Giotto di Bondone e Andrej Rublëv a confronto

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Giotto di Bondone e Andrej Rublëv a confronto
Giotto di Bondone e Andrej Rublëv a confronto
Per una lettura sacra dell’arte sacra
Giotto, Arco Trionfale S. Maria della Carità
Andrej Rublëv, SS. Trinità
L’affresco della Misericordia del Padre, dipinto da Giotto tra il 1303 ed il 1305, e che
campeggia nell’Arco Trionfale della Cappella di S.Maria della Carità (Scrovegni) in Padova,
propone un riflesso della SS. Trinità nel triangolo disegnato dal Padre in trono, dall’Arcangelo
Gabriele e da Maria SS. (Annunciazione). Esso può essere confrontato con l’ Icona della SS. Trinità
di Andrej Rublëv (1422) allo scopo di cogliere come in Giotto, ben precedente a Rublëv e ben
distante dalla cosiddetta disincarnata arte bizantina, il simbolo del divino è fortemente presente in
analoghe forme.
Ad un primo confronto tra le due “Trinità” potremmo essere indotti a ritenere che non vi sia
alcun collegamento. In realtà, le Icone orientali non fanno che prolungare l’arte sacra comune a
Oriente e Occidente fino a Giotto.
Per alcuni aspetti, dal IV sec., -fino a Giotto incluso, e non escluso-, l’icona è stata l’arte
cristiana comune a tutti e due i popoli e all’unica Chiesa. Ammirare oggi Rublëv, o le icone
orientali in genere, non è ammirare altro dalla nostra tradizione sacra occidentale, durata per dieci
secoli, fino al XIV secolo. Rublëv, in questo confronto, ci aiuta a tornare alle origini ed a più di
metà della nostra storia. Da Giotto, infatti, ci separano solo settecento anni, su complessivi 1.700
anni di arte sacra pervenutaci.
Nell’affresco della Misericordia del Padre, vediamo, in posizione centrale, il Padre, con lo
sguardo rivolto all’Arcangelo Gabriele. Nelle icone orientali, lo sguardo centrale, che sembra
guardare in ogni direzione, è frequente, ma spesso –come nell’icona della SS. Trinità-, diviene
laterale. Lo sguardo è rivolto verso un’altra persona, rivolto oltre. Anche in Giotto avviene. Il Padre
guarda oltre, verso l’Arcangelo e verso la missione che il Padre gli affida. Il Padre guarda
l’Arcangelo per inviarlo a Maria e renderla Madre di Dio. Qui si avverano le parole di Gesù nel
Vangelo secondo Giovanni (13, 20): «Chi accoglie colui che io mando, accoglie me; chi accoglie
me, accoglie colui che mi ha mandato» (da Maria –umanità nuova- si risale all’Angelo, a Gesù, al
Padre).
La chiave di lettura, che accomuna particolarmente l’affresco di Giotto e la Trinità di
Rublëv, è l’uso consapevole della prospettiva rovesciata rispetto a quanto ci aspetteremmo nella
nuova arte sbocciata nell’umanesimo.
Sia Giotto che Rublëv propongono al nostro occhio e alla nostra mente il punto di fuga non
posto sulla linea mediana dell’orizzonte, nella profondità prospettica, ma in colui che osserva la
pittura e che ne è fuori: nell’uomo che contempla l’immagine.
Guardiamo, ora, le due coppie di balconcini, che incorniciano l’Arcangelo e Maria. Essi
corrono verso di noi, così come in Rublëv i contorni delle gambe del Padre e dello Spirito, come le
linee del basamento del trono della Trinità.
In tutte e due le sacre rappresentazioni, il Divino si rivolge all’umano. L’arte bizantina e
orientale non è un’arte indifferente all’umano –arte disincarnata-, ma manifesta lo Spirito, che entra
nell’umano e dà all’umano la possibilità di vedere ciò che visibile non è. È il sacro che si rivolge
all’uomo.
Nell’Arco Trionfale di Giotto ecco la novità per noi. Più in basso, a circa tre-quattro metri
da terra, in un quarto livello dall’alto, sotto Giuda, che riceve il prezzo del tradimento, e sotto
Maria, che reca lo Spirito di Cristo a S. Elisabetta, sono dipinte due stanzette, proprio secondo la
nostra prospettiva usuale, a imitazione della nostra naturale deformazione ottica della realtà.
