi ed adottare delle decisioni che accertino la non illiceità di condotte astrattamente
riconducibili alle fattispecie degli artt. 81-82 CE. Sinora, la Commissione non ha adottato
simili decisioni.
(68) Tavassi, Which role for national courts in competition protection?, atti del VI Convegno UAE-LIDC « Antitrust between EC and national law », Treviso, maggio 2004, ed. 2005,
p. 88; si rinvia a Cassinis, La riforma della “modernizzazione” ed i meccanismi a garanzia della coerenza applicativa della disciplina comunitaria della concorrenza, atti del VI Convegno
UAE-LIDC «Antitrust between EC and national law », Treviso, maggio 2004, ed. 2005, p. 477.
SAGGI
737
zionali (e neppure alle autorità di concorrenza nazionali) di adottare una
decisione successiva sullo stesso caso, ad esempio, accertando un’infrazione agli artt. 81-82 CE. Ed invero, l’esclusione dall’ambito di applicazione
del citato art. 16 delle decisioni con impegni, espressamente indicata nel
preambolo del Reg. CE 1/2003 (considerando 13 e 22), deriva proprio dal
fatto che esse non culminano in un accertamento dell’infrazione, ma si limitano a rendere obbligatori taluni impegni, chiudendo con ciò la procedura (69).
La mancanza di un accertamento d’infrazione – vincolante in sede civile – se da un lato rappresenta per le imprese uno dei maggiori “incentivi” a voler chiudere la procedura comunitaria con una decisione di questo tipo, dall’altro, lascia potenzialmente aperta la possibilità di successive pronunce contrarie da parte delle istanze nazionali. Peraltro, appare
ragionevole ritenere che ottemperando le imprese agli impegni assunti
nei confronti della Commissione, esse abbiano rimosso l’eventuale illiceità antitrust delle proprie condotte per l’avvenire, fatto salvo l’apprezzamento – anche in sede giudiziaria – delle condotte pregresse e dei danni da esse eventualmente causati (70). Non può tuttavia escludersi che
detti impegni possano risultare inadeguati a risolvere completamente
problematiche concorrenziali specifiche in taluni mercati nazionali (o
sub-nazionali) (71).
B) I rapporti tra decisioni antitrust e giudizi civili sono stati oggetto di
specifiche previsioni normative in taluni ordinamenti nazionali, in vista o
a seguito della riforma della modernizzazione. Appare quindi interessante una breve ricognizione delle soluzioni più significative.
(69) Le decisioni di accettazioni di impegni sono le uniche che consentono alla Commissione di chiudere una procedura d’indagine, senza giungere ad un accertamento dell’infrazione. Esse sono oggetto di una specifica e complessa disciplina da parte di nume-rose
disposizioni del Reg. CE 1/2003, volte tra l’altro, ad assicurare l’efficacia degli impegni assunti nei confronti della Commissione e la sanzionabilità delle eventuali inottemperanze.
Segnatamente, oltre ai considerando 13 e 22, si vedano gli artt. 9, 14 (par. 1), 23 (par. 2, lett.
c), 24 (par. 2, lett. c), 27 (par. 4), 30 (par. 1).
(70) Per un quadro delle problematiche connesse alle decisioni con impegni, si veda da
ultimo, Temple-Lang, Commitment decisions and settlements with antitrust authorities and private parties under European antitrust law, Fordham corporate law institute, 2006, pp. 301-302.
(71) In tal senso si veda la decisione con impegni adottata dall’autorità di concorrenza
del Belgio nei confronti di Coca-Cola (in data 30 novembre 2005) (Antypas-Waelbroeck,
European competition journal, vol. 2, n. 1, april 2006, p. 187), successivamente alla decisione
con impegni ex art. 9 Reg. 1/2003, adottata dalla Commissione verso la stessa Coca-Cola in
data 22 giugno 2005, in G.U.U.E., L 253.
738
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
La « soluzione tedesca »
La soluzione più avanzata è senza dubbio quella adottata dalla legge
di riforma della normativa antitrust tedesca, entrata in vigore nel luglio
2005. Essa ha, infatti, introdotto una disposizione (art. 33.4, ARC (72)) assai simile a quella dell’art. 16, Reg. CE 1/2003, prevedendo la vincolatività
per i giudici tedeschi – nell’ambito di giudizi risarcitori – anche dell’accertamento di infrazioni ex artt. 81-82 CE contenuto in decisioni definitive
adottate dalle autorità di concorrenza, non solo tedesche (e della stessa
Commissione), ma anche degli altri Stati membri dell’Unione, fatta salva
la possibilità di rinvio alla Corte di Giustizia ex art. 234 CE (73).
Sotto un diverso profilo, si osserva che la riforma della legislazione antitrust tedesca ha inoltre previsto che il termine di prescrizione per il risarcimento dei danni si sospenda per effetto dell’avvio di una procedura ex
artt. 81-82 CE, non solo da parte delle autorità antitrust tedesche, ma anche da parte di autorità di altri Stati membri dell’Unione, oltre che della
Commissione (art. 33.5, ARC).
Si tratta di disposizioni che evidentemente favoriscono la proposizione di azioni civili successivamente alla conclusione dell’accertamento dell’infrazione in sede di public enforcement, come visto, strutturalmente più
idoneo ad accertare taluni illeciti antitrust.
La « soluzione inglese »
Nel Regno Unito, esiste una disciplina più articolata sulla vincolatività
delle decisioni adottate dall’Office of Fair Trading, divenute definitive, in
applicazione (oltre che delle norme antitrust nazionali, anche) degli artt.
81-82 CE. In base all’art. 58 del Competition Act del 1998, le predette decisioni (di violazione o non violazione) sono vincolanti in successivi giudizi
di nullità o risarcitori, limitatamente all’accertamento in fatto ed alle parti
del procedimento amministrativo; inoltre, si tratta di una vincolatività relativa e non assoluta.
Tuttavia, con specifico riguardo alle azioni di risarcimento dei danni,
l’articolo 58A del Competition Act (introdotto dall’Enterprise Act del 2002)
(72) Il testo dell’art. 33, dell’Act against Restraints of Competition (ARC) (Gesetz gegen
Wettbewerbsbeschränkungen, GWB), introdotto con un emendamento (VII) in vigore dal 1°
luglio 2005, è disponibile sul sito del Bundeskartellamt (www.bundeskartellamt.de/wEnglisch/).
(73) Böge-Ost, Up and running, or is it? Private enforcement –the situation in Germany
and Policy perspectives, in ECLR, 2006, p. 202.
SAGGI
739
ha rafforzato la predetta efficacia delle decisioni dell’OFT, estendendola non
solo all’accertamento in fatto, ma anche alla qualificazione giuridica, nonché
ai terzi, allorché essa conduca ad accertare la condotta come infrazione agli
artt. 81-82 CE (oltre che alle corrispondenti norme nazionali); inoltre, entro
questi limiti, si tratta di una vincolatività assoluta, non relativa (74).
La situazione italiana
Non esiste nel nostro ordinamento una disciplina specifica sugli effetti, in sede di giudizio civile, delle decisioni antitrust; né alcuna modifica è
stata introdotta in relazione alle decisioni adottate in base agli artt. 81-82
CE, a seguito della più volte citata riforma comunitaria del 2003. In linea
di principio, come si è visto, i rapporti tra azione amministrativa e giudiziaria sono infatti di reciproca autonomia (75).
Va tuttavia osservato che, nell’ambito di giudizi civili antitrust, successivi ad una decisione dell’Autorità, quasi mai (76) i giudici si sono discostati dagli accertamenti e dalle valutazioni effettuati dall’Autorità all’esito
di una complessa istruttoria avente ad oggetto la medesima fattispecie (77).
Inoltre, in relazione ad illeciti aventi natura segreta (cartelli), stante la
rilevante difficoltà sul piano probatorio che il loro accertamento comporta
(laddove il complesso quadro indiziario può essere composto anche da
documenti interni o del tutto informali (78)), le azioni promosse in sede ci-
(74) Per un’analisi dettagliata, Nazzini, Concurrent Proceedings in Competition Law, Procedure, Evidence and Remedies, Oxford 2004, pp. 200-204.
(75) Neppure nell’ordinamento francese alle decisioni delle autorità di concorrenza è riconosciuta efficacia vincolante per il giudice civile, anche se di fatto costituiscono un valida
base valutativa per quest’ultimo. Tuttavia, si segnala che una recente modifica normativa
(decreto n. 2005-1756 del 30 dicembre 2005) ha riunificato in capo alla Corte d’Appello di Parigi, la competenza sull’impugnazione sia delle decisioni del Conseil de la concurrence, sia delle sentenze delle otto corti specializzate a conoscere delle azioni di risarcimento danni da illecito antitrust (Momege-Bessot, European competition journal, vol. 2, n. 1, april 2006, p. 210).
(76) L’unico caso – di cui si è a conoscenza – di divergenza dell’accertamento dell’illecito da parte del giudice civile rispetto alla precedente decisione dell’Autorità Garante sulla
medesima fattispecie, è quello relativo ad un boicottaggio collettivo, tramite un’attività di
lobbying: App. Milano, ord. 13 luglio 1998, Tramaplast c. Macplast ed altri.
(77) Da ultimo, si veda Scuffi, L’istruttoria nei giudizi antitrust: collaborazione informativa e strumenti di indagine a disposizione del giudice nazionale, cit. p. 475.
(78) La casistica in materia di intese e pratiche concordate accertate dall’Autorità dimostra
che sovente elementi di rilievo del quadro indiziario sono rappresentati da e-mail tra dipendenti di imprese concorrenti, appunti manoscritti, verbali informali di incontri, bozze di accordi non sottoscritti, trovati – anche presso terzi – nel corso di ispezioni (anche informatiche),
utilizzando i poteri ispettivi di cui l’Autorità è dotata, con l’ausilio della Guardia di Finanza.
740
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
vile (es. di risarcimento dei danni) saranno, di fatto, – se non necessariamente – prevalentemente azioni “successive” alla decisione antitrust. Ciò,
sia per le citate difficoltà del singolo di assolvere l’onere di fornire al giudice un adeguato supporto documentale circa la sussistenza dell’infrazione antitrust, sia anche perché il singolo (specie, se si tratta di un consumatore) può trovarsi nella impossibilità stessa di conoscere l’esistenza della
predetta infrazione, prima che essa sia stata accertata in sede di public
enforcement.
In dottrina, peraltro, è stato autorevolmente sostenuto che laddove il
giudizio civile verta sugli stessi fatti che hanno costituito già oggetto di accertamento istruttorio da parte dell’Autorità, la qualificazione adottata da
quest’ultima « dovrebbe considerarsi in linea di principio vincolante in sede
di giudizio », in ragione anche della specifica funzione istituzionale assegnata dalla legge all’Autorità (79).
In proposito, può osservarsi che nel quadro delineato dal Reg. CE
1/2003, il ruolo dell’Autorità, quando applica gli artt. 81-82 CE, sia divenuto
quello di un « organo nazionale operante in funzione comunitaria » (80), che
condivide con la Commissione europea e le altre autorità antitrust nazionali (facenti parte dell’ECN) una competenza concorrente nell’applicazione
delle predette norme (81). Inoltre, nel condurre procedimenti istruttori ex
artt. 81-82 CE, essa opera in stretta collaborazione con la Commissione europea (82), anche tramite i meccanismi di informazione delineati dall’art. 11,
paragrafi 3 e 4, del Reg. CE 1/2003, che prevedono, tra l’altro, l’invio alla
Commissione di un documento esplicativo della linea di azione dell’Autorità antitrust nazionale, almeno trenta giorni prima dell’adozione del provvedimento finale, con la possibilità della Commissione di avocare a sé il caso (art. 11.6), per garantire la coerente applicazione delle predette norme del
Trattato (83).
(79) Libertini, Il ruolo del giudice civile nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur.
comm., 1998, pp. 659-660.
(80) Così il Consiglio di Stato ha incidentalmente descritto la nuova funzione dell’Autorità, il Reg. CE 1/2003 « qualifica a tutti gli effetti l’autorità nazionale come organo nazionale operante in funzione comunitaria » (sez. VI, 21 marzo 2005, n. 113).
(81) Cfr. Comunicazione sulla cooperazione all’interno della rete delle autorità di concorrenza, in G.U.U.E., C101, 27 aprile 2004 (punto 5).
(82) In questi termini si è espressa la Corte CE, causa C-53/03, 31 maggio 2005, Syfait,
punti 34-37.
(83) Per una analisi più dettagliata si rinvia in proposito a Gerber-Cassinis, The “Modernization” of European Community Competition Law: Achieving Consistency in Enforcement, part I and II, in ECLR, nn. 1 e 2/2006.
SAGGI
741
Sembra quindi fondato ritenere che le decisioni dell’Autorità che accertino un’infrazione antitrust ex artt. 81-82 CE, una volta divenute definitive (ovvero nella misura in cui siano state confermate dai giudici amministrativi, Tar Lazio e Consiglio di Stato), possano poi esplicare un’efficacia “rafforzata” (quasi-vincolante) in sede di giudizio civile successivo, anche in considerazione del fatto che, specie a seguito del riconoscimento della legittimazione anche di terzi (concorrenti e consumatori) ad
impugnare i provvedimenti dell’Autorità (84), già in sede di procedimento e giudizio amministrativo sui predetti provvedimenti, si svolge un
contraddittorio ampio ed articolato a cui partecipano (in larga misura) gli
stessi soggetti eventualmente legittimati ad instaurare un successivo giudizio in sede civile.
I giudici dispongono pur sempre dello strumento del rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE, già sperimentato dal giudice amministrativo in sede
di controllo delle decisioni dell’Autorità (85).
Le opzioni del Libro Verde
Nel senso dianzi prospettato è orientata una delle opzioni avanzate
dal Libro Verde (opzione n. 8). Nell’intento di alleviare l’onere probatorio
dell’attore in sede di giudizio civile antitrust, viene prospettato che laddove già esista una decisione dell’autorità di concorrenza che abbia accertato un’infrazione ex artt. 81-82 CE in relazione allo stesso caso, essa venga
considerata (i) “vincolante”, o, (ii) comunque idonea a determinare una
« inversione dell’onere della prova » a favore dell’attore, nel successivo
giudizio civile.
Sembra a chi scrive che la seconda delle due ipotesi (sub ii) – vale a dire l’inversione dell’onere probatorio – possa essere una soluzione equilibrata (del resto, analoga a quella, di fatto, già esistente) ed in grado di va(84) Cons. Stato, sez. VI, 14 giugno 2004, n. 3865, Nokia Italia c. Marconi Mobile-Ote; 21
marzo 2005, n. 1113, S.E.C.I.-Co.Pro.B.-Finbieticola c. Eridania. Si segnala, tuttavia, che con
sentenza del 22 febbraio 2006, n. 1371, il Tar Lazio ha escluso la legittimazione dei consumatori e delle relative associazioni a ricorrere avverso i provvedimenti antitrust, considerando che l’eventuale lesione loro derivante dall’illecito concorrenziale abbia per essi solo
« natura indiretta », ferma restando « la possibilità di utilizzare la strada della tutela procedimentale con atti di impulso o di intervento ovvero esperire, ove ne ricorrano i presupposti, l’azione risarcitoria o di nullità innanzi al giudice civile ».
(85) Oltre al noto rinvio del Tar Lazio che ha dato luogo alla sentenza della Corte CE, 9
settembre 2003, Consorzio Industrie Fiammiferi (CIF), si segnala la recente ordinanza
del Cons. Stato, sez. VI, n. 1998/2006, Autorità c. Ente Tabacchi Italiani ed altri (causa
C-280/06).
742
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
lorizzare la sinergia che può sussistere tra public e private enforcement, all’interno del sistema della tutela “binaria” della concorrenza, senza tuttavia determinare un vincolo insuperabile al libero apprezzamento del giudice civile (86).
Potrebbe aggiungersi la precisazione che la decisione antitrust, per
esplicare la suddetta efficacia, dovrebbe comunque essere definitiva (perché confermata – in tutto o in parte – dai giudici amministrativi o non impugnata).
Del tutto estranee da tale effetto, resterebbe, inoltre, l’accertamento –
spesso assai complicato – del nesso causale e del danno, rimessi integralmente ai giudici.
Un’altra opzione prevista dal Libro Verde, volta a favorire un coordinamento tra le due tutele, è quella che riguarda la sospensione dei termini di prescrizione del diritto al risarcimento del danno a partire dall’apertura di un procedimento da parte della Commissione europea o di un’autorità antitrust nazionale (opzione n. 36). Siffatta soluzione andrebbe vista
con favore almeno in relazione ad illeciti antitrust caratterizzati da segretezza (cartelli hard-core), per l’accertamento dei quali, come detto, le autorità antitrust hanno strumenti di indagine senz’altro più efficaci. Essa favorirebbe l’inizio di azioni di risarcimento dei danni successive (follow-on)
rispetto all’accertamento dell’illecito in sede amministrativa, senza correre il rischio di incorrere nella prescrizione del diritto al risarcimento (87),
ed evitando lo svolgimento di procedure (amministrative e giudiziarie)
parallele. Inoltre, potrebbe essere estesa la stessa durata del termine di
prescrizione, ad esempio da 5 a 10 anni (termine ordinario) (88).
3.3.2. – Occorre distinguere i due ambiti di rapporti dei giudici, rispettivamente, con le istituzioni antitrust comunitarie e nazionali.
(86) La soluzione dell’inversione dell’onere della prova è stata indicata dallo Stato italiano nei suoi commenti al Libro Verde, disponibili sul sito della Commissione Europea.
(87) Prescrizione, che per i danni da illeciti extracontrattuali, nel nostro ordinamento è
di durata quinquennale (art. 2947 c. c.). In proposito, si osservi che la Corte di Giustizia ha
valutato che la previsione di un termine breve di prescrizione, unitamente alla sua decorrenza dall’attuazione dell’intesa, potrebbe contrastare con il principio di effettività, rendendo l’esercizio del diritto al risarcimento dei danni praticamente impossibile o fortemente limitato (Corte CE, 13 luglio 2006, cause riunite C-295/04 – C-298/04, Manfredi ed altri, cit.,
punti 78-79).
(88) È quanto ora previsto in Svezia, con una modifica normativa entrata in vigore nell’agosto 2005; Swartling, Private antitrust enforcement litigation in 19 jurisdictions worldwide, 2006, in Global competition review, p. 81.
SAGGI
743
a) Sul versante della cooperazione tra i giudici nazionali e la Commissione europea (89), la disciplina comunitaria (Reg. CE 1/2003, all’art. 15, e
considerando 21; nuova Comunicazione della Commissione sulla cooperazione con i giudici nazionali (90)) ha previsto una serie di strumenti –
ispirati anche dal reciproco dovere di leale collaborazione ex art. 10 del
Trattato CE – per favorire e migliorare i rapporti tra queste istituzioni e,
per questa via, favorire un’applicazione coerente del diritto comunitario
della concorrenza, nel nuovo contesto del decentramento e dell’applicazione diretta dell’art. 81.3 CE (91).
La Commissione è tenuta a fornire assistenza ai giudici nazionali che
ne facciano richiesta in relazione a giudizi in cui si faccia applicazione degli artt. 81-82 CE. Gli strumenti tramite i quali si può concretare l’attività
di assistenza da parte della Commissione sono: i) la trasmissione di informazioni su richiesta dei giudici nazionali (art. 15.1), sempreché essi possano garantire un’adeguata tutela delle informazioni coperte da riservatezza
(92); ii) il rilascio, su richiesta, di pareri relativi a questioni (economiche, di
fatto e di diritto) inerenti all’applicazione del diritto comunitario della
concorrenza (art. 15.1).
Attualmente non risulta che i giudici italiani abbiano ancora fatto uso
di questi strumenti di assistenza della Commissione (93). Complessiva-
(89) Tesauro, Diritto Comunitario, 2005, p. 736.
(90) Cfr. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e
82 del Trattato CE, in G.U.U.E., C101, 27 aprile 2004.
(91) Sulla opportunità che questi strumenti di cooperazione della Commissione operino
anche nel contesto di arbitrati internazionali in materia antitrust, si veda Nisser-Blanke,
Reflections on the role of the European Commission as amicus curiae in international arbitration proceedings, in ECLR, 2006, p. 174.
(92) Tra esse sono inclusi i c.d. segreti commerciali ed altre informazioni la cui divulgazione comporterebbe comunque un grave pregiudizio ad una persona o ad un’impresa, incluso il rischio di misure ritorsive (cfr. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE, cit., punti 2526. Per la identificazione dei segreti aziendali e delle altre informazioni riservate, si veda la
Comunicazione della Commissione riguardante le regole per l’accesso al fascicolo istruttorio del 13 dicembre 2005, in G.U.U.E., C 325, 22 dicembre 2005.
(93) Invero, non risulta neppure che essi si fossero avvalsi degli strumenti di cooperazione messi a disposizione dal precedente Reg. 17/62: Tavassi, Il Regolamento CE n. 1/2003:
verso la devoluzione di competenze in materia di concorrenza dalla Commissione europea alle
autorità garanti ed ai giudici nazionali, in Dir. com. scambi intern., 2004, p. 361; Scuffi, I riflessi ordinamentali ed organizzativi del Regolamento comunitario n. 1/2003 sulla concorrenza,
in Corriere giur., 2004, p. 123 ss.
744
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
mente, invece, dall’entrata in vigore del Reg. CE 1/2003 vi sono state 7 richieste di informazioni e 10 richieste di pareri ex art. 15.1, da parte di giudici degli Stati membri. In 3 casi, vi è stata una richiesta di parere e di
informazioni (94). I pareri resi dalla Commissione verranno resi pubblici
una volta che si sia concluso il giudizio dinnanzi al giudice nazionale che
ne abbia fatto richiesta, salvo impedimenti di natura legale (95); al fine di
evitare indirizzi divergenti nel rendere i pareri, la Commissione e l’autorità nazionale di concorrenza del paese interessato si informeranno reciprocamente della richiesta di parere da parte di un giudice nazionale (96).
Ancora inutilizzato dalla Commissione risulta – salvo che in un recentissimo caso – l’ulteriore strumento di collaborazione “attiva” rappresentato dalla possibilità di presentare alle giurisdizioni nazionali osservazioni
scritte (ed orali, ma su autorizzazione del giudice), in merito a giudizi nazionali che implichino questioni relative all’applicazione degli articoli 8182 CE (c.d. amicus curiae) (art. 15.3), al fine di favorire una loro coerente
applicazione.
Peraltro, diversamente dalla gran parte degli Stati membri, nel nostro
ordinamento non sono state ancora introdotte misure volte a coordinare
il nuovo istituto dell’amicus curiae con la disciplina del processo civile,
creando non poche incertezze circa la corretta collocazione dell’istituto
tra le figure di intervento previste nel codice di procedura civile (97).
Inoltre, nell’ordinamento italiano non risultano essere state adottate
misure o provvedimenti per dare corso alla trasmissione sistematica delle
sentenze dei giudici in applicazione degli articoli 81 e 82 CE (come previsto dall’art. 15.2, Reg. CE 1/2003) al fine di permettere alla Commissione
di essere tempestivamente informata in merito a siffatte pronunce ed
eventualmente intervenire nelle successive fasi del giudizio. A riprova di
ciò – a differenza dei maggiori Stati membri – nessuna sentenza di giudici italiani figura nell’apposita sezione del sito internet della Commissione,
dedicata alla pubblicazione delle versioni non confidenziali delle sentenze
comunicate dai giudici nazionali in base al citato art. 15, paragrafo 2, Reg.
CE 1/2003.
In proposito, un modello interessante a cui poter fare riferimento ap-
(94) Dati aggiornati ad agosto 2006.
(95) Si veda in proposito la Relazione della Commissione sulla politica di concorrenza
2005, punto 221.
(96) Relazione della Commissione sulla politica di concorrenza 2005, punto 220.
(97) Scuffi, L’istruttoria nei giudizi antitrust: collaborazione informativa e strumenti di indagine a disposizione del giudice nazionale, cit., p. 477.
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pare quello tedesco nel quale le sentenze dei giudici in applicazione degli
artt. 81-82 CE devono essere sistematicamente inviate all’autorità antitrust nazionale (Bundeskartellamt) e da essa inviate alla Commissione europea (98); questo sistema è funzionale a consentire anche all’autorità nazionale lo svolgimento del ruolo di amicus curiae.
b) Come noto, la disciplina dei rapporti tra giudici nazionali ed autorità di concorrenza nazionali è rimessa essenzialmente alle discipline nazionali. Il Reg. CE 1/2003, art. 15.3, si limita essenzialmente a prevedere
che anche le autorità nazionali di concorrenza possano svolgere un ruolo
di amicus curiae in relazione a giudizi « in merito a questioni relative all’applicazione » degli artt. 81-82 CE. In proposito si osserva che, diversamente dall’ordinamento italiano, in molti Stati membri sono state introdotte apposite disposizioni per favorire lo svolgimento di tale funzione.
Incidentalmente, deve comunque ritenersi che siffatta mancanza non sia
ostativa all’esercizio di tale potere, direttamente conferito dal regolamento all’Autorità. Quest’ultima, tuttavia, non è ancora intervenuta come
amicus curiae in giudizi nazionali.
Si segnalano, invece, un numero limitato di richieste, da parte di giudici italiani, di copia di documenti in possesso dell’Autorità, relativi a procedimenti istruttori già conclusi con provvedimento finale.
Si è trattato, per lo più, di richieste avanzate ex art. 213 c.p.c. nell’ambito di giudizi civili di risarcimento danni successivi alla conclusione dell’istruttoria che aveva condotto all’accertamento di un illecito antitrust da
parte dell’Autorità (99).
3.3.3. – La cooperazione tra autorità antitrust e giudici civili rappresenta un elemento importante per rendere nel suo complesso più efficace la
tutela “binaria” della concorrenza, pur nella distinzione di ruoli e funzioni più volte richiamata.
Appare tuttavia essenziale che siffatta cooperazione non possa incidere negativamente sulla funzionalità del procedimento amministrativo tramite il quale, come visto, si realizza la tutela della concorrenza nell’inte(98) La legge tedesca (artt. 90, 90a, ARC) prevede l’obbligo da parte dei giudici civili di
inviare al Bundeskartellamt copia non solo delle sentenze adottate in applicazione delle
norme antitrust comunitarie, ma ancor prima, degli atti introduttivi dei relativi giudizi.
(99) Molte delle richieste provenivano da Giudici di Pace nell’ambito di giudizi di risarcimento avviati da singoli consumatori contro compagnie di assicurazione a seguito della
decisione del 28 luglio 2000 sul caso I377 RC Auto, riguardante una pratica concordata restrittiva della concorrenza, decisione in massima parte confermata dal Tar Lazio e dal Consiglio di Stato.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
resse pubblico, ed il quale è strutturalmente più adatto (e forse il solo idoneo) all’accertamento ed alla repressione delle condotte anticoncorrenziali “segrete” (cartelli hard-core).
In proposito, due sono le esigenze particolarmente rilevanti emerse
nella disciplina comunitaria. Entrambi attengono alla tutela della riservatezza, in particolare, riguardanti (i) le informazioni sensibili acquisite al fascicolo, e (ii) le informazioni acquisite in attuazione dei programmi di clemenza.
– Quanto alla prima, la tutela della riservatezza ha ad oggetto principalmente i segreti aziendali o le altre informazioni di natura sensibile (100)
che figurano nel fascicolo dell’istruttoria e la cui divulgazione sarebbe lesiva non solo, direttamente, dei diritti delle imprese che hanno chiesto ed
ottenuto la tutela delle predette informazioni sensibili, ma, indirettamente, anche della funzionalità ed efficacia del procedimento antitrust in relazione al quale esse sono state acquisite. In proposito, la Comunicazione
sulla cooperazione con i giudici condiziona espressamente la possibilità –
da parte della Commissione – di fornire le predette informazioni ai giudici nazionali alla garanzia che essi tutelino adeguatamente la loro riservatezza, impedendone la divulgazione nell’ambito dei loro giudizi (101). In
tal senso, si veda anche l’opzione n. 7 del Libro Verde.
Rispetto a questa esigenza, che è propria anche delle istruttorie condotte dall’Autorità (nelle quali la riservatezza trova specifica tutela (102)), si
(100) In base alla nuova Comunicazione della Commissione sull’accesso riguardante le
regole per l’accesso al fascicolo istruttorio nei casi relativi all’applicazione degli articoli 81 e
82 del Trattato CE, del regolamento (CE) n. 139/2004 (in G.U.U.E., C 325, 22 dicembre
2005) costituiscono « segreti aziendali » tutte quelle informazioni riguardanti le attività
commerciali di un’impresa che, se rese pubbliche, arrecherebbero all’impresa stessa un grave danno. Tra queste figurano le informazioni « di ordine tecnico e/o finanziario relative al
know-how, i metodi di valutazione dei costi, i segreti ed i processi di produzione, le fonti di approvvigionamento, le cifre relative alla produzione e alle vendite, le quote di mercato, gli elenchi
dei clienti e dei distributori, i piani di commercializzazione, la struttura dei costi e dei prezzi e
la strategia di vendita ». Per « altre informazioni riservate » si intendono invece tutte le informazioni diverse dai segreti aziendali la cui divulgazione comporterebbe comunque un grave pregiudizio ad una persona o ad un’impresa, incluso il rischio di misure ritorsive da parte dei concorrenti. Tra esse rientrano anche le informazioni che potrebbero consentire alle
parti l’identificazione dei denunzianti o di terzi i quali hanno interesse a rimanere anonimi.
In tale categoria rientrano anche i segreti militari.
(101) Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione
e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del
Trattato CE, cit., punti 23, 24, 25.
(102) D.p.r. 217/98, art. 13.
SAGGI
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segnala che lo strumento della richiesta di informazioni del giudice alla P.
A. previsto dall’art. 213 c.p.c., non sembra offrire garanzie adeguate, posto
che le norme di attuazione ad esso collegate (artt. 76, 96 disp. att. c.p.c.)
sembrano piuttosto volte a garantire pieno accesso al fascicolo alle parti
del giudizio, in ossequio al principio del contraddittorio (103).
In proposito, si segnala che, invece, la disciplina in materia di proprietà intellettuale e diritto d’autore (quest’ultima recentemente modificata) prevede espressamente che il giudice civile possa adottare gli opportuni accorgimenti per la tutela della riservatezza delle informazioni acquisite (104). Sarebbe pertanto auspicabile che simili disposizioni venissero introdotte anche per quanto riguarda il contenzioso civile in materia antitrust.
– Esigenze di riservatezza, se possibile, ancora maggiori sono quelle
che caratterizzano, nel corso del procedimento amministrativo, le dichiarazioni con le quali le imprese, in attuazione di un programma di clemenza (leniency programme), forniscono informazioni determinanti per l’accertamento di intese anticoncorrenziali a cui hanno preso parte (105).
Qui la riservatezza del trattamento di tali dichiarazioni è posta a salvaguardia della stessa funzionalità dei programmi di clemenza (per non pregiudicare gli incentivi delle imprese a farne uso), programmi che, come
(103) Cass., 22 febbraio 1990, n. 1304, in Riv. dir. int. priv. proc., 1991, p. 726.
(104) Si vedano gli artt. 121 e 128, comma 4, del d. lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) ed in precedenza l’art. 77, r.d. n. 1127/1939, così come modificato dall’art. 23 del d.
lgs. n. 198/1996, di attuazione in Italia dell’accordo TRIPs del 1994. Si veda anche l’art. 156bis, comma 3, nella legge 22 aprile 1941, n. 633 (legge sul diritto d’autore), recentemente introdotto dal d. lgs. 16 marzo 2006, n. 140. Quest’ultima disposizione, in particolare, dispone: « Il giudice, nell’assumere i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2, adotta le misure idonee a
garantire la tutela delle informazioni riservate, sentita la controparte ».
(105) Per una rassegna delle specifiche esigenze di riservatezza in materia di leniency e delle tecniche adottate per assicurarla a livello comunitario, si veda Van Barlingen-Barennes,
The European Commission’s 2002 Leniency Notice in practice, EU Competition Newsletter n.
3/2005, p. 6 ss. Con riferimento all’interferenza degli strumenti di discovery con il funzionamento dei programmi di clemenza, si veda Nordlander, Discovering discovery – US Discovery of EC leniency statement, in ECLR, 2004, p. 646. Le esigenze di riservatezza delle dichiarazioni di leniency sono oggetto di particolare attenzione nell’ambito del modello standard di
leniency programme elaborato in seno all’ECN, adottato il 29 settembre 2006. L’obiettivo è
quello di evitare che la collaborazione di un’impresa nell’accertamento di un cartello possa
esporla, sul piano civilistico, a conseguenze peggiori rispetto ad imprese che hanno rifiutato
tale collaborazione. Si vedano in proposito, oltre allo oral statement, i limiti all’accesso previsti dai citati documenti: ECN Leniency Model Programme (punto 29); progetto di nuova comunicazione della Commissione sulla leniency (punti 33 e 34) del 29 settembre 2006.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
detto, rappresentano strumenti preziosi di “emersione” dei fenomeni collusivi. Gli esiti dell’accertamento svolto dall’autorità di concorrenza – una
volta resa pubblica la sua decisione – potranno poi essere utilizzati in sede di giudizio civile.
Il Libro Verde ripropone questa esigenza di riservatezza (opzione n.
28) che si ritiene meriti essere sostenuta, per le ragioni dette (106). Questa
soluzione corrisponde, del resto, a quella già indicata, in generale, nella
Comunicazione sulla leniency (107), nonché nella Comunicazione sulla
cooperazione tra Commissione e giudici nazionali, come causa di esclusione dalla trasmissione di informazioni ex art. 15.1, Reg. CE 1/2003 (108).
Sotto un ulteriore profilo, distinto dal problema della riservatezza ma
pur sempre attinente ai rapporti tra public e private enforcement, si osserva
che, a livello comunitario, l’adesione ad un programma di clemenza opera sul piano delle sanzioni amministrative, escludendone in tutto o in parte l’irrogazione, per le imprese che abbiano contribuito in maniera rilevante all’accertamento di un cartello. Non incide, invece, sulle « conseguenze sul piano del diritto civile » derivanti dalla partecipazione ad un’intesa illecita ex art. 81 CE (109).
Il Libro Verde prevede di “collegare” i due profili, sanzionatorio e risarcitorio, al fine di rafforzare l’incentivo a far emergere i cartelli da parte
delle imprese coinvolte. Questa impostazione trae spunto dall’esperienza
statunitense, nella quale l’adesione ad un programma di clemenza esclude l’applicazione della regola del danno triplo (treble damage) in sede risarcitoria.
In proposito, de iure condendo, potrebbe trovare accoglimento la proposta (Libro Verde, opzione n. 30) di escludere la responsabilità solidale
(prevista nel nostro ordinamento dall’art. 2055 c.c.) nei confronti dell’im-
(106) In senso favorevole, si vedano anche i commenti al Libro Verde della Commissione formulati dal governo italiano, p. 8, ed anche dall’Office of Fair Trading, punto 3.6 ss. (entrambi disponibili sul sito della Commissione).
(107) Comunicazione della Commissione relativa all’immunità dalle ammende e alla riduzione dell’importo delle ammende nei casi di cartelli tra imprese del 2002, cit., punti 3233, in corso di revisione.
(108) « La Commissione non trasmetterà alle giurisdizioni nazionali le informazioni presentate volontariamente da un’impresa che abbia richiesto un trattamento favorevole, senza il consenso di quest’ultima »; cfr. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione
tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione
degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, cit., punto 26.
(109) Comunicazione della Commissione relativa all’immunità dalle ammende e alla riduzione dell’importo delle ammende nei casi di cartelli tra imprese, cit., punto 31.
SAGGI
749
presa che ha chiesto di beneficiare della clemenza, collaborando fattivamente all’accertamento dell’illecito.
4. – Dalle riflessioni che precedono possono trarsi le seguenti, schematiche considerazioni conclusive.
Con riferimento ai nuovi poteri introdotti, in tutto o in parte, dalla
legge n. 248/2006, appare corretto affermare che essi hanno rafforzato il
ruolo dell’Autorità come public enforcer del diritto nazionale e comunitario della concorrenza, inserendosi – al contempo – in un processo di spontanea convergenza delle legislazioni antitrust nazionali degli Stati membri
verso il « sistema comunitario ».
D’altra parte, la recente legge, nella parte in cui ha novellato l’art. 2233
del codice civile, consentendo accordi scritti tra avvocato e cliente sui
compensi professionali, ha operato una scelta che agevola l’accesso al private enforcement, specie da parte dei soggetti economicamente più deboli,
aprendo la strada a soluzioni già sperimentate nel diritto statunitense.
Rimane il rammarico che il legislatore non abbia invece colto l’occasione per razionalizzare lo “spezzettamento ” delle competenze dei giudici
civili in materia antitrust operando una loro riunificazione (come avvenuto in altri ordinamenti e ripetutamente auspicato da unanime dottrina),
rappresentando tale assetto un obiettivo ostacolo allo sviluppo del private
enforcement nel nostro paese.
Riguardo, invece, al secondo dei profili trattati, quello dei rapporti ed
interrelazioni tra public e private enforcement, si possono sottolineare i seguenti aspetti.
In primo luogo, va rilevata la complementarietà del public e private
enforcement, nel contesto di una « tutela binaria » della concorrenza.
Siffatta complementarietà, tuttavia, non esclude, ma presuppone la distinzione di ruoli e funzioni, rispettivamente, delle autorità di concorrenza e dei giudici nazionali. Essa, quindi, va intesa nel senso che forme distinte di tutela della concorrenza (pubblica e privata), possono accrescere
sensibilmente l’efficacia complessiva della tutela offerta dalle norme antitrust, e quindi il benessere della collettività.
In secondo luogo, la distinzione dei ruoli e dei conseguenti strumenti
di indagine e accertamento conferiti, rispettivamente, alle autorità di concorrenza ed ai giudici nazionali, pone esigenze sia di cooperazione che di
coordinamento tra le due forme di enforcement, in modo che esse possano
operare al meglio in maniera sinergica.
Se da un lato, quindi, occorre un adeguato sviluppo degli strumenti di
cooperazione, come quelli previsti dal Reg. CE 1/2003, appare opportuno
750
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
evitare che il loro operare possa incidere negativamente sulla funzionalità
del public enforcement, in relazione a fattispecie – quali, in particolare, i
cartelli segreti – per il cui accertamento, le autorità di concorrenza sono
dotate di strumenti più efficaci, sia di indagine che di incentivazione alla
loro « emersione spontanea », quali i programmi di clemenza di cui anche
l’autorità di concorrenza italiana si sta dotando. Ciò, in considerazione
del fatto che i risultati degli accertamenti svolti dalle autorità antitrust, già
nella prassi attuale, rappresentano – una volta rese pubbliche le relative
decisioni – degli importanti punti di riferimento valutativi, da cui il giudice quasi mai si è discostato. Come si è visto, in alcuni ordinamenti nazionali detti accertamenti vincolano formalmente i giudici. Pertanto, anche
in considerazione dell’ampia partecipazione consentita ai concorrenti ed
ai consumatori (e loro associazioni) – che di solito sono gli stessi soggetti
eventualmente interessati a chiedere il risarcimento dei danni in sede civile – al procedimento antitrust (e ai relativi giudizi d’impugnazione), si
prospetta l’opportunità che, in relazione alle predette fattispecie, il private
enforcement (segnatamente, il giudizio di risarcimento del danno) segua la
conclusione del procedimento antitrust.
Alcune delle opzioni avanzate dal Libro Verde sono specificamente
volte a migliorare i rapporti tra public e private enforcement, cercando di
evitare che ciò possa pregiudicare la funzionalità dell’accertamento in via
amministrativa (110) e, quindi, in definitiva la possibilità stessa di accertare
gli illeciti antitrust più gravi, connotati da segretezza. In particolare, tra le
esigenze più rilevanti, si segnalano quelle di garantire la riservatezza delle
informazioni di natura sensibile (tra cui i business secrets) e delle dichiarazioni acquisite dalle imprese che abbiano aderito ad un programma di clemenza.
(110) In questo senso, si vedano anche i citati commenti dello Stato italiano al Libro
Verde. In essi, è stata espressamente indicata l’opportunità che « il procedimento innanzi all’Autorità ed il processo dinnanzi all’autorità giudiziaria [vengano] coordinati fra loro e resi
complementari l’uno all’altro, in modo da assicurare un’adeguata tutela degli interessi coinvolti e da non pregiudicare il procedimento dinanzi all’Autorità. Detto coordinamento, pertanto,
dovrebbe essere differenziato – ad esempio – a seconda che il procedimento innanzi all’Autorità
sia ancora aperto oppure già concluso ».
ERMENEGILDO MARIO APPIANO
Parlamento Europeo e Commissione a confronto
sulle delocalizzazioni industriali
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La posizione iniziale del Parlamento Europeo. – 3. La
posizione iniziale della Commissione. – 4. Il compromesso.
1. – Sulla delicata questione delle delocalizzazioni (1) industriali, sussisteva una riguardevole distanza tra la posizione assunta dal Parlamento Europeo e quella della Commissione. Ciò al punto che fra le due istituzioni la divergenza di opinione su tale fenomeno non concerneva solo
il giudizio di valore, cosa poi condizionante l’individuazione delle eventuali reazioni da attuare, ma verteva addirittura sulla sua stessa percezione.
Tale conflitto, da cui è scaturita un’interessante querelle a distanza tra
le due istituzioni valorizzando il ruolo democratico del Parlamento, si è
composto con un compromesso solo verso la metà dell’anno 2006, in occasione dell’approvazione delle misure di riforma sui Fondi strutturali europei. L’adozione dei relativi regolamenti ha necessariamente coinvolto
anche il Consiglio, istituzione che sino a questo momento si era tenuta
prudentemente fuori da tale dibattito.
Prima di illustrare le posizioni su cui erano inizialmente attestati i no-
(1) Il tema delle delocalizzazioni è affrontato nella letteratura con tagli molto diversi.
Tra le opere più recenti: Corò, Verso una governance dei processi di delocalizzazione produttiva, in Quaderni rassegna sindacale, 2004, n. 2, p. 79; Corò-Tattara-Volpe, Andarsene per
continuare a crescere: la delocalizzazione internazionale come strategia competitiva, Roma,
2006; Fintoni, Produrre e distribuire moda: sourcing e delocalizzazione in un contesto globale:
dove, come, con chi, Milano, 2005; Forum internazionale «Testa a testa. Lavoro versus capitale », Roma, aprile 2004 (pubblicato a Milano nel 2005); Gomierato, Le delocalizzazioni
dell’abbigliamento in Romania: il caso Stefanel, in Economia e società regionale, 2004, n. 2, p.
63; Perulli, Diritti e globalizzazione. Un’anima per il commercio. Come tutelare i lavoratori di
fronte all’accresciuta concorrenza internazionale e ai processi di delocalizzazione produttiva, in
Rassegna Sindacale, 2001, n. 1; Schiavone, Un caso meridionale di delocalizzazione produttiva: finalità, strategie e ipotesi, in Economia e società regionale, 2004, n. 3, p. 129; Stevanato,
Fisco e delocalizzazione, in Economia e società regionale, 2004, n. 3, p. 84; Unione delle Camere di commercio lombarde, Delocalizzazione produttiva e investimenti all’estero delle
imprese manifatturiere lombarde, Milano, 1998.
752
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
stri protagonisti, cerchiamo di capire in estrema sintesi quale sia il problema sul tappeto, rappresentante uno degli aspetti della globalizzazione (2).
L’apertura mondiale dei mercati spinge – fra l’altro – le imprese a chiu(2) Parimenti eterogenea la bibliografia in tema di globalizzazione, di cui si può citare:
Abete, Abitare la società globale per una globalizzazione sostenibile, Milano, 1997; Abravanel, Le alleanze strategiche come via alla globalizzazione, Milano, 1990; Agnelli, Cultura
europea e globalizzazione, Pontedera, 1996; Agnoletto, Prima persone: le nostre ragioni contro questa globalizzazione, Roma, 2003; Alston, Diritti umani e globalizzazione: il ruolo dell’Europa, Torino, 1999; Amoroso, L’apartheid globale: globalizzazione, marginalizzazione
economica, destabilizzazione politica, Roma, 1999; Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Roma, 2002; Baricco, Next: piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che
verrà, Milano, 2002; Beck, Che cos’è la globalizzazione: rischi e prospettive della società planetaria, Roma, 1999; Bovè- Dufour, Il mondo non è in vendita: agricoltori contro la globalizzazione alimentare, Milano, 2000; Caroli, Globalizzazione e localizzazione dell’impresa internazionalizzata, Milano, 2000; Conferenza nazionale sull’Organizzazione mondiale
del Commercio, Le frontiere della globalizzazione: negoziati commerciali e riforma dell’OMC, Roma, 2001; Della Porta, I new global, Bologna 2003; Ferrara, Stato sociale e
mercato mondiale: il welfare state europeo sopravviverà alla globalizzazione dell’economia?,
Torino, 1993; Federazione universitaria cattolica italiana, Globalizzazione e solidarietà, Roma, 2002; Fondazione Courmayeur, Atti del convegno Antitrust e globalizzazione,
Milano, 2004; Fortis, Le due sfide del made in Italy; globalizzazione e innovazione: profili di
analisi della seconda conferenza nazionale sul commercio con l’estero, Bologna, 2005; French, Ambiente e globalizzazione: le contraddizioni tra neoliberismo e sostenibilità, Milano,
2000; Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Roma, 2000; Giddens, Il mondo che cambia: come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, 2000; Hardt-Negri, Impero: il
nuovo ordine della globalizzazione, Milano, 2002; Kaldor, L’altra potenza, la società civile:
diritti umani, democrazia, globalizzazione, Milano, 2004; Luttwark, La dittatura del capitalismo: dove ci porteranno il liberalismo selvaggio e gli eccessi della globalizzazione, Milano,
1999; Lafay, Capire la globalizzazione, Bologna, 1998; Majone, La globalizzazione dei mercati; storia, teoria, istituzioni, Milano, 2004; Ohmae, Il continente invisibile: oltre la fine degli
Stati-nazione. Quattro imperativi strategici nell’era della rete e della globalizzazione, Roma,
2001; Perfetti-Ravasi, Identità europea geopolitica e globalizzazione, Milano, 2003; Romano, Globalizzazione del commercio e fenomenologia del diritto: saggio su diritto e identità, Torino, 2001; Rossi, Quali regole per la globalizzazione?, in De Gregorio (a cura di), Temi scelti
di storia e diritto tra cultura e istituzioni, Roma, 2004; Sachs, Ambiente e giustizia sociale: i limiti della globalizzazione, Roma, 2002; Sen, Globalizzazione e libertà, Milano, 2003; Soros,
Globalizzazione, Milano, 2002; Scott, Le regioni nell’economia mondiale: produzione, competizione e politica nell’era della globalizzazione, Bologna, 2001; Spybey, Globalizzazione e
società mondiale, Trieste, 1997; Stiglitz, In un mondo imperfetto: stato, mercato e democrazia nell’era della globalizzazione, Roma, 2001; Stiglitz-Cavallini, La globalizzazione e i
suoi oppositori, Torino, 2002; Tan Kon Yam, Rapporto ASEAN: il futuro del sud-est asiatico
fra integrazione regionale e globalizzazione, Torino, 1996; Tanzi, Globalizzazione e sistemi fiscali, Arezzo, 2002; Valentini, Responsabilità sociale dell’impresa e globalizzazione: verso
un’internazionalizzazione sostenibile, Milano, 2004; Venier, Il disastro di una nazione: saccheggio dell’Italia e globalizzazione, Padova, 1999.
SAGGI
753
dere le unità produttive, anche se tecnologicamente avanzate, situate nei
paesi ove i costi di produzione sono maggiori, per trasferire gli impianti in
quegli Stati ove esistono minori vincoli operativi (quali la legislazione a
protezione dell’ambiente nonché a salvaguardia della salute della manodopera), i salari risultano decisamente inferiori ed i contributi previdenziali magari addirittura assenti o ridotti al minimo. Trattasi poi di un fenomeno a cascata: se a delocalizzare è un’impresa di ragguardevoli dimensioni, anche l’indotto segue suo malgrado la via della chiusura o, quanto
meno, del drastico ridimensionamento.
Evidenti le ripercussioni di tali decisioni sul territorio degli Stati ovvero delle regioni che subiscono la delocalizzazione: la chiusura delle fabbriche comporta gravi scompensi non solo a livello occupazionale, ma
dell’intero sistema economico. In altre parole, la società tende ad impoverirsi, dove avviene una diffusa cessazione delle attività produttive.
È poi vero che, in passato, si sono affrontate gravi crisi industriali, le
quali nell’Europa comunitaria (allora ancora ristretta alla parte occidentale del continente) hanno talora colpito con maggiore veemenza alcuni
specifici settori imponendone la drastica riduzione, com’è accaduto per
l’industria siderurgica, quella carboniera e la cantieristica navale. All’epoca, tuttavia, gli altri settori industriali sostanzialmente resistevano, per cui
si poteva confidare nel loro perdurante apporto a sostegno dell’occupazione e dell’economia nonché puntare a svilupparli investendo in tecnologia,
che era un patrimonio di conoscenze non così diffuso o disponibile come
oggi. Inoltre, all’epoca i mercati mondiali erano più chiusi e le crisi venivano perlopiù vissute come un momento grossomodo difficile per tutti gli
Stati industrializzati. Al contrario, a fronte di un’annaspante Europa (3) attualmente si assiste alla portentosa crescita di nuove potenze economiche
a livello mondiale (quanto meno Cina e India), in precedenza percepite
come paesi “innocui” o addirittura come (ingenuamente sperato? (4))
« terreno di conquista » per le nostre imprese.
Per chi vive in una regione sviluppata ed assiste a ripetuti episodi di
chiusura delle aziende lì situate, accompagnati dalla mancanza di serie
prospettive sulla creazione di nuove e stabili fonti di reddito in loro sostituzione, le operazioni di delocalizzazione rappresentano perciò una delle
più preoccupanti criticità discendenti dalla globalizzazione.
(3) Nardozzi, Giganti asiatici e rigidità europee, ne Il Sole/24 Ore, 5 maggio 2006, p. 1.
(4) Basti pensare alla seguente notizia: «Mittal vicina a Arcelor – Atteso oggi il via libera
all’OPA indiana », ne Il Sole/24 ore, 25 giugno 2006, p. 1 (Arcelor è un colosso europeo dell’industria siderurgica, conteso dall’indiana Mittal e dalla russa Severstal).
754
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Nella dimensione comunitaria, le delocalizzazioni avvengono su due
diverse direttrici, pur partendo principalmente sempre dai medesimi Stati
membri, e cioè quelli al momento più industrializzati.
La prima direzione comporta uno spostamento intra-comunitario delle unità produttive, che tendono a muovere verso i paesi di nuova adesione. Ostacolare simile flusso può significare scontrarsi non solo con le
aspettative degli Stati membri di nuova adesione, ma anche con i diritti di
libera circolazione sanciti dal Trattato (5).
Il pericolo di un simile conflitto non si pone, invece, per la seconda direzione, rappresentata dal trasferimento delle unità produttive fuori dai
confini comunitari. Semmai, qui insorgono i vincoli contenuti negli accordi commerciali conclusi dalla Comunità con gli Stati terzi (6) (primi tra
tutti quelli discendenti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio),
oltre alla eventuale necessità di non compromettere i rapporti di natura
commerciale o politica.
2. – Con una recente risoluzione (7), che ribadiva e nel contempo approfondiva considerevolmente il contenuto di una propria posizione
espressa durante il corso della precedente legislatura (8), il Parlamento Europeo ha colto senza mezzi termini tutta la drammaticità delle delocalizzazioni:
. . . omissis . . .
C. whereas companies choose to relocate their activities for manifold reasons, some of which are in no way connected to issues of productivity, efficiency or economic
viability; whereas such relocation is liable, however, to result in major job losses and
economic hardships whose impact on regional development will be all the more pronounced where there are few employment possibilities in the region abandoned,
. . . omissis . . .
(5) Rapport sur les délocalisations dans le contexte du développement régional (curato da
Alain Hutchinson), 2004/2254 (INI), p. 11.
(6) Commissione europea, Comunicazione sulle ristrutturazioni e occupazione – Anticipare e accompagnare le ristrutturazioni per ampliare l’occupazione: il ruolo dell’Unione Europea,
COM (2005) 120 def., p. 5.
(7) Risoluzione del Parlamento Europeo sulle delocalizzazioni nel contesto dello sviluppo regionale, approvata il 14 marzo 2006 (P6_TA-PROV(2006) 0099; AE-0013/2006), attualmente ancora non disponibile nella versione in lingua italiana. Da ora: la risoluzione sulle
delocalizzazioni. Si veda anche Il Sole/24 Ore, 4 febbraio 2005, p. 2.
(8) Risoluzione del Parlamento Europeo del 13 marzo 2003 sulla chiusura delle imprese
dopo la concessione di assistenza finanziaria dell’Unione Europea (P5_TA (2003) 0106, in
G.U.C.E., C 61 E, 10 marzo 2003).
SAGGI
755
E. whereas globalisation, technological progress and the removal of barriers to the
access of certain countries facilitates international trade and presents the European
Union with opportunities in a globalised world, but may also increase the risks of relocation,
. . . omissis . . .
1. Points out that company relocation is a serious concern in several Member States.
Il Parlamento ha preso le mosse da un elemento fattuale notorio: il sistema produttivo europeo è influenzato in misura sensibile dalla presenza
di numerosi incentivi pubblici alle imprese, rappresentati sia dai finanziamenti erogati tramite i fondi strutturali europei, sia dagli aiuti di Stato.
Entrambi sono controllati dalla Comunità: i primi, dettando le regole per
l’accesso ai benefici previsti dai Fondi strutturali; i secondi, mediante l’applicazione delle norme in materia di concorrenza (e cioè stabilendo – in
virtù di quanto disposto dall’art. 87, comma 3°, del Trattato CE – le condizioni cui devono sottostare gli Stati per concedere, sotto qualsiasi forma,
sovvenzioni alle imprese site sul loro territorio, in deroga al divieto altrimenti stabilito dal primo comma della medesima norma) (9).
Ciò considerato, secondo il Parlamento la Comunità deve allora attivarsi su ogni fronte, sì da evitare che qualsiasi finanziamento pubblico
(comunitario o statale) vada ancora a beneficio di imprese che delocalizzano, una volta godute le risorse messe a disposizione nel precipuo intento di evitare la chiusura tout court dei loro stabilimenti ovvero di favorire
lo sviluppo e l’occupazione nella regione europea in cui essi sono siti.
L’adozione di tale misura presenta un’unica difficoltà, insorgente peraltro solo al livello delle delocalizzazioni intra-comunitarie: conciliare la
tutela dell’occupazione (e della relativa ricchezza) negli Stati membri, dove si rischia la chiusura degli stabilimenti, con le aspirazioni di crescita in
capo agli altri paesi aderenti all’Unione che sarebbero destinati a ospitare
la nuova sede degli impianti produttivi trasferiti.
Per risolvere il dilemma, il Parlamento si è allora richiamato ai compiti di coesione economico sociale affidati alla Comunità (10), individuando
la necessità di operare un attento bilanciamento tra le posizioni dei paesi
diversamente coinvolti dalle operazioni di delocalizzazione. Il punto focale dell’intero ragionamento – che, sul piano politico, poteva verosimil(9) Tesauro, Diritto comunitario, 2005, p. 775, evidenzia come l’applicazione delle regole del Trattato in materia di aiuti di Stato consente alla Commissione di contribuire alla definizione di vere e proprie linee di politica industriale a livello comunitario.
(10) Si veda il preambolo al Trattato della Comunità Europea e le seguenti sue disposizioni: art. 2; art. 3, comma 1°, lettera k; artt. da 158 a 162.
756
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
mente svolgere solo il Parlamento Europeo nella sua attuale composizione allargata agli eletti provenienti dagli Stati di nuova adesione – è negare
di dover privilegiare sempre ed esclusivamente i paesi meno sviluppati. Se
è vero che la politica di coesione impone di aiutare la crescita delle regioni più in ritardo, per il Parlamento ciò non vale, qualora le loro possibilità
di progresso economico discendano da un’operazione di delocalizzazione
industriale, compiuta ai danni di un’altra regione europea, dove la chiusura degli stabilimenti lascia dietro sé una grave situazione occupazionale
difficilmente assorbibile:
B. whereas Cohesion Policy is an instrument of the European Union that enables
it to reduce disparities affecting the poorest regions and it is essential to support companies and invest in infrastructure projects within those regions; whereas public aid is
a legal instrument for achieving that objective,
C. whereas companies choose to relocate their activities for manifold reasons, some of which are in no way connected to issues of productivity, efficiency or economic
viability; whereas such relocation is liable, however, to result in major job losses and
economic hardships whose impact on regional development will be all the more pronounced where there are few employment possibilities in the region abandoned,
. . . omissis . . .
2. Calls for the objective of economic, social and territorial cohesion and the strategic goals of full employment, along with rights and social progress, set out in Article
1-3(3) of the draft Constitutional Treaty, to be respected and implemented, and calls
for practices that are not conducive to the achievement of those goals, such as relocation that is not justified from the point of view of economic viability or that is liable to
lead to substantial job losses, not to be supported financially by the EU;
3. Points out that the Structural and Cohesion Funds must serve the purpose of
cohesion consisting of promoting cohesiveness and solidarity between Member States, and that efforts must focus as a priority on the regions lagging behind economically;
. . . omissis . . .
6. Stresses the necessity for the Commission and Member States to initiate the
adoption of measures at national and Community levels to prevent the potential negative impacts on economic development and the social tragedies engendered by the
loss of direct or indirect employment in regions of the European Union from which
companies pull out and which have little or no ability to restructure themselves.
Sulla base di tale indispensabile e coraggiosa premessa, espressa in
termini ancora più netti nel “rapporto” di accompagnamento al progetto
di risoluzione approvato dall’aula (11), il Parlamento ha considerato mina(11) Rapport sur les délocalisations dans le contexte du développement régional (curato da
Alain Hutchinson), cit., p. 11: «La problématique de la délocalisation se pose de manière quelque peu différente selon qu’elle se réalise au sein de l’Union européenne ou en dehors de
SAGGI
757
ti gli stessi obiettivi della politica comunitaria di sviluppo regionale, quando le delocalizzazioni producono effetti devastanti per l’economia dello
Stato membro abbandonato.
Così giustificata la misura proposta, vediamo come il Parlamento ha
pensato di attuarla.
Il primo modo consiste nell’imporre alle imprese di non delocalizzare,
come condizione da accettare liberamente per accedere alle sovvenzioni
comunitarie o agli aiuti di Stato.
Il secondo è recuperare attivamente quanto erogato, magari comminando anche sanzioni o altre penalità qualora, nonostante gli impegni assunti dal beneficiario dei provvedimenti di sostegno, egli delocalizzi
egualmente la propria attività, una volta incassati i finanziamenti pubblici.
Introducendo siffatti correttivi all’attuale sistema, si conseguirebbe
contestualmente un duplice obiettivo: creare un deterrente a simili condotte delle imprese nonché evitare un ingente spreco di fondi preziosi (12):
celle-ci. Au sein de l’Union, force est de constater que la libre circulation des personnes, des
biens et des capitaux est consacrée par le Traité instituant la Communauté européenne et que,
dès lors, il est difficile de prôner une interdiction absolue de choisir le lieu d’installation de son
siège d’activités, d’autant plus qu’une telle interdiction entraînerait un immobilisme négatif
pour l’économie européenne. Par contre, il convient de s’interroger sur l’opportunité de repenser
une nouvelle politique économique qui s’emploierait notamment à renforcer la cohésion économique, sociale et territoriale. A cet égard, il convient également de relever que l’article 1-3 du
projet de Traité constitutionnel a érigé en objectif majeur de l’Union le plein emploi et le progrès
social. Dès lors, un encadrement des principes de libre circulation devrait pouvoir se réaliser
dans la mesure où il s’inscrit dans la politique de cohésion, axe prioritaire de la politique de
l’Union. L’objectif de la politique de cohésion repose, en effet, sur un développement harmonieux et solidaire de l’ensemble des régions d’Europe. Il est, dès lors, contraire à cet objectif de
combler le retard de développement économique et social de certaines régions en favorisant des
méthodes qui conduisent à provoquer un déficit de développement dans d’autres régions d’Europe, comme le font les délocalisations. . . . omissis . . . Par ailleurs, ne devraient pouvoir bénéficier d’une participation des Fonds, les entreprises ayant leur siège dans un pays membre et qui
délocalisent leurs activités dans un autre pays membre. Une disposition similaire qui vise à interdire l’octroi d’aides nationales à ces entreprises, devrait faire partie des nouvelles lignes directrices des aides d’d’État à finalité régionale ».
(12) Emblematico parrebbe il recentissimo caso in Italia dello Zuccherificio di Casei di
Gerola vicino a Pavia. Seppure dotato di impianti tecnologicamente avanzati e capaci di
realizzare un prodotto caratterizzato da un livello qualitativo elevato ed appetibile sul mercato, detta impresa ha annunciato nell’anno 2006 la propria intenzione di chiudere per delocalizzare in altro Stato, e ciò dopo aver beneficiato (a quanto si apprende dagli organi di
stampa) di contributi comunitari legati al settore agricolo. Tale scelta gestionale comporta
la minaccia di una grave crisi nel mondo contadino delle province di Pavia, Parma ed Alessandria, per il quale la coltivazione delle barbabietole da zucchero nelle aree di pianura rap-
758
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
D. . . . omissis . . . ; whereas the European Parliament, in its resolution of 6 July
2005, called for the adoption of all necessary legal measures to ensure that firms which receive Community funding do not relocate for a long and predetermined period,
and for a provision ruling out the cofinancing of operations which result in substantial
job losses or the closure of plants at their existing locations; whereas it also considered, in its resolution of 15 December 2005, that EU aid for company relocations does
not provide any European added value and should therefore be avoided,
. . . omissis . . .
F. whereas public aid must contribute to creating lasting employment,
. . . omissis . . .
16. Calls on the Commission to make the grant and continued payment of public
aid from the budget of the European Union or a Member State conditional on precise
commitments on employment and local development that are binding on the management of the company and that of the local, regional and national authorities concerned;
17. Alerts the Commission to the importance of ensuring that these subsidies
carry solid guarantees on long-term employment and regional growth;
18. Calls on the Commission to implement effectively the existing provisions with
regard to reimbursement of subsidies by companies which fail to respect their obligations with regard to investment for which they have received public subsidy and to
submit a report on the implementation of those provisions;
19. Calls likewise on the Commission and the Member States to list companies
which infringe rules on State aid or Community funds by proceeding to relocate their
activity within or out of the EU without having fulfilled the requirement on perenniality contained in the rules concerned;
. . . omissis . . .
29. Calls on the Commission, in line with its proposals in connection with the
reform of the Structural Funds, to draw up provisions designed to penalise more severely companies which, after having received public subsidies, relocate all or part of
their activity outside the European Union.
Per il Parlamento, dunque, l’interesse comunitario impone che la concessione di sussidi alle imprese, a prescindere dalla provenienza dei relativi fondi, risulti finalizzata a creare occupazione stabile nel tempo e non
evanescenti posti di lavori (13), suscettibili di volatilizzarsi all’istante, se
l’impresa delocalizza dopo essere stata assistita:
presenta una rilevante componente del proprio reddito. Per scongiurare simile rischio, le
autorità pubbliche sembrano intenzionate (sempre a quanto si apprende dai giornali) a finanziare una riconversione degli impianti in via di dismissione, in modo che continuino ad
assorbire la locale produzione agricola trasformandola in prodotti differenti dallo zucchero
alimentare. Ciò potrebbe anche influire sui futuri metodi di produzione, esasperandone gli
aspetti intensivi, con conseguenti ripercussioni sul piano ambientale.
(13) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punti 25
e 26.
SAGGI
759
26. Considers that the use of Community funds, and especially funding for industry and from the European Social Fund, should be made subject to specific rules relating to innovation, local development, employment, and to production commitments within the territory, in the long term (14), of the undertakings benefiting from
these funds; calls in particular for the rules on use of the Structural Funds to be respected and reinforced.
Quanto alle procedure, idonee ad introdurre nell’ordinamento
comunitario i meccanismi giuridici concretamente azionabili per imporre vincoli idonei al raggiungimento di tale fine, il ruolo del Parlamento Europeo differisce notevolmente. Mentre esso può concorrere a stabilire le regole di accesso ai Fondi strutturali comunitari (15), al
contrario tale istituzione si vede alquanto marginalizzata nella definizione della politica comunitaria della concorrenza in materia di aiuti
di Stato, che – fatta salva la consultazione prevista dall’art. 88 del
Trattato – risulta principalmente ad appannaggio della Commissione.
Per superare tale discrasia, il Parlamento ha fatto leva sulla necessità che l’azione della Comunità sia coordinata e coerente nell’abito di tutte le politiche perseguite:
A. whereas the goal of regional development policy is to encourage the development of the regions of the European Union, and to this end, it is necessary to ensure
consistency between regional development policy and competition policy, and whereas this means that public aid must not provide a spur to the relocation of economic
activity.
(14) Neretto e sottolineatura da me aggiunti.
(15) Il Parlamento Europeo è coinvolto – mediante l’applicazione della procedura di codecisione di cui all’art. 251 del Trattato – per quanto concerne le decisioni: sull’applicazione del Fondo Sociale Europeo (art. 148 dello stesso), del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (art. 162, comma 1°), del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia, sezione “orientamento” (art. 162, comma 2°); sulle misure comunitarie atte a contribuire all’azione comunitaria in materia di formazione professionale (art. 150, il quale prevede – tra
l’altro – che la Comunità si adoperi per facilitare l’adeguamento alle trasformazioni industriali, in particolare attraverso la formazione e la riconversione professionale); sull’applicazione del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (art. 162). Fatto salvo quanto appena detto, il Parlamento è invece chiamato ad esprimere un parere conforme, qualora il Consiglio
intenda definire i compiti, gli obiettivi prioritari e l’organizzazione dei fondi a finalità strutturale (art. 161). Lo stesso vale se il Consiglio procede a individuare le norme generali applicabili ai fondi nonché le disposizioni necessarie per garantire l’efficacia ed il coordinamento dei fondi tra loro e con gli altri strumenti finanziari esistenti (sempre art. 161). Il
Fondo di Coesione è stato istituito con il regolamento CE del Consiglio del 16 maggio 1994,
in G.U.C.E., L 130, 25 maggio 1994, con parere conforme del Parlamento espresso il 5 maggio 1994.
760
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
In effetti, è il Trattato stesso ad imporre coerenza all’art.161, prevedendo espressamente la procedura per il coordinamento dei Fondi strutturali
e degli altri strumenti finanziari esistenti, e cioè dei mezzi economici messi direttamente a disposizione della Comunità per perseguire, tramite le
proprie politiche, gli scopi indicati dal Trattato stesso. Scendendo al livello di queste ultime, quella in campo industriale (16) fa carico alla Comunità di contribuire a promuovere la competitività delle imprese europee,
operando non solo attraverso il ricorso ai predetti mezzi finanziari propri,
ma agendo anche (17) nell’ambito di tutte le altre politiche attribuite alla
sua competenza, ivi compresa quella in materia di concorrenza. Sarebbe
allora del tutto incongruo sostenere che, nel conseguire gli obiettivi di politica industriale, l’azione della Comunità possa divergere, a seconda che
vengano utilizzati i Fondi strutturali ovvero le azioni basate sulla politica
della concorrenza, le quali nella fattispecie si attuano definendo le condizioni cui devono conformarsi gli aiuti di Stato per risultare leciti (18). Se
così invece fosse, verrebbe infatti meno l’efficacia stessa dell’intera azione
comunitaria.
Tali argomenti emergevano compiutamente già in una precedente risoluzione del Parlamento (19):
H. considerando l’opportunità di assicurare la coerenza fra la politica di concorrenza e quella di sviluppo regionale e che, di conseguenza, gli aiuti pubblici non possono rappresentare un incentivo alla dislocazione di attività economiche,
. . . omissis . . .
26. conferma che specialmente le imprese recentemente beneficiarie di incentivi
UE non possono ricevere nuovi mezzi di promozione sulla base di semplici delocalizzazioni di stabilimenti;
(16) Ai sensi dell’art. 157, comma 3°, del Trattato, gli obiettivi di politica industriale vanno perseguiti dalla Comunità «attraverso politiche ed azioni da essa attuate ai sensi di altre
disposizioni del presente trattato » e mediante misure specifiche eventualmente poste in essere.
(17) Art. 175, comma 3°, del Trattato.
(18) Risoluzioni del Parlamento Europeo: del 15 dicembre 2005 sul ruolo degli aiuti di
Stato diretti quale strumento di sviluppo regionale (P6_TA-PROV(2005)0527; AE-0364/2005),
punti A e B nonché punti 37 e 38; del 22 aprile 2004 sulla comunicazione della Commissione
relativa alla terza relazione sulla coesione economica e sociale (P5_TA(2004)0368; A50272/2004), punti 41 e 42.
(19) Risoluzione del Parlamento Europeo del 6 luglio 2005 sulla proposta di regolamento del Consiglio recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione: P6_TA(2005)0277 – interinstitutional file –
2004/163(AVC).
SAGGI
761
. . . omissis . . .
74. è favorevole al fermo intento di conseguire un coordinamento migliore con altre politiche settoriali; riconosce in tale contesto che la coerenza e la complementarità
saranno rafforzate dalla concentrazione della politica regionale su tematiche limitate e
dall’esistenza di una strategia globale di coesione;
. . . omissis . . .
78. sollecita la Commissione a provvedere affinché la politica regionale europea
non favorisca la delocalizzazione delle imprese.
Un terreno fertile per le delocalizzazioni all’interno dell’Unione non
scaturisce solo dall’assenza dei vincoli anzidetti all’erogazione di sussidi.
Secondo il Parlamento, ad indurle sarebbe altresì complice l’esistenza di
significative differenze nelle varie regioni europee, specie in quelle rispettivamente limitrofe, tra i massimali autorizzati dalla Commissione all’intensità degli aiuti statali ovvero tra le somme all’uopo stanziate dai pubblici poteri nazionali. Per evitare allora una competizione piuttosto poco
proficua tra sistemi, perché rischia di essere fondata non tanto su elementi di efficienza quanto sulla concessione di regalie i cui costi vanno a carico della collettività, il Parlamento ha a sua volta invitato gli Stati membri
a contenere la concessioni di aiuti (20).
Per quanto invece concerne le delocalizzazioni extra-comunitarie, risulta meno problematico cercare di contenerle vietandone la realizzazione alle imprese, che abbiano in precedenza beneficiato di sussidi (fondi
comunitari o aiuti di Stato), ovvero imponendo loro di restituire quanto
percepito. Come già spiegato, in tali circostanze non è necessario giustificare – sia giuridicamente che politicamente – tale approccio alla luce del
principio di coesione, siccome quest’ultimo non concerne evidentemente
i rapporti tra la Comunità ed i paesi terzi.
Oltre alla strategia sin qui illustrata, contro le delocalizzazioni aventi
questo secondo flusso direzionale il Parlamento ha suggerito anche il ricorso ad altri strumenti, la cui operatività non pare però immediata sul
piano pratico.
Da un canto, la Commissione è stata invitata a promuovere l’inclusione di « clausole sociali » nei trattati internazionali di cui è parte la Comunità, in modo da impegnare gli Stati terzi firmatari a garantire anche sul
loro territorio il rispetto dei diritti umani, ivi compresi quelli sindacali (21).
(20) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 15:
«Reiterates its call for State aid law to be coherent and for excessive disparity in assistance
between neighbouring regions to be avoided ».
(21) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 21:
762
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Se ciò dovesse accadere e gli impegni fossero poi effettivamente rispettati
da tali paesi, oltre ad avere conseguito un risultato di per sé nobile (22), la
Comunità otterrebbe anche quello di vedere aumentare i costi di produzione in tali luoghi, cosa suscettibile di dissuadere almeno parzialmente le
operazioni di delocalizzazione lì dirette.
D’altro canto, si è puntato anche sull’informazione dei consumatori
circa la localizzazione dei luoghi di produzione e le relative condizioni di
lavoro, confidando che ciò abbia la forza di orientare le decisioni di acquisto, sì da condizionare poi in qualche modo sul piano commerciale le
scelte gestionali delle imprese (23).
Con riferimento ad entrambi i flussi di delocalizzazione, infine, il Parlamento ha sollecitato la promozione del dialogo sociale a livello europeo (24)
nonché la creazione di due ulteriori strumenti: un Codice europeo di condotta (25) per le imprese, al momento però nemmeno allo stato di bozza
(cosa che esime dal domandarsi circa la sua forza e le conseguenze pratiche della sua violazione); uno specifico osservatorio (da affidarsi alla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, si-
« Calls on the Commission to work for the inclusion of social clauses in international treaties,
and to do so on the basis of the five International Labour Organization (ILO) conventions considered to be priorities, namely the right to organise, freedom of assembly, and the elimination
of child labour, forced labour, and discrimination; calls for the implementation of these social
clauses to be backed up by positive measures and incentives for countries and companies to abide by them; calls on the Commission and Council to work to ensure that this matter is again
placed on the agenda at the World Trade Organization ministerial conference, and that a committee for trade and human rights is created to deal in particular with issues of human rights in
the working world ».
(22) Denunciano allarmati la violazione dei diritti umani in Cina sia Adornato, La libertà ed il dragone, sia Foa, I diversi volti dell’oppressione, atti del convegno “Giornate internazionali del pensiero storico”, 3a ed., Siena, 22-23 settembre 2006, in corso di pubblicazione
su Liberal, 2006, n. 37.
(23) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 22.
(24) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punti 2
e 28.
(25) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 20.
Qualche indicazione circa il contenuto di tale codice si trova nel Rapport sur les délocalisations dans le contexte du développement régional (curato da Alain Hutchinson), cit., p. 12:
« Les entreprises devraient avoir l’obligation d’établir un plan social en consultation avec les
syndicats et l’autorité en charge du marché du travail, de rembourser toute subvention éventuelle reçue pour leur actuel établissement et d’adopter un code de conduite qu’elles devront respecter où qu’elles aillent dans le monde. Ce code de conduite devrait inclure les bonnes pratiques
européennes et les négociations avec les syndicats devront toujours en constituer le principe fondamental. Il ne s’agira plus seulement pour ces entreprises d’adopter les lois locales ».
SAGGI
763
ta a Dublino) (26) per monitorare con maggior precisione gli effetti delle
delocalizzazioni sul piano sociale ed economico (27).
Sino ad ora si sono esaminate le misure inizialmente proposte dal Parlamento, per tentare di prevenire o quanto meno contenere le delocalizzazioni. Quando tuttavia tali fenomeni comunque si verificano (e cioè in
presenza o meno dei rimedi proposti sul piano sia dei fondi strutturali comunitari, sia degli aiuti di Stato), non resta che far fronte ai conseguenti
licenziamenti collettivi, i quali dovranno avvenire con procedure idonee a
garantire il rispetto dei diritti di informazione attribuiti ai lavoratori dalle
direttive comunitarie in materia (28) nonché conformemente a quanto previsto dalla legislazione del paese ove si trova il posto di lavoro.
Chiudendo gli stabilimenti, pare inoltre alquanto improbabile che il
personale licenziato trovi generalmente un lavoro simile a quello perso.
Di conseguenza, la ricerca di un nuovo impiego presuppone una riqualificazione professionale, impegno che – visti i tempi attuali – non deve però
esaurirsi nel momento in cui sia stata eventualmente trovata una nuova
assunzione. Pertanto, condividendo l’idea che i Fondi comunitari venga-
(26) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 12.
(27) A quanto si legge nel Rapport sur les délocalisations dans le contexte du développement régional (curato da Alain Hutchinson), cit., p. 10, non si dispone ancora di precisi studi sugli effetti a livello comunitario provocati dalle delocalizzazioni. Nell’elaborare il progetto di risoluzione si è fatto riferimento ad alcune ricerche elaborate da Plasman (i cui dati non vengono riferiti nel citato rapporto) nonché allo studio di Aubert- Sillard, Délocalisations et réductions d’effectifs dans l’industrie française, 2005. Si legga anche la nota 41 a
questo scritto.
(28) Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989. Direttiva 94/45/CE del
Consiglio del 22 settembre 1994, riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo o
di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi
di imprese di dimensioni comunitarie (in G.U.C.E., L 254, 30 settembre 1994); direttiva
98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (ivi, L 225, 12 agosto 1998); direttiva
2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti
di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti (ivi, L 082, 22 marzo 2001); direttiva 2002/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2002, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori (ivi, L 080,
23 marzo 2002). In giurisprudenza, le sentenze della Corte di Giustizia dell’8 giugno 1994
nelle cause C-382/92 (Mantenimento dei diritti dei lavoratori nel caso di trasferimenti di imprese, in Raccolta, 1994, p. I-2435) e C-383/92 (Licenziamenti collettivi, ivi, 1994, p. I-2479). In
dottrina: Pocar-Viarengo, Diritto comunitario del lavoro, Padova, 2001; Galantino, Diritto
comunitario del lavoro, Torino, 2001. Risoluzione del Parlamento sulle delocalizzazioni, cit.,
punto 27.
764
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
no anche destinati a promuovere una formazione professionale avente le
suddette caratteristiche («life-long vocational training » (29)), il Parlamento
ha accolto una recente proposta della Commissione, concernente la creazione di uno specifico Fondo Europeo di Adeguamento alla Globalizzazione (30), connotato da tale impostazione.
3. – Preliminarmente, è bene sgombrare il campo da eventuali fonti di
equivoci: il problema delle delocalizzazioni industriali non è stato minimamente sfiorato dalla cosiddetta « Strategia di Lisbona » (31), elaborata
dal Consiglio Europeo tenutosi nel marzo 2000 nella capitale portoghese,
convocato in sessione straordinaria onde « concordare un nuovo obiettivo
strategico per l’Unione al fine di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza ».
Sia l’impiego dei finanziamenti comunitari che la disciplina sugli aiuti di
Stato è stata oggetto di attenzione da parte del Consiglio Europeo, concordando: quanto ai primi, sulla necessità di riorientarne la destinazione (32);
quanto ai secondi, su una generale diminuzione del livello di intervento
statale (33), accompagnato da una politica comunitaria maggiormente attenta agli obiettivi di carattere orizzontale, quali l’impiego, lo sviluppo
regionale, la tutela dell’ambiente nonché la ricerca e lo sviluppo (34). In
(29) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 25.
(30) Proposta della Commissione di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio, che istituisce un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, COM (2006) 91
def., in data 1° marzo 2006.
(31) Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo, Lisbona, 23 e 24 marzo 2000.
(32) Conclusioni della Presidenza, cit., punto 15, ove il Consiglio Europeo domanda «al
Consiglio e alla Commissione di riferirgli entro la fine del 2000 sul riesame in corso degli strumenti finanziari BEI e FEI nella prospettiva di riorientare i finanziamenti verso il sostegno all’avviamento di imprese, alle imprese ad alta tecnologia e alle microimprese, nonché verso altre
iniziative a capitale di rischio proposte dalla BEI. »
(33) In tale senso anche il Consiglio Europeo tenutosi a Bruxelles nel marzo 2005.
(34) Conclusioni della Presidenza, cit., punto 16: «sono anche essenziali regole eque ed
applicate uniformemente in materia di concorrenza e di aiuti di Stato onde garantire che le imprese possano prosperare e operare efficacemente su un piano di parità nel mercato interno ».
Di conseguenza, viene chiesto (punto 17) a Commissione, Consiglio e Stati membri, ciascuno per quanto di propria competenza, «di proseguire i rispettivi sforzi intesi a promuovere
la concorrenza e a ridurre il livello generale degli aiuti di Stato, spostando l’accento dal sostegno alle singole imprese o ai singoli settori verso il conseguimento di obiettivi orizzontali di interesse comunitario, quali l’occupazione, lo sviluppo regionale, l’ambiente e la formazione o la
ricerca ».
SAGGI
765
ogni caso, però, è mancato qualsiasi collegamento tra la disciplina di tali
strumenti e le delocalizzazioni.
Di conseguenza, sebbene la « Strategia di Lisbona » abbia sensibilmente influenzato i successivi orientamenti della Commissione, in quanto
chiamata a darvi attuazione per quanto di sua competenza, ciò non dovrebbe affatto valere per la posizione assunta inizialmente da tale istituzione in merito alle delocalizzazioni.
Per illustrarne il pensiero su detta questione, bisogna allora partire
dalla comunicazione della Commissione sui «Valori europei nel mondo
globalizzato » (35). Dopo avere evidenziato come le politiche economiche e
sociali nazionali si fondano su valori condivisi a livello europeo, dai quali
emerge una scelta comune in favore di un’economia sociale di mercato
(concetto però forse suscettibile d’essere diversamente inteso nei vari Stati membri), la Commissione ha individuato nell’invecchiamento della popolazione, che rischia di mettere in crisi a lungo termine la sostenibilità
dei sistemi sociali, e nella globalizzazione le principali questioni con cui
deve confrontarsi l’economia dell’Unione (36). Rispetto alla seconda di
dette sfide, la Commissione non ha però condiviso le preoccupazioni
espresse dal Parlamento (37), ritenendola piuttosto un’opportunità, come
ben sintetizzato nel seguente passaggio di detta comunicazione:
« E la globalizzazione non significa che, se gli altri si arricchiscono, noi dobbiamo necessariamente impoverirci. La prosperità è un concetto dinamico; la globalizzazione rappresenta la possibilità di aumentare le dimensioni dell’intera torta, così che tutti ne ricevano una fetta » (38).
(35) Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale ed al Comitato delle Regioni sui valori europei nel mondo globalizzato, COM (2005) 525 def.
(36) Il tema delle future sfide per la Comunità è più ampiamente trattato nella comunicazione della Commissione su un nuovo partenariato per la coesione (convergenza, competitività, cooperazione) – Terza relazione sulla coesione economica e sociale, COM (2004) 107 def.,
2004, p. XXVII.
(37) Rispetto alla posizione del Parlamento Europeo, appare alquanto netta la diversa
sensibilità della Commissione nei confronti delle conseguenze derivanti dalla globalizzazione: «Vi è una certa incoerenza tra la nostra percezione della globalizzazione e il modo in cui
ci comportiamo; la globalizzazione provoca apprensione, soprattutto nei paesi dell’UE con alti
livelli di disoccupazione, eppure la maggior parte dei posti di lavoro sono creati e perduti all’interno dell’economia nazionale e non a causa dello spostamento della produzione in altre parti
del mondo ».
(38) L’idea di « espandere la torta » (che nel testo della citata Comunicazione si riduce
purtroppo ad una mera petizione di principio, di cui sfugge il fondamento, se ci si limita al
766
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Visto tale approccio, caratterizzato da una visione “ottimistica” (39), le
delocalizzazioni sono state percepite dalla Commissione come un fenomeno meno preoccupante. Esso non è risultato comunque ignorato (40):
«L’analisi della Commissione giunge alla conclusione che non esistono prove di un
processo generalizzato di deindustrializzazione. Nell’industria europea sono però in atto
trasformazioni strutturali che in generale hanno effetti benefici e devono essere incoraggiate, in particolare mediante politiche che facilitano la creazione e l’utilizzo della conoscenza. Da questo punto di vista, i risultati insufficienti ottenuti dall’Europa, in particolare per quanto riguarda la produttività, la ricerca e l’innovazione, sono preoccupanti. Lo
conferma il fatto che le delocalizzazioni di attività industriali sembrano non limitarsi più
ai soli settori tradizionali a forte intensità di manodopera, ma cominciano ad osservarsi
anche nei settori intermedi che costituiscono i punti forti tradizionali dell’industria europea, o anche in alcuni settori ad alta tecnologia in cui esistono indizi di delocalizzazione
di certe attività di ricerca, o nei servizi. L’India e la Cina sono i grandi beneficiari di queste tendenze. Eppure, l’internazionalizzazione dell’economia apre all’industria europea
prospettive favorevoli, a condizione che la politica industriale sostenga le necessarie evoluzioni ».
Ciò nonostante, tornando sul tema delle trasformazioni in corso nell’industria europea, in altro coevo documento la Commissione ha evitato
l’argomento delle delocalizzazioni, adducendo di non conoscerne ancora
tenore letterale del documento) è verosimilmente riconducibile – e nel contempo ne è indice – alla propensione liberista della Commissione nel campo della politica commerciale
comunitaria. In proposito, pare illuminante quanto scrivono Carruba-Caroli, L’arte della
libertà, Milano, 2004, voce Protezionismo, p. 169: «C’è, alla base delle diffidenze protezionistiche, l’equivoco perdurante (già caro ai mercantilisti) che la torta del commercio e dell’economia mondiale sia finita, per cui la fetta di scambi e di ricchezza che si accaparra un Paese vada a scapito di tutti gli altri; in realtà il commercio internazionale è tutt’altro che un gioco a
somma negativa. Gli scambi provvedono a far lievitare la torta, non a consumarla: “ogni riduzione nel volume del commercio mondiale significa prezzi più alti e scelte più scarse per i consumatori, meno posti di lavoro, e meno opportunità” per i Paesi poveri (Micklethwait e Woolbridge) ». Nella medesima opera, si veda anche la voce Globalizzazione, p. 77. Ciò posto,
emerge allora una certa contraddittorietà, se si guarda alla politica agricola europea (nodo
ancora irrisolto), dove – principalmente per effetto della posizione assunta dagli Stati membri – la Comunità risulta fortemente protezionista in favore dei produttori locali, al pari di
quanto accade negli Stati Uniti.
(39) Comunicazione della Commissione sugli Orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008, COM (2005) 141 def., punto 1.2.; si veda anche la comunicazione sugli
Orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008, COM (2005) 141 def., punto
1.1, dove si evidenzia la nuova dimensione internazionale del lavoro.
(40) Comunicazione della Commissione su Accompagnare le trasformazioni strutturale:
una politica industriale per l’Europa allargata, cit., p. 5. Si vedano anche le pp. 10 e 13.
SAGGI
767
i dati precisi (41). Pertanto, trovandosi a trattare le difficoltà in cui versano
molti settori dell’industria europea, la Commissione ha utilizzato essenzialmente solo il termine “ristrutturazioni” (42), avendo comunque curato
di precisare che il territorio dell’Unione non sta subendo un vero e proprio fenomeno di radicale deindustrializzazione (43).
Sviluppando la traccia indicata dal Consiglio Europeo a Lisbona, an-
(41) Comunicazione della Commissione su Ristrutturazioni e occupazione – Anticipare e
accompagnare le ristrutturazioni per ampliare l’occupazione: il ruolo dell’Unione Europea,
COM (2005) 120 def., 31 marzo 2005, p. 10, punto 2.1.7: «l’Osservatorio europeo del cambiamento di Dublino dovrà elaborare gli strumenti di analisi quantitativa e qualitativa di monitoraggio delle ristrutturazioni al fine di fornire basi più solide al dibattito pubblico sulle ristrutturazioni e sulle delocalizzazioni ». Come evidenziato in una nota precedente, anche nel Rapport sur les délocalisations dans le contexte du développement régional (e cioè la relazione di
accompagnamento al progetto di risoluzione del Parlamento sulle delocalizzazioni, poi
adottato dall’aula), cit., p. 10, veniva evidenziata la mancanza di precisi studi sugli effetti a
livello comunitario provocati dalle delocalizzazioni, ma se ne denunciava comunque la pericolosità. Semmai, in quest’ultimo documento l’approccio era invertito. Si partiva infatti
dalla constatazione che le delocalizzazioni producono di sicuro un effetto dannoso, anche
se non ancora precisamente quantificato: di conseguenza, è necessario reagire subito, senza attendere oltre.