Sullo sfondo delle due stanzette il cielo: a sinistra, blu scuro -sotto la scena di Giuda (Era
notte, dice Giovanni)- e, a destra, celeste chiaro -nel riquadro sotto Maria: il mondo di Dio che si
lascia vedere da chi ha scelto di accogliere il mistero di Dio nel mondo.
Così, la parte superiore dell’Arco Trionfale segna l’ingresso di Dio e della santità nel mondo
e nell’uomo, mentre, la parte inferiore segna l’ingresso dell’uomo nella dimensione del mistero (a
sinistra del male; a destra del divino), proprio grazie alla prospettiva1, ormai per noi tradizionale.
Fino a Giotto, questa prospettiva non era interesse degli iconografi attenti ad altre
proporzioni nell’iconologia, come avverrà ancora per secoli (vedi per esempio Dürer nel
rinascimento). Essi erano presi dalla meraviglia per Dio che si fa uomo ed entra nel nostro mondo,
distinguendosene. Essi volevano dedicare tutto lo spazio a Dio e ben poco all’uomo del mondo.
Essi avevano di mira l’Uomo nuovo. Non miravano ad un’arte copia di corpi, -arte che già Platone
negligeva- ma volevano alludere a ciò che segna il signi-ficato del mondo in relazione al divino, ciò
che il cristiano chiama creato. Arte sacra per loro era, -e in senso religioso è- allusione all’altro,
all’invisibile, a ciò che non è cosa, ma costituisce la cosa, la fa essere. In questa arte Dio entra con
la Sua luce.
Giotto ripresenta costantemente questo mistero dell’ingresso di Dio nel mondo attraverso
diverse soluzioni simboliche: il ripetersi dei volti in personaggi diversi e distanti nel tempo, ma
affini per vocazione (Il Padre e il Figlio del Giudizio; S. Gioacchino, S. Giuseppe, S. Pietro).
Massimamente nel compianto sul Cristo Morto, ove il centro non è l’accorato e dolente volgersi dei
volti dolenti verso il Cristo (Maria, gli Angeli, Giovanni …), ma l’incrocio tra il piano discendente
–sottolineato dai volti e dai corpi –nell’ordine da destra a sinistra- di Giovanni, di Maria, di Gesù e
le braccia tese ed aperte di Giovanni. Queste linee, decise, si incrociano per dire che nel mistero
della croce, nell’intreccio tra trascendenza e immanenza, tra Divino e umano dolente, si scopre il
senso della Parola fatta carne.
Altro modo cui Giotto ricorre per esprimere la salvezza, che disvela il divino nel mondo, è la
possibilità -intenzionale- di leggere gli affreschi della Cappella non solo secondo un ordine
cronologico, storico, da sinistra a destra, ma simbolico, dall’alto in basso. Ancora una volta
trascendente e immanente si intrecciano nel segno salvifico della Croce. La lettura a croce rende
presente l’intersezione tra piano divino e umano, ovunque, in questa Cappella.
Non solo. Immaginiamo, per un momento, di togliere a tutti i personaggi divini delle icone,
o degli affreschi di Giotto, le aureole, e riconosceremo, comunque, la loro natura religiosa.
Togliamole alle opere d’arte occidentali, successive a Giotto, e, in genere, non resteranno che volti
di belle donne e bei giovani. Ciò vuol dire che nelle opere successive il divino è sempre più
estrinseco ed esiliato anche se, per la verità, ricompare, poi, in altri modi, per esempio, attraverso un
uso particolare della luce. Ma, certo, il sacro non è più costitutivo di queste opere occidentali, allo
stesso modo che nell’iconologia tradizionale e poi orientale. In occidente sempre più sarà affidato
alla libera ispirazione dell’artista, che, spesso, ricorrerà al soggetto religioso, assai richiesto, per
esprimere sé più che il divino. Tali opere conserveranno, piuttosto, il fascino della natura
ammaliatrice, trasfigurata da una sovrumana e titanica perizia degli artisti.
1
Cfr. a tal riguardo anche Roberto Filippetti, Il Vangelo secondo Giotto, Itaca, Castel Bolognese 2002¹, 2013², 26-27.