(42) Non viene trattato il fenomeno delle delocalizzazioni nelle seguenti comunicazioni della Commissione: Costruire il nostro avvenire comune – Sfide e mezzi finanziari dell’Unione allargata 2007-2013, COM (2004) def./3, 12 marzo 2004; Una politica della concorrenza proattiva per un’Europa competitiva, COM (2004) 293 def., 20 aprile 2004; Un nuovo
partenariato per la coesione (convergenza, competitività, cooperazione) – Terza relazione sulla coesione economica e sociale, COM (2004) 107 def., 2004; Ristrutturazioni e occupazione
– Anticipare e accompagnare le ristrutturazioni per ampliare l’occupazione: il ruolo dell’Unione Europea, COM (2005) 120 def., 31 marzo 2005; Orientamenti integrati per la crescita e
l’occupazione 2005-2008, COM (2005) 141 def., 12 aprile 2005; Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo
2007-2013, COM (2005) 299 def., 5 luglio 2005; Proposta di raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente,
COM (2005) 548 def., 10 novembre 2005; Proposta di regolamento del Parlamento Europeo
e del Consiglio che istituisce un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, COM
(2006) 91 def., 1° marzo 2006; Realizzazioni politiche nel 2005, COM (2006) 124 def., 14
marzo 2006.
(43) Comunicazione della Commissione su Accompagnare le trasformazioni strutturali:
una politica industriale per l’Europa allargata, cit., p. 6, punto 2.1., e p. 16, punto 2.3.: «Non
si può affermare che sia in atto in Europa una vera e propria deindustrializzazione; si ha piuttosto una conferma degli effetti del processo permanente di adeguamento, spesso doloroso se i
suoi effetti si concentrano su alcuni settori o regioni, ma complessivamente benefico, mediante
il quale le risorse sono continuamente ridistribuite verso settori in cui esistono vantaggi comparati. La tendenza di medio/lungo termine che è stata analizzata riflette appunto questo tipo di
adeguamento piuttosto che una deindustrializzazione ».
768
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
che la Commissione ha ritenuto indispensabile sia il coordinamento e la
complementarietà di tutte le politiche comunitarie con quella di coesione (44), sia la coerenza tra quest’ultima e le decisioni in materia di aiuti di
Stato (45). Puntando sull’armonizzazione di tutte le azioni fondate su dette politiche, la Commissione ha allora proposto una strategia di governance europea (46) alquanto articolata e complessa per rivitalizzare la nostra economia che, volendo sommamente sintetizzare, è stata – in via di
massima – condivisa dal Parlamento almeno per quanto concerne le linee generali, salvo che su un punto.
La dettagliata strategia elaborata dalla Commissione, infatti, non contempla di utilizzare i rimedi proposti dal Parlamento per lottare contro le
delocalizzazioni.
Secondo la Commissione, per consentire alla Comunità di affrontare
adeguatamente le citate sfide future, la politica di coesione deve preoccuparsi di eliminare le disparità esistenti tra gli Stati membri, che scaturiscono dalle seguenti carenze strutturali in settori chiave per la competitività:
dotazione inadeguata di infrastrutture e di competenza della forza lavoro;
mancanza di capacità innovativa e di un efficace sostegno alle imprese;
ambienti naturali e urbani degradati (47). In tale contesto, la Commissione
ha reputato fondamentale la realizzazione di una società fondata sulla conoscenza (48) nonché la promozione della formazione professionale continua (49), vista quest’ultima anche quale via d’uscita dalla disoccupazione
(44) Comunicazione della Commissione su Un nuovo partenariato per la coesione, cit., p.
XXXIII.
(45) Comunicazione della Commissione su: Un nuovo partenariato per la coesione, cit.,
p. XVII e p. 170; Una politica della concorrenza proattiva per un’Europa competitiva, cit., pp.
13, 14 e 20.
(46) Comunicazione della Commissione sugli Orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008, cit., punto 1.3: « un nuovo ciclo di governance ».
(47) Comunicazione della Commissione su: Un nuovo partenariato per la coesione (convergenza, competitività, cooperazione) – Terza relazione sulla coesione economica e sociale, cit.,
p. VII; Costruire il nostro avvenire comune – Sfide e mezzi finanziari dell’Unione allargata
2007-2013, cit., p. 15, punto 2.
(48) Comunicazione della Commissione sugli Orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008, cit., punto 1.2.
(49) Comunicazioni della Commissione su: Un nuovo partenariato per la coesione (convergenza, competitività, cooperazione) – Terza relazione sulla coesione economica e sociale, cit.,
p. 90; Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013, cit., punto 4.3.3.; Proposta di raccomandazione del
parlamento europeo e del Consiglio relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, COM (2005) 548 def., 10 novembre 2005; Attuazione del programma comunitario di Li-
SAGGI
769
causata dalle ristrutturazioni aziendali (50). Questi, dunque, i punti critici
per rendere l’Europa e le proprie regioni più attraenti per gli investimenti
e l’attività delle imprese (51).
Quanto agli obiettivi delle altre politiche comunitarie, da condurre ottimizzandone le sinergie (52), la Commissione ha indicato che nel prossimo futuro la Comunità dovrà (53): curare di indirizzare gli investimenti
nella ricerca, anche trattando con particolare favore gli aiuti di Stato erogati a tal fine; migliorare il funzionamento del mercato interno e la sua regolamentazione; promuovere una concorrenza efficace tra le imprese; favorire il loro accesso esterno ai mercati (54); agevolare il dialogo sociale e
l’emergere di buone prassi; garantire il rispetto delle norme internazionali del commercio.
Un lieve riavvicinamento alla posizione del Parlamento europeo sulle
delocalizzazioni è poi avvenuto solo nella politica della concorrenza applicata a due particolari tipologie di aiuti di Stato (quelli a finalità regionale (55)
sbona: stimolare lo spirito imprenditoriale attraverso l’istruzione e l’apprendimento, COM
(2006) 33 def.
(50) Comunicazione della Commissione sulla Proposta di regolamento del Parlamento
Europeo e del Consiglio che istituisce un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione,
cit., punti 1.2. e 1.3.
(51) Comunicazione della Commissione sulla Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013, cit.,
punto 4.1.
(52) Comunicazione della Commissione su Accompagnare le trasformazioni strutturali:
una politica industriale per l’Europa allargata, cit., punto 4.2., p. 25.
(53) Comunicazione della Commissione su Accompagnare le trasformazioni strutturali:
una politica industriale per l’Europa allargata, cit., punto 4.2., pp. 27-38.
(54) Comunicazione della Commissione su Ristrutturazioni e occupazione – Anticipare e
accompagnare le ristrutturazioni per ampliare l’occupazione: il ruolo dell’Unione Europea, cit.,
p. 5, punto 1.1.
(55) Comunicazione della Commissione (98/C 74/06) sugli Orientamenti in materia di
aiuti di Stato a finalità regionale (in G.U.C.E., C 74, 10 marzo 1998). Se ne vedano il quarto
periodo dell’Introduzione (« . . . omissis . . . Per privilegiare questo sviluppo e contenere i potenziali effetti negativi di una delocalizzazione, è necessario subordinare la concessione di tali
aiuti al mantenimento per un periodo minimo degli investimenti e dei posti di lavoro creati nella regione svantaggiata ») nonché i punti 4.10 (« Gli aiuti all’investimento iniziale devono essere subordinati, tramite le modalità di versamento o le condizioni di concessione, alla condizione che l’investimento sia mantenuto in essere per un periodo minimo di cinque anni ») e 4.14
(«Gli aiuti alla creazione di posti di lavoro devono essere subordinati, tramite le modalità di
versamento o le condizioni di concessione, al mantenimento dei posti di lavoro per un periodo
minimo di cinque anni »). Gli effetti di tale comunicazione sono stati prorogati al 31 dicembre 2006, come pubblicato in G.U.C.E., C 110, 8 maggio 2003.
770
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
e quelli a favore dell’occupazione (56)). Per autorizzarne la concessione, la
Commissione ha in effetti imposto alcune condizioni, volte a preservare –
per un certo tempo nel luogo ove si trovano le unità produttive dell’impresa beneficiaria – i posti di lavoro creati grazie all’erogazione dei fondi
pubblici.
Sebbene il Parlamento abbia plaudito al provvedimento (57) (dando
verosimilmente così il segnale su come sbloccare la querelle in questione),
a ben vedere le sue richieste apparivano alquanto più rigorose rispetto alla misura così attuata dalla Commissione. Infatti, nell’interesse comunitario quest’ultima si è limitata a pretendere che, una volta speso il denaro
statale, non vengano subito cancellati, ma durino per un certo tempo, i
nuovi posti di lavoro promessi da chi ha incassato l’aiuto erogatogli da
uno Stato membro, nell’intento di promuovere lo sviluppo di una regione
nazionale. La Commissione, dunque, non ha fissato altri vincoli alla condotta del destinatario di tale aiuto. Una volta decorso il lasso di tempo
prefissato, egli sarà allora libero non solo di licenziare chi assunto in conseguenza all’intervento pubblico, ma anche di chiudere l’intero stabilimento e delocalizzare la propria attività, con danno immensamente maggiore sul piano occupazionale. Ciò è alquanto lontano da quanto il Parlamento aveva indicato in un primo tempo.
Né l’approccio della Commissione ha poi subito sostanziali modificazioni nella sua comunicazione sui Nuovi orientamenti sugli aiuti a finalità
regionale (58), la cui applicazione scatterà a decorrere dal 1 gennaio 2007.
(56) Regolamento CE n. 2204/2002 della Commissione del 12 dicembre 2002, relativo
all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione, in G.U.C.E., L 337, 13 dicembre 2002. Se ne vedano il considerando n. 18 («Gli aiuti a favore della creazione di posti di lavoro dovrebbero essere soggetti alla condizione del mantenimento dei posti di lavoro creati per un periodo minimo determinato. Il periodo fissato nel presente regolamento prevale sulla regola dei cinque anni fissata al punto 4.14 degli orientamenti
in materia di aiuti di Stato a finalità regionale ») nonché l’art. 4, comma 4°, lett. b («i posti di
lavoro creati devono essere conservati per un periodo minimo di tre anni o di due nel caso delle
PMI »). Per PMI si intendono le piccole e medie imprese.
(57) Risoluzione del Parlamento del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 13.
Nella proposta di risoluzione, il tenore della posizione da esprimere era leggermente diverso: il Parlamento, infatti, non si compiaceva delle misure adottate dalla Commissione, ma
si limitava semplicemente a prenderne atto.
(58) Comunicazione della Commissione (2006/C 54/08) sugli orientamenti in materia di
aiuti di Stato a finalità regionale per il periodo 2007-2013, in G.U.C.E., C 54, 4 marzo 2006.
Così il punto 40: «Inoltre, onde garantire che l’investimento rappresenti un contributo reale e
sostenibile allo sviluppo regionale, gli aiuti devono essere subordinati, tramite le condizioni di
SAGGI
771
Nello stesso senso anche il progetto di regolamento della Commissione
sugli aiuti di Stato a finalità regionale destinati agli investimenti (59).
Ipotizzando le ragioni di tale complessivo atteggiamento della Commissione, almeno in parte esso parrebbe spiegabile ricordando che, a
detta della medesima, nei prossimi anni saranno gli Stati di recente adesione a venire prevalentemente colpiti da ristrutturazioni, cosa fonte di
preoccupanti squilibri sul piano della coesione economica e sociale a livello comunitario (60). Considerata però la forte attrattiva di questi stessi
paesi per gli investitori esteri (61), le delocalizzazioni intra-comunitarie
rappresenterebbero allora un importante motore di sviluppo da non
bloccare.
Per contro, un simile “riguardo” non sembra dovuto nei confronti delle delocalizzazioni extra-comunitarie, per cui vanno probabilmente ricercati altrove i motivi dell’atteggiamento della Commissione, forse riconducibile al proprio orientamento di apertura nella politica commerciale comunitaria (62) verso gli Stati terzi, che
concessione o le modalità di pagamento dell’aiuto, alla condizione che l’investimento sia mantenuto in essere nella regione interessata per un periodo minimo di cinque anni dopo il suo
completamento. Inoltre, qualora gli aiuti vengano calcolati in base ai costi salariali, i posti di
lavoro devono essere occupati entro tre anni dal completamento dei lavori. Ciascun posto di lavoro creato attraverso l’investimento deve essere mantenuto nella regione interessata per un periodo di cinque anni dalla data in cui è stato occupato per la prima volta. Nel caso delle PMI,
gli Stati membri possono ridurre questi periodi quinquennali di mantenimento di un investimento o dei posti di lavoro creati ad un minimo di tre anni ». Questa decisione della Commissione è stata commentata dal Parlamento Europeo nella propria risoluzione del 14 marzo 2006 sulle delocalizzazioni, cit., punto 14.
(59) Progetto del regolamento della Commissione relativo all’applicazione degli articoli
87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a finalità regionale agli investimenti (2006/C 120/02),
in G.U.C.E., C 120, 20 maggio 2006. Con riferimento agli aiuti all’investimento iniziale,
l’art. 4, comma 3°, di tale progetto di regolamento ne condiziona fra l’altro l’ammissibilità
al fatto che «l’investimento deve essere mantenuto nella regione beneficiaria per almeno cinque
anni dopo il completamento dei lavori o per tre anni nel caso di PMI ».
(60) Comunicazione della Commissione su Un nuovo partenariato per la coesione (convergenza, competitività, cooperazione) – Terza relazione sulla coesione economica e sociale,
COM (2004) 107 def., cit., p. IX e pp. 12, 55 e 56.
(61) Comunicazione della Commissione su Accompagnare le trasformazioni strutturali:
una politica industriale per l’Europa allargata, cit., punto 3.1, p. 17.
(62) Circa i recenti orientamenti di natura politica, si rinvia a Mandelson, Scambi commerciali e investimenti dell’UE con la Cina: cambiamenti, sfide e scelte. Discorso reso dal
commissario europeo responsabile del commercio, in occasione della Conferenza UE – Cina, Bruxelles, 7 luglio 2006 (http://ec.europa.eu/comm/commission_barroso/mandelson/speeches_articles/temp_icentre.cfm?temp=sppm109_it).
772
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
« seppure globalmente vantaggiosa per l’economia europea e l’occupazione, è la causa immediata di certi licenziamenti » (63).
Tuttavia, tale ipotetica chiave di lettura si scontrerebbe con la circostanza che la Commissione ha comunque proposto anche recentemente
l’adozione di vari dazi antidumping (64), quando non ostano vincoli discendenti da accordi internazionali cui sia soggetta la Comunità (principalmente quanto concordato in sede di Organizzazione Mondiale del
Commercio, dove la Cina è stata ammessa a decorrere dal novembre
2001). Dazi spesso diretti a colpire merci di origine cinese o indiana, sebbene sia talora controverso che le misure comunitarie di protezione azionate abbiano davvero l’intensità necessaria a perseguire effettivamente il
loro scopo (65).
4. – La riforma dei Fondi strutturali ha rappresentato il terreno su
cui il confronto tra le due istituzioni, in precedenza semplicemente
svoltosi a distanza, è invece divenuto diretto.
(63) Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un
Fondo Europeo di adeguamento alla globalizzazione, COM (2006) 33 (COD), punto 1.1.
(64) Già nei primi mesi quattro mesi dell’anno 2006, la Commissione ha adottato alcuni regolamenti per istituire dazi antidumping provvisori contro le importazioni di: calzature provenienti da Cina e Vietnam (regolamento n. 553/2006 della Commissione del 23
marzo 2006, in G.U.C.E., L 98, 6 aprile 2006); cuoi e pelli scamosciati di origine cinese
(regolamento n. 439/2006 del 16 marzo 2006, ivi, L 80, 17 marzo 2006); frigoriferi side by side coreani (regolamento n. 335/2006 del 28 febbraio 2006, ivi, L 59, 1° marzo 2006); meccanismi a leva cinesi (regolamento n. 134/2006 del 26 gennaio 2006, ivi, L 23, 27 gennaio
2006). Inoltre, la Commissione ha proposto al Consiglio di adottare o modificare misure
antidumping definitive avverso le importazioni dei seguenti prodotti: i citati meccanismi al
leva, COM (2006) 362 def.; magnesite originaria della Cina, COM (2006) 0165 def.; televisioni a colori cinesi, COM (2006) 101; pezzi fusi cinesi, COM (2006) 10 def.; acido tartarico cinese, COM (2005) 711 def.; fogli e nastri sottili di alluminio russi, COM (2007) 707
def.
(65) Il Sole/24 Ore, 24 febbraio 2006, p. 1: «Dazi sulle scarpe asiatiche ». Con il regolamento CE n. 1472/2006 del 6 ottobre 2006 (in G.U.C.E., L 275, 6 ottobre 2006, p. 1), il
Consiglio ha istituito un dazio antidumping definitivo – della durata di 2 anni – sulle importazioni di alcuni tipi di calzature con tomaie di cuoio originarie della Repubblica popolare cinese e del Vietnam. Tale decisione è fra l’altro fondata sui dati di un’indagine, annualmente promossa dalla Commissione, da cui risulta che da ultimo, a fronte di importazioni più che raddoppiate provenienti dalla Cina e Vietnam (passate da 67 milioni di paia
del 2001 a 165 milioni di paia), le imprese europee hanno perso 30.000 posti di lavoro dal
2002 al 2005, mentre i prezzi sono scesi da 11,8 euro al paio nel 2001 a 8,5 euro al paio nel
2005.
SAGGI
773
In effetti, pronunciandosi preliminarmente (66) su una proposta legislativa (67) della Commissione volta a modificare le disposizioni generali loro applicabili (68), il Parlamento Europeo ne ha sì globalmente approvato il contenuto, ma ha anche proposto alcuni emendamenti, in
modo da ottenere fra l’altro l’introduzione di meccanismi atti ad impedire che i beneficiari dei finanziamenti delocalizzino le proprie attività
dopo avere attinto dalle casse comunitarie:
41. richiama l’attenzione in particolare sul fatto che tutte le politiche dell’UE debbono contribuire a raggiungere l’obiettivo della coesione economica e sociale e che la
politica commerciale internazionale è anch’essa soggetta a tale obiettivo e non può essere considerata un’eccezione; chiede che la politica commerciale sia delineata in modo tale da evitare di produrre effetti choc sulle regioni e richiama in particolare l’attenzione sul fatto che la delocalizzazione di aziende o unità produttive rappresenta una
grave minaccia per lo sviluppo regionale;
42. ritiene che la proposta della Commissione di imporre correzioni finanziarie alle aziende che delocalizzano la loro attività sia una misura indispensabile per non mettere a repentaglio il consolidamento della coesione economica, sociale e territoriale
nelle regioni colpite; propone di istituire sistemi di monitoraggio per quantificare i costi economici e sociali di ogni delocalizzazione, affinché possano essere definite penalità appropriate; invita al tempo stesso ad adottare tutte le necessarie misure giuridiche
volte a garantire che le aziende destinatarie di finanziamenti comunitari non delocalizzino per un periodo lungo e predeterminato;
43. chiede di adottare una disposizione che escluda il cofinanziamento di operazioni da cui risulti una perdita sostanziale di posti di lavoro o la chiusura di stabilimenti nel luogo dove essi già esistono.
A fronte di tale indicazione politica, ha fatto seguito una nuova proposta, già avente il gradimento del Consiglio (69), in cui sul punto si ricorre al seguente compromesso.
Il rischio di delocalizzazioni intracomunitarie viene specificamente af-
(66) Risoluzione del Parlamento Europeo del 6 luglio 2005 sulla proposta di regolamento del Consiglio recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione, P6_TA (2005) 277, interinstitutional file –
2004/163 (AVC).
(67) Soggetta alla procedura di parere conforme.
(68) Proposta di regolamento del Consiglio recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione, COM (2004) 492,
14 luglio 2004, interinstitutional file – 2004/163 (AVC).
(69) Consiglio, documento 9077/06 (approvato dal COREPER, parte seconda, 6 giugno
2006), interinstitutional file – 2004/163 (AVC).
774
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
frontato: al considerando n. 42, si evidenzia come la Commissione debba
verificarne l’assenza, raccogliendo tutti i dati utili a suffragarlo, prima di
deliberare lo stanziamento dei (soli) finanziamenti concessi ai progetti di
maggiore importanza economica (70):
42. When appraising major productive investment projects, the Commission
should have all necessary information to consider whether the financial contribution
from the Funds does not result in a substantial loss of jobs in existing locations within
the European Union, in order to ensure that Community funding does not support relocation within the European Union.
Per contro, si omette di menzionare espressamente il pericolo di delocalizzazioni al di fuori della Comunità, ma ciò non significa affatto avallarle. In effetti, il considerando n. 61 puntualizza la necessità che tutti gli impieghi dei Fondi avvengano per progetti destinati ad avere una lunga durata operativa, sì da preservare l’efficacia dell’impiego di denaro pubblico:
61. To ensure the effectiveness, fairness and sustainable impact of the intervention
of the Funds, there should be provisions guaranteeing that investments in businesses
are long-lasting and preventing the Funds from being used to introduce undue advantage. It is necessary to ensure that investments which benefit from assistance under
the Funds can be written off over a sufficiently long period.
Siffatti principi trovano poi riscontro nell’art. 57 del nuovo regolamento
destinato ad applicarsi a qualunque impiego dei Fondi e dettato al
fine di assicurare la durata – e dunque l’utilità – dei progetti finanziati:
(71),
CHAPTER IV
DURABILITY OF OPERATIONS
Article 57
Durability of operations
1. The Member State or managing authority shall ensure that an operation retains
the contribution from the Funds only if that operation does not, within five years from
the completion of the operation or three years from the completion of the operation
in Member States which have exercised the option of reducing that time limit for the
maintenance of an investment or jobs created by SMEs, undergo a substantial modification:
(70) Trattasi degli impieghi delle risorse dei Fondi destinate a finanziare i progetti di cui
agli articoli 39, 40 e 41 del nuovo regolamento, aventi cioè un costo totale superiore a 50 milioni di euro (ad eccezione di quelli in campo ambientale, dove la soglia minima è dimezzata).
(71) L’art. 57 costituisce il capitolo IV («Durability of operations ») del titolo IV (« Effectiveness ») del nuovo regolamento.
SAGGI
775
(a) affecting its nature or its implementation conditions or giving to a firm or a public body an undue advantage; and
(b) resulting either from a change in the nature of ownership of an item of infrastructure or the cessation of a productive activity.
2. The Member State and the managing authority shall inform the Commission in
the annual implementation report referred to in Article 67 of any modification referred to in paragraph n.1. The Commission shall inform the other Member States.
3. Sums unduly paid shall be recovered in accordance with Articles 98 to 102.
4. The Member States and the Commission shall ensure that undertakings which
are or have been subject to a procedure of recovery in accordance with paragraph 3
following the transfer of a productive activity within a Member State or to another
Member State do not benefit from a contribution from the Funds.
Qui risiede il cardine del compromesso: anziché contemplare regole
severe contro le delocalizzazioni, specie per quelle oltre i confini esterni
dell’Unione, ci si accontenta di considerare comunque soddisfatto l’interesse comunitario alla durata dell’investimento, quando quest’ultimo resta in essere per almeno cinque anni (temine peraltro riducibile a soli tre
anni, se gli Stati esercitano un’opzione loro riservata).
Reputando tuttavia ciò congruo, il Parlamento ha poi espresso il proprio consenso alla riforma (72), cui è immediatamente seguita l’adozione
formale da parte del Consiglio (73).
Nel contesto della contestuale procedura legislativa (74) invece concernente la riforma alla disciplina specifica del Fondo Sociale Europeo, la
Commissione – accogliendo un emendamento formulato dal Parlamento
– ha proposto che in futuro i relativi fondi vadano canalizzati in particolare a favore delle aree « particolarmente colpite dalla delocalizzazione di imprese » (75), cosa peraltro implicante riconoscere l’esistenza del fenomeno,
(72) Risoluzione del 4 luglio 2006, P6_0289/2006, interinstitutional file – 2004/163(AVC).
(73) Adozione formale del Consiglio avvenuta durante la sessione n. 2741 dell’11 luglio
2006, CS/2006/11289, punto 17, interinstitutional file – 2004/163 (AVC).
(74) Soggetta alla procedura di codecisione.
(75) Proposta modificata di regolamento del Consiglio relativo al Fondo Sociale Europeo,
COM (2004) 165, 17 ottobre 2005, interinstitutional file – 2004/165 (COD). Si veda l’art. 4,
comma 2°, del proposto regolamento, che il Parlamento (mediante la risoluzione P6_TA
(2005) 278 del 6 luglio 2005, cit.) aveva richiesto di formulare nel seguente modo: «Nell’ambito dei programmi operativi le risorse sono canalizzate dove la necessità è maggiore e si concentrano sui settori nei quali il sostegno del FSE può contribuire significativamente al conseguimento degli obiettivi del programma. Per massimizzare l’efficacia del sostegno del FSE, i
programmi operativi tengono conto segnatamente delle regioni e località colpite dai problemi
più gravi, tra cui le zone urbane svantaggiate, le zone rurali in declino e le zone dipendenti dalla pesca, le isole, le regioni montagnose e remote, le regioni a bassa densità di popolazione o
776
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
in precedenza invece messa addirittura in dubbio. Espressosi successivamente in senso favorevole anche il Consiglio (76), la posizione comune
contemplante tale mezzo d’intervento è stata da poco definitivamente approvata dal Parlamento in seconda lettura (77).
Senza voler affatto discutere in questa sede la bontà della soluzione finale raggiunta, ma quale mero spunto di riflessione, merita forse spendere qualche parola su quanto sta attualmente accadendo nell’universo cinese, sicuramente caratterizzato da una sua peculiare tipicità sia sotto l’aspetto politico che economico. Il paese è destinatario di un impressionante flusso di capitali esteri, controllati nonché canalizzati dal governo centrale e dalle principali municipalità locali negli investimenti ritenuti più
importanti per lo sviluppo dell’immenso territorio. Le pubbliche autorità
concedono sì agevolazioni fiscali limitate nel tempo, ma non contribuiscono affatto a finanziare le iniziative intraprese dagli investitori privati
(stranieri o nazionali), riservando il denaro erariale al risanamento del settore pubblico ereditato dal passato regime comunista, problema peraltro
scottante anche per le rilevanti implicazioni di ordine sociale. Quanto alle
privatizzazioni (78), spesso nascondono misure di favore verso gli acquirenti, ma l’accesso agli stranieri è fortemente limitato, sia giuridicamente
che di fatto. La politica statale, infine, incentiva gli investitori esteri a reimpiegare gli utili nel paese nonché premia le imprese orientate all’esportazione (79).
Passando agli aiuti di Stato, come noto la Commissione ha attualmente in programma di rivedere globalmente i propri orientamenti in
materia (80), al fine di adeguarli agli obiettivi messi a fuoco dalla menzio-
che presentano un handicap demografico e quelle particolarmente colpite dagli effetti negativi delle rilocalizzazioni di imprese ». Gli emendamenti, suggeriti dal Parlamento europeo e
poi accolti, sono evidenziati in grassetto.
(76) Posizione comune adottata il 13 giugno 2006, 9060/4/06, interinstitutional file –
2004/165 (COD).
(77) Risoluzione del 4 luglio 2006, P6_0285/2006, interinstitutional file – 2004/165
(COD).
(78) Per una disamina sui differenti profili in cui l’ordinamento comunitario ha influito
sui processi di privatizzazione in Europa, mi permetto di richiamare il seguente mio lavoro:
Gli influssi del diritto comunitario sulle privatizzazioni: tra favor e rigore, in questa rivista,
2000, p. 636.
(79) Per un approfondimento, si rinvia a Crespi-Reghizzi, Moti e tendenze del diritto
commerciale cinese, in Studi in onore di Pietro Corradini, Roma, 2006.
(80) Comunicazione della Commissione su una politica della concorrenza proattiva per
un’Europa competitiva, cit., punto 3.2 e punto 3.2.3, dove si evidenziano le importanti siner-
SAGGI
777
nata « Strategia di Lisbona » (81). Siccome il compromesso, raggiunto con
il Parlamento su come affrontare il problema delle delocalizzazioni nel
contesto della disciplina generale dei Fondi strutturali, ricorda in buona
sostanza la soluzione già accolta dalla Commissione in alcuni suoi precedenti provvedimenti (e cioè, le citate disposizioni sulle sovvenzioni nazionali a finalità regionale ed all’occupazione), ci si può attendere che tale impostazione possa trovare ulteriore applicazione nella futura più ampia riforma delle regole sugli aiuti di Stato, che tenderà a rivestire la forma di veri e propri regolamenti della Commissione anziché quella di mere sue comunicazioni.
L’ultimo pensiero va alla politica commerciale comune: in effetti, non
è forse irragionevole ritenere che essa vada condotta, al pari di tutte le altre, in modo sinergico e coordinato con quella di coesione, onde evitare
ingiustificati scompensi all’interno dell’Unione. Il punto diventa semmai
capire come procedere – democraticamente – a definire nei diversi momenti storici la corretta miscela tra le politiche medesime ed i loro rispettivi obiettivi, in considerazione delle finalità ultime assegnate alla Comunità, anch’esse parzialmente mutate nel corso del tempo (82).
gie che dovrebbero crearsi dalla contemporanea riforma dei fondi strutturali nonché degli
strumenti esistenti nel settore degli aiuti di Stato (per valutare questi ultimi, la Commissione manifesta ora l’intenzione di privilegiare un approccio di tipo orizzontale).
(81) Comunicazione della Commissione sul piano di azione nel settore degli aiuti di stato – Aiuti di Stato meno numerosi e più mirati: itinerario di riforma degli aiuti di Stato
2005/2009 (Documento di consultazione), COM (2005) 107 def.
(82) Mentre viene licenziato alla tipografia il presente scritto, si è in attesa di conoscere
il contenuto della seguente nuova comunicazione della Commissione: Implementing the
Community Lisbon Programme: Financing SME Growth – Adding European Value, COM
(2006) 349 def.
LUIGI A. SCARANO
Notificazione e comunicazione di atti nell’Unione europea
Sommario: 1. Unione europea, spazio giuridico europeo e « comunitarizzazione » della disciplina in tema di comunicazione e notificazione di atti giudiziari ed extragiudiziali. –
2. Ambito oggettivo della disciplina. a) La materia civile e commerciale. – 3. Segue: b)
Atti giudiziari ed extragiudiziali. – 4. Segue: c) Trasmissione a scopo di notificazione o
comunicazione. – 5. Segue: d) Recapito noto del destinatario dell’atto. Recapito ignoto
e destinatario irreperibile. – 6. Caratteri essenziali della disciplina. a) Semplificazione
del procedimento e sistema decentrato. – 7. Segue: b) Accelerazione della trasmissione.
– 8. Segue: c) Lingua dell’atto. – 9. Modalità e forma principale di notificazione o comunicazione. – 10. Data di notificazione o comunicazione dell’atto. Il principio della
“scissione” tra perfezionamento ed efficacia della notificazione o comunicazione. – 11.
Segue: Il principio della “scissione” nell’ordinamento italiano. Rilievi critici. – 12. Segue: La soluzione accolta dal Regolamento: critica. – 13. Modalità alternative o sussidiarie. a) Notificazione o comunicazione (“indiretta” e “diretta”) per via consolare o diplomatica. – 14. Segue: b) Notificazione o comunicazione postale “diretta”. – 15. Segue:
c) Forme particolari di notifica. – 16. Segue: d) La domanda “diretta” di notificazione. –
17. L’art. 19 quale fonte di disciplina processuale uniforme. – 18. Segue: a) La regolare
costituzione del contraddittorio. La sospensione necessaria (cd. europea) del processo.
– 19. Segue: b) Contumacia del convenuto e rimessione in termini. – 20. Osservazioni
conclusive.
1. – La notificazione e la comunicazione negli Stati membri di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale è disciplinata dal
Regolamento del Consiglio dell’U.E. del 29/5/2000 n. 1348 (1), atto normativo derivato di fonte comunitaria, con base normativa nell’art. 65 del
Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 (2).
(1) In vigore dal 31 maggio 2001.
Il presente saggio riproduce, con qualche integrazione, ed aggiorna la rielaborazione
della relazione svolta al Convegno di studi organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Avezzano, dalla Rivista “Quaderni di diritto” e dalla Sezione Abruzzo dell’Associazione Nazionale Magistrati sul tema « Diritto civile comunitario e cooperazione giudiziaria civile » (Avezzano, 31 gennaio 2004), pubblicata nel volume AA.VV., Diritto civile comunitario e cooperazione giudiziaria civile, a cura di Ambrosi-Scarano con Introduzione di S. Ratti, Milano, 2005.
(2) Il Trattato di Amsterdam è in vigore dal maggio del 1999: in argomento v., per tutti,
Pocar, La comunitarizzazione del diritto internazionale privato: una “European conflict of law
revolution”?, in Riv. int. dir. priv. e proc., 2000, 873 n.; Tizzano, Il Trattato di Amsterdam. Con
i testi coordinati del Trattato di Maastricht e del Trattato della Comunità Europea, Padova, 1998.
SAGGI
779
La cooperazione giudiziaria (e giuridica) in materia civile, che nel
Trattato di Maastricht del 1992 sull’Unione Europea faceva parte del Terzo Pilastro, nel Trattato di Amsterdam è contemplata come materia di Primo Pilastro.
Da oggetto di cooperazione governativa tra gli Stati membri, realizzata mediante la conclusione di Accordi tra Stati, essa è quindi divenuta una
delle politiche comuni strumentalmente rilevanti al fine della realizzazione della finalità fondamentale dell’azione comunitaria, il corretto funzionamento del Mercato interno (3), perseguita mediante la progressiva armonizzazione ed integrazione tra gli ordinamenti degli Stati membri (4).
Essenziale ruolo riveste al riguardo la creazione di uno « spazio di libertà, sicurezza e giustizia » (5), di uno « spazio giudiziario comune », per
la cui integrazione risulta necessario (anche) il ravvicinamento e l’allineamento delle regole di diritto sostanziale (6), di diritto internazionale priva-
L’art. 65 del Trattato CE costituisce la norma fondamentale dell’ordinamento comunitario per la realizzazione, mediante fonti di diritto secondario adottate dagli organi dell’U.E., di un sistema armonizzato di diritto internazionale privato e processuale: « Le misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile che presenti implicazioni transfrontaliere, da adottare a norma dell’articolo 67 e per quanto necessario al corretto funzionamento del mercato interno, includono: a) il miglioramento e la semplificazione: – del sistema per la notificazione transnazionale degli atti giudiziari ed extragiudiziali; – . . .;
b) . . . ».
In argomento v. Campeis-De Pauli, Prime riflessioni sulla disciplina delle notifiche in
materia civile e commerciale nell’unione europea (Regolamento del Consiglio 29 maggio 2000,
n. 1348/2000/CE), in Giust. civ., 2001, II, p. 239; Biavati, Notificazioni e comunicazioni in Europa, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p. 501 ss., ivi alla p. 502; de Cristofaro, La nuova disciplina delle notificazioni infracomunitarie in materia civile, in Studium iuris, 2001, p. 517 ss.,
ivi alla p. 518; Frigo-Fumagalli, L’assistenza giudiziaria internazionale in materia civile, Padova, 2003, p. 61 ss.; Frigo, Il regolamento comunitario sulle notificazioni in materia civile o
commerciale, in Riv. dir. proc., 2002, p. 102 ss.
(3) Cfr. Campeis-De Pauli, op. loc. citt.; Frigo-Fumagalli, op. loc. citt., ivi alla p. 62 ss.
(4) Al riguardo v. Gaja, La cooperazione rafforzata, in Dir. unione eur., 1998, p. 315 ss.
Per il rilievo secondo cui il corretto funzionamento del mercato interno costituisce il
« punto distintivo » tra l’« armonizzazione comunitaria » e quella « universale », e il « corretto funzionamento del mercato è una sorta di alveo, che limita ma anche incanala, con effetti di maggiore efficacia, l’armonizzazione europea » v. Biavati, op. cit., p. 506 ss., ivi alla
p. 508.
(5) In argomento v. Carbone, Il nuovo spazio giudiziario europeo. Dalla Convenzione di
Bruxelles al regolamento CE n. 44/2001, Torino, 2002, p. 10 ss.
(6) Nel senso che la scelta del metodo di produzione del « diritto europeo », a seconda
che si intenda privilegiare il « diritto legislativo » o il « diritto giurisprudenziale » o il « diritto professorale », riflette le divergenze sul concetto e sul contenuto del medesimo e costi-
780
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
to e di giurisdizione, delle regole processuali (7) e di quelle organizzativoamministrative necessarie per assicurare il corretto svolgimento dei processi civili.
Nel perseguimento degli obiettivi fissati dall’art. 65 del Trattato CE, il
Consiglio dell’U.E. ha il potere di adottare misure di cooperazione rafforzata caratterizzate da implicazioni transfrontaliere [art. 61, lett. c), CE].
Il miglioramento e la semplificazione della trasmissione – con finalità
di notificazione o comunicazione – di atti giudiziari ed extragiudiziali tra
Stati membri rientra nell’ambito generale del diritto processuale comunitario, quale fenomeno che appare strettamente connesso con i profili della competenza giurisdizionale e del riconoscimento ed esecuzione delle
sentenze (8).
Le notificazioni transnazionali costituiscono un fenomeno da sempre
avvertito come di assoluto rilievo nell’ambito della cooperazione giudiziaria civile tra Stati.
Già nel 1896 veniva adottato uno strumento convenzionale in materia,
seguìto dalle Convenzioni dell’Aja relative alla procedura civile del 17 luglio 1905 e del 1° marzo 1954 (9), fino alla Convenzione dell’Aja del 15 novembre 1965 (10). E il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Bruxelles
del 27 settembre 1968 (11) introduce, al punto IV, la possibilità della trasmissione transnazionale «direttamente dai pubblici ufficiali dello Stato in
cui gli atti sono formati a quelli dello Stato sul cui territorio si trova il destinatario dell’atto in questione ».
Gli strumenti pattizi di collaborazione muovono dall’esigenza di rispetto del principio di sovranità degli Stati, ostativo al compimento da
tuisce il risultato di una opzione di fondo in favore della costruzione normativa, casistica o
scientifico-dommatica, v. Vacca, Cultura giuridica e armonizzazione del diritto europeo, in
Europa e dir. priv., 2004, p. 53 ss., ivi alla p. 55.
(7) Sottolinea l’importanza che il diritto processuale civile assume nella prospettiva europea ai fini dell’effettività del mercato, in ragione della riscoperta della valenza economica
del processo civile, De Stefano, La procedura civile e il diritto comunitario, in Rass. locaz.,
2002, p. 340 ss., ivi alla p. 342 ss.
(8) In tal senso cfr. Biavati, op. cit., p. 543 ss.; Campeis-De Pauli, op. loc. citt.; FrigoFumagalli, op. loc. citt.
V. anche il secondo Considerando del Regolamento, secondo cui « Il buon funzionamento del mercato interno presuppone che fra gli Stati membri sia migliorata ed accelerata
la trasmissione, a fini di notificazione, degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale ».
(9) Ratificata e resa esecutiva con L. 3 gennaio 1957, n. 4.
(10) Ratificata e resa esecutiva con L. 6 febbraio 1981, n. 42.
(11) Ratificata e resa esecutiva con L. 21 giugno 1971, n. 804.
SAGGI
781
parte di soggetti stranieri di atti d’imperio e di attuazione di funzioni di
natura pubblicistica riservati a pubblici ufficiali nazionali (nel cui ambito è
ricompresa l’attività di notificazione e comunicazione di atti giudiziali) (12),
laddove non espressamente consentiti (13). Ma si spiega anche in ragione
della mancanza, nel diritto internazionale, di una norma o di un principio
generale che obblighi gli Stati a prestarsi reciprocamente assistenza giudiziaria (14).
Nel 1997 è stata dal Consiglio dell’U.E. adottata la Convenzione (15)
relativa alla notificazione e comunicazione negli Stati membri dell’U.E. di
atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale, firmata a
Bruxelles il 26 maggio 1997, dall’Italia ratificata e resa esecutiva (unitamente al Protocollo sottoscritto in pari data, attributivo alla Corte di Giustizia CE della competenza ad interpretare la detta Convenzione) (16) con
L. 19 ottobre 1999, n. 422 (17). Convenzione peraltro mai divenuta applicabile in mancanza di un numero sufficiente di ratifiche intervenute prima
dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam.
La comunitarizzazione della materia della cooperazione giudiziaria (e
giuridica) in materia civile ne implica la riconduzione alla potestà legislativa di diretto esercizio da parte degli organi comunitari (18), nel rispetto
(12) In tal senso v. Morelli, Diritto processuale civile internazionale, Padova, 1954, p. 262.
(13) V. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 247 ss.; Pocar, Esercizio autorizzato del potere statale nel territorio straniero, Padova, 1974, p. 167 ss.; Massari, Di una insufficiente assistenza
giudiziaria internazionale: la notificazione di atti all’estero, in Mon. trib., 1961, p. 1122 ss.
In tale quadro si inserisce (anche) la Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari, resa esecutiva in Italia con L. 9 agosto 1967, n. 804, di applicazione peraltro eccezionale.
(14) In tal senso v. Pocar, L’assistenza giudiziaria internazionale in materia civile, Padova, 1967, p. 43 ss., ivi alla p. 60; CARPI, Commento a Corte cost., 2 febbraio 1978, n. 10, in
Nuove leggi civ. comm., 1978, p. 894 ss., ivi alla p. 895.
Si coglie, a tale stregua, il fondamentale rilievo che assume ora in argomento la fonte
di diritto derivato costituita dal Regolamento (CE) n. 1206 del 28 maggio 2001 relativo alla
cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle
prove in materia civile e commerciale: in argomento v. Sandrini, L’assunzione delle prove
all’estero. Dalla Convenzione dell’Aja del 1970 al regolamento CE n. 1206/2001, in Aa.Vv., Diritto civile comunitario e cooperazione giudiziaria civile a cura di Ambrosi-Scarano, Milano,
2005, p. 215 ss.
(15) Il cui testo può leggersi anche in Riv. int. dir. priv. proc., 1998, p. 668 ss.
(16) Il cui testo può leggersi anche in Riv. int. dir. priv. proc., 1998, p. 691 ss.
(17) Pubblicata nella G.U. 16 novembre 1999, n. 269.
(18) Cfr. Giacalone, La lunga marcia dell’euronotifica rafforza la cooperazione giudiziaria, in Dir. e giust., 2000, fasc. 25, p. 64 ss.
782
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
dei princìpi di sussidiarietà e proporzionalità (19), non risultando pertanto
essa più esclusivamente o principalmente rimessa alla regolamentazione
pattizia tra gli Stati (20).
Esercitando i poteri conferitigli dal Trattato (artt. 61, 65, 67 CE), la
Commissione ha dapprima presentato una proposta di Direttiva, sostanzialmente riproducente il testo della Convenzione del 1997 (21).
Dopo breve, essa ha tuttavia optato, così come per le altre iniziative
concernenti gli ambiti di priorità fissati nel citato art. 65 Tratt. Amsterdam
(22), per l’adozione della fonte regolamentare, ravvisata come maggiormente idonea al perseguimento dell’obiettivo dell’introduzione negli Stati membri di una disciplina uniforme o quantomeno omogenea e coerente, immediatamente e direttamente vincolante (23).
Le norme dei Regolamenti comunitari sono infatti direttamente efficaci negli Stati membri, e costituiscono fonti (anche) di diritto interno dei
singoli Stati nazionali.
Nell’ordinamento italiano essi sono fonti di rango primario, sovraordi-
(19) V. il quarto Considerando: « In base ai princìpi di sussidiarietà e proporzionalità di
cui all’articolo 5 del Trattato, gli obiettivi del presente regolamento non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario. Il presente regolamento non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento di tali obiettivi ».
(20) In tal senso cfr. Biavati, op. cit., p. 510, il quale pone in rilievo come il Trattato di
Amsterdam abbia « aperto la via ad una tipologia di normazione non più convenzionale ma
legislativa ».
(21) Proposta presentata il 4 maggio 1999: in argomento v. Giacalone, op. loc. citt.
(22) V. Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio 22 dicembre 2000 concernente la
competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, in materia civile o commerciale e il Regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio sulle procedure di insolvenza, entrambi in G.U.C.E., L 160, 30 giugno 2000; il Regolamento (CE) n. 1347/2000
del Consiglio 29 maggio 2000 relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale, in
G.U.C.E., L 174, 27 giugno 2001.
(23) Osserva al riguardo Biavati, op. cit., p. 501 ss., ivi alla p. 502 come « il modo di essere delle norme sulle notifiche si spieghi, nel contesto dell’ordinamento comunitario, in
una chiave di lettura complessiva, che segna il progressivo passaggio da un meccanismo di
relazioni fondato sull’obiettivo della circolazione delle sentenze ad un nuovo meccanismo,
imperniato sulla finalità di un’amministrazione tendenzialmente omogenea della giustizia
civile nell’Unione ».
Sottolinea come, più della semplice armonizzazione, è invero l’unificazione della disciplina relativa all’esercizio della giurisdizione civile e al riconoscimento delle sentenze straniere che può compiutamente attuare la cd. quinta libertà, relativa appunto alla circolazione
delle sentenze, Carbone, op. loc. citt., ivi alla p. 11.
SAGGI
783
nato alla legge ordinaria (24) e paritario rispetto a quella costituzionale (25).
L’adozione della fonte (regolamentare) comunitaria assume pregnante
significato sotto molteplici profili, dovendo le norme ivi poste, pur se sostanzialmente mutuate dalla Convenzione del 1977, anzitutto contemperarsi con i principi del cd. acquis communautaire. In particolare, con i principi, elaborati dalla Corte di Giustizia, di effettività, non discriminazione,
tutela giurisdizionale adeguata (26).
Ne emerge a tale stregua un quadro ove « le regole in tema di notificazione sono evidentemente ancillari al quadro globale del diritto di difesa,
delle disposizioni sulla competenza e del rapporto fra cause nel sistema
europeo » (27).
L’affermarsi e lo svilupparsi di uno « spazio comune », e la conseguente considerazione del territorio in (progressivi) termini di unitarietà (28),
comporta il (progressivo) sostanziale superamento, nell’ambito dell’Unione, del principio di sovranità degli Stati, e del correlativo principio di territorialità nella giurisdizione (29).
Il processo di coordinamento e di armonizzazione, esteso anche alla
notificazione e alla comunicazione degli atti, attiene, come più sopra segnalato, non solamente all’ambito delle regole processuali, ma altresì a
quello dell’amministrazione della giustizia, ivi ricompresi quindi gli aspetti di tipo burocratico ed organizzativo. Come del pari gli atti e i rapporti
sostanziali (30).
Ulteriore corollario della comunitarizzazione della materia è la relativa
sottoposizione all’interpretazione da parte della Corte di Giustizia, in virtù
della competenza a tale Organo attribuita in via generale dall’art. 68 Trattato CE (versione consolidata a seguito del Trattato di Amsterdam) (31).
(24) Con la quale viene invece recepita la Direttiva (che non sia self-executing).
(25) In tal senso cfr. Bianca, Diritto civile, 1, Milano, 2002, p. 74 ss.
(26) In tali termini v. Biavati, op. cit., p. 509: il « passaggio dalla convenzione al regolamento significa che l’ordinamento comunitario fa proprie molte delle soluzioni tecniche
consolidate del diritto internazionale convenzionale . . . ma le assorbe e le riveste con i propri criteri di fondo ».
(27) Così Biavati, op. cit., p. 522.
(28) Cfr. Biavati, op. cit., p. 521.
(29) In ordine al principio di territorialità nella giurisdizione v. Pocar, L’esercizio non
autorizzato del potere statale sul territorio straniero, cit., p. 167; Morelli, op. cit., p. 167 ss.
(30) Cfr. Biavati, op. cit., p. 542.
(31) Nel senso che tale competenza appare idonea a garantire il « delicato equilibrio fra
il coordinamento indispensabile e il rispetto della differenza », giacché non è realistico ritenere che « l’armonizzazione processuale europea possa diventare effettiva » con il calare
784
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Ancora, in ambito comunitario il Regolamento prevale ormai sulla
Convenzione dell’Aja del 1965 e sulla Convenzione di Bruxelles del 27
settembre 1968 (32), nonché su tutti gli altri Accordi o Intese bi o multilaterali che non siano idonei a garantire sistemi più facili e rapidi di trasmissione degli atti (art. 20 Reg.) (33). Rimangono sostituite anche le sopra richiamate Convenzioni dell’Aja, del 1905 e del 1954, relative alla procedura civile (34).
Il Regolamento consente invero che vengano conclusi o mantenuti in
vigore solo Accordi e Intese con esso compatibili, ove cioè idonei ad ulte-
dall’alto un corpo di norme comuni che « si imponga a tradizioni giuridiche secolari e a
prassi operative consolidate », ed essendo la Corte di Giustizia d’altra parte « maestra in
questo compito: è sua, in definitiva, l’invenzione degli standard minimi di tutela giurisdizionale, come strumento di mediazione fra la necessità di applicare il diritto comunitario e
l’autonomia procedurale riconosciuta agli Stati membri », v. Biavati, op. cit., p. 545.
Criticamente in ordine alla limitazione dell’accesso alla Corte di Giustizia che l’art. 68
CE ha attribuito esclusivamente al giudice nazionale di ultima istanza (« avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno »), e non anche, quindi (come invece consentito dall’art. 17 della Convenzione attraverso un Protocollo redatto
sulla base di quello di Lussemburgo del 3 giugno 1971 sull’interpretazione della Convenzione di Bruxelles del 1968), anche ai giudici di secondo grado, v. Giacalone, op. cit., p. 66;
Frigo, Il regolamento comunitario sulle notificazioni in materia civile o commerciale, cit., p.
126 ss., ivi alla p. 130.
(32) Convenzioni tuttora in vigore, che trovano applicazione nei rapporti con la Danimarca e con i Paesi terzi. In argomento v. Biavati, op. cit., p. 512.
(33) Per il rilievo che l’art. 20 Reg. risente della sua origine convenzionale, essendo già
presente nella Convenzione del 1997, giacché è « meno frequente » l’inclusione di tale tipo
di previsione nell’ambito di una fonte regolamentare v. Frigo, op. ult. cit., p. 126; FrigoFumagalli, op. cit., p. 87 ss.; Carella, La disciplina delle notificazioni e comunicazioni intracomunitarie: dalla cooperazione intergovernativa all’integrazione europea?, in Diritto internazionale privato e diritto comunitario a cura di Picone, Padova, 2004, p. 130 ss., ivi alla p.
132, per la quale la norma appare « una svista dovuta ad una troppo frettolosa trasposizione sul regolamento del contenuto della Convenzione sulle notificazioni del 1997 ».
Al riguardo, diversamente, per l’« opportunità di mantenere la disposizione in questione anche nell’ambito del regolamento », in quanto « essa incide direttamente e
uniformemente in una materia divenuta di competenza comunitaria nella quale l’impatto dell’accordo internazionale, inteso come fonte di norme giuridiche, riveste un’importanza particolare », ed altresì in considerazione della circostanza che « le stesse disposizioni nazionali vengono derogate da una pluralità di convenzioni bilaterali e multilaterali in vigore », v. invece Frigo, La disciplina comunitaria della notificazione degli atti in
materia civile e commerciale: il Regolamento (CE) n. 1348/2000, in Carbone-Frigo-Fumagalli, Diritto processuale civile e commerciale comunitario, Milano, 2004, p. 150 ss., ivi
alla p. 151.
(34) Analogamente v. Frigo, op. loc. ultt. citt., ivi alla p. 127.
SAGGI
785
riormente accelerare e semplificare la trasmissione di atti (art. 20, comma
2, Reg.) (35).
A tale stregua, persistente validità ed efficacia sembra doversi ad
esempio riconoscere alla Convenzione bilaterale conclusa a Vienna il 30
giugno 1975 tra l’Italia e l’Austria (36), la quale, nel prevedere la possibilità
di invio diretto tra i Tribunali dei due Stati di atti da notificarsi e concernenti l’esecuzione, anche se redatti nella (sola) lingua dello Stato cui appartiene il Tribunale richiedente, appare profilarsi come senz’altro idonea
ad ulteriormente semplificare e accelerare la trasmissione dell’atto rispetto a quanto garantito dal sistema regolamentare (salva peraltro la facoltà
di rifiuto ex art. 5 Reg. da parte del destinatario, in ragione della mancata
conoscenza della lingua dell’atto) (37).
Ancora, alla Convenzione italo-britannica per l’assistenza giudiziaria
in materia civile e commerciale del 17 dicembre 1930, ratificata e resa esecutiva con L. 31 marzo 1932, n. 373, che consente la notificazione diretta di
atti giudiziari ed extragiudiziali (redatti nella lingua dello Stato ove deve
essere notificato ovvero accompagnato da una traduzione in tale lingua:
(35) V. la Relazione esplicativa concernente la convenzione stabilita in base all’articolo K.
3 del Trattato sull’Unione europea relativa alla notificazione negli Stati membri dell’Unione europea di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale (Testo approvato dal
Consiglio il 26 giugno 1997), in G.U.C.E., C 261, 27 agosto 1997, che si legge anche in Riv. int.
dir. priv. proc., 1998, p. 676 ss.
A tale stregua, non sembra pertanto valevole con riferimento al Regolamento quanto
indicato dalla Relazione esplicativa della Convenzione del 1997 indicato relativamente al
detto strumento convenzionale, ove, con riferimento al combinato disposto di cui agli artt.
1 e 20, si afferma che « nessun altro accordo, convenzione o intesa possono essere applicati
fra gli Stati membri dell’Unione europea (che hanno ratificato la presente convenzione) ».
In tal senso cfr. Frigo, La disciplina comunitaria della notificazione negli Stati membri
dell’Unione europea di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale: il Regolamento (CE) n. 1348/2000, cit., p. 150 ss., ivi alla p. 151 ss., il quale segnala altresì l’equivocità del riferimento alla “compatibilità” di altri Accordi con il Regolamento e, avuto in
particolare riguardo alla Convenzione bilaterale Italia-Austria, alla idoneità della notificazione dell’atto redatto nella sola lingua dello stato mittente (es., italiano), così come consentito dallo strumento convenzionale, laddove il Regolamento prevede invece (art. 5) la
facoltà di rifiuto di ricevere l’atto non redatto in una delle lingue di cui all’art. 8 Reg.
(36) In ordine agli Accordi bilaterali in materia di assistenza giudiziaria negoziati con
Paesi quali, tra gli altri, Austria, Regno Unito, Francia, Spagna, Turchia e Giappone, v.
Giuliano-Pocar-Treves, Codice delle convenzioni di diritto internazionale privato e processuale, Milano, 1981; Miele, Le convenzioni internazionali relative al processo civile, Milano,
1955.
(37) Nello stesso senso v. Frigo, op. loc. ultt. citt., ivi alla p. 128; Frigo-Fumagalli, op.
cit., p. 89 ss.
786
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
art. 3), in sede decentrata, dalle parti interessate a mezzo dei competenti
funzionari o ufficiali del Paese nel quale la notificazione deve essere eseguita (art. 5), oltre che su richiesta, in Italia, di un agente consolare inglese al Procuratore generale presso la Corte d’Appello del distretto nel cui
ambito la notificazione deve effettuarsi, che vi provvede secondo la legge
dello Stato ad quem.
2. – L’ambito oggettivo della disciplina è delineato dall’art. 1 Reg. che,
al comma 1, fa al riguardo anzitutto riferimento alla « materia civile e
commerciale ».
La norma non reca invero una definizione di tali concetti, neanche
mediante rinvio al diritto interno.
Trattasi di formulazione peraltro ricorrente negli atti comunitari, essendo espressamente contemplata, in particolare, nella Convenzione di
Bruxelles del 1968 (38).
Nella Relazione esplicativa della Convenzione del 1997 si indica la necessità di farsi in proposito richiamo ai concetti elaborati dalla Corte di
Giustizia in sede di applicazione della Convenzione di Bruxelles, con l’adozione di un’autonoma definizione che tenga conto « degli obiettivi e
dell’economia della Convenzione nonché dei principi generali risultanti
dai sistemi giuridici nazionali nel loro insieme ».
Tale soluzione appare valida anche all’esito della comunitarizzazione
della materia, con riferimento al Regolamento.
Oltre a quella penale e a quella fiscale, che dalla detta Relazione sono
« escluse a priori » dall’ambito della materia civile e commerciale, nella
stessa non sembrano ricomprendere nemmeno la materia doganale e
quella amministrativa (39).
(38) Convenzione ormai sostituita dal Regolamento (CE) 44/2001 del 22 dicembre 2000,
in vigore del 1° marzo 2002: al riguardo v. Giacalone, Il Regolamento CE n. 44/2001 sulla
competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale (cd.
Bruxelles I), in Aa.Vv., Diritto civile comunitario e cooperazione giudiziaria civile a cura di
Ambrosi-Scarano, cit., p. 75 ss. Siani, Il regolamento CE n. 44/2001 sulla competenza giurisdizionale e nell’esecuzione della sentenza, in Dir. comunitario e scomb. int., 2003, 451 n.;
Bonaduce, L’interpretazione della Convenzione di Bruxelles del 1968 alla luce del regolamento n. 44/2001 nelle pronunce della Corte di Giustizia, in Riv. dir. int., 2003, 746 ss.
(39) Cfr. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 241.
In relazione alla P.A. va tuttavia precisato che si prescinde dalla natura dell’organo giurisdizionale competente a conoscerne, sicché il Regolamento trova sicuramente applicazione con riguardo all’agire iure privatorum della P.A.: cfr. Corte CE, 21 aprile 1993, causa C172/91, Sonntag, in Raccolta, 1993, p. I-1990. In dottrina cfr. Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 86
ss.; Carbone, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni in materia civile e commerciale nello
SAGGI
787
L’ambito di applicazione del Regolamento e quello della Convenzione
di Bruxelles del 1968 non sono tuttavia coincidenti.
Diversamente dallo strumento pattizio, la fonte normativa regolamentare non esclude infatti la sua operatività in materie quali lo stato e la capacità della persona, il regime patrimoniale tra coniugi, i testamenti e le
successioni in genere, il fallimento e le altre procedure concorsuali, la sicurezza sociale, l’arbitrato (40).
Va peraltro condivisa l’osservazione dottrinaria secondo cui, se nella
Convenzione di Bruxelles del 1968 l’indicazione delle materie escluse si
spiegava essenzialmente in quanto, nei sistemi di common law, il civil law
ricomprende tutto ciò che non appartiene al campo del diritto penale (e
quindi anche il diritto costituzionale, il diritto tributario ed il diritto amministrativo) (41), analoga esclusione non appare trovare viceversa giustificazione con riferimento alla disciplina dell’attività di notificazione o comunicazione, il cui rilievo meramente strumentale depone per l’indifferenza in ordine al contenuto degli atti che ne costituiscono l’oggetto (42).
Nel sottolineare l’esigenza di un’interpretazione flessibile al riguardo, la
richiamata Relazione esplicativa indica ricomprese nell’ambito di applicazione della Convenzione del 1997, al fine di tutelare le parti in causa e in
particolare il loro diritto di difesa, le azioni civili relative alle cause fiscali e
penali.
Soluzione che appare senz’altro meritevole di accoglimento anche con
riferimento al Regolamento (43).
spazio giudiziario europeo: dalla Convenzione di Bruxelles al regolamento (CE) n. 44/2001, in
Carbone-Frigo-Fumagalli, Diritto processuale civile e commerciale comunitario, cit., p. 10
ss., ivi alla p. 11.
Per il rilievo secondo cui, in ragione della sostanziale identità di contenuti tra la Convenzione del 1997 ed il Regolamento n. 1348 del 2000, la relazione esplicativa in argomento
può costituire valido strumento ai fini interpretativi anche di quest’ultimo v. Frigo, La disciplina comunitaria della notificazione degli atti in materia civile e commerciale: il Regolamento (CE) n. 1348/2000, cit., p. 119 ss., ivi alla p. 122.
(40) Cfr. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 69.
(41) La cui mancata ricomprensione appariva altresì giustificata in relazione ad uno strumento negoziale in tema di giurisdizione e riconoscimento ed esecuzione di sentenze.
(42) In tal senso cfr. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 241 ss.
(43) A tale stregua devono ritenersi pertanto rientrare nell’ambito di applicazione del
Regolamento ad esempio gli atti concernenti l’invalidità dei contratti oggetto di corruzione,
di cui alla Convenzione civile sulla corruzione adottata a Strasburgo nel 1999: in argomento v. Rabitti, Contratto illecito e norma penale, Roma, 2000, p. 225 ss.; Scarano, La Convenzione civile anticorruzione tassello europeo di una strategia europea, in Dir. e giust., 2000,
fasc. 35, p. 72 ss.
788
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
3. – Avuto riguardo alla Convenzione dell’Aja del 1965 si è in dottrina
ritenuto che il riferimento alla natura giudiziaria dell’atto sia da intendersi con riferimento ai soli procedimenti giurisdizionali ed agli atti emanati
dalle autorità e dagli ufficiali di uno Stato contraente (44).
Secondo un’indicazione offerta dalla citata Relazione esplicativa con
riferimento alla Convenzione del 1997, che sembra da accogliersi anche
per il Regolamento, l’espressione atti giudiziari va invece estensivamente
considerata nel senso di ricomprendere tutti gli atti connessi ad un procedimento giudiziario (45).
Quanto alla nozione di atto extragiudiziale si è proposto di fare genericamente riferimento a tutti gli atti la cui natura o importanza imponga il
ricorso a specifici procedimenti posti in essere da autorità o pubblici ufficiali dello Stato membro (ad es. diffide notificate a mezzo di ufficiale giudiziario, atti notarili, ecc.) (46).
Al riguardo sembra tuttavia più corretta, non prevedendo la legge la
produzione di effetti legata a forme solenni di notificazione, un’interpretazione ampia del concetto, estesa a qualsiasi atto, anche di parte, pure se
non destinato ad avere rilievo in un (anche solo instaurando) giudizio (47).
4. – La trasmissione dall’uno all’altro Stato membro deve avvenire a fini di notificazione o comunicazione dell’atto (« per essere notificato o comunicato ») al suo destinatario.
(44) Con riferimento alla Convenzione dell’Aja del 1965, per l’esclusione dell’applicabilità della disciplina alla notificazione di un atto di un procedimento contenzioso, ma non
giurisdizionale « quale la nomina di un arbitro » v. Carpi, sub art. 1, in Carpi-Ciaccia-Cavallari-Magagni, Convenzione relativa alla notificazione (« signification ») e alla comunicazione (« notification ») all’estero degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale. Commentario a cura di Carpi e Ciaccia Cavallari, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p.
329 ss., ivi alla p. 330; Frigo-Fumagalli, op. loc. ultt. citt.
(45) Cfr. Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 67 ss.
Per la difficoltà di distinguersi, in alcuni casi, tra ciò che è propriamente attinente al
processo e ciò che ne è viceversa al di fuori v. peraltro Conte, Diritto di difesa ed oneri della notifica. L’incostituzionalità degli artt. 149 c.p.c. e 4, 3° comma, legge 890/82: una « rivoluzione copernicana »?, in Corriere giur., 2003, p. 25 ss., ivi alla p. 29.
(46) V. Carpi, sub art. 17, in Carpi-Ciaccia-Cavallari-Magagni, Convenzione relativa
alla notificazione (« signification ») e alla comunicazione (« notification ») all’estero degli atti
giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale. Commentario a cura di Carpi e
Ciaccia Cavallari, cit., p. 357 ss., ivi alla p. 358, il quale esclude pertanto l’applicabilità della
disciplina pattizia ad es. alla diffida ad adempiere; Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 67.
(47) Cfr. Pocar, L’assistenza giudiziaria internazionale in materia civile, cit., p. 1163, nota 14.
SAGGI
789
La formulazione dell’art. 1, comma 1, Reg. riprende quella recata dall’art. 1 Conv. Aja del 1965, in ordine alla quale si è in dottrina affermato
che ai due termini in questione non è da assegnarsi il significato tecnicogiuridico ad essi rispettivamente attribuito dall’ordinamento interno di
ciascuno Stato membro, ma entrambi vanno intesi come evocanti il generale fenomeno della mera consegna dell’atto al destinatario (48).
5. – Ulteriore requisito necessario per l’applicabilità della disciplina è
che sia noto il recapito all’estero (rectius, nello Stato membro ove deve avvenire la trasmissione) del destinatario dell’atto (art. 1, comma 2, Reg.).
La ragione è da ravvisarsi nell’esigenza di non addossare allo Stato
richiesto di effettuare all’interno del suo territorio la notificazione o comunicazione dell’atto (ad quem) oneri ulteriori derivanti dalla necessità
di ricercare (anche) il destinatario il cui indirizzo sia sconosciuto, e di
evitare conseguentemente la configurabilità di eventuali profili di responsabilità che possano venire a ridondare a carico del medesimo al riguardo.
Qualora l’indirizzo del destinatario non sia noto il Regolamento non
viene in applicazione (art. 1, comma 2, Reg.), non ponendosi pertanto la
questione del suo rapporto con gli altri strumenti convenzionali in materia ai sensi dell’art. 20, comma 1, Reg.
In tale ipotesi, anche la Conv. dell’Aja del 1965 non trova del resto applicazione (49).
In assenza di altri strumenti convenzionali, e nell’impossibilità di farsi
ricorso alla via consolare o diplomatica (50), deve farsi allora riferimento
alla singola legge nazionale.
Trattandosi della legge italiana quale lex fori (art. 12 L. n. 218 del 1995),
è la forma di notificazione ex art. 143 c.p.c. quella cui deve aversi in tal caso propriamente riguardo (51). Non già quella viceversa prevista dall’art.
(48) In tal senso v. Panzarola, op. cit., p. 1163; Scalabrino, Considerazioni vecchie e
nuove sulla notifica all’estero degli atti processuali civili, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, p.
1109 ss., ivi alla p. 1145.
(49) V. Carpi, sub art. 1, cit., p. 329.
(50) Cfr. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 243 : « si pensi all’ipotesi estreme in cui lo Stato di destinazione non tolleri nemmeno l’attivarsi di un nostro console in loco, ovvero che
non sia possibile l’affissione alla casa comunale, ovvero ancora che l’ufficiale giudiziario o il
funzionario straniero, non essendovi tenuto per legge dello Stato di appartenenza o per
convenzione internazionale, non ponga in essere le attività previste dagli artt. 138 ss. del codice di rito italiano ».
(51) Cfr., in tal senso, Campeis-De Pauli, op. cit., p. 243 ss.
790
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
142 c.p.c., che della persona non residente, né dimorante, né domiciliata
nella Repubblica presuppone essere noto l’indirizzo all’estero (52).
Ne consegue che rimane invero pregiudicata la possibilità che al destinatario risulti garantita la effettiva conoscibilità dell’atto trasmessogli (53).
La circostanza dell’essere ignoto il recapito all’estero (rectius, in altro
Stato membro) del destinatario dell’atto va in ogni caso tenuta distinta
dalla diversa ipotesi della irreperibilità di fatto del medesimo che, diversamente dalla prima, non comporta la mancata applicazione del Regolamento.
(52) Ove va spedita copia dell’atto in piego raccomandato e consegnata la terza copia a
cura del Ministero degli affari esteri, cui viene trasmessa dal pubblico Ministero (art. 142, 1°
e 2° co., c.p.c.)
(53) Per la considerazione dell’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità
di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato, quale espressione del diritto costituzionale di difesa e « limite inderogabile » che il legislatore incontra nel porre discrezionalmente
la disciplina delle notificazioni, v. Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 360, in Giur. it., 2004, p.
663 ss., con nota di Fregni e in Guida al dir., 2004, fasc. 3, p. 34 ss., con nota di Finocchiaro, Solo la completa riscrittura delle norme consente di superare le attuali incertezze e in Corriere trib., 2004, p. 471 ss., con nota di Glendi, Incostituzionale l’efficacia differita delle variazioni anagrafiche per le notificazioni e in Foro it., 2004, I, c. 335 ss. e in Arch. civ., 2004, p.
315 ss.; Corte cost., 23 settembre 1998, n. 346, in Nuove leggi civ. comm., 1998, p. 827 ss., con
nota di Leccisi, In tema di disciplina delle notificazioni degli atti a mezzo posta e in Giur. cost., 1998, p. 2619 ss., con nota di Punzi, Funzione, scopo e risultato della notificazione: incostituzionalità delle norme sulle notificazioni degli atti a mezzo del servizio postale e in Foro it.,
1998, I, c. 2601 ss., con nota di Caponi, e in Corriere giur., 1998, p. 1428 ss., con note di Caponi, La sentenza della Corte Costituzionale sulle notifiche per posta: processi in corso e rapporti esauriti e Conte, Notifiche a mezzo posta, presunzione di conoscenza dell’atto ed effettività del contraddittorio e in Resp. civ. e prev., 1999, p. 56 ss., con nota di Tassone, Notificazione a mezzo del servizio postale a salvaguardia del diritto di difesa; la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo e terzo comma, legge 890/1982 e in Arch.
giur. circ., 1998, p. 970 ss., con nota di Tencati, Notificazioni postali e diritto alla difesa e in
Arch. civ., 1998, p. 1330 ss., con nota di Rolleri, Notifica degli atti civili ed amministrativi a
mezzo del servizio postale: illegittimità costituzionale dell’art. 8, commi secondo e terzo della
Legge 890/1982 e in Riv. giur. circ. trasp., p. 1999, p. 63 ss., con nota di Rossetti, Notifiche a
mezzo posta e diritto di difesa: è tutto oro quel che luce? e in Foro pad., 1999, I, p. 321 ss., con
nota di Pinca, Notificazioni a mezzo del servizio postale: la corte accoglie il principio della tutela del destinatario e in Giust. civ., 1999, I, p. 2253 ss., con nota di Fraulini, Osservazioni
sulla nuova disciplina della notificazione a mezzo posta dopo l’intervento della Corte costituzionale e in Giur. it., 1999, p. 1568 ss., con nota di Balena, Le notificazioni a mezzo posta dopo l’intervento della Corte Costituzionale.
In argomento v. da ultimo Dalmotto, La giurisprudenza costituzionale come fonte dell’odierno sistema delle notificazioni a mezzo posta, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, p. 223
ss., nonché v. amplius infra al § 10, e ai §§ 18 e 19.
SAGGI
791
Si pone la questione se in tal caso allo Stato membro richiesto, che
non preveda una forma di notificazione corrispondente a quella ex art. 140
c.p.c., sia concesso denegare sotto altro profilo la notificazione o la comunicazione, invocando ad esempio la « situazione eccezionale » di cui all’ottavo Considerando del Regolamento (54).
Una tale possibilità sembra in effetti da escludersi (55), apparendo anzi
per converso possibile che sia lo stesso mittente a richiedere, preventivamente, quale forma particolare di notifica ai sensi dell’art. 7 Reg., l’esperimento in via subordinata di formalità analoghe a quelle di cui all’art. 140
c.p.c., che siano in ogni caso compatibili con l’ordinamento italiano (56).
6. – Come già la Convenzione dell’Aja del 1965, il Regolamento non
introduce una nozione autonoma né un unico ed esclusivo procedimento
di notificazione e di comunicazione (57).
Movendosi nel solco del suddetto strumento pattizio, e con la finalità
di favorire sempre più l’adozione di soluzioni un tempo viceversa ostacolate in nome dei principi della sovranità statuale e della territorialità della
giurisdizione, il Regolamento è infatti espressamente volto a realizzare il
(mero) miglioramento e l’accelerazione della notificazione e della comunicazione degli atti (secondo Considerando), mediante l’eliminazione delle difficoltà operative e dei ritardi registrati in sede di applicazione della
Convenzione del 1965, soprattutto in ragione dell’intervento di organi terzi e dei passaggi intermedi tra mittente e destinatario.
La novità introdotta dal Regolamento è costituita essenzialmente dalla realizzazione, quale espressione di un sistema integrato (58), della trasmissione diretta a livello decentrato, tra organi operanti cioè in ambito locale. Con conseguente omissione del necessario passaggio per il tramite
dell’Autorità centrale.
Una tale possibilità risulta invero già contemplata dalla Convenzione
(54) L’ottavo Considerando recita: « Per garantire l’efficacia del regolamento, la facoltà
di denegare la notificazione o la comunicazione degli atti deve essere limitata a situazioni
eccezionali ».
(55) Analogamente v. Frigo, Il regolamento comunitario sulle notificazioni in materia civile o commerciale, cit., p. 108 ss., ivi alla p. 110 ss.
Contra v. Biavati, op. cit., p. 514.
(56) Cfr., in tal senso, Campeis-De Pauli, op. loc. ultt. citt.
(57) Cfr. Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 72.
(58) Cfr. Giacalone, La lunga marcia dell’euronotifica rafforza la cooperazione giudiziaria, cit., ivi alla p. 65, il quale fa altresì richiamo all’ulteriore aspetto della « reciproca fiducia
tra operatori giuridici ».
792
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
dell’Aja del 1965 (59), come pure dal punto IV del Protocollo allegato alla
Convenzione di Bruxelles del 1968 (60).
Essa non ha trovato peraltro applicazione, in ragione dell’opposizione
al riguardo formulata dagli Stati, come da entrambi i detti strumenti convenzionali del resto consentito.
La facoltà di opposizione non è al riguardo invece contemplata dal Regolamento.
Ciascuno Stato è tenuto a designare gli organi mittenti (art. 2, comma
1, Reg.) e gli organi riceventi (art. 2, comma 2, Reg.), indicando « pubblici
ufficiali », « autorità » o « altre persone » competenti a – rispettivamente –
trasmettere e ricevere gli atti da Stato membro ad altro Stato membro.
La norma non indica espressamente che tali organi debbano essere
necessariamente “decentrati”. Al comma 3 dell’art. 2 è anzi espressamente attribuita a ciascuno Stato membro la possibilità di designare «un unico
organo mittente » e «un unico organo incaricato delle due funzioni ».
A tale stregua, correttamente interpretando tale disposizione nel senso che essa consente agli Stati di designare al riguardo un’Autorità centrale (61), il Regolamento sembra rendere possibile anche soluzioni che,
ove seguite da tutti o gran parte degli Stati membri, vanificherebbero
(59) Che all’art. 10, lett. b), indica la « facoltà per gli ufficiali ministeriali, i funzionari o
le altre persone competenti dello Stato di origine, di far procedere a notificazioni o comunicazioni di atti giudiziari direttamente tramite ufficiali ministeriali, funzionari o altre persone competenti dello Stato di destinazione ».
(60) Anch’esso prevedente la possibilità di una trasmissione degli atti effettuata « direttamente dai pubblici ufficiali dello Stato sul cui territorio si trova il destinatario dell’atto in
questione ».
(61) V. la Relazione esplicativa, sub art. 2, comma 3°, cit., p. 28 ss.
Criticamente, in ordine alla facoltà riconosciuta agli Stati di designare un « unico organo » mittente e/o ricevente o che cumuli le due funzioni, in quanto idonea a ridondare in
termini di « ostacolo » al perseguimento dello scopo avuto di mira dal Regolamento della
trasmissione diretta tra organi locali v. Panzarola, op. cit., p. 1164 ss, ivi alla p. 1165 ss.
Al fine di evitare che mediante la designazione dell’Autorità centrale quale organo
mittente e/o ricevente risulti vanificata la novità del superamento del passaggio attraverso
tale « anello » che il regolamento mira a realizzare, per la prospettazione di una possibile
lettura del comma 3 dell’art. 2 Reg. nel senso che la « unicità » dell’organo designando « andrebbe riferita non alla struttura istituzionale od alla sua competenza, ma alla sua tipologia », sicché « gli Stati avrebbero sì la facoltà di indicare una sola classe o tipologia di organi deputati alla trasmissione ed alla ricezione degli atti, ma non quella di designare un organo che, avendo competenza allargata sull’intero territorio, sarebbe costretto ad avvalersi
di altri organi per condurre a termine l’iter della notifica », v. Ronco, Le notificazioni internazionali intracomunitarie ed il regolamento n. 1348 del 29 maggio 2000, in questa rivista,
2002, p. 400 ss.
SAGGI
793
quella che costituisce invero una delle principali finalità innovative perseguite.
La possibilità di farsi luogo alla designazione dell’Autorità centrale
quale organo mittente e/o ricevente costituisce soluzione mutuata dalla
Convenzione del 1997, quivi adottata quale soluzione di compromesso
per consentire agli Stati membri meno decisi (Regno Unito e Paesi del
nord Europa) di pervenire gradualmente alla soluzione decentrata.
Nella disciplina diretta ed immediatamente vincolante posta dalla fonte regolamentare comunitaria tale previsione sembra peraltro trovare meno sicuro fondamento (62).
Trattasi di soluzione che si appalesa senz’altro idonea a ritardare, o financo vanificare, la portata dell’innovazione, tanto più se prolungata nel
tempo (63).
E in proposito va invero segnalato che anche la stessa Italia, se ha indicato quali organi mittenti (art. 2 Reg.) gli Uffici unici degli Ufficiali giudiziari presso le Corti d’Appello nonché presso i Tribunali non sede di
Corte d’Appello e presso le relative Sezioni distaccate (con competenza
territoriale coincidente, rispettivamente, con il circondario del tribunale
delle relative Sezioni distaccate), ha d’altro canto designato quale organo
ricevente (solamente) l’Ufficio Unico degli Ufficiali giudiziari presso la
Corte d’Appello di Roma.
Lo sfavore del Regolamento per la designazione di un’Autorità centrale quale organo mittente o ricevente si è in dottrina desunto argomentando dal tenore dell’art. 3, comma 3, Reg., in base al quale « la designazione
è valida per un periodo di cinque anni e può essere rinnovata ogni cinque
anni ». Nonché facendosi richiamo al sesto Considerando, ove si ribadisce
la necessità che la « trasmissione degli atti giudiziari ed extragiudiziali avvenga in modo diretto e con mezzi rapidi tra gli organi locali designati dagli Stati membri » (64).
È al riguardo peraltro da chiedersi se l’operato riferimento alla validità
(62) Del resto il quinto Considerando espressamente avverte che si è inteso assicurare
l’esigenza di « salvaguardare la continuità dei risultati conseguiti nell’ambito dei negoziati
per la conclusione della Convenzione. Pertanto, il presente Regolamento recepisce sostanzialmente il contenuto della Convenzione ».
In termini analogamente perplessi, se non addirittura critici al riguardo, v. Giacalone,
op. loc. ultt. citt.
(63) La designazione di un’Autorità centrale quale organo mittente è stata effettuata da
Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord e Gibilterra.
In termini analogamente critici v. Carella, op. cit., p. 137 ss.
(64) V. al riguardo De Cristofaro, op. cit., p. 521.
794
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
della designazione per il circoscritto periodo (rinnovabile) di cinque anni
sia da intendersi esclusivamente in ordine all’ipotesi dell’indicazione dell’Autorità centrale quale organo mittente o ricevente, o non debba ritenersi viceversa riguardare tutte le designazioni, ivi compresa quella delle
autorità decentrate.
Dubbio appare altresì prefigurare l’avvio da parte della Commissione
di procedure d’infrazione avverso la suddetta designazione di Autorità
centrali (65), soluzione invero consentita dalla norma regolamentare.
Il favore del legislatore comunitario per la soluzione decentrata sembra invero emergere piuttosto dall’art. 3, comma 1, lett. c), ove la possibilità per l’Autorità centrale di fungere da tramite tra organi decentrati – trasmettendo il notificando o comunicando atto al « competente organo ricevente » – è prefigurata limitatamente a « casi eccezionali » (66), ad essa
viceversa istituzionalmente attribuendosi (art. 3) i diversi compiti di: a)
fornire informazioni agli organi mittenti; b) ricercare soluzioni per le difficoltà che possono sorgere in occasione della trasmissione di atti ai fini della notificazione o della comunicazione.
L’art. 24 espressamente prevede che entro il 1° giugno 2004, e successivamente ogni cinque anni, venga attuato il riesame della situazione determinatasi in virtù dell’applicazione del Regolamento, con presentazione
da parte della Commissione di una relazione al Parlamento, al Consiglio e
al Comitato economico e sociale, ove particolare attenzione venga riservata al tema dell’efficienza « degli organi designati a norma dell’articolo 2,
nonché dell’applicazione dell’articolo 3, lettera c). . . ».
Trattasi della sede idonea a favorire la possibile individuazione e la
conseguente intrapresa di eventuali iniziative in materia, anche di tipo legislativo.
Nella prima Relazione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale sull’applicazione del Regolamento formulata ex
art. 24 [COM (2004) 603 final d.d. 1° ottobre 2004, non pubblicata nella
G.U.C.E.] la Commissione espone che il Regolamento ha nel complesso
migliorato e accelerato la notificazione e comunicazione di atti tra gli Stati membri anche in virtù della introduzione della possibilità di contratti
(65) In tal senso v. invece De Cristofaro, op. loc. ultt. citt., il quale sostiene che « ove il
mantenimento da parte di uno Stato dell’opzione per un’autorità accentrata ostacolasse il
raggiungimento di tali obiettivi, ne discenderebbe una violazione degli obblighi di conformazione al diritto comunitario, “perseguibile” dalla Commissione tramite l’avvio della procedura di infrazione »
(66) Cfr. Giacalone, op. loc. ultt. citt.; Panzarola, op. cit., p. 1167.
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diretti tra organi addetti a livello locale, pur essendo emersa la necessità
dell’acquisizione di una maggiore padronanza dello strumento.
Nella ravvisata sussistenza di incongruenze e lacune nella disciplina
posta dal Regolamento, il 15 marzo 2005 è stata presentata una Proposta
di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio di modifica del
Regolamento n. 1348 del 2000, volta ad ulteriormente accelerare e semplificare la trasmissione intracomunitaria di atti giudiziari ed extragiudiziali
[COM (2005) 305 final, non pubblicata nella G.U.C.E.].
7. – Ai sensi dell’art. 4, comma 1, Reg., gli atti sono trasmessi « direttamente » e « nel più breve tempo possibile » tra gli organi designati ai sensi
dell’art. 2.
L’organo ricevente dà « al più presto », con « i mezzi più rapidi » e comunque « entro sette giorni » (art. 6, comma 1, Reg.), avviso al mittente
della ricezione dell’atto da notificarsi o comunicarsi.
Ove necessario, esso si mette con quest’ultimo in contatto « il più rapidamente possibile », per ottenere le informazioni o i documenti mancanti (art. 6, comma 2, Reg.); ovvero restituisce gli atti « non appena ricevuti », in caso di impossibilità della notificazione (art. 6, comma 3, Reg.).
Le formalità necessarie per la notificazione o comunicazione sono
espletate « nel più breve tempo possibile », e comunque entro « un mese » dalla ricezione; altrimenti l’autorità richiesta ne dà avviso al mittente.
Emerge evidente come le avvertite esigenze di celerità ed efficienza
informino pervasivamente la normativa regolamentare.
In ordine al mancato rispetto di tali termini non sono tuttavia previste
conseguenze giuridicamente rilevanti sotto il profilo della validità e dell’efficacia della notificazione o comunicazione dell’atto, che ben può pertanto avvenire anche oltre il termine di un mese indicato dall’art. 7, comma 2, Reg.
Il ritardo assume invece senz’altro rilievo sotto il profilo del tempo utile
a consentire la difesa in giudizio ai sensi dell’art. 19, comma 1, Reg. (67).
(67) In argomento v. amplius infra ai §§ 18 e 19. Al riguardo, si noti, nella Relazione ex
art. 24 Reg. del 1° ottobre 2004 la Commissione pone in rilievo che se i tempi necessari a
notificare e comunicare atti sono stati ridotti, oscillando in genere tra 1 e 3 mesi, è in alcuni casi ancora necessario attendere fino a 5 mesi. Al paragrafo 1 della citata Proposta di Regolamento di modifica del Regolamento n. 1348 si introduce pertanto l’obbligo per lo Stato
ad quem di effettuare la notificazione o comunicazione entro 1 mese dalla ricezione dell’atto, e laddove ciò non sia possibile di darne « immediatamente » informazione all’organo
mittente. Continuano a non essere regolamentate, peraltro, le conseguenze giuridiche della trasmissione tardiva dell’atto.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
8. – Come generalmente per tutte le fonti normative comunitarie, anche per il Regolamento la questione linguistica assume, sotto plurimi profili, centrale rilevanza.
Rispetto alla Convenzione dell’Aja del 1965 va anzitutto evidenziata la
novità, quale riflesso del rilievo che l’uso della lingua riveste anche con riferimento al diritto di difesa e al principio del contraddittorio in giudizio,
rappresentata dall’essere le lingue ufficiali non più solamente l’inglese ed
il francese bensì tutte le lingue ufficiali dell’U.E.
Ai fini della trasmissione dall’uno all’altro Stato membro, l’atto notificando o comunicando deve essere redatto nella lingua ufficiale dello Stato (ad quem) ove la notificazione o comunicazione deve essere effettuata
(ovvero, in caso di Paesi con più lingue ufficiali, come ad esempio l’Italia,
in quella – italiano o tedesco – del luogo particolare del medesimo, ad es.
L’Alto Adige); ovvero in una lingua dello Stato mittente compresa dal destinatario.
In caso contrario, ricorre una delle (due) ipotesi eccezionali (68) previste dall’art. 8 Reg. che legittimano il rifiuto di procedere alla trasmissione
da parte dello Stato richiesto, nonché il rifiuto del destinatario di ricevere
l’atto. Di un tanto dovendo essere dato avviso sia al mittente che al destinatario.
Il Regolamento non indica tuttavia quali siano gli effetti del legittimo
rifiuto del destinatario di ricevere l’atto trasmessogli, la cui determinazione è pertanto rimessa alla lex fori (69).
L’atto da notificarsi in Italia deve pervenire all’organo ricevente (l’Uf(68) L’altra ipotesi eccezionale è quella della manifesta estraneità al campo di applicazione: art. 6, comma 3°, Reg.
(69) Nello stesso senso v. Giacalone, op. ult. cit., p. 65; Frigo, op. cit., p. 116. L’art. 8 è
uno dei piò profondamente incisi dalla Proposta di Regolamento di modifica del Regolamento n. 1348, mediante l’introduzione (paragrafo 2) del termine di 1 settimana entro il
quale il destinatario può rifiutare la ricezione dell’atto, rispedendolo al mittente, laddove
stilato in una lingua diversa da quelle ufficiali dello Stato membro ad quem (o del luogo di
esecuzione della notificazione o comunicazione) ovvero di quelle da lui comprese, anche
se si tratta di lingua diversa da quelle ufficiali dell’U.E., non risultando mantenuta la relativa attuale specificazione. Si prevedono altresì le conseguenze del rifiuto della ricezione dell’atto, disponendosi che sia possibile ovviare a tale situazione notificando o comunicando al
destinatario una traduzione dell’atto in una delle lingue ammesse, e che in tal caso la data
di notificazione o comunicazione dell’atto è quella della notificazione o comunicazione
della traduzione. Ad eccezione dell’ipotesi in cui in base alla legislazione di uno Stato
membro un atto debba essere notificato o comunicato entro un dato termine per tutelare i
diritti del richiedente, giacché in tal caso è la data della notificazione o comunicazione dell’atto originale a dover essere presa in considerazione nei confronti del richiedente.
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ficio Unico degli Ufficiali giudiziari presso la Corte d’Appello di Roma) a
mezzo posta, con modulo standard redatto in lingua italiana o francese o
inglese. E con lo stesso mezzo postale viene restituito (70).
9. – L’atto da trasmettersi o comunicarsi (esente da legalizzazioni,
quindi anche in copia), corredato da relativa domanda redatta sulla base
del Formulario (il cui modello è allegato al Regolamento) e nella lingua
ufficiale dello Stato membro richiesto (71), nonché dalla traduzione (a spese del ricorrente, salvo recupero per decisione giudiziale) in una delle lingue di cui all’art. 8 (72), è trasmesso dall’organo mittente all’organo ricevente, quest’ultimo se del caso individuabile con l’ausilio del Manuale istituito ex art. 17 Reg. (73).
Ove territorialmente incompetente, l’organo ricevente non restituisce
gli atti al mittente ma provvede a trasmetterlo all’organo connazionale
competente (74).
Ai sensi dell’art. 138, ult. co., c.p.c., il rifiuto ingiustificato di ricevere l’atto equivale a
notificazione eseguita a mani proprie: v. Ronco, op. cit., p. 403 ss.
(70) V. Comunicazioni degli Stati membri a norma dell’art. 23 del regolamento (CE) N.
1348/2000 DEL Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alla notificazione e alla comunicazione
negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, in
G.U.C.E., C 151/7, 24 maggio 2001.
In argomento v. Frigo, op. cit., p. 114.
(71) O nella lingua del luogo particolare, se lo Stato membro ha più lingue ufficiali. Con
riferimento all’Italia, ad esempio, in italiano o in tedesco, trattandosi di atto da notificarsi in
Alto Adige.
(72) Per l’affermazione che l’art. 8 del Regolamento n. 1348 del 2000 deve essere interpretato nel senso che qualora il destinatario di un atto lo abbia rifiutato in quanto non redatto in una lingua ufficiale dello Stato membro richiesto o in una lingua dello Stato membro mittente che il destinatario comprende, il mittente ha la possibilità di rimediarvi inviando la traduzione richiesta, secondo le modalità previste dal Regolamento e nel più breve tempo possibile in tal modo sonando la situazione. Con riferimento v. Giacalone, op.
loc. ultt. citt., il quale sottolinea come esso è invero previsto anche nella Convenzione dell’Aja del 1965, con la differenza che « nel sistema di questa » la traduzione può essere redatta solamente in lingua inglese o francese.
(73) V. la Decisione 2001/78/CE della Commissione del 25 settembre 2001 che istituisce un
manuale degli organi riceventi e un repertorio degli atti che possono essere notificati o comunicati, in applicazione del regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale, in G.U.C.E., L 298, 15 novembre 2001.
(74) Con riferimento all’ordinamento italiano, ai sensi del combinato disposto di cui
agli artt. 106 e 107 d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229, costituisce principio fondamentale quello dell’attribuzione concorrente della potestà notificatoria all’ufficiale giudiziario del luogo
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
L’organo ricevente competente, inviata a quello mittente la ricevuta di
cui all’art. 6, comma 1, Reg., ed informato il destinatario dell’atto della facoltà di rifiuto per ragioni linguistiche ex art. 8 Reg. (75), procede o fa procedere alla notificazione o comunicazione dell’atto secondo la legge del
suo Stato, redigendo quindi il certificato delle relative attività espletate di
cui all’art. 10 Reg. (76).
Le relative spese e tasse, a meno che non risulti richiesta l’adozione di
un particolare mezzo di notificazione o comunicazione ex art. 11, comma
2, Reg., non possono essere fatte gravare sul richiedente la notificazione o
comunicazione (art. 11, comma 1, Reg.), il quale è pertanto tenuto solamente al pagamento delle spese e delle tasse concernenti il segmento interno del procedimento di notifica relativo all’intervento dell’organo mit-
in cui deve essere eseguita la notificazione ed a quello addetto all’autorità giudiziaria competente a conoscere della causa cui attiene la notificazione: v. Cass., 4 febbraio 1983, n. 940.
Per la competenza promiscua a notificare il ricorso per cassazione v., da ultimo, Cass., 18
marzo 2002, n. 3942, in Giust. civ., 2003, I, p. 2227 ss e in Vita not., 2002, I, p. 325 ss.; Cass.
sez. un., 9 agosto 2001, n. 10969.
Trattandosi di notificazione a mezzo posta, l’ufficiale giudiziario è competente a notificare atti del suo ministero a persone residenti, dimoranti o domiciliate nella sua circoscrizione territoriale, mentre può procedere a notifiche nei confronti di soggetti residenti altrove solo se l’atto si riferisce ad un procedimento che sia o possa essere di competenza del
giudice al quale il notificante è addetto: v. Cass., 6 agosto 2002, n. 11758. La nullità conseguente alla violazione del citato art. 106 d.p.r. n. 1229 del 1959 è peraltro sonata dalla costituzione in giudizio del destinatario dell’atto notificato: v. Cass., 12 novembre 1997, n. 11210.
Per l’affermazione che l’ufficiale giudiziario può procedere a notifiche a mezzo posta « nei
confronti di soggetti residenti altrove . . . se l’atto si riferisce ad un procedimento che sia o
possa essere di competenza del giudice al quale il notificante è addetto » v. recentemente
Cass., sez. un., 23 marzo 2005, n. 6217, in Giust. civ., 2005, I, 2609 n.
Per la nullità, suscettibile di sanatoria, della notificazione effettuata da ufficiale giudiziario (territorialmente) incompetente v. in particolare Cass., 17 gennaio 2003, n. 637; Cass.,
12 febbraio 1999, n. 51, in Boll. trib., 1999, p. 1150, con nota di Voglino, Osservazioni sul regime della prova presuntiva nell’accertamento analitico-induttivo dei redditi determinati in base alle scritture contabili e in Gazzetta giur., 1999, fasc. 6, IV, p. 64 ss.; Cass., 28 agosto 1998,
n. 8557.
In ordine all’inconfigurabilità viceversa di alcuna questione di limite territoriale con riferimento alla potestà notificatoria dell’avvocato delineata dalla L. 31 gennaio 1994, n. 53, v.
Cass., 25 giugno 2003, n. 10077; Cass., 19 febbraio 2000, n. 1938. Per la radicale nullità della
notificazione effettuata viceversa dal dottore commercialista v. Cass., 2 maggio 2001, n.
6166, in Foro it., 2001, I, 1833 n.
(75) V. supra al § 8.
(76) Il certificato in questione è peraltro privo di rilevanza ai fini della validità ed efficacia della notificazione, avendo funzione meramente probatoria in ordine ai tempi e alle
modalità della notifica.
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tente (a quo); gli Stati membri possono peraltro prevedere che alcune spese siano a carico del richiedente per l’intervento di un pubblico ufficiale o
di altro soggetto (77). È fatta in ogni caso salva l’eventuale applicazione del
gratuito patrocinio (art. 21 Reg.) (78).
La trasmissione di atti può essere effettuata « con qualsiasi mezzo appropriato », purché idoneo ad assicurare le condizioni di leggibilità, fedeltà
e conformità tra documento spedito e ricevuto (settimo Considerando).
Oltre all’atto scritto, senz’altro idonei debbono ritenersi i sistemi di
trasmissione informatici o elettronici, come il telex ed il telefax, nonché
mediante telecopia o posta elettronica (79).
Il Regolamento contiene al riguardo una importante valvola di apertura, idonea a consentirne l’adeguamento all’esito dell’evoluzione dei sistemi di notificazione, essendo in argomento la Commissione tenuta a fare
periodica relazione, con relative proposte, al Parlamento, al Consiglio ed
al Comitato economico e sociale (art. 24 Reg.).
10. – L’art. 9 Reg. riveste fondamentale rilievo in tema di individuazione della data di perfezionamento della notificazione o comunicazione.
La norma si presenta di non facile lettura, in quanto frutto di com-
(77) Per la normale gratuità dei servizi espletati dall’Amministrazione dello Stato membro richiesto, e la previsione che alcune spese possono essere poste a carico del richiedente
solamente nel caso in cui le formalità di notificazione siano espletate da privati, v., con riferimento alla Convenzione del 1997, la Relazione esplicativa, cit., p. 34, ove altresì si precisa che gli Stati membri hanno la possibilità di chiedere un anticipo sulle spese di cui al comma 2° dell’art. 11, « prima dell’avvio della procedura di notificazione », secondo le indicazioni al riguardo precisate nel Manuale approntato dal Comitato esecutivo.
Il problema delle spese di notificazione e comunicazione degli atti è stato segnalato
dalla Commissione, nella sua prima relazione ex art. 24 Reg. n. 1358 del 2004, come uno dei
piò avvertiti dagli Stati membri, anche in ragione delle sensibili differenze palesate dai relativi sistemi.
Nel Progetto di Regolamento di modifica del Regolamento n. 1348 viene pertanto previsto (al paragrafo 4) che per agevolare l’accesso alla giustizia le spese occasionate dall’intervento di un ufficiale giudiziario o di altro soggetto competente a norma della legislazione dello Stato membro richiesto devono corrispondere ad un diritto forfettario, il cui importo è fissato preventivamente dal Paese in questione nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione, tenendo conto dell’importo dei diritti forfettari vigenti per notificare o comunicare gli atti.
(78) Criticamente, in ragione della scarsa chiarezza della norma, che si limita a richiamare le disposizioni delle Convenzioni dell’Aja sulla procedura civile del 1905 e del 1954, e
della Convenzione sull’accesso internazionale alla giustizia del 25 ottobre 1980, v. Giacalone, op. ult. cit., p. 66.
(79) Contra v. peraltro Ronco, op. cit., p. 402 ss.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
promesso tra diversi sistemi e differenti concezioni, che nemmeno la
« comunitarizzazione » della precedente regola pattizia è riuscita a superare.
Lo scopo di pervenire all’individuazione di un’unica data di perfezionamento della notificazione o comunicazione valevole sia per il mittente
che per il destinatario dell’atto è rimasto infatti vano già in occasione della negoziazione della Convenzione dell’Aja del 1965, non essendosi all’epoca riusciti a mediare tra il sistema di matrice francese della cd. signification au parquet (o della notificazione cd. fittizia), volto a privilegiare le esigenze del richiedente la notifica o mittente (e, con riferimento al processo, l’attore), ed il sistema tedesco, viceversa più garantista ed attento a privilegiare le esigenze di tutela del destinatario della notifica (con riferimento al processo, il convenuto).
Tale risultato non è stato conseguito neanche dalla Convenzione del
1997 che, a fronte della previsione dell’applicabilità al riguardo della legge
dello Stato ad quem, contempla la possibilità di farsi luogo all’applicazione della legge dello Stato mittente, in caso di giudizio ivi da iniziarsi o pendente (lex fori).
Il cd. principio della scissione (soggettiva) tra il momento del compimento o perfezionamento della notificazione o comunicazione con riferimento alla parte istante o mittente ed il diverso momento di perfezionamento della notificazione viceversa valevole per il destinatario dell’atto,
con conseguente formale riconoscimento della rilevanza di una duplice
data di perfezionamento della notificazione (80), è stato quindi recepito nel
Regolamento, che della Convenzione ha (anche in argomento) sostanzialmente ripreso la formulazione.
Non condivisibile si appalesa, a tale stregua, la tesi secondo cui l’entrata in vigore delle disposizioni del Regolamento assicura ormai al riguardo l’individuazione di « una data precisa ed uniforme per tutti gli Stati » (81).
Del pari non accoglibile, in quanto privo di positivo fondamento, appare l’assunto (invero espresso con riferimento all’ordinamento italiano e
(80) Tale fenomeno appare pertanto distinto da quello della dissociazione tra momento
della perfezione e quello dell’efficacia della notificazione con riferimento ad un unico soggetto, ad es. il destinatario dell’atto. Al riguardo, con riferimento all’art. 143, ult. comma,
c.p.c., nella formulazione introdotta dal legislatore del 1940, v. Tarzia, Perfezione ed efficacia della notificazione a destinatari irreperibili o all’estero. Problemi del processo civile di cognizione, Padova, 1989, p. 492 ss., e già in Riv. dir. proc., 1964, p. 658 ss.
(81) In tal senso v. Panzarola, op. cit., p. 1162.
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rimasto pressoché isolato) secondo cui il principio della scissione non introdurrebbe un « doppio momento perfezionativo della notificazione », rimanendo questo in ogni caso « uno solo » per entrambi i soggetti, quello
valevole per il destinatario dell’atto (82).
Con riferimento all’art. 9 Reg., va osservato che i primi due commi di
cui esso si compone vengono in applicazione non già alternativamente
bensì cumulativamente, sicché la notificazione o comunicazione ben può
(82) In tali termini v. Glendi, Le nuove frontiere della « notificazione » dopo la sentenza n.
477/2002 della Corte Costituzionale, in nota a Corte cost., 26 novembre 2002, in GT – Riv.
giur. trib., 2003, p. 322 ss., il quale precisa che riguardo al notificante, anziché di perfezionamento anticipato, è bene parlare di retroattività degli effetti della notificazione o, meglio
ancora, d’inoperatività quad tempus degli effetti decadenziali o prescrizionali a suo carico
dal momento della richiesta notificazione successivamente perfezionatasi.
In proposito v. quanto peraltro diversamente affermato, con riferimento agli artt. 139 e
148 c.p.c. da Corte cost., 23 gennaio 2004, n. 28, in Foro it., 2004, I, c. 645 ss., con nota di
Caponi, Sul perfezionamento della notificazione nel processo civile (e su qualche disattenzione
della Corte Costituzionale) e in Giur. it., 2004, p. 939 ss., con nota di Delle Donne, Il perfezionamento della notifica per il notificante tra diritto di difesa e principio del contraddittorio:
riflessioni a margine di un recente intervento interpretativo della Consulta e in Corriere giur.,
2004, p. 1307 ss., con nota di Glendi, La notificazione degli atti dopo l’intervento della Corte
Costituzionale e in Corriere trib., 2004, p. 773 ss., con nota di Glendi, In tutte le notificazioni
vale per il notificante la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario e in Riv. crit. dir. lav., 2004,
p. 43 ss., con nota di Balestro, La “doppia personalità” della notifica e in Rass. locaz., 2004,
p. 116 ss., con nota di Spagnuolo, La notificazione dell’atto giudiziario si perfeziona al momento della consegna all’ufficiale giudiziario e in GT – Riv. giur. trib., 2004, p. 305 ss., con nota di Bruzzone; nonché, in relazione agli artt. 140, 647 e 138 c.p.c., da – rispettivamente –
Corte cost. (ord.), 12 marzo 2004, n. 97, Corte cost., 24 marzo 2004, n. 107 e da Corte cost.
(ord.), 28 aprile 2004, n. 132, tutte in Corriere giur., 2004, p. 1308 ss., con nota di Glendi, La
notificazione degli atti dopo l’intervento della Corte Costituzionale.
Per la distinzione dei due momenti del perfezionamento per l’istante e dell’efficacia per
il destinatario previsti dall’art. 142 c.p.c., ravvisata come « non toccata » dalla declaratoria
d’incostituzionalità dell’art. 143 c.p.c. pronunziata da Corte cost. n. 10 del 1978, ma viceversa travolta dalla modifica legislativa introdotta dalla L. n. 42 del 1981 che, nell’aggiungere
un comma all’art. 142 c.p.c. in base al quale non è più la presunzione prevista all’ultimo
comma dell’art. 143 c.p.c. ad essere subordinata alla « accertata impossibilità » di eseguire la
notificazione secondo le convenzioni internazionali e la legge consolare, «ma è lo stesso
procedimento notificatorio dell’art. 142 c.p.c. che viene meno, salvo che “risulti impossibile” ricorrere ai suddetti strumenti », è venuta a sovvertire il precedente sistema di notificazione
all’estero, e, dovendosi appunto prescindere dalle formalità dell’art. 142 c.p.c., ad abolire la
« distinzione fra momento perfezionativo per l’istante e momento di efficacia per il destinatario », sicché prevale « comunque il momento della consegna », v. Carpi, sub art. 10, in
Carpi-Ciaccia Cavallari, Legge 6 febbraio 1981, n. 42. Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa alla notifica all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, adottata a l’Aja il 15 novembre 1965, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 375.
802
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
perfezionarsi in momenti diversi, uno valevole per il richiedente o mittente e
l’altro viceversa per il destinatario dell’atto (83).
Al comma 3 del medesimo articolo 9 gli Stati membri vengono peraltro autorizzati a derogare, in tutto o in parte, a tale sistema.
Si richiede che la deroga avvenga per « giusti motivi », e per « un periodo transitorio di cinque anni », potendo essere tuttavia dagli Stati rinnovata « ogni cinque anni », per « motivi connessi con i loro ordinamenti
giuridici ». E così di seguito, senza un termine finale predeterminato o
predeterminabile.
Della possibilità di avvalersi della deroga in questione si sono in effetti avvalsi numerosi Stati membri, per ragioni riflettenti le differenti valutazioni già in passato in proposito manifestate e da ultimo ribadite in sede
di negoziazione della Convenzione nonché di consultazioni prodromiche
all’adozione del Regolamento.
Così, mentre alcuni Stati hanno dichiarato di non voler applicare le disposizioni del comma 2 dell’art. 9, in ragione di esigenze di « certezza giuridica » e del « diritto alla tutela giuridica » ravvisate ostative a che « venga
considerata data della notificazione una data diversa da quella prevista al
paragrafo 1» (84) (Spagna) in quanto l’« esistenza di due date di notificazione e di comunicazione distinte, da fissare in riferimento a due ordinamenti giuridici distinti, crea una situazione di indeterminatezza e ambiguità che va a discapito della certezza del diritto » (Portogallo), altri Stati
(Francia) hanno espresso viceversa la volontà di derogare al comma 1 dell’art. 9. Sempre nell’asserito « intento di garantire la certezza del diritto »,
ma riguardando tale certezza alla stregua dell’esclusivo profilo dell’interesse del richiedente a « conoscere senza indugio e con sicurezza la data di
rilascio dell’atto » (85).
Deroghe hanno altresì comunicato il Belgio (anche per gli atti extra-
(83) V. al riguardo la Relazione esplicativa, cit., sub art. 9, C/261/33: « Tenuto conto di
talune legislazioni, una situazione siffatta potrebbe, per esempio, registrarsi nel caso in cui
una citazione interrompa una prescrizione e contenga un invito a comparire », dovendosi
fare in tal caso riferimento alla legislazione dello Stato mittente (a quo) per quanto concerne il momento dell’interruzione della prescrizione nei confronti del richiedente, e alla
legislazione dello Stato ad quem per il calcolo del termine di comparizione.
(84) La data di notificazione o comunicazione al destinatario secondo la legge dello Stato richiesto.
(85) Al riguardo la Francia ha sintomaticamente dichiarato che l’interesse del richiedente la notifica impone di considerare quale data della notificazione o comunicazione esclusivamente « la data della trasmissione dell’atto da parte dell’organo mittente francese »: v.
Comunicazioni degli Stati membri, cit., sub art. 9, p. 7.
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803
giudiziali), l’Irlanda, l’Olanda, la Finlandia, la Svezia ed il Regno Unito (86).
L’Italia ha, per parte sua, al contrario dichiarato di non voler derogare
dall’applicazione del sistema posto dall’art. 9 Reg. (87), che pertanto accetta nella sua complessiva formulazione e portata.
Un tanto evidentemente si spiega in considerazione del fatto che la
scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio costituisce, all’esito delle declaratorie d’incostituzionalità dell’art.
143, ultimo comma, c.p.c. (88) e degli artt. 142, 3° comma, e 143, 3° comma, nonché 680 c.p.c. (in tema di sequestro conservativo) (89), principio
ormai dall’ordinamento italiano recepito in termini generali, e non solo
con riferimento alla notificazione all’estero (90).
11. – Il principio della scissione (soggettiva) risulta essere stato nell’ordinamento introdotto in conseguenza della ravvisata insufficienza ed illegittimità del sistema di matrice francese della remise au parquet, dal legi-
(86) V. Comunicazioni degli Stati membri, cit., passim.
(87) V. Comunicazioni degli Stati membri, cit., p. 9 nonché Primo aggiornamento delle comunicazioni degli Stati membri, in G.U.C.E., C 202, 18 luglio 2001 (sub art. 9).
Deroghe non apportato nemmeno Austria, Belgio, Lussemburgo e Grecia: cfr. Biavati, op. cit., p. 512 ss., ivi alla p. 517.
(88) V. Corte cost., 2 febbraio 1978, n. 10, in Foro it., 1978, I, c. 550 ss., con nota di Proto
Pisani e in Nuove leggi civ. comm., 1978, p. 889 ss., con nota di Carpi e in Giur. cost., 1978, I,
p. 54 ss. e p. 787 ss., con nota di Andrioli e in Giust. civ., 1978, III, p. 93 ss. e in Giur. it., 1978,
I, 1, c. 1397 ss. e in Riv. dir. int. priv. proc., 1978, p. 549 ss., che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 143, ultimo comma, c.p.c., nella parte in cui non prevedeva, per quanto attiene all’operatività della notifica nei confronti del destinatario dell’atto da notificare,
nei casi previsti dall’art. 142 c.p.c., che la sua applicazione fosse subordinata all’accertata
impossibilità di eseguire la notificazione nei modi consentiti dalle Convenzioni internazionali e dal d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 200, recante nuove disposizioni sulle funzioni e sui poteri consolari.
(89) V. Corte cost., 3 marzo 1994, n. 69, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 399 ss., con
nota di Campeis-De Pauli, La tutela del richiedente la notificazione all’estero fra novelle legislative ed interventi della Corte Costituzionale e in Giur. cost., 1994, p. 740 ss., con nota di
Soana e in Foro it., 1994, I, c. 2336 (con ampia nota di richiami) e in Giust. civ., 1994, I, p.
1164 ss. e in Riv. dir. int. priv. proc., 1994, p. 79 ss. e in Riv. dir. int., 1994, p. 193 ss., che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 142, comma 3, 143, comma 3, e 680, comma
1, c.p.c., nella parte in cui essi non prevedevano che la notificazione all’estero del sequestro
si perfezioni, ai fini dell’osservanza del prescritto termine, con il tempestivo compimento
delle formalità imposte al notificante dalle Convenzioni internazionali e dagli artt. 30 e 75
d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 200.
(90) Nel senso che debba considerarsi permanere un carattere di pur attenuata internazionalità delle notifiche intracomunitarie v. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 252.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
slatore italiano del 1940 accolto all’art. 142 c.p.c. (91), a salvaguardare (stante il carattere formalistico che lo connota risolventesi in una notificazione
meramente fittizia, in grado di realizzare una conoscenza meramente legale dell’atto trasmesso) l’interesse (viceversa) del destinatario-convenuto
ad una conoscenza reale ed effettiva, e, conseguentemente, a garantire il rispetto del suo diritto di difesa (art. 24 Cost. ) (92).
Proprio all’esito della declaratoria d’incostituzionalità di tale sistema
della remise au parquet o della cd. notificazione fittizia, idonea a consentire la produzione di effetti nei confronti del destinatario a prescindere dal
pervenimento dell’atto nella sua sfera di conoscenza (93), il legislatore si è
quindi indotto a dare finalmente ingresso nell’ordinamento (con ben sedici anni di ritardo) alla Convenzione dell’Aja del 1965, emanando la relativa legge di ratifica 6 febbraio 1981, n. 42 (94).
(91) Cfr. Carpi, op. ult. cit., p. 373 ss., ivi alla p. 374 ss., nota 8, il quale pone in rilievo come la Francia abbia peraltro « modificato a fondo la propria legislazione (cfr. art. 683 ss.
nuovo c.p.c.), ispirandosi appunto alla convenzione dell’Aja del 1965, che essa ha ratificato
fin dal 1972 con decreto 72-1019 del 9 novembre ».
L’istituto della remise au parquet trova attualmente applicazione in Olanda, Belgio,
Lussemburgo e Grecia: v. Panzarola, op. cit., p. 1183, nota 100.
(92) Osserva Carpi, op. loc. ultt. citt., che « La Corte costituzionale nel 1978 si è mossa
sulla scia di precedenti interventi a tutela del diritto di difesa che, a giudizio della Corte,
non è rispettato quando si faccia ricorso ad una forma di notifica dalla quale deriva una presunzione legale di conoscenza, pur essendo possibile una notificazione tale da portare il
contenuto dell’atto nella effettiva sfera di conoscibilità del destinatario. . . La corte ha, cioè,
giustamente privilegiato la conoscenza effettiva e reale rispetto a quella presunta. . . ».
Per la riaffermazione dell’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di
una tempestiva conoscenza dell’atto notificato, quale espressione del diritto costituzionale di
difesa e « limite inderogabile » che il legislatore incontra nel porre discrezionalmente la disciplina delle notificazioni, v. recentemente Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 360, cit.; Corte cost., 23 settembre 1998, n. 346, cit.
(93) In ordine al sistema posto dal legislatore del 1942 agli artt. 142 e 143 nella loro originaria formulazione v. Tarzia, Perfezione ed efficacia della notificazione a destinatari irreperibili o all’estero, in Riv. dir. proc., 1964, p. 653 ss.; Carnelutti, Note in margine alle leggi
processuali, in Riv. dir. proc., 1962, p. 599 ss., per il quale tale tipo di notificazione finiva peraltro « per avere due date, secondo che si tratti del compimento degli atti ad opera del notificante, oppure della acquisizione della conoscenza da parte del notificando ».
(94) Al riguardo v. Politi, La convenzione dell’Aja del 1965 sulle notificazioni civili all’estero e le notifiche a cura dei consoli italiani, in Riv. dir. int., 1983, p. 575 ss.; Carpi-Ciaccia
Cavallari, Notificazioni all’estero in materia civile e commerciale, in Nuove leggi civ. comm.,
1982, p. 321 ss.; Pocar, Note sull’esecuzione italiana della convenzione de L’Aja del 1965 sulle
notificazioni all’estero, in Riv. dir. int. priv. proc., 1982, p. 574 ss.; Proto Pisani, In tema di notifica all’estero e di modifica degli artt. 142 e 143 c.p.c., in Foro it., 1981, I, c. 1970.
SAGGI
805
Emerge evidente, già alla stregua di quanto fin qui osservato, che all’adozione del principio della scissione nell’ordinamento italiano abbia
presieduto una logica (esigenza di tutela del destinatario della notificazione/convenuto) esattamente contraria rispetto a quella che tale principio ha
condotto ad accogliere nel Regolamento (tutela dell’interesse del mittente
o richiedente la notifica/attore).
L’applicazione del principio della scissione, dapprima affermata con riferimento alla notificazione ex artt. 142 e 143 c.p.c. (95), e successivamente
considerata applicabile a tutti i casi di notifica all’estero (96), è stata nel
tempo ulteriormente estesa fino ad essere considerata riferibile « ad ogni
tipo di notificazione », anche con riferimento a quella cd. « interna »: non
solo se effettuata a mezzo del servizio postale (97), ma anche, facendosi ri(95) V. Corte cost., 3 marzo 1994, n. 69, cit.
(96) V. Corte cost., 22 ottobre 1996, n. 358, in Foro it., 1997, I, c. 1006 ss., con nota di
Gambineri, In tema di notifiche all’estero e in Giur. it., 1997, I, 1, c. 448 ss., con nota di M.
De Cristofaro, Sui termini per la notifica all’estero nel processo cautelare e sulla conseguente articolazione del procedimento iniziato inaudita altera parte e in Riv. dir. proc., 1998, p. 895
ss., con nota di Valcavi, In ordine a taluni dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 669 octies cod. proc. civ. in caso di notificazione all’estero e in Giust. civ., 1997, I, p. 604 ss. e in Riv.
dir. int. priv. proc., 1997, p. 681 ss. e in Riv. dir. int., 1997, p. 240 ss.
(97) V. Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477, in Giur. it., 2003, p. 626 ss., con nota di Simonetti, Il perfezionamento delle notificazioni a mezzo posta tra costituzione e “diritto vivente”: ovvero la Cassazione suona (sempre) due volte alla porta della Consulta e p. 1549 ss., con
nota di Dalmotto, La Corte manipola la norma sul perfezionamento della notifica postale:
vecchie alternative e nuovi problemi e in Foro it., 2003, I, c. 13 ss., con nota di Caponi, La notificazione a mezzo posta si perfeziona per il notificante alla data di consegna all’ufficiale giudiziario: la parte non risponde delle negligenze di terzi e in Corriere giur., 2003, p. 23 ss., con
nota di Conte, Diritto di difesa ed oneri della notifica. L’incostituzionalità degli artt. 149 cod.
proc. civ. e 4, comma 3, Legge 890/82: una “rivoluzione copernicana”? e in Giur. cost., 2003, p.
1068 ss., con nota di Basilico, Notifiche a mezzo del servizio postale e garanzie per le parti e
in Arch. civ., 2003, p. 861 ss., con nota di Dell’Agli, Ancora una pronuncia della Corte Costituzionale in tema di notifiche a mezzo posta: autentico corollario di tutela del diritto di difesa e differenti effetti di notifica per il notificante e per l’accipiens e in Riv. dir. trib., 2003, II, p.
131 ss., con note di Lupi, Sulla legittimità della costituzione in giudizio a mezzo posta, con
spedizione degli atti entro i termini per la costituzione, di Scalinci, Modi e tempi ragionevoli
nel processo tributario ed effettività del diritto di difesa: in attesa della svolta telematica e di
Canino, La costituzione in giudizio del ricorrente dopo l’intervento della corte costituzionale e
in GT – Riv. giur. trib., 2003, p. 319 ss., con nota di Glendi e in Corriere trib., 2003, p. 151 ss.,
con nota di Bruzzone e in Foro amm., 2003, I, p. 861 ss., con nota di Cogliani, Notificazioni: tempestività e garanzie del contraddittorio e in Dir. e giust., 2002, fasc. 44, p. 21 ss., con nota di Giacalone, Nuove regole per le notificazioni a mezzo del servizio postale. Diverso il momento di efficacia per mittente e destinatario e in Rass. locaz., 2002, p. 501 ss., con nota di
Spagnuolo, La notificazione dell’atto giudiziario a mezzo del servizio postale con la scissione
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
corso all’interpretazione (non già letterale bensì) sistematica dell’art. 149
c.p.c, a quella « eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario » (98).
Con conseguente generalizzazione del principio secondo cui il mittente o richiedente la notificazione non risponde degli effetti sfavorevoli che
conseguono al compimento delle relative formalità sfuggenti alla sua disponibilità e ai suoi poteri di controllo (99).
temporale tra il perfezionamento per il notificante e l’efficacia per il destinatario; Corte cost., 3
marzo 1994, n. 69, cit.
In tema di notificazione postale v. anche Corte cost., 23 settembre 1998, n. 346, cit., che
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, 2° comma, L. 8 novembre 1982, n. 890
nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle
persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento;
nonché dell’art. 8, comma 3°, della medesima legge nella parte in cui non prevede che il
piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.
(98) Così Corte cost., 23 gennaio 2004, n. 28, cit.
(99) V. Campus, Notificazioni a mezzo posta e principio di sufficienza delle “formalità” che
non sfuggono alla disponibilità del notificante, in Studium iuris, 2003, p. 685 ss.
Peraltro, per l’affermazione secondo cui « A ben vedere, però, tra le righe della motivazione può trarsi un argomento che conduce ad una limitazione dell’ambito applicativo
del principio espresso dalla Corte Costituzionale con la pronuncia 477/2002 e che non consente la sua applicazione all’infuori dei casi analoghi. Essa, infatti, afferma espressamente
che è “. . . palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che
un effetto di decadenza possa discendere – come nel caso di specie – dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante ma a soggetti diversi (l’ufficiale
giudiziario e l’agente postale)”. In altri termini, dal testuale riferimento agli effetti di decadenza deriva che solo nei casi in cui la notificazione rappresenta il dies ad quem, la consegna
del piego all’ufficiale giudiziario è atto idoneo a evitare il prodursi della decadenza medesima. . . La pronuncia della Consulta, quindi, trae origine da una fattispecie ben determinata:
si tratta, infatti, di un effetto di decadenza (processuale) al quale la parte può sottrarsi attraverso la notificazione dell’atto di impugnazione. . . Del resto, l’argomento che impone di interpretare la decisione della Consulta tenendo conto della motivazione e dell’ambito nel
quale è sorta la questione di costituzionalità è stato preso in considerazione, più volte, dalla prevalente giurisprudenza per delimitare e chiarire la portata dei principi enunciati dalla
Corte Costituzionale. . . In conclusione, stando all’indirizzo giurisprudenziale suesposto,
deve escludersi che, per la determinazione del momento dal quale prendono a decorrere i
dieci giorni per iscrivere la causa a ruolo, possa trovare applicazione la regola della consegna
dell’atto all’ufficiale giudiziario, quale momento perfezionativo del procedimento notificatorio di cui all’art. 149 c.p.c. », v. Rusciano, Decorrenza del termine per la costituzione dell’attore, in Riv. dir. proc., 2004, p. 908 ss., ivi alla p. 911 e p. 914 ss., ivi alla p. 915, la quale ritiene
altresì « criticabile nelle sue premesse » la soluzione secondo cui il momento di decorrenza
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807
L’adozione del principio della scissione è stata dalla Corte Costituzionale (100) e dalla Corte di Cassazione (101) spiegata con la ravvisata sua
del termine di cui all’art. 165 c.p.c. è da individuarsi nella consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, in quanto « vi è un dato legislativo che induce l’interprete a preferire la tesi che
esclude qualsiasi incidenza alla pronuncia della Corte Costituzionale sul problema in esame: l’art. 4, comma 4°, della già citata l. 20 novembre 1982, n. 890 – non oggetto di sindacato di costituzionalità da parte della Consulta – dispone testualmente che “i termini, che decorrono dalla notificazione eseguita per posta, si computano dalla data di consegna del piego risultante dall’avviso di ricevimento e se la data non risulti, ovvero sia comunque incerta, dal bollo apposto sull’avviso medesimo dall’ufficio postale che lo restituisce”». Concludendo al riguardo: « Anche a seguito della pronuncia di incostituzionalità del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4, comma 3°, della l. 890/1982, il dato legislativo induce
a ritenere che ai fini della tempestività o meno della costituzione in giudizio dell’attore occorre fare riferimento alla data di consegna del piego al destinatario, ovvero al momento di
perfezionamento del procedimento notificatorio per tutte le parti del giudizio ».
(100) V. Corte cost., 3 marzo 1994, n. 69, cit.; e, da ultimo, le citate Corte cost. n. 28 del
2004, Corte cost. (ord.) n. 97 del 2004; Corte cost. n. 107 del 2004 e Corte cost. (ord.) n. 132
del 2004. Con riferimento a quest’ultime, osserva peraltro Rusciano, op. cit., p. 925 ss., che
«. . . sembra emergere, tra le righe, l’intenzione della Corte di limitare il principio di perfezionamento unitario della notificazione alla decorrenza dei termini per l’esercizio dei poteri che sorgono in capo al solo destinatario per effetto della notificazione non anche per
quelli che nascono dalla notificazione medesima per il notificante. In sostanza, con la sentenza 28/2004 sembra che la Corte Costituzionale, nel generalizzare il principio enunciato
in precedenza (prima con riferimento alle notifiche all’estero, poi con riguardo a quelle effettuate a mezzo posta), scinda il momento perfezionativo della notificazione, quando essa
rappresenta il dies a quo per la decorrenza di termini perentori, a seconda che vengano in rilievo oneri per il destinatario o per il notificante: nel primo caso, occorre avere riguardo al
momento in cui l’atto è conosciuto (o quanto meno conoscibile) dal “notificato”; nel secondo caso, invece, il termine iniziale coincide con la spedizione del piego all’ufficiale giudiziario ». Mentre, con riferimento alla sentenza n. 107 del 2004, l’a. rileva che la Consulta
« ha adottato una soluzione che prima facie può definirsi ibrida: da un lato, essa ha inteso
esprimere la propria adesione all’orientamento che identifica il momento di decorrenza del
termine per la costituzione in giudizio dell’attore nella ricezione dell’atto da parte del soggetto « notificato »; dall’altro ha ribadito la possibilità per il notificante di costituirsi in un
momento anteriore. Detta sentenza, vista la sua natura non vincolante, non fornisce una sicura soluzione al problema in esame e si inserisce, forse, tra quelle pronunce della Consulta che entrano nel merito di questioni rilevanti di interpretazione, non costituzionalmente
necessitate ».
(101) V. Cass., sez. un., 5 marzo 1996, n. 1729, in Giust. civ., 1996, I, p. 669 ss., con nota
di Murra, Notificazione a mezzo posta: sancita la diversa decorrenza degli effetti tra notificante e destinatario e in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 803 ss., con nota di Dalmotto, Il
responso delle Sezioni Unite sul momento perfezionativo della notificazione a mezzo posta all’assente e in Corriere giur., 1996, p. 648 ss., con nota di Conte, Sul perfezionamento della notificazione a mezzo posta e in Foro it., 1996, I, c. 1234 ss. e in Giur. it., 1996, I, 1, c. 1196 ss. e
in Arch. civ., 1996, p. 1137 ss. Conformemente v. Cass., 19 maggio 2003, n. 7839; Cass., 24
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
maggiore idoneità a garantire la tutela dell’interesse dell’attore, tenuto a
compiere un’attività processuale entro termini perentori, la cui erosione si
è avvertito essere violativa del relativo diritto di difesa.
Si è presa in considerazione, in particolare, l’ipotesi in cui « la notificazione viene in rilievo come compimento di attività da parte del notificante, alla quale si collega il rispetto di un termine posto dalla legge a suo carico, quale è, ad esempio, il termine per proporre impugnazione » (102).
Avuto riguardo al sistema della notificazione a mezzo del servizio postale, e in particolare alle ipotesi di cui all’art. 8 L. n. 890/92 (rifiuto di ricevere l’atto da parte delle persone abilitate; mancanza o inidoneità o as-
marzo 2004, n. 13065: « In tema di notificazioni, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 – dichiarativa della illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 del codice di procedura civile e dell’art. 4, terzo comma, della legge 20
novembre 1982, n. 890, nella parte in cui prevede che la notificazione di atti a mezzo posta
si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario –, e come dalla Corte Costituzionale ribadito anche nella sentenza n. 28 del 2004, nell’ordinamento deve ritenersi operante un principio generale in base al quale, qualunque sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale, almeno quando debba compiersi entro un determinato termine, si intende perfezionata in momenti diversi rispettivamente per il richiedente e per il destinatario della notifica, le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte di quest’ultimo dovendo contemperarsi con il diverso interesse del primo a non subire le conseguenze negative derivanti dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio per la parte di questo sottratta alla sua disponibilità ». Nello stesso senso v. Cass., sez. un., 4 maggio
2006, n. 10216; Cass., 16 marzo 2006, n. 5853; Cass. 7 febbraio 2006, n. 2593; Cass., 11 gennaio 2006, n. 239; Cass., 17 novembre 2005, n. 23294; Cass., 16 novembre 2005, n. 23089;
Cass., 28 luglio 2005, n. 15809; Cass., 26 luglio 2005, n. 15616; Cass., 1 aprile 2005, n. 6836;
Cass. 2 settembre 2004, n. 17714, in Boll. Trib. inf., 2005, 881 n.; Cass., 11 giugno 2004, n.
11140, in Foro it., 2004, I, c. 2356 ss., con nota di Caponi, Sulla legittimazione dell’ufficiale
giudiziario a notificare il ricorso per cassazione a mezzo del servizio postale; Cass., 13 aprile
2004, n. 7018; Cass., 8 aprile 2004, n. 6906; Cass., 1° aprile 2004, n. 6402; Cass., 19 gennaio
2004, n. 709; Cass., 3 luglio 2003, n. 10481, cit.; Cass., 19 maggio 2003, n. 7839; Cass., 27 agosto 2002, n. 12544.
Contra, nel senso che il termine per il deposito del ricorso per cassazione, ex art. 369
c.p.c., decorra dalla data nella quale il procedimento notificatorio si è perfezionato anche
per il destinatario, e, quindi, nel caso della notifica effettuata a mezzo posta, dalla data di ricezione dell’atto, certificata nell’avviso di ricevimento, v. Cass., 8 settembre 2004, n. 18087.
V. altresì Cass., 30 maggio 2003, n. 8720; Cass., 29 novembre 2002, n. 16992, in Arch. civ.,
2003, p. 372 ss.; Cass., 22 maggio 2002, n. 7503; Cass., 4 aprile 2002, n. 4825; Cass., 4 gennaio 2002, n. 70, in Foro it., 2002, I, c. 1792 ss., con nota di Barone; Cass., 18 settembre 2001,
n. 11744; Cass., 28 ottobre 1999, n. 12108; Cass., 11 giugno 1999, n. 5738; Cass., 4 febbraio
1999, n. 965; e già Cass., Sez. Un., 3 aprile 1989, n. 1605.
(102) Così Cass., sez. un., 5 marzo 1996, n. 1729, cit.
SAGGI
809
senza delle stesse; temporanea assenza del destinatario), nel ravvisarne
una « sostanziale identità » con la fattispecie della notificazione eseguita ai
sensi dell’art. 143 c.p.c., si è in giurisprudenza di legittimità ritenuto « razionale che la tempestività dell’atto si consideri verificata con il compimento, appunto, di quell’attività, restando indifferente, a tal fine, l’ulteriore vacatio temporale prevista dalla legge », trattandosi di decorso temporale meramente preordinato a favorire la possibilità di presa di conoscenza dell’atto da parte del destinatario o comunque a tenere, per la durata del medesimo, quest’ultimo indenne dagli effetti sfavorevoli (decorrenza di termini e simili) dell’attività del notificante (103).
La generalizzazione dell’applicazione del principio della scissione in
campo processuale, con conseguente emersione di un vero e proprio principio generale secondo cui gli effetti della notificazione debbono essere riconosciuti a vantaggio del notificante in conseguenza del compimento
delle sole formalità che non sfuggono alla di lui disponibilità, ha consentito, secondo quanto dalla stessa Corte Costituzionale affermato, di evitare
la pronunzia di ulteriori declaratorie di incostituzionalità (104).
(103) V. Cass., sez. un., 5 marzo 1996, n. 1729, cit.: « Più sinteticamente, nel primo caso
il notum facere rileva come attività e con il compimento di questa è realizzato, mentre nel
secondo rileva come risultato, che in tanto può considerarsi raggiunto in quanto la conoscenza effettivamente si produca con il ritiro dell’atto (art. 8, comma 6°) ovvero tutti gli elementi previsti per consentirla o per propiziarla, ivi compreso il decorso del tempo, si siano
verificati (art. 8, comma 4°) ».
(104) In tal senso v. Corte cost., 16 aprile 1999, n. 132, in Giur. cost., 1999, p. 1056 ss. e in
Riv. dir. int. priv. proc., 2000, p. 790 ss. in ordine all’art. 669 sexies, e, relativamente all’art.
669 octies, v. Corte cost., 22 ottobre 1996, n. 358, cit. (che fa richiamo alla precedente pronunzia Corte cost., 3 marzo 1994, n. 69, cit.).
Diversamente, in dottrina, v. Dalmotto, La Corte manipola la norma sul perfezionamento della notifica postale: vecchie alternative e nuovi problemi, in nota a Cass., 26 novembre 2002, n. 477, Cass., 2 febbraio 2002, n. 1390, Corte cost. (ord.), 27 luglio 2001, n. 322,
Cass., 19 maggio 2000, n. 453, in Giur. it., 2003, p. 1555 ss., secondo cui (ivi alla p. 1556 ss.),
alla stregua della generalizzazione – con riferimento ad ogni modalità notificatoria – del
principio per cui gli effetti della notificazione debbono essere riconosciuti a vantaggio del
notificante in conseguenza del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla di
lui disponibilità, discende la sospetta incostituzionalità di disposizioni che individuano il
perfezionamento della notifica, dal lato del notificante, nel momento della spedizione dell’atto, lasciando aperta la possibilità che una decadenza maturi a causa del possibile ritardo
dell’ufficiale giudiziario nello svolgere gli adempimenti di sua competenza (e quindi, recarsi alle poste per la spedizione ovvero eseguire la notifica a mani), come l’art. 134, comma 5°,
disp. att. c.p.c., in tema di ricorso e controricorso per cassazione (secondo cui il deposito si
ha per avvenuto alla data della spedizione dei plichi raccomandati; l’art. 16 d. lgs. 31 dicem-
810
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Al riguardo deve peraltro obiettarsi che il principio della scissione,
considerato nel suo significato pregnante in base al quale sono individuabili due diversi momenti di perfezionamento, non appare invero applicabile quantomeno laddove viene a profilarsi idoneo a ridondare in termini
di lesione di garanzie fondamentali come quelle del contraddittorio e del
diritto di difesa (art. 24 Cost.).
Tale principio non sembra ad esempio contemperabile con l’ipotesi
della notificazione della citazione o del ricorso e del pedissequo decreto
di fissazione dell’udienza effettuata in violazione dei termini di comparizione di cui all’art. 163-bis c.p.c. (105).
bre 1992, n. 546, sulle comunicazioni e notificazioni nel processo tributario; l’art. 2 d.p.r. 24
novembre 1971, n. 1199, sui ricorsi gerarchici nella giustizia amministrativa; gli artt. 138, 140
e 143 c.c. sulle notificazioni direttamente eseguite dall’ufficiale giudiziario, che, secondo il
loro tenore letterale e comunque secondo l’interpretazione consolidata, prevedono, rispettivamente, che la notificazione si perfeziona al momento della ricezione dell’atto da parte
del destinatario; alla data della spedizione della raccomandata con cui il destinatario della
notifica viene avvertito che la copia dell’atto è stata depositata nella casa comunale; con il
deposito di copia nella casa del comune e affissione di altra copia nell’albo dell’ufficio giudiziario avanti al quale si procede; Conte, op. cit., p. 28.
(105) Per la nullità dell’atto di citazione ex art. 164 c.p.c., non sonabile, ove il convenuto
non si sia costituito, dal rinvio d’ufficio ex artt. 318 c.p.c. e 57, 1° co., disp. att. c.c. v. la citata Cass., 12 aprile 2006, n. 8523.
Per l’affermazione del principio secondo cui la nullità dell’atto introduttivo del giudizio per violazione dei termini a comparire è sanata dalla costituzione del convenuto, tuttavia, se quest’ultimo eccepisce tale vizio, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 164, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo novellato dall’art. 9 della legge n. 353 del 1990), a fissare nuova udienza nel rispetto dei termini. L’inosservanza di tale obbligo essendo deducibile in sede di legittimità, senza che il convenuto debba indicare il danno arrecatogli dalla inosservanza del termine, atteso che la violazione di un termine dilatorio, tempestivamente denunciata, comporta la nullità dell’atto compiuto prima della sua maturazione, v. Cass., 13
maggio 2004, n. 9150; Cass., 7 marzo 2002, n. 3335.
Nel senso che nel procedimento d’appello in materia di lavoro o di previdenza e assistenza obbligatorie, i vizi della “vocatio in ius” consistenti nell’omissione o nella nullità della notificazione del ricorso, ovvero (come nella specie) nella nullità dipendente dalla concessione all’appellato di un termine a difesa inferiore a quello previsto dall’art. 435, terzo comma, cod. proc. civ., non determinano l’inammissibilità dell’impugnazione, se il deposito del
ricorso, integrante l’“editio actionis”, è avvenuto entro i termini di decadenza stabiliti per
l’appello, e neanche comportano l’improcedibilità del gravame, dato che può operare – anche
nel caso in cui siano ormai scaduti i termini per l’impugnazione – la sanatoria per effetto della costituzione in giudizio dell’appellato o, in mancanza di questa, della rinnovazione della
notificazione entro il termine perentorio che allo scopo deve assegnare il giudice, in applicazione dell’art. 421, ovvero anche di una lettura estensiva dell’art. 291, in caso di assegnazione
di un termine a difesa insufficiente. In quest’ultima ipotesi, le indicate modalità di sanatoria
con efficacia “ex tunc” sono giustificate anche dall’applicazione analogica delle disposizioni
SAGGI
811
Si determina infatti in tal caso l’indebita compressione o vanificazione
del tempo minimo dalla legge garantito al convenuto per apprestare adeguata difesa e costituirsi in giudizio, con conseguente violazione degli
artt. 3 e 24 Cost. In relazione alla quale nessuna valenza sembra potersi
invero riconoscere alla circostanza che la data di perfezionamento della notificazione valevole con riferimento all’attore sia viceversa « tempestiva ».
Trattasi di problematica che si ripropone ogni qual volta, a far data dal
compimento della notificazione, è prevista la decorrenza di un termine
(perentorio o dilatorio) o il compimento di un’attività (106).
Con riferimento alla Convenzione dell’Aja del 1965 si è in dottrina osservato al riguardo che, « se fra la data di consegna dell’atto al destinatario
e l’udienza di comparizione finisca per esservi un termine inferiore a
quello determinato dall’art. 163-bis o dall’art. 415, ult. comma, c.p.c. . . »,
l’attore può considerarsi al riparo da decadenze, ma non anche dalla nullità
ex art. 164 c.p.c. (107).
Ad analoga conclusione si perviene anche con riferimento all’ordinamento italiano, sostenendosi, al di là di mere avvertenze di carattere pragmatico (108), che tale aspetto si profila tuttavia come « meno drammatico »
contenute nel nuovo testo dell’art. 164 cod. proc. civ. (ove la nullità si sia verificata nel tempo successivo all’entrata in vigore delle relative disposizioni della legge n. 353 del 1990), salva la fissazione di una nuova udienza nel rispetto del termine di comparizione, ove la violazione dello stesso sia dedotta dal convenuto in sede di costituzione, v. Cass., 10 dicembre
1998, n. 12447; Cass., 11 aprile 1996, n. 3373, in Foro it., 1996, I, 2411 ss., con nota di Fortini.
In ordine alla sussistenza dell’obbligo di rispetto dei termini di comparizione anche in
sede di riassunzione del processo, « come si desume dal tenore dell’art. 125, n. 4, disp. att.
cod. proc. civ., che espressamente dispone che la comparsa di riassunzione deve contenere
l’indicazione dell’udienza in cui le parti devono comparire, « osservati i termini stabiliti dall’art. 163 bis del codice », v. Cass., 15 giugno 1999, n. 5941.
(106) In tema di tariffe dei premi dovuti dal datore di lavoro all’INAIL, in ordine alla rilevanza che la data della ricezione della comunicazione (a mezzo lettera raccomandata con
avviso di ricevimento) del provvedimento di variazione dei tassi (che è atto amministrativo
contemplato dalla legge al fine di rendere liquida ed esigibile l’obbligazione ex lege) ex art.
40 d.p.r. n. 1124 del 1965, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni entro il quale
il datore di lavoro può proporre ricorso alla Commissione prevista all’art. 39, 3° comma, del
medesimo d.p.r. n. 1124 del 1965, v. Cass., 3 agosto 2004, n. 14842.
(107) Così Carpi, Commento, cit., p. 897 ss, ivi alla p. 898 ss.
(108) V. Conte, op. cit., p. 24 ss., ivi alla p. 27, che avverte: « La parte che richiederà la notifica dovrà forse solo curare di segnalare all’ufficiale giudiziario l’imminente scadenza
(questa era una condizione prevista esplicitamente nella citata ordinanza della Cass. 12 novembre 1986, n. 649) e determinare un’udienza di comparizione in data tale da far sì che,
pur in caso di tardività della notificazione, non facciano di fatto difetto i termini minimi a
comparire. . . ».
812
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
all’esito della cd. miniriforma “urgente” del 1990, giacché « il mancato rispetto dei termini a comparire comporta, ai sensi del nuovo testo dell’art.
164 c.p.c., una nullità dell’atto di citazione sanabile con la rinnovazione
dell’atto stesso con effetti ex tunc » (109).
Da altri si sostiene viceversa, in termini che si profilano invero come
intimamente contraddittori, che la circostanza per la quale « per il notificante la notifica si perfeziona con la presentazione dell’atto da notificare
all’ufficiale giudiziario non significa che essa debba anche considerarsi definitivamente compiuta in quel momento e che l’interessato possa prescindere dal successivo suo esito. . . » (110).
Orbene, vale al riguardo osservare che entrambe le suindicate tesi non
sembrano riuscire in effetti a spiegare quale rilevanza assuma in concreto,
in tali casi, l’affermazione secondo cui, con riferimento al (solo) mittente o
richiedente, la notificazione o comunicazione si perfeziona al momento
della spedizione (o della consegna all’organo competente per la notificazione o comunicazione) dell’atto.
Particolare e sintomatico valore assume al riguardo l’avvertita necessità di fare richiamo, in presenza di violazione dei termini a comparire, all’operare dell’istituto della rinnovazione ex art. 291 c.p.c.
A tale stregua la suddetta tesi giunge infatti a sostanzialmente riconoscere la non esaustività al riguardo di siffatto perfezionamento della notificazione, la sua inidoneità a valere di per sé.
Laddove si ammette che, benché la notificazione sia per il mittente
“perfezionata, la nullità per violazione dei termini a comparire” rimane
nel caso ciononostante integrata, e che soltanto mediante l’operare della
rinnovazione della notificazione della citazione (che di tali termini sia ri-
(109) In tali termini Conte, op. loc. ultt. citt.
(110) Così Dalmotto, op. cit., p. 1555, il quale precisa ulteriormente: « Così, non gioverà
al notificante aver tempestivamente consegnato l’atto all’ufficiale giudiziario quando abbia
chiesto di effettuare la notificazione presso un indirizzo che non abbia riferimento con i
luoghi dove il destinatario deve essere cercato o che comunque non sia stato trovato dall’agente postale. Né potrà giovare la notifica fatta al soggetto sbagliato o a persona non abilitata a ricevere il piego. Inoltre per dare la prova che la notifica è stata compiuta, si dovrà seguitare a depositare in giudizio la cartolina di ricevimento, che, secondo la giurisprudenza,
costituisce il solo documento idoneo a provare l’intervenuta consegna quindi l’avvenuta
notificazione postale ».
Al riguardo, si noti, nel trarne le riportate conclusioni l’a. sembra fare riferimento alla
pronunzia della Corte cost. n. 477 del 2002, che peraltro si limita a diversamente condizionare
la produzione degli effetti della notificazione per il mittente « al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario »: V. Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477, cit.
SAGGI
813
spettosa) (111) la stessa può considerarsi “sanata” (l’invalidità altrimenti
permanendo e travolgendo gli altri atti del processo e la stessa sentenza
eventualmente emessa) (112), non è chi non veda come evidente emerga
invero (anche) l’intrinseca consapevolezza dell’insufficienza del principio
affermato.
Ad ulteriore conferma in tal senso depone il ritenersi tale perfezionamento della notificazione per il mittente o richiedente come sottoposto a
condizione (113) nei casi in cui la relativa effettuazione venga richiesta con
riferimento a « luogo inidoneo », in caso cioè di « luogo che non ha alcun
riferimento col destinatario dell’atto » o di « errore nell’indirizzo » o di
« trasferimento del destinatario » (114).
Ancora, l’escludersi che l’anticipazione per l’attore del momento di
perfezionamento della notificazione comporti « un diverso computo del
(111) V. Cass., 4 febbraio 1988, n. 1126, in Rass. giur. energia elettrica, 1989, p. 387 ss; Cass.,
16 febbraio 1982, n. 951; Cass., 11 settembre 1980, n. 5223; Cass., 11 gennaio 1978, n. 95.
Il regime di sanatoria delle nullità formali afferenti all’atto introduttivo del giudizio ed
alla sua notificazione, posto dagli artt. 156, 162, 164 e 291 c.p.c. trova applicazione anche nel
rito del lavoro: v. Cass., 10 dicembre 1998, n. 12447; Cass., 11 aprile 1996, n. 3373, cit.; Cass.,
3 marzo 1992, n. 2579, in Giust. civ., 1992, I, p. 2089 ss., con nota di Jaccheri, Nullità del ricorso per inosservanza del termine a comparire nel processo del lavoro, de iure condito e de iure condendo; ed anche nelle controversie soggette a tale rito i termini dilatori a difesa debbono essere osservati, determinandosi altrimenti una violazione del contraddittorio che affetta di nullità anche la sentenza che lo concluda: v., da ultimo, Cass., 8 settembre 2003, n.
13105; Cass., 18 aprile 2000, n. 4994; Cass., 11 aprile 1996, n. 3373, in Foro it., 1996, I, c. 2411
ss., con nota di Fortini.
(112) V. Cass., 24 marzo 2006, n. 6634; Cass., 22 giugno 2005, n. 13410: « In relazione ai
procedimenti ai quali si applica la disciplina anteriore alla legge n. 353 del 1990, se l’atto di
citazione non rispetta i termini a comparire, è consentita la rinnovazione della citazione
prima della declaratoria di nullità dell’atto stesso per inosservanza del termine a comparire,
con la conseguenza che, qualora una citazione nulla per inosservanza dei termini di comparizione venga rinnovata, il rapporto processuale si costituisce validamente con decorso
della notificazione del nuovo atto di citazione. Cass., 9 ottobre 1998, n. 10008: « Il rapporto
processuale si instaura con una valida notifica e pertanto, nel caso sia rinnovata, gli effetti
processuali non retroagiscono alla prima notifica. . . ».
(113) Per tale configurazione v. Conte, op. loc. ultt. citt. V. anche Dalmotto, op. loc. citt.,
ivi alla nota 29, il quale indica consistere la condizione nel « valido compimento » della notificazione medesima.
(114) V. Conte, op. loc. ultt. citt., il quale esclude che in tali ipotesi la mancata notifica
dell’atto possa essere considerata « addebitabile » all’ufficiale giudiziario. V. anche, pur se in
termini apparentemente più perplessi, Spagnuolo, La notificazione dell’atto giudiziario a
mezzo del servizio postale con la scissione temporale tra il perfezionamento per il notificante e
l’efficacia per il destinatario, in nota a Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477, in Rass. locaz.,
2002, p. 505 ss., ivi alla p. 506.
814
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
termine per la sua costituzione », questo considerandosi pertanto ai sensi
dell’art. 165 c.p.c. comunque decorrente « dalla notifica al convenuto, indipendentemente dal momento (antecedente) in cui la notifica stessa si è
perfezionata per l’attore » (115).
Sintomatico appare allora il distinguo operato sia dalla Corte Costituzionale (116) che dalla Corte di Cassazione (117) rispetto ad ipotesi in cui
non vengono viceversa in rilievo decadenze conseguenti al tardivo compimento di attività riferibili a soggetti diversi dal richiedente la notifica
(quali l’ufficiale giudiziario o il di lui ausiliario agente postale), e risulti
per converso dalla norma presupposta la decorrenza di un termine che
debba decorrere o altro adempimento da compiersi dal tempo dell’avvenuta notificazione (118): ipotesi in cui, si afferma, « la suddetta distinzione
dei momenti di perfezionamento della notificazione non trova applicazione », dovendo quest’ultima « intendersi pertanto per entrambi compiuta . . .
al momento della sua effettuazione nei confronti del destinatario » (119).
(115) Così Conte, op. loc. ultt. citt., il quale in tal senso dichiara di correggere il diverso
avviso in precedenza espresso al riguardo.
(116) V. Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477, cit. V. anche Corte cost., 23 gennaio 2004,
n. 28, cit.
(117) V. le sentenze citate infra alla nota 119. Al riguardo, nel senso che per « estendere
la regola di protezione del notificante dalle conseguenze pregiudizievoli dei ritardi del procedimento notificatorio non v’era, e non v’è, bisogno di elevare a rango di principio l’asserita dualità di perfezionamenti della notifica stessa rispettivamente per il notificante e per il
notificatario », ed in ordine alla necessità di tenere in considerazione, oltre all’interesse del
mittente, anche quello « del destinatariuo della notificazione ad essere posto in grado di conoscere se siano definitivamente maturate o meno nei confronti del notificante preclusioni
a suo carico », v. C. Glendi, Commento a Corte Cost. 23 gennaio 2004, n. 28, cit., p. 778 ss.,
il quale osserva ulteriormente che « analoga esigenza » sussiste invero anche « per il giudice
o per chi altri debba tener conto del verificarsi o meno di siffatte preclusioni ».
(118) Come nella fattispecie prevista dall’art. 369 c.p.c., concernente il deposito in cancelleria del ricorso nel termine di venti giorni dall’ultima delle notificazioni alle parti contro
le quali il ricorso per cassazione è proposto: v. Cass., 14 luglio 2004, n. 13065.
(119) In tali termini v. Cass., 24 marzo 2004, n. 13065, cit. Nello stesso senso v. altresì
Cass., 17 luglio 2003, n. 11201, in Foro amm., 2004, I, p. 1146 ss.
La S.C. si è quindi spinta ad aprire un vero e proprio contrasto interpretativo là dove,
dopo aver introdotto dei distinguo affermando che la diversità dei momenti di perfezionamento della notifica rispettivamente valevoli per il mittente e per il destinatario «non trova
applicazione » quando «non vengono in rilievo ipotesi di decadenza conseguenti al tardivo
compimento di attività riferibili a soggetti diversi dal richiedente la notifica . . . e viceversa la
norma preveda che un termine debba decorrere o altro adempimento debba essere compiuto dal
tempo dell’avvenuta notificazione (come nella fattispecie prevista dall’art. 369 cod. proc. civ.
con riferimento al deposito in cancelleria del ricorso nel termine di venti giorni dall’ultima
SAGGI
815
Nel restringersi, proprio nel mentre se ne afferma la validità, la concreta operatività del principio della scissione ad ipotesi meramente ridotte
delle notificazioni alle parti contro le quali il ricorso è stato proposto) . . . (così Cass., 14 luglio 2004, n. 13065. Distinguo recentemente ribadito dalle Sezioni Unite in riferimento alla
notificazione eseguita ex art. 140 c.p.c.: v. Cass., Sez. Un., 13 gennaio 2005, n. 458, in Dir. e
giust., 2005, fasc. 7, p. 14 ss., con nota di Evangelista, Notificazioni, arrivano regole più eque.
Vale il principio dell’effettiva conoscibilità per la controparte e in Giust. civ., 2005, I, p. 935 ss.,
con nota di Saraceni, Notificazioni all’irreperibile: la pronuncia delle sezioni unite sulla scissione del perfezionamento del procedimento notificatorio ed ivi, p. 1503 ss., con nota di Giordano, La notifica a destinatari irreperibili in un gran arrêt delle sezioni unite e in Corriere
giur., 2005, p. 351 ss., con nota di Conte, Revirement delle sezioni unite sulle formalità di notifica ex art. 140 c.p.c.: si sana un’incongruenza, ma ne resta aperta un’altra e in Corriere trib.,
2005, p. 851 ss., con nota di Glendi, Occorre la ricevuta di ritorno per la validità della notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c.e in Dir. e pratica trib., 2005, p. 77 ss., con nota di Glendi, Manca la ricevuta? La notifica è nulla. Conformemente v. altresì Cass., 6 maggio 2005, n. 9510),
è quindi addivenuta, movendo in particolare dalla considerazione della notificazione a
mezzo posta e nell’indicare al riguardo la « indispensabilità » della produzione in giudizio
dell’« avviso di ricevimento » quale « prova del perfezionamento della notifica », a precisare
che la pronunzia della Corte Costituzionale incide « sulla sola disciplina del momento
(“quando”) in cui la notifica si considera efficace non anche su quella dei requisiti del suo
perfezionamento (“an”) » (così Cass., 10 marzo 2004, n. 4900, in Foro it., 2004, I, c. 2383 ss., e
in Cons. stato, 2004, II, p. 564, con nota di Casali, Ricorso per Cassazione notificato a mezzo
del servizio postale: oneri del ricorrente. Nello stesso senso v. altresì Cass., 10 febbraio 2005,
n. 2722; Cass., 10 febbraio 2005, n. 2723).
Al riguardo, si noti, la recentissima Cass., 12 aprile 2006, n. 8523 ha (con riferimento alla notificazione a mezzo posta) significativamente posto in rilievo che ai fini dell’osservanza dei termini a comparire, per “giorno della notificazione”, ai sensi dell’art. 163-bius cod.
proc. civ., s’intende quello in cui si realizza, non l’effetto, anticipato e provvisorio, a vantaggio del notificante, ma il perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti
del destinatario, procedimento che resta ancorato al momento in cui l’atto è ricevuto dal
destinatario medesimo o perviene nella sua sfera di conoscibilità: e ciò in quanto, al fine
suindicato, il notum facere rileva come risultato, che in tanto può considerarsi raggiunto in
quanto la conoscenza effettivamente si produca con il ritiro dell’atto ovvero tutti gli elementi previsti per consentirla o per propiziarla, ivi compreso il decorso del tempo, si siano
verificati. V. altresì sez. un., 4 maggio 2006, n. 10216, ove, nell’affermarsi che per effetto delle pronunzie Corte Cost. n. 69 del 1994, relativa alla disciplina delle notifiche all’estero,
Corte Cost. n. 358 del 1996, Corte Cost. n. 477 del 2002, Corte Cost. n. 28 e 97 del 2004 e
Corte Cost. n. 154 del 2005 « risulta così ormai presente nell’ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo,
la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario. Con la conseguenza che, alla luce di tale principio, le norme in
tema di notificazioni di atti processuali vanno interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle leggi, nel senso (costituzionalmente, appunto, adeguato)
816
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
(impugnazioni, reclami), si viene invero a negarsene sostanzialmente la
portata quale regola generale, evidentemente avvertendosi l’insufficienza
di tale principio a valere come tale.
Rimane avvalorata, a tale stregua, la necessità di aversi in tal caso viceversa riguardo ad un’unica data di perfezionamento della notificazione.
Data non altrimenti individuabile se non in quella della ricezione dell’atto da parte del destinatario-convenuto, quale soluzione senz’altro maggiormente garantista (120), la scissione potendo semmai valere quale principio che a tale regola faccia eccezione.
che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna
dell’atto all’ufficiale giudiziario », sintomaticamente si perviene ad affermare che « ove tempestiva » la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario « evita appunto alla parte la decadenza
correlata alla inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata »,
quale peraltro « effetto provvisorio » ed « anticipato » a vantaggio del notificante, che « si
consolida » invero solamente « col perfezionamento del procedimento notificatorio nei
confronti del destinatario »; per il quale « a tal fine, rileva la data, invece, in cui l’atto è da
lui ricevuto o perviene nella sua sfera di conoscibilità ».
Per l’intrinseca debolezza della soluzione al riguardo adottata, consistente nel distinguere tra effetti provvisori ed effetti definitivi della notificazione, v. peraltro Caponi, Svolta
delle sezioni unite nella disciplina delle notificazioni ex art. 140 c.p.c., in Foro it., 2005, I, 699
ss.; Basilico, Riflessioni sull’orientamento della giurisprudenza di cassazione successivo alle
recenti decisioni costituzionali in tema di notificazione, in nota a Cass., sez. un., 13 gennaio
2005, n. 458, in Riv. dir. proc., 2006, 396 n., ivi alla p. 400 n.
In argomento, con particolare riferimento al procedimento avanti alla Commissione
tributaria, v. Glendi, Commento, cit., p. 779: « Se per il notificante vale la data di consegna
dell’atto all’agente della notificazione, da quando decorre il termine decadenziale di deposito del ricorso introduttivo alla segreteria della commissione tributaria? Da questa data, da
quella di spedizione del plico in caso di notificazione diretta a mezzo posta, o da quella del
perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario? E ancora, se l’istanza di trattazione in pubblica udienza viene presentata alla notifica nei dieci giorni liberi prima della
data fissata, ma pervenga alla controparte costituita dopo questo termine, come debbono
essere regolate le situazioni processuali delle parti ed i poteri della Commissione? E infine:
quid iuris, se la notifica dell’atto è nulla? Il rischio della nullità ricade sul notificante o è ancora evitabile dal notificante stesso con una rinnovata notificazione? Trattasi di interrogativi ai quali non è facile rispondere. In ogni caso è da escludere possano essere fornite appaganti soluzioni attraverso la semplicistica via dei doppi momenti di perfezionamento della
notificazione, per il soggetto istante e per il destinatario ».
(120) Emblematico appare al riguardo quanto affermato da Corte cost., 23 settembre
1998, n. 346, cit.: « La funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddittorio e l’effettivo
esercizio del diritto di difesa. Compete naturalmente al legislatore, nel bilanciamento tra
l’interesse del notificante e quello del notificatario, determinare i modi attraverso i quali tale scopo possa realizzarsi individuando altresì i rimedi per evitare che il diritto di agire in
SAGGI
817
La tutela dell’interesse del mittente a non subire pregiudizio da attività che sfuggono al suo potere di impulso e controllo appare dover essere allora altrimenti perseguita.
Al riguardo sembrano poter utilmente soccorrere gli istituti della rimessione in termini e della rinnovazione della notificazione. Il primo è
istituto funzionalmente volto a rimuovere ex post le conseguenze pregiudizievoli conseguenti alla violazione di un termine dipendente da causa non imputabile a chi ne invoca la concessione (121), di cui andrebbe peraltro configurata una generalizzata applicabilità, sia in ambito processuale, con rimozione dei limiti attualmente previsti, che avuto riguardo ai
rapporti sostanziali (122), ogniqualvolta l’onerato fornisca la prova di ave-
giudizio del notificante sia paralizzato da circostanze personali – come ad esempio l’assenza
dall’abitazione o dall’ufficio – riguardanti il destinatario della notificazione. I termini di tale
bilanciamento di interessi possono naturalmente essere i più vari come emerge dalle soluzioni adottate in alcuni degli ordinamenti processuali europei a noi più vicini per cultura e
tradizione. Ciò premesso non sembra in ogni caso potersi dubitare che la discrezionalità del
legislatore incontri un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad
essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura
instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli ».
Per l’indicazione dell’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una
tempestiva conoscenza dell’atto notificato, e quindi del suo diritto di difesa, quale « limite
inderogabile » alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni v. anche
Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 360, cit.
(121) Cfr. Proto Pisani, in nota a Corte cost., 2 febbraio 1978, n. 10, in Foro it., 1978, I, c.
550 ss., ivi alla c. 552 ss.; Carpi, op. loc. ultt. citt.; Carpi, Sub artt. 8, 9 e 10, in Carpi-Ciaccia Cavallari, op. cit., p. 373 ss, ivi alla p. 376 ss.
(122) Nello stesso senso v. Caponi, Le notificazioni a mezzo posta di nuovo al giudizio della Corte Costituzionale, in nota a Cass. (ord.), 19 maggio 2000, n. 453, in Foro it., 2000, c.
2514 ss., ivi alla c. 2516; Caponi, in nota a Corte cost., 23 settembre 1998, n. 346, in Foro it.,
1998, I, c. 2601 ss.; Caponi, La causa non imputabile alla parte nella disciplina della rimessione in termini del processo civile, in Foro it., 1988, I, c. 2658 ss.; Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, c. 125 ss. e c. 284 ss. L’a. (Le notificazioni a mezzo posta di nuovo al giudizio della Corte Costituzionale, loc. cit.), nel sottolineare il profilo di garanzia costituzionale dell’effettività del contraddittorio che connota l’istituto della rimessione in termini trovante espressione in molteplici norme della legislazione ordinaria, ed in
particolare in quelle di cui agli artt. 184-bis, 294, 650, 668 c.p.c., e nel rilevare come non esista peraltro « una norma di rimessione in termini che riguardi il potere d’impugnare (e gli
altri poteri esterni allo svolgimento del giudizio) », perviene ad affermare, in termini del
tutto condivisibili, che « L’introduzione di tale norma, costituzionalmente doverosa, consentirebbe di risolvere anche il problema sotteso » dal principio della scissione: « la notificazione continuerebbe a perfezionarsi al momento della ricezione dell’atto, ma al notifi-
818
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
re mantenuto una condotta conforme alla diligenza nel caso richiesta (123).
Soluzione invero già accolta in ordinamenti vicini quale soluzione
idonea a consentire di lasciare immutata la regola di una unica data di perfezionamento della notifica sia per il mittente che per il destinatario, tale
individuando il momento della ricezione dell’atto da parte del destinatario,
senza peraltro sacrificare i diritti del mittente, escludendo in particolare,
in nome del principio di effettività della tutela giurisdizionale, che i ritardi postali possano essere imputati alla parte notificante, quest’ultimo essendo ammesso a beneficiare dell’istituto della rimessione in termini tutte le volte in cui, facendo affidamento su tempi normali di consegna del
plico, non sia stato possibile proporre una impugnazione tempestiva (124).
cante incorso in una decadenza sarebbe dato di dimostrare, per ottenere la rimessione in
termini nel potere d’impugnare, che la decadenza è dovuta ad un ritardo postale a lui non
imputabile »).
Va al riguardo sottolineato quanto indicato da Cass., 13 gennaio 2005, n. 458: « l’avviso
di ricevimento deve essere allegato all’atto notificato e la sua mancanza provoca la nullità
della notificazione, che resta sanata dalla costituzione dell’intimato o dalla rinnovazione
della notifica ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ. ».
In argomento v. ora le interessanti “aperture” al riguardo operate da Cass., sez. un., 4
maggio 2006, n. 10126.
(123) Per la natura eccezionale del rimedio della remissione in termini v., per tutti, Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, 416.
In ordine alla esclusione della configurabilità come provvedimento concessivo di una rimessione in termini della fissazione di un nuovo termine per la riassunzione del processo poco dopo la scadenza di quello semestrale di cui all’art. 305 c.p.c. v. Cass., 8 luglio 2005, n.
14371, in Corriere giur., 2006, 677 n., con nota di Gasparini, Rimessione in termini e poteri esterni allo svolgimento del processo: le Sezioni Unite riconoscono la rilevanza dell’errore scusabile.
Da ultimo, per l’ammissibilità della deroga al principio generale di improrogabilità dei
termini perentori enunziato dall’art. 153 c.p.c., in caso di mancato rispetto del termine concesso ex art. 291 c.p.c. per un vizio implicante la nullità della notificazione stessa dipesa dal
fatto che il notificante non era in condizioni di conoscere ed in concreto sottratto ai suoi
poteri d’impulso v. Cass., 20 gennaio 2006, n. 1180.
(124) Con riferimento a tale soluzione adottata nell’ordinamento tedesco ove « la Corte
costituzionale esclude, in nome del principio di effettività della tutela giurisdizionale, che i
ritardi postali possano essere imputati alla parte notificante ed ammette quest’ultima a beneficiare dell’istituto della rimessione in termini tutte le volte in cui, facendo affidamento
su tempi normali di consegna del plico, non sia stato possibile proporre una impugnazione
tempestiva », v. Dalmotto, La giurisprudenza costituzionale come fonte dell’odierno sistema
delle notificazioni a mezzo posta, cit., p. 230 ss., che si esprime in favore della configurazione dell’istituto della rimessione in termini quale rimedio generale restitutorio, operante
non solo in relazione alle decadenze verificatesi all’interno di un grado del processo già
pendente, come oggi previsto dall’art. 184-bis c.p.c. « ma anche ai fini dell’esercizio dell’azione nonché della proposizione delle impugnazioni e delle opposizioni ».
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819
L’esigenza dell’introduzione di siffatto rimedio con valenza generale si
avverte anche con riferimento alle notifiche intracomunitarie, ed un suo
inserimento nel Regolamento in sede di relativa modifica, ovvero da parte di altra fonte comunitaria, verrebbe anzi a positivamente riverberare
anche all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, e di quello italiano in
particolare (125).
La rinnovazione (126), da disporsi da parte del giudice che pronunzia
la nullità (art. 162 c.p.c.), è, con particolare riferimento alla notificazione, nel codice di procedura civile prevista in ordine (solamente) alla citazione (art. 291) e all’atto di appello (art. 350) (127), per le ipotesi di nullità (128) specificamente contemplate dall’art. 160 (inosservanza delle disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia;
incertezza assoluta sulla persona cui è fatta o sulla data) ovvero espressamente previste da altre disposizioni di legge, nonché in ragione del
difetto di un requisito all’uopo essenziale, indipendentemente dalla cir-
(125) In argomento v. anche infra al § 19.
(126) Per una rassegna giurisprudenziale sui vari profili dell’istituto v. V. CarboneFrangini-Spirito, Le notificazioni, Milano, 1997, p. 114 ss.
(127) V. Cass., 27 luglio 2001, n. 10278; Cass., 22 dicembre 1983, n. 7570; Cass., 23 aprile
1983, n. 2804.
(128) Non anche, si specifica in giurisprudenza, in caso di inesistenza della notificazione:
v. Cass., 28 luglio 2003, n. 11623: « L’ipotesi della inesistenza giuridica della notificazione ricorre quando quest’ultima manchi del tutto o sia effettuata in modo assolutamente non
previsto dalla normativa, tale, cioè, da impedire che possa essere assunta nel modello legale della figura, mentre si ha mera nullità allorché la notificazione sia stata eseguita, nei confronti del destinatario, mediante consegna in luogo o a soggetto diversi da quelli stabiliti
dalla legge, ma che abbiano pur sempre un qualche riferimento con il destinatario medesimo. Conseguentemente, la notificazione della impugnazione al procuratore domiciliatario
nel precedente grado del giudizio ma nelle more cancellato dall’albo, in quanto eseguita
nei confronti di persona collegabile al destinatario, è affetta non da giuridica inesistenza
bensì da nullità sanabile ex tunc per effetto della sua rinnovazione, disposta ai sensi dell’art.
291 cod. proc. civ. o eseguita spontaneamente dalla parte. (Nella specie la Suprema Corte
ha disatteso l’eccezione di inammissibilità di un ricorso per cassazione notificato dopo la
scadenza del termine utile per la proposizione del gravame alla parte personalmente ad
opera del ricorrente che aveva di sua iniziativa rinnovato la notifica del ricorso già effettuata una prima volta, tempestivamente, presso il domicilio eletto ove il procuratore indicato,
cancellatosi dall’albo dopo la conclusione del giudizio di secondo grado, si era ricevuto l’atto notificando) »; Cass., 17 dicembre 2003, n. 19333; Cass., 27 luglio 2001, n. 10278. V. anche,
in tema di notificazione a mezzo posta ex art. 149 c.p.c. del ricorso per cassazione, per l’inesistenza della notificazione, con conseguente impossibilità di disporne la rinnovazione
ex art. 291 c.p.c., in caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento, Cass., 15 luglio
2003, n. 11072.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
costanza che la nullità sia addebitabile all’ufficiale giudiziario o alla stessa parte (129).
Essa opera con efficacia ex tunc (130), e rimane sanata dalla costituzione
del destinatario, risultando in tal caso comunque raggiunto lo scopo dell’atto, come all’uopo richiesto dall’art. 156 c.p.c. (131).
Anche di tale istituto andrebbe peraltro configurata un’applicazione
ampia e generalizzata, al di là degli odierni limiti oggettivi di applicazione.
Nella sentenza n. 1729 del 1996, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno in effetti incentrato l’attenzione esclusivamente sugli aspetti
procedurali e sui riflessi processuali della notificazione di un atto, soffermandosi su ipotesi indicate come « casi limite » (132).
Il principio della scissione è stato tuttavia in altre pronunzie dal giudice di legittimità ritenuto applicabile non solo in campo processuale (133),
(129) V. Cass., 7 febbraio 1966, n. 397. Con riferimento alla notifica dell’opposizione a
decreto ingiuntivo tempestivamente consegnata all’ufficiale giudiziario ma non effettuata
per mancato completamento della procedura notificatoria nella fase sottratta al potere d’impulso della parte, per la rinnovazione della notificazione secondo il modulo e nel termine
previsto per l’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c. v. ora Cass., sez. un., 4 maggio
2006, ???????
(130) V., da ultimo, Cass., 1° giugno 2004, n. 10495; Cass., 28 luglio 2003, n. 11623.
(131) V., da ultimo, Cass., 26 aprile 2004, n. 7891; Cass., 20 novembre 2003, n. 17599.
Efficacia sanante della irregolare notificazione dell’atto è del pari riconosciuta alla rinnovazione cui la parte abbia spontaneamente provveduto senza attendere il provvedimento
giudiziale: v., da ultimo, Cass., 14 maggio 2004, n. 9242.
(132) Ipotesi che pertanto ben possono rimanere invero confinate nel campo dell’eccezionalità.
Per l’applicazione estensiva della rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c. v.
invece Cass., 29 novembre 2004, n. 22470.
(133) V. Cass., 22 maggio 2003, n. 8099, Cass., 25 giugno 2003, n. 10087, Cass., 3 luglio
2003, n. 10491, in GT – Riv. giur. trib., 2004, p. 45 ss., con nota di Glendi, Primi approcci alla sentenza n. 477/2002 della Corte Costituzionale da parte della sezione tributaria della Corte
di Cassazione in tema di « notificazioni », che hanno applicato il principio della scissione ai
ricorsi per cassazione effettuati a mezzo posta con spedizione del relativo plico entro il termine (breve o lungo) d’impugnazione e con ricevimento del plico stesso da parte del destinatario oltre detti termini.
Contra v. peraltro Cass., 15 luglio 2003, n. 11072: « La notifica a mezzo del servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario e l’avviso di ricevimento prescritto dall’art. 149 cod. proc. civ. è il
solo documento idoneo a provare sia l’intervenuta consegna, sia la data di essa, sia l’identità della persona a mani della quale è stata eseguita; ne consegue che, ove tale mezzo sia
stato adottato per la notifica del ricorso per cassazione, la mancata produzione dell’avviso
di ricevimento comporta non la mera nullità, bensì l’inesistenza della notificazione (della
quale, pertanto, non può essere disposta la rinnovazione ai sensi dell’art. 291 cod. proc.
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821
ma con riferimento « ad ogni tipo di notificazione » (134), con estensione
anche ai rapporti sostanziali (135).
Tale estensione desta tuttavia perplessità (136).
Con riferimento agli atti di natura sostanziale, l’operatività del principio della scissione appare infatti di difficile contemperamento quantomeno con la disciplina degli atti recettizi, i quali producono effetto dal momento del loro pervenimento al destinatario (137).
civ.) e l’inammissibilità del ricorso medesimo. A tale conclusione non osta la sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002 – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4, terzo comma, della
legge 20 novembre 1982, n. 890, nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona,
per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella,
antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario –, atteso che detta decisione presuppone l’avvenuto accertamento della sussistenza della notificazione »; Cass., 5 agosto
2002, n. 11700. V. anche Cass., 18 luglio 2003, n. 11257; Cass., 18 marzo 2004, n. 5481.
(134) V. Cass. (ord.), 24 giugno 2003, n. 10040, in GT – Riv. giur. trib., 2004, p. 46 ss., con
nota di Glendi; Cass., 3 luglio 2003, n. 10481, in GT – Riv. giur. trib., 2004, p. 53 ss., con nota di Glendi, ove il principio della scissione risulta applicato alla trasmissione diretta (e
non già tramite ufficiale giudiziario) per posta ad opera della parte di ricorso alla Commissione tributaria.
(135) V. Cass., 26 ottobre 1999, n. 12025; Cass., 3 luglio 2003, n. 10476, in GT – Riv. giur.
trib., 2004, p. 52 ss. con nota di Glendi e in Boll. trib. inf., 2004, 593 n.; Cass., 1 settembre
2004, n. 17625, in Dir. e pratica soc., 2005, 76 n., con nota di Cardamellis, Tasso di concessione governativa: decorrenza dei termini per il rimborso; Cass., 7 luglio 2004, n. 12447.
(136) Contra v. peraltro Glendi, Primi approcci alla sentenza n. 477/2002 della Corte Costituzionale da parte della sezione tributaria della Corte di Cassazione in tema di « notificazioni », in nota a Cass., 22 maggio 2003, n. 8099, Cass., (ord.), 24 giugno 2003, n. 10040, Cass.,
25 giugno 2003, n. 10087, Cass., 3 luglio 2003, n. 10476, Cass., 3 luglio 2003, n. 10481, Cass.,
3 luglio 2003, n. 10491, in GT – Riv. giur. trib., 2004, p. 57 ss, il quale ritiene tale estensione
viceversa non sorprendente e anzi « del tutto giustificata », sostenendo che « la problematica dello hiatus temporale tra consegna dell’atto e ricevimento dell’atto stesso nelle notificazioni (e comunicazioni) di atti non si pone in termini diversi per gli atti giudiziari, o processuali in genere, da un lato, e atti non giudiziari e/o sostanziali, dall’altro. Si pone in termini assolutamente identici anche per gli atti sostanziali a rilevanza civilistica (si pensi alle
disdette, diffide, opzioni, prelazioni, e quant’altro) e per gli atti sostanziali a rilevanza amministrativa o tributaristica in specie (provvedimenti, avvisi di accertamento, avvisi di liquidazione, cartelle di pagamento, opzioni, invio di questionari, comunicazioni di variazione
dati, istanze di rimborso, ecc.) . . . Non v’è alcun plausibile motivo per non fare pure qui applicazione del principio affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza di cui trattasi
mettendo il notificante al riparo da prescrizioni, decadenze, preclusioni, sempre che, beninteso, gli atti vengano comunque notificati o comunicati al destinatario »; Garufi, Notificazione: la scissione degli effetti è principio generale per l’ordinamento, in Dir. e giust., 2004,
fasc. 6, p. 70 ss.
(137) V. Bianca, Diritto civile, 3, Milano, 2000, p. 217, il quale (ivi alla p. 220 ss., e p. 209
822
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
A fronte di tale rilevanza esclusiva del momento della ricezione dell’atto da parte del destinatario non si coglie invero il significato da riconoscersi alla considerazione quale data di perfezionamento della notificazione o comunicazione per il mittente dell’atto della diversa ed anteriore data della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario o della spedizione.
Non sembra infatti possibile dare ingresso a soluzioni in base alle quali debba considerarsi ad esempio al contempo avvenuta la cessione del
contratto o del credito per il cedente e non anche per il ceduto; integrata
la mora (del debitore) per il creditore e viceversa ancora sussistente una
situazione di semplice ritardo per il debitore; violato il termine essenziale
per il creditore ed essere l’atto o l’attività viceversa tempestivi per il debitore.
Ancora, in caso di diffida volta ad interrompere l’usucapione (138), che
la prescrizione acquisitiva possa considerarsi interrotta per il proprietariomittente e viceversa ancora in corso o addirittura compiuta per il possessore (139).
ss., ivi alla p. 210), precisa che per gli atti unilaterali recettizi a destinatario determinato la
relativa comunicazione viene a porsi quale elemento che ne integra la emissione, osservando
che a tale stregua deve essere spiegata la massima giurisprudenziale secondo cui « In tema
di dichiarazioni unilaterali recettizie (come la proposta e l’accettazione ex art. 1326 c.c.), a
soddisfare il requisito della recettizietà non è sufficiente che la dichiarazione sia percepita
da altri soggetti, bensì occorre che essa sia portata a conoscenza da soggetti determinati, destinatari della medesima, e ciò con modalità ed attività da reputare idonee, in assenza di
prescrizione legislativa, quando la dichiarazione sia trasmessa all’indirizzo del destinatario
e le modalità ed attività impiegate siano tali da dimostrare la volontà del dichiarante di portare la dichiarazione a conoscenza del destinatario per gli effetti propri che, nei suoi confronti, la stessa è destinata a produrre »: così Cass., sez. un., 5 novembre 1981, n. 5823, in
Giur. it., 1983, I, 1, c. 1734 ss., con nota di Costanza, Volontarietà della trasmissione e degli
effetti.
Per la tesi secondo cui negli atti unilaterali recettizi a destinatario determinato la ricezione contribuisce alla perfezione della dichiarazione v. Ravazzoni, La formazione del contratto, vol. I, Milano, 1966, p. 331 ss.
Contra v. peraltro Giampiccolo, La dichiarazione recettizia, Milano, 1959, p. 138.
(138) V. Cass., 13 marzo 1964, n. 539, in Giur. agr. it., 1964, II, p. 691, con nota di Colasurdo, Sulle cause di interruzione della usucapione e in Riv. dir. lav., 1964, II, p. 88.
Irrilevante, ai fini del discorso sviluppato nel testo, è la circostanza che la giurisprudenza – con orientamento invero non condivisibile – da tempo non ritiene più la diffida e
la messa in mora quali idonei atti interruttivi della prescizione acquisitiva: da ultimo v.
Cass., 19 giugno 2003, n. 9845.
(139) Nel senso che in tema di usucapione non è il possessore, sia che agisca come attore o che resista come convenuto, tenuto a dimostrare la continuità del possesso ma è onere della controparte che neghi essersi verificata l’usucapione provarne l’intervenuta interru-
SAGGI
823
Al riguardo si è in dottrina proposto di distinguere tra termini sostanziali di decadenza (140) e termini di prescrizione, soggetti ad una diversa disciplina (141), ritenendosi « particolarmente arduo » introdurre una « discriminazione » tra « prescrizione e decadenza » e tra « decadenza di ordine
processuale e decadenza di ordine sostanziale », concludendosi che per
l’interruzione di un termine, sia esso di decadenza o di prescrizione, a
mezzo di « atto giudiziario » (142) deve considerarsi valere il principio della scissione, « salvo che una norma non disponga diversamente » (143).
Ne consegue, peraltro, che lo stesso regime posto dall’art. 1334 c.c.
verrebbe a tale stregua a risultarne modificato (144).
zione, vigendo la presunzione posta dall’art. 1142 c.c. della continuità del possesso che determina un’inversione dell’onere della prova v. Cass., 25 settembre 2002, n. 13921, in Giust.
civ., 2003, I, p. 43 ss.
(140) Quali, ad esempio, quelli previsti dall’art. 244, 2° comma, c.c., per la proposizione
dell’azione di disconoscimento della paternità da parte del marito; dell’art. 802 c.c., in tema di
revoca della donazione; dall’art. 2378 c.c., per l’impugnazione della delibera assembleare.
(141) V. Conte, op. cit., p. 27, ivi alla p. 28, il quale segnala che vi sono atti impeditivi della decadenza a forma libera, come ad es. quelli concernenti i cd. vizi edilizi di cui agli artt.
1495 e 1667 c.c., e le prescrizioni che possono essere interrotte solamente con atto giudiziale, come ad es. l’interruzione della prescrizione dell’azione revocatoria fallimentare (al cui
riguardo v. Cass., 19 luglio 1996, n. 6497, in Fallimento, 1997, p. 153; Cass., sez. un., 13 giugno 1996, n. 5443, in Giur. it., 1997, I, 1, c. 904).
In tema di rinnovazione della notificazione nulla della citazione ex art. 291 c.p.c., v., in
giurisprudenza, Cass., 14 agosto 1997, n. 7617, in Giust. civ., 1998, I, p. 1108 ss., con nota di
Pula, Sulla portata della retroattività prevista dall’art. 291 cod. proc. civ. e in Guida al dir.,
1997, fasc. 38, p. 34 ss., con nota di Fiorini, Un’interpretazione restrittiva del codice che sana
solo le ipotesi di decadenza.
(142) Per l’affermazione della « innegabile connessione » tra « effetto interruttivo » e
« natura recettizia dell’atto »posto a dalla norma di cui all’art. 2943, 1° comma, c.p.c. nel
« sancire espressamente che la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto introduttivo del giudizio », sicché anche con riferimento all’atto di citazione la « la mancata introduzione, nella sfera giuridica del destinatario, dell’atto di notifica nullo non consentirà
in alcun modo a quest’ultimo di risultare funzionale alla produzione dell’effetto retroattivo
citato, a nulla rilevando la (apparentemente contraria) disposizione di cui all’art. 291, 1°
comma, cod. proc. civ., la quale, stabilendo che « la rinnovazione della citazione nulla impedisce ogni decadenza », ha, evidentemente, riguardo ad un istituto ben diverso, per natura e funzione, rispetto a quello della prescrizione », v. Cass., 14 giugno 1997, n. 7617, cit.
(143) In tali termini v. Conte, op. loc. ultt. citt.
(144) Al riguardo, si noti, il medesimo Conte, op. loc. ultt. citt. avverte invero tale difficoltà, salvo osservare che «. . . tuttavia la stessa legge talvolta riconduce gli effetti di una comunicazione al termine entro cui essa è stata fatta, indipendentemente dalla ricezione (è il
caso per esempio della denuncia per vizi della res venduta), mentre per altri termini si ha riguardo al momento in cui la comunicazione deve pervenire al destinatario (si pensi per
esempio, al termine di cinque giorni previsto dall’art. 7 della l. 300 del 1970) ».
824
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Nel prendere atto che la Corte Costituzionale in sede di declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 149 c.p.c. (145) si è limitata a fare riferimento alla notificazione di soli atti processuali, e nel convenire che atti di natura
sostanziale come proposta, accettazione e revoca dell’accettazione non risultano interessati da tale pronunzia (146), dubbi vengono peraltro altrimenti palesati in ordine ad atti per i quali è difficile stabilire l’attinenza o
meno ad un processo, e quindi la relativa natura giudiziaria od extragiudiziale (come, ad es., la licenza per finita locazione con contestuale citazione per la convalida contenente la disdetta ai sensi dell’art. 1596, comma
2°, c.c.) (147).
12. – L’adozione del principio della scissione da parte del Regolamento solleva ora, con riferimento alla notificazione o comunicazione intracomunitaria, perplessità analoghe a quelle avvertite per la notificazione
« interna » (148).
(145) V. Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477, cit.
(146) V. Conte, op. loc. ultt. citt.: « In tali casi la norma è chiara e non si potrà ritenere
che il contratto si sia perfezionato con la consegna all’ufficiale giudiziario di un atto di accettazione di una proposta, sia perché trattasi di un atto non processuale, sia perché la norma è chiara nell’affermare che il momento conclusivo del contratto è quello in cui il proponente ha conoscenza dell’accettazione. Mutatis mutandis ciò vale per la revoca dell’accettazione ai sensi dell’art. 1328, comma 2°, c.c. ».
Contra, per l’applicabilità della « nuova regola » della scissione soggettiva del momento
perfezionativo del procedimento notificatorio anche agli atti stragiudiziali, in quanto « il 2°
comma dell’art. 107 del d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229, sull’ordinamento degli ufficiali giudiziari, attribuisce a questi ultimi il potere di notificare a mezzo posta, senza limitazioni territoriali, gli atti stragiudiziali, e che la disciplina delle notificazioni a mezzo del servizio postale di cui alla legge n. 890 del 1982, pur formalmente riferita alla notificazione dei soli atti
giudiziari, può applicarsi e viene in pratica utilizzata pure al di fuori della materia processuale », v. Dalmotto, op. cit., p. 1555, nota 28.
(147) V. Conte, op. loc. ultt. citt., il quale, nel concludere che la disdetta per operare deve
necessariamente pervenire al destinatario, fa altresì l’esempio dell’atto di citazione « con cui
convengo Tizio in giudizio per ottenere il pagamento di una somma », osservando che trattasi di « un atto giudiziario che produce, alla stregua di una raccomandata, l’interruzione di
termini di prescrizione », e che sarebbe « difficile sostenere che quell’atto di citazione, consegnato tempestivamente all’ufficiale giudiziario, ma notificato tardivamente alla controparte, non abbia comunque prodotto l’interruzione della prescrizione per il fatto che questo tipo di interruzione non doveva necessariamente esercitarsi con un atto giudiziario ».
(148) Non va invero tralasciato di considerare altresì l’ulteriore problematica concernente l’individuazione del momento che in effetti segna per il mittente il perfezionamento della
notifica. Nell’ordinamento italiano la Corte Costituzionale, nell’accogliere in termini generali per ogni tipo di notificazione il principio della scissione, ha invero individuato, con rife-
SAGGI
825
Perplessità che trovano sintomatico riscontro nelle posizioni assunte
dagli Stati membri, che hanno pressoché generalmente dichiarato di non
voler fare applicazione del sistema emergente dalla complessiva disciplina
dell’art. 9 Reg. nella sua integralità (149).
In ragione della ravvisata incongruenza della soluzione adottata, ed
argomentando dal rilievo che « l’interpretazione dell’art. 9 quale tradizionale norma di conflitto. . . non solo non garantisce tale risultato, ma può
addirittura condurre ad una dissociazione degli effetti dannosa per entrambe le parti e, pertanto, inspiegabile: si pensi al caso in cui la lex loci
executionis sia quella di uno Stato che ammette la signification au parquet,
che grava il destinatario di una presunzione di conoscenza, mentre la lex
rimento al notificante, tale momento in quello della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (V. Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477, cit.), anteriore quindi a quello della spedizione (per il quale v. Cass., 2 febbraio 2002, n. 1390, in Giur. it., 2003, p. 1549 ss., con nota
di Dalmotto, La Corte manipola la norma sul perfezionamento della notifica postale: vecchie alternative e nuovi problemi); mentre per il destinatario si è indicato rimanere ferma al
riguardo la rilevanza della data di ricezione del plico (V. Corte cost., 26 novembre 2002, n.
477, cit.).
In tema di notificazione all’estero, l’individuazione del momento di perfezionamento
risulta ulteriormente complicato dalla possibilità di farsi al riguardo altresì riferimento alla
consegna dell’atto all’organo mittente dello Stato a quo (o comunque al primo pubblico ufficiale della catena notificatoria) o in quello del pervenimento dell’atto all’organo ricevente
dello Stato ove la notificazione o comunicazione deve essere effettuata (Stato ad quem); ovvero, ancora, con il compimento delle formalità prescritte incombenti anche all’organo preposti alla notificazione dello Stato richiesto. Con riferimento alla Convenzione dell’Aja del
1965 cfr. Ciaccia Cavallari, op. cit., p. 333 ss., ivi alla p. 336 ss.
(149) Emblematico appare al riguardo quanto dedotto dalla Francia a motivazione della
propria deroga all’applicazione del comma 2° dell’art. 9 Reg, laddove, nell’indicarsi « la data della notificazione o comunicazione » come quella valevole per il « richiedente », si indica tale soluzione valida « non solo per gli atti che intervengono nell’ambito di un procedimento, ma anche per gli atti extragiudiziali » a cura di un ufficiale giudiziario, richiesti per
l’appunto dalla legge per stabilire con certezza la data di rilascio, da cui dipende la salvaguardia o l’esercizio di un diritto. Ciò vale in particolare per alcuni atti in materia di affitto
di spazi commerciali (disdetta, rinnovo dell’affitto, cambiamento di destinazione) o di fondi rustici (disdetta, diritto di subentro, diritto di prelazione), nonché in materia di garanzie
o di provvedimenti esecutivi (pignoramento o espulsione). Alla data di un atto per il cui rilascio la legge non fissi un termine preciso, possono inoltre essere connessi effetti giuridici,
che si tratti di un atto giudiziario – per esempio nel caso della data di notificazione di una
sentenza che è il termine a quo per eventuali ricorsi-o di un atto extragiudiziale – come
un’ingiunzione di pagamento che può interrompere una prescrizione o far scattare interessi di mora. In casi del genere, nell’intento di garantire la certezza del diritto, è opportuno
che il richiedente possa conoscere senza indugio e con sicurezza la data di rilascio dell’atto »: v. Comunicazioni degli Stati membri, cit., p. 7 (sub art. 9).
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
loci iudicii sia fondata sul principio della notificazione personale, che
espone il notificante agli inconvenienti della prova della conoscenza effettiva », sicché « l’intepretazione riferita è insostenibile », si è da alcuni in
dottrina proposta la lettura dell’art. 9 quale norma « materiale », che « pone direttamente una nozione “comunitaria” di notificazione internazionale comprensiva delle tre fasi di cui consta il procedimento e, pertanto, perfezionantesi al compimento di quest’ultima », nozione che verrebbe a sostituire « quelle degli Stati membri » ed a rendere « inoperanti, in linea di
principio, i sistemi di signification au parquet » (150).
La condivisibilità delle perplessità che fondano tali considerazioni non
consente di considerare peraltro fondata tale interpretazione alternativa
dell’art. 9 in questione, giacché, oltre a non trovare rispondenza nei lavori
preparatori, dai quali si evince invero che la soluzione adottata dal regolamento è frutto di compromesso, essendo anche in tale occasione (come
già al tempo della Convenzione dell’Aja del 1965) fallito il tentativo di
pervenire a determinare un unico momento di perfezionamento della notificazione o comunicazione con valore generale, essa risulta in effetti prescindere dal relativo tenore testuale, in base al quale ai fini dell’individuazione della « data della notificazione o della comunicazione » vengono in
applicazione la « legge dello Stato membro richiesto » (comma 1°) e la
« legge » dello « Stato membro mittente » (comma 2°).
Va in argomento piuttosto evidenziato che all’applicazione della norma in questione non si sottraggono nemmeno gli atti sostanziali, cui la disciplina regolamentare è espressamente estesa (art. 16 Reg.).
È altresì da ribadirsi l’inidoneità del principio della scissione a valere
quale regola generale, potendo assumere semmai rilievo in termini di mera eccezione (151).
(150) Così Carella, op. cit., p. 141 ss., ivi alla p. 142.
(151) La disciplina del Regolamento si applica anche alla notificazione e comunicazione
dei documenti introduttivi del giudizio proposto in base al Regolamento (CE) n. 2201 del
2003 del Consiglio del 27 novembre 2003 ( cd. Bruxelles II bis ) relativo alla competenza, al
riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materie di responsabilità genitoriale, che abroga il Regolamento (CE) n. 1347 del 2000 (in G.U.C.E., L
338/1, 23 dicembre 2003): v. Considerando n. 15. Al riguardo, nel senso che le norme in tema di notificazione del Regolamento n. 1348 del 2000 sono da intendersi come « esclusivamente rivolte al giudice del processo che rimane l’unico legittimato ad applicarne le norme
in quel processo », mentre le disposizioni di cui al Regolamento n. 44 del 2001 « ai fini della determinazione delle conseguenze della eventuale litispendenza o della connessione con
il primo, andrà preso in considerazione dal giudice del primo processo », v. Frigo, Problemi
applicativi della normativa comunitaria in materia di notificazioni di atti giudiziari, in Riv. dir.
int. priv. e proc., 2006, 21.
SAGGI
827
13. – Il Regolamento non impone un’unica modalità di trasmissione
degli atti.
Accanto al sistema principale delineato agli articoli da 2 a 10, risultano
altresì indicati: a) la notificazione o comunicazione per via consolare o diplomatica (artt. 12 e 13); b) la notifica o comunicazione postale diretta (art.
14); c) la domanda diretta di notificazione o comunicazione (art. 15); d) l’adozione di un particolare mezzo di notificazione o comunicazione [ ( art.
11, comma 2°, lett. b)].
Trattasi di sistemi alternativi (152) o sussidiari (153), soggetti ad opposizione assoluta (154) o relativa (155) o a condizioni (156) da parte degli Stati.
Di assoluto rilievo appare quanto la stessa Corte CE, 8 novembre 2005, C-443/03, Leppler, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2006n 252 n., ha avuto recentemente modo di affermare al
riguardo: « La data di una notificazione o comunicazione può essere importante per il richiedente, ad esempio, allorché l’atto notificato è un ricorso da presentarsi entro un termine perentorio o è diretto ad interrompere una prescrizione . . . il richiedente deve poter fornire, quanto alla data dell’effetto della notificazione o comunicazione iniziale . . . Tuttavia,
la data di una notificazione o comunicazione può essere importante anche per il destinatario, in particolare qualora costituisca il diis a quo del termine per proporre un ricorso o predisporre una difesa. Una tutela effettiva del destinatario dell’atto induce a prendere in considerazione, nei suoi confronti, unicamente la data in cui ha potuto non soltanto prendere
conoscenza dell’atto notificato o comunicato ma anche comprenderlo, vale a dire la data in
cui ne ha ricevuto la traduzione ».
Di rilevante portata appare anche la nuova formulazione dell’art. 9 recato dalla Proposta di Regolamento di modifica del Regolamento n. 1348 che, nel prevedere l’abrogazione
della possibilità di deroga di cui al vigente 3° comma, e nel sancire che « la data della notificazione o comunicazione di un atto è quella alla quale l’atto è stato notificato o comunicato in conformità della legislazione dello Stato membro richiesto », viene formalmente ad
accogliere quale regola generale un’unica data di perfezionamento, optando per la tutela
del destinatario, relegando ad eccezione l’ipotesi in cui, per salvaguardare i diritti del richiedente, che può avere interesse ad agire entro un dato termine o una determinata data,
è al medesimo consentito di scegliere di prendere in considerazione la data fissata dalla legislazione del proprio Stato.
Trattasi di soluzione che muove dalle difficoltà incontrate dagli Stati membri che non
conoscono il regime della doppia data di perfezionamento della notificazione o comunicazione, con conseguente limitazione della possibilità di farsi luogo alla deroga solamente per
gli Stati membri la cui legislazione tale regime viceversa prevede.
In ordine all’operatività del principio della scissione v. anche infra al § 18.
(152) La notificazione per posta; la notifica diretta e senza coercizione da parte di agenti
diplomatici o consolari, ex art. 13; la notifica diretta attraverso i soggetti competenti dello
Stato membro richiesto, ex art. 15; l’adozione di un particolare mezzo di notificazione.
(153) La trasmissione cd. indiretta per via consolare o diplomatica.
(154) La domanda diretta di notificazione o comunicazione ex art. 15.
(155) La notificazione o comunicazione diretta e senza coercizione da parte di agenti di-
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
La notificazione o comunicazione per via consolare o diplomatica cd.
indiretta costituiva la modalità principale di trasmissione degli atti all’estero prevista dalle Convenzioni dell’Aja del 1905 e del 1954, nonché dalla
Convenzione dell’Aja del 1965 (artt. 8 e 9) (157).
Diversamente, in particolare, da quest’ultimo strumento pattizio, il
Regolamento limita ora la possibilità di fare ricorso ad entrambe le ipotesi considerate (e non solamente alla notificazione per via diplomatica) alla sussistenza di « circostanze eccezionali » (158). A conferma dell’accentuata sussidiarietà e residualità di tale tipo di trasmissione, costituente
emblematica espressione dei principi di sovranità statale e di territorialità
della giurisdizione, alla stregua della mutata concezione dei rapporti di
cooperazione giudiziaria e giuridica tra gli Stati evocata dall’attuale prospettiva della costruzione di uno « spazio comune » e di una concezione in
termini di « unità territoriale » degli Stati membri dell’U.E. (159).
La richiesta di trasmissione di atti agli organi riceventi ex art. 2 Reg.,
ovvero di informazioni o richiesta di intervento rivolta all’Autorità centrale ai sensi dell’art. 3 Reg., può essere quindi proposta da agenti consolari
o diplomatici (160).
plomatici o consolari ai cittadini che non siano dello Stato membro richiedente; la notifica
postale diretta priva delle condizioni richieste.
(156) Come la sussistenza di limiti di compatibilità ed esperibilità di fatto (con riferimento ad es. alle trasmissioni per via informatica o telematica), o la sopportazione delle
spese (come ad es. con riferimento alla notificazione o comunicazione da effettuarsi con
particolari mezzi).
(157) Oltre che in numerosi altri strumenti convenzionali: Frigo, op. ult. cit., p. 79.
(158) Le « circostanze eccezionali » che legittimano il ricorso a tale modalità di notificazione o comunicazione sono nella Relazione esplicativa alla Convenzione del 1997 indicate nei « casi di estrema difficoltà, come quelli menzionati a proposito dell’articolo 3, lettera c), per esempio situazioni sociali o climatiche che rendono impossibile qualsiasi inoltro
degli atti da uno stato membro all’altro con mezzi diversi »: v. Relazione esplicativa, cit. C
261/34 ss.
(159) Per la progressiva emarginazione delle notificazioni per via consolare e diplomatica cfr. Ronco, op. cit., p. 412 ss.
(160) La disciplina posta dal Regolamento si discosta invero dalla prassi in base alla quale la richiesta è fatta pervenire, a cura dagli agenti diplomatici al Ministero degli Affari esteri dello Stato mittente (a quo), al Ministero degli Affari esteri dello Stato richiesto (ad
quem), e dagli agenti diplomatici di quest’ultimo inoltrata – tramite il Ministero della Giustizia – agli organi competenti per la notifica. In argomento v. Panzarola, op. cit., p. 1191,
nota 128; Frigo, op. ult. cit., p. 256; Costantino-Saravalle, Il regime della notificazione all’estero secondo la Convenzione dell’Aja del 15 novembre 1965, in Riv. dir. int. priv. proc., 1984,
p. 466; Ronco, op. cit., p. 412 ss.
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Anziché provvedere all’invio agli organi riceventi dello Stato richiesto
(ad quem) (art. 12), lo Stato membro mittente (a quo) può far procedere
alla notificazione o comunicazione dell’atto direttamente i propri agenti diplomatici o consolari che si trovano ed operano nello Stato ove deve essere effettuata la notifica (ad quem), omettendo pertanto l’intervento degli
organi competenti di quest’ultimo.
In tal caso la notifica deve avvenire, secondo tradizione nei rapporti
internazionali, « senza coercizione », non potendo considerarsi pertanto
effettuata, e quindi valida ed efficace, in caso di rifiuto del destinatario di
ricevere l’atto (161).
Quanto alle modalità di esecuzione, con riferimento alla Convenzione
dell’Aja del 1965 la necessità di avere riguardo alla legge dello Stato richiedente (a quo) (162).
Trattandosi di funzione espletata nel proprio territorio, lo Stato ad
quem può tuttavia opporsi a tale facoltà laddove il destinatario della notificazione o comunicazione sia un proprio cittadino o comunque un cittadino non appartenente allo Stato a quo. L’autorità consolare ha in tal caso facoltà di effettuare notificazioni o comunicazioni solamente a cittadini del proprio Stato di origine (ad es., la Francia può opporsi a che l’Italia provveda a mezzo dei propri agenti consolari o diplomatici a notificare o comunicare atti in Francia a cittadini francesi, o comunque non ita-
(161) In argomento v. Ronco, op. cit., p. 412 ss., ivi alla p. 413.
(162) V. Frigo, op. loc. ultt. citt.; Costantino-Saravalle, op. cit., p. 464; Panzarola, op.
cit., p. 1192, nota 133.
Per l’Italia trovano applicazione gli artt. 30 e 75 della legge consolare (d.p.r. 5 gennaio
1967, n. 200): Art. 30: l’« autorità consolare provvede direttamente o tramite le autorità locali, in conformità alle convenzioni internazionali ed alle leggi dello Stato di residenza, alla notificazione degli atti ad essa rimessi a norma delle vigenti disposizioni »; Art. 75: « qualora l’ufficio consolare che debba provvedere a notificazioni venga a conoscenza che l’interessato si trova nella circoscrizione di altro ufficio, rimette gli atti a quest’ultimo per competenza, avvertendone l’autorità delegante o il ministero degli affari esteri ». In argomento
v. Politi, La Convenzione dell’Aja del 1965 sulle notificazioni civili all’estero e le notifiche a
cura dei consoli italiani, in Riv. dir. int. priv. proc., 1983, p. 375 ss. Per una sintetica ricostruzione del procedimento v. altresì Panzarola, op. cit., p. 1192, nota 132: « gli ufficiali giudiziari, a richiesta dell’interessato, invieranno l’atto agli agenti consolari o diplomatici all’estero territorialmente competenti; se l’atto perviene ad un ufficio consolare territorialmente incompetente, quest’ultimo provvederà a rimetterlo all’ufficio nella cui circoscrizione si
trova l’interessato, avvertendo l’autorità delegante o il Ministro degli affari esteri; gli agenti suddetti cureranno la notificazione, che avverrà a mente dell’art. 91 d.p.r. n. 2000 cit., mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, ovvero, nel caso non sia possibile, con altro sistema di comunicazione ».
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
liani) (163), evidente emergendo, nel caso, il persistente retaggio dei già richiamati princìpi di sovranità statale e di territorialità della giurisdizione.
L’Italia si è in effetti avvalsa della facoltà di opposizione al riguardo, dichiarandosi « contraria alle notifiche e/o comunicazioni dirette di atti giudiziari (164) effettuate da agenti diplomatici o consolari alle persone che siano residenti in altro Stato membro (tranne che l’atto vada notificato o comunicato ad un cittadino italiano residente in altro Stato membro) (165) »
ovvero che « siano residenti in Italia, salvo che l’atto debba essere notificato o comunicato ad un cittadino di detto Stato membro » (166).
Trattasi di opzione invero diversa da quella a suo tempo operata con
riferimento alla Convenzione dell’Aja del 1965, allorquando non risulta
essere stata dall’Italia comunicata opposizione ai sensi dell’art. 8 di detto
strumento patrizio (167).
In base alla disciplina posta dal Regolamento, emerge dunque un quadro in base al quale:
sul territorio di altro Stato membro, gli agenti diplomatici o consolari italiani possono procedere a notificare o comunicare direttamente: a) atti giudiziari, solo a cittadini italiani residenti nello Stato membro ad quem cui si
applica il Regolamento; b) atti giudiziari ed extragiudiziali, a tutte le persone, anche non cittadini italiani, cui non si applica il Regolamento bensì la
Convenzione dell’Aja del 1965 (ad es., Danimarca);
in Italia, agenti diplomatici o consolari di altri Stati membri possono
procedere a notificare o comunicare direttamente a) atti giudiziari (solamente a cittadini dello Stato membro a quo, se si tratta di Stato membro
dell’U.E. cui si applica il Regolamento); b) atti giudiziari ed extragiudiziali,
a tutte le persone residenti in Italia, se trattasi di Stati membri dell’U.E.
cui non si applica il Regolamento bensì la Convenzione dell’Aja del 1965
(ad es., Danimarca).
(163) In tal senso cfr. Giacalone, La lunga marcia dell’euronotifica rafforza la cooperazione giudiziaria, cit., p. 66.
(164) E non anche, quindi, degli atti extragiudiziali.
(165) Formulazione che non risulta invero ben chiara nella sua portata.
(166) V. Comunicazioni degli Stati membri, cit., p. 4. Oltre all’Italia, solamente il Belgio ed
il Lussemburgo si sono opposti alla notifica consolare o diplomatica diretta ex art. 13, comma 1°, Reg.: v. Comunicazioni degli stati membri, cit., p. 9 (sub art. 13).
In Germania è consentita solo se indirizzata a cittadini dello Stato membro mittente (§
1067 ZPO).
In argomento v. Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 62; Frigo, Il regolamento comunitario
sulle notificazioni in materia civile o commerciale, cit., p. 118 ss.
(167) Cfr. Panzarola, op. cit., p. 1192, nota 133.
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14. – L’art. 14 Reg. prevede la possibilità di farsi luogo alla notificazione o comunicazione di atti per via postale diretta.
Gli organi mittenti dello Stato a quo (art. 2 Reg.) hanno facoltà di trasmettere l’atto anziché con l’invio all’organo ricevente (art. 2 Reg.) dello
Stato membro ad quem, mediante spedizione per posta, con omissione
cioè del tramite dell’organo ricevente e trasmissione effettuata mediante il
diretto inoltro dall’organo mittente all’ufficio postale dello Stato membro
nel quale deve avvenire la notifica o comunicazione.
Si tratta di una modalità di trasmissione prevista anche dalla Conv. Aja
del 1965 (art. 10, comma 1, lett. a), che, in ossequio al principio di sovranità,
ammette tuttavia la facoltà per gli Stati di opporvisi in termini assoluti.
La novità di maggior rilievo introdotta in tema dal Regolamento è allora da ravvisarsi nell’attribuzione agli Stati membri della possibilità di meramente « specificare le condizioni » alle quali essi accettano l’operatività della notificazione o comunicazione di atti a mezzo posta (art. 21 Reg.) (168).
Le condizioni di cui fa menzione la norma attengono esclusivamente
alle modalità di relativa effettuazione (invio per raccomandata, con traduzione degli atti, ecc.).
Né la relativa mancata indicazione da parte degli Stati può comportare effetti paralizzanti in ordine alla possibilità di avvalersi di tale tipo di sistema notificatorio, costituendo oggetto di mera facoltà, il cui mancato
esercizio ne comporta la incondizionata applicabilità nello Stato membro
(a meno che esso non lo ignori in termini assoluti).
L’Italia ha, per parte sua, posto al riguardo la condizione che l’atto sia
accompagnato da traduzione in lingua italiana (169).
Altri Paesi hanno diversamente indicato la necessità dell’invio in plico
raccomandato (Grecia), con avviso di ricevimento (Germania, Belgio, Austria, Francia, Regno Unito, Spagna, Portogallo); che sia prepagato (Irlanda), e con traduzione (Germania, Austria, Regno Unito, Spagna, Portogallo); o che il ricevente abbia determinate qualità (Grecia) (170).
(168) Cfr. Frigo, op. ult. cit., p. 119; Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 80. Per il rilievo che
nell’ipotesi in questione la compressione della sovranità dello Stato ad quem risulta peraltro meno accentuata rispetto alla notificazione consolare o diplomatica, in quanto interviene l’agente postale dello stesso Stato ad quem v. Ronco, op. cit., p. 412.
(169) V. Comunicazioni degli Stati membri, cit., p. 9 (sub art. 14).
Anche la Germania richiede la traduzione in lingua tedesca, salvo che il destinatario sia
cittadino dello Stato mittente, essendo in tal caso sufficiente che l’atto notificato sia redatto
in una lingua ufficiale di quest’ultimo (§ 1068 ZPO).
(170) Solo la Svezia non ha invero posto alcuna condizione alla notificazione o comunicazione postale.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Stante il tenore dell’art. 2 Reg. (« altre persone »), l’invio può essere effettuato anche da avvocati autorizzati (in Italia, ai sensi della L. 21 gennaio
1994, n. 53) (171).
Benché indubbiamente idonea ad una trasmissione rapida, la notificazione postale diretta presenta profili di rischio per il mittente, in quanto
l’autorità postale straniera non è soggetta alle disposizioni della L. n. 890
del 1982 (come modificata dalle sentenze Corte Cost., 22 settembre 1998,
n. 436 e Corte Cost., 26 novembre 2002, n. 477), integrante la regola posta
dall’art. 149 c.p.c., alla cui stregua il relativo perfezionamento e l’efficacia
vanno apprezzati (172).
Contrariamente a quanto si verifica in caso di notificazione cd. « interna », il rifiuto di ricevere il plico o di sottoscrivere l’avviso di ricevimento da parte del destinatario della notifica all’estero e la relativa « giacenza » (in caso di sua assenza di questi) presso l’ufficio postale non comportano alcun effetto utile ai fini della validità della notificazione, salvo
(171) Cfr. Ronco, op. cit., p. 414.
Contra v. Panzarola, op. cit., p. 1192, nota 134; Dalmotto, in Aa.Vv., Trasmissione via
fax e notificazione ad opera degli avvocati a cura di Chiarloni, Padova, 1998, p. 184 ss.
(172) Cfr., con specifico riferimento alla L. n. 890 del 1982 all’esito della pronunzia della
Corte cost. n. 436 del 1998, Campeis-De Pauli, op. cit., p. 251.
In ordine alle modifiche della disciplina della notificazione a mezzo posta introdotte
dall’art. 2, comma 4, D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (c.d. decreto sulla competitività), conv. con
modif. nella L. 14 maggio 2005, n. 80, con efficacia dal 17 marzo 2005, v. Marzocco, La
nuova disciplina della notificazione a mezzo posta: nuovi spazi per un intervento della Corte
costituzionale?, in Giur. it., 2006, 1564 n., il quale adombra dubbi sulla relativa legittimità
costituzionale, ed in particolare con riferimento alla vigente formulazione del 2° comma
dell’art. 8, là dove – a differenza dell’art. 140 c.p.c. – « irragionevolmente » non prevede
che « l’agente postale, al ricorrere delle situazioni descritte nel 2° comma, affigga immediatamente avviso del deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, con la
conseguenza di porre a carico del destinatario il rischio del tardivo o mancato recapito, a
causa di un disservizio postale, dell’avviso raccomandato, divenuto per lui l’unica fonte di
conoscibilità dell’avvenuto deposito del piego (violazione degli artt. 24, 2° comma, e 111,
2° comma, Cost.) »; nonché « nella parte in cui fa decorrere il termine di differimento dell’efficacia della notificazione nei confronti del destinatario dal momento del deposito o della spedizione . . ., anteriori ad ogni possibilità per quest’ultimo di conoscere l’avvenuto deposito, con la conseguenza di vanificare la funzione del differimento dell’efficacia e di addossare al destinatario, anche sotto tale profilo, il rischio dei tempi della consegna (violazione degli artt. 24, 2° comma, e 111, 2° comma, Cost.), e non invece dal momento della
consegna dell’avviso raccomandato o, in caso di assenza del destinatario (o di possibili
consegnatari), della sua affissione alla porta o immissione nella cassetta della corrispondenza, cioè quando l’atto è stato condotto quanto meno nella sfera di conoscibilità del destinatario ».
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833
quello di farne conoscere (in ritardo) il suo mancato buon esito. Il plico
inviato è infatti assoggettato alla disciplina riservata alla corrispondenza
ordinaria (173).
Il raggiungimento dello scopo della notifica è allora in tal caso rimesso alla mera casualità, tanto da consigliarsi di farvi ricorso solamente
quando la ricezione dell’atto è ragionevolmente certa, come in caso di invio ad istituti bancari, compagnie di assicurazione, studi legali, uffici pubblici, ecc. (174).
Profili di rischio conseguono altresì alla mancata possibilità, adottando
tale tipo di notifica, di avvertire il destinatario della facoltà di rifiutare l’atto non scritto nella propria lingua e non tradotto ai sensi dell’art. 8 Reg. (175).
Il che ne rende quantomeno dubbia la ritualità.
Da quella diretta va tenuta distinta la notificazione postale cd. indiretta, che si ha quando la via postale è seguita per decisione dell’organo ricevente, il quale, ai sensi dell’art. 7 Reg., « procede o fa procedere alla notificazione o alla comunicazione dell’atto secondo la legislazione dello Stato
membro richiesto ».
Il rapporto di trasmissione si snoda, in tal caso, tra l’organo mittente
dello Stato a quo, l’organo ricevente dello Stato ad quem e l’agente postale
dello Stato ad quem.
La notificazione o comunicazione si perfeziona secondo la disciplina
dello Stato ad quem, salva la verifica circa la relativa non contrarietà all’or-
(173) V. la Convenzione universale postale firmata a Losanna il 5 luglio 1974, cui aderiscono tutti gli Stati e resa esecutiva in Italia con d.p.r. 5 dicembre 1975, n. 684, e la Convenzione universale postale di Rio de Janeiro del 26 ottobre 1979, ratificata con d.p.r. 11
febbraio 1981, n. 358, che prevedono la generale possibilità di spedire raccomandate con ricevuta di ritorno; nonché il d.p.r. 3 febbraio 1997, n. 98, recante regolamento di esecuzione
delle decisioni adottate dal XXI Congresso dell’Unione postale universale, tenutosi a Seoul
dal 22 agosto al 14 settembre 1994. In argomento, nello stesso senso, v. Frigo, op. ult. cit.,
p. 120 ss.; Campeis-De Pauli, op. cit., p. 249.
(174) V. Campeis-De Pauli, op. loc. ultt. citt.; Frigo, op. ult. cit., p. 121. Al fine di ulteriormente agevolare il ricorso alla notificazione a mezzo posta il Progetto di Regolamento
di modifica prevede (paragrafo 5) l’introduzione di una condizione uniforme (lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o tipo equivalente di invio), già in applicazione in numerosi Stati membri, quale condizione ravvisata garantire un « consono » grado di certezza che il
destinatario ha ricevuto l’atto e che disponga di una prova sufficiente.
Per dare maggiore certezza giuridica al richiedente la notifica, e per ragioni di coerenza
e di chiarezza, si prevede poi (paragrafo 7) che le disposizioni relative al rifiuto di ricezione
dell’atto (art. 8) ed alla data di notificazione o comunicazione (art. 9) si applichino anche alle altre modalità di trasmissione degli atti di cui agli artt. 12-15 del Regolamento n. 1348.
(175) V. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 250.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
dine pubblico (ad es. ai fini della declaratoria della contumacia) dello Stato a quo (176).
15. – L’organo mittente può richiedere all’organo ricevente di procedere
o far procedere alla notificazione o comunicazione dell’atto secondo forme particolari (art. 7, comma 1, Reg.).
Può essere pertanto richiesta, in alternativa o in combinazione (177), l’adozione di forme di notificazione diverse da quelle indicate dal Regolamento (178).
Il cittadino italiano che voglia notificare o comunicare un atto in altro
Stato membro può richiedere ad esempio di procedere secondo le formalità previste dall’art. 140 c.p.c. (deposito, affissione, avviso), o altre analoghe, per l’ipotesi di mancata notifica a mani del destinatario o di irreperibilità di fatto del medesimo (179).
16. – Il Regolamento consente, analogamente a quanto previsto dalla
Conv. Aja del 1965, che le « persone interessate », anziché rivolgersi all’organo mittente del proprio Stato membro, possano direttamente richiedere
agli organi competenti dello Stato ad quem la notifica o la comunicazione
di un atto.
A tale stregua, si è posto in rilievo, l’attività del funzionario straniero
viene ad essere « equiparata », ai fini della valutazione di ritualità, a quella
dell’ufficiale giudiziario italiano (180).
Al riguardo, si noti, la previsione di cui all’art. 15 Reg., stante la sua
natura di fonte di diritto derivato (181), consente di ritenere espressamente
(176) V. Campeis-De Pauli, op. loc. ultt. citt., i quali fanno salva in questo caso l’osservanza del principio di ordine pubblico processuale del nostro Paese, movendo dalla sentenza Cass., 13 gennaio 1998, n. 206, in Foro it., 1998, I, c. 1509, che pur consentendo la Convenzione bilaterale tra Italia ed Austria del 30 giugno 1997 di procedere alla notificazione,
tramite il servizio postale, al destinatario domiciliato nell’altro Paese contraente prevedendo che le modalità di consegna siano quelle ritualmente ammesse dallo Stato di destinazione, ha ritenuto inidonea a soddisfare tale requisito la notificazione per posta ad uno studio
legale austriaco, con cui il destinatario aveva in precedenza intrattenuto rapporti.
V. anche Frigo-Fumagalli, op. cit., p. 83; Frigo, op loc. ultt. citt.
(177) Cfr. Campeis-De Pauli, op. loc. ultt. citt.
(178) In ordine alla particolare forma di notificazione nei confronti di soggetti domiciliati in Slovenia v. Picciotto, Il sistema delle notificazioni tra Italia e Slovenia, in Riv. dir. int.
priv. proc., 2000, p. 981 ss.
(179) V. Campeis-De Pauli, op. loc. ultt. citt.
(180) Così Campeis-De Pauli, op. cit., p. 245. V. anche Frigo, op. loc. ultt. citt.
(181) Diversamente pertanto dall’art. 10, lett. c), Conv. Aja del 1965, fonte meramente
convenzionale.
SAGGI
835
superato il cd. monopolio tendenziale dell’ufficiale giudiziario in ordine all’attività di notificazione (182), nell’ordinamento italiano invero realizzata
già dalla L. 31 gennaio 1994, n. 53, che ha introdotto la notificazione di atti civili, amministrativi e stragiudiziali da parte degli avvocati (183).
È salva peraltro la possibilità per gli Stati di fare opposizione alla soluzione in argomento (art. 15, comma 2, Reg.). Facoltà che l’Italia non ha esercitato, dichiarando anzi che « nulla osta a che una persona interessata ad un
procedimento giudiziario possa far notificare direttamente gli atti giudiziari
attraverso pubblici ufficiali competenti dello Stato membro ricevente » (184).
Lo specifico riferimento ai soli pubblici ufficiali, nel restringere le opzioni possibili ammesse dalla norma regolamentare, sembra immotivatamente restringere d’altro canto la soluzione ampia che l’espressione « altre persone competenti » viceversa contempla, impedendo ad esempio
agli avvocati italiani o ai solicitors inglesi di farvi ricorso (185).
(182) In tal senso v. Frigo, Il regolamento comunitario sulle notificazioni in materia civile
o commerciale, cit., p. 118 ss., ivi alla p. 122 ss.
(183) V. Cass., 19 febbraio 2000, n. 1938: « Il nuovo tipo di notificazione degli atti civili,
amministrativi e stragiudiziali delineato dalla legge n. 53 del 1994 (che si affianca alle forme
tradizionali di notificazione) si basa sull’eliminazione del coinvolgimento della figura dell’ufficiale giudiziario, in quanto il difensore è stato trasformato in organo del relativo procedimento notificatorio. Ne consegue che – a differenza di quanto avviene per l’ufficiale
giudiziario, per il quale, in quanto inserito nell’organico giudiziario, vige il principio fondamentale della competenza territoriale – nei confronti dell’avvocato non può configurarsi alcuna questione di competenza territoriale, non incontrando egli alcun limite territoriale alla sua potestà notificatoria (Fattispecie relativa alla notificazione di una sentenza impugnata con ricorso per cassazione) ». Conformemente v. Cass., 25 giugno 2003, n. 10077.
Va al riguardo posto altresì in rilievo come l’art. 34 L. 15 dicembre 1959, n. 1229 ponesse già l’equiparazione funzionale tra l’ufficiale giudiziario ed il messo di conciliazione: v.
Cass., 28 gennaio 1999, n. 770, in Giust. civ., 2000, I, p. 195 ss., con nota di Auletta, La (sanatoria della) nullità della notificazione per “vizio di costituzione” dell’agente e in Foro it.,
2001, I, p. 694 ss., con nota di M. Izzo.
(184) V. Comunicazioni degli Stati membri, cit., p. 9.
Opposizione è stata invece comunicata da Austria, Portogallo, Inghilterra, Galles ed Irlanda del Nord (diversamente da Scozia, che ha espressamente dichiarato di non opporvisi), Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lituania, Polonia, Slovacchia e Slovenia, mentre il
Lussemburgo non si oppone a condizione di reciprocità: v. Comunicazioni degli Stati membri, cit., p. 11 ss.
Anche in Germania non è consentito procedere alla notifica di un atto di procedimento straniero tramite richiesta diretta della parte interessata agli ufficiali giudiziari tedeschi (§
1071 ZPO). Nel Progetto di Regolamento di modifica del Regolamento n. 1348 la possibilità
di opposizione viene peraltro abrogata, introducendosi pertanto una norma uniforme per
tutti gli Stati membri.
(185) V. Ronco, op. cit., p. 415. Segnale che l’Irlanda ha peraltro indicato al riguardo i so-
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Le modalità concrete di esecuzione della notifica o comunicazione sono determinate dalla legislazione dello Stato ad quem (186), fatto sempre
salvo il principio dell’ordine pubblico processuale (187).
17. – L’art. 19 Reg. detta una disciplina processuale uniforme in tema di
regolare costituzione del contraddittorio, contumacia e rimessione in termini (a fini d’impugnazione) (188).
Il Regolamento riprende il disposto degli artt. 15 e 16 Conv. Aja del
1965 e dell’art. 20 Conv. Bruxelles del 1968.
La « comunitarizzazione » della disciplina in precedenza meramente
pattizia assume rilievo assolutamente pregnante là dove comporta la necessità del contemperamento della disciplina, oltre che con i diritti inalienabili
della persona umana e i princìpi fondamentali dei sistemi costituzionali nazionali (189), con i princìpi generali integranti il cd. acquis communautaire in
materia, quali in particolare la tutela giurisdizionale adeguata, il diritto di
difesa, la non discriminazione (190). Ed impone di verificarne la compatibilità con l’ordine pubblico di diritto internazionale privato comunitario (191),
licitars Frigo, Problemi applicativi della normativa comunitaria in materia di notificazione di
atti giudiziari, cit., 10.
(186) V. Ronco, op. loc. ultt. citt.
(187) Cfr. Frigo, op. loc. ultt. citt.
(188) Cfr. Campeis-De Pauli, op. cit., p. 246.
All’art. 19 fa espressamente richiamo l’art. 246 del Regolamento n. 44 del 2001 (nonché
l’art. 10 del Regolamento n. 1347 del 2000, peraltro abrogato dal 1° marzo 2005).
Diversamente, nel senso che ai fini della litispendenza e della connessione la regolarità
della notificazione al convenuto va determinata in base al Regolamento n. 44, e non già a quello n. 1348 in esame, v. peraltro Frigo, La disciplina comunitaria della notificazione degli atti in
materia civile e commerciale: il Regolamento (CE) n. 1348/2000, cit., p. 147 ss., ivi alla p. 148 ss.
(189) V. Corte cost., 19 novembre 1987, n. 399, in Foro it., 1989, I, c. 1018 ss., con nota di
Sico, Ancora sul rapporto tra diritto comunitario ed ordinamento italiano e in Le regioni, 1988,
p. 351 ss., con nota di Balboni e Papa, Regolamenti comunitari e ripartizione costituzionale
delle competenze: verso nuove frontiere.
(190) Cfr. Biavati, op. cit., p. 527 ss.
In argomento v. anche supra al § 1.
(191) In argomento v. in particolare Carbone, op. cit., p. 229 ss.; Salerno, Giurisdizione
ed efficacia delle decisioni straniere nel regolamento (CE) n. 44/2001, Padova, 2003, p. 246 ss.;
Fumagalli, L’ordine pubblico nel sistema del diritto internazionale privato comunitario, in
Dir. comm. internazionale, 2004, p. 635 ss., ed ivi anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, il quale, nel segnalare la difficoltà di « isolare » gli effetti del diritto comunitario nella
messa in opera del limite dell’ordine pubblico, sottolinea come il diritto comunitario « può
creare nuovi principi di ordine pubblico, ovvero escludere il rilievo di altri, con esso contrastanti, che il giudice nazionale è chiamato a tutelare », e che assume una funzione di ga-
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oltre che con l’ordine pubblico interno del singolo Stato membro (192).
18. – L’art. 19 disciplina anzitutto le conseguenze derivanti dalla mancata comparizione del convenuto in giudizio, all’esito della notifica della
citazione o del ricorso (o di « un atto equivalente ») effettuata in conformità al Regolamento.
Il giudice in tal caso non può (« è tenuto a soprassedere ») pronunciare la « decisione » fin quando non vi sia la prova: a) dell’avvenuta notifica
ranzia del rispetto dei valori vigenti nel sistema comunitario, promuovendolo nei confronti degli ordinamenti giuridici degli altri Stati membri, che da essi hanno deviato: « Il limite
dell’ordine pubblico finisce così per svolgere una funzione “positiva”. . . di promozione dell’integrazione, apprestando una tutela a fronte della violazione di principi fondamentali
dell’ordinamento comunitario » ( ivi, p. 643 ss. ).
(192) V. art. 27 Conv. Bruxelles 1968: « Le decisioni non sono riconosciute: 1. se il riconoscimento è contrario all’ordine pubblico dello Stato richiesto ».
In argomento v. Parisi, Spunti in tema di ordine pubblico e convenzione giudiziaria di
Bruxelles, in Riv. dir. int. priv. proc., 1881, p. 13 ss.; Mosconi, Il limite dell’ordine pubblico nella Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in Jus, 1990, p. 45 ss.
In tema di ripercussione delle norme del sistema comunitario sul diritto nazionale, ed
in particolare su norme di conflitto interne, v. Bariatti, Prime considerazioni sugli effetti dei
prncipi generali e delle norme materiali del Trattato CE sul diritto internazionale privato comunitario, in Riv. dir. int. priv. proc., 2003, p. 670 ss.; Fumagalli, op. cit., p. 637 ss., ove anche
per richiami alla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Tale a., citando al riguardo la sentenza Corte CE, 28 marzo 2000, C-7/98, Krombach, pone in rilievo come l’ordine pubblico
interno vada invero inteso in senso restrittivo, in quanto, se assicura la coerenza dell’ordinamento interno, esso d’altro canto « rompe la coerenza delle soluzioni dettate per raggiungere l’armonia ed il coordinamento tra i sistemi; e segna perciò la preferenza per la tutela di un valore. . . a discapito dell’altro », sicché tale « rottura » è ammessa solamente nei
limiti « che lo stesso sistema comunitario ammette », spettando alla « Corte di giustizia definire in via interpretativa i limiti di tale nozione e delle possibilità per gli Stati membri di
farvi ricorso ». Del tutto condivisibilmente Corte CE, 8 novembre 2005, C-443/03, cit., afferma che il giudice è tenuto a soprassedere alla decisione anche nel caso in cui un atto sia
stato rifiutato in quanto non redatto in una lingua ufficiale dello Stato membro richiesto o
in una lingua dello Stato membro mittente compresa dal destinatario di tale atto, ed il convenuto non compare, fintantoché non sia provato che l’atto è stato sonato mediante l’invio
di una traduzione e che l’invio ha avuto luogo in tempo utile perché il convenuto potesse
difendersi. Un obbligo siffatto risulta altresì dal principio enunciato all’art. 26, n. 2, del Regolamento n. 44/2001, e la verifica della sua osservanza è preliminare al riconoscimento di
una decisione, conformemente all’art. 34, punto 2, dello stesso Regolamento. Per risolvere
i problemi connessi al modo in cui la mancanza di traduzione dev’essere sonata, non previsti dal Regolamento come interpretato dalla Corte, il giudice nazionale è tenuto . . . ad applicare il suo diritto processuale nazionale, vegliando al contempo affinché sia garantita la
piena efficacia del Regolamento, nel rispetto della sua finalità.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
o comunicazione al convenuto secondo le forme prescritte dallo Stato ad
quem (193) o che l’atto sia stato effettivamente consegnato al convenuto ovvero consegnato nella residenza abituale del convenuto secondo altra modalità (es., a mezzo posta); e b) che la consegna abbia avuto in ogni caso
luogo in tempo utile per consentire la difesa in giudizio del medesimo (art.
19, comma 1, Reg.).
In dottrina si è sostenuto che il giudice non può in tal caso fare luogo
ad « una declaratoria di contumacia tout court » (194).
L’espresso riferimento alla decisione, e la possibilità che « in caso d’urgenza » vengano assunti provvedimenti provvisori o cautelari (art. 19, comma 3, Reg.) legittimano il dubbio che il legislatore comunitario limiti in effetti il divieto alla mera emissione della decisione finale, non rimanendo
invece impedito lo svolgimento del processo (o del procedimento) nelle
sue diverse fasi. Come sembrerebbe confermato (anche) dalla disciplina
della cd. rimessione in termini prevista al comma 4 del medesimo art. 19,
ove intesa come operante limitatamente all’impugnazione della decisione
finale (195), e non anche ai fini della revoca della declaratoria di contumacia o della rimozione di eventuali preclusioni istruttorie maturate prima di
tale pronunzia.
Si pone in evidenza in dottrina che l’ipotesi di cd. sospensione necessaria (europea), in questione presenta punti di contatto con l’istituto disciplinato all’art. 291 c.p.c., in quanto entrambi mirano ad « evitare lo svolgersi di un processo in cui al convenuto possa essere contumace involontario ». Da quest’ultimo tuttavia diverge laddove la detta sospensione è
configurata non già quale mezzo di sanatoria della nullità della notificazione bensì quale mera « situazione statica di inattività processuale »,
stante la mancanza agli atti dell’attestazione della notificazione o della
consegna, e quindi della prevista documentazione (196).
Fondamento della norma è il rispetto del principio della regolare costituzione del contraddittorio, essendo la detta sospensione finalizzata a consentire l’acquisizione della prova del rispetto delle formalità prescritte, e
dell’avvenuta ricezione in tempo utile per l’apprestamento della difesa (197).
(193) Per una prima applicazione da parte di un giudice italiano v. Trib. Torino, 17 luglio
2002, in Giur. merito, 2003, I, p. 1 ss., che, non comparso il convenuto, ha disposto la sospensione del processo « in attesa che parte attrice fornisca le prove dell’avvenuta notifica ».
(194) Così Campeis-De Pauli, op. loc. ultt. citt.
(195) In tal senso (sembra) Campeis-De Pauli, op. cit., p. 247.
(196) V. Campeis- De Pauli, op. cit., p. 246.
(197) Cfr. Ciaccia Cavallari, op. cit., p. 350.
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In caso di urgenza, il giudice può peraltro assumere misure provvisorie o a carattere conservativo (198).
La nozione di tempo utile introduce un criterio diverso da quello dei
termini fissi e prestabiliti imposti dal nostro codice quale requisito di validità dell’atto di citazione (ex art. 164 c.p.c.), con conseguente attribuzione
di decisivo rilievo all’apprezzamento discrezionale del giudice (199).
L’art. 19 consente tuttavia (comma 2) agli Stati membri di comunicare
che i propri giudici hanno facoltà di decidere anche qualora « non sia pervenuta alcuna attestazione di avvenuta notifica o comunicazione o consegna », a condizione che: a) l’atto sia stato « trasmesso secondo uno dei
modi previsti dal presente regolamento »; b) « dalla data di invio dell’atto »
sia « trascorso un termine che il giudice valuterà in ciascun caso particolare e che sarà di almeno sei mesi »; c) che non sia « stata ottenuta alcuna attestazione malgrado tutta la diligenza usata presso le autorità o gli organi
competenti dello Stato richiesto » (200).
La questione evoca la necessità del contemperamento tra i diritti del
richiedente e quelli del destinatario della notifica, dell’attore e del convenuto. E riflette le differenti impostazioni di fondo degli Stati già emerse in tema di determinazione della data della notifica o della comunicazione.
Là dove, pur in assenza di un contraddittorio regolarmente costituito,
consente di pervenire ad una pronunzia giudiziale (anche d’urgenza), e co-
(198) V. Carpi, op. cit., 326; Scalabrino, op. cit., p. 1143; Ciaccia Cavallari, op. cit., p. 351.
(199) Il quale può far riferimento al termine di 120 gg., salvo casi particolari, come quelli della notifica in città di confine: così Campeis-De Pauli, op. ult. cit.
(200) L’Italia ha espressamente dichiarato al riguardo che « I giudici dello Stato italiano
non possono assumere decisioni ove non ricorrano le condizioni di cui al paragrafo 1». Numerosi altri Stati membri, pur se con motivazioni differenti, hanno al contrario esercitato
facoltà di deroga (Belgio, Grecia, Spagna, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Regno Unito): V. Comunicazioni degli Stati membri, cit., (sub art. 19), passim.
Ulteriore questione, si noti, si pone al riguardo in ordine alla natura di tali comunicazioni, formulate dai governi mediante semplici atti amministrativi, ed al rilievo loro da assegnarsi, risultando idonee ad incidere, modificandola, sulla portata della regola, ma ancor
prima sulla sua stessa configurazione. Al punto da poterne determinare la conformità o meno ai principi fondamentali garantiti dalle Costituzioni dei singoli Stati membri.
Contra, per l’affermazione secondo cui « non può che valutarsi negativamente. . . sia il
mancato esercizio della facoltà di deroga da parte del nostro Stato, sia il fatto che il regolamento non sia riuscito a realizzare, neppure su questo punto, una disciplina più efficace di
quella della Convenzione dell’Aja rendendo obbligatoria ed uniforme per tutti la disposizione riequilibratrice che oggi è solo facoltativa », v. invece Carella, op. cit., p. 158 ss., ivi
alla p. 162.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
munque non impone, senza facoltà di deroga, la sospensione necessaria
del processo alla prima udienza di comparizione, l’art. 19 Reg., appare invero violativo del principio di ordine pubblico processuale italiano (201).
Come in giurisprudenza di legittimità affermato (202), ed anche recentemente – in accordo con la dottrina (203) – ribadito (204), il principio del
contraddittorio di cui all’art. 101 c.p.c. si correla sul piano costituzionale sia
con la regola dell’uguaglianza affermata all’art. 3 Cost. che con il diritto di
difesa « inviolabile in ogni stato e grado del giudizio » di cui ex art. 24 Cost., comma 2°, Cost., concernente gli aspetti tecnici della difesa, e garante
della possibilità per ciascuno dei destinatari del provvedimento giudiziale
di influire sul contenuto del medesimo, per la cui piena ed effettiva realizzazione deve pertanto risultare integrato non solo al momento dell’introduzione del processo ma anche per tutta la durata dello stesso, ivi compreso, quindi, il momento probatorio (205).
Secondo un’interpretazione non solo conforme all’art. 6, § 1, Conv.
europea dei Diritti dell’Uomo (206), ma che trova pieno ed espresso riconoscimento nel principio del giusto processo posto dall’art. 111, comma 2°,
(201) Per il riferimento al principio di ordine pubblico processuale, avuto riguardo alla
Convenzione bilaterale con l’Austria, Cass., 13 gennaio 1998, n. 206, in Foro it., 1998, I, c.
1509 ss.
(202) V. Cass., 8 aprile 1998, n. 3632, in Foro it., 1998, I, c. 1841 ss.
(203) V. Comoglio, voce Contraddittorio (principio del), in Enc. Giur., Roma, 1997, p. 585.
(204) V. Cass., 28 novembre 2003, n. 18245.
(205) In tal senso in dottrina v. Comoglio, Art. 24, 1° e 2° co., Cost., in Comm. cost. a cura di Scialoja e Branca, Rapporti civili, sub art. 24, Bologna-Roma, 1981, p. 52 ss.; Comoglio,
La garanzia costituzionale dell’azione e il processo civile, Padova, 1970, p. 140 e p. 217 ss.;
Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996, p. 224; Denti, Valori costituzionali e cultura processuale, in Riv. dir. proc., 1984, p. 443 ss., ivi alla p. 462; Proto Pisani,
Dell’esercizio dell’azione, in Comm. Utet, I, 2, Torino, p. 1084 ss., ivi alla p. 1086; Cappelletti-Vigoriti, I diritti costituzionali delle parti nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc., 1971,
p. 604 ss; Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv. dir. proc.,
1975, p. 582 ss.; Trocker, Processo civile e costituzione, Milano, 1974, p. 384.
Per la distinzione tra diritto di difesa, inviolabile ed appartenente esclusivamente alle
parti, e contraddittorio, quale modo di essere del processo, che rappresenta un limite per il
giudice, v. Cipriani, Diritti fondamentali dell’Unione europea e diritto d’impugnare, in Rass.
dir. civ., 2004, p. 987 ss., ivi alla p. 289.
Nel senso che il principio del contraddittorio va riferito al solo art. 3 Cost. v. Andolina-Vignera, I fondamenti costituzionali della giustizia civile. Il modello costituzionale del
processo civile italiano, Torino, 1997, p. 120 ss. e p. 168 ss.
(206) Cfr. Chiavario, Processo e garanzia della persona, 1984, II, p. 171 ss.; Grementieri, Le garanzie internazionali del processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1969, p. 605 ss.,
ivi alla p. 608.
SAGGI
841
Cost. (207), alla cui stregua « ogni processo si svolge nel contraddittorio tra
le parti, in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale » (208).
Nucleo essenziale dei diritti di azione e di difesa, il principio del contraddittorio costituisce altresì espressione dell’eguaglianza delle parti sotto il profilo della garanzia di partecipazione e tutela del diritto della medesima di influire concretamente sullo svolgimento del processo e sul suo
esito, cooperando all’accertamento dei fatti ed al reperimento delle prove,
a tale stregua contribuendo alla formazione del convincimento del giudice (209).
A tale stregua, si noti, la sospensione necessaria del processo dovrebbe
essere dal giudice obbligatoriamente pronunziata (anche) d’ufficio già all’udienza di comparizione, senza che risulti consentita la possibilità che il
processo prosegua e pervenga alla fase della decisione (210).
(207) Introdotto dalla L. cost. 23 novembre 1999, n. 2 (recante “Inserimento dei principi
del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione”), in G.U. 23 dicembre 1999, n. 300.
(208) V. Comoglio, voce Contraddittorio (principio del), cit., p. 13: «. . . l’oggetto specifico
(o, se si preferisce, il Wesensgehalt) delle garanzie contenute nell’art. 24 Cost. – in armonia
con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, del 1950, nonché con l’art. 14
del patto internazionale sui diritti civili e politici, del 1966 – consiste non già soltanto “nella
garanzia dell’esercizio dell’azione e della difesa del contraddittore, ma nella partecipazione
dei legittimati ad agire e a contraddire all’esercizio della funzione giurisdizionale”». L’a. sottolinea al riguardo (ivi alla p. 19 ss., e in part. p. 20) la correlazione del principio del contraddittorio con « la nuova realtà costituzionale e soprannazionale del processo equo e giusto ».
Avuto riguardo al nuovo art. 111 Cost., per il dubbio di legittimità costituzionale della
complessiva disciplina dell’intervento nel processo esecutivo « laddove essa consente ai creditori di svolgere la loro azione –titolata o meno- assolutamente prescindendo dall’instaurazione di un contraddittorio con l’esecutato » v. Capponi, Alcuni problemi su contraddittorio e
processo esecutivo (alla luce del nuovo art. 111 della Costituzione), in Riv. esecuz. forzata, 2004,
p. 36 ss., ivi alla p. 38.
Nel senso che la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio risulta operato
già dall’art. 24 Cost. v. Colesanti, op. cit., p. 599 ss.; Cappelletti-Vigoriti, op. cit., p. 604 ss.
Per la necessità ed il significato del rispetto del contraddittorio nel procedimento avanti alle Autorità amministrative indipendenti v. Clarich, Garanzia del contraddittorio nel
procedimento, in Dir. amm., 2004, p. 59 ss.
In ordine al controllo da parte della Corte Suprema di Cassazione sul rispetto del principio del giusto processo v. Morvcavallo, Nullità processuali e potere di controllo della Corte di Cassazione nella prospettiva del giusto processo, in Giust. civ., 2004, II, p. 219 ss.
(209) Trocker, op. cit., p. 370; Comoglio, voce Contraddittorio (principio del), cit., p. 20 ss.
(210) Sintomatico è che la prima decisione emessa da un giudice italiano sia consistita
proprio in una declaratoria di sospensione del procedimento, emessa alla prima udienza
non essendo comparso il convenuto, « in attesa che parte attrice fornisca le prove dell’avvenuta notifica »: v. Trib. Torino, 17 luglio 2002, cit.
842
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Tanto più che, emessa la pronunzia, ai sensi del comma 2 dell’art. 19
Reg. la rimessione in termini per l’impugnazione può dal giudice non essere concessa, anche laddove trattisi di contumacia involontaria (211).
Nell’ordinamento italiano la contumacia involontaria si determina
quando il giudice dichiara la contumacia della parte (normalmente il convenuto) senza aver rilevato la nullità della notificazione della citazione (art.
164 c.p.c.), e senza averne quindi disposto la rinnovazione ex art. 291 c.p.c.
La decisione in tal caso adottata è nulla, e il convenuto contumace è
legittimato a proporre impugnazione della sentenza non notificatagli personalmente anche oltre il termine di decadenza annuale ex art. 327, 2°
comma, c.c., in presenza delle richieste condizioni oggettiva (nullità della
citazione o della notificazione e nullità della notificazione di uno degli atti da notificarsi personalmente al contumace ex art. 292 c.p.c.) e soggettiva
(mancata conoscenza del processo da parte del contumace a causa della
suddetta nullità).
L’art. 19 Reg., nella misura in cui consente agli Stati membri di non fare luogo alla sospensione necessaria, e non impedisce in ogni caso l’emissione della decisione finale ove manchi la prova che la contumacia del convenuto sia volontaria, appare porsi in contrasto con il diritto fondamentale
di difesa in giudizio garantito dalla Costituzione italiana (art. 24) (212).
Trattasi di questione che in termini più generali investe la problemati-
(211) V. al riguardo amplius infra al § 19.
(212) Come è stato osservato in dottrina, appare invero indubbio che, o accettandosi
l’assunto secondo cui (in caso di notificazione all’estero) il contraddittorio può dirsi « perfezionato senza la nomina prova di un qualunque collegamento fattuale fra l’attore e il destinatario, in condizioni che non è azzardato qualificare di notificazione inesistente », « l’equivalenza della tutela giurisdizionale dell’Unione » viene conseguentemente a profilarsi
come « un obiettivo da raggiungere ». E ciò « appare gravemente discutibile in una situazione di ordinamento integrato, come quella dell’Unione »: così Biavati, op. cit., p. 528.
V. anche Comoglio, op. ult. cit., p. 14: « L’effettività del diritto di difesa presuppone la
concreta e tempestiva conoscenza o conoscibilità (non già la possibilità astratta di conoscenza) sia dei tempi, sia delle forme e dei modi in cui l’ordinamento consenta a determinati soggetti di partecipare attivamente al giudizio. Ciò significa che le forme di comunicazione e di
notificazione, previste dalle leggi processuali, devono costantemente garantire le “migliori
condizioni di conoscibilità” degli atti da rendere noti al destinatario, rifuggendo dalle pure e
semplici “presunzioni” di avvenuta conoscenza. . . ». Osserva ulteriormente l’a.: «. . . non è
mai consentito (né mai sarebbe concepibile) sacrificare le garanzie minime di paritaria difesa,
dalle quali è realizzato il contraddittorio, facendo leva su possibili giustificazioni correlate alla specialità ed alle peculiarità proprie dei singoli tipi di processo o di procedimento, quando,
pur nella loro variabile disciplina, la struttura di questi sia comunque bilaterale o contenziosa, implicando costantemente la presenza di una vera contentio inter partes ».
SAGGI
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ca del rispetto dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti e tutelati sia dal diritto internazionale pattizio che dalle Costituzioni dei singoli
Stati membri. Con riflessi che riverberano sul piano dei rapporti dall’U.E.
mantenuti con la Comunità internazionale, ivi compresi gli stessi Stati
membri che la compongono.
Non sembra infatti dubbio che, così come ogni Stato (a prescindere
del suo assetto interno: Stato federale, Unione di Stati, Stato singolo,
ecc.), anche l’U.E. è tenuta a rispettare i diritti fondamentali dell’Uomo
posti dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.
È del pari indubbio che gli organi legislativi dell’U.E. incontrano un
limite al loro agire posto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. (da
tempo in gestazione e ancora recentemente approvata) (213).
Ulteriore limite è poi senz’altro costituito dalle Costituzioni o Leggi
fondamentali dei singoli Stati membri.
Stante l’integrazione, in un singolo sistema, delle fonti normative della Comunità e di quelle interne di ciascuno Stato membro, il Regolamento è fonte diretta anche di diritto interno.
Nell’ordinamento italiano esso, come più sopra indicato (214), si colloca in posizione non già sovraordinata bensì paritaria rispetto alla Costituzione, che non può pertanto né modificare, né derogare, né violare (215).
(213) In argomento v., per tutti (anche per ulteriori riferimenti bibliografici), Zeno Zencovich, Le basi costituzionali di un diritto privato europeo, in Europa e dir. priv., 2003, p. 25
ss.; Celotto, Carta dei diritti fondamentali e costituzione italiana verso il « Trattato costituzionale » europeo, in Europa e dir. priv., 2003, p. 37 ss.
(214) V. supra al § 1.
(215) Per l’immodificabilità della Costituzione da parte del Regolamento comunitario v.
Bianca, Diritto civile, 1, Milano, 2002, p. 74 ss., il quale argomenta dalla previsione della
speciale procedura di cui all’art. 138 Cost.
L’ammissibilità di una tale possibilità di deroga è stata peraltro in contrario affermata
da Corte cost., 19 novembre 1987, n. 399, cit., in virtù « dell’art. 11 Cost., il quale consente
la limitazione della sovranità nazionale al fine di promuovere e favorire organizzazioni internazionali tra cui, com’è ius receptum, le Comunità europee », a condizione tuttavia che
risultino comunque rispettati « i princìpi fondamentali del nostro sistema costituzionale
nonché i diritti inalienabili della persona umana ».
Una tale conclusione si profila peraltro in termini di assoluta « pericolosità », rischiando di consentire la possibilità di una fin troppo agevole modifica di sistemi, come appunto
quello italiano, fondati su una Legge fondamentale cd. rigida, con la conseguente possibile
incidenza su valori basilari e fondanti dell’ordinamento, tanto più ove si consideri il noto
problema del cd. deficit democratico che allo stato caratterizza il « legislatore comunitario »,
essendo, nell’ambito di esplicazione della cd. azione comunitaria, il potere d’iniziativa e di
adozione degli atti normativi dell’U.E. attualmente rimesso ad organi burocratici di espressione governativa.
844
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
In caso di contrasto con la Costituzione italiana si profila la questione
dell’assoggettabilità della fonte regolamentare al giudizio della Corte Costituzionale.
Argomentando dalla natura economica delle materie oggetto di competenza dell’azione comunitaria, la Corte Costituzionale ha in passato ritenuto difficilmente configurabile (anche in astratto) la possibilità di un’incidenza delle fonti comunitarie « in materia di rapporti civili, etico-sociali,
politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana » (216).
Avvertendo peraltro di essere essa, in tale eventualità, pur « sempre » chiamata ad assicurare la garanzia del proprio « sindacato giurisdizionale », con
conseguenti inevitabili ripercussioni della questione riverberanti anche
sotto il profilo della « perdurante compatibilità del Trattato con i predetti
principi fondamentali » (217), riconoscendo essere in tal caso il proprio potere come limitato ad un sindacato non già « diretto », concernente cioè il
« singolo regolamento » recante le disposizioni lesive, bensì meramente
« indiretto », riflettentesi, per il tramite della legge di esecuzione del Trattato istitutivo della CEE attribuente competenza normativa ai rispettivi organi, in termini di illegittimità costituzionale della stessa adesione dell’Italia alla Comunità (218).
Il vaglio « diretto » di costituzionalità del singolo Regolamento comunitario, ha nell’occasione affermato la Corte Costituzionale, risulta infatti
impedito già dal tenore dell’art. 134 Cost., che fa riferimento, quale oggetto del controllo costituzionale da essa assicurato, solamente alle leggi e
agli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. E « tali . . . non
sono i regolamenti comunitari » (219).
(216) Così Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183, in Foro it., 1974, I, c. 314 ss., con nota di
Monaco, La costituzionalità dei regolamenti comunitari e in Giur. it., 1974, I, 1, c. 513 ss., con
nota di Berri, Legittimità della normativa comunitaria e c. 864 ss., con nota di Maltese, Regolamenti comunitari riserva di legge e garanzie costituzionali e in Giust. civ., 1974, III, p. 410
ss., con nota di Berri, Riflessioni sul conflitto di norme comunitarie con leggi interne posteriori e sulla legittimità costituzionale dell’ordinamento comunitario e in Riv. dir. agr., 1974, II, p.
8 ss., con nota di Costato, Costituzionalità della legge ordinaria che attribuisce potere normativo agli organi della comunità economica europea e in Giur. agr. it., 1974, II, p. 534, con nota
di Gotti Porcinari, Una questione risolta: l’applicazione diretta delle norme comunitarie nel
nostro ordinamento e in Dir. e pratica trib., 1974, II, p. 245 ss., con nota di Sorrentino, Regolamenti comunitari e riserva di legge.
In argomento, oltre agli aa. delle note sopra citate, v. Celotto, op. loc. citt.
(217) Così Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183, cit.
(218) Cfr. Bianca, Diritto civile, 1, Milano, 2002, p. 74.
(219) Così Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183, cit.
SAGGI
845
Ribadito da Corte Cost., 8 giugno 1974, n. 170 (220), che ha peraltro indicato nei cd. controlimiti (v. oltre) l’oggetto del sindacato di costituzionalità nell’ipotesi di tale violazione, tale orientamento è stato ulteriormente
confermato da Corte Cost., 21 aprile 1989, n. 232 (221), allorquando il giudice italiano delle leggi è stato chiamato a pronunziarsi sulla compatibilità
dell’art. 177 Trattato CEE proprio con l’art. 24 Cost.
In tale occasione la Corte Costituzionale, dopo aver dato atto dell’avvenuto recepimento nell’ordinamento comunitario dei principi fondamentali comuni agli Stati membri, ha dichiarato la propria competenza a
verificare « attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed
applicata e dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale
o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana ».
E nell’avvertire che « . . . quel che è sommamente improbabile è pur
sempre possibile », non sottacendo che « almeno in linea teorica generale
non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale si ritrovino fra i principi comuni agli
ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi nell’ordinamento comunitario », essa ha nel caso significativamente affermato che « il diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. è diritto fondamentale della persona ».
Pure nella ribadita sussistenza delle proprie prerogative in tema di salvaguardia dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale nazionale e dei diritti inalienabili della persona umana (in termini tali da essere in dottrina interpretati quale monito rivolto alla Corte di Giustizia, al
fine di rimarcare i limiti invalicabili dell’assetto costituzionale italiano) (222),
la pronunzia della Corte Costituzionale n. 232 del 1989 è stata per altro verso intesa quale conferma del sindacato meramente « indiretto », per il tramite cioè della legge di esecuzione, che tale Corte ritiene di poter operare
(220) V. Corte cost. (ord.), 6 giugno 1974, n. 170, in Giur. cost., 1974, p. 996 ss.
(221) V. Corte cost., 21 aprile 1989, n. 232, in Giur. cost., 1989, I, p. 1001 ss., con nota di
Cartabia, Nuovi sviluppi nelle “competenze comunitarie” della Corte Costituzionale e in Foro
it., 1990, I, c. 1855 ss., con nota di Daniele, Costituzione italiana ed efficacia nel tempo delle
sentenze della Corte di giustizia comunitaria e in Giust. civ., 1990, I, p. 315 ss., con nota di Lugato, La limitazione nel tempo degli effetti delle pronunce di invalidità di regolamenti comunitari nel giudizio della Corte Costituzionale.
(222) Così Angiolini, Trasformazione dei principi fondamentali della Costituzione italiana in confronto al diritto comunitario, in Angiolini-Marzona, Diritto comunitario-diritto interno: effetti costituzionali e amministrativi, Padova, 1990, p. 38.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
in ordine a tutte le fonti comunitarie, e quindi non solo ai Regolamenti,
ma anche alle Direttive e alle Decisioni, come interpretate dalla Corte di
Giustizia (223).
La mancanza del potere di sindacato « diretto » delle fonti comunitarie
è stata in effetti dalla Corte Costituzionale recentemente ulteriormente ribadita quando, considerata come sempre « ferma » la possibilità di un
« controllo di costituzionalità per violazione dei principi fondamentali e
dei diritti inviolabili della persona », essa è venuta a delineare i propri rapporti con l’Organo di giustizia comunitario, ravvisandoli caratterizzati dalla propria « incompetenza » in tema di « interpretazione della normativa
comunitaria che non risulti di per sé di “chiara evidenza”» nonché di risoluzione di « contrasti interpretativi insorti . . . in ordine a tale normativa »,
riconosciuti essere di spettanza della Corte di Giustizia delle Comunità
europee (224). Mentre ha reclamato come a sé riservata una funzione essenzialmente di « controllo costituzionale di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle regioni » (225).
(223) In tal senso v. Cartabia, Nuovi sviluppi nelle « competenze comunitarie » della Corte
Costituzionale, in nota a Corte cost., 21 aprile 1989, n. 232, in Giur. cost., 1989, I, p. 1016.
(224) V. Corte cost., 18 dicembre 1995, n. 509, in Foro it., 1996, I, c. 783 ss., con nota di
Barone, Corte costituzionale e diritto comunitario: vecchie questioni e nuovi interrogativi e in
Giust. civ., 1996, I, p. 647 ss e in Giur. cost., 1995, p. 4306 ss. e in Riv. dir. int. priv. proc., 1997,
p. 397 ss., che [nel confermare quanto già affermato da Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168, in
Giur. cost., 1991, p. 1409 ss., con nota di Sorrentino, Delegazione legislativa e direttive comunitarie direttamente applicabili e in Foro it., 1992, I, c. 660 ss., con nota di Daniele, Corte
Costituzionale e direttive comunitarie e in Giur. it., 1992, I, 1, c. 1652 ss., con nota di Celotto, Un ulteriore passo in avanti nell’affermazione della plusvalenza del diritto comunitario
(Considerazioni in margine alla sentenza 18 aprile 1991, n. 168 della Corte costituzionale) e in
Rass. avv. stato, 1991, I, p. 1, con nota di Sclafani e in Riv. dir. fin., 1992, II, p. 85 ss., con nota di Fregni, Sulla diretta applicabilità delle direttive comunitarie nell’ordinamento tributario
italiano e in Giur. imposte, 1991, II, p. 761 ss., con nota di Pennella, Norme comunitarie ed
effetti sulla legislazione nazionale e in Giust. civ., 1991, p. 109 ss. e in Riv. not., 1991, II, p. 1396
ss.], ha sottolineato come l’interpretazione della Corte di Giustizia assuma « forza vincolante per tutti gli Stati membri », dovendo pertanto essere « certa ed affidabile » ed assicurare « l’effettiva (e non già ipotetica e comunque precaria) rilevanza e non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale circa una disposizione interna nel rapporto
con un parametro di costituzionalità risenta, direttamente o indirettamente, della portata
della disposizione comunitaria ».
(225) Per la diversa soluzione dei rapporti con la Corte di giustizia prospettata dalla Corte Costituzionale tedesca con sentenza del 12 ottobre 1993 v. Donati, Diritto comunitario e
sindacato di costituzionalità, Milano, p. 279 ss.; Cannizzaro, Principi fondamentali della Costituzione e Unione europea. A proposito della sentenza della Corte costituzionale tedesca del
12 ottobre 1993, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1994, p. 1171.
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Orientamento che è stato condiviso anche dalla Corte di Cassazione (226).
Dubbia appare peraltro al riguardo la persistente validità dell’argomento formale (circa la natura di atto avente forza di legge) a suo tempo
utilizzato da Corte Cost. n. 183 del 1973 (227), risalendo la relativa formulazione ad epoca anteriore alla stessa istituzione dell’U.E. con il Trattato di
Maastricht del 1992.
Superato si profila per altro verso l’argomento dalla Corte Costituzionale pure utilizzato per escludere il proprio potere di sindacato « diretto »
delle singole fonti e disposizioni (regolamentari e non) comunitarie, sostanziantesi nell’inconfigurabilità di una violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale nazionale, e più generalmente dei diritti inalienabili della persona, da parte di organi comunitari aventi competenza legislativa in « materie concernenti i rapporti economici », oggetto di
« riserva di legge » o di « rinvio alla legge », rispetto alle quali « le precise e
puntuali disposizioni del Trattato forniscono sicura garanzia » (228), atteso
che sin dall’istituzione dell’U.E. con il Trattato di Maastricht del 1992 l’azione comunitaria, e le relative competenze degli organi comunitari, hanno non più valenza meramente economica bensì senz’altro anche politica.
Alla stregua del sopra riportato orientamento della Corte Costituzionale si era del resto in dottrina già sottolineato rimanere « insoluto » l’interrogativo più pressante in argomento: « cosa succederebbe nel caso in
cui una norma comunitaria violasse i cd. controlimiti, fosse cioè lesiva dei
ripetuti principi? » (229).
Sulla problematica della legittimità della fonte regolamentare di diritto derivato in riferimento alla Costituzione italiana, e per il richiamo alla dottrina dei cd. controlimiti, v. Amoroso, La giurisprudenza costituzionale nell’anno 1995 in tema di rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale: verso una « quarta » fase?, in Foro it., 1996, V, c. 86 ss.
(226) V. Cass., 18 febbraio 2000, n. 1858: « A norma dell’art. 134 Cost., il sindacato di costituzionalità è ammesso solo nei confronti di atti aventi forza di legge, quali non sono i regolamenti comunitari, che, pertanto, non possono essere censurati innanzi alla Corte Costituzionale in via diretta, senza il tramite della legge di esecuzione del Trattato istitutivo
della CEE, che attribuisce competenza normativa ai rispettivi organi, e in ogni caso si rende ammissibile solo in relazione alla prospettazione della violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale nazionale, o di diritti inalienabili della persona
umana, che il giudice delle leggi deve salvaguardare anche rispetto all’applicazione del diritto comunitario (Corte cost. n. 183 del 1973 e n. 509 del 1995) ».
(227) In tal senso cfr. Bianca, op. loc. citt.
(228) Così Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183, cit.
(229) Così Barone, in nota a Cass., 29 dicembre 1995, n. 536, in Foro it., 1996, I, c. 785
ss., ivi alla c. 787.
848
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Secondo lo schema a suo tempo delineato dalla Corte Costituzionale
risulta invero necessario anzitutto adìre la Corte di Giustizia, mentre la
possibilità di rivolgersi alla Corte Costituzionale consegue solamente nel
caso di pronunzia “insoddisfacente” di tale Organo.
Rimane aperta peraltro la questione in ordine a quale siano l’oggetto, la
portata e i limiti dell’intervento della Corte Costituzionale in tali ipotesi.
Una declaratoria d’incostituzionalità della norma regolamentare limitatamente alla sua efficacia nell’ordinamento italiano, quand’anche configurabile, non risulterebbe infatti risolutiva al riguardo.
Anche la possibilità di far valere la lesione delle garanzie costituzionali del contraddittorio e del diritto di difesa integrata da decisioni emesse all’estero nella contumacia involontaria del convenuto sotto il profilo
della violazione del limite dell’ordine pubblico (230) rimane infatti preclusa laddove non vi è luogo a giudizio di delibazione e le decisioni giudiziarie sono direttamente applicabili (231), come quelle emesse in relazione a crediti non contestati in materia civile e commerciale (cd. small
claims) di cui al Regolamento (CE) n. 805 del 2004 [particolare rilievo al
riguardo assumendo l’ipotesi in cui la domanda giudiziale sia stata notificata al convenuto debitore mediante mero deposito nella cassetta del-
(230) Il controllo sulla congruità del termine in argomento va tenuto distinto da quello
da effettuarsi dal giudice della deliberazione o dell’exequatur ex art. 27, n. 2 Reg. n. 1348 del
2000: v. Corte CE, 15 luglio 1982, C-228/81.
In argomento cfr. Giacalone, Il Regolamento CE n. 44/2001 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale (cd. Bruxelles I), cit., p.
89 ss.
Al controllo in argomento non sono invece sottratte le decisioni in tema di divorzio,
separazione personale e annullamento di matrimonio di cui al citato Regolamento n. 2201
del 2003 in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale. L’art. 22 esclude infatti
espressamente il riconoscimento della decisione emessa in contumacia, ovvero quando la
domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che
sia stato accertata l’inequivoca accettazione da parte del convenuto medesimo della decisione. E l’art. 37 indica, tra i documenti da depositarsi dalla parte che chiede o contesta il riconoscimento, l’originale o una copia autenticata dell’atto comprovante che la domanda
giudiziale o l’atto equivalente è stato notificato o comunicato al contumace.
(231) Tanto più alla stregua dell’operare della litispendenza di cui alla Convenzione di
Bruxelles del 27 settembre 1968, ed ora al Regolamento n. 44 del 2001, che contempla il
principio dell’automatico riconoscimento delle decisioni (anche passate in giudicato) emesse in uno Stato membro laddove non vi sia contestazione nel riconoscimento od opposizione all’esecuzione.
SAGGI
849
le lettere di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 14, comma 1°, lett. c)] (232).
Sintomatica conferma discende in vero dall’art. 28 del citato Regolamento n. 805 del 2004, ove si indica espressamente che le notificazioni
debbono essere effettuate in conformità con quanto al riguardo disposto
dal regolamento n. 1348 del 2000.
In base ai Considerando 13 e 14 risultano invero escluse dal campo di
applicazione le decisioni emesse ai sensi dell’art. 19, comma 2, del Regolamento sulla trasmissione degli atti, essendo tale disposizione basata su
una fictio iuris che contrasta con i cd. minima standards di cui al Capo III
del regolamento n. 805, e cioè quelle norme che garantiscono la conformità tra l’ordinamento processuale dello Stato di origine e le regole processuali dettate al citato Capo III, a garanzia della corretta instaurazione
del contraddittorio (233).
La fondatezza delle suesposte perplessità proprio da tali Considerando
rimane allora per tabulas confermata.
In ragione della natura del medesimo, l’eccezione ivi contemplata non
(232) V. il Programma di misure relative all’attuazione del principio del riconoscimento
reciproco delle decisioni in materia civile e commerciale, che prevede, per la prima fase, la
soppressione dell’exequatur e la conseguente istituzione di un titolo esecutivo europeo per i
crediti non contestati, in G.U.C.E., L 12, 15 gennaio 2001, in base al quale è stato emanato
il Regolamento (CE) n. 805 del 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile
2004, che istituisce il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati in materia civile
e commerciale, in G.U.C.E., L 143, 30 aprile 2004, in vigore dal 21 gennaio 2005 e sarà applicabile dal 21 ottobre 2005, consentendo di procedere all’esecuzione forzata nello Stato
membro (ad eccezione della Danimarca) dell’esecuzione senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al suo riconoscimento (art. 5).
Il Regolamento si applica alle decisioni giudiziarie, alle transazioni giudiziarie e agli atti pubblici aventi ad oggetto crediti non contestati e alle decisioni pronunciate in seguito a
impugnazioni di decisioni giudiziarie, transazioni giudiziarie e atti pubblici, certificati come
titoli esecutivi europei (Settimo Considerando).
La nozione di « credito non contestato » comprende tutte le situazioni in cui un creditore, tenuto conto dell’assenza accertata di contestazione da parte del debitore in ordine alla natura o all’entità del debito, ha ottenuto o una decisione giudiziaria contro quel debitore o un documento avente efficacia esecutiva che richieda l’esplicito consenso del debitore
stesso, sia esso una transazione giudiziaria o un atto pubblico (Quinto Considerando).
L’assenza di contestazioni da parte del debitore, come descritta dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), può assumere la forma di mancata comparizione in un’udienza davanti al
giudice o mancata osservanza dell’invito di un giudice a notificare l’intenzione di difendere
la propria causa per iscritto (Sesto Considerando).
(233) Il rispetto dei minima standards assume decisivo rilievo in quanto su questi ultimi
si fonda il sistema di controllo preventivo che consente la circolazione delle decisioni giudiziarie prescindendo dal controllo “ex post” mediante exequatur.
850
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
vale a scalfire la precettività della regola posta dal testo normativo (234).
Ove risultasse confermato l’avviso della Corte Costituzionale in ordine alla configurabilità di un suo potere di sindacato meramente « indiretto » della norma comunitaria viziata (235), verrebbe invero a risultarne un
quadro nel quale l’intrapresa di un’iniziativa di modifica legislativa della
fonte comunitaria, con tutte le difficoltà e le implicazioni che essa a sua
volta comporta, paradossalmente si profilerebbe come soluzione addirittura più immediata ed attuabile di quella, sostanzialmente impercorribile,
rappresenta dalla via giudiziaria (236).
19. – In presenza di una « decisione » emessa nei confronti di un convenuto non comparso, il giudice, sussistendo le condizioni di cui all’art.
19, comma 4, Reg., può rimettere il medesimo in termini ai fini della relativa impugnazione qualora: a) questi dimostri di non avere avuto conoscenza, per causa a sé non imputabile, dell’atto in tempo utile per difendersi e della decisione per impugnarla; b) il motivo d’impugnazione non
appaia del tutto infondato (237).
Il secondo requisito condizionante ingenera invero forti perplessità,
(234) La natura non precettiva dei Considerando che precedono il corpo normativo in
cui si articola la fonte di diritto comunitario è stata ripetutamente sottolineata dalla stessa
Commissione, come ad esempio in occasione della procedura d’infrazione promossa contro l’Italia per il non corretto recepimento della Direttiva 93/13/CEE sulle clausole abusive
nei contratti dei consumatori: al riguardo v. la Contestazione della CE per l’applicazione della direttiva sulle clausole abusive: si apre una querelle, in Corriere giur., 1998, p. 844, con commento di V. Carbone, il quale (ivi, 850) osserva: « La norma comunitaria è contraddistinta
dalla presenza di consideranda, o meglio da un’apposita motivazione che precede il testo
normativo. . . che. . . tende a spiegare il precetto contenuto nel dictum »; Plaia, La procedura di infrazione 98/2026 ex art. 169 Trattato Cee per non conformità della legge italiana alla direttiva sulle clausole abusive: rilievi critici alla luce di una recente ordinanza del tribunale di
Roma, in nota a Trib. Roma, 24 dicembre 1997, in Europa e dir. priv., 1998, p. 929 ss.
In giurisprudenza v. Cass., 11 gennaio 2001, n. 314, in Corriere giur., 2001, p. 891 ss., con
nota di Conti, La fideiussione rispetto alle clausole vessatorie.
(235) In tal senso cfr. Barone, op. loc. citt.
(236) Analogamente dicasi avuto riguardo alla violazione, del pari dall’art. 19 Reg. prospettata, in tema di rimessione in termini: v. infra al § 19.
(237) A tale stregua la disciplina non coincide con quella interna posta dall’art. 327 c.p.c.
ma è più ampia, prescindendo dalla necessità di una ipotesi di nullità della notificazione. In
tal senso cfr. Panzarola, op. cit., p. 1188; Ciaccia Cavallari, op. cit., p. 351 ss, ivi alla p.
353 ss.
Sottolinea altresì la difficoltà per il convenuto di dare la prova del fatto negativo della
“mancata conoscenza” Frigo, La disciplina comunitaria della notificazione degli atti in materia civile e commerciale: il Regolamento (CE) n. 2348/2000, cit., p. 115 ss., ivi alla p. 147.
SAGGI
851
comportando la possibilità della negazione della rimessione in termini
pure se il convenuto abbia fornito la prova della non imputabilità a propria colpa della mancata tempestiva conoscenza dell’esistenza del processo, o che sia stata emessa una decisione giudiziale nei suoi confronti.
Negazione rimessa invero ad una valutazione meramente discrezionale del giudice a tale stregua profilandosi una soluzione senz’altro non rispondente ad esigenze di certezza ed unitarietà di applicazione, tanto più
in considerazione del contesto allargato di Stati di cui l’U.E. si compone,
e della mancanza di una regolamentazione unitaria od omogenea o
(quantomeno) sufficientemente allineata in materia.
Vale porre nel dovuto rilievo che alla contumacia è nel sistema italiano generalmente attribuito il valore di mero atteggiamento processuale,
da cui non può desumersi significato alcuno in termini di prova della fondatezza dell’avversaria domanda, lasciando essa impregiudicato il substrato di contrapposizione tra le parti, e non potendo essere pertanto intesa, al
contrario di quanto nella gran parte degli altri Stati membri nel sistema
italiano avviene, in termini di cd. ficta confessio (238).
Come già evidenziato in relazione all’analoga previsione di cui all’art.
16, lett. b), Conv. Aja 1965, la ragione del presupposto in questione è emblematicamente ravvisata nell’esigenza di « consentire la proposizione
dell’impugnazione, altrimenti impedita », solamente qualora, attesa
l’infondatezza dei motivi, rimanga escluso che essa « possa condurre a risultati diversi da quelli già ottenuti in forza del giudicato ». Ciò in quanto
(238) V. Cass., 20 febbraio 2006, n. 3601; Cass., 19 agosto 2003, n. 12184; Cass., 11 luglio
2003, n. 10948; Cass., 11 luglio 2003, n. 10947; Cass., 6 febbraio 1998, n. 1293; Cass., 2 luglio
1992, n. 5919; Cass., 2 marzo 1996; Cass., 9 dicembre 1994, n. 10554; Cass., 11 aprile 1985, n.
2410; Cass., 17 maggio 1982, n. 3056; Cass., 27 aprile 1964, n. 1010.
Per l’affermazione secondo cui la mera difformità rispetto all’ordinamento interno delle norme che nel sistema straniero disciplinano l’onere della prova ed il libero convincimento del giudice non comporta alcuna violazione dell’ordine pubblico italiano, sicché può
essere delibata la sentenza straniera che, in applicazione del principio vigente in quello Stato e per il quale il giudice può, ove il convenuto diserti il giudizio, considerare provati i fatti posti dall’attore a base della sua domanda, ed accogliere la domanda v. peraltro Cass., 22
marzo 2000, n. 3365, in Giur. it., 2000, p. 1786.
In dottrina v. Comoglio, op. ult. cit., p. 12: «. . . l’evoluzione storica della vocatio in ius,
trasformatasi da originaria “coazione” (Einlassungszwang) in una mera facoltà di costruzione e di difesa attiva del vocatus, parrebbe trovare un armonico sbocco negli schemi statici e
negativi di un diritto fondamentale di libertà, respingendo a priori un’idea di “effettività”
che di quella “coazione” sia, o voglia essere, un doppione non più credibile »; V. Colesanti, op. cit., p. 585.
852
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
la « tutela offerta dalle disposizioni si giustifica » ove « alla soccombenza
del contumace involontario si accompagni la presumibile utilità derivante
dall’esercizio del diritto di impugnativa » (239).
Orbene, nell’ordinamento italiano al contumace involontario l’impugnazione non rimane, ai sensi dell’art. 327, 2° comma, c.p.c., invero preclusa, ben potendo interporla anche oltre il termine annuale di decadenza (240).
La negazione del diritto d’impugnare un provvedimento di condanna
o comunque sfavorevole pur avendo provato, assolvendo agli oneri imposti dall’art. 19 Reg., trattarsi di contumacia involontaria, non corrispondente quindi ad una scelta in ordine al comportamento processuale da mantenere né ascrivibile a propria colpa, prospetta allora un ulteriore profilo
(241) di illegittimità costituzionale dell’art. 19 Reg., per violazione dei diritti fondamentali di uguaglianza ex art. 3 Cost. e di difesa in giudizio ex art.
24 Cost. (242).
Trattasi di un aspetto che consente di cogliere e significativamente apprezzare la rilevanza ed il significato del passaggio da una regolamentazione di fonte pattizia ad una disciplina normativa di fonte regolamentare
comunitaria.
La cui soluzione urgentemente ed imprescindibilmente si impone (243).
(239) Così Ciaccia Cavallari, op. cit., p. 355.
(240) Non appare potersi pertanto in contrario utilmente evocare il principio affermato
da Cass., 29 novembre 1999, n. 13315 secondo cui anche nell’ordinamento italiano talvolta
sono ritenute sufficienti formalità che non assicurano la conoscenza effettiva dell’atto da
parte del destinatario ma solo la sua conoscibilità, richiamandosi al riguardo anche l’art.
327, 1° comma c.p.c., giacché quest’ultimo appunto consente al convenuto non volontariamente rimasto contumace di proporre impugnazione, mentre il regolamento ciò appunto
nega.
V. supra al § 18.
(241) Al riguardo v. anche supra al § 18.
(242) In ordine alla considerazione del diritto d’impugnare quale componente essenziale ed insopprimibile del diritto di difesa v. Corte cost., 30 gennaio 1986, n. 17, in Foro it.,
1986, I, c. 313 ss., con nota di Proto Pisani, La Corte Costituzionale estende la revocazione
per errore di fatto ex art. 395, n. 4, alle sentenze della Cassazione; in Giust. civ., 1986, I, p. 942
ss., ed ivi, 1987, I, p. 250 ss., con nota di Nicotina, Sulla revocabilità delle sentenze della Corte di cassazione.
Per il rilievo secondo cui « a livello europeo le impugnazioni civili non sono neppure
menzionate tra le garanzie fondamentali e sono sostanzialmente avversate nelle raccomandazioni ufficiali » v. peraltro Cipriani, op. cit., p. 995.
(243) Peraltro nulla al riguardo è stato dalla Commissione segnalato nella prima Relazione ex art. 24 Regolamento n. 1348, e conseguentemente nulla reca il Progetto di Regolamento di modifica di tale fonte.
SAGGI
853
20. – Il Regolamento n. 1348 del 2000 non introduce in effetti alcun
procedimento di notificazione e comunicazione di atti giudiziari ed extragiudiziali diverso da quelli in precedenza già conosciuti e previsti sia dall’ordinamento comunitario che da quello italiano.
La « comunitarizzazione » della disciplina (meramente) convenzionale, anche ove rimasta formalmente inalterata nel tenore testuale, non risulta peraltro priva di rilievo.
Le difficoltà e le aporie emerse anche nel corso della negoziazione della Convenzione del 1997 e di adozione del Regolamento del 2000, nel riflettere disomogeneità e differenze di fondo tra i diversi ordinamenti degli Stati membri, si rivelano come un serio ostacolo al perseguimento se
non dell’omogeneità quantomeno di un accettabile grado di allineamento
delle discipline dei singoli Stati membri. Trovando sintomatica e preoccupante conferma anche nelle (troppo) numerose deroghe ed opposizioni
comunicate dagli Stati membri in ordine a questioni che rivestono in materia rilievo fondamentale, quali la data della notificazione o comunicazione; le modalità consentite di notificazione per posta; le lingue accettate per la redazione del certificato di notificazione o comunicazione o per
la redazione dell’atto da notificarsi o comunicarsi; la mancata comparizione e la mancata costituzione del convenuto in giudizio (244).
Emerge evidente, a tale stregua, come financo l’adozione del Regolamento si sia rivelata in realtà inidonea al conseguimento di quell’omogeneità, coerenza e certezza di disciplina che ne hanno specificamente fondato l’adozione (245).
Il riesame della disciplina in argomento (246) ai sensi dell’art. 24 Reg. si
(244) Cfr. Frigo, op. ult. cit., p. 131 ss., ivi alla p. 132, il quale pone in rilievo come, nell’esercitare la facoltà di deroga, molti Stati siano pervenuti in concreto a riformulare molte
norme del Regolamento, secondo un modello assimilabile alle cd. riserve interpretative dagli stati apposte in sede di firma, ratifica o esecuzione dei Trattati internazionali.
(245) Con riferimento all’« equivalenza della tutela giurisdizionale dell’Unione », nel
senso che essa si profila « più che mai » come un « obiettivo da raggiungere », laddove in
materia di notificazione all’estero « si accetta che il contraddittorio possa dirsi perfezionato
senza la minima prova di un qualunque collegamento fattuale fra l’atto e il destinatario, in
condizioni che non è azzardato qualificare di notificazione inesistente » v. Biavati, op. cit.,
p. 526 ss., ivi alla p. 528.
(246) In particolare in tema di: efficienza degli organi mittenti e riceventi designati ex
art. 2; ruolo di tramite tra questi svolto dall’Autorità centrale ex art. 3, lett. c), Reg.; momento di perfezionamento della notificazione o comunicazione dell’atto per il mittente ed
il destinatario ex art. 9 Reg.; violazione del contraddittorio e del diritto di difesa del contumace involontario.
Alcuni di tali aspetti risultano essere stati in effetti presi in considerazione nella prima
854
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
offre allora quale importante e forse unica sede per proseguire nella comune riflessione e porre le basi per l’intrapresa delle iniziative necessarie
in vista dell’adozione di soluzioni che, nel rafforzare la cooperazione e nel
favorire il superamento delle ancora troppo accentuate differenze e distanze tra gli ordinamenti nazionali dei singoli Stati membri dell’U.E.,
consentano di progredire nella delineata ed auspicata direzione della costruzione di un sistema, nell’ambito di un comune spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Relazione ex art. 24 Regolamento n. 1348 presentata dalla Commissione e costituire conseguentemente oggetto del Progetto di Regolamento di modifica di tale fonte, di cui si attende ora il positivo compimento quale primo significativo miglioramento della disciplina regolamentare in materia.
ANDRÈ JANSSEN (*)
La restituzione dei pagamenti fatti agli «Schenkkreise » tedeschi
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le fattispecie giustiziate dal BGH. – 3. Le valutazioni
giuridiche contenute nelle due sentenze (letteralmente identiche) del BGH. – 3.1.
I presupposti della condictio indebiti secondo il § 812, comma 1°, periodo 1°, alternativa 1a, BGB. – 3.2. L’impedimento alla condictio di cui al § 817, periodo 2°, BGB
nell’ipotesi d’immoralità bilaterale. – 4. In sintesi.
1. – Negli ultimi anni i tribunali tedeschi hanno dovuto fronteggiare
un numero crescente di cause dirette alla restituzione di pagamenti eseguiti all’interno dei c.d. “Schenkkreise” (o « circoli dei donatori »), diffusi
in Germania in maniera capillare ed il cui danno politico-economico è
enorme (1). Si tratta per lo più di sistemi « a palla di neve » o « a piramide », costruiti gerarchicamente su quattro livelli (2). I partecipanti del livel(*) Il presente contributo è stato redatto nell’ambito del sodalizio di ricerca «Uniform
Terminology for European Private Law », finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito
del “Programma-TMR” («Training and Mobility of Researchers »). Membri del sodalizio sono le Università di Barcellona (sede centrale), Lione, Münster, Nijmegen, Oxford, Torino e
Varsavia. Per la traduzione di questo contributo l’autore ringrazia vivamente il dott. Edoardo Ferrante.
(1) Cfr. fra gli altri (in progressione cronologica): Amtsgericht Güterslohn, 21 novembre
2003 – 14 C 553/03; Amtsgericht Köln, 18 febbraio 2004 – 112 C 551/03 (consultabile anche
in www.nrwe.de); Amtsgericht Springe, 19 marzo 2004 – 4 C 101/04 (III); Landgericht Bielefeld, 21 aprile 2004 – 22 S 300/03 (consultabile anche in www.nrwe.de), decisione in grado
d’appello rispetto a quella dell’Amtsgericht Güterslohn; Amtsgericht Altenkirchen, 27 maggio 2004 – 71 C 28/04; Landgericht Bonn, in NJW-RR, 2005, p. 490; Landgericht Freiburg, in
NJW-RR, 2005, p. 491; Oberlandesgericht Köln, 9 novembre 2004 – 24 U 125/04 (consultabile anche in www.nrwe.de), decisione ai sensi del § 522, comma 1°, periodo 2°, ZPO in merito alla sentenza del Landgericht Bonn; Oberlandesgericht Köln, in NJW, 2005, p. 3290;
Landgericht Bonn, 23 giugno 2005 – 6 S 220/04 (consultabile anche in www.nrwe.de).
(2) Il problema dei piani d’investimento diagrammatici, che sono stati istituiti sulla base di questi sistemi e che conseguentemente conducono, dal punto di vista pratico e di tutta necessità, ad una perdita finanziaria dei nuovi partecipanti, non è nuovo e già fece la sua
apparizione alcuni anni fa sotto la forma di sistemi di giuoco, come il “Life-Spiel” (Oberlandesgericht Celle, in NJW, 1996, p. 2660), il “World-Trading-System” (Bundesgerichtshof, in
NJW, 1997, p. 2314) o di giuochi di carattere computeristico, come il «Countdown 3000 »
(Oberlandesgericht Bamberg, in NJW-RR, 2002, p. 1393). I sistemi che ora, sotto nuove vesti, vengono denominati “Schenkkreise” attraggono sempre nuovi concorrenti soprattutto
856
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
lo più basso pagano somme di denaro che, a seconda del giuoco, possono
variare da 100 a 5.000 euro, ai partecipanti del primo livello, i quali subito
dopo escono dal circolo (3). Coloro i quali effettuano i pagamenti salgono
allora di un livello, ma sono tenuti, dal canto loro, a procacciare nuovi
partecipanti per il livello sottostante. Ciò significa che, dopo ogni tornata
di giuoco, per ciascun beneficiario devono essere reperiti in media otto
nuovi pagatori. Il numero dei nuovi pagatori che devono essere reclutati
aumenta dunque in misura esponenziale con la durata del «Schenkkreis ».
Questo porta con sé, che solo i fondatori di questi circuiti raggiungono sicuri profitti, mentre i partecipanti a seguire, a fronte del grande numero di
giuocatori che devono essere coinvolti, non vantano pressoché alcuna opportunità realistica di procurarsi un vantaggio ed anzi, all’opposto, perdono di tutta necessità il loro contributo (4). Un nuovo partecipante, che abbia già pagato, mantiene una qualche possibilità di diventare, un giorno,
« beneficiario », soltanto se trovi lui stesso molte nuove vittime.
Nella casistica sottoposta alle cure della giurisprudenza le vittime,
molte delle quali unitesi nel frattempo in gruppi di danneggiati (5), domandano la restituzione del contributo rispettivamente pagato ai partecipanti posti sopra di loro nella piramide. Mentre alcuni Tribunali hanno rigettato la pretesa alla restituzione delle somme versate (6), altri hanno viceversa accolto le azioni delle vittime e consentito loro di ottenere la restituzione del denaro (7). Questa contraddittorietà di giudicati ha condotto in Germania ad una notevole incertezza del diritto. Ne venne dunque
chiamato in causa il Tribunale Federale (BGH), il quale, in due decisioni
letteralmente identiche del 10 novembre 2005, si schierò dalla parte delle
vittime, acconsentì alla domanda di restituzione del denaro e pose fine
perché questi devono provare la sensazione di essere non più meri partecipanti ad un giuoco, bensì membri di una particolare comunità (cfr. in tema anche Goerth, Anmerkung zu
OLG Köln, 6 maggio 2005, 20 U 129/04, in VuR, 2006, p. 75).
(3) Cfr. inoltre, per la disamina dell’intera questione, la documentazione molto utile
che trovasi su www.mlm-beobachter.de/mlm/schenkkreise.htm, nonché su www.schenkkreise.org.
(4) Così alla decima tornata di giuoco devono essere reclutati già 4.096 partecipanti ed
alla ventesima persino più di 4.000.000: cfr. sul punto anche Lorenz, Keine Kondiktionssperre nach § 817 S. 2 BGB, in LMK, 2006, n. 164413.
(5) Come ad esempio la Interessengemeinschaft der Schenkkreisgeschädigten (I.G.S.G.),
fondata nel 2003.
(6) Cfr. in tal senso, fra le altre, Landgericht Freiburg, in NJW-RR, 2005, p. 491, od anche Oberlandesgericht Köln, in VuR, 2006, p. 73.
(7) Così il solo Landgericht Bonn, in NJW-RR, 2005, p. 490.
SAGGI
857
con ciò ad una contesa che si protraeva ormai da anni (8). Proprio per il significato del verdetto ed i problemi dogmatici che vi fanno apparizione,
primo fra tutti il quesito relativo all’ammissibilità della ripetizione dell’indebito in caso di violazione bilaterale del buon costume secondo il § 817,
comma 2°, BGB (9), val la pena presentare ed analizzare le decisioni e le
loro motivazioni (10).
2. – Le fattispecie sottoposte alle decisioni del BGH corrispondono
largamente ai fatti esposti nell’introduzione. Gli attori domandarono il
rimborso di un contributo da loro versato ai convenuti al fine di partecipare ad uno «Schenkkreis ». Questi circuiti erano organizzati secondo la
struttura di una piramide. I partecipanti al « circolo dei ricettori »
(«Empfängerkreis »), collocati alla sommità, conseguirono dal « circolo dei
datori » («Geberkreis »), loro sottoposto, determinate somme di denaro.
Con ciò i “beneficiari” uscirono dal giuoco ed al loro posto subentrarono
i precedenti “datori”, che in tal modo acquisirono la posizione di ricettori.
Si trattava quindi di reperire partecipanti bastevoli a formare un nuovo
« circolo dei datori » ed il reclutamento era compito dei concorrenti rimasti nel giuoco come “ricettori”. Nella consapevolezza di questo sistema gli
attori entrarono a far parte di un « circolo di datori » e pagarono ai convenuti, che con altri avevano occupato il « circolo dei ricettori », la somma di
euro 1.250,00. Evidentemente essi intendevano rimanere nel giuoco ed
essi stessi diventare più tardi “beneficiari”. Solo quando tale speranza
svanì, pretesero la restituzione del denaro dai loro “beneficiari”. Le azioni
conseguenti ebbero successo in tutti e tre i gradi del procedimento.
3. – 3.1. – Nella soluzione dei casi proposti il BGH, senza prendere
una posizione più approfondita circa le possibili pretese contrattuali derivanti dal « patto di giuoco », s’indirizza direttamente alla pretesa di carattere restitutorio, vale a dire alla condictio indebiti di cui al § 812, comma 1°,
periodo 1°, alternativa 1a, BGB (11). Presupposto di quest’azione di ripeti-
(8) BGH, in NJW, 2006, p. 45.
(9) Tutte le traduzioni quivi riportate del BGB sono tratte da Patti, Codice Civile Tedesco – Bürgerliches Gesetzbuch, Milano-München, 2005.
(10) Cfr. su questa decisione Lorenz, Keine Kondiktionssperre, cit., n. 164413; Möller,
Leistungskondiktion trotz beidseitiger Sittenwidrigkeit? – Die Einschränkung des § 817 S. 2
BGB durch den BGH, in NJW, 2006, p. 268; K. Schmidt, Anmerkung zu BGH, Urt. v.
10.11.2005 – III ZR 72/05, in JuS, 2006, p. 265.
(11) § 812 BGB Pretesa alla restituzione.
858
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
zione è che l’arricchito, debitore della restituzione, attraverso la prestazione eseguita da altri, vale a dire dall’impoverito, creditore della restituzione, abbia conseguito alcunché senza causa (12). Ora, che i convenuti, mediante le prestazioni degli attori (13), avessero acquistato la proprietà ed il
possesso del denaro pagato, è per diritto tedesco del tutto pacifico, né abbisogna qui d’una qualche ulteriore spiegazione. Non a caso, nella susseguente disamina dei presupposti fondanti la pretesa, il BGH tratta più da
vicino il semplice quesito, se anche detti presupposti si fossero verificati
« senza causa ». Il Supremo Tribunale civile tedesco, in consonanza all’opinione del tutto preponderante in giurisprudenza (14) ed in letteratura (15),
muove quindi dalla persuasione che, nel caso degli «Schenkkreise », si tratti di sistemi « a palla di neve » contrari al buon costume e che, proprio per
questa contrarietà, il retrostante contratto di giuoco sia nullo ai sensi del §
138, comma 1°, BGB (16). Questa contrarietà al buon costume viene argo(1) Chi mediante la prestazione di altri o comunque a spese di altri consegue qualcosa
senza ragione giuridica, è obbligato a restituirla. L’obbligazione sussiste anche quando la
ragione giuridica viene meno successivamente ovvero non si realizza il risultato che, secondo il contenuto del negozio giuridico, è stato perseguito con la prestazione.
(2) Per prestazione si intende anche il riconoscimento contrattuale dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto obbligatorio.
In maniera del tutto oculata il BGH non prende qui in considerazione, quale fondamento della pretesa, il § 817, periodo 1°, BGB, vale a dire l’ipotesi della condictio ob turpem
vel iniustam causam. D’altra parte il suo ambito d’applicabilità è molto limitato. La norma
trova applicazione soprattutto allorché l’oblato violi con l’accettazione un divieto di legge,
senza che però il negozio causale sia nullo (come, ad esempio, nel caso d’accettazione di un
beneficio ai sensi del § 331, comma 1°, Strafgesetzbuch [StGB], ciò che non intacca la validità
della retrostante donazione). Se al contrario il negozio causale è nullo ai sensi del § 134 o
138 BGB, a causa della mancanza di fondamento giuridico, viene già in rilievo il § 812 (cfr.
K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 265; Schulze, in Handkommentar-BGB, Baden-Baden,
2005, § 817 BGB, Rn. 1).
(12) “Alcunché”, nel senso fatto proprio dalla disciplina dell’arricchimento senza causa,
designa qualsivoglia miglioramento della situazione patrimoniale dell’arricchito, debitore
in restituzione (Schulze, in Handkommentar-BGB, cit., § 812 BGB, Rn. 3).
(13) Una “prestazione”, nel senso fatto proprio dalla disciplina dell’arricchimento senza
causa, viene definita come «Jede bewusste und zweckgerichtete Vermehrung fremden Vermögens » (così il BGH, in BGHZ, 58, 188 ed in WM, 2002, p. 1560).
(14) Cfr. ancora, fra le altre, Landgericht Freiburg, in NJW-RR, 2005, p. 491; Landgericht
Bonn, in NJW-RR, 2005, p. 490; Oberlandesgericht Köln, in VuR, 2006, p. 73.
(15) Cfr. fra gli altri Lorenz, Keine Kondiktionssperre, cit., n. 164413; Möller, Leistungskondiktion trotz beidseitiger Sittenwidrigkeit?, cit., p. 268; K. Schmidt, Anmerkung, cit., p.
265.
(16) § 138 BGB Negozio giuridico contrario al buon costume; usura.
(1) Un negozio giuridico, che viola il buon costume, è nullo.
SAGGI
859
mentata dal BGH in ragione della circostanza per cui « la grande massa
dei partecipanti – a dispetto dei concorrenti che danno inizio al giuoco, i
quali hanno di mira (per lo più) guadagni sicuri – non può in alcun modo
ottenere un profitto, ma al contrario può soltanto perdere il proprio investimento »; inoltre il giuoco avrebbe quale unico scopo « sfruttare persone
credulone ed inesperte a vantaggio di alcuni, pochi concorrenti, inducendo quelle al pagamento del contributo ». Attraverso questa contrarietà al
buon costume di tali «Schenkkreise », da nessuno seriamente contestata, e
la nullità che ne deriva, le prestazioni rese agli arricchiti, debitori delle restituzioni, risultavano anch’esse prive di causa ai sensi del § 812, comma
1°, periodo 1°, alternativa 1a, BGB, e per questa ragione si dava una pretesa restitutoria basata sulla condictio indebiti.
3.2. – A questa pretesa restitutoria, in sé e per sé certamente ammissibile, non osta il § 762, comma 1°, periodo 2°, BGB, come chiarisce lo stesso BGH con alcune brevi frasi (17). Infatti, nel caso di giuoco o scommessa, questa norma impedisce la domanda restitutoria solo in raccordo a
quanto disposto dal § 762, comma 1°, periodo 1°, BGB, vale a dire quando
ricorra la circostanza per cui un vincolo non sia stato costituito. Se invece
(2) È nullo in particolare un negozio giuridico attraverso cui qualcuno, sfruttando lo
stato di costrizione, l’inesperienza, la mancanza di discernimento o la rilevante debolezza
della volontà di un altro, si lascia promettere o lascia promettere ad un terzo vantaggi patrimoniali per una prestazione che si pone in evidente sproporzione rispetto alla prestazione.
(17) § 762 BGB Gioco, Scommessa.
(1) Dal gioco e dalla scommessa non nascono obbligazioni. Ciò che è stato prestato a
causa del gioco o della scommessa non è ripetibile come indebito.
(2) Queste disposizioni valgono anche per le pattuizioni con cui la parte perdente, allo
scopo di adempiere un debito di gioco o di scommessa, assume un`obbligazione nei confronti della parte vincente, in particolare per il riconoscimento del debito.
Il BGH non menziona viceversa il § 814 BGB. Secondo quest’ultimo paragrafo di legge quanto prestato al fine di adempiere un’obbligazione non può essere ripetuto, fra l’altro,
quando chi abbia eseguito la prestazione sapesse di non esservi tenuto. Nondimeno questa
norma non dovrebbe rivelarsi, all’esito, del tutto pertinente. Infatti, che gli attori all’atto
della prestazione abbiano avuto una positiva cognizione dell’indebito, non è riscontrabile.
Al riguardo non basta infatti la sola conoscenza delle circostanze di fatto, dalle quali discende la mancanza d’obbligazioni, ma occorre anche che colui il quale esegua la prestazione abbia ben chiara la situazione giuridica, e dunque sappia ch’egli non deve prestare alcunché. Al contrario, persino l’ignoranza gravemente colposa della mancanza di un’obbligazione non conduce ad escludere la pretesa restitutoria (cfr. in tema Schulze, in
Handkommentar-BGB, cit., § 814 BGB, Rn. 2; K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 266).
860
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
l’obbligazione di giuoco, pur sempre idonea a fungere da causa di manutenzione del vincolo, patisce un diverso vizio fondante la nullità, come ad
esempio la frode nella scommessa, la falsificazione od un motivo d’impugnazione, il § 762, comma 1°, periodo 2°, BGB non inibisce il diritto alla
restituzione così creatosi, tratto dalla disciplina dell’arricchimento senza
causa o della responsabilità delittuale (18). Invero, poiché nel caso di specie i « contratti di giuoco » conclusi erano nulli ai sensi del § 138, comma
1°, BGB, neppure la norma di cui al § 762, comma 1°, periodo 2°, BGB poteva ostacolare il diritto alla ripetizione.
Profilo più cruciale nelle illustrate sentenze del BGH, così come in altre pronunzie (19) e nelle riflessioni dottrinali intorno al problema degli
«Schenkkreise » (20), è il quesito se sia qui applicabile la clausola d’esclusione della condictio per l’ipotesi d’immoralità bilaterale, ai sensi del § 817,
periodo 2°, BGB (21). Secondo la lettera di legge la ripetizione è esclusa,
quando sia colui che presta, sia colui che riceve la prestazione altrui violino un divieto legale ai sensi del § 134 BGB (22), od il buon costume, ai
sensi del § 138 (23). Questa prescrizione, chiara di prim’acchito, è tuttavia
definita da Karsten Schmidt come « una delle regole più enigmatiche e discusse della disciplina dell’arricchimento » (24). La stessa ratio della norma
fu per lungo tempo controversa: prima fu intravista nella creazione di una
pena civile (25), oggi primeggia la tesi della negazione di qualsiasi tutela
(18) Cfr. sul punto anche BGH, in NJW, 1962, p. 1671; Lorenz, Keine Kondiktionssperre,
cit., n. 164413; e K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 266.
(19) Si tratta ancora di Landgericht Freiburg, in NJW-RR, 2005, p. 491; Landgericht
Bonn, in NJW-RR, 2005, p. 490; ed Oberlandesgericht Köln, in VuR, 2006, p. 73.
(20) Cfr. gli stessi Lorenz, Keine Kondiktionssperre, cit., n. 164413; Möller, Leistungskondiktion trotz beidseitiger Sittenwidrigkeit?, cit., p. 268; K. Schmidt, Anmerkung, cit., p.
265.
(21) § 817 BGB Violazione della legge o del buon costume.
Se lo scopo della prestazione era determinato in mode tale che il ricevente abbia violato
con l’accettazione un divieto di legge ovvero il buon costume, il ricevente è obbligato alla
restituzione. La ripetizione è esclusa quando tale violazione è parimenti imputabile al prestatore, tranne che la prestazione consistesse nell`assunzione di un`obbligazione; ciò che è
stato prestato in adempimento di tale obbligazione non può essere ripetuto.
(22) § 134 BGB Divieto stabilito dalla legge.
Un negozio giuridico che viola un divieto stabilito dalla legge è nullo se dalla legge non risulta altrimenti.
(23) Questo non vale soltanto quando la prestazione consistesse nell’assunzione di
un’obbligazione (cfr. il § 817, periodo 2°, frase 2a, BGB).
(24) K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 265.
(25) RG, in RGZ, 105, 270; BGH, in NJW, 1983, p. 950. Cfr. in tema, anche istruttivo,
SAGGI
861
giuridica nel settore dei negozi immorali (26). Nondimeno si giunge persino a dubitare che questa norma possegga davvero un qualche significato
politico-legislativo, ciò che tuttavia non può e non dev’essere approfondito ulteriormente in questa sede (27). Inoltre il suo ambito d’applicazione
viene allargato in duplice direzione (c.d. «Ausdehnungstheorie » o « teoria
della dilatazione »): da un lato, l’esclusione della condictio, contrariamente al nesso sistematico col § 817, periodo 1°, BGB (condictio ob turpem vel
iniustam causam) trova applicazione anche in ordine alla «Leistungskondiktion » “generale” (o condictio indebiti) di cui al § 812, comma 1°, periodo
1°, alternativa 1a, BGB. Il BGH, in entrambe le sue pronunzie, non vi
s’addentra, ma implicitamente lo dà per presupposto. Dall’altro, per l’esclusione del pagamento in restituzione sarebbe sufficiente anche la sola
immoralità della parte che presta, ciò che tuttavia non rilevava nel caso in
esame, caratterizzato dall’immoralità bilaterale (28).
Questo significativo ampliamento dell’ambito d’applicazione, tuttavia,
ha subito riproposto l’esigenza di nuove restrizioni. Così, senza che il
BGH lo chiarisca espressamente nelle sue decisioni – chiara era d’altra
parte la situazione di fatto – accanto all’obiettiva violazione di legge o del
buon costume, occorre che “colui il quale esegua la prestazione conoscesse la violazione di legge o del buon costume ovvero si sia precluso questa
conoscenza quantomeno con leggerezza » (29). Sovente i Tribunali, come
ad esempio il Landgericht di Friburgo (30), in casi di simile tenore hanno
tentato di cimentarsi nell’applicazione del § 817, periodo 2°, BGB secondo
questo requisito aggiuntivo. Nondimeno, persino quando questa componente soggettiva sia assolta, essa non conduce all’immediata applicazione
Lorenz, in Staudinger, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch (§§ 812-822), Berlin, 1999,
§ 817 BGB, Rn. 4; e K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 265.
(26) Cfr. in tema, assai istruttivo, Lorenz, in Staudinger, Kommentar zum Bürgerlichen
Gesetzbuch, cit., § 817 BGB, Rn. 4 e 5; e K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 265.
(27) Cfr. sul dibattito in corso Lorenz, in Staudinger, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., § 817 BGB, Rn. 4 e 5; K. Schmidt, Anmerkung, cit., p. 265; e Schulze, in
Handkommentar-BGB, cit., § 817 BGB, Rn. 5.
(28) Cfr. sulla « teoria della dilatazione », Lorenz, in Staudinger, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., § 817 BGB, Rn. 10; Lorenz, Keine Kondiktionssperre, cit., n.
164413; e Schulze, in Handkommentar-BGB, cit., § 817 BGB, Rn. 6.
(29) Gli impoveriti, creditori delle restituzioni, nel caso di specie non s’erano curati dell’immoralità di questi “Schenkkreise”, con fare quantomeno incauto: cfr. sul punto BGH, in
NJW, 1994, pp. 187-188; Wendehorst, in Bamberger-Roth-Wendehorst, Kommentar zum
BGB, München, 2003, § 817 BGB, Rn. 16; e Schulze, in Handkommentar-BGB, cit., § 817
BGB, Rn. 8.
(30) Landgericht Freiburg, in NJW-RR, 2005, pp. 492-493.
862
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
della clausola impeditiva della condictio secondo il § 817, periodo 2°, BGB.
Piuttosto il BGH, già in una decisione più risalente, precisò che il § 817,
periodo 2°, BGB costituisce « una norma in sé estranea al diritto civile e
capace di condurre non di rado a risultati incongrui », sicché essa, « in ragione del suo scopo », doveva essere trattenuta entro margini ben delimitati (31). Così, in tema di retribuzione del lavoro nero, il Tribunale, richiamando il principio di buona fede ex § 242 BGB (32), giunse alla conclusione che l’impedimento alla condictio, illustrato dal § 817, periodo 2°, BGB,
nell’ipotesi affrontata non trovava applicazione (33). In questo caso il Tribunale adopera solo indirettamente quanto prescritto dal § 242 BGB, ed
anzi richiama senza mediazioni lo scopo protettivo della sanzione di nullità – qui del § 138, comma 1°, BGB – ed al contempo perviene parimenti
all’inapplicabilità del § 817, periodo 2°, BGB. In proposito chiarisce infatti
il Tribunale che l’esclusione della pretesa restitutoria sconfesserebbe lo
scopo di protezione insito nel § 138, comma 1°, BGB, giacché il “giuoco”
non ne verrebbe in alcun modo penalizzato; al contrario, grazie alla prestazione preliminare quivi praticata, esso ne risulterebbe alfine “legalizzato” ed i suoi iniziatori sarebbero persino incoraggiati a proseguire, se fosse consentito loro trattenere le somme di denaro acquisite con metodi immorali ed indipendentemente dalla nullità degli accordi che preludono al
“giuoco”. Esattamente come nella retribuzione del lavoro nero, campeggia dunque anche qui il convincimento ultimo che l’applicazione del § 817,
periodo 2°, BGB non debba, né possa condurre a perpetuare una situazione immorale e quasi ad incentivare un comportamento contrario al
buon costume (34). Ciò premesso, il BGH conferma la sua giurisprudenza
in maniera fedele.
(31) BGH, in NJW, 1980, p. 452. Cfr. in tema anche Lorenz, in Staudinger, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., § 817 BGB, Rn. 10; ID., Keine Kondiktionssperre, cit., n.
164413.
(32) § 242 BGB Prestazione secondo buona fede.
Il debitore è obbligato ad eseguire la prestazione cosi come lo richiede la buona fede, tenuto conto degli usi del traffico giuridico.
(33) Questo indusse a ritenere che il già lavoratore « in nero », nonostante la violazione
della legge per la lotta al lavoro nero, potesse comunque domandare ai sensi del § 818, comma 1°, periodo 1°, alternativa 1a, BGB la restituzione del valore che senza causa era pervenuto al datore. Questo non valeva viceversa, quand’egli, sia pur invalidamente, avesse concordato – e magari con un qualche compenso, dettato dalle circostanze – che non gli sarebbe spettata alcuna pretesa di garanzia.
(34) Di esito espressamente contrario – nessuna applicazione del § 817, periodo 2°, BGB
– Oberlandesgericht Köln, in VuR, 2006, p. 73.
SAGGI
863
Le decisioni del BGH sugli «Schenkkreise », poc’anzi esaminate, mostrano chiaramente che, dietro l’impedimento alla condictio enunciato dal
§ 817, periodo 2°, BGB, deve scorgersi anche un intento di prevenzione
generale, non del tutto ignoto al diritto civile tedesco (35), e questo offre
ben maggiori elementi per la definizione di risposte convincenti al singolo caso di specie di quanti non offra la completa negazione di tutela giuridica (36). Il risultato in oggetto può dunque alfine persuadere: ai concorrenti degli «Schenkkreise » non è consentito confidare nella possibilità di
trattenere i versamenti ottenuti, ma al contrario essi devono continuamente tenere in conto l’eventualità dell’altrui pretesa restitutoria, cosicché vien meno un considerevole incentivo alla partecipazione a questi
giuochi (37). Indubbiamente il fatto che l’esito argomentativo od il procedimento logico del BGH vada ad alterare la norma di cui al § 817, periodo
2°, BGB, nonostante la sua nitida formulazione – le si accorda infatti un
contenuto almeno in parte deviante rispetto al suo esplicito tenore letterale – potrebbe destare perplessità, ma in un sistema giuridico complesso
nemmeno può dirsi sempre scongiurabile (38). Piuttosto dottrina e giurisprudenza sono chiamate, ciascuna dal canto suo, ad arrecare un apporto
interpretativo colmo di responsabilità, rivelando, attraverso ed oltre le
peculiarità del caso, i giudizi di principio che vi sono sottesi ed in modo
da osservare le esigenze della pratica (39).
4. – Si può supporre che i Tribunali di merito vorranno conformarsi al
BGH. In futuro, laddove ci si dovrà confrontare con sistemi « a palla di
neve », contrari al buon costume, non si tratterà più di comprendere se
colui che esegua una prestazione nel contesto della clausola d’esclusione
ex § 817, periodo 2°, BGB avesse cognizione delle modalità di funzionamento di questo sistema o si sia precluso, quantomeno con leggerezza, la
comprensione dell’immoralità. In relazione a questi «Schenkkreise » il Supremo Tribunale civile tedesco ha spianato la strada per una generale attitudine restitutoria degli spostamenti patrimoniali intrapresi nell’attuazio(35) Cfr. sul punto, in particolare, i §§ 241a e 661a BGB.
(36) In tal senso, chiaramente, Lorenz, Keine Kondiktionssperre, cit., n. 164413.
(37) Ne convengono espressamente Lorenz, Keine Kondiktionssperre, cit., n. 164413;
Möller, Leistungskondiktion trotz beidseitiger Sittenwidrigkeit?, cit., p. 268; ed inoltre anche
Goerth, Anmerkung, cit., p. 77.
(38) In questo senso s’esprime tendenzialmente – ma con cautela – Möller, Leistungskondiktion trotz beidseitiger Sittenwidrigkeit?, cit., p. 270.
(39) Così ancora Möller, Leistungskondiktion trotz beidseitiger Sittenwidrigkeit?, cit.,
p. 270.
864
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
ne di questo genere di sistemi. È un risultato da salutare con soddisfazione. Il futuro dovrà però ancora mostrare, se i danneggiati si troveranno effettivamente nella condizione di far valere sempre con successo le loro
pretese ed all’occorrenza renderle forzosamente eseguibili. Resta dunque
da sperare che, in questi casi, “aver” ragione ed “ottener” ragione non siano « due diversi paia di scarpe ». Il BGH ha comunque fatto tutto ciò che
è in suo potere, e con la sua decisione ha posto le vittime nella condizione di potersi difendere dalle insidiose trame degli «Schenkkreise ».
MICHELE RONDINELLI
Il Deutscher Corporate Governance Kodex
Sommario: 1. Premessa – 2. Le fasi che hanno preceduto la realizzazione del DCGK – 3. I
destinatari e la struttura del DCGK – 4. Il contenuto del DCGK: raccomandazioni,
suggerimenti e altre regole – 5. Il § 161 della legge azionaria. Entsprechenserklärung e divergenze dal principio anglosassone del «comply or explain » – 6. Gli obblighi pubblicitari previsti dal § 161 della legge azionaria e dai §§ 285 n. 16, 314 comma 1°, n. 8, 325
comma 1°, del codice di commercio – 7. Natura e conseguenze giuridiche dell’obbligo
informativo ex § 161 della legge azionaria – 8. Segue: sull’ipotesi di fehlende Entsprechenserklärung – 9. Segue: sull’ipotesi di Entsprechenserklärung non veritiera – 10. Segue: sull’ipotesi di Entsprechenserklärung rivolta al futuro nel caso di devianza da essa nel corso
dell’anno – 11. Il DCGK dalla prima versione del 2000 alle recenti modifiche – 12. Il
DCGK nella prassi – 13. Critiche e prospettive del DCGK. Considerazioni conclusive.
1. – Dal 26 febbraio 2002 la Germania ha un codice sulla Corporate Governance – il Deutscher Corporate Governance Kodex, di seguito DCGK –
rivolto principalmente alle società per azioni quotate e ai gruppi, ma con
l’invito anche per le società non quotate ad adeguarsi ad esso. In appena 4
anni il DCGK è stato sottoposto a quattro modifiche, di cui la più recente è del 12 giugno 2006 (1).
Prima di inoltrarsi nell’analisi del contenuto e della struttura del
DCGK, della sua collocazione nell’ordinamento giuridico tedesco, di come esso sia stato accolto dai pratici e di quali siano le critiche che ad esso
sono state mosse dalla dottrina, appare opportuno descrivere le fasi che
hanno preceduto la sua elaborazione e i lavori che tuttora continuano al
fine di rendere quanto più attuale possibile uno strumento chiamato a favorire la fiducia nel mercato e ad attrarre capitali stranieri.
2. – Il DCGK è frutto del lavoro di una commissione di nomina governativa – la Regierungskommission Deutscher Corporate Governance Ko-
(1) Il Deutscher Corporate Governance Kodex, nella edizione del 12 giugno 2006, può essere consultato al seguente indirizzo internet: www.corporate.governance.code.de.
Per un primo approccio alla materia in esame si vedano, in italiano: Hopt, Direzione
dell’impresa, controllo e modernizzazione del diritto azionario: la relazione della Commissione
governativa tedesca sulla corporate governance, in Riv. Soc., 2003, p. 182; Lutter, Una introduzione al Codice tedesco di corporate governance, ivi, 2003, p. 231.
866
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
dex (2) altrimenti conosciuta come Cromme-Kommission (3) – istituita nell’agosto del 2001 con l’intento di adeguare in tempi ragionevoli il sistema
di corporate governance tedesco agli standards internazionali (4). Come
sottolineato nel discorso introduttivo (5) al DCGK tenuta dal Dr. Cromme il 18 dicembre 2001, i punti critici in materia di corporate governance
delle società tedesche, ai quali con il DCGK si voleva porre rimedio, interessavano: i) la carente attenzione della direzione societaria agli interessi
degli azionisti; ii) la limitata indipendenza dei membri dell’organo di controllo; iii) la scarsa trasparenza nella gestione societaria; iv) la limitata indipendenza dei revisori contabili.
Tali aspetti problematici erano divenuti sempre più evidenti a partire
dalla metà degli anni ’90, in corrispondenza alla crescente rilevanza assunta dagli investitori istituzionali – non solo fondi anglosassoni ma anche
fondi tedeschi che incominciavano lentamente a ridurre il peso delle banche nella struttura azionaria delle società per azioni tedesche – i quali prestavano notevole attenzione alla trasparenza in materia di gestione societaria e all’indipendenza dei membri dell’organo di controllo. In altri termini
gli investitori istituzionali erano (6), e sono, disposti a pagare un prezzo più
(2) Seibert, Im Blickpunkt: Der Deutsche Corporate Governance Kodex ist da, in BetiebsBerater, 2002, p. 582, ricorda che « Die Kommission selbst ist vom Bundesministerium der
Justiz in Abstimmung mit dem Kanzleramt mit großer Sorgfalt ausgesucht worden, um eine breite Repräsentanz der betroffenen Kreise abzubilden. Die Kommission wurde vom
Bundesministerium der Justiz betreut und beraten. Die Kommission hat ihren Entwurf der
Öffentlichkeit vorgestellt und allen, die sich angesprochen fühlten, Gelegenheit zur Stellungnahme gegeben. Die Stellungnahmen sind ausgewertet und eingearbeitet worden. Vor
allem aber: Die Wirkung der Entsprechenserklärung wird durch das gesetzt geknüpft an einem “im elektronischen Bundesanzeiger bekannt gemachten” Kodex ».
(3) Dal nome del suo Presidente il Dr. Gerhard Cromme, Presidente dell’Aufsichtsrat
della ThyssenKrupp AG.
(4) Nel Preambolo al DCGK si indicano le finalità che con tale strumento si intendono
perseguire: « il presente progetto di Codice di Corporate Governance Tedesco riporta disposizioni normative essenziali per la gestione e la vigilanza delle società di diritto tedesco
quotate in borsa e recepisce standards adottati a livello nazionale ed internazionale per una
corretta e responsabile direzione dell’impresa. Il Codice mira a rendere il sistema tedesco
di corporate governance trasparente e comprensibile. Il suo scopo è di stimolare la fiducia da
parte degli investitori nazionali ed internazionali, dei clienti, dei dipendenti e del pubblico
nella gestione e controllo delle società di diritto tedesco quotate in borsa ».
(5) Il discorso introduttivo al DCGK è consultabile al seguente indirizzo internet:
www.corporate.governance.code.de.
(6) Pellens-Hillebrandt-Ulmer, Umsetzung von Corporate-Governance-Richtlinien in
der Praxis – Eine empirische Analyse der DAX 100-Unternehmen, in Betriebs-Berater, 2001, p.
1243.
SAGGI
867
alto per entrare nel capitale di società dalla “buona” corporate governance,
ciò che induce(va) le società a confrontarsi con la propria governance al fine
di accedere a forme di finanziamento più convenienti sul mercato.
La Cromme-Kommission prendeva a sua volta le mosse dai lavori di
un’altra commissione di nomina governativa – la Regierungskommission
Corporate Governance (7), anch’essa diffusamente conosciuta dal nome del
suo presidente, il Prof. Theodor Baums (8), come Baums-Kommission –
pubblicati sulla Gazzetta Federale Elettronica (9) il 10 luglio 2001. La
Baums-Kommission consigliava una serie di interventi (10) volti a rafforzare la tutela degli investitori e ad attrarre capitali stranieri; proponeva, inoltre, di realizzare un codice sulla corporate governance e la contestuale introduzione nell’ordinamento tedesco della regola di matrice anglosassone
del « comply or explain » (11).
Dalla composizione di tale commissione (12) traspare la volontà del governo di raggiungere il più ampio consenso su una materia, la corporate
governance, che ha degli enormi riflessi sul tema della tutela degli investitori e dei risparmiatori nonché sul tema del finanziamento delle imprese,
con un’evidente rilevanza pubblicistica.
(7) Tale commissione era stata istituita per volontà del Bundeskanzler Schröder il 29
maggio 2000.
(8) Professore presso l’Università Johann-Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno.
(9) La Gazzetta Federale Elettronica ha affiancato la Gazzetta Federale in formato cartaceo, e con la riforma del § 25 della legge azionaria è diventato lo strumento privilegiato
dal legislatore per adempiere a tutte le pubblicità previste dalla legge o dallo Statuto delle
società per azioni.
Al riguardo è stato osservato che « Die nach wie vor erscheinende gedruckte Ausgabe
des Bundesanzeigers ist demnach nicht mehr der richtige Ort für aktienrechtliche Pflichtveröffentlichungen, doch selbstverständlich kann zusätzlich auch dort veröffentlicht werden. Der Gesetzgeber hat einen « beherzten Schnitt » gemacht, indem er durch Einfügung
des Wortes “elektronischen” in § 25 Satz 1 AktG sowohl den elektronischen Bundesanzeiger etabliert als auch die Printversion als Pflichtorgan für Gesellschaftsmitteilungen abgeschafft hat ».
Così Noack, Elektronische Unternehmenspublizität in Deutschland und Europa – Zur
Umsetzung der Publizitäts – und der Transparenzrichtlinie, in http://www.jura.uni-duesseldorf.de/dozenten/noack/azw.
(10) Nel Rapporto della Baumskommission erano contenute oltre 100 proposte.
(11) Cfr. il Bericht der Regierungskommission Corporate Governance, in Baums (hrsg.),
2001, p. 10 ss.
(12) Della Baums-Kommission facevano parte 8 componenti degli organi amministrativi
o di controllo delle maggiori società tedesche; 4 componenti degli organi amministrativi o
di controllo di fondi comuni di investimento (3 tedeschi e 1 inglese); 2 rappresentanti dei
maggiori sindacati tedeschi; 2 professori universitari; 4 tra parlamentari e sottosegretari.
868
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Gli sforzi sostenuti dal governo federale per fornire alle società per
azioni tedesche uno strumento agile e al tempo stesso rispondente alla
prassi internazionale in tema di corporate governance vanno visti come la
risposta all’attivismo che da diversi anni si registrava nelle altre economie
più evolute. In ambito internazionale, infatti, i primi codici di autodisciplina in materia, risalenti agli inizi degli anni ’90, sono stati predisposti
nell’area anglo-americana facendo da modello per i codici che, nel breve
volgere di pochi anni, sarebbero stati elaborati in ciascuno Stato dell’Europa continentale. Tali codici nascono dalla convinzione che nella materia
della corporate governance le regole migliori non sono quelle imposte dal
legislatore, che non sempre interviene in maniera coerente ed organica,
ma quelle che gli operatori si danno da sé (13). Essi, in virtù di una sorta di
gentlemen agreement, si vincolano al rispetto di tali regole e si sottopongono al controllo del mercato che giudicherà sulla correttezza della loro condotta. Tale controllo opera anche nell’ipotesi in cui gli operatori, non ritenendo opportuno o conveniente seguire per ragioni contingenti le regole
che si sono date, sono in grado di addurre una motivazione convincente
circa la necessità della condotta che in concreto hanno tenuto.
Anche in Germania, sul finire degli anni ’90, si assiste ad alcuni tentativi di realizzare dei codici che fissano lo stato dell’arte in materia di corporate governance da parte di giuristi ed operatori (14).
Nel luglio del 2000 viene, infatti, pubblicato un «Code of best practice » (15), realizzato dalla Frankfurter Grundsatzkommission Corporate Governance, una organizzazione privata composta da giuristi e amministratori di società quotate. Il Code of best practice contiene delle Corporate Governance-Grundsätze, vale a dire dei principi rivolti alle società quotate che
(13) Borges, Selbstregulierung im gesellschaftsrecht, in Zeitschrift für Unternehmens- und
Gesellschaftsrecht, 2004, p. 525: « in der 90er Jahren setzte sich das Konzept durch, auf gesetzliche Governance-Regeln zu verzichten. Stattdessen sollten börsennotierte Unternehmen verpflichtet sein, eine Erklärung darüber abgeben, ob sie einen bestimmten Corporate Governance-Kodex einhalten und, soweit sie von einem Punkt abweichen, die Abweichung zu begründen. Damit soll ein faktischer Druck auf die Gesellschaften ausgeübt werden, sich an den Kodex zu binden. Die Abgabe der Erklärung sollte durch entsprechende
Regeln der Börsen durchgesetzt werden. Dieses Konzept wurde von der Londoner Börse in
die Praxis umgesetzt, die von den börsennotierten Gesellschaften eine jährliche Erklärung
über die Einhaltung des Combined Code Verlangte ».
(14) Berrar, Die Entwicklung der Corporate governance in Deutschland im internationalen
Vergleich, 2001, p. 104 ss.
(15) Il Code of best practice è stato pubblicato sulla rivista Die Aktiengesellschaft, 2000, p.
238 ss.
SAGGI
869
riguardano principalmente il controllo sulla attività di gestione. Peraltro,
l’obbiettivo che tale organizzazione privata si proponeva è molto più ampio, consistendo nel favorire la fiducia, oltre che degli azionisti attuali e futuri, del capitale straniero, dei collaboratori, dei partners commerciali e
dell’opinione pubblica. Il presupposto da cui si muoveva era quello della
stakeholder value (16), secondo cui nella gestione dell’impresa sociale non si
può prescindere dal prendere in considerazione gli interessi, non solo degli azionisti, ma di tutti quei soggetti che entrano in contatto con la società.
Sempre nel 2000 viene realizzato, da parte del Berliner Initiativkreis,
anch’essa un’organizzazione privata, il German Code of Corporate Governance (17).
L’apparente continuità in cui pare collocarsi il DCGK rispetto alle iniziative analoghe anche di altri paesi, soprattutto di common law è affievolita per un elemento di carattere formale che tuttavia finisce per avere ripercussioni anche sul piano sostanziale.
Mentre negli Stati Uniti ed in Inghilterra i « codici sulla corporate governance » sono realizzati ed adottati su base volontaristica – assumendo
le vesti di codici di autodisciplina (18) ovvero di complessi di regole che
ciascuna società quotata si dà (19) o che vengono proposte dagli investitori
istituzionali (20) – essendo la loro adozione ed applicazione sottoposta al
(16) Freeman, Strategic Management: a Stakeholder Approach, 1984, p. 31. « The actual
word “stakeholder” first appeared in the management literature in an internal memorandum at the Stanford Research Institute (. . .) in 1963. The term was meant to generalize the
notion of stockholder as the only group to whom the management need be responsive.
Thus, the stakeholder concept was originally defined as “those groups without whose support the organization would cease to exist ».
(17) Il German Code of Corporate Governance, licenziato il 6 febbraio 2000 è consultabile
al seguente indirizzo internet www.governance-code.de, oppure sulla rivista Die Aktiengesellschaaft, 2001, p. 6 ss.
(18) Si pensi al The Report of the Committee on the Financial Aspects of Corporate Governance meglio noto come Cadbury Report, pubblicato nel dicembre del 1992, al quale hanno
fatto seguito il Greenbury Report, l’Hampel Report ed infine al Combined Code elaborato dalla Borsa di Londra.
Su tale problematica si veda: Bruno, Profili del diritto societario inglese alla luce della
riforma, in Riv. soc., 2004, p. 897.
(19) Si considerino, a titolo esemplificativo, le Corporate Governance Guidelines della
General Motors consultabili al seguente indirizzo internet: www.gm.vom/company/investor_information/stockholder_info/corp_gov/guidelines.
(20) Si pensi ai Principles of Corporate Governance elaborati da fondi pensione o assicurativi come il California Public Employees’ Retirement System (CalPERS) o il Teacher Insurance and Annuity Association – College Retirement equity Fund (TIAA-CREF) cui devono
870
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
controllo del mercato, in Germania il DCGK è stato elaborato da una
commissione governativa ed è stato oggetto di espresso richiamo nel § 161
della legge azionaria come modificato dalla Gesetz zur weiteren Reform des
Aktien – und Bilanzrecht, zu Transparenz und Publizität (TransPuG) del 19
luglio 2002 (21, 22).
A tale aspetto se ne collegano altri due non meno importanti. Nel
Preambolo del DCGK si dice che le regole in esso contenute saranno soggette a revisione annuale da parte della Cromme-Kommission (23) che se lo
attenersi le società come presupposto per un ingresso degli investitori istituzionali nel capitale sociale.
I Principles sono rispettivamente consultabili ai seguenti indirizzi internet: www.calpers-governance.org/principles; www.tiaa-cref.org/libra/governancce/index.html.
Si consideri che il potere conformativo che sono in grado di esercitare i grandi investitori istituzionali nei confronti di società quotate, nel senso di subordinare il loro ingresso
nel capitale sociale – ancorché nel ruolo di azionisti non di controllo – all’adeguamento della gestione della società a regole di corporate governance più trasparenti, non è per niente irrilevante. Vista l’entità delle partecipazioni da essi detenute e la prospettiva dell’investimento tendenzialmente di lunga durata, gli investitori istituzionali garantiscono con il loro
ingresso una maggiore stabilità delle quotazioni del titolo, riducendone la volatilità e tutelando, in tal modo, gli amministratori dal possibile ricatto degli azionisti di minoranza mossi da prospettive di investimento di breve periodo.
(21) La TransPuG, legge di ulteriore riforma del diritto delle azioni e del bilancio e per
la trasparenza e la pubblicità, si inserisce tra una serie di leggi che negli ultimi dieci anni
hanno profondamente trasformato il diritto delle società per azioni tedesche. Tale legge, oltre a modificare il § 161 della legge azionaria, nonché altri §§ del codice di commercio che richiamano anch’essi il DCGK, ha affermato un importante principio in favore di chi acquisti azioni via internet il quale potrà, salvo eccezioni, esercitare i diritti ad esse connessi sempre mediante internet. Così è stata ammessa la possibilità di conferire procura alla propria
banca o alla associazione di azionisti per farsi rappresentare in assemblea con un semplice
click del maus.
(22) Ehrhardt-Nowak, Die Durchsetzung von Corporate-Governance-Regeln, in Die Aktiengesellschaft, 2002, p. 341, osservano che « [b]ei der von der Regierungskommission erarbeitete Deutschen Corporate Governance Kodex handelt es sich um eine reine Selbstregulierung der Wirtschaft. Der Kodex wird unverbindlich sein, allerdings durch eine gesetzliche Regelung im Rahmen des geplanten TransPuG flankiert werden, welche die Gesellschaftsorgane zu einer jährlichen Erklärung verpflichtet, ob sie dem Kodex entsprechen
bzw. welche Abweichungen praktizieren ».
(23) Noack-Zetzsche, Corporate Governance in Germany: The second decade, cit., p. 10,
ricordano che: « The GCGC is administered by the Codex Commission. The Federal Secretary of Justice appoints its 13 members who are managers, academics and representatives of stakeholders. The Codex Commission will observe the development of corporate governance in legislation and practice and will review the Code at least once a year for possible adaptation. The government established a website as a contact for interested parties’
comments and proposals ».
SAGGI
871
riterrà necessario provvederà ad apportare le modifiche che ritiene opportune (24). La Cromme-Kommission è tenuta altresì a verificare il grado di
accoglienza nella prassi delle regole del DCGK, al fine di adeguarne il
contenuto agli sviluppi nazionali e internazionali in materia di corporate
governance. Nell’ipotesi in cui le raccomandazioni del DCGK non ricevano adeguato riconoscimento e spontanea adesione da parte degli operatori, il Bundesregierung si riserva di presentare progetti di legge, all’occorrenza elaborati dalla stessa Cromme-Kommission, per conferire a tali raccomandazioni una natura ed un’efficacia diverse, vale a dire norme di legge di carattere precettivo.
D’altra parte, è stato osservato che l’assenza di rappresentanti del governo e del ministero della giustizia tra i componenti della Cromme-Kommission voleva dire rimettere la realizzazione del codice solo ai giuristi e
ai rappresentanti della grande impresa (25), ferma restando la possibilità di
tradurre in leggi quelle raccomandazioni che non sarebbero state seguite
spontaneamente dai destinatari del codice.
Da quanto appena detto risulta evidente la rottura con le esperienze fino ad allora presenti a livello internazionale e che si voleva intraprendere
in Germania, motivata dalla volontà del legislatore di fissare degli standards uniformi rispondenti alla prassi internazionale per le società quotate tedesche, prendendo quanto vi era di meglio nei “Codici” frutto delle
iniziative private di cui si è detto e realizzando al contempo le proposte
elaborate dalla Regierungskommission Corporate Governance.
3. – Si è detto che le regole contenute nel DCGK sono rivolte alle società quotate, con l’invito per le società non quotate a provvedere alla
spontanea osservanza di esse (26), ovvero ai gruppi di società.
Per individuare i destinatari di ciascuna regola occorre fare ricorso ad
un dato letterale, essendo chiarito nel Preambolo al DCGK che l’utilizzato del termine Gesellschaft – i.e. società – ricorre nelle regole indirizzate
alle società quotate, mentre il termine Unternehmen – i.e. impresa – indica
le regole indirizzate ai gruppi di società.
(24) La prima versione del DCGK è stata sostituita da quattro successive versioni. Di
queste, l’ultima è del 12 giugno 2006.
(25) Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder, Deutscher Corporate Governance Kodex,
2005, p. 16.
(26) Nel Preambolo al DCGK si delimita l’ambito dei suoi destinatari. Vi si legge infatti che « il codice si rivolge in primo luogo alle società quotate in borsa. Alle società non
quotate si consiglia l’osservanza spontanea e su base volontaria del codice ».
872
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Quanto alla struttura del DCGK, esso si compone delle seguenti sezioni: 1) Preambolo; 2) azionisti e assemblea dei soci; 3) cooperazione tra
l’organo amministrativo e l’organo di controllo; 4) Vorstand; 5) Aufsichtsrat; 6) trasparenza; 7) relazioni e revisione del bilancio di esercizio.
Posizione centrale nelle regole del DCGK è occupata dal Vorstand e
dall’Aufsichtsrat, molte delle regole essendo finalizzate a favorire la collaborazione tra i due organi e a rendere più efficace il controllo sulla gestione esercitato dall’Aufsichtsrat. La Cromme-Kommission ha avvertito la necessità di dedicare diverse raccomandazioni alla cooperazione tra tali organi quale conseguenza del sistema di amministrazione e controllo fatto
proprio dall’ordinamento tedesco c.d. dualistico che si caratterizza per il
fatto di coinvolgere l’Aufsichtsrat nella gestione dell’impresa sociale. Tale
organo oltre ad essere competente ad esercitare un controllo costante sulla gestione è destinatario di un potere di alta amministrazione e di indirizzo dell’attività degli amministratori che si sostanzia nella facoltà di subordinare il compimento di determinati atti gestori, individuati dallo Statuto o dallo stesso Aufsichtsrat, all’ottenimento di una autorizzazione preventiva che lo stesso organo di controllo provvede a rilasciare. Non è casuale quindi che nello stesso Preambolo sia stato ricordato che « la legge
prevede attualmente per le società di capitali tedesche un sistema “dualistico”».
Ma la centralità conferita al Vorstand e all’Aufsichtsrat all’interno del
DCGK va letta con particolare riguardo alla disposizione del § 161 della
legge azionaria che sancisce l’obbligo per tali organi di provvedere annualmente ad una dichiarazione circa l’aderenza della gestione societaria
alle regole del DCGK.
Ampio spazio è stato dato all’organo di controllo, al quale sono state
dedicate circa un quarto delle raccomandazioni che complessivamente sono contenute nell’ultima versione DCGK. Esse sono collocate per la
maggior parte nella Sezione V espressamente dedicata all’Aufsichtsrat, ma
non sono trascurabili quanto a contenuto le raccomandazioni collocate
nella Sezione VII.2 relative alla revisione del bilancio di esercizio (27).
(27) Ulmer, Deutscher Corporate Governance Kodex – ein neues Regulierungsinstrument
für Börsennotierte Aktiengesellschaft, in Zeitschrift für das gesamte Handelsrecht und Wirtschaftsrecht, 2002, p. 155, osserva che « erhebliches gewicht kommt schließlich auch dem
Abschnitt 7.2 des Kodex zu, der sich auf die Vergabe des Prüfungsauftrags durch den Aufsichtsrat und auf die dabei von ihm zu beachtenden Anforderungen an den Abschlussprüfer
bezieht. Insgesamt lesen sich diese Teile des Kodex wie ein eindrucksvoller, allen Aufsichtsratsmitgliedern an die Hand zu gebender Leitfaden für ihre Überwachungstätigkeit ».
SAGGI
873
Minore rilevanza assumono nel contesto del DCGK le raccomandazioni rivolte al Vorstand, collocate nella Sezione IV, e riguardanti essenzialmente le ipotesi di conflitti di interesse dei membri dell’organo di gestione e la loro remunerazione.
Altre raccomandazioni sono finalizzate a rafforzare i diritti di informazione degli azionisti previsti dalla legge azionaria al § 131, ciò al fine di garantire una loro più attiva partecipazione in assemblea, anche mediante
l’utilizzo delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione (28).
4. – Le regole del DCGK possono essere classificate in base alla loro
capacità di incidere sulla struttura organizzativa delle società quotate. Nel
Preambolo, infatti, si fissa una tripartizione che, facendo leva su un dato
letterale, permette di distinguere innanzitutto tra le raccomandazioni, che
sono precedute dal verbo soll – c.d. Soll-Vorschriften –, i meri suggerimenti preceduti invece dai verbi sollte o kann (29) – c.d. Sollte-Vorschriften – e
tutte le altre regole (30) non contraddistinte dai verbi suddetti che hanno
una natura dichiarativa di norme di diritto vigente, le quali devono essere
osservate dalle società al pari del diritto positivo (31) – c.d. Muss-Vorschriften (32) –.
(28) Sull’utilizzo, nell’ordinamento tedesco delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione si veda, con ampi riferimenti bibliografici: Turelli, Assemblea di
società per azioni e nuove tecnologie, in Riv. soc., 2004, p. 116 ss.
(29) Nella traduzione italiana non ufficiale del DCGK realizzata dalla stessa Regierungskommission Deutscher Corporate Governance Kodex il verbo “soll” è tradotto con “dovrà”,
mentre i verbi “sollte” e “kann” sono tradotti con “dovrebbe” e “può”.
(30) Steinat, Comply or Explain – Die Akzeptanz von Corporate Governance Kodizes in
Deutschland und Großbritannien, in Heft Nr. 39 der Beiträge zum Transnationalen Wirtschaftsrecht, edito dalla Martin-Luther-Universität Halle-Witterberg, 2005, p. 8, osserva che « die
Bestimmung über geltendes Recht gehören zur obersten Regelungsebene der Corporate
Governance und sind von Vorstand und Aufsichtsrat stets zu befolgen, denn auch ohne Kodex sind diese Verhaltenanforderungen verbindlich ».
(31) Al riguardo il DCGK si esprime nei seguenti termini: « i rimanenti passaggi del Codice, non contraddistinti da alcuno dei verbi suddetti, contengono disposizioni che le imprese sono obbligate ad osservare alla stregua di una disciplina ».
(32) Strieder, Deutscher Corporate Governance Kodex. Praxiskommentar, 2005, 61, osserva al riguardo che le Muss-Vorschriften « werden (. . .) regelmäßig nicht wörtlich aus dem
Gesetz zitiert, sondern sinngemäß wiedergegeben. Schon im Vorwort zum DCGK beschreibt diese Vorgehensweise der Vorsitzende der Kommission, Dr. Gerhard Cromme, damit, dass der leichten Verständlichkeit des DCGK der Vorrang von juristischen Präzision
gegeben wurde ».
874
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Le raccomandazioni, che concettualmente vanno collocate nella categoria di regole di best practice, possono essere disattese dalle società, ma
per esse trova applicazione il § 161 della legge azionaria, che prescrive l’obbligo, su cui in seguito ampiamente si dirà, di dichiarare annualmente in
che misura si è deviati da esse. Esse costituiscono la parte più corposa del
DCGK; tuttavia, in dottrina la loro quantificazione risulta differente a seconda degli autori – 60 (33), 70 (34) o addirittura 106 (35) sarebbero le raccomandazioni contenute bel DCGK – ciò in ragione del fatto che secondo
alcuni in una medesima frase o in un medesimo periodo vada letta più di
una raccomandazione.
I suggerimenti, invece, anche quando non sono seguiti, non sono sottoposti ad obblighi di pubblicità, benché vi sia chi auspichi che, quale attestazione di buona corporate governance (36), si porti a conoscenza degli
azionisti e dei terzi – contestualmente alla dichiarazione di cui al § 161 della legge azionaria – quali suggerimenti non sono stati fatti propri dalle società (37). Anche il numero dei suggerimenti varia a seconda degli autori –
15 (38), 17 (39) o 19 (40) –.
Quanto alle Muss-Vorschriften, nel loro ambito è stata operata una ulteriore partizione da parte di chi ha ritenuto di poter distinguere, in ragione del loro contenuto dichiarativo, tra: 1) Gesetzeswiedergabe – i.e. riproduzione della legge – e 2) Gesetzesauslegung – i.e. interpretazione della
legge – (41).
Le regole che assumono la veste di Gesetzeswiedergabe consistono nella ripetizione descrittiva di norme di diritto vigente. La previsione nel
DCGK di tali regole è stata accolta con favore dalla dottrina, vista la collocazione della materia relativa all’amministrazione e controllo delle so-
(33) Treuber-Zitzmann, Präambel, in Pfitzer-Oser (curr.), Deutscher Corporate Governance Kodex – Ein Handbuch für Entscheidungsträger, 2003, p. 26.
(34) Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder, op. cit., p. 52.
(35) Strieder, Deutscher Corporate Governance, cit., p. 61.
(36) In Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder, op. cit., p. 52, sulla natura dei suggerimenti si legge che « die 19 (Sollte- bzw. Kann-) Anregungen markieren Regelungen, die
(nach Auffassung der Kodexkommission) ebenfalls Ausdruck guter Unternehmensführung
sind, sich bislang allerdings noch nicht auf breiter Front in der Praxis durchgesetzt haben ».
(37) Così Strieder, Erläuterungen zum Deutsche Corporate Governance Kodex, in FinanzBetrieb, 2004, p. 15.
(38) Treuber-Zitzmann, op. cit., p. 26.
(39) Strieder, Deutscher Corporate Governance Kodex, cit., p. 62.
(40) Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder, op. cit., p. 52.
(41) In tal senso Steinat, op. cit., p. 8.
SAGGI
875
cietà per azioni in vari testi legislativi, ciò che la rendeva particolarmente
frammentata e, soprattutto per gli operatori stranieri, di non facile consultazione.
Nelle regole che hanno, invece, il contenuto di Gesetzesauslegung la
Cromme-Kommission ha fornito una propria interpretazione di alcune norme di diritto vigente che, secondo la dottrina citata, possono anche non
essere seguite, qualora gli operatori non condividano l’interpretazione in
esse fornita (42).
Non si ritiene di poter condividere questo ultimo assunto, in quanto
bisogna tener conto del fatto che l’interpretazione di norme di diritto positivo fornita dalla Cromme-Kommission è stata fatta propria dal legislatore
del 2002 che con la TransPuG e la nuova versione del § 161 ha sancito una
inequivocabile relazione tra norme di diritto e DCGK, aderendo in maniera implicita alla interpretazione fornita dalla Cromme-Kommission (43).
A tale interpretazione, se non la si vuole considerare una interpretazione
autentica, va quantomeno riconosciuta la capacità ad operare da criterio
guida per il giudice chiamato a pronunciarsi sulle questioni da essa affrontate; ciò val quanto dire che, in sede giudiziale, l’interpretazione della
Cromme-Kommission potrà essere superata solo se essa risulti contraria ai
principi della Legge Fondamentale.
Peraltro, in dottrina vi è chi, prescindendo da ogni partizione, ha criticato in linea di principio la presenza di Muss-Vorschriften nel DCGK, per
il fatto che esse trovano applicazione indipendentemente dalla loro formale ripetizione in tale strumento, che in loro assenza sarebbe stato più
breve e di più agevole consultazione (44).
5. – Il § 161, rubricato Erklärung zum Corporate Governance Kodex (dichiarazione relativa al Codice di Corporate Governance), stabilisce che:
« Vorstand und Aufsichtsrat der börsennotierten Gesellschaft erklären
jährlich, dass den vom Bundesministerium der Justiz im amtlichen Teil
des elektronischen Bundesanzeigers bekannt gemachten Empfehlungen
der “Regierungskommission Deutscher Corporate Governance Kodex”
entsprochen wurde und wird oder welche Empfehlungen nicht angewen-
(42) Steinat, op. cit., p. 8.
(43) Si consideri che l’assenza della adesione formale alle regole contenute nel DCGK,
siano esse raccomandazioni, suggerimenti o regole che ripetono il contenuto di norme di
diritto, minerebbe la stessa funzione del codice. Una tale assenza sarebbe stata affrontata
senz’altro a tempo debito da parte del legislatore, eventualmente nella stessa TransPuG.
(44) In tal senso: Streiter, Deutscher Corporate Governance Kodex, 2005, p. 59.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
det wurden oder werden. Die Erklärung ist den Aktionären dauerhaft
zugänglich zu machen » (45).
Da tale disposizione discende che il Vorstand e l’Aufsichtsrat delle società quotate devono comunicare annualmente se si sono attenuti o, per il
futuro, intendono attenersi alle raccomandazioni contenute nel DCGK
ovvero quali raccomandazioni non sono state o non saranno applicate –
c.d. Entsprechenserklärung, i.e. dichiarazione di corrispondenza –.
La norma in questione si rivolge espressamente agli organi amministrativo e di controllo (spesso indicati infra con il termine dichiaranti) e
non già alle società quotate. Sono, infatti, tali organi i destinatari dell’obbligo (46) di comunicazione sancito dal § 161 e solo essi possono
adempiervi, ciascuno limitatamente alle raccomandazioni di cui è destinatario (47).
Da questo punto di vista la Entsprechenserklärung può essere equiparata agli obblighi dichiarativi che sia per il Vorstand che per l’Aufsichtsrat
discendono da diverse altre norme contenute sia nel codice di commercio
che nella legge azionaria (48).
Quanto al processo deliberativo che porta alla Entsprechenserklärung si
possono distinguere due diverse fasi: nella prima ciascun organo delibera
(45) « Il Consiglio di gestione e il Consiglio di sorveglianza delle società quotate dichiarano annualmente se le raccomandazioni della Commissione governativa per il Codice tedesco di corporate governance, pubblicate sulla Gazzetta Federale elettronica, sono state e
saranno osservate ovvero quali raccomandazioni non sono state o non saranno recepite. La
dichiarazione deve essere resa accessibile per gli azionisti in maniera duratura ».
(46) Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und Entsprechens-Erklärung (§ 161
AktG-E), in Die Aktiengesellschaft, 2002, p. 251, il quale osserva che « zur Abgabe der Entsprechens-Erklärung verpflichtet sind “Vorstand und Aufsichtsrat der börsennotierten Gesellschaft”. Bei der Erklärungspflicht handelt es sich also um eine Pflicht der Organe einer
börsennotierten Gesellschaft (. . .) und nicht um eine Pflicht der Gesellschaft, die bloß durch die Verwaltungsorgane erfüllt wird ».
(47) Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder, op. cit., p. 302, osservano che « Das Gesetz
sagt in § 161 AktG “Vorstand und Aufsichtsrat erklären . . .”, es sagt nichts über “erklären gemeinsam”. Es handelt sich also um den gar nicht so seltenen Fall eines Zusammenwirkens
der beiden Organe, die dabei autonom sind und autonom handeln und entscheiden ».
(48) Diverse sono le norme che, sia nella legge azionaria che nel codice di commercio,
contengono tali obblighi informativi. A titolo esemplificativo si vedano, per il Vorstand, i §§
264 e 289 del codice di commercio in materia di bilancio, nonché il 312 della legge azionaria che contiene l’obbligo di una dichiarazione di dipendenza da farsi nelle ipotesi in cui tale dipendenza non derivi da un Unternehmensvertrag, mentre per l’Aufsichtsrat il § 171 della
legge azionaria che prevede una dichiarazione scritta da indirizzarsi all’Hauptversammlung
contenente le conclusioni cui l’organo di controllo è pervenuto a seguito dell’esame del bilancio.
SAGGI
877
sulle raccomandazioni di cui è destinatario; successivamente, tali dichiarazioni parziali confluiscono in una dichiarazione unitaria finalizzata a
portare a conoscenza dei terzi lo stato di aderenza alle regole di corporate
governance del DCGK da parte della società. È stato osservato che in virtù
di tale processo di formazione della Entsprechenserklärung, sussiste per i
dichiaranti un Einigungszwang (49), vale a dire una costrizione alla coerenza per quanto concerne il contenuto della dichiarazione, per cui le due dichiarazioni parziali non possono essere tra loro contrastanti o contraddittorie.
Ai sensi del § 161, la Entsprechenserklärung ha ad oggetto esclusivamente le Soll-Vorschriften contenute nel DCGK, e non deve essere estesa
né alle Sollte-Vorschriften, né alle Muss-Vorschriften, le prime consistendo
in meri suggerimenti, le seconde non potendo essere oggetto di deviazione alcuna. A tale dichiarazione gli azionisti devono poter accedere senza
nessuna limitazione temporale.
Si tratta, a ben vedere, di una regola diversa rispetto a quella del
«comply or explain » propria dei codici di autodisciplina anglo-americani,
regola inizialmente proposta dalla Baums-Kommission e che pure viene richiamata dalla dottrina dominante in sede di interpretazione del § 161 come modello al quale si è ispirato il legislatore tedesco (50). Nella Entsprechenserklärung, Vorstand e Aufsichtsrat si limitano a dichiarare quale sia il
grado di aderenza del sistema di corporate governance adottato dalla società cui appartengono alle raccomandazioni contenute nel DCGK, senza
dover fornire nessuna spiegazione sul contenuto di tale dichiarazione (51).
Al riguardo, la dottrina si è chiesta se la disclosure, che è senz’altro sufficiente qualora gli organi societari dichiarino che hanno adottato o inten-
(49) In questi termini Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und EntsprechensErklärung (§ 161 AktG-E), cit., p. 253.
(50) Lutter, Die Erklärung zum Corporate Governance Kodex gemäß § 161 AktG. Pflichtverstöße und Binnenhaftung von Vorstands- und Aufsichtsratsmitgliedern, in Zeitschrift für das
gesamte Handelsrecht und Wirtschaftsrecht, 2002, p. 525 ss. sostiene che « [d]urch dieses Zusammenspiel von Kodex und gesetzlicher Erklärungspflicht wurde ein Mechanismus geschaffen, der schlagwortartig “Comply or Explain”-Regelung bezeichnet wird, und sich m
Vorbild angelsächsischer Rechtspraxis orientiert ». L’A., professore all’Universität Bonn, è
uno dei maggiori esponenti della Cromme-Kommission.
(51) Lutter, op. cit., p. 524, osserva che « die schlagwortartige Bezeichnung der in § 161
AktG enthaltenen Erklärungspflicht als “Comply-or-Explain-Regelung” ist mangels Begründungspflicht daher begrifflich nicht ganz zutreffend. Entsprechend dem Regelungsgehalt des § 161 AktG handelt es sich inhaltlich vielmehr um eine reine Offenlegungspflicht,
welche Kodex-Empfehlungen die Gesellschaft nicht gefolgt ist und nicht zu folgen denkt ».
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
dano adottare tutte le raccomandazioni contenute nel DCGK – dichiarazione generalmente definita come Positive Entsprechenserklärung, i.e. dichiarazione di corrispondenza positiva (52) –, debba essere accompagnata
da una dichiarazione aggiuntiva che fornisca le motivazioni che hanno
portato a deviare da tali raccomandazioni nell’ipotesi in cui la Entsprechenserklärung abbia totalmente o parzialmente contenuto negativo – nel
cui caso si parla di Negative Entsprechenserklärung o anche di Abweichungserklärung, i.e. dichiarazione di corrispondenza negativa ovvero dichiarazione di deviazione (53) –, vale a dire non sono state o non saranno adottate tutte o talune delle raccomandazioni contenute nel DCGK.
Movendo dal dato letterale del § 161 ed in considerazione del fatto che
non è stato predisposto alcun meccanismo di controllo (54) di eventuali dichiarazioni che motivano il contenuto della Entsprechenserklärung, si è
giunti alla conclusione che un siffatto obbligo di motivazione non sussiste. Non si può tuttavia escludere che, per ragioni di opportunità, si senta
la necessità di motivare la scelta di non seguire tutte o determinate raccomandazioni del DCGK (55).
(52) La formula da adottare per la Positive Entsprechenserklärung è estremamente semplice, e, secondo il Modello allegato al progetto di legge governativo della TransPuG dell’11
aprile 2002, può essere limitata alle seguenti parole: « Den Verhaltensempfehlungen der
Regierungskommission Deutscher Corporate Governance Kodex zur Unternehmensleitung und –Überwachung wurde im Berichtsjahr entsprochen und soll auch in Zukunft entsprochen werden ».
(53) Tale termine significa letteralmente « dichiarazione di difformità o di deviazione ».
Parte della dottrina ritiene che la deviazione possa essere intesa non soltanto in termini peggiorativi, ciò che darebbe luogo a una Negative Entsprechenserklärung, ma anche in
termini migliorativi rispetto alle raccomandazioni contenute nel DCGK. In altri termini, la
società potrebbe decidere di adottare delle regole di best practice che nel DCGK assumono
la veste di meri suggerimenti ovvero non sono ancora previste ma lo potranno essere in futuro. Nello stesso DCGK è prevista una valutazione annuale di rispondenza del DCGK
agli standard internazionali, realizzata dalla Cromme-Kommission, cui fa seguito l’eventuale
adeguamento del DCGK. Di qui la diversa terminologia adottata da tale orientamento che
distingue tra Positive Abweichenserklärung e Negative Abweichenserklärung. In questi temini
si sono pronunciati Ihrigg-Wagner, Die Reform geht weiter: Das Transparenz- und Publizitätsgesetz kommt, in Betriebs-Berater, 2002, p. 790.
(54) In tal senso Lutter, op. cit., p. 531.
(55) Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und Entsprechens-Erklärung (§ 161
AktG-E), cit., ritiene che « im Abweichung von der Kurzformel “Comply or Explain” (. . .)
besteht nur eine Darstellungspflicht bezüglich der Abweichungen, nicht auch eine Begründungspflicht. Es kann indes angenommen werden, dass die Gesellschaft und die Verwaltungsorgane die Abweichungen von den Kodex-Verhaltensempfehlungen begründen oder
auf – diese Empfehlungen substituierende – Schutzmassnahmen hinweisen, um somit dem
SAGGI
879
Questa divergenza rispetto al modello di riferimento è stata qualificata da una parte della dottrina come «Comply or Disclose-Regelung » (56).
Da parte nostra, pur ritenendo questa ricostruzione coerente ed in
grado di descrivere al meglio il sistema derivante dalla interrelazione tra §
161 e DCGK, si manifesta sorpresa per il fatto che l’autorevole dottrina citata non abbia fatto alcun riferimento alla raccomandazione di cui al n.
3.10 del DCGK che interpretata letteralmente potrebbe portare a risultati
contrapposti.
Tale raccomandazione richiede che i dichiaranti riferiscano annualmente sulle regole di corporate governance adottate dalla loro società e,
nella relativa relazione, indichino i motivi di eventuali deviazioni dalle
raccomandazioni del DCGK (57). Sembrerebbe di essere in presenza di
una regola avente un contenuto corrispondente a quello del § 161, con in
più la precisazione che le deviazioni dal DCGK devono essere motivate.
Si potrebbe sostenere che tale raccomandazione non è vincolante, ma
ciò è vero solo per la seconda parte, avendo assunto l’obbligo di dichiarazione, per il fatto di essere confluito nel testo del § 161, carattere dispositivo.
Orbene, volendo trattare la seconda parte della raccomandazione in
esame alla stregua di ogni altra raccomandazione contenuta nel DCGK (58),
se non la si vuole adottare, la si deve escludere espressamente nella Entsprechenserklärung annuale, poiché in mancanza di una tale esclusione, ad essa
va uniformata la condotta interessata. Ciò equivale a dire che in difetto di
una esclusione della raccomandazione in esame bisogna motivare le ragioni per cui altre raccomandazioni sono state, in ipotesi, disattese.
Informationsinteresse der Aktionäre, weiterer Stakeholder sowie der Anlegeröffentlichkeit
zu entsprechen ».
Dello stesso avviso Lutter, op. cit., p. 530, il quale osserva che « in der Tat wird wegen
der Erwartungen des Kapitalmarktes damit zu rechnen sein, dass Unternehmen bei Nichtbefolgung bestimmter Kodexempfehlungen zu den für notwendig erachteten Abweichungen auch inhaltlich Stellung nehmen werden ».
(56) Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und Entsprechens-Erklärung (§ 161
AktG-E), cit., p. 252.
(57) La raccomandazione n. 3.10 del DCGK dice infatti che « Vorstand und Aufsichtsrat
sollen jährlich im Geschäftsbericht über die Corporate Governance des Unternehmens berichten. Hierzu gehört auch die Erläuterung eventueller Abweichungen von den Empfehlungen dieses Kodex».
(58) Come in precedenza osservato il DCGK stabilisce un criterio letterale per distinguere le raccomandazioni dalle altre regole. Tal criterio, consistente nell’uso del verbo soll,
permette di qualificare la regola in esame come una raccomandazione a tutti gli effetti, con
tutte le conseguenze sul piano sostanziale che da tale qualificazione derivano, vale a dire:
comply or disclose.
880
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
L’interpretazione della raccomandazione n. 3.10 che qui si propone
corrisponde a quella adottata dalla dottrina per ogni altra raccomandazione contenuta nel DCGK; da essa si ricava che in assenza di una Negative
Entsprechenserklärung i dichiaranti possono essere chiamati a rispondere,
nei termini di cui immediatamente si dirà, dei danni che con tale condotta hanno cagionato.
La raccomandazione n. 3.10 seconda frase ha un contenuto peculiare,
ma tale peculiarità non è stata riconosciuta dalla dottrina, né tanto meno
dalla prassi. Nelle Entsprechenserklärungen (59) consultate si è notato infatti che tra le raccomandazioni da cui espressamente si deviava non veniva
mai indicata la n. 3.10, ciò che, secondo la nostra personale opinione, sarebbe stato necessario se si voleva escludere l’obbligo di motivazione che
tale raccomandazione prescrive relativamente alle altre raccomandazioni
che si decide di non seguire. Richiedere un’esclusione espressa della raccomandazione n. 3.10, di fatto, non avrebbe avuto ripercussioni sul piano
pratico, ma sarebbe stato maggiormente rispondente al testo di tale raccomandazione, e in perfetta coerenza con il § 161.
6. – Il § 161 della legge azionaria, nel prevedere l’obbligo di dichiarazione circa l’adozione delle raccomandazioni del DCGK, prescrive che la
Entsprechenserklärung deve essere resa accessibile agli azionisti in maniera duratura. L’obbligo di dichiarazione in esame risulta adempiuto mediante l’elaborazione di una « Relazione sulla Corporate Governance » che
viene portata a conoscenza degli azionisti, degli investitori e di quanti vi
abbiano interesse tramite il sito internet della società.
L’utilizzo di internet quale strumento idoneo a garantire la corretta
informazione degli azionisti e degli investitori è oggetto di espressa previsione da parte di due raccomandazioni (60) del DCGK, ciò in quanto per
la Cromme-Kommission i nuovi strumenti tecnologici ed in particolare internet sono un elemento centrale di trasparenza della gestione societaria e
(59) Le Entsprechenserklärungen delle società quotate sono linkate nel sito internet della Regierungskommission Deutscher Corporate Governance Kodex il cui indirizzo é www.corporate-governance-code.de.
(60) Si tratta delle raccomandazioni 6.4 e 6.8 le quali rispettivamente prevedono che:
« la società dovrà utilizzare appropriati mezzi di comunicazione, come internet, per informare gli azionisti e gli investitori in modo tempestivo e paritetico » e che « le informazioni
sull’impresa che la società rende note dovranno essere disponibili sul sito internet della società. Il sito internet della società dovrà essere strutturato secondo principi di chiarezza. Le
pubblicazioni dovrebbero essere anche in lingua inglese ».
SAGGI
881
come tali si prestano a garantire il raggiungimento di standards elevati di
corporate governance (61).
Peraltro, se il legislatore ha pensato bene di non imporre l’adozione
del DCGK alle società quotate, limitandosi a prevedere solo l’obbligo
pubblicitario di cui al § 161, tale obbligo risulta rafforzato dalla previsione
di tre disposizioni del codice di commercio – i §§ 285 n. 16, 314 comma 1
n. 8, 325 comma 1 – che predispongono altri mezzi per portare a conoscenza degli azionisti e dei terzi il grado di accoglienza delle raccomandazioni del DCGK nella struttura organizzativa delle società quotate.
Così, il § 285 n. 16 HGB richiede che nel Bilanzanhang – i.e. la nota integrativa – si dichiari di aver provveduto alla Entsprechenserklärung, comunicando agli azionisti la possibilità e le modalità di conoscenza del relativo contenuto. Dal momento che la nota integrativa è sottoposta al controllo degli Abschlussprüfer (62) – i.e. i revisori contabili –, essi dovranno
verificarne la completezza anche in relazione all’indicazione di avvenuta
Entsprechenserklärung. D’altra parte i revisori devono limitarsi solo a verificare la presenza di tale indicazione, senza dover addentrarsi in una verifica nel merito della dichiarazione (63).
Ancora, il § 314 comma 1, n. 8 richiede che nel Konzernanhang al bilancio consolidato del gruppo sia dichiarata l’avvenuta Entsprechenserklärung per ciascuna società quotata facente parte del gruppo. Tale indicazione deve essere fatta anche nell’ipotesi in cui la capogruppo non sia una società quotata, se nel bilancio consolidato del gruppo rientra una società
quotata. Anche il Konzernanhang è sottoposto alla verifica dei revisori
contabili.
Infine, il § 325 c. 1, nel prevedere che sia depositata una copia del bilancio annuale presso l’ufficio del registro delle imprese, richiede che con
essa sia depositata anche una copia della Entsprechenserklärung.
7. – Il complesso di norme appena esaminate ha spinto la dottrina a
confrontarsi con la natura dell’obbligo informativo cui sono tenuti il Vor-
(61) Sul punto si vedano: Noack, op. cit., p. 17 e Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder,
op. cit., p. 275 ss.
(62) Sull’attività di controllo che discende dai §§ 285 n. 16, 314, comma 1°, n. 8, 325,
comma 1°, relativamente al DCGK si veda: Gelhausen-Hönsch, Deutscher Corporate Governance Kodex und Abschlussprüfung, in Die Aktiengesellschaft, 2002, p. 529 ss.
(63) Si vedano ex multis: Strieder, Deutscher Corporate Governance Kodex, cit.,160;
OSER, Reform des Aktienrechts, der Rechnungslegung und Prüfung – KonTraG, Corporate Governance, TransPuG, 2003, p. 599 ss.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
stand e l’Aufsichtsrat e con le eventuali conseguenze che da una sua violazione discendono sul piano giuridico. Tale questione ne presuppone
un’altra, altrettanto discussa in dottrina, relativa alla natura giuridica del
DCGK (64).
La dottrina dominante ritiene che le regole contenute nel DCGK, per
quanto non possano assurgere al rango di norme di legge (65), difettando
per esse il normale iter parlamentare, facciano ingresso nell’ordinamento
positivo attraverso due distinte strade (66): i) in virtù del richiamo espresso
da parte del § 161 della legge azionaria e delle norme che ad esso rinviano,
quale conseguenza dell’Entsprechenserklärungspflicht – l’obbligo informativo di cui si è detto – in esso contenuto; ii) quale criterio interpretativo
utilizzabile in sede giudiziale per riempire di contenuto le c.d. Blankettnormen che prescrivono in termini generali gli obblighi di condotta per i
componenti degli organi amministrativo e di controllo (§§ 93 e 116 legge
azionaria) (67).
Per quanto non possa essere equiparato alla legge (68), il DCGK non
può neppure essere considerato alla stregua dei codici di autodisciplina
adottati in altri paesi ovvero degli altri codici in precedenza elaborati in
Germania. Tali codici si basano sul principio dell’adesione volontaria da
parte delle società quotate che dichiarano di voler recepire le regole di
condotta in essi contenute – c.d. “Opt out”-Lösung –. Il DCGK, non richiedendo un atto di volontaria adesione da parte dei suoi destinatari è
stato ricondotto dalla dottrina tedesca allo schema della c.d. “Opt out”-Lö(64) Si veda, per una ricostruzione organica delle tesi sostenute in dottrina: Borges, op.
cit., p. 526 ss.
(65) Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex: Antworten auf Zweifehlfragen der
Praxis, in Die Aktiengesellschaft, 2003, p. 470, secondo il quale: « der Kodex selbst ist kein
Gesetz, da er nicht in einem ordnungsgemäßen parlamentarischen Verfahren zustanden
gekommen ist. Dies gilt selbstverständlich auch für seinen das geltenden Recht (z.T. zum
Zwecke leichterer Verständlichkeit verkürzend und damit unrichtig) beschreibenden Teil ».
(66) In tal senso: Lutter, op. cit., p. 527; Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex
und Entsprechens-Erklärung (§ 161 AktG-E), cit., p. 250.
(67) Schiessl, Deutsche Corporate Governance post Enron, in Die Aktiengesellschaft,
2002, p. 595, il quale sostiene che « es ist denkbar, dass die Gerichte bei der Interpretation
der §§ 93, 116 AktG mehr und mehr auf den Kodex zurückgreifen. Damit zeigt sich die problemantik der Verswischung von gesetzlicher und freiwilliger Normensetzung ».
(68) Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex: Antworten auf Zweifehlfragen der
Praxis, cit., p. 471, per il quale: « Der DCGK ist weder Gesetz noch Vertrag, sondern ein
außenrechtlich-normatives Dokument eines privatrechtlichen Gremiums, und hieran ändert auch die vom Bundesministerium der Justiz vor Veröffentlichung im elektronischen
Bundesanzeiger vorgenommene “Rechtsmäßigkeitskontrolle” nichts ».
SAGGI
883
sung (69), in virtù del quale le società devono dichiarare se ed in che misura intendono deviare dallo schema comportamentale predisposto dal
DCGK. La scelta nella TransPuG della “Opt out”-Lösung è stata intesa
come dimostrazione della convinzione del legislatore circa la opportunità di adeguarsi alle raccomandazioni del DCGK, peraltro senza rendere tali regole vincolanti per le società o conferire loro un contenuto dispositivo (70).
In dottrina vi è chi ha sostenuto che le raccomandazioni contenute nel
DCGK siano l’espressione di una soft law (71) che abbia voluto predisporre il legislatore, confidando nella attenzione degli operatori nel senso di
adeguare lo Statuto e i regolamenti interni degli organi sociali a tali regole di condotta. Ma anche tale ricostruzione è stata sottoposta a critiche (72).
Un criterio interpretativo potrebbe allora derivare dall’analisi delle diverse tipologie di regole contenute nel DCGK. Esse sono classificabili in
ragione della loro incisività nel sistema di corporate governance adottato
dalle società quotate, e possono essere distinte, come visto in precedenza,
in raccomandazioni, suggerimenti e altre regole che ripetono, spesso
esplicitandolo, il contenuto di disposizioni di diritto vigente. La dottrina è
concorde nel ritenere che dalle norme aventi natura imperativa e dalle
Soll-Vorschriften discende un generale dovere di diligenza per Vorstand e
(69) Ulmer, Deutscher Corporate Governance Kodex – ein neues Regulierungsinstrument
für Börsennotierte Aktiengesellschaft, cit., p. 159, per il quale: « eine Parallele zu den bisher
bekannt gewordenen Codices, darunter insbesondere den Insiderhandels-Richtlinie und
dem Übernahmekodex, scheidet aus. Denn in jenen Fällen handelte es sich jeweils um formulierte Regelwerke, die erst durch zivilrechtliche Anerkennung (Unterwerfung) seitens
der börsennotierten Unternehmen für diese Wirksamkeit erlangten. Man konnte also von
einer Art (. . .) “Opt in”-Lösung sprechen. An eine solche zivilrechtliche Anerkennung ist
beim DCG-Kodex jedoch nicht gedacht. Vielmehr soll es den Normenadressaten del § 161
AktG umgekehrt freistehen, sich als “Opt out”-Lösung für die Nichtbefolgung einzelner
oder aller Empfehlungen zu entscheiden ».
(70) Ulmer, Deutscher Corporate Governance Kodex – ein neues Regulierungsinstrument
für Börsennotierte Aktiengesellschaft, cit., p. 161.
(71) L’idea per cui le regole del DCGK possono essere viste come esempi di soft law è
stata inizialmente sostenuta da Lutter, op. cit., p. 526.
Tale idea è stata di recente ripresa da Steinat, op. cit., p. 10, la quale ha osservato che
« der Kodex selbst ist daher kein staatliches Recht, sondern wie in der Praeambel formuliert: Eine echte “Selbstorganisation” der Wirtschaft durch nicht-gesetzliche Verhaltenkodizes. Diese Form wird vielfach auch als “soft law” bezeichnet. Es gibt also keinen rechtlichen
Zwang, den Verhaltensempfehlungen zu entsprechen ».
(72) Ulmer, Deutscher Corporate Governance Kodex – ein neues Regulierungsinstrument
für Börsennotierte Aktiengesellschaft, cit., p. 167.
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Aufsichtsrat che trova fondamento legale nei §§ 93 e 116 della legge azionaria, per cui dalla violazione di questo dovere deriverebbe la responsabilità dei membri di tali organi per gli eventuali danni cagionati.
Sembra questa una ricostruzione coerente, che tiene conto della previsione del § 161, ma anche del fatto che un controllo esterno rimesso al
mercato circa la rispondenza tra regole di corporate governance adottate in
concreto da ciascuna società e raccomandazioni del DCGK, in un sistema
come quello tedesco che risulta ancora caratterizzato dalla centralità del
sistema bancario (73), non appare configurabile. Ne consegue che la violazione di tale dovere potrà essere rilevato in sede giudiziale, al momento di
un accertamento delle responsabilità dei componenti degli organi amministrativo o di controllo.
Occorre tuttavia precisare che la responsabilità dei membri del Vorstand e dell’Aufsichtsrat in relazione alle Soll-Vorschriften, secondo una ricostruzione ampiamente accolta in dottrina (74), si manifesterebbe solo
nelle seguenti ipotesi: i) non si provvede alla Entsprechenserklärung (75) –
c.d. fehlende Entsprechenserklärung –, ovvero non si provvede nella forma
richiesta (76); ii) la Entsprechenserklärung non è veritiera; iii) non si provvede a sostituire con una nuova dichiarazione la parte della Entsprechenserklärung rivolta al futuro in ipotesi di una deviazione da essa nel corso
dell’anno – c.d. zusätzliche Erklärung –.
(73) Il sistema tedesco può essere ricondotto nel novero degli insider systems o banking
oriented systems, caratterizzati da un ruolo centrale delle banche e da una minore contendibilità del controllo delle società legata alla alta concentrazione delle azioni nelle mani di un
numero limitato di azionisti. Ciò comporta necessariamente una riduzione della funzione
disciplinare del mercato, più che compensata dall’attribuzione della funzione di controllo
sulla gestione – a differenza del sistema di amministrazione e controllo c.d. monistico proprio degli ordinamenti di common law – ad un ulteriore organo societario.
Al riguardo è stato osservato che « [l]e origini di questo modello, nonché il suo successivo sviluppo, si sono ispirati, nella loro filosofia di fondo a idee dirigiste, che consideravano
la relazione tra Stato, industria e sistema bancario il punto centrale per lo sviluppo economico e sociale »: così Fortuna, Corporate governance. Soggetti, modelli e sistemi, 2001, p. 92.
(74) Si ricordano ex multis: Lutter, op. cit., p. 540; Ettinger-Gruetzediek, Haftungsrisiken im Zusammenhang mit der Abgabe der Corporate Governance Entsprechenserklärung
gemäß § 161 AktG, in Die Aktiengesellschaft, 2003, p. 353; Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex: Antworten auf Zweifelfragen der Praxis, cit., p. 471.
(75) Ettinger-Gruetzediek, op. cit., p. 353, per i quali « geben Vorstand und Aufsichtsrat überhaupt keine Entsprechenserklärung ab, verletzen sie ihre Pflichten schon dadurch,
dass sie gegen das Gesetz, nämlich gegen § 161 AktG verstoßen ».
(76) In tal senso Lutter, op. cit., p. 543.
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8. – In riferimento all’ipotesi c.d. di fehlende Entsprechenserklärung in
dottrina ci si è interrogati sull’esatta portata del concetto. Oltre al caso, di
immediata evidenza, in cui non si faccia nessuna dichiarazione (77), vi è
chi ritiene che si possa configurare tale fattispecie anche nel caso in cui si
provveda all’obbligo derivante dal § 161 in maniera dubbia ed equivoca,
vale a dire, in maniera tale da non permettere ai destinatari della dichiarazione di capire se determinate raccomandazioni siano state adottate o meno (78). Da ciò deriva che fuori dai casi antitetici di Positive ovvero Negative Entsprechenserklärung – in cui con una semplice dichiarazione di aderenza o di deviazione dalle regole del DCGK si fa riferimento a tutte le
raccomandazioni in esso contenute – nella dichiarazione deve essere
esplicitato, in maniera non equivoca e senza lasciare adito ad alcun dubbio, in che misura si seguano o si intendano seguire le raccomandazioni
del DCGK, eventualmente pronunciandosi su ciascuna di esse.
Bisogna, tuttavia, segnalare che quella qui considerata è un’ipotesi solo teorica, in quanto sin dalla prima versione del DCGK non è mai accaduto che gli organi amministrativo e di controllo di tutte le società quotate non provvedessero alla Entsprechenserklärung ovvero che in essa fossero rifiutate en bloc tutte le raccomanzioni del DCGK. Allo stesso modo,
le Entsprechenserklärungen visionate sono state per lo più rispondenti al
modello di dichiarazione indicato dal legislatore nella TransPuG (79), senza poter dare adito a dubbi od equivoci.
9. – In riferimento all’ipotesi di Entsprechenserklärung non veritiera la
questione richiede innanzitutto che nella Entsprechenserklärung si distingua la parte rivolta al passato – c.d. vergangenheitsbezogene Entsprechenserklärung – e che quindi fotografa lo stato di adozione delle regole contenute nel DCGK al momento della dichiarazione, rispetto alla parte rivolta al futuro – c.d. zukunftsbezogene Entsprechenserklärung –. Si tratta di
una distinzione che trova fondamento nella stessa lettera del § 161 che richiede, come si è visto, l’indicazione delle raccomandazioni adottate all’atto della dichiarazione nonché l’indicazione delle raccomandazioni che
si ha intenzione di adottare nel corso dell’anno.
Circa la vergangenheitsbezogene Entsprechenserklärung, la dottrina (80) si
(77) Tale ipotesi risulta, allo stato attuale, meramente teorica, avendo provveduto tutte
le società quotate alla Entsprechenserklärung annuale e, ciò che è più rilevante, avendo accolto la quasi totalità delle raccomandazioni del DCGK.
(78) Ettinger-Gruetzediek, op. cit., p. 355.
(79) Cfr. nota 52.
(80) Al riguardo si vedano: Gelhausen-Hönsch, Folgen der Änderung des DCGK fuer
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è pronunciata in maniera uniforme sulla necessità che essa sia veritiera,
una mancanza su tale punto comportando la responsabilità dei dichiaranti, sia nei riguardi della società che nei riguardi degli azionisti, i quali saranno tenuti a risarcire gli eventuali danni derivanti dalla condotta da essi
tenuta (81). Tale interpretazione poggia sul senso e sullo scopo che con la
Entsprechenserklärung si vuole perseguire, vale a dire una maggiore trasparenza e una conseguente maggiore fiducia degli investitori negli organi
amministrativi delle società quotate. Non si può pensare di ispirare fiducia
facendo ricorso a dichiarazioni non veritiere, tanto più che senza alcun
onere di motivazione l’obbligo di dichiarazione risulta adempiuto anche
indicando semplicemente quali raccomandazioni non si è inteso adottare.
Come la dichiarazione orientata al passato, anche la zukunftsbezogene
Entsprechenserklärung deve essere veritiera (82). Secondo un’autorevole
dottrina ciò non vuol dire che essa vincoli per il futuro, o almeno fino alla dichiarazione successiva, ad adeguarsi alle raccomandazioni richiamate (83), ma sta a significare che la dichiarazione deve assumere le vesti di
die Entsprechenserklaerung, in Die Aktiengesellschaft, 2003, p. 370; Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex: Antworten auf Zweifelfragen der Praxis, cit., p. 473; Ulmer, Deutscher
Corporate Governance Kodex – ein neues Regulierungsinstrument für Börsennotierte Aktiengesellschaft, cit., p. 165; Lutter, op. cit., p. 531.
(81) Lutter, op. cit., p. 532, sostiene che « wird von Vorstand und Aufsichtsrat vergangenheitsbezogen eine unzutreffende Entsprechenserklärung abgegeben, so liegt hierein ein
Verstoß gegen § 161 AktG. Das aber ist zugleich pflichtwidrig im Sinne von § 93 AktG. Die
Entstehung eines Ersatzanspruchs der Gesellschaft gemäß § 93 Abs. 2 Satz 1 AktG hängt
dann davon ab, ob durch die Pflichtverletzung ein adäquat kausaler Schaden entstanden ist
und ob das in Anspruch genommene Vorstands- oder Aufsichtsratsmitglied ein Verschulden daran trifft (Kenntnis oder Kennenmüssen des Kodex- Verstoßes) ».
(82) Sul fatto che la Entsprechenserklärung, sia essa rivolta al passato o al futuro, debba
essere veritiera è stato osservato che « schließlich folgt aus § 161 AktG-E eine Pflicht der
Geschäftsleitungsorgane zur gewissenhaften und getreuen Rechenschaft, d.h. Vorstand
und Aufsichtsrat müssen bei Abgabe der Entesprechens-Erklärung die Gebote der
Wahrheit und Vollständigkeit, der Klarheit und Übersichtlichkeit einhalten ».
Così Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und Entsprechens-Erklärung (§ 161
AktG-E), in Die Aktiengesellschaft, 2002, p. 254.
(83) Una interpretazione in tal senso non troverebbe alcun supporto né nel § 161, né nel
DCGK. Il § 161 si limita, come si è visto a sancire un obbligo dichiarativo, mentre il DCGK
contiene delle raccomandazioni, che nonostante l’invito implicito a tenere una condotta ad
esse conforme, restano non vincolanti.
Su tale aspetto della dichiarazione rivolta la futuro è stato osservato che « die Ausweitung der Pflichten des § 161 AktG auf ein dauerndes erklärungskonformen Verhalten ist
(. . .) auch durch den Sinn und Zweck der Vorschrift nicht geboten ». Così Lutter, op. cit.,
p. 533.
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una Absichtserklärung (84) – i.e. dichiarazione di intenzione –, deve cioè
indicare l’intenzione degli organi sociali di attenersi al suo contenuto.
Ritengo si possa aggiungere, in coerenza con la dottrina citata, che ci si
debba attenere all’Absichtserklärung quantomeno riguardo al suo contenuto positivo, giacché eventuali deviazioni dal contenuto negativo comportano l’adozione di ulteriori raccomandazioni del DCGK, ciò che non
potrà essere oggetto di lagnanza viste le maggiori garanzie che in tal modo si forniscono ai destinatari della dichiarazione.
I dichiaranti saranno responsabili per non essersi attenuti alla Absichtserklärung solo se consapevolmente hanno reso delle false dichiarazioni,
vale a dire solo se essi intenzionalmente hanno reso quelle dichiarazioni
sapendo di non volerne rispettare il contenuto sin dal momento in cui le
hanno rese.
Una tale costruzione pone il problema dell’onere della prova, che secondo la dottrina (85) va risolto in base al § 93 comma 2 della legge azionaria. Alla stregua del principio contenuto in tale norma, si ha l’inversione dell’onere della prova nel caso in cui sia controversa la violazione dei
doveri di diligenza degli amministratori. Ciò comporta, nell’ipotesi qui
considerata, che i dichiaranti convenuti in giudizio dovranno provare, per
andare esenti da ogni responsabilità, che all’atto della dichiarazione contenente le verba de futuro mancava l’intenzione di non attenersi ad esse.
La prova del danno subito dovrà essere fornita, secondo i principi generali, dalla parte che agisce in giudizio nei confronti dei dichiaranti.
10. – Una volta ammessa la libertà per i dichiaranti di deviare nel corso dell’anno dalla Absichtserklärung – resta ferma in ogni caso la loro responsabilità nell’ipotesi in precedenza considerata – bisogna chiedersi se
essi siano tenuti a fornire una dichiarazione infra-annuale con cui si rende
noto tale mutamento di indirizzo – c.d. zusätzliche Erklärung –. La questione ha rilevanza pratica soprattutto nel caso in cui durante l’anno i dichiaranti decidano di non adeguarsi più a determinate raccomandazioni
del DCGK in precedenza accolte nella Absichtserklärung rivolta al futuro;
ciò in quanto, se si ritiene che essi siano tenuti a una dichiarazione integrativa, una sua omissione avrebbe una rilevanza di natura civilistica comportando il risarcimento del danno da essa derivante.
Una dottrina autorevole ritiene che la zusätzliche Erklärung sia pienamente rispondente allo spirito e allo scopo del § 161, nonostante un obbli(84) Lutter, op. cit., p. 534.
(85) In tal senso si è pronunciato Lutter, op. cit., p. 532.
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go al riguardo possa non apparire dal testo della norma citata (86). Con la
zusätzliche Erklärung si permette cioè agli organi societari che nel corso
dell’anno hanno rilevato l’impossibilità o la non opportunità di un adeguamento alla Absichtserklärung di adempiere agli obblighi pubblicitari
prescritti dal § 161, evitando che le deviazioni dalle dichiarazioni precedentemente rese restino nell’oscurità fino alla dichiarazione annuale successiva e che possano condurre ad interpretare ex post l’Absichtserklärung
come una falsa dichiarazione, con le conseguenze viste supra.
Secondo tale orientamento una zusätzliche Erklärung è tanto più necessaria nell’ipotesi in cui la società abbia predisposto un sito internet al
fine di garantire un accesso alla Entsprechenserklärung non sottoposto a limiti temporali, in quanto ciò conferirebbe alla dichiarazione il carattere di
«sich repetierende Dauererklärung » (87). In un caso del genere il mancato
adeguamento della dichiarazione annuale potrebbe essere preso a dimostrazione della volontà di diffondere informazioni false in quando i dichiaranti sin dal momento della Entsprechenserklärung erano perfettamente coscienti di non volersi adeguare ad essa (88).
Tale dottrina ritiene che un indice della ammissibilità della zusätzliche
Erklärung derivi dal § 15 WpHG (89), norma che prescrive l’obbligo per l’e(86) Lutter, op. cit., p. 535, il quale sostiene che « die Gesetzesformulierung laesst die
Auslegung zu, es sei ausreichend, wenn die Entsprechenserklärung einmal im Jahr erfolgt.
Ein derart enges Verständnis der Gesetzlichen Erklärungspflicht lässt sich mit dem Sinn
und Zweck des § 161 jedoch dann nicht vereinbaren, wenn man, wie hier, die unterjährige
Meinungsänderung gegenüber der verlautbarten Absicht für zulässig erachtet ».
Contra Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und Entsprechens-Erklärung (§ 161
AktG-E), cit., p. 254.
(87) In questi termini Seibert, Im Blickpunkt: Der Deutsche Corporate Governance Kodex
ist da, cit., p. 583, il quale sostiene che « erst durch das dauerhafte Einstellen uns Internet
erlangt diese auf den gegenwärtigen Moment bezogene Erklärung “wird” der Charakter einer sich stets repetierenden Dauererklärung ».
(88) Lutter, op. cit., p. 534.
(89) La Wertpapierhandelsgesetz (WpHG) – i.e. legge relativa alla negoziazione in titoli del 26 luglio 1994, che ha recepito due direttive comunitarie – la Direttiva 88/627/CE del 12
dicembre 1988 e la Direttiva 89/592/CE del 13 novembre 1989 – è stata sottoposta di recente a diverse modifiche. Si segnalano le modifiche apportate:
– dalla Gesetz zur weiteren Entwicklung des Finanzmarktes Deutschland (Viertes Finanzmarktförderungsgesetz) – i.e. Legge di ulteriore sviluppo del mercato finanziario tedesco – del
1° luglio 2002, con cui è stato introdotto nel corpus della WpHG il § 15a il quale sancisce l’obbligo da parte della società di comunicare l’acquisto o la cessione di titoli da parte dei membri del Vorstand e dell’Aufsichtsrat della società stessa o della casa madre, oppure da parte di
perrone loro vicine. Da tale obbligo sono escluse le operazioni poste in essere da figure dirigenziali e da persone loro vicine che complessivamente non superino i 5.000,00 euro.
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mittente di comunicare prontamente notizie in grado di incidere sull’andamento dei titoli scambiati su un mercato regolamentato interno.
La dottrina contraria (90), che fa affidamento sul testo del § 161 per
escludere la zusätzliche Erklärung, sconta il fatto che in base a tale interpretazione perde ogni rilevanza la Entsprechenserklärung rivolta al futuro e
le conseguenze che, sempre in base alla lettera del § 161, da essa derivano.
Pur condividendo il primo orientamento, si ritiene che la zusätzliche
Erklärung vada permessa cum grano salis. Un eccesso nella direzione opposta, nel senso di permettere di correggere più volte nell’anno la precedente dichiarazione, potrebbe creare delle aspettative in grado di incidere
positivamente o negativamente sul corso del titolo, con conseguenti speculazioni da parte dei dichiaranti, in quanto essi, decidendo in anticipo la
tempistica della successiva dichiarazione, potrebbero sfruttare gli effetti
che essa produrrà sul mercato.
11. – Il DCGK si caratterizza per il fatto di essere uno strumento che
può essere rapidamente adeguato ai nuovi scenari legislativi e ai nuovi stan-
– dalla Anlegerschutzverbesserungsgesetz (AnSVG) – i.e. legge di miglioramento della
tutela degli investitori – del 7 luglio 2004. La AnSVG, recependo la Direttiva 2003/6/CE del
28 gennaio 2003 in materia di Market Abuse, amplia i concetti relativi agli Insiderpapiere – i
titoli ai quali si applica la disciplina in materia di insider trading sulle cui variazioni di corso
possono speculare i soggetti che occupano una posizione di insider – che adesso comprendono anche i c.d. Warenderivative (titoli derivati collegati a merci); alle Insiderinformationen
– le informazioni che ai sensi del § 15 WpHG sono in grado di incidere sul corso dei titoli –
le quali, in virtù della sostituzione del termine Tatsache con il termine Umstand, possono
avere ad oggetto non solo fatti ma anche delle circostanze consistenti in giudizi o prognosi
sull’andamento dei titoli. Soprattutto, con tale legge si amplia il novero dei soggetti che devono rendere pubbliche le Insiderinformationen di cui siano venuti a conoscenza. Oltre ai
soggetti che compongono gli organi amministrativo e di controllo della società emittente i
titoli, sono tenuti a rendere pubbliche le circostanze in grado di influire sul corso dei titoli
anche soggetti terzi che operano su incarico o per conto dell’emittente, qualora essi abbiano a comunicare delle Insiderinformationen ad altre persone che non siano tenute ad un obbligo di riservatezza giuridicamente sancito.
La AnSVG modifica inoltre il § 15a, introdotto appena 2 anni prima inasprendone la disciplina, prima essendo previsto che erano esclusi dall’obbligo di comunicazione l’acquisto
previsto dal contratto di lavoro come parte integrante della remunerazione, nonché l’acquisto e la cessione che non ecceda 25.000,00 euro in 30 giorni.
(90) Seibt, Deutscher Corporate Governance Kodex und Entsprechens-Erklärung (§ 161
AktG-E), cit., p. 254, per il quale « es ist allein zum Stichtag des Jahresabschlusses und zum
Zeitpunkt der Abgabe dieser Erklärung eine Erklärung abzugeben, die dann dauerhaft den
Aktionären zugänglich zu machen ist. Ein Vertrauenstatbestand ergibt sich nur bezogen auf
die Richtigkeit der Entsprechens-Erklärung zu diesen Stichtagen ».
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dards che vengono elaborati sia in ambito nazionale che internazionale (91).
Non è un caso quindi che dal 26 febbraio 2002, data in cui è stata licenziata la prima versione del DCGK, sono state apportate dalla CrommeKommission diverse modifiche al DCGK da cui sono risultate quattro successive versioni.
La prima delle versione modificate ha visto la luce dopo pochi mesi, il
7 novembre 2002 ed è stata pubblicata sulla Gazzetta federale elettronica
il 26 febbraio 2002. Le innovazioni più rilevanti si sono rese necessarie per
adeguare il DCGK ad un nuovo scenario normativo.
In particolare nella versione originaria era prevista una raccomandazione, la n. 6.6, in base alla quale si invitavano le società quotate a comunicare prontamente l’acquisto o la cessione di titoli o diritti della società
da parte dei membri degli organi amministrativo e di controllo o da parte
di persone loro vicine. Tale raccomandazione non poteva tener conto di
una proposta di legge del 14 novembre 2001, il cui art. 2, comma 3, n. 9,
avrebbe dovuto introdurre per la prima volta nell’ordinamento tedesco
una disciplina del c.d. Directors’ Dealing. Pochi mesi dopo sarebbe stata
emanata la Viertes Finanzmarktförderungsgesetz (92).
Con tale legge è stato inserito nel corpus della WpHG il § 15a, il quale
prevede un obbligo per la società di comunicare gli acquisti o le cessioni
di titoli della società o di una società del gruppo effettuati dai componenti degli organi amministrativo e di controllo ovvero dal coniuge o dal convivente o dal parente di primo grado. Tale obbligo è stato rafforzato dalla
previsione di sanzioni pecuniarie ex § 39 WpHG. L’introduzione nella
WpHG del § 15a ha reso necessaria la sostituzione della raccomandazione
6.6 con una Muss-Vorschrift (93), esplicativa del diritto vigente che pertanto
tale non può più essere disattesa dai destinatari del DCGK.
Una ulteriore versione del DCGK, del 21 maggio 2003, è stata pubblicata nella Gazzetta federale elettronica il 30 giugno 2003. La struttura del
DCGK non ne è stata mutata anche se diverse sono le raccomandazioni
introdotte ex novo.
In particolare non sono state modificate le sezioni 1, 2, 5-7, mentre le
nuove raccomandazioni, riguardando la cooperazione tra organo amministrativo e di controllo ma soprattutto i compensi degli amministratori (94),
sono state inserite nelle sezioni 3 e 4.
(91) Strieder, Deutscher Corporate Governance Kodex, cit., p. 43.
(92) Si veda la nota 89 del presente lavoro.
(93) Ringleb-Kremer-Lutter-v.Werder, op. cit., p. 269 ss.
(94) Si veda nel dettaglio Peltzer, Deutscher Corporate Governance Kodex. Ein Leitfaden, 2004, p. 54 ss.
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In tema di cooperazione al n. 3.10, è stata inserita una frase in base alla quale nella relazione annuale sulla corporate governance gli organi societari potranno esprimere pareri su quanto indicato dal DCGK. In tal
modo si vuole consentire alla Cromme-Kommission di venire a conoscenza dello stato d’animo di chi è chiamato ad adottare il DCGK aldilà dei
meri rilevamenti statistici sul numero di raccomandazioni e suggerimenti
seguite che vengono effettuati annualmente.
Più articolato l’intervento in tema di compensi degli amministratori,
affrontato in diverse raccomandazioni. Si segnala in questa sede l’introduzione della raccomandazione di cui al n. 4.2.2, prima frase, in base alla
quale l’Aufsichtsrat dovrà consultarsi in seduta plenaria sulla struttura del
sistema di retribuzione dei membri del Vorstand, verificandola ad intervalli regolari; la raccomandazione n. 4.2.3, relativa alle componenti fisse e variabili della remunerazione è stata oggetto di un interveto volto ad apportare maggiore precisione terminologica; infine, il suggerimento di cui al n.
4.2.4, in base al quale si invitava i destinatari del codice ad indicare nella
nota integrativa al bilancio la remunerazione degli amministratori, precisandone l’ammontare della parte fissa e di quella variabile, ha assunto la
veste di una raccomandazione, per cui dal 2003 le società che non si sono
adeguate ad essa hanno dovuto renderlo noto nella Entsprechenserklärung
annuale. Si è poi ulteriormente precisato che tali importi devono essere
indicati individualmente per ciascun amministratore.
Peraltro, alcune di tali raccomandazioni risultano modificate nell’ultima versione del DCGK licenziata il 12 giugno 2006 (95).
Nel 2004 non ci sono state nuove versioni del DCGK, tuttavia l’intensa attività legislativa (96) creava le premesse per i successivi interventi cor-
(95) Al riguardo si veda infra.
(96) Vanno qui ricordate la Anlegerschutzverbesserungsgesetz (AnSVG), su cui si veda la
nota 87 del presente lavoro e la Bilanzkontrollgesetz (BilKoG), la legge sul controllo del bilancio del 12 dicembre 2004.
Con la BilKoG il legislatore tenta di fornire una risposta agli scandali finanziari che
hanno interessato negli ultimi anni i mercati internazionali, introducendo un complesso sistema di controlli che riducono la possibilità di manipolare i bilanci societari a danno degli
investitori; in tal modo si vuole favorire la fiducia degli investitori nel mercato e per il suo
tramite attrarre capitali stranieri.
Per raggiungere tali obbiettivi si è ritenuto necessario rafforzare la posizione degli Abschlussprüfer – i.e. i revisori esterni – garantendo loro maggiore indipendenza. Si è poi previsto l’introduzione di due ulteriori livelli di controllo, dei quali il primo prevede la creazione di un organismo di diritto privato – il Deutsche Prüfstelle für Rechnungslegung (DPR)
– che si attiva nell’eventualità di segnalazioni di inesattezze del bilancio – c.d. Bilanzfehler –
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
rettivi e di adeguamento del DCGK da parte della Cromme-Kommission
che l’avrebbero portata a licenziarne una nuova versione del 2 luglio 2005,
pubblicata nella Gazzetta federale elettronica il 20 luglio 2005.
Diverse ed importanti sono le innovazioni rispetto al passato, le più significative delle quali riguardano l’Aufsichtsrat.
In particolare, in materia di composizione e funzionamento dell’organo di controllo, in base al nuovo testo della raccomandazione n. 5.4.2 esso dovrà essere composto da un sufficiente numero di membri indipendenti per meglio adempiere alle funzioni di controllo e di indirizzo della
gestione. Per membro indipendente si intende un soggetto che non intrattenga con la società o il suo organo amministrativo rapporti economici o personali che possano dare vita ad un conflitto di interessi.
Sono stati poi introdotti ex novo i nn. 5.4.3 e 5.4.4. Il n. 5.4.3, relativo
alle elezioni dei componenti dell’organo di controllo, contiene la raccomandazione che esse si svolgano come elezioni individuali (97), ciò che
da parte di azionisti o di creditori. È stata poi prevista la possibilità di procedere a esami a
campione o anche a seguito di richiesta fatta dal Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (BaFin) dei bilanci delle società quotate. Il secondo livello del sistema di controllo introdotto con tale legge vede il diretto intervento del BaFin che attrae a sé il procedimento
di controllo in ipotesi espressamente previsti: 1) la società si sottrae al controllo; 2) le inesattezze emerse dal controllo non vengono corrette dalla società; 3) i risultati del controllo
sono revocati in dubbio dallo stesso BaFin. In sintesi si può dire che l’innovazione fondamentale introdotta con la BilKoG consiste nel fatto di prevedere una c.d. dritte Säule in materia di controllo di bilancio che va ad aggiungersi al controllo esercitato dall’Aufsichtsrat e
dagli Abschlussprüfer.
Tuttavia, l’introduzione di tale sistema non è andata esente da manifestazioni di perplessità. È stato osservato che: « three aspects of the Accounting Control Law appear to be
at odds. First: the “checkpoint for accounting statements” is a control institution in which
the body of publicly certified accountants watches its peers. Rather than establishing
another semi-independent institution, the legislature should focus on providing the accounting professionals with the proper incentives for staying independent. Second, the
control institution has no jurisdiction of any kind about the issue upon which it is deciding.
Consequently, without res judicata of the checkpoint’s decision, from a legal point of view,
there is no benefit to the firm, other than that it receives an additional opinion on an accounting issue. Third, accounting law is made on an international and European level. The
control institution, however, is to be established and financed by parties of the “German
economy”. We wonder whether this circle of actors is appropriate for firms with an international focus ».
Così Noack-Zetzche, Corporate Governance in Germany: The second decade, 2005,
p. 26.
(97) Strieder, Deutscher Corporate Governance, cit., p. 119, « die Empfehlung des
DCGK mag zwar demokratisch klingen, doch trägt sie nicht zur Verkürzung der ohnehin
langen Hauptversammlungen in Deutschland bei. Doch werden künftig wohl die meisten
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dovrebbe permettere agli azionisti di decidere in maniera indipendente e
consapevole su ciascun candidato (98). Il n. 5.4.4 riguarda il passaggio dalla carica di Presidente o membro del Vorstand a Presidente o membro dell’Aufsichtsrat. Si tratta di una prassi molto diffusa nelle società per azioni
tedesche (99) che la Cromme-Kommission invita a non seguire; a tal proposito, qualora si voglia realizzare il passaggio di cariche tra gli organi amministrativo e di controllo, si raccomanda di portare a conoscenza dell’assemblea tale volontà e di enunciare i motivi che la giustificano.
Infine, al n. 5.4.7 è stata modificata la raccomandazione relativa alla
pubblicità circa i compensi dell’organo di controllo, nel senso che essa doveva essere riportata nella nota integrativa al bilancio consolidato, mentre
ora deve essere indicata nella Relazione sulla Corporate Governance.
Altro tema che ha guidato gli interventi della Cromme-Kommission riguarda l’attività di controllo sul bilancio, sia da parte dei revisori dei conti
e per i quali si pone il problema di garantirne l’indipendenza, sia da parte
del Deutsche Prüfstelle für Rechnungslegung (DPR) – un organismo per il
controllo dei bilanci di recente istituzione (100) – e del Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (BaFin) – autorità federale per il controllo dei
servizi finanziari –.
Quanto ai revisori dei conti, la nuova versione del DCGK, modifica la
raccomandazione n. 7.2.1, prima frase, relativa alla loro nomina. Tale raccomandazione prevedeva e prevede che le proposte di nomina dei revisori devono essere precedute da una dichiarazione del candidato sulla sussistenza o meno di rapporti con la società o i membri degli organi amministrativo e di controllo che potrebbero incidere sulla sua indipendenza. Nel
nuovo testo si è precisato che si fa riferimento a rapporti commerciali, finanziari, personali o di altro genere.
Relativamente all’attività di controllo sul bilancio da parte del DPR e
Gesellschaften der Empfehlung folgen, um keine Abweichung vom DCGK offen legen zu
müssen. Denn diese Forderung des DCGK ist vergleichsweise einfach erfüllbar ».
(98) In tali termini si è espresso il Dr. Cromme nel discorso introduttivo alla 4a Conferenza sul DCGK tenutasi a Berlino il 23-24 giugno 2005.
(99) Strieder, Deutscher Corporate Governance, cit., p. 119, « der Wechsel eines Mitglieds des Vorstands unmittelbar in den Vorsitz des Aufsichtsrat ist gängige Übung. Dies ist
allerdings wegen des dann fehlenden Abstands grundsätzlich kritisch zu sehen. Bei den
Grossen Gesellschaften die der DCGK im Auge hat, mag das auch zutreffen. Doch beispielsweise bei Familiengesellschaften kann diese Vorgehensweise durchaus sinn machen ».
(100) Il Deutsche Prüfstelle für Rechnungslegung (DPR) è un’associazione riconosciuta costituita il 14 maggio 2004, la cui attività è determinata dai §§ 342b-342e del codice di commercio, introdotti dalla Bilanzkontrollgesetz del 2004 (vedi nota 96).
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del BaFin, al punto 7.1.2 è stata inserita una Muss-Vorschrift che tiene conto del sistema di vigilanza contabile introdotto con la BilKoG del 2004
fondato su due livelli che va ad aggiungersi all’attività di controllo svolta
dal revisore contabile (101): al primo livello è collocato il DPR il quale si attiva in ipotesi di segnalazioni da parte di azionisti o investitori di inesattezze od errori nel bilancio; al secondo livello c’è, invece, il BaFin al quale si attribuisce il potere di avocare a sé il controllo dei bilanci, seppur in
ipotesi eccezionali e residuali (102). Nella raccomandazione in esame si è
resa quindi necessaria l’introduzione di una frase in cui si tiene conto del
fatto che DPR e BaFin possono esercitare un controllo sulla conformità
della redazione del bilancio ai principi contabili generalmente applicati.
Infine, l’ultima versione del DCGK del 12 giugno 2006 e pubblicata
sulla Gazzetta federale elettronica il 24 giugno 2006 è stata realizzata per
adeguarne il contenuto alle leggi che erano state emanate pochi mesi prima, vale a dire la Gesetz zur Offenlegung der Vorstandsvergütungen (VorstOG) – i.e. legge sulla pubblicità dei compensi degli amministratori, del
3 agosto 2005 – e la Gesetz zur Unternehmensintegrität und Modernisierung
des Anfechtungsrecht (UMAG) – i.e. legge per l’integrità dell’impresa e per
modernizzare il diritto di impugnazione, del 1° novembre 2005.
Si è trattato di adeguamenti tecnici (103) realizzati mediante l’introduzione di una frase al n. 2.2.4. con cui si sono voluti rafforzare i poteri del
Presidente dell’assemblea ed un più articolato intervento in materia di
compensi degli amministratori che ha visto la riformulazione integrale dei
nn. 4.2.3. e 4.2.4. e l’introduzione ex novo del n. 4.2.5.
Quanto ai poteri del Presidente dell’assemblea si chiarisce che tra essi
rientra quello di garantire che la stessa non abbia una durata eccessiva. In
quest’ottica, con la nuova raccomandazione di cui al n. 2.2.4. si invita il
presidente a garantire che la durata massima dell’assemblea ordinaria sia
compresa tra le 4 e le 6 ore. Con tale raccomandazione si vuole rendere
(101) Il revisore contabile esamina il bilancio e comunica le proprie conclusioni al Consiglio di sorveglianza nella seduta di approvazione del bilancio La figura dei revisori contabili è prevista solo per le società per azioni di grandi e medie dimensioni, determinate secondo i criteri indicati nel § 267, commi 2° e 3°, del codice di commercio. Si tratta di una figura necessaria in quanto un bilancio non sottoposto alla loro revisione è nullo ai sensi del
§ 256, comma 1°, n. 2; ciò ha portato la dottrina a definire i revisori come il quarto organo
delle società per azioni.
(102) Si veda amplius la nota 96.
(103) In termini di technische Anpassung si è espresso il Dr. Cromme, nella relazione dal
titolo Corporate governance. Stand und Entwicklung in Deutschland und Europa tenuta alla 5.
Konferenz Deutscher Corporate Governance Kodex il 23 giugno 2006.
SAGGI
895
efficiente l’assemblea, sul presupposto che gli azionisti che intendano intervenire abbiano altre occasioni per informarsi adeguatamente sugli argomenti posti all’ordine del giorno.
Quanto ai compensi degli amministratori, come si è visto, già nel 2003
si era provveduto ad adeguare il DCGK. Le recenti modifiche sono conseguenza della emanazione della VorstOG la quale si era resa necessaria
dal momento che il tema della pubblicità dei compensi era quello in cui le
società maggiormente si erano manifestate restie a seguire le raccomandazioni del DCGK.
Entrando nel dettaglio degli interventi effettuati, al n. 4.2.3. prima frase si chiarisce che la retribuzione complessiva dei membri del Vorstand
deve essere formata da componenti monetarie, assegnazioni pensionistiche, altri tipi di assegnazioni, particolarmente in caso di fine rapporto, prestazioni accessorie di qualunque tipo e prestazioni di terzi sia promesse
che accordate durante l’esercizio a fronte dell’attività di membro del Vorstand.
Al fine di favorire comportamenti maggiormente virtuosi in materia di
pubblicità dei compensi degli amministratori al n. 4.2.4. si è inserita la raccomandazione per cui la retribuzione complessiva di ciascun membro del
Vorstand dovrà essere resa pubblica, con l’indicazione del nome dell’assegnatario e suddivisa in componente non legata alla prestazione, componente legata alla prestazione e incentivo a lungo termine. Tale pubblicità
potrà essere omessa a seguito di delibera presa dall’assemblea generale
con una maggioranza di tre quarti.
Le modalità di adempimento dell’obbligo pubblicitario in discorso sono descritte in diverse raccomandazioni introdotte ex novo al n. 4.2.5. Si
raccomanda che la pubblicazione avvenga in un apposito rapporto sulle
retribuzioni che, nell’ambito della relazione sulla corporate governance,
descriva il sistema di retribuzione dei membri del Vorstand in una forma
generalmente comprensibile. Il rapporto sulle retribuzioni dovrà inoltre
indicare il tipo delle prestazioni accessorie concesse dalla società.
12. – Nei quattro anni di vita del DCGK diversi sono stati gli studi realizzati anche da organismi e soggetti privati circa il grado di accoglienza
delle raccomandazioni ed in generale del DCGK da parte delle società
quotate tedesche.
Peraltro, sono disponibili dati ufficiali raccolti ed elaborati dal Berlin
Center of Corporate Governance (BCCG) che opera su incarico della Cromme-Kommission. I dati più recenti sono stati presentati in uno studio dal
titolo Umsetzung der Empfehlungen und Anregungen des Deutschen Corpo-
896
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
rate Governance Kodex del 20 marzo 2006 (104), realizzato prima che si ponesse mano alla nuova versione del DCGK.
Il BCCG provvede annualmente a verificare il grado di accoglienza
del DCGK da parte delle società quotate. A tal fine, per la raccolta dei dati è stato elaborato un formulario, periodicamente aggiornato alle modifiche cui viene sottoposto il DCGK, che tiene conto delle raccomandazioni
e dei suggerimenti in esso contenuti.
Dallo studio del 2006 risulta un grado di accoglienza piuttosto ampio
da parte delle società quotate, anche se è opportuno distinguere a seconda delle dimensioni e del listino di cui fa parte ciascuna società.
Nessuna società rientrante nel listino Dax-30 ha rifiutato en bloc le raccomandazioni del DCGK, mentre sono 5 su 28 le società che adottano
tutte le raccomandazioni. Tale numero dovrebbe ulteriormente salire dal
momento che altre 2 società hanno dichiarato di recepire tutte le raccomandazioni entro l’anno.
Mediamente, le blue chips tedesche hanno fatto proprie il 97 % delle
Soll-Vorschriften. Le raccomandazioni che sono state recepite da più del 90
% delle società esaminate sono già 72 su 82. Permangono tuttavia delle
raccomandazioni che oltre a non raggiungere la soglia del 90 % – soglia indicata dal legislatore come soddisfacente e tale da escludere un suo intervento diretto – sono considerate nevralgiche in quanto nei loro riguardi vi
è una manifesta resistenza da parte delle società.
Si tratta in particolare: i) della raccomandazione di cui al n. 3.8. ultima
parte che prevede che, nell’ipotesi in cui la società sottoscriva una Directors’ and Officers’ Liability Insurance, parte dei costi siano sostenuti dagli
assicurati; ii) della raccomandazione di cui al n. 4.2.2, prima frase, che come visto, prevede che l’Aufsichtsrat debba consultarsi in seduta plenaria
sulla struttura del sistema di retribuzione dei membri del Vorstand, verificandola ad intervalli regolari; iii) della raccomandazione di cui al n. 4.2.4
ultima frase che, in tema di pubblicità dei compensi degli amministratori
prevedeva che essi fossero indicati singolarmente per ciascun amministratore; come visto, nell’ultima versione del DCGK l’intero n. 4.2.4 è stato
riscritto; iv) della raccomandazione di cui al n. 5.4.3 in materia di elezioni
dei componenti dell’Aufsichtsrat che dovrebbero svolgersi come elezioni
individuali; v) della raccomandazione di cui al n. 5.4.4 riguardante il passaggio dalla carica di Presidente o membro del Vorstand a Presidente o
membro dell’Aufsichtsrat; vi) della raccomandazione di cui al n. 5.4.7
(104) Lo studio può essere consultato al seguente indirizzo internet: www.bccg.tu-berlin.de.
SAGGI
897
quarta frase, dove si prevede che componenti dell’Aufsichtsrat dovranno
ricevere una remunerazione composta da un importo fisso e da un importo variabile legato al rendimento; vii) della raccomandazione di cui al n.
5.4.7 sesta frase relativa al compenso dei componenti dell’Aufsichtsrat il
quale dovrà essere indicato nella relazione sulla corporate governance evidenziando gli importi percepiti da ciascuno.
Il fatto che sia mancata la volontaria adesione su tali raccomandazioni
da parte delle società non porta ad escludere che nel corso dell’anno il legislatore possa ulteriormente intervenire con diverse nuove leggi.
Tuttavia non può non ammettersi che i risultati appena descritti con riferimento alle società del Dax-30 sono ampiamente positivi come lo sono,
seppur in misura leggermente inferiore, i risultati relativi alla spontanea
adozione del codice da parte di società appartenenti ad indici borsistici.
La minore aderenza alle raccomandazioni del DCGK da parte delle
società con azioni quotate negli indici minori può essere spiegata col fatto
che le società appartenenti a tali indici minori devono affrontare un tradeoff negativo costi-benefici per adeguare il proprio sistema di corporate governance nel caso di una adozione integrale di tali raccomandazioni; tuttavia, eventuali sforzi in termini di miglioramento della policy di trasparenza nella gestione non sono apprezzati pienamente in conseguenza delle
dimensioni inferiori del mercato.
13. – Il fatto che molte delle regole contenute nel DCGK, essendo riconducibili al novero delle Soll-Vorschriften e delle c.d. Sollte-Vorschriften,
non abbiano natura vincolante per le società è stato oggetto di critica da
una parte della dottrina (105) che ha osservato che in Germania, per un sistema di corporate governance efficiente, manchi negli operatori la consapevolezza e la sincera convinzione della necessità di raggiungere un grado
più elevato di trasparenza attraverso un più efficace controllo sulla gestione da parte dell’Aufsichtsrat.
Tale critica muove dal presupposto che nelle precedenti occasioni in
cui, nell’ordinamento tedesco, erano stati adottati dei codes of best practice – la dottrina fa solitamente riferimento alle Insider-Empfehlungen (delle
raccomandazioni in materia di insider trading) e allo Übernahmekodex (un
codice in materia di acquisizioni) – l’adesione volontaria delle società alle
regole di condotta in essi contenute non è stata soddisfacente.
Le Insider-Empfehlungen del 1970 erano state elaborate da una Bör-
(105) Schiessl, Deutsche Corporate Governance post Enron, cit., p. 594.
898
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
sensachverständigenkommission (106) – una commissione di esperti di nomina ministeriale –. Tali raccomandazioni, proprio per il fatto di richiedere per la loro adozione degli gentlemen agreement da parte degli operatori, non predisponevano alcuna misura sanzionatoria (107). A tale aspetto
andava aggiunto l’ulteriore limite consistente nel fatto di escludere dalla
fattispecie di insider trading, almeno originariamente, la trasmissione a
terzi delle informazioni di cui si disponeva in ragione della partecipazione al capitale di una società quotata ovvero dell’ufficio o della carica in
essa ricoperto (108), essendo ritenuto rilevante solo l’utilizzo personale
delle Insider-Informationen. Queste ed altre questioni problematiche
mossero sia gli investitori stranieri che le associazioni di azionisti ad
avanzare forti critiche a questa esperienza di autoregolamentazione.
Allo stesso modo delle Insider-Empfehlungen, lo Übernahmekodex fu
elaborato dalla Börsensachverständigenkommission e fu pubblicato il 1° ottobre 1995. La sorveglianza circa il rispetto delle regole del Kodex era attribuita ad una Übernahmekommission, la quale non disponeva di strumenti sanzionatori. A tale aspetto va aggiunto il fatto che il Kodex, fino alla emanazione nel 2001 della Gesetz zur Regelung von öffentlichen Angeboten zum Erwerb von Wertpapieren und von Unternehmensübernahmen
(WpÜG) (109), era stato adottato solo da due società quotate su tre (110).
Ritengo che tali critiche, per quanto muovono da premesse fondate,
non sono pertinenti. Non va, a mio avviso, sottovalutato il fatto che tali
(106) La Commissione Ministeriale, sotto le pressioni della Borsa e delle banche, si limitò a predisporre delle mere raccomandazioni, non supportate da sanzioni in ipotesi di insider trading. Tali raccomandazioni furono oggetto di critiche sia da parte degli investitori
stranieri che da parte delle associazioni di azionisti. Ciò mosse la Commissione Ministeriale ad una loro verifica che condusse alla pubblicazione di due successive versioni, rispettivamente nel luglio del 1976 e nel maggio del 1988 delle versioni aggiornate.
Solo in sede di recepimento della Direttiva Comunitaria 1989/592/CEE del 13 novembre 1989, avvenuto con l’emanazione della Wertpapierhandelsgesetz del 26 luglio 1994 si sarebbe abbandonata la strada dell’autoregolamentazione.
Per una ricostruzione dell’autoregolamentazione in materia di insider trading si veda.
Assmann-Schneider, Wertpapierhandelsgesetz, 1999, p. 12 ss.
(107) Ehrhardt-Nowak, op. cit., p. 343: [d]ie mangelnde praktische Möglichkeit der
Sanktionierung von Insidervergehen war von vornherein ein Fehlkonstrukt der Empfehlungen. Im Falle eines Verstoßes durch einen bei ihnen beschäftigten Insider sollten die
Emittenten selbst entsprechende Konsequenzen ergreifen ».
(108) Solo nella versione del 1988 tale condotta sarà considerata a tutti gli effetti insider
trading.
(109) Legge di disciplina delle offerte pubbliche d’acquisto.
(110) Per ulteriori dettagli si rinvia a: Ehrhardt-Nowak, op. cit., p. 345.
SAGGI
899
modelli di autoregolamentazione basandosi sullo schema della “Opt out”Lösung, richiedevano un loro espresso richiamo da parte delle società
quotate, che in tal modo dichiaravano di volersi adeguare ad essi. Ciò ha
senza dubbio influito sul loro accoglimento, in quanto, essendo il controllo delle società tedesche poco o affatto contendibile, mancava l’elemento che ha caratterizzato l’esperienza dell’autoregolamentazione nell’area anglo-americana, vale a dire: la sottoposizione degli amministratori
al controllo del mercato. In altri termini, le società non avevano incentivi
sufficienti ad accogliere spontaneamente regole prive di natura coercitiva
e che valevano solo come best practice.
Il DCGK, invece, in virtù del § 161 della legge azionaria, riconducibile, come si è detto allo schema della “Opt out”-Lösung, ha visto il generale favore dei soggetti cui era destinato, i quali si sono manifestati tendenzialmente propensi ad adottarne le raccomandazioni, decidendo di discostarsi solo su taluni punti (111). Il successo del DCGK è legato a varie ragioni. Innanzitutto il tema della corporate governance è sempre più attuale anche in Germania; poi si assiste al lento ma costante ridimensionamento delle partecipazioni delle banche tedesche in imprese non finanziarie (112) alle quali tendono a sostituirsi gli investitori istituzionali, specialmente inglesi.
(111) A titolo esemplificativo si riportano le Entsprechenserklärungen relative all’anno
2005 di alcune tra le maggiori società per azioni tedesche:
1) Entsprechenserklärungen della Siemens AG: « Vorstand und Aufsichtsrat der Siemens AG haben in ihren Sitzungen am 8. und 9. November 2005 die folgende Erklärung
gemäß § 161 AktG beschlossen: Die Siemens AG entspricht sämtlichen Empfehlungen des
Deutschen Corporate Governance Kodex in der Fassung vom 2. Juni 2005 und wird ihnen
auch zukünftig entsprechen. Seit Abgabe der letzten Entsprechenserklärung vom 10. November 2004 hat die Siemens AG dem Kodex in der Fassung vom 21. Mai 2003 mit der dort
genannten Abweichung (kein Selbstbehalt bei der D&O-Versicherung) entsprochen. Die
Abweichung ist mit Wirkung zum 1. Oktober 2005 entfallen »;
2) Entsprechenserklärungen della Allianz AG: « 1. Die Allianz AG wird sämtlichen
Empfehlungen der “Regierungskommission Deutscher Corporate Governance Kodex” in
der Fassung vom 2. Juni 2005 entsprechen.
2. Seit der letzten Entsprechenserklärung vom 15. Dezember 2004, die sich auf den
Deutschen Corporate Governance Kodex in der Fassung vom 21. Mai 2003 bezog hat die
Allianz AG sämtliche Empfehlungen der “Regierungskommission Deutscher Corporate
Governance Kodex” in der damals geltenden Fassung entsprochen ».
(112) Sull’evoluzione del sistema di finanziamento delle società tedesche si veda: Marti, The German System of Financing and Corporate Governance – on the Way from Bank-based
to a Market-based Model?, 2004, consultabile al seguente indirizzo internet: www.archivioceradi.luiss.it.
900
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Anche a livello internazionale cresce l’attenzione per la soluzione offerta nel DCGK, in quanto con essa, pur nel rispetto delle peculiarità del
sistema tedesco (113), si garantisce una trasparenza crescente nel tempo
nella materia della amministrazione e del controllo delle società tedesche,
storicamente restie a permettere che si lanciasse un’occhiata nella stanza
dei bottoni.
Per tali ragioni ma anche e soprattutto per la riuscita interrelazione tra
il diritto positivo e il DCGK, si ritiene che il modello tedesco di autoregolamentazione vada considerato in termini complessivamente positivi.
Un giudizio positivo non può, infine, prescindere dal considerare il
crescente accoglimento delle raccomandazioni del DCGK da parte degli
operatori. Infatti, in progresso di tempo le società saranno portate a recepire anche le raccomandazioni relative alle questioni maggiormente controverse e quelle che allo stato sono dei meri suggerimenti, in quanto il
Bundesregierung si riserva di presentare delle proposte di legge predisposte
dalla Cromme-Kommission aventi ad oggetto quelle raccomandazioni che
non dovessero raggiungere un grado si accoglienza superiore al 90%.
(113) Durante la 3. Konferenz Deutscher Corporate Governance Kodex, tenutasi il 24 giugno 2004 a Berlino, il Vorsitzender della Regierungskommission Deutscher Corporate Governance kodex, Dr. Gerhard Cromme, ha dichiarato nel suo discorso che: « Im Ausland wächst das Verständnis für unsere duale Unternehmensverfassung, gerade weil wir mit dem Kodex unser System transparent gemacht und notwendige Veränderungen herbeigeführt haben. In der öffentlichen Diskussion werden aber leider die Unterschiede zwischen dem
One-Tier- und dem Two-Tier-System oft vernachlässigt. Corporate Governance Prinzipien
aus Rechtsordnungen, die dem One-Tier-System folgen, dürfen nicht unreflektiert in die
deutsche Praxis übertragen werden ».
CRISTIANA CICORIA
Il diritto di recesso dai contratti porta-a-porta:
il caso delle « Schrottimmobilien » in Germania
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il contratto di mutuo porta-a-porta e il diritto di recesso: la normativa tedesca e comunitaria prima della sentenza Heininger. – 3.
L’applicazione della direttiva in Germania e la sentenza Heininger: questioni di
compatibilità. – 4. Gli effetti del recesso sul contratto di mutuo. – 5. Gli effetti del
recesso sul contratto di vendita: la normativa sui contratti collegati. – 6. Le critiche
alla giurisprudenza del BGH e le tendenze attuali. – 7. Il giudizio di rinvio: opinioni e pareri e la decisione della Corte di giustizia delle Comunità europee. – 8. Conseguenze della decisione della Corte di Giustizia per i consumatori tedeschi: alcune alternative. – 9. Il dovere di informativa della banca: le attuali problematiche
nel diritto civile tedesco. – 10. Conclusioni.
1. – Negli anni ’90 in Germania, circa 300.000 consumatori sono stati
attratti da investimenti finanziari volti all’acquisto di immobili finanziati
tramite mutuo. In linea generale si trattava di stabili edificati nell’ambito
della costruzione di case popolari degli anni ’60 e ’70, ristrutturati e messi
in vendita da società aventi come oggetto sociale l’intermediazione di servizi immobiliari e finanziari.
Per ragioni fiscali, l’acquisto dell’immobile doveva essere interamente
finanziato tramite mutuo ipotecario da costruirsi a favore dell’istituto di
credito e locato a terzi, o comunque gestito come albergo. Le condizioni
del mutuo bancario erano generalmente ex ante fissate, di comune accordo con il venditore, dalla banca, la quale chiedeva normalmente all’acquirente di aderire ad un sistema di gestione comune dei proventi della locazione, volta a garantire un’equa ripartizione dei proventi della stessa.
Nella fase di negoziazione e conclusione dell’accordo, la società di intermediazione avrebbe dovuto svolgere, pertanto, una funzione di esclusivo supporto logistico nell’istruzione della pratica e nella trasmissione
dei dati. I potenziali acquirenti venivano generalmente contattati presso la
loro abitazione o comunque fuori da locali commerciali. In tale sede, veniva loro proposta la conclusione sia del contratto d’acquisto che del contratto di mutuo, stipulato con la banca e funzionale al pagamento dell’acquisto. Conforme a una politica di salvaguardia degli interessi della banca
e del venditore, in base al contratto di acquisto e di contestuale mutuo
bancario, il compratore non entrava in possesso della somma concessa a
902
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
mutuo, la quale veniva immediatamente destinata al pagamento del prezzo di vendita e delle relative spese.
In alcuni casi, inoltre, gli acquirenti-mutuatari assumevano la responsabilità personale per il pagamento dell’importo del debito fondiario, accettando la possibilità dell’immediata esecuzione forzata del contratto di
mutuo su tutto il loro patrimonio (1).
Ai potenziali acquirenti veniva garantita la realizzazione di economie
fiscali, tramite una sorta di «perpetuum mobile », in base al quale il finanziamento del bene immobile sarebbe stato garantito, in ragione del tipo di
investimento finanziario scelto, dai vantaggi fiscali connessi a tale investimento, nonché dai proventi della locazione (2).
I prospettati benefici dell’investimento, però, erano nella maggior parte dei casi lungi dal concretizzarsi, dato l’elevato prezzo d’acquisto e le
evidenti carenze strutturali degli immobili, i quali risultavano, alla fine,
difficili da locare, nonché da rivendere, anche in sede di vendita forzata al
pubblico incanto. Il compratore, a questo punto, veniva a trovarsi in possesso di un immobile di proprietà avente un valore di mercato inferiore al
prezzo di acquisto e al relativo mutuo contratto, ma gravato da interessi e
spese di gran lunga eccedenti le sue possibilità economiche.
Sebbene la vigente normativa tedesca conferisca al consumatore, in
conformità al dettato comunitario (3), il diritto di recesso da contratti di
vendita porta a porta o comunque conclusi fuori dai locali commerciali,
non poche si sono rivelate le incongruenze ed incertezze sul piano interpretativo e applicativo, soprattutto per quel che concerne l’incidenza del
recesso sul contratto di mutuo ipotecario e sul contratto di vendita.
Dottrina e giurisprudenza, riferendosi a questo tipo di speculazioni
edilizie con il termine Schrottimmobilien, si sono a lungo soffermate sulla
problematica in questione (4). Sul punto, la giurisprudenza prevalente del-
(1) V. per es. Schulte c. Badenia, Landesgericht (LG) Bochum, causa 1 O 795/02 con
susseguente domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte CE, con ordinanza 29
luglio 2003, causa C-350/03 e decisione della Corte CE, 25 ottobre 2005.
(2) Cfr. Singer, Widerrufsdurchgriff bei Realkreditverträge? – Zu den Folgen der “Heiniger”– Entscheidung des EuGH und BGH für das deutsche Verbraucherkreditrecht, in Deutsche
Zeitschrift für Wirtschaft (DZWIR), 2002, p. 221 ss. Sul punto anche Spickhoff-Petershagen, Bankenhaftung bei fehlgeschlagenen Immobilienerwerb-Treuhandmodellen, in Betriebs
Berater (BB), 1999, pp. 165-173.
(3) V. in proposito, direttiva CE 85/577, 20 dicembre 1985, in G.U.C.E., L 372, 31 febbraio 1985.
(4) Cfr. Burgeroth, Die Rückabwicklung nach dem HWiG widerrufener Immobiliardarlehen, in Wertpapiermitteilungen (WM), 2004, pp. 1505-1511; Derleder, Der Widerruf des
SAGGI
903
la Corte Suprema Federale tedesca (Bundesgerichtshof in seguito: BGH)
ha optato per una lettura restrittiva del dettato codicistico, suscitando non
poche polemiche circa la compatibilità di tali pronunce con le finalità di
ampia protezione del consumatore del dettato comunitario (5).
Alla luce della recente giurisprudenza della Corte di giustizia delle
Comunità europee nel caso Schulte c. Badenia (6) e Crailsheimer Volksbank eG (7), la presente trattazione si ripropone di delineare le principali
questioni del dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, suggerendo possibili spunti alternativi e riflessioni in materia. La questione focale della discussione concerne l’ambito di applicabilità della direttiva della Comunità
europea 85/577, con particolare riguardo al contratto di vendita di beni immobili qualora tale contratto sia parte integrante di un’operazione finanziaria globale che comprenda, oltre al detto contratto, un contratto di mutuo fondiario stipulato esclusivamente ai fini del finanziamento dell’acquisto del bene immobile.
2. – La direttiva della Comunità europea 85/577 conferisce al consumatore che ha concluso un contratto fuori dei locali commerciali avente
ad oggetto beni o servizi, il diritto di recedere dallo stesso, secondo le modalità e condizioni previste dagli artt. 4 e 5. In base a tali disposizioni, il
commerciante deve informare il consumatore per iscritto del diritto di recesso, il quale può essere esercitato entro un termine di almeno sette giorni dal momento in cui il consumatore ha ricevuto l’informazione ed in base alle singole modalità prescritte dalla legislazione nazionale, le quali, peraltro, regolano anche gli effetti giuridici del recesso ed in particolare
quanto attiene al rimborso dei pagamenti relativi a beni o servizi (8).
Haustrgrundpfandkredits, in Zeitschrift für Bankbetriebswirtschaft und Bankrecht (ZBB),
2002, pp. 177-190; Ehrlecke, Die Einbeziehung des Immobilienkaufs in die Folgen eines Widerrufs des Darlehensgeschäfts nach der Richtlinie 85/577/EWG, in Zeitschrift für Wirtschaftsrecht (ZIP), 2004, pp. 1025-1034; Fischer, Widerrufsbedingte Rückabwicklung von (Real-)
Kreditverträgen und finanzierten Immobiliengeschäften, in Der Betrieb (DB), 2003, pp. 83-87;
Fritsche, Aktuelle Rechtsentwicklung zum fremdfinanzierten Erwerb von Immobilien und
Fondsanteilen, in Neue Justiz (NJ), 2003, pp. 231-237.
(5) Cfr. Hoffmann, Die Rechtsfolgen des Verbraucherwiderrufs und die Hastürgeschäfterichtlinie – Unbeschränkter Gestaltungsspielraum des nationalen Recht?, in ZIP, 2004, pp. 4957; Reich, Wie ist das vom EuGH bestätigte Widerrufsrecht von an der “Haustür” angebahnten Realkreditverträgen umzusetzen – oder: Schwierigkeiten im Umgang mit dem Europarecht,
in Versicherung und Recht (VuR), 2003, pp. 64-65.
(6) Causa C-350/03, 25 ottobre 2005.
(7) Causa C-227/04, 25 ottobre 2005.
(8) In tal senso, v. artt. 4 e 5 della direttiva. Per gli effetti del recesso ed il rinvio al legi-
904
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Per quel che concerne il recesso dai contratti di credito al consumo,
esso viene regolato dalla direttiva CE 87/102 (9), così come modificata dalla direttiva CE 90/88 (10). L’art. 2 della medesima direttiva esclude, però,
l’applicabilità ai contratti di credito e promessa di credito destinati principalmente all’acquisto o alla conservazione di diritti di proprietà su un terreno o un immobile costruito o da costruirsi (11).
In entrambi i casi il dettato comunitario si propone in primo luogo di
offrire una più ampia tutela del consumatore nella sua posizione di contraente debole, sottoposto agli inevitabili rischi connessi alla conclusione
di un contratto porta a porta, dovuti, per esempio, all’impossibilità di confrontare la qualità ed il prezzo che gli vengono proposti con altre offerte,
nonché di vagliare accuratamente i termini del contratto. In secondo luogo, la direttiva intende prevenire l’indebito sfruttamento da parte del
commerciante della situazione di soggezione psicologica e di asimmetria
informativa in cui il consumatore, colto di sorpresa nella sua sfera privata,
si trova al momento della conclusione del contratto.
La tutela tramite l’incondizionato diritto di recesso a favore del consumatore è garantita indipendentemente dalla tipologia del contratto concluso, purché esso non rientri tra quelli aventi ad oggetto la costruzione,
vendita e locazione di beni immobili (12).
La ricezione della direttiva in Germania è avvenuta con la legge sul
recesso dai contratti negoziati fuori dai locali commerciali del 16 gennaio 1986 (Gesetz über den Widerruf von Haustürgeschäften und ähnlichen
Geschäften – in seguito: HWiG) (13). Il diritto di recesso veniva disciplislatore nazionale, v. art. 7 della direttiva. L’art. 8 della suddetta direttiva dispone inoltre
che quest’ultima « non osta a che gli Stati membri adottino o mantengano in vigore disposizioni ancora più favorevoli in materia di tutela dei consumatori nel settore da essa disciplinato ».
(9) Direttiva del Consiglio CEE, 22 dicembre 1986 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di credito al consumo, come modificata dalla direttiva CE 98/7 del Parlamento europeo e del
Consiglio; 16 febbraio 1998 che modifica la direttiva CEE 87/102 relativa al ravvicinamento
delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia
di credito al consumo, in G.U.C.E., L 101, 1° aprile 1998.
(10) Direttiva del Consiglio CE, 22 febbraio 1990 in materia di credito al consumo, in
G.U.C.E., L 61, 10 marzo 1990.
(11) Anche in questo caso, ai sensi dell’art. 15 della medesima direttiva « non impedisce
agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più rigorose a tutela dei consumatori, fermi restando gli obblighi previsti dal trattato ».
(12) In tal senso, art. 3 della direttiva.
(13) BGBl., 1986, p. 122.
SAGGI
905
nato dai §§ 1, 3 e 5, in collegato disposto, per quel che concerne i contratti di credito, con i §§ 3 comma 2°, punto 2, 7 e 9 della legge sui contratti di credito dei consumatori (Verbraucherkreditgesetzt – in seguito:
VerbrKrG) (14).
Analizzando le singole disposizioni nel dettaglio, è possibile delineare
alcune peculiarità della normativa tedesca, in special modo per quel che
concerne gli effetti del recesso, nonché le eccezioni di applicabilità. Limitandosi all’esame delle norme rilevanti al fine della compatibilità con il
dettato comunitario, il § 1, comma 1°, HWiG prevedeva un diritto di recesso per il consumatore tale per cui un negozio concluso fuori dai locali
commerciali o, comunque, in una delle situazioni elencate al n. 3 dello
stesso paragrafo, aveva effetto solo se il consumatore non avesse revocato la sua dichiarazione di volontà entro una settimana. Ai sensi del § 2,
comma 1°, HWiG, inoltre, tale termine decorreva dal momento in cui il
consumatore aveva ricevuto informazione per iscritto del suo diritto di recesso (15).
Secondo quanto disposto dal § 1 HWiG il recesso, correttamente esercitato secondo le prescritte modalità, produce i suoi effetti ex tunc tra le
parti, secondo il disposto del § 3, commi 1° e 3°, HWiG. Con particolare
riferimento al contratto di mutuo ipotecario collegato all’acquisto di un
bene immobile, la norma impone al mutuatario recedente la restituzione
della somma presa a mutuo e debitamente devoluta al venditore in pagamento del prezzo di vendita nel suo intero ammontare, comprensivo di
interessi di mercato (16). Il § 5, comma 2°, HWiG prevede, però, un rinvio
alle disposizioni della VerbKrG per quel che concerne il diritto di recesso,
qualora la fattispecie in oggetto ricada nell’ambito di applicabilità di detta
legge (17). Quest’ultima, in base a quanto disposto dal § 1, comma 1°, risul-
(14) L. 17 ottobre 1990, BGBl., p. 2840.
(15) In caso di omessa comunicazione di tale informazione, il diritto di recesso del consumatore si estingue solo dopo un mese dall’esecuzione da parte dei due contraenti dell’integralità dei loro obblighi.
(16) L’obbligo di restituzione dell’importo comprensivo di interessi trova fondamento
nel § 607, comma 1°, BGB, norma regolante gli obblighi del mutuatario derivanti dal contratto di mutuo, nonché nelle norme sull’arricchimento ingiustificato, §§ 812, 818 BGB. Cfr.
LG Bochum, causa 1 0 795/02, 29 luglio 2003.
(17) Cfr. anche Oberlandesgericht (OLG) München, in WM, 1999, p. 728; LG München
I, in WM, 1998, p. 1723; LG Paderborn, in ZIP, 2001, p. 1002; OLG München, in WM 2001,
p. 680. In tal senso anche la dottrina. Cfr. Münchener Kommentar (MüKo) / Ulmer, § 5
HWiG, c. 15 vecchia versione; Palandt-Putzo, 61a ed., § 5 HWiG, c. 5; Erman-Saeger, § 5
HWiG, c. 4a.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
tava pertanto applicabile a tutti i contratti di credito e di intermediazione
finanziaria, anche a quelli conclusi porta a porta (18).
In virtù del rinvio, inoltre, il diritto di recesso da tali contratti veniva
disciplinato non più dal § 1 HWiG bensì dal § 7 VerbrKrG (19). La norma
in questione stabiliva che, nel caso in cui il consumatore non fosse stato
informato per iscritto del suo diritto di recedere, tale diritto si sarebbe automaticamente estinto al più tardi un anno dopo la dichiarazione del consumatore di voler concludere il contratto. In aggiunta alle limitazioni di
carattere temporale poste all’esercizio del diritto di recesso, il § 3, comma
2°, della stessa legge sul credito al consumo escludeva esplicitamente l’applicabilità del § 7 VerbrKrG ai contratti di credito secondo i quali il credito stesso è subordinato alla costituzione di un’ipoteca.
In seguito all’entrata in vigore della legge di modifica al diritto delle
obbligazioni (Schuldrechtmodernisierungsgesetz– in seguito: SMG) (20), entrambe le predette leggi sono state abrogate, con conseguente integrazione del diritto di recesso dei contratti porta a porta nel dettato del Codice
Civile tedesco (Bürgerliches Gesetztbuch – in seguito: BGB), ai §§ 312, 312a,
346, commi 1° e 3°, nonché §§ 355, 356, 357, 358, comma 3°, determinati gli
effetti del recesso e 491 ss. (21). Le determinazioni del foro giuridico competente, originariamente regolate dal § 7 HWiG, sono state invece riporta-
(18) V. sul punto, Fischer-Machunsky, Haustürwiderrufsgesetz. Kommentar, 2a ed.,
1995, Neuwied.
(19) Cfr., per es., Müko/ Ulmer, 3a ed., § 5 HWiG, c. 15, § 3 VerbrKrG, c. 4.
(20) L. 29 novembre 2001, entrata in vigore il 1° gennaio 2002, BGBl. 2001, I, p. 3138.
(21) È possibile segnalare alcune differenze tra l’ambito applicativo dell’introdotto § 312
BGB e l’originario testo comunitario. Infatti, mentre la direttiva protegge i consumatori solo in quei casi in cui il contratto vero e proprio viene materialmente concluso fuori dai locali commerciali, il § 312 BGB estende tale protezione anche al periodo immediatamente
precedente alla conclusione dello stesso. Condizione necessaria e sufficiente all’esercizio
del diritto di recesso ex § 312 BGB è pertanto l’intercorrere di trattative in una situazione
porta a porta tra il commerciante e il consumatore, anche se la sigla del contratto vero e
proprio avviene in una fase successiva e in un luogo diverso. In aggiunta, la direttiva limita
all’art. 3 il suo ambito di applicabilità in modo molto più rigoroso rispetto al § 312, comma
3°, BGB. Inoltre, la norma comunitaria propone una lista dettagliata dei contratti non soggetti alla disciplina di cui all’art 1 della direttiva. In contrasto, tale elenco è assente nel § 312
BGB, il quale si limita ad escludere l’applicabilità della norma sul recesso dei contratti porta a porta in presenza di tre situazioni: 1. nel caso in cui il consumatore abbia invitato il
commerciante presso la sua abitazione al fine delle contrattazioni; 2. nel caso in cui le prestazioni oggetto del contratto vengono rese al momento stesso della sua conclusione e non
superano il valore di Euro 40; 3. nel caso in cui la dichiarazione di volontà del consumatore è stata oggetto di rogito notarile.
SAGGI
907
te nel § 29 del Codice di procedura civile tedesco (Zivilproze?ordnung – in
seguito: ZPO).
3. – Nonostante l’avvenuta abrogazione della HWiG e della VerbKrG (22),
le suddette leggi risultano ancora applicabili ai procedimenti giudiziari
pendenti aventi avuto inizio prima del 2002, data dell’entrata in vigore
della SMG. In tali circostanze, a seguito del combinato disposto dei §§ 5,
comma 2°, HWiG e 3 VerbrKrG, al consumatore veniva di fatto meno la
possibilità di recedere dai contratti di mutuo ipotecario conclusi fuori dai
locali commerciali (23).
Interpellata in sede di revisione sulla compatibilità del § 5 HWiG, nonché sulla normativa tedesca del recesso, la Corte di Giustizia Europea nella sentenza Heiniger c. Bayerische Hypo- und Vereinbank AG (24) ha sottolineato l’applicabilità della disciplina del recesso ex art. 5 della direttiva CE
85/577 anche ai contratti di credito fondiario, nonché l’incompatibilità del
termine di un anno per l’esercizio del diritto di recesso previsto dal § 7
VerKrG, nel caso in cui il consumatore non abbia beneficiato dell’informazione di cui all’art. 4 della direttiva. In base a tale pronuncia, pertanto,
anche il combinato disposto dei §§ 5 HwiG e 3 VerbrKrG risulta in evidente contrasto con le finalità di tutela del dettato comunitario.
In base a quanto disciplinato dall’art. 249, comma 3°, del Trattato della Comunità Europea (25), le direttive vincolano gli Stati membri a cui sono rivolte per quel che concerne il risultato da raggiungere, restando invece la competenza degli organi nazionali in merito alla forma ed ai mezzi
di attuazione. Le decisioni della Corte di Giustizia, a loro volta, producono l’effetto stabilito dai trattati (26), godendo di una particolare autorità,
che va ben oltre quella che caratterizza la giurisprudenza degli organi na-
(22) SMG, L. 29 novembre 2001, entrata in vigore il 1° gennaio 2002, BGBl. 2001, I, p.
3138.
(23) Secondo la dottrina, data la contemporanea presenza di due normative sul recesso,
il rimando della HWiG alla VerbrKrG per quel che concerne i contratti di mutuo ipotecario
non intende limitare la tutela del consumatore, ma semplicemente evitare l’applicabilità di
diverse norme alla stessa fattispecie. Cfr. Fischer-Machunsky, HwiG, Grundlagen, cpv. 83;
Stüsser, Bankenhaftung bei gescheiterten Immobilien-Treuhandmodellen, in NJW, 1999, pp.
1586-1589 e Spickhoff-Petershagen, in BB, 1999, pp. 165-170.
(24) Corte CE, causa C-481/99, 13 dicembre 2001.
(25) Trattato che istituisce la Comunità Europea (versione consolidata), così modificato
dal Trattato di Amsterdam del 17 giugno 1997, in G.U.C.E., C 325, 24 dicembre 2002.
(26) Cfr. sez. 4 del Trattato CEE. Sulle competenze per materia della Corte di Giustizia,
vedasi art. 234 (ex art. 177) del Trattato CEE.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
zionali. Infatti, essa riveste un ruolo normofilattico rispetto all’interpretazione del diritto comunitario, assicurandone un’uniforme interpretazione
da parte degli Stati membri (27). Pertanto, questa autorità di « chose interpretée » delle decisioni rese dalla Corte è cosa assai più importante della
cosa giudicata, accedendo alla norma interpretata non limitandosi, in tal
modo, a produrre effetti nella controversia dedotta in giudizio (28). In seguito alla decisione della Corte di Giustizia nel caso Heininger, il legislatore tedesco, nonché il BGH, si sono dovuti confrontare con il difficile
compito di trasporre, nei modi e nei limiti consentiti dalla normativa nazionale, la normativa comunitaria sul recesso nel dettato del BGB (29).
Sul piano giurisprudenziale, la decisione del BGH nell’omonima cau30
sa ( ) ha aperto il dibattito sulla necessità di intraprendere una sistematica riforma di suddetta disciplina, con particolare riguardo alla fattispecie
(27) Ciò implica, ai sensi dell’art. 234 (ex art. 177) del Trattato, il rispetto della regola dello stare decisis. Sul punto cfr. Koopmans, Stare decisis in European Law, in Essays on European law and integration, Schermers-O’keefe (cur.), 1982, p. 11 e Neville-Brown-JacobsKennedy, The Court of Justice of the European Communities, 4a ed., London, 1994, p. 344.
(28) È questo il motivo per cui, per disattendere l’interpretazione fornita dalla Corte CE
in un precedente ricorso su una determinata materia, i giudici nazionali devono sollevare
un nuovo rinvio pregiudiziale. Cfr. Calvano, La Corte di giustizia e la costituzione europea,
Padova, 2004.
(29) Cfr. Billinger, Richtliniekonforme Auslegung am Beispiel der Heininger Entscheidung und deren Folgen, in http://www.uni-leipzig.de/bankinstitut/dokumente/2004-02-0401.pdf; Franzen, “Heiniger” und die Folgen: ein Lehrstück zum Gemeinschaftsprivatrecht, in
Juristenzeitung (JZ), 2003, pp. 321-332; Rott, Gemeinschaftsrechtliche Vorgaben für die
Rückabwicklung von Haustürgeschäften, in VuR, 2003, pp. 409-414; Habersack-Mayer, Der
Widerruf von Haustürgeschäften nach der “Heininger” Entscheidung des EuGH, in WM, 2002,
pp. 253-259; Hoffmann, Realkredite im Europäischen Verbraucherschutzrecht, in ZIP, 2002,
pp. 145-152; Hochleitner-Wolf-Gro?erichter, Teleologische Reduktion auf “Null” – Zur
Unzulässigkeit einer richtlinienkonformen “Auslegung” des § 5 Abs. 2 HWiG in der Folge der
“Heininger” – Entscheidung des EuGH, in WM, 2002, pp. 529-535; Knott, Die Rückabwicklung von Realkreditveträgen bei Widerruf nach dem Haustürwiderrufsgesetz, in WM, 2002, pp.
49-55; Kulke, Haustürwiderrufsrecht und Realkreditvertrag, in ZBB, 2002, pp. 33-50; Staudinger, Der Widerruf bei Haustürgeschäften; eine unendliche Geschichte, in NJW, 2002, pp.
653-656; Strube, Die Auswirkungen des Urteils des EuGH vom 13.12.2001, Rs. C-481/99 (Heininger c. Bayerische Hypo- und Vereinsbank AG), in VuR, 2002, pp. 55-57, e Reiter-Methner, Anwendbarkeit des Haustürwiderrufsgesetzes auf Kreditverträge – Stärkung des Verbraucherschutzes oder Rechtstheorie, in VUR, 2002, pp. 90-93. V. anche Singer, Widerrufsdurchgriff bei Realkreditverträgen? – Zu den Folgen der “Heiniger”- Entscheidung des EuGH und
BGH für das deutsche Verbraucherkreditrecht, in DZWIR, 2002, pp. 221-227 e Rörig, Anmerkung zu BGH, Urteil vom 9. April 2002 – XI ZR 91/99, in Monatsschrift für Deutsches Recht (MDR), 2002, pp. 9-93.
(30) BGH, XI ZR 91/99, 9 aprile 2002, in NJW, 2002, p. 1881 e in DB, 2002, p. 1262.
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del contratto di mutuo ipotecario porta a porta. Parte della dottrina e della giurisprudenza ha manifestato le sue perplessità circa la possibilità di
conformare il § 5 HWiG al diritto comunitario (31). Diversamente, il BGH
nella decisione del caso omonimo (32), nonché in successive occasioni (33),
si è espresso in senso favorevole ad un adattamento. Ciò ha comportato
a partire dalla decisione del caso Heininger, un completo ed incondizionato riconoscimento del diritto di recesso dai contratti di mutuo porta a porta (34). Inoltre, con la Legge sulla modifica della normativa sulla rappresentanza tramite procuratori legali davanti alla Corte Superiore Regionale
(Gesetz zur Änderung des Rechts der Vetretung durch Rechtsanwälte vor den
Oberlandesgericht) (35), è venuto meno il termine di un anno per l’esercizio
del diritto di recesso in caso di mancata informazione del consumatore (§
355, comma 3°, punto 3, BGB). Da ultimo, la clausola di rinvio al § 312a è
stata a sua volta modificata in favore di una generale applicabilità del diritto di recesso ex § 312 BGB, salvi i casi in cui il tale diritto non sia già garantito da altre disposizioni di pari intensità ed effetto (36).
4. – Se sul piano formale le modifiche apportate alla disciplina codicistica tedesca hanno incrementato la tutela del consumatore, qualche perplessità rimane sull’effettività di tale tutela.
La sentenza del BGH nel caso Heininger (37), infatti, se da un lato ha
garantito al consumatore il diritto di recesso anche per i contratti di mutuo ipotecario porta a porta, tramite un’applicazione del § 5, comma 2°,
HWiG (e per i casi dopo l’entrata in vigore della SMG, §§ 312 e 312a BGB)
conforme al dettato comunitario, dall’altro ha confermato l’applicazione
rispettivamente dei §§ 3, comma 1°, HWiG e 488, comma 1°, BGB (§ 607
(31) Cfr. OLG Bamberg, in WM, 2002, pp. 537-545; LG München I, in WM, 2002, pp.
285-287; Habersack-Meyer, in WM, 2002, pp. 253, 256, 257; Hochleiner-Wolf-Gro?erichter, in WM, 2002, pp. 592, 532; Piekenbrock,-Schulze, Die Grenzen der Richtlinienkonformen Auslegung – autonomes Richterrecht oder horizontale Direktwirkung, in WM,
2002, pp. 521-524.
(32) BGH, in ZIP, 2002, p. 1075.
(33) Cfr. BGH, in NJW, 2003, p. 1390; BGH, in NJW, 2003, p. 885; BGH, in NJW, 2003,
p. 422 ss.; BGH, in NJW, 2003, p. 424; BGH, in ZIP, 2003, p. 160; BGH, in NJW, 2003, p.
199; BGH, in NJW, 2002, p. 2029; BGH, in NJW, 2002, p. 1881.
(34) Cfr. in particolare, BGH, in WM, 2003, p. 1370 e BGH, in NJW, 2003, p. 424.
(35) L. 31 luglio 2002, in BGBl., p. 2850.
(36) Per quel che attiene all’adattamento del BGH al dettato comunitario, v. tra gli altri
Reiter-Methner, Staatshaftung wegen europarechtswidriger Widerrufsregelung, in VuR,
2004, pp. 52-58 e Tonner, Probleme des novellierten Widerrufsrechts: Nachbelehrung, verbundene Geschäfte, Übergangsvorschriften, in BKR, 2002, pp. 92-99.
(37) BGH, in NJW, 2002, pp. 1881-1882. In seguito: « Heininger II ».
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
BGB vecchia versione) per quel che attiene alle conseguenze del recesso
in capo alla parte recedente (38).
In base al § 3, comma 1°, HWiG, a seguito del recesso, ciascuna delle
parti contraenti è obbligata a restituire all’altra le prestazioni ricevute, nel
caso del mutuo, comprensive di interessi pari al valore di mercato. Secondo costante giurisprudenza del BGH, una prestazione si considera ricevuta ex § 3, comma 1°, HWiG anche nel caso in cui la somma concessa a mutuo venga devoluta a terzi (nel caso di specie al venditore), senza che il
mutuatario ne abbia mai avuto la materiale disponibilità (39). Ne consegue
che, nell’ipotesi di recesso da un contratto di mutuo ipotecario concluso in
una fattispecie di vendita a domicilio, il § 3, commi 1° e 3°, HWiG conferiscono alla banca mutuante il diritto ad ottenere il rimborso dell’importo
netto della somma mutuata, oltre agli interessi al tasso di mercato (40).
Come si è avuto modo di sottolineare, la vendita speculativa di immobili avvenuta alla fine degli anni ’90 in Germania ha visto come acquirenti principalmente consumatori sprovvisti di capitale iniziale e spesso anche di adeguate competenze in materia. Evidentemente, in ragione del
combinato disposto dei §§ 1 e 3 HWiG, la maggior parte di essi si trovava,
però, nell’impossibilità materiale di esercitare il diritto di recesso, non potendo far fronte alle connesse obbligazioni restitutorie (41).
5. – Al fine di discutere gli effetti del recesso dal contratto di mutuo
sul contratto di acquisto dell’immobile, è necessario effettuare alcune
premesse sulla disciplina dei contratti collegati (verbundene Verträge), regolata, per la casistica antecedente al gennaio 2002, dal § 9 VerbrKrG,
nonché attualmente dal § 358 BGB (42). Secondo quanto disposto dai suddetti articoli, condizione necessaria e sufficiente al fine di considerare due
(38) Cfr. BGH, in ZIP, 2002, p. 1075 ss. Ciò risulta anche compatibile con il dettato comunitario. Ex art. 7 della dir. CEE 85/577, infatti, la disciplina relativa alle conseguenze del
recesso dai contratti porta a porta è materia di regolamentazione del legislatore nazionale.
(39) Cfr., per es., BGH, in NJW, 2003, p. 422. In tal senso anche Knott, op. cit., pp.
49-51.
(40) Cfr. BGH, in NJW, 2003, p. 885 e BGH, in NJW, 2003, p. 422.
(41) L’obbligo di restituzione ex § 488 BGB e § 3, comma 2°, HWiG rischia di fatto di
frustrare l’esercizio del diritto di recesso stesso, dal momento che il consumatore, privo di
un capitale iniziale e in possesso di un immobile di valore inferiore all’ammontare del mutuo, difficilmente potrebbe far fronte a suddetti obblighi restitutori tramite la vendita del
bene o la richiesta di un nuovo mutuo ipotecario a condizioni più favorevoli.
(42) In merito, Billinger, op. cit., p. 23 ss.; Rust, Rückabwicklung nach Widerruf, in
http://www.uni-leipzig.de/bankinstitut/dokumente/2005.21.02.pdf.
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911
negozi collegati tra loro è la presenza di una comune identità economica
(wirtschaftliche Einheit) (43). È importante sottolineare che i casi più controversi tuttora in esame del BGH e della Corte Europea (44) hanno avuto
luogo prima del 2001, implicando, secondo quanto previsto dal § 19 VerbrKrG, l’applicazione dei §§ 3 e 9 VerbrKrG.
Qualora il contratto di mutuo e quello di acquisto fossero considerati
collegati, in applicazione delle predette norme, il recesso dal primo
estenderebbe i suoi effetti anche al secondo. In virtù di ciò, nel caso in
cui la somma concessa a credito sia stata giá pagata al venditore dell’immobile, il mutuante istituto di credito, ex § 9, n. 2, VerbrKrG, verrebbe
ad acquisire i diritti e i doveri del venditore (45). Il mutuatario, d’altro
canto, sarebbe pertanto tenuto nei confronti di quest’ultimo, non più alla restituzione della somma presa a mutuo e dei corrispettivi interessi
maturati, bensì alla consegna dell’immobile, unitamente al pagamento
per l’uso frattanto goduto del bene (46). Come è stato sottolineato dalla
Corte Regionale di Bochum (Landesgericht – in seguito: LG) nella causa
Schulte c. Badenia (47) sarebbe parimenti possibile, anche senza far riferimento al § 9 VerbrKrG, ritenere, sulla base del principio dell’unità eco(43) Secondo il § 358, comma 2°, BGB, e il § 9 VerbrKrG, sussiste un’unità economica
quando il mutuante benefici della cooperazione del venditore per la preparazione ovvero la
conclusione del contratto di mutuo.
(44) Cfr. LG Bochum, 1 O 795/02; Corte CE, causa C-350/03, Schulte c. Badenia, 25 ottobre 2005. V. anche per quel che concerne l’acquisto di quote di comproprietà la decisione
del BGH, II sez., causa ZR 327/04, 12 dicembre 2005 conseguente alla decisione della Corte CE, causa C-229/04, Crailsheimer Volksbank c. Schulze, 25 ottobre 2005.
(45) Ex § 3 HWiG, in conseguenza del recesso, ognuna delle parti contrattuali è tenuta
a restituire la prestazione ricevuta. Il mutuante ha pertanto diritto ad ottenere l’ammontare
del mutuo, mentre il compratore ha diritto nei confronti del venditore alla restituzione del
prezzo di vendita, che quest’ultimo ha ricevuto dalla banca (ammontare del mutuo). Dal
momento che a seguito dell’applicazione del § 9, comma 2°, punto 4, VerbrKrG il mutuatario diventa titolare dei diritti e degli obblighi del venditore (nel caso di specie: restituzione
del prezzo di vendita), le somme rispettivamente dovute si conguaglierebbero, facendo venir meno le reciproche obbligazioni di dare ed avere. Il mutuante, in tal caso, riceverebbe
l’immobile quale corrispettivo della restituzione del prezzo di vendita.
(46) Cfr. Becher, Die wirtschaftliche Einheit zwischen Realkreditvertrag und Finanziertem
Grundstückskaufvertrag, in BKR, 2002, pp. 931-938; Dauner-Lieb, Verbraucherschutz bei verbundenen Geschäften (§ 9 VerbrKrG), in WM (Sonderbeilage) 1991, p. 29 ss.; Hoffmann, Hasutürwiderruf bei Relakreditenund verbundenes Grundstücksgeschäft, in ZIP, 2002, pp. 10661075; Müller-Lutz, Rückabwicklung von Darlehensverträgen und verbundenen Anlagefindbeitritten, in VuR, 2005, pp. 81-91; Reiter-Methner, Einzelheiten zur Anwendbarkeit des
Haustürwiderrufsgesetzes auf Immobilienkreditverträge, in VuR, 2002, pp. 316-320.
(47) LG Bochum, 1 O 795/02.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
nomica tra i due contratti, che il recesso da uno di essi implichi a sua volta l’invalidità (per mancanza di causa) dell’altro, dal momento che il fine
di tutela della disposizione relativa al recesso impone di non far pesare
sul mutuatario le conseguenze negative dell’esercizio del diritto.
Nel caso specifico delle Schrottimmobilien, questa soluzione favorirebbe gli interessi del consumatore / acquirente, il quale non solo eviterebbe
la restituzione del mutuo, ma potrebbe anche disfarsi dell’immobile stesso (48). Una simile soluzione sembrerebbe anche conforme alla necessità
di tutelare il compratore, nella sua posizione di contraente debole, in
virtù della stretta collaborazione tra banca mutuante e venditore, almeno
per quel attiene alle modalità della concessione del mutuo e alle condizioni di finanziamento. Da ultimo, è possibile argomentare in favore dell’applicabilità del § 9 VerbrKrG anche considerando la connessione tra
contratto di acquisto e contratto di mutuo, i quali risultano inevitabilmente legati l’uno all’altro a tal punto che in mancanza del primo, il secondo non avrebbe avuto luogo.
Guardando al dettato normativo, però, ex § 3 comma 2°, punto 2 VerbrKrG, i crediti garantiti da ipoteca su un immobile sono esplicitamente
esclusi dall’applicazione della normativa sui contratti collegati. Unica eccezione a tale regola, peraltro non applicabile al caso delle Schrottimmobilien, data la presenza della società di intermediazione, è ammessa nel caso in cui il mutuante assuma le vesti del venditore (49). Anche il BGH si è
fino ad ora strettamente attenuto alle disposizioni di cui sopra, rigettando
un’interpretazione analogica del § 9 VerbrKrG e rigettando il riconoscimento della comune identitá economica dei due contratti, con conseguente applicazione del § 3 HWiG (50). A seguito di questa, peraltro contrastata, giurisprudenza, il recesso dal contratto di mutuo non produce alcun effetto sul contratto di acquisto dell’immobile, nonostante le conseguenze negative, peraltro note alla Corte, per quel concerne l’esercizio
del diritto stesso in capo al consumatore (51).
(48) Nel caso in cui l’ammontare del mutuo al momento dell’esercizio del diritto di recesso sia stato corrisposto al mutuatario e non al venditore, la regola dei contratti collegati
ex § 9, comma 2°, punto 3 VerbrKrG e § 7 III HWiG non sarebbe applicabile. In tal caso, il
mutuante ex § 7, comma 3°, VerbrKrG sarebbe tenuto comunque alla restituzione della
somma entro due settimane dall’avvenuto recesso dal contratto.
(49) In merito, BGH, in NJW, 2000, pp. 3065-3066. Sul tema, anche Dauner-Lieb, op.
cit., p. 17; Lange, Widerrufsrecht, Realkredite /« Heininger II » – Kurzkommentar, in EWRiR,
2002, pp. 523-524 e Rust, op. cit., p. 4 ss.
(50) Cfr. BGH, in NJW, 2002, pp. 1881-1884.
(51) BGH, in WM, 1999, p. 724.
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6. – Le numerose critiche sollevate da dottrina e giurisprudenza (52)
pongono a loro fondamento la limitata tutela del consumatore che la restrittiva applicazione da parte del BGH delle norme sui contratti collegati
offre nei casi di vendita di Schrottimmobilien. A tale riguardo, il giudice di
rinvio nel caso Schulte c. Badenia deduce che l’obbligo di rimborso che discende da detta interpretazione, implica, per il consumatore che abbia
concluso un contratto di mutuo e che eserciti il diritto di recesso in
conformità alle vigenti norme, una situazione di fatto meno favorevole,
sul piano economico, dell’ipotesi di mantenimento del contratto stesso.
Infatti, il mantenimento dell’obbligo di rimborso immediato ed integrale
del mutuo, potendo provocare l’insolvibilità del consumatore, dissuaderebbe quest’ultimo dall’esercizio del diritto di recesso stesso, riconosciutogli dalla direttiva CE 85/577 all’art. 5 (53).
Si ripropone, pertanto, la questione di compatibilità del diritto tedesco
vigente con il dettato comunitario. In particolare, parte della dottrina ha
auspicato una più ampia applicazione della disciplina dei contatti collegati sulla base dell’obbligo per gli Stati membri di adottare le direttive in
conformità all’effect utile, avendo quindi particolare riguardo alle finalità
delle stesse nel contesto comunitario (54). Secondo questa interpretazione, l’attuale combinato disposto dei §§ 3 HWiG e 3, commi 2° e 9°, VerbrKrG sarebbe contrario alla direttiva stessa, inibendo di fatto l’esercizio
del diritto di recesso.
In contrasto a questa interpretazione, è giusto far presente che a differenza del contratto di mutuo, il contratto di compravendita di un immobile, al fine della sua validità, necessita ex § 311b, comma 1°, punto 1, BGB di
un rogito notarile, che ne impedisca la conclusione in una situazione porta
a porta. La presenza del notaio assicura una tutela all’acquirente, dando la
possibilità allo stesso di consultarsi in merito alle caratteristiche dell’im-
(52) Cfr. Singer, op. cit., p. 225 e LG Bochum, 1 O 795/02, punto 5.
(53) Cfr. Hoffmann, op. cit., in ZIP, 2004, pp. 49-50 e Tonner, in BKR, 2002, pp. 858860.
(54) Cfr. Fischer, op. cit., pp. 8-10 e Strube, op. cit., pp. 938-942. Cfr. conclusioni dell’Avvocato Generale Philippe Léger, causa C-350/03, 28 settembre 2004, punti 90 ss. L’Avvocato sottolinea come l’intento di garantire l’effettività del diritto comunitario induca la
Corte di Giustizia, quando la disposizione dia adito a diverse interpretazioni, a preferire
quella che sia anche maggiormente idonea a salvaguardare l’effetto utile. V. ad es., causa C129/94, Ruiz Bernaldez, I-1829, 28 marzo 1996, punto 19, nonché causa C-403/99, Italia c.
Commissione, I-6883, 4 ottobre 2001, c. 28. Tale giurisprudenza, però, si applica, per definizione, quando la norma dia adito ad incertezze interpretative, circostanza non presente nel
caso di specie (art. 3, comma 2°, lett. a della direttiva CEE 85/577).
914
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
mobile e alle condizioni dell’acquisto (55). Accollare alla banca, che non ha
né proposto né direttamente offerto l’immobile sul mercato, la responsabilità per le negative conseguenze dell’acquisto potrebbe apparire sotto questa ottica, eccessivo, considerando che, come sottolineato dal BGH nonché da esponenti della dottrina, la direttiva CE 85/577 si ripropone di tutelare il consumatore « colto alla sprovvista » al momento della conclusione
del solo contratto porta a porta (56). L’esplicita esclusione ex art. 3, comma
2°, della direttiva dei contratti di compravendita di immobili dall’ambito di
applicazione dell’art. 5 della stessa si giustifica proprio in ragione delle modalità di conclusione di siffatto contratto, atte di per sé a tutelare il consumatore tramite la presenza del notaio, quale autorità competente. La discussione in merito è stata di recente oggetto di pronuncia della Corte di
Giustizia Europea, interpellata sul punto dal LG Bochum e LG Bremen.
7. – Nel corso del giudizio di rinvio, le opinioni contrastanti della
Commissione Europea e dell’Avvocato Generale hanno dato adito a proposte di riforma in favore del consumatore, tuttora oggetto di dibattito.
La Commissione Europea si è decisamente schierata a favore del consumatore, criticando acerbamente la restrittiva applicazione della disciplina dei contratti collegati adottata dal BGH (57). Sebbene la normativa tedesca non rappresenti una deliberata violazione del dettato comunitario,
essa di fatto si pone in contrasto con il fine e lo scopo della direttiva CE
85/577, in base alla quale il consumatore deve essere lasciato incolume da
ogni danno o conseguenza negativa derivanti dall’esercizio del suo diritto
di recesso (58).
Di differente avviso l’Avvocato Generale Philippe Léger (59), il quale,
(55) Cfr. BGH, in WM, 2003, pp. 2184-2185 e Becher, op. cit., pp. 931-933.
(56) Cfr. art. 3, comma 2°, direttiva CEE.
(57) Cfr. lettera della Comm. CE alla Corte CE, dicembre 2003, in DZWiR, 2004, p. 109 ss.
(58) Cfr. lettera della Comm. CE, punto 35. Cfr. anche Reiter-Mether, in BKR, 2004,
pp. 169-172. Secondo l’opinione della Commissione, il recesso dal contratto di mutuo dovrebbe comportare automaticamente l’annullamento per impossibilità sopravvenuta del
contratto di compravendita immobiliare, dal momento che il consumatore aveva fatto affidamento sulla redditività dell’immobile al momento della conclusione di entrambi. Cfr. lettera della Commissione, c. 36. Ciò comporterebbe la restituzione, ex § 818 I BGB, da parte
della parte recedente dell’immobile alla banca, surrogatasi nella posizione del venditore.
Secondo parte della dottrina questa soluzione non sarebbe compatibile con l’attuale normativa vigente. Cfr. Burgeroth, in WM, 2004, p. 1505 e Knott, in WM, 2003, pp. 49 e 53.
(59) Conclusioni dell’Avvocato Generale Philippe Léger, comunicato stampa n. 68/04,
28 settembre 2004, causa C-350/03.
SAGGI
915
pur notando che la tutela del consumatore imporrebbe che il recesso dal
contratto di mutuo incidesse parimenti sulla validità di quello di compravendita immobiliare, ricorda che la direttiva è univoca circa la sua inapplicabilità a questa tipologia di contratti. In tale sede, il Governo tedesco ha
a sua volta argomentato a sostegno dell’attuale legislazione, alla quale, in
ossequio all’art. 7 della direttiva, spetta la competenza in merito alle conseguenze del recesso (60).
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, recentemente espressasi sulla questione, nella sua decisione del caso Schulte c. Badenia sembra sostenere l’opinione dell’Avvocato Generale (61). Nelle sue linee essenziali, la Corte conferma l’esclusione dei contatti di compravendita di
immobili dalla sfera di applicazione della direttiva CE 85/577, secondo
quanto previsto dall’art. 3, comma 2°, lett. a della stessa, « ancorché essi
siano mera parte integrante di un investimento finanziario il cui finanziamento sia garantito mediante mutuo e le cui trattative precontrattuali,
tanto in relazione al contratto di vendita dell’immobile, quanto al contratto di mutuo diretto esclusivamente al finanziamento, vengano svolte nel
contesto di un’operazione di vendita a domicilio » (62).
Inoltre, la Corte CE ribadisce che la direttiva 85/577 non osta a che il
consumatore che abbia esercitato il suo diritto di recesso sia obbligato a
restituire l’intero ammontare del mutuo, comprensivo di interessi, anche
se il mutuo sia diretto al solo finanziamento dell’immobile e l’importo
venga pertanto corrisposto direttamente al venditore. Nel caso in cui la
banca, però, non abbia dato al consumatore corretta informazione circa il
suo diritto di recesso, in tal modo impedendogli di prendere una decisione “informata” e razionale circa i rischi connessi all’investimento stesso,
sarà compito del legislatore nazionale introdurre norme atte a salvaguardare gli interessi del consumatore ed ad evitare che quest’ultimo si trovi
esposto alle conseguenze della realizzazione dei rischi medesimi.
8. – Per quanto concerne gli effetti del recesso dal contratto di mutuo
sul contratto di compravendita immobiliare, la decisione della Corte CE
supporta l’attuale giurisprudenza del BGH, contraria all’applicazione della disciplina ai contratti collegati. Se da un lato questa decisione pone fine
al dibattito dottrinale circa la compatibilità della normativa tedesca, prima
e dopo la riforma del diritto delle obbligazioni, con il dettato comunitario,
(60) Cfr., in ZBB, 2004, p. 161 ss.
(61) Corte CE, causa C-350/03, 25 ottobre 2005.
(62) Id., p. 104 ss.
916
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
ci si può chiedere se nonostante l’avvenuta legittimazione sia possibile, o
preferibile, in ragione della tutela del consumatore, una diversa applicazione dei disposti normativi.
Nonostante il BGH si sia più volte espresso in senso contrario a una
modifica della prassi attuale (63), esponenti della dottrina hanno sottoposto al vaglio diverse possibili soluzioni interpretative (64). Un’ampia applicazione della regola dei contratti collegati si potrebbe ottenere in sede di
interpretazione analogica del § 9 VerbrKrG, considerando il requisito dell’unità economica già soddisfatto dal nesso teleologico tra i due contratti
di mutuo e di compravendita, dal momento che il primo risulta concluso
in funzione del secondo e viceversa. Sul punto, però, il legislatore, con
l’abrogazione del § 491, comma 3°, punto 1, BGB e l’introduzione del §
358, comma 3°, punto 3, BGB sembra aver posto chiari limiti alla definizione di « unità economica » tra i due contratti, onde evitare una generalizzata applicazione del § 358, comma 2°, BGB.
Altri esponenti della dottrina hanno suggerito un’interpretazione più
favorevole al consumatore dei §§ 357, 346, commi 1° e 3°, BGB, disciplinanti le conseguenze dell’esercizio del diritto di recesso (65).
Secondo questa proposta, il consumatore dovrebbe restituire la parte
del credito non ancora ammortizzato alla banca, la quale, a sua volta, dovrebbe rifondere il mutuatario degli interessi già pagati. Per quel che concerne gli interessi al valore di mercato, il consumatore sarebbe obbligato
al pagamento, ex § 346, comma 3°, punto 2, BGB, solo nei limiti dell’arricchimento conseguito a seguito del mutuo, e cioè nei limiti dell’ammontare corrispondente alle rendite percepite dalla locazione dell’immobile. Questa soluzione risulterebbe economicamente vantaggiosa per il
consumatore, dal momento che tali rendite, a ragione della precarietà del
bene locato, potrebbero risultare di gran lunga inferiori all’ammontare
degli interessi annuali di mercato maturati. Inoltre, come sottolineato dalla dottrina, questa soluzione farebbe sì che la banca si accollasse le perdite associate al recesso dal contratto di mutuo e il consumatore le perdite
risultanti dall’acquisto dell’immobile ad un prezzo eccessivo rispetto al
valore di mercato (66). Nonostante gli evidenti vantaggi di questa proposta, secondo quanto stabilito dal § 488 BGB, il consumatore rimarrebbe
(63) Cfr. BGH, in MW, 2003, pp. 2184-2186.
(64) Cfr. Hoffmann, in ZIP, 2002, pp. 1066-1071.
(65) Cfr. Schulte-Nölke, Verbraucher als Opfer des Verbraucherschutzes?, in Zeitschrift
für das gesamte Schuldrecht (ZGS), 2005, p. 281 ss.
(66) Cfr. Schulte-Nölke, op. cit., p. 282.
SAGGI
917
comunque obbligato a restituire l’intero ammontare del mutuo. In questo
caso, facendo appello al § 242 BGB, sarebbe possibile dare al consumatore la possibilità di corrispondere ratealmente il restante debito, nelle modalità originariamente concordate nel contratto di mutuo (67).
9. – Se per quel che concerne la disciplina dei contratti collegati la decisione della Corte CE non pone problemi di armonizzazione con la normativa nazionale tedesca, difficoltà interpretative ed applicative insorgono
relativamente alla responsabilità della banca. Se il consumatore fosse stato informato in tempo utile dalla banca sui rischi dell’investimento, avrebbe potuto ritornare sulla propria decisione ed eventualmente evitare di
procedere con il rogito. In tal caso, la Corte di Giustizia CE ha sottolineato nell’obiter dictum la necessità per gli Stati membri di predisporre misure di tutela atte ad evitare che il consumatore debba rispondere dei danni
causati dal comportamento reticente dell’istituto di credito. I suddetti
danni comprendono il prezzo d’acquisto dell’immobile, per l’ammontare
eccedente il valore di mercato dello stesso, il venir meno delle rendite auspicate, nonché l’ammontare degli interessi maturati sulla somma presa a
mutuo fino all’esercizio del diritto di recesso.
Di fatto, la Corte CE in questa circostanza sembra voler suggerire
una nuova ed estensiva forma di tutela del consumatore, facendo gravare
sulla banca l’obbligo di risarcimento del danno subito da quest’ultimo,
inteso come diretta conseguenza del mancato avviso (68). La proposta soluzione, però, pone non pochi problemi di compatibilità con il dettato
normativo tedesco. Teoricamente, le pretese risarcitorie del consumatore
potrebbero essere fatte valere in sede di responsabilità per violazione degli obblighi contrattuali, ex § 280, comma 1°, BGB, o di responsabilità
precontattuale, più generale culpa in contraendo, ex § 311, comma 1°,
BGB.
I §§ 312, 355 ss. BGB, nonché i §§ 1 ss. HWiG, però, non impongono
alla banca un esplicito obbligo di informativa circa i rischi connessi alla
conclusione del contratto di mutuo ipotecario e del contratto di compravendita. Da ciò si evince che secondo il diritto tedesco l’obbligo di informazione è considerato alla stregua di un obbligo secondario riconducibile
alla natura e alle caratteristiche del rapporto contrattuale (Obligenheit), e
(67) Cfr. in proposito Strube, in BKR, 2002, pp. 938-943 e Reiter-Methner, in VuR,
2004, pp. 52-54. In senso contrario, BGH, in ZIP, 2002, pp. 1075-1080.
(68) Cfr. Derleder, Anmerkung zu EuGH Urteil C-229/04 von 24.10.2005, in BKR, 2005,
pp. 442-450.
918
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
non di un obbligo primario trovante riscontro nell’esplicito dettato codicistico (Rechtspflicht).
Dal momento che il risarcimento del danno ex §§ 282, 280 e 241, comma 2°, BGB è previsto solo in seguito alla violazione di un obbligo primario, le predette norme non potranno essere invocate nel caso in questione. Al contrario, nella fattispecie troverà applicazione il § 355, commi 2° e
3°, BGB, il quale prescrive, nel caso di mancata informativa da parte della banca, il venir meno del termine di esercizio del diritto di recesso, fissato rispettivamente in due settimane dall’avvenuta comunicazione scritta da parte della banca e sei mesi dalla conclusione del contratto. Inoltre,
ex § 357, comma 3°, BGB, in tali casi non troverà applicazione il § 346
BGB, disciplinante gli effetti del recesso.
Anche volendo ammettere il risarcimento del danno sulla base di
quanto disposto dal § 276 BGB, la responsabilità dell’istituto di credito
potrebbe sussistere solo in presenza di un comportamento colpevole di
quest’ultimo, inteso, anche in questo caso, come esplicita violazione di un
obbligo contrattuale o imposto dalla legge (69). In ogni caso, in ossequio al
principio di causalità, la banca verrebbe a rispondere dei danni derivanti
dall’acquisto dell’immobile solo nel caso in cui il contratto di compravendita fosse concluso prima del contratto di mutuo, dal momento che solo
in questo caso le informazioni date dalla banca avrebbero eventualmente
potuto incidere sulla decisione del consumatore di procedere all’acquisto
dell’immobile (70).
10. – Come si evince dai risultati dell’analisi intrapresa, per quel che
concerne la validità del contratto di compravendita e l’applicazione della
disciplina dei contratti collegati, la Corte non ha riscontrato nessuna evidente incongruenza tra il dettato normativo nazionale e quello comunitario, legittimando l’attuale giurisprudenza del BGH. Lo stesso si può dire
per le conseguenze del recesso dal contratto di mutuo, stando la conferma
dell’obbligo di restituzione dell’ammontare del mutuo comprensivo di interessi. La Corte CE, d’altro canto, si è espressa in senso più favorevole al
(69) Cfr. Hoffmann, Die EuGH-Entscheidung “Schulte” und « Crailsheimer Volksbank ».
Ein Meilenstein für den Verbraucherschutz beim kreditfinanzierten Immobilienerwerb?, in ZIP,
2005, pp. 1986-1991.
(70) Sul punto, Staudinger, in NJW, 2005, pp. 3521-3523. Cfr. anche Thume-Edelmann, op. cit., p. 483. Il mutuatario ha l’onere di provare che nel caso in cui la banca avesse correttamente fornito le informazioni relative ai rischi connessi all’investimento, egli
avrebbe esercitato il suo diritto di recesso dal contratto di mutuo o, quantomeno, avrebbe
evitato di concludere il contratto di compravendita.
SAGGI
919
consumatore per quel che attiene all’allocazione dei rischi connessi alla
conclusione dell’investimento immobiliare, nel caso in cui la banca abbia
omesso di informare il consumatore in merito all’esistenza di tali rischi o
circa la possibilità di esercitare il diritto di recesso. In tale circostanza, in
base a quanto suggerito dalla Corte, la banca dovrebbe ulteriormente risarcire il consumatore per i danni subiti in seguito alla conclusione del
contratto di compravendita, comprendenti l’ammontare corrispondente
alle mancate locazioni degli immobili, nonché una somma pari alla differenza tra il prezzo d’acquisto dell’immobile e il suo valore di mercato.
Sulle prime due questioni, questa pronuncia, sebbene non risponda
alle aspettative dei consumatori, non pone alcun problema di compatibilità con l’attuale normativa tedesca e con le norme in vigore, confermando l’autorevole presa di posizione del BGH in merito. La questione di
compatibilità tra la sentenza della Corte di Giustizia nel caso Sculte c. Badenia e l’attuale normativa tedesca, però, sembra essersi ulteriormente intensificata a seguito delle recenti discordanti pronunce del BGH tedesco.
Le maggiori difficoltà di adattamento si riscontrano per quel che attiene al
diritto del consumatore ad ottenere il risarcimento del danno da parte della banca, subito a seguito dell’acquisto dell’immobile. La soluzione auspicata dalla Corte nella sentenza dell’ottobre 2005 vuole addossare all’istituto di credito i rischi dell’investimento finanziario concluso porta-a-porta,
offrendo in tal modo, una più ampia tutela degli interessi del consumatore. Mentre, in ossequio a tale pronuncia, il OLG Bremen, nella sua sentenza del marzo 2005 nel caso Crailsheimer Volksbank si è espresso in favore del consumatore, obbligando la banca al risarcimento del danno in
ammontare pari a circa 75.000 Euro (71), il BGH appare più cauto in merito. In particolare, dubbi sussistono in merito alla possibilità di fondare
una pretesa di risarcimento dei danni, specialmente considerando l’inapplicabilità della disciplina dei contratti collegati ai contratti di acquisto di
immobili e di relativo finanziamento (72). Come sottolineato, nel caso di
(71) Sent. 2 U 20/02, 3 marzo 2006.
(72) Cfr. Thume-Edelmann, Keine Pflicht systemwidrigen richtlinienkonformen Rechtsfortbildung – zugleich Besprechung der Urteil des EuGH vom 25.20.2005 in den Rechtssachen
C-229/04 (“Schulte”) und C-350/03 (« Crailsheimer Volksbank »), in BKR, 2005, p. 482. Cfr.
anche Hoffmann, Verbundene Geschäfte auch beim Realkredit: Die Auswirkungen der EuGHUrteil « Schulte/Badenia » und « Crailsheimer Volksbank », in BKR, 2005, pp. 487-496. A questa conclusione sembra essere giunto anche il BGH tedesco in una sua recente sentenza
BGH, II sez., causa ZR 327/04, 12 dicembre 2005. Le stesse perplessità persistono anche per
i casi insorti prima del gennaio 2002 e soggetti alla disciplina del VerbrKrG e del HWiG.
Ciò anche nel caso di contratti collegati, come, per esempio, quello di acquisto si un’auto-
920
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
mancata informativa da parte della banca l’attuale normativa in vigore
non sembra supportare l’applicazione della disciplina dei §§ 280 e 249
BGB, ma soltanto l’esimente prevista dal combinato disposto dei §§ 357 n.
3 e 346 BGB. Pertanto, in virtù delle norme in esame, al consumatore potrà essere concesso di esimersi solo dal pagamento degli interessi maturati sulla somma presa a mutuo fino all’esercizio del diritto di recesso.
Volendo fare un bilancio della situazione, le due sentenze della Corte
di Giustizia Europea non hanno intaccato in modo significativo la giurisprudenza della XI Sezione del BGH, almeno per quel che concerne l’applicabilità della disciplina dei contratti collegati, nonché le conseguenze
dell’esercizio del diritto di recesso dal contratto di mutuo ipotecario. In
una sua recente sentenza, però, la XI Sezione del BGH, contrariamente
alle aperture dimostrate dalla II Sezione (73), si è espressa in modo oltremodo restrittivo per quel che attiene al diritto del consumatore al risarcimento del danno nel caso di mancata informativa della banca in merito al
possibile esercizio di quest’ultimo del diritto di recesso. Fermo restando
l’inapplicabilità del § 358 BGB, il BGH ha precisato che anche in questo
caso, il consumatore potrà esimersi dalla restituzione del credito alla banca, comprensivo di interessi, solo in presenza di un inganno fraudolento
in merito al valore effettivo dell’immobile perpetrato a suo danno dal venditore (ärglistig getäuscht), il quale a sua volta ed in ragione delle circostanze, non avrebbe potuto essere stato ignorato dalla banca al momento
della conclusione del contratto di finanziamento (74).
Fino ad ora, il dibattito dottrinale ha visto alcuni esponenti propendere per un’applicazione, seppur marginale, della disciplina del risarcimento
vettura e di finanziamento della stessa per il tramite della stessa concessionaria. In tal caso,
secondo quanto disposto dai § 9 VerbrKrG, la banca non dovrà farsi carico delle spese di riparazione, nel caso in cui, diversamente da quanto contrattualmente concordato, l’autovettura risulti difettosa o inadatta all’uso prescritto. Un’altra questione concerne l’applicazione, in caso di evidenti vizi strutturali dell’autovettura, del § 9, comma 3°, VerbrKrG, con
conseguente diritto del consumatore di interrompere il pagamento delle restanti rate del
mutuo. Una simile soluzione sarebbe giustificabile in ragione della stretta unità economica
dei due contratti, non dipendendo, peraltro dall’avvenuta informativa da parte della banca.
Il BGH si e´invece espresso in favore dell’applicabilità della disciplina dei contratti collegati nel casi di acquisto in una situazione porta-a-porta da parte del consumatore di quote di
un fondo immobiliare finanziate, anche in questo caso, tramite un contratto di mutuo ipotecario. Cfr. BGH, II sez., cause ZR 392/01, ZR 395/01, ZR 374/02, ZR 385/02, ZR 392/02 e
ZR 407/02, 14 giugno 2006.
(73) BGH, II sez., causa ZR 387/02, 21 luglio 2003.
(74) BGH, XI sez., causa ZR 6/04, 16 maggio 2006.
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921
danni ai soli casi in cui il contratto di mutuo sia stato effettivamente concluso fuori dai locali commerciali, in ragione dell’evidente esigenza di tutela del consumatore in tali frangenti. Negli casi, invece, in cui le sole trattative siano state svolte in una situazione porta a porta, una responsabilità
per culpa in contrahendo della banca ex artt. 280, 249 e 311 BGB dovrebbe
considerarsi esclusa (75).
Se, da un lato, questa proposta verrebbe artificiosamente a separare
fattispecie originariamente sottoposte allo stesso regime giuridico, comportando una non certo auspicabile spaccatura nel sistema, la recente pronuncia del BGH sembra penalizzare ulteriormente il consumatore, imponendo restrittivi obblighi probatori, atti di fatto a disincentivare l’esercizio
del diritto di recesso. L’evidente contrasto di siffatto esito sia con il dettato comunitario che con la giurisprudenza della Corte di Giustizia pone in
primo piano il problema della compatibilità dell’attuale interpretazione
del dettato normativo da parte dei tribunali nazionali con il più ampio obbiettivo di tutela del consumatore nelle sue vesti di contraente debole. Un
equo risultato, atto a responsabilizzare il consumatore, ma allo stesso
tempo a proteggerlo contro eventuali abusi perpetrati a suo danno, potrà
essere raggiunto solo tramite una corretta e mirata allocazione dei rischi
tra i contraenti, la quale dia al consumatore e alla banca rispettivamente
incentivi ad un’accurata valutazione delle conseguenze delle proprie scelte e al rispetto delle regole di fairplay e buona condotta. Per il momento,
la giurisprudenza suprema tedesca sembra propendere per un’applicazione restrittiva del dettato normativo, favorevole, di fatto, agli istituti di credito bancario, ma di dubbia efficacia ai fini della protezione degli interessi dei contraenti deboli.
(75) Cfr. Hoffmann, op. cit., in BKR, 2005, p. 490.
ANTONIO ALBANESE
Il rapporto tra restituzioni e arricchimento ingiustificato
dall’esperienza italiana a quella europea
Sommario: 1. Un problema europeo. – 2. L’influenza del sistema francese. – 3. L’influenza
del sistema germanico. – 4. L’influenza del common law. – 5. Il sistema italiano: commistione e complementarità delle obbligazioni restitutorie. – 6. I requisiti dell’azione
di arricchimento nel modello anglo-tedesco. – 6.1. La sussidiarietà. – 7. I Principles of
European Unjustified Enrichment Law.
1. – Non è eccessivo definire le restituzioni come il prodotto più incerto della lunga evoluzione storica del pensiero giuridico: dopo aver giocato
un ruolo fondamentale presso i romani, in epoca moderna hanno a lungo
risentito della preminenza del contratto e del fatto illecito, fino a risvegliare un interesse crescente nei giuristi di common law e nella dottrina tedesca negli ultimi decenni del secolo appena trascorso e, infine, quello dei
giuristi appartenenti ai sistemi di derivazione francese.
In Italia, la riscoperta è forse, ma si tratta di una considerazione più intuitiva che razionale, in fase di avvio: se questo fosse vero, sarebbe in
buona parte attribuibile ad un fenomeno di circolazione dei modelli. Tuttavia, il processo di “omogeneizzazione” che è in corso, come noto, per
tutto il settore delle obbligazioni (1), nella branca dei rimedi restitutori ci
trova impreparati, sia per carenza di studi dogmatici specifici, sia per l’inadeguatezza delle soluzioni concrete, che da noi si ritiene, a torto, poter essere tutte riassorbite e risolte all’interno dei contratti o dei delitti.
Questo fenomeno di “omogeneizzazione” non è nuovo in epoca moderna: al modello del BGB si era ispirato, ad esempio, il sistema restitutorio sovietico, a sua volta imitato dal codice polacco (2) e da quello ungherese. L’influenza del BGB è evidente anche nei codici giapponese e cinese e nel recente codice brasiliano (entrato in vigore nel gennaio 2003),
mentre quella del common law lo è nel sistema indiano. Ancora: il Progetto italo-francese di codice delle obbligazioni del 1927, il cui art. 73 deli(1) Cfr. diffusamente Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna,
2005.
(2) Su cui v., in lingua italiana, Ohanowicz, L’azione di indebito arricchimento nel diritto
civile polacco, in Riv. dir. comm., 1961, I, p. 325 ss.
SAGGI
923
neava l’azione di arricchimento, fu una base importante per la codificazione albanese del 1927 (3), per quella rumena del 1934 e per quella greca del
1940.
Alcuni sistemi di derivazione francese si sono invece discostati dal loro modello, ed hanno disciplinato espressamente l’azione di arricchimento: cfr. artt. 6 ss. del codice marocchino del 1913; artt. 71 e 72 del codice tunisino delle obbligazioni e dei contratti del 1906; artt. 140-142 del codice
libanese del 1932.
La vitalità del principio dell’arricchimento senza causa è confermata
dunque dalla sua vigenza nel diritto positivo (o, come in Francia, nell’applicazione giurisprudenziale), sia in sistemi giuridici occidentali sia in
quelli orientali (4).
È peraltro interessante notare che, nell’ambito dei sistemi di derivazione romanistica, il modello romano-francese si caratterizza per la mancata codificazione dell’azione di arricchimento senza causa: il codice francese, il codice spagnolo, ed il codice italiano del 1865, disciplinano esclusivamente le due tradizionali figure di quasi-contratto, ossia il pagamento
dell’indebito e la gestione di affari. Il modello romano-germanico, al contrario, si caratterizza per l’assenza della categoria del quasi-contratto e per
la presenza forte di una clausola generale di arricchimento: per il codice
tedesco del 1900, al § 812, comma 1°, BGB; per il codice svizzero delle obbligazioni del 1911, all’art. 61, comma 1°, OR. Se ne può dedurre l’incompatibilità dell’arricchimento senza causa con la categoria dei quasi-contratti: ne è conferma proprio il diritto italiano, ove l’avvento del codice del
’42 ha comportato la soppressione del quasi-contratto e, parallelamente,
all’art. 2041, l’introduzione della clausola generale di arricchimento (5).
(3) L’attuale codice civile albanese, del 1994, come noto è stato redatto sulla falsariga
del vigente c.c. italiano.
(4) Per il diritto musulmano, v. Arminjon-Nolde-Wolff, Traite de droit comparé, vol.
III, Paris, 1952, p. 364; per quello sudamericano v. Fabrega Ponce, El enriquecimiento sin
causa, Santafe de Bogotà, 1996. Cfr. inoltre il recente volume Unjustified Enrichment. Key Issues in Comparative Perspective edited by Johnston and Zimmermann, Cambridge, 2002,
che raccoglie i contributi di alcuni tra i maggiori studiosi in campo internazionale dei rimedi restitutori.
(5) Cfr. Moscati, L’azione di arricchimento nelle codificazioni moderne, in L’arricchimento senza causa a cura di Mannino, Torino, 2005, p. 102 ss., il quale osserva inoltre che, in
questo quadro, rappresenta una voce fuori dal coro il codice austriaco del 1811, il quale « appare lontano tanto dal modello francese quanto da quello più recente tedesco-svizzero, facendo storia a sé ». Infatti l’ABGB non disciplina espressamente l’azione di arricchimento,
né contempla la categoria dei quasi-contratti. Detto codice, invero, sebbene disconosca una
previsione generale del principio, disciplina l’azione contro l’arricchimento che deriva al
924
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Il principio che vieta di arricchirsi ingiustamente a spese altrui, si diffuse dapprima nel diritto prussiano e nel codice civile austriaco, e in seguito nel codice civile tedesco (§ 812) e in quello svizzero delle obbligazioni (art. 62). Più recentemente, nel codice civile italiano del 1942 (artt.
2041 s.) e nel codice civile portoghese del 1966 (artt. 473-482). L’ultima codificazione dell’azione di arricchimento è quella di cui agli artt. 884-886
del nuovo codice civile brasiliano.
Il rimedio tuttora non esiste, come figura autonoma, nel vigente codice spagnolo, che regola unicamente il pagamento dell’indebito e la gestione di affari ponendoli tra i quasi-contratti, e nel codice francese. Ma sia in
Spagna sia in Francia l’arricchimento senza causa è elevato, grazie alla
dottrina e alla giurisprudenza (6), a principio generale che opera come autonoma fonte di obbligazione.
Quanto all’Italia, la stessa codificazione di un principio generale di arricchimento fu da alcuni fortemente osteggiata e, negli anni immediatamente successivi al suo avvento, aspramente criticata: vigente il codice
del 1865, quando l’azione di arricchimento viveva una (incerta) esistenza
soltanto nella dottrina e nella giurisprudenza in ossequio ad una tradizione risalente al diritto romano giustinianeo, il frequente ricorso a motivazioni di carattere metagiuridico, e in particolare ai principi di equità e di
giustizia, aveva destato forti timori in ordine alla generalizzazione di norme come quelle attinenti all’indebito, alle accessioni, alle spese sulla cosa
altrui ed altre ancora che incarnavano specifiche ipotesi di arricchimento
senza causa.
Le medesime preoccupazioni furono proprie dei giuristi francesi, dai
quali avevamo ereditato la costruzione dell’istituto, tant’è che in Francia
proprietario da spese fatte da altri sulla sua cosa (§§ 1041, 1042 ABGB) e prevede singole
condictiones (§§ 877, 1174, 1431, 1435). Cfr. Caroni, Saggi sulla storia della codificazione, Milano, 1998, p. 59.
(6) La giurisprudenza spagnola proclama apertamente di avere il merito dell’elaborazione della figura in diritto spagnolo: «el enriquecimiento injusto es institución no mencionada expresamente entre los cuasi contratos que regula el Código civil, de principal elaboración
de este Tribunal Supremo, con cierto arraigo en la legislación anterior » (S. 17 maggio 1957).
Si noti che il principio dell’arricchimento senza causa, nel diritto spagnolo, ha ricevuto di recente consacrazione anche nei testi legislativi: l’espressione «acción de enriquecimiento sin causa » è adoperata dall’art. 10.0 del riformato codice spagnolo (cfr. Tìtulo Preliminar, De las normas juridicas, su aplicación y fuentes, introdotto dalla legge n. 3 del 1973,
il quale al Cap. IV regola le norme di diritto internazionale privato) e dall’art. 65 della legge Cambiaria.
Quanto all’introduzione giurisprudenziale dell’azione di arricchimento nel diritto francese v. § 2.
SAGGI
925
l’azione di arricchimento non trova, a tutt’oggi, consacrazione nei testi di
legge, e che soltanto nel 1892 una sentenza della Camera dei Ricorsi della
Corte di Cassazione diede definitivo ingresso al rimedio quale istituto generale del diritto francese (v. § 2).
Ma se, a differenza di quello francese, l’attuale codice civile risolve in
senso affermativo la questione sull’opportunità di consacrare un principio
generale di arricchimento, rimane ancora da sciogliere il vero nodo dei rimedi restitutori: cosa far rientrare all’interno del codificato principio generale, e, in altre parole, quale sia l’utilità di una tale generalizzazione a
fronte di singole discipline che non solo sono più minuziosamente dettate, ma che spesso divergono sostanzialmente dalla regolamentazione dell’azione generale.
Si tratta di un dubbio che accomuna giuristi di diritto continentale e
giuristi di common law: anche in Paesi come Germania e Inghilterra, ove
l’azione di arricchimento ha portata maggiore che in Italia, ci si domanda
« se la reazione contro l’arricchimento senza causa costituisca un istituto
veramente unitario o se non si tratti piuttosto di una serie di mezzi di tutela singolarmente differenziati » (7).
In via di prima approssimazione, la separazione tra gli ordinamenti
che si richiamano ad un doppio sistema (ossia comprendente due pretese restitutorie distinte) e quelli che hanno accolto un sistema unitario
(nel quale azione di arricchimento ed azione di ripetizione dell’indebito
sono ricomprese all’interno di una fattispecie unitaria di arricchimento)
potrebbe essere così delineata: tra i primi, il francese, l’italiano, l’olandese e l’austriaco; tra gli altri, il tedesco, lo svizzero e, parzialmente, il
greco (8). Nel sistema inglese, poi, non è neanche scontato che si possa
parlare, tecnicamente, di un principio generale che vieta l’unjust enrichment, se la stessa House of Lords, di norma, preferisce fondare le restitutions su di una pluralità di rimedi tipici. Ma se si approfondisce l’evoluzione che i rimedi restitutori hanno avuto in questi sistemi, ogni certezza svanisce: perché mentre la dottrina tedesca, ad esempio, « si sforza di
individuare una tipologia di fattispecie di arricchimento, che concretizzi
la troppo astratta formulazione legislativa, nella Common Law avviene
l’inverso, nella misura in cui ci si sforza di enucleare dalla casistica mi(7) Ne dà atto Moscati, Fonti legali e fonti « private » delle obbligazioni, in Quaderni romani di diritto privato a cura di Angelici, Di Majo, G. B. Ferri e Masi, Padova, 2000, p. 254.
(8) Kupisch, Ripetizione dell’indebito e azione generale di arricchimento. Riflessioni in tema di armonizzazione delle legislazioni, in Europa e dir. priv., 2003, p. 858, ove anche una
spiegazione in chiave storica di questa separazione.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
nuta un principio o criterio di orientamento . . . che faccia da guida all’interprete » (9).
Evidenti sono dunque le difficoltà che si pongono, in ordine ad un’armonizzazione delle discipline nazionali degli Stati membri dell’Unione
Europea, attorno ad una futura base “europea” dei principi restitutori (10).
Alla luce della nostra attuale disciplina, in particolare, occorrerà vagliare la compatibilità delle nostre restituzioni con la visione accolta nell’ambito dei lavori preparatori svolti dallo Study Group on a European Civil Code per approntare dei Principles of European Unjustified Enrichment
Law (11); visione che sembrerebbe ispirarsi, ma non senza ambiguità, ad
una concezione unitaria di indebito ed arricchimento (12), a conferma di
un’incertezza che fa di questo tema, appunto, un problema “europeo”.
L’indagine storico-comparativistica può condurre, attraversando la secolare costruzione normativa e dottrinale, a tracciare le linee ordinatrici di
una così complessa materia, e ad esaminare, seppure per brevi accenni, il
rapporto, le contaminazioni e le influenze intercorrenti fra i tre grandi
modelli giuridici dell’età contemporanea: quello romano-francese, quello
romano-tedesco, quello inglese.
Si possono sin d’ora anticipare, quali risultati, una sorpresa (almeno
per il lettore non avvezzo a maneggiare le restituzioni) ed una conferma.
Sorprende, scoprire che, alla classica tripartizione appena esposta, è possibile sovrapporre, in materia restitutoria, una bipartizione: da un lato il sistema francese; dall’altro il sistema anglo-tedesco. Rassicura, invece, che
anche per le restituzioni, sebbene non sia ancora possibile parlare (differentemente dal contratto) di uniformità progettuale, è possibile cogliere, a
livello embrionale, un graduale processo di approssimazione tra i diversi
modelli.
Il tema è quello del rapporto tra singoli mezzi restitutori e teoria dell’arricchimento ingiustificato. È tuttavia evidente che in esso si interseca(9) Di Majo, La tutela civile dei diritti, 4a ed., Milano, 2003, p. 345.
(10) Armonizzazione stimolata dal Parlamento Europeo di Strasburgo, come risulta dalla risoluzione 15 novembre 2001, Zeitschrift für Europäisches Privatrecht (Berlino 2002), p.
634 ss., richiamata anche da Kupisch, op. cit., p. 861 s.
(11) I Principles proposti dallo Study Group (diretto da Christian von Bar) sono pubblicati sul sito internet www.sgecc.net, e sono commentati da Swann, The Structure of Liability
for Unjustified Enrichment: First Proposals of the Study Group on a European Civil Code, in
Grundstrukturen eines Europäischen Bereicherungsrechts, hg. Von R. Zimmermann, Tübingen, 2005, p. 265 ss. Cfr. anche von Bar, Il Gruppo di Studio su un Codice Civile Europeo, in
Alpa-Buccico, Il Codice Civile Europeo. Materiali dei Seminari 1999-2000, Milano, 2001.
(12) La ripetizione dell’indebito è, infatti, compresa all’interno dell’arricchimento.
SAGGI
927
no profili tra i più profondi del sistema restitutorio e dell’intera materia
delle obbligazioni, dei quali non sarà possibile dar conto in questa sede.
Si pensi alle influenze che l’indebito oggettivo italiano può vantare, persino sui sistemi francese e tedesco, in ordine all’irrilevanza dell’errore, risultando a sua volta contraccambiato dal contributo offerto dalla Saldotheorie di matrice dottrinale tedesca (13). Si pensi ai diversi riflessi, sul
tema che occupa, del principio consensualistico francese e del principio
germanico di astrazione della causa (14); o alla possibilità di ravvisare, nel
nostro ordinamento, quanto alle c.d. « prestazioni isolate », un negozio dispositivo esecutivo simile al Leistungsgeschäft austriaco; alle questioni comuni in materia di contrarietà al buon costume (15); alla tradizione (ed
evoluzione) parallele della gestione di affari nel civil law ed al principio
dello undue sacrifice in common law. Ed ancora, sul versante contrattuale:
alle teorie dell’efficient breach ed al problema della giustizia del contratto
(le restituzioni sono idonee a correggere l’autonomia contrattuale?). Sotto
il profilo delle clausole generali: alle potenzialità dell’art. 2041 c.c. in caso
di illegittima interferenza di terzi in interessi meritevoli di protezione
(13) Cfr. Albanese, L’indebito oggettivo nell’evoluzione giurisprudenziale, in Corr. giur.,
2004, p. 1369.
(14) In forza del quale, l’accipiens indebiti acquista comunque la titolarità del bene ricevuto. Ciò significa che non può più trovare spazio l’azione (reale) di rivendicazione, e che
assume un ruolo di fondamentale importanza l’azione personale: la condictio ha la funzione di permettere al solvens il recupero di quanto trasferito indebitamente, correggendo gli
inconvenienti del difetto di collegamento causale tra il negozio dispositivo ed il negozio obbligatorio. È allora evidente come la condictio sia oggi studiata in Italia da un angolo visuale differente rispetto a quello della dottrina tedesca: quest’ultima, poiché opera in un sistema in cui la mancanza di causa del negozio obbligatorio non genera la nullità dell’atto di
trasferimento, può concentrare l’analisi sulla giustificazione dell’attribuzione patrimoniale
in sé (Zuwendung). La letteratura giuridica italiana è invece segnata dall’affannosa ricerca di
spiegare quale funzione residui all’istituto della ripetizione dell’indebito, in un ordinamento nel quale all’attore sarebbe sufficiente impugnare il contratto ed esercitare l’azione di rivendicazione.
Per la situazione dei Paesi di civil law in relazione al principio consensualistico cfr.
Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, cit., p. 50, il quale spiega come, sorprendentemente, non esista una regola universale per la quale il consenso, se non accompagnato da una causa o da una consideration, debba essere accompagnato dalla traditio. Infatti: « la Danimarca accoglie il principio consensualistico, ma non annovera la causa fra i
requisiti del contratto. La Germania ripudia i contrati reali, e con ciò si contrappone ai paesi a diritto romano-francese; ma l’Austria segue quesi ultimi, con ciò rivelando un’altra divisione entro l’area romano-tedesca ».
(15) Per l’esame delle quali, rinvio ad Albanese, Illiceità, immoralità e soluti retentio, in
Corr. giur., 2005, p. 865.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
(violazione di diritti su beni immateriali o di diritti della personalità, concorrenza sleale, doppia alienazione immobiliare), oppure nei rapporti di
famiglia, in particolare in quella zona di confine tra solidarietà familiare e
squilibri patrimoniali nella quale si colloca il partner “debole”.
Si pensi, per finire, al problema, segnalatoci ancora una volta dall’esperienza comparativistica, dell’allocazione della ricchezza prodotta in assenza di danno (16). Problema che potrebbe essere grezzamente ridotto alla domanda: esiste una responsabilità senza danno? E, più in particolare:
se esiste, si tratta di una responsabilità risarcitoria o restitutoria? Ma le domande potrebbero non finire: può davvero parlarsi di un “responsabile” a
proposito dell’accipiens o dell’arricchito? Se esiste una “responsabilità restitutoria”, può essa prescindere dalla colpa? E ancora: se fosse configurabile una sorta di responsabilità oggettiva anche nella materia de qua, sarebbe equo condannare il convenuto ad indennizzare l’attore in una misura che prescinde dallo stato soggettivo del primo? Da questi elementari
(16) In Italia, la possibilità che l’arricchimento sia superiore al valore del bene o della
prestazione altrui indebitamente conseguita, ha dato vita negli anni sessanta ad una appassionata disputa in ordine al quesito sul soggetto, l’arricchito ovvero l’impoverito, al quale
deve essere attribuito tale plusvalore. La questione, sollevata incisivamente da Sacco nella
sua celebre monografia del ’59 (Sacco, L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto, Torino, 1959), coinvolge i tanti casi possibili (dal mero uso del bene altrui alla lesione di un diritto sui beni immateriali) nei quali la lesione del diritto altrui non si traduce in un danno
immediatamente percepibile: o perché manca la correlazione tra danno ed arricchimento, o
perché, addirittura, è la stessa ricerca dell’elemento danno a non trovare riscontro.
Analoghi problemi sono poi posti da una diversa fattispecie, la cui importanza è particolarmente avvertita dai common lawyers, che a tal proposito parlano di «efficient breach »:
qui si è in presenza delle parti di un contratto, una delle quali non adempie l’obbligazione
pattuita e deve pertanto rispondere del proprio inadempimento secondo i canoni della responsabilità contrattuale. Normalmente, la presenza di un valido contratto esclude di per
sé l’azione ex art. 2041 c.c., poiché l’accordo tra le parti è « giusta causa » dell’arricchimento;
può però avvenire che la parte inadempiente, pur rispondendo del proprio inadempimento,
risulti alla fine addirittura arricchita proprio per effetto dell’inadempimento medesimo, perché non adempiendo è riuscita a realizzare un risparmio di spesa o ad ottenere un guadagno superiore al danno che ha cagionato. [Segnalo, tra i tanti, un caso risolto dalla Suprema
Corte di Israele (Adras Ltd. v. Harlow6 Jones GmbH, in 104 L.Q.R., 1988, p. 383, con nota di
Friedmann. Il convenuto fu obbligato a restituire i profitti ottenuti grazie al suo breach of
contract, nonostante dalle circostanze di fatto sembrasse emergere che l’attore (parte contrattuale fedele) non avesse sofferto alcun danno]. I common lawyers ritengono che il guadagno debba essere restituito in tutti i casi di «cynical exploitation of breach for the purpose
of making a gain ». E sarebbe cinico, appunto, sciogliere il contratto con l’intenzione di stipularne un altro più conveniente (cfr. Goff-Jones, The law of restitution, London, 1966, p.
458).
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interrogativi, si dipana, infine, uno spettro più raffinato di problematiche
legate all’analisi economica del diritto (ammesso che una tale responsabilità sia equa, è essa anche economicamente conveniente?), dalle quali scaturisce un tema sorprendentemente elegante.
Di come esso si sviluppi in diritto italiano, peraltro, chi scrive si è già
occupato diffusamente (17). In questa sede, invece, è opportuno evidenziare le asimmetrie del nostro sistema rispetto agli altri diritti nazionali del
Vecchio Continente (18) e, soprattutto, rispetto a quella che appare come
una generale tendenza europea.
2. – I risultati raggiunti nella fase immediatamente precedente al nuovo codice civile dai nostri autori e palesemente recepiti dal codificatore
del ’42, furono fortemente influenzati, quando non traslati, dalle conclusioni cui era pervenuta l’esperienza francese, ove « il principio, nonostante il silenzio del codice napoleonico, si era andato radicando nel diritto
applicato in virtù di un costante confronto critico tra la dottrina e la giurisprudenza » (19). Dopo aver lungamente ignorato il problema, infatti, o al
più ritenuto di risolverlo alla luce di un adattamento dei tradizionali rimedi, condictio, actio de in rem verso e negotiorum gestio, le corti transalpine
furono costrette ad affrontare più seriamente la questione « in concomitanza al crescere anche quantitativo dei casi di trasferimenti non giustificati di ricchezza connessi al maggior sviluppo raggiunto dai traffici e dalla
vita di relazione » (20).
Il punto di rottura è rappresentato da una ormai famosa sentenza della Camera dei Ricorsi della Corte di Cassazione (21), conosciuta come arrêt
(17) Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova, 2005, pp. 353453.
(18) Queste asimmetrie andranno confrontate, in futuro, anche con le soluzioni date dagli interpreti orientali: « il nuovo che avanza non si arresta alle due sponde dell’Atlantico »,
perché « la lex mercatoria trasporta verso Occidente principi di diritto che hanno origine in
Oriente, preludendo forse al tramonto dell’egemonia occidentale » (Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, cit., p. 8).
(19) Breccia, L’arricchimento senza causa, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, vol. IX,
Obbligazioni e contratti, Torino, 1984, p. 973.
(20) Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova, 1990, p. 121.
(21) Chambre de Requêtes, 15 giugno 1892 (in Dalloz, 1892, I, p. 596, in Sirey, 1893, I, p.
381, con nota di Labbé). La Corte peraltro fece sue le conclusioni già annunciate in dottrina da Aubry-Rau, Cours de droit civil français, a cura di Bartin, vol. IX, Paris, 1920, p. 354,
i quali per primi accolsero una configurazione dell’istituto come figura autonoma. Le idee
degli stessi autori ebbero inoltre un’influenza evidente sulle massime di cui appresso nel
testo, che limitarono i confini dell’azione. I due autori citati avevano a loro volta seguito le
930
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Boudier o affaire des engrais, che, nonostante l’assenza di un’esplicita norma, consacrò l’azione di arricchimento quale istituto generale fondato direttamente sull’equità (22), svincolandolo definitivamente dalla gestione di
affari.
La controversia aveva ad oggetto la vendita, ad opera di un commerciante, di un carico di concime all’affittuario di un fondo. Al termine del
rapporto di affitto il venditore del concime, che frattanto era stato sparso
sul fondo, non aveva ancora ricevuto il pagamento dall’affittuario, in seguito rivelatosi insolvente; il venditore agì allora contro il proprietario
del fondo poiché questi, avendo infine beneficiato della fornitura dei
concimi, aveva a sua detta ricevuto un arricchimento ingiustificato, fonte
quanto meno di un obbligo di indennizzo nei limiti dell’arricchimento
medesimo. La Corte gli diede ragione, peraltro la decisione con una motivazione la cui enfasi e la cui astrattezza andavano ben al di là del modesto caso sottoposto alla sua attenzione, spingendosi alla formulazione
di un principio che, siccome basato sull’equità naturale, non poteva che
essere inteso nel senso più ampio ed elastico. Nella sua dirompente foga
innovatrice, essa tralasciò di definire i presupposti per l’operatività di una
simile azione. Al contrario, sancì solennemente che il principio in base al
quale chi si arricchisce a danno altrui è tenuto a restituire il maltolto,
« non è soggetto ad alcuna condizione predeterminata; è sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda che l’attore dimostri di aver procurato un arricchimento con proprio sacrificio o fatto alla persona nei cui
confronti si agisce ».
La sentenza, piuttosto che chiudere il dibattito, lo rinfocolò: occorreva
ora riempire di contenuti un principio potenzialmente illimitato, ricostruire i presupposti per l’operatività di un rimedio accolto con preoccupazione tra gli studiosi, tanto da essere paragonato ad un Cavallo di Troia
introdottosi nella cittadella del diritto scritto come «une sorte de brulot susceptible de faire sauter tout l’edifice juridique » (23). All’interno di questo
dibattito, tuttora aperto e parzialmente influenzato da quell’originario ticonclusioni formulate per la prima volta in diritto francese da un giurista tedesco: Zachariae, Lehrbuch des franzosischen Zivilrechts, 1808 (edizione francese sotto il titolo: Droit civil théorique français, Bruxelles, 1842, p. 337), che per primo concepì un’azione autonoma
dalla gestione di affari, denominandola actio de in rem verso.
(22) Così testualmente: «attendu que cette action derivant du principe d’equité qui defend
de s’enrichir au detrissement d’autrui et n’ayant été réglementée pas aucun texte de nos lois, son
exercice n’est soumis a aucune condition déterminée».
(23) Drakidis, La subsidiarité, caractère spécifique et international de l’action d’enrichissement sans cause, in Rev. trim. dr. civ., 1961, p. 580.
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more che l’istituto fosse in grado di scardinare l’ordinamento (24), vanno
segnalate due sentenze, una del 1914 (25), l’altra dell’anno successivo (26),
le quali completarono la ricostruzione dell’istituto avviata dall’arrêt Boudier, aggiungendo ad arricchimento, danno e correlazione tra danno ed arricchimento, gli altri due presupposti formanti la moderna azione di arricchimento: la mancanza di giusta causa e la sussidiarietà del rimedio (27).
Le vicende di oltralpe ebbero un’eco evidente nella realtà giuridica italiana, nella quale l’azione di arricchimento veniva riconosciuta sebbene
non menzionata dal codice del 1865; dall’esame di svariate norme sparse
nei codici (artt. 445, 449, 450, 468, 470, 490, 1018, 1148, 1150, 1237, 1243,
1307, 1528, 1728, 1842, 1010 del codice civile; artt. 56 e 326 del codice di
commercio) si deduceva l’esistenza di un principio generale che vietava di
arricchirsi ingiustamente a danno altrui (28): l’obbligo di restituzione era
pertanto già sancito nel vecchio codice, sebbene per mezzo di singole disposizioni di legge (un’azione di arricchimento era oggetto di previsione
espressa soltanto in materia cambiaria: il succitato art. 326 cod. comm.,
nonché gli artt. 67 e 94 r.d. 14 dicembre 1933, n. 1669) (29).
Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto in Francia, nel nostro Paese le dispute intorno alla convenienza ed all’utilità di codificare il principio che vieta l’arricchimento ingiustificato, videro prevalere, sulla scorta
di legislazioni europee quali la svizzera e la tedesca, la soluzione affermativa. D’altronde, il divieto di arricchimento ingiustificato era stato
consacrato come istituto di carattere generale già nel Progetto italo-fran(24) Il timore indotto dal richiamo all’equità, che ha lungamente contagiato anche i nostri giuristi, ha caratterizzato la produzione scientifica francese nell’arco di tutto il ventesimo secolo. Nel 1956, per esempio, si scriveva che «on a tenté de préciser le domaine de l’action de in rem verso en disant que l’enrichissement doit etre injuste. Mais l’expression est dangereuse: elle est susceptible de faire naitre l’idée que l’action est donnée lorsque l’enrichissement
est contraire a l’équité» (Mazeaud, Leçons de droit civil, Paris, 1956, II, p. 640).
(25) Cass. civ., 12 maggio 1914, in Sirey, 1918, 1, p. 41.
(26) Cass. civ., 2 marzo 1915, in Dalloz, 1920, 1, p. 102.
(27) Cfr. Gallo, L’arricchimento senza causa, cit., p. 128.
(28) In proposito, criticamente: Ascoli, voce Arricchimento (azione di), in Nuovo Dig. it.,
vol. I, Torino, 1937, pp. 755-759. Per l’idea che gli artt. 445 e 490 c.c. 1865 trovassero spiegazione in concetti estranei all’idea di arricchimento ingiustificato v. Burzio, Il campo d’applicazione dell’actio de in rem verso, in Giur. it., 1897, c. 129. Per un’analoga considerazione
riguardo all’art. 1728 c.c. 1865 v. Leone, L’azione di arricchimento in diritto moderno, Napoli,
1915, p. 145 ss., ove pure il tentativo di ricostruire una teoria generale dell’ingiusta locupletazione attraverso l’esame delle singole disposizioni del vecchio codice.
(29) Cfr. Castellano, La responsabilità cambiaria nei limiti dell’arricchimento, Padova,
1970.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
cese per un codice delle obbligazioni e dei contratti (30) (art. 73), la cui
Relazione illustrativa, pur dando atto anche della presenza delle cennate
voci discordi (31), ribadiva tuttavia l’opportunità dell’enunciazione di un
principio generale.
Le voci favorevoli a quella impostazione si levarono sempre più numerose e quando essa, dopo essere stata ribadita nel Progetto preliminare
(artt. 820-821) e nel Progetto definitivo (artt. 766-767), trovò definitiva conferma nel codice civile del 1942, la Relazione al Codice non esitò a sottolineare come la soluzione godesse dell’appoggio di « una larghissima corrente di dottrina e di giurisprudenza » (32).
Da allora, tuttavia, all’interprete si tramanda una questione antica
quanto attuale: quale il rapporto tra arricchimento da un lato e indebito,
gestione di affari e singole azioni restitutorie dall’altro? Per il momento, è
possibile costatare che nel sistema giuridico al quale il legislatore italiano
ha maggiormente attinto, ossia quello francese, la disciplina dell’indebito
non è concepita come rimedio contro l’arricchimento senza causa: lo dimostra il fatto che si è stati costretti all’elaborazione di un istituto non codificato, l’azione di arricchimento, per risolvere problemi ai quali sarebbe
stato altrimenti possibile applicare la disciplina dell’indebito, come quelli
derivanti dall’esecuzione di prestazioni di fare o dal vantaggio conseguito
per mezzo dell’approfittamento di utilità altrui o nei casi in cui la prestazione non è andata a beneficio dell’accipiens ma di terzi (33).
3. – A seguito della codificazione dell’azione di arricchimento e della
nuova sistemazione del pagamento dell’indebito nel codice italiano del
’42, l’opinione, prevalente sotto l’impero del codice abrogato, che vuole il
secondo ricompreso nel primo, è smentita da una collocazione dei due
istituti all’evidenza inconciliabile con quella visione. Se così fosse, infatti,
il legislatore, emulando i modelli di area germanica avrebbe dovuto dap(30) Progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti, Roma, 1928, § 14, LXXXVIII. Così recitava l’art. 73: « chi si arricchisce senza giusta causa a danno di un’altra persona, è tenuto nei limiti del proprio arricchimento ad indennizzarla di ciò di cui si è impoverita ».
(31) Rotondi, L’azione di arricchimento. I requisiti e l’oggetto dell’azione nella giurisprudenza italiana e francese, in Riv. dir. comm., 1924, I, p. 378, e II, p. 540; Gabba, L’azione «de
in rem verso» nel diritto civile italiano, in Giur. it., 1902, I, 1, c. 397 ss.; Ascoli, voce Arricchimento (Azione di), cit., p. 755 ss.
(32) Relazione al Codice. Libro delle Obbligazioni, Roma, 1941, n. 262.
(33) Di Majo, op. cit., p. 318: « per risolvere questi casi la giurisprudenza francese ha dovuto superare i limiti immanenti alla disciplina dell’indebito per configurare un’azione di
arricchimento senza causa ».
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prima sancire il divieto generale di arricchimenti ingiustificati e soltanto a
seguire le sue singole applicazioni, come l’indebito e, forse, la gestione di
affari. Dettando al contrario dapprima un’analitica disciplina dell’azione
di ripetizione dell’indebito e relegando solo alla fine di essa, al titolo VIII,
l’arricchimento senza causa, il nostro ordinamento si distacca nettamente
dai modelli tedesco, austriaco e svizzero, per sottolineare la autonomia
delle due figure (34).
In senso contrario si è ritenuto di poter richiamare proprio le scelte
adottate dai legislatori dell’area germanica, i quali hanno testualmente costruito il pagamento dell’indebito come una delle più importanti figure in
cui si articola il divieto generale di arricchimento senza causa (35).
Il BGB (§ 812) sancisce che « chi mediante la prestazione di altri o in
altro modo consegue qualcosa senza una causa giuridica a spese di un altro, è tenuto verso questi alla restituzione. Quest’obbligo sussiste anche
quando la causa giuridica viene a mancare successivamente o quando non
si verifica il risultato avuto di mira con la prestazione, secondo il contenuto del negozio giuridico ».
Nella norma tradizionalmente si riscontrano due fattispecie distinte:
la prima è caratterizzata dal fatto che taluno ha ottenuto un bene o una
utilità « mediante la prestazione di un altro » e ciò non trova giustificazione nei loro rapporti (c.d. Leistungskondiktion); la seconda è contraddistinta dal fatto che il vantaggio o arricchimento non consegue alla prestazione
eseguita dal soggetto impoverito, ma è un risultato verificatosi « in altro
modo » (c.d. Nichtleistungs kondiktionen).
Tra le Nichtleistungs kondiktionen rientrano la Eingriffskondiktion, la
Verwendungskondiktion e la Rückgriffskondiktion. La Verwendungskondiktion ha ad oggetto le spese effettuate a vantaggio del bene altrui; la Rückgriffskondiktion ha ad oggetto il pagamento del debito altrui. Ma la fattispecie di Bereicherung in sonstiger Weise (ossia di arricchimento ottenuto
(34) Ed infatti chi leggeva le norme in materia di indebito come una speciale applicazione del divieto di arricchimenti ingiustificati, riservò ficcanti critiche già alla sistemazione
formulata negli artt. 66-73 del progetto di un Codice delle obbligazioni e dei contratti approvato a Parigi nel 1927: cfr. Oertman, Indebito arricchimento e atti illeciti nel Progetto italo-francese di un codice delle obbligazioni, in Ann. Dir. comp., 1937, IV-V, p. 237; Siegwart,
Gestione di affari senza mandato, pagamento d’indebito ed arricchimento senza causa nel Progetto italo-francese di un codice delle obbligazioni, ivi, p. 219.
(35) L’apporto della dottrina e dell’esperienza tedesca è evidenziato da Breccia, L’arricchimento senza causa, cit., p. 976, e da Mori Checcucci, L’arricchimento senza causa, Firenze, 1943, p. 5 ss. Il sistema tedesco è stato recentemente esaminato da: Nicolussi, Arricchimento senza causa e Bereicherungsrecht, in Europa e dir. priv., 1998, p. 287 ss.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
« in altro modo ») di maggior rilievo è di gran lunga la Eingriffskondiktion,
attinente alle ipotesi di alienazione, di godimento o di consumazione non
autorizzate di un bene o di un diritto altrui. Su di essa, si tornerà ampiamente al § 6.
Ritornando alla prospettiva italiana: la Leistungskondiktion può essere
ricondotta, con le cautele imposte dalle diverse leggi di circolazione operanti nei due sistemi (36), alla nostra ripetizione dell’indebito, la Eingriff(36) Nicolussi, ult. op. cit., p. 293, avverte che l’equiparazione tra Leistungskondiktion e
indebito può risultare addirittura fuorviante se non si considera che nel sistema tedesco vigono la separazione tra titulus e modus acquirendi e Abstraktionsprinzip, mentre il sistema
italiano italiano è caratterizzato dal principio consensualistico e dal principio di causalità.
Va inoltre rimarcato che la Leistungskondiktion, assumendosi il ruolo di contrappeso al
principio dell’astrattezza delle attribuzioni patrimoniali (v. quanto detto alla nota 14), « riassume in sé sostanzialmente tutte le antiche condictiones» (Nicolussi, ult. op. cit., p. 293),
mentre in Italia è ancora discusso se l’istituto di cui agli artt. 2033 ss. sia applicabile a tutte
le ipotesi di caducazione del contratto (contra: Barcellona, Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1965, I, p. 11; Argiroffi, Ripetizione di cosa determinata e acquisto « a domino » della proprietà, Milano, 1980,
p. 167, secondo cui l’azione di ripetizione presuppone che il solvens abbia perduto la proprietà della cosa a vantaggio dell’accipiens, sicché essa non potrebbe conseguire alla caducazione del contratto; Bruni, Contributo allo studio dei rapporti tra azione di caducazione
contrattuale e ripetizione dell’indebito, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, p. 173; Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, in Studi Auletta, vol. II, Milano, 1988,
p. 243 ss., che in particolare evidenzia il contrasto della disciplina dell’indebito con la retroattività della risoluzione per inadempimento; Di Majo, Restituzioni e responsabilità nelle obbligazioni e nei contratti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, p. 291; Gallo, Obbligazioni
restitutorie e teoria del saldo, in Studi in onore di Rescigno, vol. III, Diritto privato, t. 2, Obbligazioni e contratti, p. 385; Id., I rimedi restitutori in diritto comparato, in Tratt. dir. comp. diretto da Sacco, Torino, 1997, cap. VIII, §§ pp. 5-7; Id., Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), Torino, 1996, cap. IV, § 17; Leone, Delle restituzioni ex negotio e
delle restituzioni ex indebito, in Giur. compl. Cass. civ., 1953, IV, p. 215; Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, p. 70, secondo cui non vi sarebbe indebito ex art. 2033 c.c. nei
casi in cui le parti furono in rapporto tra loro. Sono invece contrari all’applicazione di un regime speciale e favorevoli a regolare le restituzioni contrattuali per mezzo del regime ordinario dell’indebito, seppure integrato da apposite norme: Breccia, Il pagamento dell’indebito, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, vol. IX, Obbligazioni e contratti, t. 1, Torino, 1984,
p. 777; Id, Indebito (ripetizione dell’), cit., § 2.2; Rescigno, Ripetizione dell’indebito, cit., p.
1228; Moscati, Del pagamento dell’indebito. Artt. 2033-2040, in Comm. c.c. Scialoja-Branca,
a cura di Galgano, sub artt. 2028-2042, Bologna-Roma, 1981, pp. 135, 151-155; Albanese, Il
pagamento dell’indebito, Padova, 2004, p. 419 ss.; Id., L’indebito oggettivo nell’evoluzione giurisprudenziale, cit., p. 1369 ss. In merito, più specificamente, al problema delle interferenze
delle obbligazioni restitutorie con il danno da risoluzione per inadempimento e alle differenze funzionali tra tutela restitutoria e tutela risarcitoria nella risoluzione, v. Luminoso,
Obbligazioni restitutorie e risarcimento del danno nella risoluzione per inadempimento, in Riv.
SAGGI
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skondiktion all’arricchimento senza causa. Tutte le fattispecie, come appena visto, sono però unificate dalla sussunzione all’interno di un unico
principio espresso nel § 812. Il fondamentale insegnamento di Savigny (37),
il quale era partito dalla riunificazione delle varie condictiones romane per
poi pervenire ad un principio generale, ed una volta delineato il principio
aveva esaminato le singole condictiones, ha avuto dunque consacrazione
nel BGB, che dapprima enuncia il principio generale che informa tutta la
materia (§ 812) per poi definire partitamente le singole condictiones tradizionali, quali la condictio indebiti (§ 813-814), la condictio causa data, causa
non secuta e ob causam finitam (§ 815), la condictio ob turpem vel injiustam
causam (§ 817). (Il § 816, a sua volta, prevede espressamente che se un soggetto dispone senza autorizzazione del bene altrui è tenuto a restituire al
titolare il corrispettivo ricevuto. Se si tratta di alienazione a titolo gratuito,
invece, è il terzo acquirente ad essere tenuto alla restituzione, ma nei limiti del proprio arricchimento. Quest’ultima norma si caratterizza, all’interno della disciplina dei §§ 812-818 BGB (la quale di norma impone la restituzione nei limiti del valore dell’arricchimento), perché obbliga l’arricchito alla restituzione dell’intero profitto conseguito dall’alienazione del
bene altrui, anche qualora detto profitto fosse superiore al suo valore di
mercato) (38).
giur. sarda, 1997, p. 19 ss. Anche in Francia vige, come in Italia, un modello tendenzialmente unitario della condictio, sebbene debbano registrarsi recenti tendenze dottrinarie
verso una diversificazione: cfr. Guelfucci-Thibierge, Nullité, restitutions et responsabilité,
Paris, 1992; P. Malaurie-Aynes, Droit civil. Les obligations, Paris, 1985; M. Malaurie, Les
restitutions en droit civil, Paris, Cujas, 1991).
(37) Savigny, System del heutigen römischen Rechts, V, Torino (trad. it. di V. Scialoja),
1986-1989, p. 507.
(38) Secondo Nicolussi, La lesione del potere di disposizione e l’arricchimento, Milano,
1998, p. 86 ss. .; Id., Arricchimento senza causa e Bereicherungsrecht, cit., p. 306, anche nel diritto italiano sarebbe rinvenibile un’ipotesi di arricchimento analoga a quella prevista dal §
816 BGB, ricavabile tuttavia, principalmente, dalla disciplina dell’indebito, ed in particolare
dall’art. 2038 c.c. L’autore (La lesione del potere di disposizione e l’arricchimento, cit., p. 11, p.
15), nell’analizzare il danno prodotto dall’ingerenza altrui sulla cosa, distingue dalle ipotesi
di distruzione e di godimento della cosa ad opera di un terzo, quella dell’acquisto a non domino della cosa da parte di un terzo di buona fede; a differenza delle prime due ipotesi, nelle quali sarebbero ravvisabili gli estremi della responsabilità civile, la terza sarebbe una vera e propria ipotesi di arricchimento senza causa. Infatti, qui, « non viene in evidenza una
condotta violatrice di un diritto di altri, come nel caso del danneggiamento, ma la correlazione fra il pregiudizio subito dal proprietario, quale riflesso dell’effetto della fattispecie acquisitiva, e l’arricchimento che il dante causa, il quale ha fornito il titolo d’acquisto al terzo
acquirente di buona fede, trae in conseguenza di tale effetto ».
Il tema non può essere affrontato in questa sede: basti qui ricordare che gli atti di di-
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
La successiva evoluzione della materia non depone però a favore della tesi che vorrebbe ricondurre, anche in Italia, la ripetizione di indebito
all’interno del divieto degli arricchimenti ingiustificati. In realtà, il diritto
vivente tedesco si è subito discostato dalla linea del codice. Fu proprio la
ricerca degli elementi costitutivi della fattispecie generale ad originare l’esigenza di isolare alcune singole ipotesi (come quella dell’indebita invasione dell’altrui sfera patrimoniale) non interamente riconducibili alla
previsione del par. 812, comma 1°, BGB.
Infatti, « la concezione “unitaria” fu definitivamente messa in crisi, allorché si pose l’accento (W. Wilburg, E. von Caemmerer) sulla diversità
delle funzioni assolte, rispettivamente, dall’azione di ripetizione della
prestazione indebita (Leistungkondiktion) e dalle altre forme di restituzione non riconducibili ad un rapporto obbligatorio – invalido, già estinto o semplicemente presunto che sia – (Nichtleistungs kondiktionen) rispetto all’azione contro le immissioni nella altrui sfera (Eingriffskondition) » (39).
Attraverso l’opera di numerosi studiosi (40), ed in particolare grazie alla classificazione tracciata da v. Caemmerer, la scuola giuridica germanica
configurò dunque un sistema imperniato sulla distinzione tra pagamento
dell’indebito e arricchimento senza causa, e sulla ramificazione di dette
categorie in varie sottospecie, facendo sì che dal principio generale che Savigny aveva tratto dalla sintesi delle varie condictiones ed accolto poi dal
codice si tornasse all’enunciazione delle singole figure tipiche.
Lo stesso argomento addotto dai sostenitori della riconduzione dell’indebito al divieto di arricchimento senza causa, finisce pertanto con il
sposizione del bene altrui, differentemente che nel codice tedesco, non trovano espressa
disciplina nel nostro codice. La nostra letteratura giuridica è però nel senso che, se l’alienante è in mala fede, egli è soggetto alla responsabilità aquiliana (arg. a contrario ex artt.
535 e 1776 c.c.), mentre se è in buona fede occorre distinguere: se l’alienazione è stata effettuata a titolo oneroso, l’alienante dovrà restituire il corrispettivo conseguito (arg. ex artt.
535 e 1776 c.c.); se l’alienazione è avvenuta a titolo gratuito, dall’art. 2038 c.c. si desume che
il donatario è tenuto ad indennizzare il proprietario nei limiti del suo arricchimento. Non
deve peraltro escludersi che l’impoverito, in tal caso, possa esercitare l’azione anche nei
confronti del donante di buona fede, dal momento che anch’esso risulta essersi arricchito
dall’aver risparmiato una spesa.
(39) Schlechtriem, Osservazioni sulla disciplina dell’arricchimento senza causa nel diritto tedesco, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p. 357.
(40) Cfr. Schultz, System der Rechte auf dem Eingriffserwerb, 105, AcP, 1909, p. 1; Wilburg, Die Lehre von der ungerechtfertigten Bereicherubg nach österreicischen und deutschen
Recht, Graz, 1934; Kötter, Zur Rechtsnatur der Leistungkondiktion, 152, AcP, 1954, p. 193;
Von Caemmerer, Bereicherung und unerlaubte Handlung, in FS Rabel, 1954, p. 333.
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ritorcersi loro contro (41): persino nei sistemi in cui il dato testuale avalla
quella interpretazione, si è sentita l’esigenza di una netta distinzione tra
indebito e arricchimento (42).
4. – È noto che il nostro sistema giuridico privilegia, in linea generale,
la restituzione in natura, mentre la restituzione per equivalente monetario, sempre in linea generale, è consentita solo in via residuale, quando la
restituzione abbia ad oggetto prestazioni di fare o quando non sia più possibile la restituzione in natura. Nei sistemi di Common law, al contrario, la
regola è la restituzione per equivalente anche quando si tratta di prestazioni di dare (quantum valebat); tuttavia non si manca di considerare che,
in alcune ipotesi, l’attore può avere un interesse prevalente al recupero
della cosa: la restituzione per equivalente avviene, infatti, nel caso di beni
unici o di particolare valore o pregio artistico (43).
Nonostante questa basilare differenza, anche con riguardo alle restitutions è tuttavia possibile recuperare rilevanti elementi di contaminazione.
L’organizzazione e la semplificazione dei rimedi restitutori sono state
particolarmente complesse anche nei sistemi giuridici che hanno voluto
farsene carico: in Inghilterra e Stati Uniti, infatti, dove la restituzione è
oggi ritenuta un’area né più piccola né più limitata dei contracts, torts o
trusts, per lungo tempo le fattispecie restitutorie, ancora acerbe, erano state disperse e dissolte all’interno di altri soggetti, o catalogate sotto spoglie
ambigue che non ne coglievano la reale essenza: quasi-contract, money
had and received, subrogation, constructive trust, ecc.
In un primo momento si è fatto capo, per tutelare l’impoverito e re(41) E ciò sebbene si sia nuovamente sentita da parte di alcuni la necessità di ricondurre le singole ipotesi al medesimo criterio ispiratore per ricomporle all’interno di un sistema
unitario in virtù della previsione normativa del principio generale: recentemente, infatti, a
dimostrazione della complessità della questione, la dottrina tedesca sembra essere parzialmente ritornata sui suoi passi, essendo rintracciabili « nuove tendenze “unitarie”, consapevolmente ispirate all’orientamento dominante nel 19° secolo ed all’insegnamento di Savigny » (Schlechtriem, op. cit., p. 357 ss.). Queste tendenze si risolvono nella rinnovata centralità di cui il par. 812, comma 1°, BGB starebbe riappropriandosi nella configurazione dell’istituto dell’arricchimento ingiustificato; il principio generale, pertanto, tornerebbe, in antitesi alla descritta soluzione di v. Caemmerer, ad assolvere un ruolo fondamentale quale
comune denominatore di tutte le singole ipotesi in cui è configurabile un’azione di ripetizione.
(42) Così concludono Di Paola-Pardolesi, voce Arricchimento. I) azione di arricchimento – dir. civ., in Enc. giur., vol. II, Roma, 1988, § 1.3.
(43) Sul punto, Gallo, Ripetizione dell’indebito. L’arricchimento che deriva da una prestazione altrui, in Digesto, disc. priv., sez. civ., vol. XVIII, 4a ed., Torino, 1998, § 3.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
primere i fenomeni di arricchimento senza causa, alle comuni azioni contrattuali, come l’action in debt, che oltre a far conseguire il pagamento di
somme di denaro mira anche alla restituzione se vi è stata una failure of
consideration nel contratto.
In seguito ci si è serviti della action of assumpsit, quale azione generale basata sulla finzione che vi era stata una promessa di pagare il debito
(indebitatus assumpsit, termine che sottintendeva: « quale debitore, confermo di dovere una somma di denaro »). Questa azione cominciò gradualmente ad essere preferita, grazie all’alleggerimento dell’onere probatorio che comportava (44), a quella di debt a partire dallo Slade’s Case, del
1602, nel quale fu per la prima volta sancito che l’assumpsit, ossia la conferma del debito, poteva semplicemente presumersi in tutti i casi di debito nascente da compravendita (45).
La formula più nota di assumpsit era quella mirante alla restituzione
di «money had and received ». L’azione money had and received può essere
considerata l’equivalente della nostra azione di ripetizione dell’indebito,
sebbene essa consenta di ripetere esclusivamente pagamenti indebiti
aventi ad oggetto somme di denaro (per il recupero delle quali, prima
dell’introduzione di questo rimedio, non v’era alcuna possibilità). L’espressione «money had and received » non è altro che la corrente abbreviazione del nome originario dell’azione: «money had and received for the
use of the owner ». Si presumeva, infatti, che il convenuto, una volta avuto il denaro a causa di un errore del solvens, si fosse tacitamente impegnato a restituire a quest’ultimo quanto ricevuto indebitamente, o meglio: a destinare quei soldi esclusivamente nell’interesse dell’attore (for
the use of the owner).
Per la ripetizione di ogni altra prestazione occorreva fare riferimento,
invece, ai rimedi quantum valebat (prestazioni di dare) e quantum meruit
(prestazioni di fare).
Solo nel 1760, grazie al dictum con cui Lord Mansfield decise il caso
Moses v. Macferlan (46), fu finalmente possibile superare l’inverosimile
(44) All’attore, infatti, era sufficiente dimostrare l’esistenza del debito, dalla quale originava la presunzione legale che il convenuto avesse promesso di estinguere quel debito (anche se, in effetti, il convenuto non aveva promesso alcunché).
(45) Slade’s Case (1602) 4 Co. Rep. 91°, 67 E.R. 1072.
(46) Moses v. Macferlan (1760) 2 Burr., p. 1005; 97 English Reports, p. 676. Mr. Moses aveva pagato una somma di denaro in esecuzione di una sentenza, passata in giudicato, ma risultata poi errata sulla scorta di elementi di fatto sopravvenuti. Dare riparazione all’attore,
in quell’epoca, sarebbe stato astrattamente possibile solo con l’azione money had and received; ma come si poteva, in questa particolare fattispecie, appellarsi alla promessa fittizia e
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939
spiegazione fondata su impegni taciti, riconducendo per la prima volta
l’obbligazione restitutoria alla natural justice: « If the defendant be under an
obligation, from the ties of natural justice, to refund; the law implies a debt,
and gives this action, founded in the equity of the plaintiff’s case, as it were
upon a contract ».
Questo principio, oggi segnalato come « il passaggio che formalizzò il
collegamento tra indebitatus assumpsit ed arricchimento » (47), rimase tuttavia isolato sin quasi alla metà del ’900, quando venne riesumato, nel
1943, da Lord Wright nel caso Fibrosa Spolka Akcyjna v. Fairbairn Lawson
Combe Barbour Ltd, ove fu chiaramente espresso, per la prima volta, il divieto di arricchirsi senza causa a spese altrui, e vennero sparsi, così, i primi semi dai quali sarebbero germogliate le tendenze unitarie di ricostruzione delle ipotesi restitutorie (48).
Lo sforzo teso alla riconduzione di tutte le restituzioni al divieto di arricchimento ingiustificato, ha posto ovviamente l’interprete di common
law innanzi ad un compito nuovo e non meno gravoso, consistente, essenzialmente, nel perfezionamento delle circostanze che rendono il profitto ingiusto, nel reperimento della tipologia degli «unjust factors » (49).
Con l’evoluzione giurisprudenziale inglese va di pari passo quella della dottrina: la letteratura giuridica di common law aveva sempre studiato i
rimedi restitutori frammentandoli in una vastissima casistica non riconducibile ad un unico principio. Nella seconda metà del secolo scorso,
però, un’opera fondamentale nel diritto inglese introdusse una ricostruzione unitaria dei rimedi restitutori, i quali troverebbero ricomposizione
attorno al principio secondo cui « ogni vantaggio, conseguito a spese di alsostenere che chi aveva ricevuto il denaro lo aveva fatto con l’implicita intenzione di restituirlo?
(47) Giglio, Esiste un « Law of unjust enrichment » nel diritto inglese?, in questa rivista,
2000, p. 153.
(48) Fibrosa Spolka Akcyjna v. Fairbairn Lawson Combe Barbour Ltd, in Appeal Cases,
1943, p. 32. Il divieto di arricchimento ingiustificato fu poi nuovamente espresso dalla House of Lords, con ben maggior nettezza, nel 1991, in Lipkin Gorman v. Karpnale, in Appeal Cases, 1991, p. 548: a partire da questa pronuncia, law of unjust enrichment diventa « un’espressione tecnica che definisce un istituto non più generale ed astratto, come nel caso di Fibrosa, ma concreto e producente effetti immediati di diritto » (Giglio, op. cit., p. 159).
(49) Uno dei maggiori esperti della materia ha recentemente identificato undici ipotesi
di fattori che possono essere definiti ingiusti: mistake, ignorance, duress, exploitation, legal
compulsion, necessity, failure of consideration, incapacity, illegality, ultra vires and retention of
property belonging to another (Burrows, The Law of restitution, London, 1993, passim. Sull’argomento, cfr. anche Birks-Chambers, The Restitution Research Resource, Oxford, 1997,
p. 3).
940
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
tri, va restituito ». Ciò equivale a dire, appunto, che le singole azioni si richiamerebbero tutte all’unjust enrichment (50).
Ancora più esplicito, in questa direzione, è il diritto statunitense, che
nel § 1 del Restatement of the law of restitution del 1937 (ad opera dei Proff.
Seavey e Scott) enuncia espressamente il principio di base che «a person,
who has been unjustly enriched at the expense of another, is required to make
restitution ».
Queste tendenze unitarie non sembrano avere, tuttavia, seri risvolti
concreti. Per comprendere appieno il fenomeno occorre riflettere sulla
circostanza che negli anni in cui la tesi prese piede e si sviluppò (anni ’60
e ’70) l’obiettivo principale degli studiosi delle restituzioni era quello di
stabilire la stessa esistenza del divieto di arricchimenti ingiustificati e di legittimarlo come concetto legale autonomo, affinché esso iniziasse ad essere considerato seriamente. Era fondamentale dare alle restituzioni una
struttura basata su basi solide e semplici.
Dopo che questo primo traguardo fu raggiunto, negli anni ’80 e ’90 si
è tentato di ridurre il livello di astrazione attraverso la formulazione degli
elementi che formano la fattispecie (51).
In queste due fasi, la riunificazione concettuale di tutti i rimedi restitutori e di tutte le situazioni possibili attorno all’unico principio dell’unjust enrichment è stata di grande utilità ed è sembrata la strada più facilmente percorribile al fine di organizzare e spiegare il fenomeno restitutorio.
In questi ultimi anni, superate quelle originarie difficoltà, e accantonata la necessità di pervenire ad un riconoscimento della law of restitution, sono stati in molti a porre in luce che la correlazione tra restituzioni
e arricchimento ingiustificato non è quella che si era inizialmente supposta (52). Si tende così a sottolineare la multi-causalità dell’obbligazione
(50) Si tratta dell’opera di Goff-Jones, The law of restitution, cit., pietra miliare nel campo dei rimedi restitutori di common law, la cui impostazione ha fatto numerosi proseliti nella dottrina di lingua inglese (si noti che uno dei due autori, Lord Goff of Chieveley, fu anche uno dei giudici della House of Lords che decise sul caso Lipkin Gorman). Ulteriore fondamentale contributo nella fondazione di una teoria dell’arricchimento senza causa è quello di Birks, An introduction to the Law of restitution, Oxford, 1985. Cfr. inoltre Dawson,
Unjust enrichment, Boston, 1951; Klippert, Unjust enrichment, Toronto, 1983.
(51) Essi sono: a) an enrichment of the defendant; b) which is at the expense of the plaintiff; c) wich enrichment is unjust.
(52) V. ad esempio Virgo, The principles of the law of restitutions, Oxford, 1999, prefazione e p. 6 ss. (a p. 7 l’autore afferma apertamente che l’interpretazione tradizionale è troppo semplicistica e non riflette con precisione la realtà del fenomeno restitutorio); Hedley,
Unjust enrichment, 1995, CLJ, p. 578; Id., Unjust enrichment as the Basis of Restitution – An
Overworked Cocept, 1985, 5 LS, p. 56; Dietrich, Restitution: A New perspective, Sidney, 1998;
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941
restitutoria, di cui l’arricchimento ingiusto può essere un importante, ma
non l’unico, evento causativo.
Unjust enrichment e restitution, pertanto, non sono sinonimi. A conti
fatti, il principio dell’arricchimento senza causa non è riuscito a chiarire i
confini delle obbligazioni restitutorie (53).
Va infine rilevato, che caratteristica dei sistemi di common law è la separazione tra gli arricchimenti dovuti all’iniziativa dell’impoverito (from or
by the act of the plantiff) e quelli conseguiti per effetto della stessa attività
dell’arricchito (by his own wrongful conduct). Ma a ben vedere già la formulazione di codici “storici” sottintendeva una simile bipartizione: si
pensi al principio codificato nel codice prussiano (Allgemeines Landrecht,
par. 13) (ed in quello austriaco: § 1041 ABGB): « Chiunque ha utilizzato o
messo a profitto utilità spettanti ad altri è tenuto ad indennizzare il soggetto impoverito ». Si è già detto, inoltre, del § 812 BGB e della separazione
tra Leistungskondiktion e Eingriffskondiktion del diritto tedesco.
Ecco, dunque, un esempio davvero notevole di circolazione di modelli e di primordiale globalizzazione del diritto europeo: una soluzione che
è partita dal sistema germanico, ha attraversato quello inglese ed ha concluso il suo tragitto in quello italiano ove è ormai di comune dominio
presso i nostri studiosi più recenti.
Ad ogni modo, è quindi al sistema anglo-tedesco che siamo tributari
della constatazione, dell’operatività dell’arricchimento ingiustificato in
due tipologie di fattispecie a seconda che il soggetto alla cui attività è ricondotto lo spostamento patrimoniale sia l’arricchito ovvero lo stesso depauperato (54).
5. – Le peculiarità del sistema italiano depongono tutte a sfavore di
una concezione unitaria. A parte l’elemento, già menzionato, della collo-
Jackman, Varieties of restitution, Sidney, 1998. Lo stesso Birks, An introduction to the Law of
restitution, Oxford, 1985, p. 18, che aveva inizialmente proclamato che tra restitution e unjust enrichment vi è una «perfect quadration » (e v. anche McInnes, Restitution, Unjust Enrichment and the Perfect Quadration Thesis, 1999, RLR, p. 118), ha dovuto in seguito riconoscere l’erroneità di quella impostazione: Birks, Property and Unjust Enrichment: Categorical
Truths, 1997, NZ LAW Rev, p. 623; Id., The Law of Unjust Enrichment: A Millennial resolution,
1999, Singapore JLS, p. 318 ss.
(53) Cfr. Grantham-Rickett, Enrichment and Restitutions in New Zeland, Oxford-Portland Oregon, 2000, passim (gli autori propongono la sostituzione al concetto di unjust enrichment di quello di «restorable enrichment »), nonché, ivi, la prefazione a cura di Goff.
(54) La distinzione risale a Ennecerus-Lehmann, Recht der Schuldverhaltnisse, 15a ed.,
Tübingen, 1958, II, 2, § 222.
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
cazione dell’art. 2041 c.c., alla ricostruzione unitaria di indebito e arricchimento deve obiettarsi che la legge detta per essi due regolamentazioni diverse.
Innanzitutto, solo l’azione di arricchimento ha carattere sussidiario.
Inoltre, oggetto della obbligazione restitutoria ex art. 2041 c.c. è il versamento di un indennizzo, che soltanto nell’ipotesi di restituzione di cosa
determinata (art. 2041, comma 2°, c.c.) coincide con quanto indebitamente ricevuto; al contrario, la disciplina dell’indebito privilegia la restituzione in natura della eadem res o del tantundem, e solo quando questa non è
possibile fa riferimento al valore della prestazione effettuata.
Ancora, e soprattutto, la disciplina dell’azione di ripetizione prescinde, di massima, da ogni valutazione dell’arricchimento effettivamente
conseguito dal convenuto (55) e pertanto non si preoccupa di operare quel
dosaggio in concreto tra reciproci pregiudizi e vantaggi patrimoniali caratterizzante invece la materia dell’arricchimento. Nell’indebito, la circostanza che lo spostamento patrimoniale privo di causa abbia effettivamente
incrementato il patrimonio dell’accipiens, è considerata unicamente nel
caso in cui questo sia un incapace (art. 2039 c.c.).
Infine, nella disciplina dell’arricchimento non è dato rilievo allo stato
soggettivo dell’arricchito; nella disciplina dell’indebito, al contrario, la
buona e la mala fede dell’accipiens, sebbene irrilevanti ai fini del sorgere
dell’obbligazione restitutoria, sono però decisivi ai fini della sua quantificazione.
È pur vero che alla tentazione di ricostruzioni unitarie può indurre la
fattispecie della restituzione di cosa determinata; è possibile, infatti, che
l’oggetto dell’obbligazione restitutoria sia il medesimo sia che si agisca ex
art. 2033 ss. c.c., sia che si agisca ex art. 2041 c.c.: sebbene l’indebito tenda
a recuperare « la cosa » mentre l’actio de in rem verso tende al pagamento
di un indennizzo, se il convenuto si è arricchito per l’acquisizione al suo
patrimonio di un bene determinato, il petitum sarà sempre la restituzione
di quel singolo bene (giacché il 2° comma dell’art. 2041 c.c. prevede la restituzione della cosa quando l’arricchimento abbia per oggetto una cosa
determinata). La circostanza è però puramente casuale, e si spiega col fatto che in quest’ipotesi vi è una coincidenza tra arricchimento e impoverimento da un lato, e la cosa dall’altro.
(55) Di conseguenza non ha neanche rilievo in materia di indebito il successivo venir
meno dell’arricchimento nel patrimonio dell’accipiens: non vige quindi il principio non est
versum si non durat che secondo l’opinione tradizionale sarebbe congenito all’actio de in
rem verso.
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Che l’oggetto dei due rimedi sia differente anche nel caso di restituzione di cosa determinata emerge chiaramente da una recente decisione
della Suprema Corte in materia di arricchimento senza causa, la quale ha
chiarito che nell’ipotesi disciplinata dal comma 2° dell’art. 2041 c.c. « qualora la restituzione della cosa stessa non esaurisca l’arricchimento e la correlativa diminuzione patrimoniale previsti dalla norma contenuta nel
comma 1°, è dovuto, per la parte residua, l’indennizzo previsto da quest’ultima norma » (56).
Una volta riconosciuta la distinzione tra le varie azioni restitutorie, occorre prendere atto che se da un lato è utile riunirle attorno ad un unico
comune denominatore, dall’altro lato questo deve essere riconosciuto in
qualcosa di più ampio del divieto generale di arricchimenti senza causa.
Quel che è certo, è che alla ratio specifica del diritto delle restituzioni si
sovrappone una ratio di base che risiede nell’art. 1173 c.c.: le obbligazioni
devono essere tenute sotto controllo dal diritto; il sistema delle fonti è sì
atipico, ma al suo interno la legge controlla anche tutto ciò che non nasce
dal contratto o dal fatto illecito. Il riferimento al divieto generale, invece,
può essere accolto in termini puramente descrittivi e purché sia rivolto, al
più, al principio, giammai all’azione di arricchimento.
Essenziale alla comprensione dell’istituto è, infatti, lo studio del rapporto tra azione e principio (57), che è tuttavia caratterizzato da un’ambivalenza: l’art. 2041 c.c. si presenta come una fattispecie aperta, così connotandosi come clausola generale, e come una fattispecie analitica, alla
quale sono comunemente ricondotte le singole figure restitutorie presenti allo stato diffuso nell’ordinamento. La valenza quale fattispecie aperta
rappresenta l’essenza dell’istituto; la portata di fattispecie analitica, invece, impinge sulla verifica attinente alla riconduzione dei rimedi restitutori
tipici alla clausola generale, e rischia di trasformare l’art. 2041 c.c. in una
mera norma riassuntiva di ipotesi già previste, elidendo il suo carattere di
clausola generale e riducendo al minimo la portata pratica dell’azione; la
quale, in concreto, assume rilievo non marginale solamente nell’ambito
dei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione, ove maggiormente significativa è stata la creatività giurisprudenziale (58).
(56) Cass., 30 maggio 2000, n. 7194, in Foro it., 2001, I, c. 570.
(57) Cfr. Albanese, Arricchimento senza causa: azione e principio, in Studium iuris, 2006,
in corso di pubblicazione.
(58) Cfr. Viola, L’arricchimento senza causa della Pubblica Amministrazione, Padova
2002; Tomei, L’ingiustificato arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione. Tra
conferma della tradizione e critica del privilegio, Torino 2000. Basti qui ricordare che, in que-
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CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
Per elevare l’art. 2041 c.c. a criterio interpretativo di tutte le singole
ipotesi di obbligazioni restitutorie, tuttavia, è poco utile invocare una mera affinità fenomenologica; dovendosi al contrario « portare alla luce una
autentica identità di ratio» (59) che, a ben vedere, manca sia rispetto alle
singole azioni restitutorie reperibili a livello diffuso nel sistema, sia riguardo alla condictio ed alla gestione di affari:
a) quanto al primo punto, le singole norme (60) dettate in materia di
spese erogate a vantaggio del bene altrui (miglioramenti, addizioni, riparazioni, ecc.) non possono essere unitariamente ricondotte all’interno del
principio dell’arricchimento ingiustificato, il quale sembra lambire soltanto una materia regolata sul presupposto di altre valutazioni, di natura prevalentemente economica: il ristoro concesso a chi esegua le spese è sempre filtrato attraverso la valutazione legislativa della singola attività in relazione al singolo bene, conseguendone una disciplina strettamente legata a quegli elementi, sulla cui base si vaglia dapprima l’utilità sociale a che
il soggetto che gode della cosa altrui sia stimolato a compiere l’attività, e si
gradua poi l’intensità della tutela del suo interesse individuale a non subirne integralmente il costo; sicché le singole azioni non sono predisposte
alla sola tutela dei soggetti interessati, in un’ottica di riequilibrio economico delle loro posizioni e di riparazione dell’integrità della posizione attorea, ma hanno un loro specifico scopo di indirizzo funzionale: la tutela
delle attività idonee all’accrescimento dell’efficienza dei beni produttivi.
Ma anche l’analisi delle azioni restitutorie tipiche in materia di accessione,
unione, commistione, specificazione ed avulsione, conduce ad analoghi
risultati: gli studi moderni, proprio con riferimento a quella disposizione,
l’art. 936 c.c., che era stata fatta assurgere a norma chiave del principio generale, concedono al collegamento con l’art. 2041 c.c. niente più che questo: si tratta di un richiamo «corretto ma generico, sia per il carattere sussidiario esplicitamente attribuito a tale azione, sia perché essa non esclude
comunque una specifica disciplina su singoli punti » (61).
b) Quanto al secondo aspetto, è chiara l’emersione di due veri e propri
sta fattispecie, ai cinque elementi essenziali dell’azione la giurisprudenza aggiunge un sesto
elemento: il riconoscimento, da parte dell’amministrazione, dell’utilità dell’opera ricevuta:
Cass., 20 ottobre 2005, n. 21079, in Obbligazioni e Contratti, 2005, p. 292 s. Cass., 11 maggio
2005, n. 9919.
(59) Di Paola-Pardolesi, op. cit., § 1.2.
(60) Cfr. Albanese, I miglioramenti nel codice civile, in Contr. e impr., 2003, p. 910.
(61) Paradiso, L’accessione al suolo. Artt. 934-938, ne Il codice civile. Commentario fondato da Schlesinger, Milano 1994, p. 223.
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“modelli” fondamentali distinti all’interno del diritto delle restituzioni:
mentre l’idea di fondo dell’arricchimento senza causa è che occorre impedire che taluno si arricchisca ingiustificatamente a spese altrui (sicché l’obbligo restitutorio incontra il limite dell’arricchimento), il principio ispiratore dell’indebito consiste nell’esigenza che ogni spostamento patrimoniale, indipendentemente da qualsiasi impoverimento/arricchimento esso
produca, abbia una propria causa meritevole di tutela.
Ancora più convincente è la divaricazione tra divieto di arricchimento
e gestione di affari altrui: il giudice adito con una domanda di indennizzo
per indebito arricchimento non può accogliere la domanda a titolo di negotiorum gestio, poiché l’azione di arricchimento senza causa diverge da
quest’ultima « sia per il petitum – costituito dall’indennizzo per la diminuzione patrimoniale subita – che per la causa petendi, ossia per i fatti giuridici posti a suo fondamento » (62).
C’è però un dato, innegabile: le restituzioni italiane si caratterizzano
per la loro complementarità. La conferma di questa complementarità è
nella stessa commistione disciplinare tra i vari istituti, basti pensare al rapporto intercorrente tra concezione « reale » e concezione « patrimoniale »:
la disciplina dell’indebito (63) è ispirata indubbiamente alla prima; tuttavia
nell’attuale sistema della condictio le deroghe sono talmente importanti
da fare pensare ad un’inversione di tendenza a vantaggio della seconda: si
pensi all’art. 2037, comma 3°, c.c.; all’art. 2038, comma 1°, c.c.; all’art. 2039
c.c. Sono tutte ipotesi nelle quali la restituzione non ha ad oggetto l’obiettivo valore economico della prestazione, ma l’incremento patrimoniale concretamente prodottosi a vantaggio del percipiente. Ma questo accade, a ben vedere, non perché la condictio tradisce la propria natura e funzione, ma perché sopravvengono circostanze che dal punto di vista sistematico sono esterne alla disciplina dell’indebito e rendono legislativamente utile la sovrapposizione di rimedi restitutori che, singolarmente
considerati, avrebbero altra natura e funzione.
Si prenda ad esempio l’art. 2037 c.c., relativo alla distruzione della res
indebiti: la ripetizione dell’indebito vuole, di massima, il ripristino tra le
parti del rapporto dell’originaria situazione patrimoniale; se la cosa è perita, ciò non è possibile. La restituzione è possibile solo per equivalente.
Ma il criterio dell’aestimatio rei e quello dell’in rem verso vengono applica(62) Cass., 6 ottobre 1994, n. 8184, in Giust. civ. Mass. 1994, p. 1197.
(63) Su cui v., in particolare, Moscati, Concezione « reale » e concezione « patrimoniale »
dell’arricchimento nel sistema degli artt. 2037- 2038 del c.c., in Studi in memoria di D. Pettiti,
vol. II, 1973, p. 991 ss.
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ti dal legislatore in maniera dinamica: se la restituzione della cosa è divenuta impossibile, varranno i principi dell’indebito o quelli dell’arricchimento a seconda che l’accipiens sia, rispettivamente, di mala fede o di
buona fede. Il risultato è la sovrapposizione dei due fondamentali modelli restitutori, giacché l’art. 2037 c.c. commisura l’obbligazione restitutoria
all’oggettivo valore della cosa nel caso di mala fede dell’accipiens, ma impone il limite dell’arricchimento nel caso di buona fede.
L’art. 2038 c.c., poi, per il caso di alienazione a terzi della res indebiti,
contempla la facoltà del solvens, privo di altri strumenti protettivi, di agire
con una vera e propria azione di arricchimento senza causa nei confronti
del subacquirente: il terzo, tenuto verso il solvens nei limiti del proprio arricchimento, non succede nel lato passivo del rapporto obbligatorio, come
dimostra il fatto che egli non subentra nella stessa posizione debitoria dell’accipiens indebiti.
In altri casi, la commistione tra rimedi restitutori è tra indebito e azioni restitutorie speciali: si pensi all’art. 2040 c.c., che rinvia alla disciplina
del possesso per quanto riguarda le spese e i miglioramenti effettuati dall’accipiens indebiti, e quindi, tra l’altro, al terzo comma dell’art. 1150 c.c.:
in questa norma la misura del rimborso delle spese varia secondo gli stati
soggettivi dell’accipiens, ed è quindi graduata secondo un principio che è
estraneo a quello dell’arricchimento senza causa.
La complementarità, emergente dall’esperienza concreta, è una conseguenza inevitabile delle stesse differenze concettuali tra i singoli rimedi: non solo per la ripetizione dell’indebito non occorre fornire la prova
né dell’arricchimento (64) né dell’impoverimento (65), ma, soprattutto, il sistema giuridico predispone una reazione contro la locupletazione ingiusta, anche se ad essa fa da sfondo una valida causa solvendi, o, più in generale, una giustificazione formale, la quale se è idonea a dare una causa
allo spostamento patrimoniale, non lo è a rendere giusto un arricchimento. Parimenti, è predisposta una reazione contro i trasferimenti di ricchezze privi di un’idonea giustificazione formale anche se le conseguenze economiche prodotte sono perfettamente giuste e volute dalle parti: come è
nel caso del contratto nullo per un vizio di forma.
L’arricchimento sussiste probabilmente nella maggior parte dei casi
d’indebito; ma non può, da una mera rilevazione statistica, dedursi la
coincidenza dogmatica tra percezione dell’indebito e conseguimento del
(64) Cfr. Cass., 9 febbraio 1987, n. 1334, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 2.
(65) Cfr. Cass., 23 gennaio 1987, n. 634, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 1.
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profitto. Sicuramente, peraltro, non vi è mai arricchimento in una specie
di pagamento di indebito, quella, prevista dall’art. 2036 c.c., dell’indebito
soggettivo ex latere solventis: qui infatti l’accipiens non si arricchisce (ingiustamente) di alcunché, poiché si limita a ricevere quanto gli spetta; né
potrà in seguito risultare “arricchito”, dal momento che l’efficacia estintiva del pagamento effettuato dal solvens indebiti gli preclude la possibilità
di ottenere il medesimo pagamento dal debitore effettivo (66).
La complementarità, infine, non risulta soltanto dalla legge, ma anche
dall’applicazione effettiva del diritto delle restituzioni da parte dei giudici:
si pensi all’esempio della locazione di fatto, quando, successivamente all’esecuzione del rapporto, il contratto di locazione sia dichiarato nullo: la
Cassazione nega a chi abbia fruito del godimento dell’immobile il diritto
alla restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo (67). La disciplina dell’indebito imporrebbe qui la restituzione integrale delle somme riscosse dal locatore e la restituzione « del godimento » della controparte:
ma la seconda restituzione è ovviamente impossibile, sicché soltanto la
prima sarebbe per legge dovuta. E tuttavia, se il conduttore potesse ripetere le somme elargite, ne risulterebbe indubbiamente un ingiusto arricchimento in suo favore: ecco allora che la sovrapposizione dei due rimedi,
e dunque la complementarità del principio dell’arricchimento rispetto a
quello della ripetibilità delle prestazioni indebite, permette ai giudici di
negare al conduttore la ripetizione.
Il tema non può essere compiutamente affrontato in questa sede (68),
ma la complementarità tra i diversi rimedi restitutori, potrebbe fornire
l’effettiva spiegazione della natura sussidiaria dell’azione di arricchimento: la sussidiarietà, in questa prospettiva, andrebbe letta proprio con riguardo all’azione di ripetizione ed alle altre azioni restitutorie, di modo
che il rimedio ex art. 2041 c.c. entri in gioco (o meglio: in sussidio) non
soltanto nei rarissimi casi in cui non sussista astrattamente un altro rimedio, ma anche in quelli in cui l’esercizio dei detti rimedi restitutori non si
sia dimostrato idoneo ad indennizzare l’attore del pregiudizio subito (se-
(66) Greco, Ripetizione d’indebito e pagamento di assegni circolari ammortizzati, in Riv.
dir. comm., 1949, II, p. 34 (in nota a App. Bologna, 9 giugno 1948).
(67) Cass., 3 maggio 1991, n. 4849, in Arch. loc. cond., 1991, p. 504, e in Giur. it., 1991, I, c.
1314, con nota di Chiodi; Cass., 6 maggio 1966, n. 1168, in Mass. Foro it., 1966, c. 408; Cass.,
30 gennaio 1990, n. 368, in Giur. agr. it., 1990, I, p. 550; Cass., 23 maggio 1987, n. 4681, in Foro it., 1987, c. 2372.
(68) Cfr. Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova, 2005, p.
178 ss.
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condo la formula dell’art. 2042 c.c.), permanendo ancora, in capo al convenuto, una porzione di profitto ingiustamente conseguito. L’istituto dell’indebito, proprio perché non tende al recupero di un arricchimento ingiusto, può in concreto risultare inidoneo alla restituzione del profitto.
L’applicazione dell’art. 2042 c.c., dunque, va limitata agli arricchimenti
dovuti all’iniziativa dell’impoverito, ed invece esclusa per gli arricchimenti ottenuti mediante fatto ingiusto. È erroneo, infatti, l’assunto dell’incompatibilità tra responsabilità risarcitoria e responsabilità restitutoria, le
quali, oltre ad avere diverso contenuto, si pongono su due piani diversi,
sicché non ha senso parlare di sussidiarietà della seconda in rapporto alla
prima. La protezione offerta all’impoverito dall’azione aquiliana ha natura
differente rispetto a quanto egli chiede, con l’azione di arricchimento, nel
caso di illegittima ingerenza nella propria sfera giuridica: mentre in questo
caso egli pretende che gli sia riversato il profitto costruito sullo sfruttamento delle sue ricchezze, agendo con l’azione delittuale domanderebbe
la riparazione del danno subito; sicché quest’azione è inidonea a far ottenere all’attore quanto da lui reclamato con l’actio de in rem verso: la restituzione del profitto slegata dalla misura del danno. Ne consegue che non
v’è ragione di negare il cumulo tra i due rimedi: ciò che non copre la riparazione del danno sarà coperto dalla restituzione del profitto (69).
In questi termini, appunto, l’art. 2042 c.c. ha senso solamente se applicato con riferimento alle azioni dirette ad ottenere quello stesso indennizzo (70) cui dà luogo l’azione di arricchimento applicata ad una spe(69) Castronovo, La nuova responsabilità civile, 3° ed., Milano, 2006, p. 649 ss., adotta
la lesione della proprietà intellettuale come terreno di verifica dei rapporti tra responsabilità
civile e arricchimento ingiustificato: dopo aver scartato sia la soluzione che ascrive alla responsabilità civile l’arricchimento, sia la tesi del concorso alternativo, con riguardo alla soluzione del cumulo, invece, afferma che questa terza via « non sembra presente nel dibattito attuale ». Mi permetto però di segnalare, oltre che le autorevoli pagine dell’a. citato (illuminanti già in La violazione della proprietà come lesione del potere di disposizione. Dal danno all’arricchimento, in Dir. ind., 2003, p. 7), i tentativi ricostruttivi da me svolti nei saggi La
lesione del diritto all’immagine (e degli altri diritti della personalità): una alternativa alla tecnica risarcitoria del « prezzo del consenso » (in Responsabilità, comunicazione e impresa, 2002,
p. 547), e Fatto illecito, fatto ingiusto e restituzione dell’arricchimento in assenza di danno (in
Resp. civ. e prev., 2004, p. 538), nonché, più ampiamente, nella monografia Ingiustizia del
profitto e arricchimento senza causa, cit., pp. 353-453.
(70) Questa soluzione era stata additata dalla Suprema Corte in una decisione rimasta
però isolata (Cass., 13 dicembre 1969, n. 3941): « l’art. 2042 c.c. allorquando stabilisce che
l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato possa esperire altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito, fa riferimento ad altra azione che abbia per
oggetto direttamente tale indennizzo (ad es. nei casi dell’art. 1185 cpv. c.c.) ».
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949
cifica categoria di arricchimenti: quelli avvenuti in assenza di ingerenza
abusiva.
6. – Anche con riguardo alla struttura dell’azione generale di arricchimento, il modello che va sempre più imponendosi a livello internazionale
è quello dei sistemi di common law (71) e della Germania, che a differenza
del modello franco-italiano, il quale richiede la contemporanea presenza
di cinque requisiti per agire in arricchimento (arricchimento, danno, correlazione tra arricchimento e danno, mancanza di giusta causa, sussidiarietà), non pretende la prova del danno e del nesso di correlazione, né attribuisce carattere sussidiario al rimedio; si fonda, semplicemente, sulla
prova dell’arricchimento realizzato in modo ingiusto a spese altrui.
Ciò, in quei Paesi, apre ai rimedi restitutori prospettive che sono invece negate dai nostri interpreti, i quali ravvisano nella lettera della nostra
legge un ostacolo non superabile (72).
In Germania, ad esempio, il problema della lesione perpetrata in assenza di un trasferimento patrimoniale, come nei casi di semplice uso del
bene altrui o di sfruttamento di beni immateriali, è risolto grazie al concetto di Zuweisungsgehalt: ciascuno ha un diritto di esclusiva sull’utilizzazione e lo sfruttamento delle utilità rientranti nell’ambito di una sua situazione protetta. La dottrina tedesca (73) attribuisce alla restituzione del
profitto la funzione di reintegrare il diritto di proprietà (Fortbildung), così
attuando la completa protezione di tale diritto dall’ingerenza di terzi, protezione che non potrebbe invece essere affidata alle sole azioni rivendicatoria e negatoria.
Nel sistema anglo-tedesco, la illegittima interferenza con i diritti di cui
un altro soggetto è titolare, è di per sé, come direbbero i common lawyers,
un «unjust factor» (74), indipendentemente dalla prova di una diminuzione
patrimoniale.
(71) Sullo strumento rimediale del disgorgiment cfr. la recente monografia di Pardolesi,
Profitto illecito e risarcimento del danno, Trento, 2005, ove anche l’invito (p. 83) « a considerare con rinnovata attenzione la soluzione adottata nei sistemi di common law ».
(72) Ma avvisa Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, cit., p. 8, che « l’organizzazione giuridica, in passato nettamente contrapposta fra Paesi del Vecchio e del Nuovo continente, tende progressivamente ad uniformarsi, e il judge made law è ormai altrettanto presente in civil law quanto in common law».
(73) Wilburg, Die Lehre von der ungerechtfertigten Bereicherung nach österreichischem unf
deutschem Recht, Graz, 1934, p. 27 ss.
(74) Cfr. Burrows, The law of restitution, Londra 1993, passim (e in particolare il cap. 13
con riguardo alla interferenza con i diritti di proprietà dell’attore).
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Il futuro delle restituzioni sembra andare, allora, nel senso opposto a
quello della nostra tradizione giuridica, la quale è caduta in una contraddizione di fondo: quella di credere che « l’azione è data, più che contro l’arricchimento senza causa, per evitare l’arricchimento a danno altrui» (75),
spostando così il baricentro del rimedio dalla persona dell’arricchito a
quella del « danneggiato », e finendo col tradire lo spirito dell’arricchimento senza causa in ossequio a quello del neminem laedere.
Ma il perdurante valore di questa impostazione è negato dai sistemi
giuridici stranieri:
a) il riferimento al danno non appare nel BGB, ove vige il concetto di
«auf dessen Kosten » (76). In sede di codificazione, l’espressione venne preferita a quella «aus dessen Vermögen » appunto perché risultasse chiara la
non necessarietà del danno o del trasferimento patrimoniale, e per evidenziare come invece fosse sufficiente la sola presenza di un profitto realizzato attraverso lo sfruttamento abusivo delle altrui risorse. La soluzione ha avuto la sua definitiva consacrazione (77) nella decisione della Corte
Suprema del 1971 (Flugreiseentscheidung): BGHZ 55, 128. Proprio sul presupposto che alla nascita delle obbligazioni restitutorie non sia coessenziale la prova del danno e del nesso di correlazione, i giudici condannarono un minore che aveva viaggiato in aereo senza biglietto da Amburgo fino a New York, a pagare il corrispettivo del volo: in questo caso non entrava in gioco né la responsabilità contrattuale (il passeggero, peraltro minore, non aveva concluso alcun contratto con la compagnia aerea), né
quella aquiliana, non essendo riscontrabile un danno. Il minore aveva tuttavia risparmiato una spesa, ed era quindi configurabile il rimedio dell’arricchimento senza causa.
Il perno su cui si fonda la Eingriffskondiktion non è dato dall’illiceità
del comportamento dell’arricchito (come nell’elaborazione, ormai superata, della Rechtswidrigkeitstheorie), ma da una regola autonoma dall’illecito
ed invece tipica dell’arricchimento (in ossequio alla Zuweisungstheorie): il
profitto riconducibile allo sfruttamento abusivo dell’utilità altrui deve essere restituito, perché i relativi benefici, anche solo potenziali, spettano in
via esclusiva al titolare.
Il Codice Federale Svizzero del 1911, all’art. 62 (70), ricalca l’espressio(75) Trabucchi, voce Arricchimento (Azione di) (Diritto Civile), in Enc. dir., vol. III, Milano, 1959, p. 68 s.
(76) Non c’è dubbio che l’espressione riguardi solo le ipotesi di Bereicherung in sonstiger
Weise, non invece quelle di Leistungskondiktion.
(77) Come ricorda Gallo, I rimedi restitutori in diritto comparato, cit., p. 74.
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951
ne del BGB. Anche in Svizzera, oggi, nonostante la dottrina tradizionale,
come quella italiana, richiedesse il requisito della diminuzione patrimoniale e adottasse il criterio della « minor somma », la tendenza attualmente prevalente è nel senso che la restituzione non debba essere limitata dal
valore della diminuzione patrimoniale subita dall’impoverito; il rimedio
non ha la funzione di riparare il danno, ma di far ottenere la restituzione
dei profitti ottenuti a spese dell’attore. L’art. 64 limita la restituzione all’arricchimento ancora esistente in capo al convenuto al momento della
proposizione dell’azione; peraltro, deve tenersi conto delle spese effettuate dall’arricchito (di tutte le spese se egli era in buona fede, soltanto di
quelle utili se in mala fede) (78).
b) Il codice portoghese (art. 473, n. 1) utilizza l’espressione «custa de
outrem », con cui si identifica la necessità che il profitto sia avvenuto grazie
a beni o utilità appartenenti ad altra persona (79). Anche il recente codice
civile brasiliano, come il portoghese, seguendo l’impostazione del BGB,
non menziona il requisito del danno e si accontenta dell’esistenza di un
profitto ottenuto invadendo l’altrui sfera giuridica (80). Sulla stessa scia si
pone il codice giapponese del 1898, che all’art. 704, all’espressione « correlativa diminuzione patrimoniale » preferisce il concetto di arricchimento
ottenuto a spese altrui (81).
c) Anche la più recente dottrina spagnola, contrastando le convinzioni
più tradizionali delle Corti, ha ammesso la restituzione dell’arricchimento
anche oltre il limite dell’impoverimento, ritenendo che il centro di gravità
dell’azione debba essere situato esclusivamente nell’arricchimento. Si rileva pertanto (82) che l’indennizzo non è dovuto per l’uso in sé della cosa
(78) Cfr. Chappins, La restitution des profits illegittimes, Helbig 8, Liechtenstein, Faculté
de Droit de Geneve, 1991.
(79) Cfr. De Almeida Costa, Noções de direito civil, Coimbra, 1991, p. 76 ss.; Cunha
Goncalves, Tratado de direito civil, IV, Coimbra, 1931, concernente il vecchio codice civile
portoghese, del 1867 (che come il codice francese non consacrava il principio, riconosciuto
però sia in dottrina sia in giurisprudenza); Leite de Campos, A subsidiariedade da obrigação de restituir o enriquecimento, Almedina, 1974; Id., Enriquecimento sem causa, responsabilidade civil e nulidade, in Revistas dos Tribunais, 1982, n. 560, p. 262.
(80) Cfr. artt. 884-886. Sulla situazione antecedente v. Negreiros, Enriquecimento sem
causa – aspectos de sua aplicaçâo no Brasil como un princìpio geral de direito, in Revista da
Ordem dos Advogados, 55-III, Lisboa, 1995, p. 798 ss.
(81) Cfr. Civil code of Japan, trad. inglese di Becker, Londra, 1909.
(82) Cfr. Alvarez Caperochipi, El enriquecimiento sin causa en la jurisprudencia del Tribunal Supremo, in RDP, 1977, p. 872 ss.; Id., El enriquecimiento sin causa en el derecho civil
español, in RGLJ, t. 236, 1974, p. 415 e p. 495; Id., El enriquecimiento sin causa, Granada,
1989, p. 126 s.
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o utilità altrui; non si restituisce il valore dell’utilizzazione, bensì il guadagno che è derivato dalla detenzione del bene altrui. Nel caso di mala fede dell’arricchito, egli dovrebbe restituire tutti i profitti ricavati, e persino
quelli che sarebbe stato possibile ricavare. Quando si parla di requisiti dell’azione, occorre abbandonare la prospettiva del patrimonio impoverito, e
deve farsi riferimento unicamente all’esistenza di un arricchimento senza
causa, prendendosi atto che in alcune fattispecie la restituzione dell’arricchimento è indipendente dall’esistenza di una correlativa diminuzione patrimoniale.
d) Il Restatement of restitution americano del 1937 non accenna al danno (damage) ma utilizza l’espressione «at the expense of »; anche in Scozia, le «draft rules on unjustified enrichment » hanno adottato la espressione «at the expense of another person » (83); e in tutti i sistemi di common
law, in generale, è questa l’accezione invalsa e unanimemente riconosciuta presso pratici e teorici.
In sintesi, in tutti i sistemi che non si richiamano al modello francese
(ma anche in altri che hanno semplicemente preso le distanze sul punto),
la prova di un danno effettivo e di una correlazione tra beneficio e diminuzione patrimoniale non è necessaria: quello che da noi è denominato
« danno », è altrove identificato nell’uso della proprietà, nel godimento del
diritto, nell’interferenza con le posizioni patrimoniali aliene: nella ingerenza, in definitiva, nella sfera giuridica di un altro soggetto e nello sfruttamento delle sue risorse (84).
La necessarietà di un pregiudizio patrimoniale come requisito dell’azione di arricchimento è stata inoltre negata con forza e profondità di indagine più di recente da Basozabal
Arrue, Enriquecimiento injustificado por intromision en derecho ajeno, Madrid, 1998, p. 38
ss. Altri studi fondamentali nel diritto spagnolo sono: Díez Picazo y De La Cámara, Dos
estudios sobre el enriquecimiento sin causa, Madrid, 1988; Díez Picazo, La doctrina del enriquecimiento injustificado, Madrid, 1987 (discurso de ingreso en la Real Academia de Jurisprudencia y Legislación contestado por De la Cámara); Lacruz Berdejo, Notas sobre el enriquecimiento sin causa, in RCDI, 1969, p. 569; Nuñez Lagos, El enriquecimiento sin causa en
el Derecho español, Madrid, 1934.
(83) Scot. Law Com. D.P. No. 99, Appendix (in Rose, Blackstonès Statutes on contract,
tort & restitution, 2000/2001, London, 2000, IX, p. 523): al n. 1 è dettato il principio generale, secondo cui «a person who has been enriched at the expense of another person is bound, if
the enrichment is unjustified, to redress the enrichment ».
(84) Palmer, The law of restitutions, Boston-Toronto, 1978, p. 133, nella sua monumentale opera, riguardo all’espressione «at the plaintiff’s expense » afferma: «the general requirement . . . does not mean that the gain to the defendant need to be equated to the loss to the
plaintiff, nor indeed that there need be any loss to the plaintiff except in the sense that a legally
protected interest has been invaded ».
SAGGI
953
6.1. – Una ulteriore, decisiva, differenza tra il modello tedesco-angloamericano e quello franco-italiano è che il rimedio restitutorio, nel primo,
non ha carattere sussidiario. Ha prevalso, infatti, una ricostruzione incentrata sulla sola esistenza della lesione ingiusta dell’altrui sfera personale e
dell’arricchimento altrui.
Nei sistemi di common law, il principio dell’arricchimento ingiustificato si fonda su soli tre presupposti: a) an enrichment of the defendant; b)
which is at the expense of the plaintiff; c) which enrichment is unjust. Il Restatement of Restitution americano (1937), nei suoi ben 215 paragrafi, non
accenna minimamente al requisito della sussidiarietà.
Negli Stati Uniti ed in Inghilterra la possibilità di «to waive the tort »,
ossia di “accantonare” il torto per agire in arricchimento, è consentita anche a preferenza di quella delittuale: l’attore ha la possibilità di scegliere
tra i due rimedi il più idoneo alla tutela del suo interesse, e preferirà agire
in arricchimento, ad esempio, se il rimedio delittuale si è prescritto, oppure se valuterà conveniente ottenere, piuttosto che il risarcimento del danno subito, l’intera devoluzione dei profitti conseguiti dal convenuto (c.d.
accounting of profits) (85).
Nel sistema tedesco, il § 812 BGB, dopo aver enunciato la ormai nota
regola secondo cui « chi mediante la prestazione di un altro o in altro modo consegue qualcosa senza una causa giuridica a spese di un altro, è tenuto verso questi alla restituzione », prosegue specificando che « quest’obbligo sussiste anche quando la causa giuridica viene a mancare successivamente o quando non si verifica il risultato avuto di mira con la prestazione, secondo il contenuto del negozio giuridico ». Il § 852 BGB concede
poi all’impoverito di agire in arricchimento anche quando si sia prescritta
l’azione delittuale: l’utilità di questa disposizione è data dal fatto che
mentre l’azione per risarcimento danni si prescrive secondo il termine ordinario, e dunque in tre anni (§ 195 BGB), la pretesa restitutoria dell’arricchimento ingiustificato « si prescrive in dieci anni dal momento in cui è
Nel suo studio in due tomi sulla vigenza del rimedio negli ordinamenti sia di civil law
sia di common law, Fabrega Ponce, El enriquecimiento sin causa, I, Santafé de Bogotà,
1996, p. 284, dà atto che le nuove tendenze dottrinali su scala mondiale convergono verso
l’abbandono dell’idea dell’indispensabilità dell’impoverimento, a vantaggio della sufficienza di una intromissione o invasione nei diritti altrui. Soluzione, questa, che lo stesso autore (p. 288) considera la più giusta e la più idonea alla tutela delle posizioni giuridiche.
(85) Tra gli scritti più recenti: Friedmann, Restitutions of Benefits Obtained through the
Appropriation of Property or the Commission of Wrong, in 80 Col. L.R., 1980, p. 504; Hedley,
The Myth of Waiver of Tort, in 100 L.Q.R., 1984, p. 653.
954
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
sorto, senza riguardo al suo sorgere nei 30 anni dal compimento dell’atto
dannoso o dall’accadimento di qualsiasi altro fatto da cui sia scaturito un
danno » (§ 852 BGB) (86).
Manca quindi, nel codice tedesco, un qualsiasi accenno alla sussidiarietà. Il concorso tra rimedi esiste non solo con l’azione da fatto illecito,
ma anche con le pretese reali o possessorie. Nonostante la dottrina si fosse inizialmente divisa, pur in assenza di apposita norma, sull’opportunità
di ventilare comunque una Subsidiarität, ed in particolare tra una tesi
estrema che pretendeva una absolute Subsidiarität ed una tesi più elastica
che si accontentava di una relative Subsidiarität (ossia tale da impedire il
concorso solo con riguardo ad alcune delle azioni tipiche esercitabili), si è
convenuto che l’elemento della « mancanza di fondamento giuridico »
(«ohne rechtlichen Grund ») è già elemento sufficiente per delimitare il
campo d’azione del rimedio restitutorio. Inoltre, nei casi in cui sussiste
una regolamentazione speciale, è evidente che essa deve prevalere sulla
disciplina generale di cui al § 812, senza che si debba ricorrere al concetto
in questione (87).
Neppure il codice civile olandese menziona il concetto di sussidiarietà. Eppure la questione fu affrontata da Meijers durante i lavori preparatori (88), ove si fece riferimento all’eventualità che una situazione potesse essere governata, contemporaneamente, dagli articoli sulla restituzione
e da un’altra regola giuridica. Si è stabilito che la questione va risolta tenendo presente l’obiettivo dell’altra regola giuridica coinvolta: se l’altro rimedio applicabile è quello della responsabilità per danni (nel senso che
sono riscontrabili tutti i presupposti sia dell’uno sia dell’altro), è rimessa
all’attore la scelta di esperire il rimedio che preferisce (89).
(86) È altrettanto evidente l’utilità che una simile soluzione avrebbe nel nostro sistema, ove l’azione di arricchimento è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale, in base
all’art. 2946 c.c. (un caso particolare è quello dell’azione di arricchimento di cui all’art. 67
l. camb., che è soggetta alla prescrizione annuale a norma dell’art. 94 ultimo comma legge
citata).
(87) Altra cosa è l’introduzione dottrinale del c.d. Subsidiaritätsdogma delle Nichtleistungs kondiktionen rispetto alla Leistungskondiktion, che si risolve nel far assurgere la Leistungskondiktion a rimedio esclusivo nei casi in cui « l’arricchimento dipende da prestazione e pure ricorre in concreto la possibilità di agire con l’arricchimento contro un terzo, perché altrimenti una delle parti potrebbe far carico a terzi dell’insolvenza della propria controparte » (Nicolussi, Arricchimento senza causa e Bereicherungsrecht, cit., p. 295).
(88) Van Zeben, Parlamentaire Geschiedenis van het Nieuw Burgerlijk Wetboek, boek 6,
p. 830.
(89) Tuttavia, per l’art. 52 BW, il rimedio restitutorio non può essere esperito se lo sco-
SAGGI
955
Anche la dottrina e la giurisprudenza spagnola hanno, negli ultimi anni,
modificato l’originaria propensione a costruire l’azione di arricchimento come rimedio sussidiario, così emancipandosi dal modello francese. Il codice
spagnolo, come quello francese, non codifica l’istituto, e i giudici spagnoli lo
hanno tradizionalmente ricostruito dotandolo delle stesse prerogative che
esso aveva precedentemente acquisito nei sistemi francese ed italiano. Fino
a quando l’elaborazione dogmatica del divieto di arricchimento aveva scarsa
elaborazione, e se ne dava ancora una spiegazione in termini di « regola morale », la natura sussidiaria era risultata funzionale all’esigenza di evitare una
sproporzionata ampiezza dell’azione (90). Ma oggi si osserva (91) che non vi è
alcuna ragione per sostenere l’incompatibilità tra azione aquiliana ed actio
de in rem verso, o la sussidiarietà della seconda nei confronti della prima, in
considerazione della diversità di funzione, requisiti e termini di prescrizione
dei due rimedi (per l’art. 1.968 del codice civile spagnolo, l’azione aquiliana
si prescrive in un anno; all’azione di arricchimento, in mancanza di una
espressa previsione legale, si applica il termine di quindici anni sancito dall’art. 1.964). Ad una maggiore definizione in termini tecnici dell’azione di arricchimento e del suo ambito operativo ad opera della giurisprudenza, ed alla progressiva migliore comprensione del fenomeno, la sussidiarietà ha perso il proprio fondamento, tant’è che oggi si proclama apertamente la compatibilità dell’azione di arricchimento con l’azione aquiliana, sia al fine di
consentire l’esercizio della prima una volta prescritta la seconda, sia per ammettere la restituzione del profitto conseguente all’illecito (92).
Cosa avviene invece in Italia? Avviene che la generale propensione
po dell’altra regola giuridica applicabile è quello di regolare interamente la materia: è questo il caso delle norme che sanciscono la prescrizione del diritto, la quale preclude la domanda di arricchimento ingiusto. Sul punto cfr. Schrage-Nicholas, Unjust Enrichment
and the Law of Restitution: A Comparison, in Unjust Enrichment. The Comparative Legal History of the Law of Restitution, a cura di Eltjo J. H. Schrage, Berlin, 1995, p. 29 s.
(90) Cfr. Alvarez Caperochipi, El enriquecimiento sin causa, Granada, 1989, p. 108 s. e
p. 116; Lacruz Berdejo, Notas sobre el enriquecimiento sin causa, in RCDI, 1969, p. 595 ss.,;
Miquel González, voce Enriquecimiento injustificado, in Enciclopedìa juridica básica, vol.
II, Madrid, 1995, p. 2806.
(91) Basozabal Arrue, Enriquecimiento injustificado por intromision en derecho ajeno,
cit., p. 104.
(92) Alvarez Caperochipi, ult. op. cit., p. 110 s. In giurisprudenza, S., TS, 24 gennaio
1975. La sentenza della svolta è però quella del Tribunal Supremo del 12 aprile 1955, che per
la prima volta affermò la sostanziale differenza tra l’azione per danni, la quale può fare a
meno del requisito dell’arricchimento, dall’azione di arricchimento, la quale non necessita
del danno, essendo sufficiente il solo fatto del «desplazamiento patrimonial indebido ».
956
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
della scienza giuridica italiana per un’interpretazione restrittiva dei requisiti dell’azione di arricchimento (93), trovi il suo terreno più fertile, da un
lato, nella « diminuzione patrimoniale » richiesta dall’art. 2041 c.c., dall’altro proprio nel disposto dell’art. 2042 c.c. (94), risultando vincente la concezione della « sussidiarietà in astratto »: il ricorso all’azione di arricchimento è possibile solamente in presenza di un “danno” e solo quando sin
dall’origine non vi fosse alcun altro rimedio anche solo astrattamente
esperibile al fine di ottenere un indennizzo (95).
La diretta conseguenza è la rilevanza pratica nettamente superiore che
il principio dell’arricchimento ha assunto negli ordinamenti dei Paesi citati, rispetto al nostro, che rischia l’emarginazione da una discussione sempre più attuale in campo internazionale. Tanto più che in Italia la concezione prevalsa della sussidiarietà è per certi versi ancora più restrittiva di
quella francese; la giurisprudenza transalpina ha infatti adottato la distin(93) Nonostante l’azione di arricchimento sia stata oggetto intorno agli anni sessanta di
tre importanti studi monografici (Sacco, L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto,
Torino 1959; Trimarchi, L’arricchimento senza causa, Milano, 1962; Barbiera, L’ingiustificato arricchimento, Napoli, 1964), non sembra che in seguito la letteratura giuridica italiana,
salvo rare eccezioni (in specie Gallo, L’arricchimento senza causa, cit.; Id., Arricchimento
senza causa e quasi contratti, cit.; più recentemente, Id., Arricchimento senza causa. Artt.
2041-2041, ne Il codice civile. Commentario fondato da Schlesinger, diretto da Busnelli, Milano, 2003), abbia compreso appieno le potenzialità dell’istituto. Solo ultimamente il tema
è stato al centro di un rinnovato interesse, come dimostrano le monografie di Carusi, Le
obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2004; di Nicolussi, La lesione del potere di disposizione e l’arricchimento, cit.; di Albanese, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa,
cit.; e, in prospettiva comparativistica, di Pardolesi, op. cit. Ampio spazio all’arricchimento senza causa è dato inoltre nella monografia di Sirena, La gestione di affari altrui, Torino,
1999, il quale concorda nell’ammettere il concorso alternativo tra azione di arricchimento e
risarcimento del danno; tesi, questa, da lui recentemente ribadita nel saggio Note critiche
sulla sussidiarietà dell’azione generale di arricchimento senza causa, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 2005, p. 105, in part. p. 117.
(94) Cass., 15 novembre 1994, n. 9629, in Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11; Cass., 29 novembre 1993, n. 11850, ivi, 1993, fasc. 11; Cass., sez. lav., 3 aprile 1990, n. 2679, in Riv. giur.
lav., 1990, II, p. 265.
(95) Secondo la opposta concezione della « sussidiarietà in concreto », l’art. 2042 c.c. ha
il senso di escludere l’esercizio dell’azione di arricchimento solo per il tempo in cui sussiste
l’offerta di altre difese. Se questa soluzione fosse esatta, la natura di clausola generale del
rimedio non sarebbe più inconciliabile con il suo carattere sussidiario, risultando altrimenti contraddittorio il conferimento al giudice di una delega così rilevante e tuttavia concretizzabile soltanto nei casi in cui nessun altro rimedio sia astrattamente esperibile. Specificamente al tema della compatibilità tra restituzione e risarcimento è dedicato il mio saggio intitolato Art. 2041 c.c. e art. 2043 c.c.: compatibilità di due « clausole generali » non sussidiarie?,
in La responsabilità civile, 2005, p. 149.
SAGGI
957
zione tra ostacolo di diritto (come la prescrizione o la decadenza) e ostacolo di fatto (come la bancarotta del convenuto): solo se l’azione principale non poteva essere esercitata a causa di un ostacolo di diritto, l’esperibilità dell’actio de in rem verso è preclusa (96).
Ad ogni modo, la rigorosa esegesi svolta in Italia in merito al carattere
sussidiario, e per suo mezzo la sostanziale eliminazione dell’azione di arricchimento dall’ordinamento, trova ancora una volta riscontro nel solo
sistema francese. Ma in Francia, ove la diffidenza verso l’istituto è stata tale da evitarne addirittura una normazione espressa, la giurisprudenza che
lo applica deve fare i conti con un sistema meno elastico di quello che si
pone innanzi agli interpreti italiani, non essendo lì consentito in nessun
caso il cumulo tra diversi rimedi (da noi ormai ampiamente ammesso
quanto meno in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale). Peraltro anche gli studiosi francesi cominciano a parlare della subsidiarité come di un principe inutile ed embarassant (97).
Nel nostro ordinamento, le potenzialità della clausola generale di arricchimento andrebbero soprattutto sviluppate nei casi di illegittima interferenza di terzi in interessi meritevoli di protezione: ad esempio nel
caso della violazione di diritti su beni immateriali (si pensi alle opere dell’ingegno non brevettate o non brevettabili, o alla tutela del marchio di
fatto) (98), o di diritti della personalità come quello, particolarmente significativo, all’immagine, ove la tecnica riparatoria, di creazione giuri-
(96) Peraltro, nel senso di un’erosione della sussidiarietà si è espressa di recente anche
la Corte di Cassazione francese in una pronuncia che ha suscitato stupore in dottrina:
Cass., 3 giugno 1997, in Juris-Classeur périodique, 1998, p. 1157.
(97) Remy, Le principe de subsidiarité de l’action de in rem verso en droit français, in L’arricchimento senza causa a cura di Mannino, cit., p. 71 ss.
(98) Cfr. Castronovo, La violazione della proprietà come lesione del potere di disposizione. Dal danno all’arricchimento, in Dir. ind., 2003, p. 7; Id., La nuova responsabilità civile,
cit., p. 643, il quale, argomentando dall’art. 2038 c.c., spiega come, se non nella contraffazione quanto meno nell’usurpazione, l’azione di arricchimento, e non quella aquiliana, sia
il rimedio idoneo rispetto alla lesione del diritto sotto il profilo del potere di disposizione.
Secondo l’Autore (ult. op. cit., p. 646), l’art. 125 del Codice della proprietà industriale (d.lgs.
n. 30/2005), nella parte in cui prevede che « il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto »,
confonde il profilo restitutorio con quello risarcitorio, giacché mentre il lucro cessante è categoria del risarcimento del danno, il riferimento agli utili ed ai compensi riguarda « valori
accresciutisi, in termini di vero e proprio guadagno o di mancata spesa, nella sfera dell’autore della violazione ».
Sirena, La restituzione del profitto ingiustificato (nel diritto industriale italiano), in Studi
958
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
sprudenziale, del « prezzo del consenso » non offre adeguata tutela al
soggetto leso, in specie quando trattasi di persona non nota (99). Forti
sono poi le perplessità che suscita l’adozione della tecnica risarcitoria
in altri casi ove sembrerebbe più pertinente l’adozione della logica restitutoria: si pensi agli atti incolpevoli (e quindi irrilevanti per l’art.
2600 c.c.) di concorrenza sleale (100), alla posizione dell’alienante nella
doppia alienazione immobiliare (101), al danno subito dal datore di lavoro per inabilità temporanea del lavoratore dovuta al fatto illecito del
terzo (102).
Per estendere l’operatività del rimedio a tutti questi casi, sarebbe
sufficiente riconoscere che la locuzione « a danno » contenuta nell’art.
2041 c.c., in realtà, non è dissimile da quella « a spese » del sistema anglotedesco, ed accogliere in via interpretativa, per altri versi, una concezione
di sussidiarietà scevra dai pregiudizi che atavicamente caratterizzano l’istituto. Né il requisito della diminuzione patrimoniale, né quello della sussidiarietà costituiscono ostacoli insormontabili.
Le future generazioni di studiosi e di pratici non possono chiudersi là
dove sono gli stessi Maestri ad invitare all’apertura, ammonendo che « la
statualità e la nazionalità del diritto non sono fattori di progresso, bensì di
crisi del diritto » (103). La dottrina italiana moderna comincia, peraltro, an-
in onore di Gerhard Schricker, Milano 2005, p. 256, il quale applica direttamente l’art. 2028
c.c., risolvendo quindi il problema della restituzione del profitto attraverso l’istituto della gestione di affari; Plaia, Proprietà intellettuale e risarcimento del danno, Torino, 2005, p. 103 ss.
L’art. 125 del Codice della proprietà industriale (decreto legislativo 10 febbraio 2005, n.
30), afferma, quanto al risarcimento del danno, che « il lucro cessante è valutato dal giudice
anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto ».
(99) Cfr. Albanese, La lesione del diritto all’immagine (e degli altri diritti della personalità): una alternativa alla tecnica risarcitoria del « prezzo del consenso », in Responsabilità, comunicazione e impresa, 2002, p. 547; Id., Immagine: lesione del diritto e consenso tacito allo
sfruttamento commerciale, in La responsabilità civile, 2004, p. 112.
(100) Sulla « rilevanza dell’arricchimento nella caratterizzazione settoriale del danno da
illecito concorrenziale », v. Genovese, Il risarcimento del danno da illecito concorrenziale,
Napoli, 2005, p. 113 ss.
(101) In tema: Nicolussi, La lesione del potere di disposizione e l’arricchimento, cit., p.
690 ss.; Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit., pp. 629-654; Venturelli, La doppia alienazione immobiliare tra risarcimento e restituzioni. La posizione della giurisprudenza,
in Obbligazioni e Contratti, 2005, p. 232; Id., La doppia alienazione immobiliare: profili risarcitori e restitutori, ivi, 2005, p. 339.
(102) Castronovo, Le frontiere nobili della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1989,
p. 593 ss.
(103) Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, cit., p. 35.
SAGGI
959
che valorizzando la natura di clausola generale del rimedio, a muoversi
gradualmente nella direzione indicata (104).
7. – Dall’indagine svolta emergono le difficoltà, riscontrate all’interno degli ordinamenti nazionali, di una riconduzione di tutte le restituzioni nell’alveo dell’arricchimento ingiustificato, nonostante una tale riassunzione sia
diffusamente valutata quale positivo fattore di ordine per il sistema: un’aspirazione, dunque, che assume rilievo anche in chiave europea.
Emergono anche, però, tre diverse tendenze sulle quali sembrano convergere sia i sistemi che accolgono una concezione unitaria sia quelli che la
rigettano: la prima, è la tendenza verso una distinzione tra gli arricchimenti
derivanti dall’iniziativa dell’impoverito e quelli derivanti dall’iniziativa dell’arricchito (che in Italia usiamo definire « arricchimenti ottenuti mediante
fatto ingiusto »); la seconda tendenza sposta il baricentro dell’azione di arricchimento sul versante dell’arricchito piuttosto che del “danneggiato”, con
la conseguenza che assume rilievo centrale il profitto ottenuto invadendo
l’altrui sfera giuridica, piuttosto che la effettiva diminuzione patrimoniale; la
terza tendenza, forse la più evidente, è nel senso di una erosione del carattere sussidiario del rimedio.
Queste tendenze non possono non influenzare la questione del rapporto tra singoli mezzi restitutori e arricchimento ingiustificato. La convergenza su questi tre punti, anzi, sembra la base più solida per la costruzione di
una disciplina restitutoria europea.
Non è un caso che i Principles of European Unjustified Enrichment Law,
che vorrebbero costituire, appunto, una sintesi delle soluzioni prevalenti negli ordinamenti nazionali, non fanno riferimento alla “sussidiarietà”, bensì
alla «justification» (art. 2: 101), ciò che, tradotto nel nostro linguaggio restitutorio, significa che l’ambito operativo dell’arricchimento senza causa va sì
delimitato, ma che a tal fine è sufficiente un adeguato controllo sulla presenza o l’assenza di una giusta causa.
È alla luce delle menzionate tendenze, d’altronde, che i Principles, pur
accogliendo una sistemazione di tipo unitario che ricomprende le singole
fattispecie restitutorie all’interno del divieto generale di arricchimenti senza
(104) Aderiscono espressamente alla tesi da me formulata in Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, cit., ed in Il pagamento dell’indebito, cit.; Venturelli, La doppia
alienazione immobiliare tra risarcimento e restituzioni, cit., p. 245; Todaro, Buona fede contrattuale: nuovi sviluppi della Cassazione, in Contr. e impr., 2005, p. 583; Corrias, Garanzia
pura e contratti di rischio, Milano, 2006, p. 195, nota 66 in part.; Tedoldi, Tutela risarcitoria
e tutela restitutoria in caso di omessa notifica dell’ordinanza di vendita al creditore iscritto (con
brevi note sulla responsabilità e processo), in www.judicium.it
960
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
causa, quando si occupano della absence of justification (art. 2: 101, rubricato
«When Enrichment Unjustified »), si preoccupano di distinguere tra gli Enrichments not Conferred (105) e gli Enrichments Conferred (106). Il che non sembra essere molto diverso da una riedizione, con un nuovo lessico, della distinzione tedesca tra Leistungskondiktion e Eingriffskondiktion, della distinzione inglese tra arricchimenti derivanti from or by the act of the plantiff e arricchimenti ottenuti dall’arricchito by his own wrongful conduct, della distinzione italiana tra arricchimenti derivanti dall’iniziativa dell’impoverito e arricchimenti ottenuti mediante fatto ingiusto.
L’art. 7: 102 dei Principles, poi, rubricato Concurrent Obligations, nell’ammettere la possibilità del cumulo tra responsabilità civile e arricchimento
senza causa, sancisce che quando l’impoverito ha altresì «a claim for reparation for disadvantage », allora «the satisfaction of one of the claims reduces the
other claim by the same amount ».
La chiave di volta per l’accoglimento di una concezione unitaria a livello
europeo, allora, presenta le stesse scanalature della chiave di lettura recentemente proposta a livello italiano: mantenere all’interno di una clausola generale, che abbia il proprio fulcro nell’assenza di giusta causa, un’inequivoca
distinzione tra i molteplici e diversi principi ordinatori della materia. Concezioni unitarie e concezioni “disgregatrici” possono fondersi, così, in una sintesi inaspettata.
Rimane peraltro da vedere se una tale sintesi davvero possa, e debba, essere rimessa alla legge, o non sia piuttosto destinata ad avere più rapido riscontro nelle soluzioni giurisprudenziali, in un futuro nel quale « l’adeguamento del diritto ai mutamenti della realtà non può essere rimesso solo ad
uno strumento rigido, qual è la legge » ma « richiede anche uno strumento
flessibile, qual è la giurisprudenza, idoneo ad evolversi giorno per giorno
in sintonia con l’evoluzione della realtà » (107).
(105) Art. 2: 101, comma 1°: An enrichment is unjustified unless:
(a) the enriched person is entitled as against the disadvantage person to the benefit of the
enrichiment by virtue of a contract or other juridical act, acourt order or a rule of law; or
(b) the disadvantaged person consentend freely and without error to the disadvantage».
(106) Art. 2: 101, comma (3): « An enrichment is also unjustified if:
(a) the disadvantaged person conferred it:
(i) for a purpose which is not achieved; or
(ii) with an expectation which is not realised;
(b) the enriched person knew of, or could reasonably be expected to know of, the purpose or
expectation; and
(c) the enriched person accepted or could reasonably be assumed to have accepted that the
enrichment must be reversed in such circumstances ».
(107) Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, cit., p. 115.
NAJDAT AL NAJJARI-ERICA MUSSATO
L’impatto del diritto comunitario nell’ordinamento interno:
in particolare, il problema della discriminazione « a rovescio »
nell’accesso alle professioni tra giurisprudenza e interventi normativi
Sommario: 1. Premessa: il concetto di discriminazione « a rovescio ». – 2. La discriminazione « a rovescio » e le professioni regolamentate: una ricostruzione storica. – 3. Origine
delle discriminazioni « a rovescio ». – 4. I possibili rimedi di natura giurisdizionale:
Corte di Giustizia e Corte Costituzionale. – 5. La giurisprudenza recente della Corte di
Giustizia e la professione di avvocato. – 6. Altre decisioni rilevanti in tema di discriminazioni « a rovescio ». – 7. La posizione della Corte Costituzionale. – 8. Segue: Il principio di uguaglianza tra Corte di Giustizia e Corte Costituzionale. – 9. La Corte Costituzionale e le discriminazioni « a rovescio ». – 10. L’articolo 2, comma 1°, lett. h), della
legge comunitaria 2005. – 11. Campo di applicazione soggettivo: le attività professionali e commerciali. – 12. Prospettive ed attuazione del divieto. – 13. Conclusioni.
1. – Il verificarsi di situazioni riconducibili nello schema delle discriminazioni « a rovescio » costituisce un risultato, come vedremo, quasi fisiologico dell’integrazione della legislazione tra Stati membri; vale la pena
di studiarne la genesi anche perché, nonostante la portata spesso notevole
delle sue implicazioni, essa è un fenomeno giuridico poco analizzato (1) che
ha trovato soltanto di recente, nell’ultima Legge comunitaria 2005, un primo abbozzo di riconoscimento a livello normativo.
Oggetto di questo contributo è lo studio dell’influsso che il diritto di
fonte comunitaria ha nell’ordinamento interno del nostro Paese con riferimento alla delicata tematica della cosiddetta discriminazione “a rovescio”. In particolare saranno evidenziate le problematiche relative al mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali e quelle sulle libertà di
stabilimento e di prestazione dei servizi nell’ambito delle cosiddette
« professioni regolamentate ».
Il diritto europeo impone ai singoli Stati membri di non discriminare i
cittadini comunitari che – per esercitare la propria professione – migrano
da un Stato all’altro, in applicazione della fondamentale libertà di circolazione e di libera prestazione dei servizi; onde permettere la realizzazione
(1) Lo dimostra la scarsa giurisprudenza resa in subiecta materia. Tutta la giurisprudenza comunitaria citata nel presente saggio è tratta dal sito www.curia.eu.
962
CONTRATTO E IMPRESA / EUROPA
di questa libertà, peraltro, il diritto comunitario vieta che il singolo Stato
membro applichi ai cittadini provenienti da altro Stato membro eventuali
normative interne più restrittive rispetto a quelle vigenti nella nazione di
origine del migrante stesso.
Nel quadro così delineato, pertanto, le eventuali norme nazionali esistenti al riguardo di una determinata professione conosceranno quindi
due sorti diverse:
– l’applicazione sic et simpliciter a tutti i cittadini nazionali;
– la non applicazione ai professionisti provenienti da altri Stati membri, all’interno dei quali la legislazione nazionale sia più favorevole rispetto a quella vigente nello Stato membro scelto per la migrazione.
In un quadro come quello appena delineato appare evidente che il cittadino nazionale può trovarsi in una situazione deteriore rispetto a quella
di un cittadino proveniente da altro Stato membro ove vigano, per l’esercizio di una determinata arte o professione, regole meno restrittive di
quelle vigenti nello Stato ospitante: questa è la definizione di discriminazione « a rovescio ».
È da notare come il concetto di « trattamento sfavorevole » non è fondato necessariamente su di una discriminazione in base alla nazionalità,
anche se nella maggior parte dei casi essa costituisce l’elemento preso in
considerazione dalla norma comunitaria per delimitare il proprio ambito
applicativo: le norme comunitarie infatti riguardano normalmente il trattamento da riservare ai cittadini di altri Paesi membri. Eventuali norme
nazionali più restrittive verranno pertanto applicate ai cittadini nazionali
ma non ai cittadini comunitari immigrati.
È evidente, quindi, che tale disparità di trattamento è causata – nella
sostanza – dall’applicazione del diritto comunitario, che concede ai cittadini comunitari diritti ulteriori rispetto a quelli riservati ai cittadini di ogni
singolo Stato membro e pongono perciò questi ultimi in una situazione di
svantaggio rispetto agli stranieri comunitari (2).
La norma nazionale, che viene emanata sulla base di presupposti diversi da quelli che fondano le regole comunitarie, è pertanto destinata a
regolare i rapporti con i propri cittadini che non circolano all’interno della
Comunità e la sua operatività è limitata entro i confini nazionali, a quelle
che si definiscono situazioni puramente interne.
Queste situazioni esulano, a detta della stessa Corte di Giustizia, dalla
(2) Vedi Ballarino, Manuale di diritto dell’Unione Europea, 6a ed., Padova, 2001, p.
322 ss.
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sfera di competenza del diritto comunitario in quanto « non presentano carattere transfrontaliero, o perché il soggetto non intende avvalersi dei diritti o
delle libertà garantite dal Trattato, o perché comunque la situazione non presenta alcun collegamento con una situazione contemplata dal diritto comunitario ».
2. – È principio acquisito quello secondo il quale dove c’è armonizzazione delle legislazioni la non discriminazione sussiste in re ipsa; laddove
invece non ci sia armonizzazione, deve trovare applicazione l’art. 12 Tratt.
CE il quale sancisce un generale divieto di discriminazione in base alla
cittadinanza.
La regola del trattamento nazionale (3), tuttavia, non ha sempre garantito un’effettiva parità di trattamento e ha rischiato di risolversi in una parità solo formale: la stessa non tiene infatti conto delle esperienze e delle
qualifiche pregresse maturate ed acquisite dal cittadino che proviene da
un altro Stato membro.
Per ovviare all’inadeguatezza di questa situazione sono state emanate
le direttive 89/48 CEE e 92/51 CEE come modificate dalla direttiva
2001/14 CE – ora riunite nel « testo unico » comunitario in tema di riconoscimento delle qualifiche professionali (direttiva 2005/36 CE) – che oggi
disciplinano l’accesso alle professioni regolamentate.
In forza di questa disciplina si è passati dalla regola del trattamento nazionale sopra accennata a quella del riconoscimento dei diplomi e delle
qualifiche; secondo questo sistema di regole, lo Stato membro ospitante –
ove non sussistano specifiche regole diverse dettate in ambito comunitario (4) – deve prendere atto delle qualifiche e delle esperienze che il cittadino di un altro Stato membro aveva conseguito nel Paese di origine, riconoscendone la validità e l’equipollenza rispetto alle qualifiche « nazionali ».
In tal modo è stato possibile raggiungere una parità di trattamento effettiva – e non solo, quindi, formale – tra cittadini nazionali e cittadini
provenienti da altri Stati membri, garantendo di fatto la libera circolazione dei professionisti all’interno della Comunità.
Tuttavia questa configurazione normativa ha come conseguenza di
« esonerare il cittadino di altro Stato membro dall’espletamento delle formalità richieste da ciascuna dalle legislazioni nazionali ai propri cittadini, com-
(3) In forza dell’applicazione dell’art. 12 CE.
(4) Si vedano, ad esempio, per le professioni mediche le direttive 75/362 CEE e 75/363
CEE modificate dalla direttiva 82/76 CEE.
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portando, di fatto, una posizione più gravosa di questi ultimi rispetto ai primi »: in questo modo il percorso che i cittadini nazionali devono seguire
per poter esercitare una determinata professione regolamentata risulta più
oneroso rispetto a quello riservato ai cittadini comunitari immigrati.
3. – Può accadere – come di fatto accade – che esistano diversità di disciplina tra le legislazioni nazionali, per cui in uno Stato membro è più
semplice accedere all’esercizio di una determinata professione regolamentata o ad una certa attività.
In questi casi la differenza emerge sia nel caso in cui un soggetto migri da un Paese più « restrittivo » verso un Paese più « permissivo » (ricevendo così un trattamento migliore rispetto a quello riservatogli nel Paese
d’origine), nel qual caso la disparità di trattamento è evidente, sia che il
soggetto proveniente dallo Stato più « permissivo » si rechi ad esercitare
nello Stato più « restrittivo ».
In questo secondo caso la norma comunitaria interviene perché il cittadino trattato in maniera più sfavorevole è comunque un cittadino comunitario che sta esercitando le libertà previste del Trattato e deve trovare quindi applicazione il principio del mutuo riconoscimento, in forza del
quale un cittadino proveniente da un altro Stato comunitario che nel proprio Paese di origine o in un altro Paese abbia conseguito il titolo per esercitare una determinata attività, o addirittura l’abbia già esercitata senza alcun titolo perché non previsto dalla propria normativa nazionale, può
chiedere il riconoscimento di quanto fatto in precedenza, con l’unico, ovvio limite del rispetto delle norme imperative.
Nei casi che subito esporremo la disparità originata da differenti regimi normativi posti da ciascuno Stato membro a disciplinare determinati
settori è parzialmente di competenza del diritto comunitario, in quanto
opera come ostacolo alla libera circolazione delle persone e dei servizi
nella Comunità; diversamente, la differenza dei trattamenti nazionali
opererà come stimolo verso lo Stato meno « liberale » a rivedere la propria
normativa e avvicinarla a quella dell’altro Stato membro più « liberale ».
Nel caso primo caso – il caso Knoors (5) – la Corte ha affrontato il problema di un cittadino olandese che aveva esercitato in Belgio, per vari anni, l’attività di installatore di impianti di riscaldamento; egli in seguito
aveva chiesto alle autorità del suo Paese di poter esercitare la propria pro-
(5) Corte CE, 7 novembre 1979, causa 115/78, Knoors / Staatssecretaris van Economische
Zaken segnalata da Ballarino, op. cit., p. 487.
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fessione senza la previa autorizzazione della Camera di Commercio olandese, permesso che gli era stato negato. Il sig. Knoors faceva valere il suo
diritto ad esercitare la libertà di stabilimento anche nel proprio paese di
origine avvalendosi la sua qualificazione professionale riconosciuta dal diritto comunitario.
Paradossalmente, il sig. Knoors avrebbe avuto diritto di esercitare in
Olanda la propria professione senza alcuna previa autorizzazione amministrativa se fosse stato belga o di altra nazionalità: in quel caso – infatti –
l’Olanda sarebbe stata costretta ad applicare la normativa comunitaria sulla libera prestazione dei servizi e sulla libertà di stabilimento.
La Corte intervenne e si espresse a favore del sig. Knoors, affermando
che «le libertà fondamentali del mercato unico non sarebbero realizzate se gli
Stati membri potessero negare i vantaggi del sistema comunitario ai propri
cittadini che fanno uso delle facilitazioni esistenti in materia di circolazione e
di stabilimento per acquisire in uno Stato membro diverso da quello di cui
hanno la cittadinanza la qualificazione professionale prevista da una direttiva intesa a realizzare la libertà di stabilimento ».
Questo caso è particolarmente interessante perché, anche se la situazione che ne costituisce il fulcro è situazione che può apparire puramente
interna, essa diviene rilevante per il diritto comunitario in quanto ha una
connotazione di intracomunitarietà, considerando che il soggetto in questione aveva completato la sua formazione professionale in un altro Stato
membro ed intendeva quindi esercitare le fondamentali libertà garantite
dal Trattato (6).
Il secondo caso considerato – detto caso Aubertin (7) – è rilevante ai fini che qui rilevano – di dimostrare quale possa essere l’impatto di una direttiva sul diritto interno degli Stati membri.
(6) Per il concetto e la definizione di « situazione puramente interna » e quindi non rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario, si veda Corte CE, 28 gennaio 1992,
causa C–332/90, Steen c. Deutsche Bundespost (nota anche come Steen 1). La sentenza citata riguardava un cittadino tedesco, che non aveva mai goduto, né intendeva avvalersi, della
libertà di circolazione dei lavoratori, e si era venuto a trovare in una situazione lavorativa
meno favorevole rispetto a quella assicurata nel proprio Paese a lavoratori stranieri, in forza di disposizioni del diritto comunitario. Infatti, a questi ultimi era consentito di prestare
il proprio lavoro in un regime di impiego a contratto, mentre a cittadini nazionali era permesso di svolgere quel lavoro solo come impiegati di ruolo. La Corte ha ritenuto che in tal
caso – essendo la situazione in esame di stretta rilevanza interna – il principio comunitario
di non discriminazione non potesse spiegare effetti rispetto alla normativa nazionale.
(7) Corte CE, 16 febbraio 1995, cause riunite C-29-35/94, Criminal proceedings c. Aubertin e altri e Normand.
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Nella fattispecie si tratta della direttiva 82/489 CEE (poi abrogata e sostituita dalla direttiva 99/42 CE) (8) che disciplina la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi da parte dei parrucchieri.
In Francia l’attività di parrucchiere è disciplinata a livello nazionale
con requisiti di accesso più rigorosi di quelli richiesti in altri paesi comunitari; allo stesso tempo però i parrucchieri comunitari di altri Stati membri, o i cittadini francesi divenuti parrucchieri in un altro Stato membro,
sono esonerati dall’obbligo di soddisfare i requisiti richiesti a quelli francesi, in piena armonia con la direttiva comunitaria allora in vigore per la
professione di parrucchiere (e tuttora in armonia con la « nuova » direttiva
99/42 CE).
In questo frangente la Corte di giustizia ha ribadito l’irrilevanza comunitaria della situazione, considerandola « puramente interna », per il
fatto che i parrucchieri colpiti da una normativa nazionale più severa erano soggetti la cui situazione non aveva alcun elemento di intracomunitarietà: erano cittadini francesi che avevano terminato la formazione professionale nel proprio Paese di origine e non avevano esercitato le libertà del
Trattato. Non si trovavano perciò nella stessa situazione di parrucchieri
comunitari (anche con cittadinanza francese: la discriminazione questa
volta non dipendeva dalla cittadinanza ma dal luogo dove era stata terminata o completata la formazione professionale) divenuti tali in un altro
Stato membro (9).
Da quanto sopra visto emerge, innanzitutto, che la portata del divieto
di non discriminazione previsto dal Trattato all’art. 12 non può essere
estesa all’infinito: la norma pone un principio, di portata generale, per cui
sono vietati trattamenti discriminatori in base alla nazionalità, ma esso è
limitato alle situazioni che siano rilevanti per il diritto comunitario, essendo tale principio funzionale al raggiungimento degli scopi del Trattato.
(8) Direttiva « che istituisce un meccanismo di riconoscimento delle qualifiche per le attività professionali disciplinate dalle direttive di liberalizzazione e dalle direttive recanti misure transitorie e che completa il sistema generale di riconoscimento delle qualifiche », vedi paragrafo successivo.
(9) È interessante notare che della nozione di « situazione puramente interna » si possono dare diverse definizioni. La Corte infatti, in un altro caso (Corte CE, 16 novembre
1995, C-152/94, Openbaar Ministerie c. Geert Van Buynder), ha ravvisato una situazione puramente interna anche nella situazione di un soggetto che si vedeva applicare da parte del
proprio Stato una normativa più severa rispetto a quella applicata, da un’altra normativa
statale, ad un soggetto nella medesima situazione. È palese in questo caso la non rilevanza
comunitaria della situazione: si tratta di una discrepanza di legislazioni nazionali, senza alcun rilievo comunitario.
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Estendere l’efficacia dell’art. 12 Tratt. CE a situazioni non rilevanti per
l’ordinamento comunitario comporterebbe infatti uno straripamento delle competenze comunitarie in settori di pertinenza nazionale.
Il problema riguarda piuttosto – come i casi sopra esaminati evidenziano chiaramente – la definizione di « situazione puramente interna ».
Essa viene fornita dalla Corte in negativo, e ricavata tramite la delimitazione delle competenze comunitarie: laddove una situazione non sia regolata dal diritto comunitario, la stessa si considera « situazione puramente interna », va ritenuta assolutamente irrilevante per il diritto comunitario e, di conseguenza, ricade sotto il potere d’imperio del legislatore nazionale.
Tale definizione non appare però soddisfacente in tutti quei casi in cui
c’è una sovrapposizione di competenze tra norme comunitarie e norme
statali, situazione che si può verificare spesso in quanto il riparto di competenze tra i due ordinamenti ha natura essenzialmente funzionale. Esistono infatti situazioni ambigue, in cui l’intervento della Corte si rende
necessario, o perché è dubbia (10) la natura meramente interna della situazione oggetto della causa in corso, o perché il giudice nazionale palesa la
necessità di ottenere un’interpretazione conforme delle norme comunitarie, nel momento in cui tali norme siano applicabili anche a situazioni interne equiparabili (11).
(10) Cfr., ex multis, Corte CE, 23 ottobre 2001, C-510/99, Tridon, concernente un divieto
opposto dalla normativa francese al commercio di esemplari volatili nati in cattività considerato contrario al diritto comunitario perché concernente non solo gli scambi all’interno
del territorio nazionale ma anche quelli comunitari. Il divieto, considerato dalla Francia legittimo e necessario perché « nessun sistema di controllo sarebbe atto a scoraggiare in modo efficace le frodi che consistano nel far passare uova o uccelli prelevati in natura per uova deposte in cattività o uccelli nati e allevati in detto contesto », è stato invece considerato
eccessivo a detta della Corte, in quanto « risulta che l’obiettivo di tutela di questi ultimi –
cioè esemplari di volatili importati da altri Stati membri –, come previsto dall’art. 15 del regolamento n. 3626/82 o dall’art. 36 CE, può essere raggiunto in modo altrettanto efficace
tramite misure meno restrittive degli scambi intracomunitari. »
(11) Crf., ex multis, Corte CE, 6 giugno 2000, C-281/98 Angonese, in cui la Corte ha ritenuto che « l’art. 39 Tratt. CE osta a che un datore di lavoro obblighi i candidati ad un concorso ai fini di assunzione a comprovare le loro cognizioni linguistiche esclusivamente mediante un unico diploma, rilasciato in una sola provincia di uno Stato membro ».
La questione pregiudiziale verteva sull’obbligo, posto dalla Cassa di Risparmio di Bolzano per partecipare ad un concorso ai fini dell’assegnazione di un posto di lavoro presso
detto istituto, di possedere un attestato di bilinguismo, rilasciato unicamente nella provincia di Bolzano al termine di un esame, e l’impossibilità di produrre altri documenti a prova
del proprio bilinguismo. Tale esame è considerato una prassi per i cittadini residenti nella
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Proseguiamo ora l’analisi della questione della discriminazione « a rovescio » con un approfondimento su un recente caso che – per quanto riguarda l’Italia – può considerarsi emblematico della situazione che si genera in