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Presentazione
Ruby vuole solo dimenticare. Vuole solo cancellare l’ultimo anno al Tarble College e nascondere
nel profondo quel segreto che non ha confessato a nessuno. Eppure, quando crede che il peggio sia
alle spalle si ritrova tra le mani il libro da cui tutto è cominciato. Il libro che custodisce le ombre del
suo passato. È all’interno di una valigia: il bagaglio di Beth, una compagna di college che da pochi
giorni è scomparsa. Ruby non poteva immaginare che Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf
riuscisse ancora a toccare le note più recondite della sua anima. A riportarla faccia a faccia con le
sue paure. Ma lei è l’unica a conoscere il suo fascino oscuro. Tra quelle pagine ha visto crescere
un’ossessione per le scrittrici suicide, donne fragili che si sono abbandonate al gesto più estremo.
Un’ossessione che giorno dopo giorno l’ha avvicinata sempre più a Mark, il suo professore di
letteratura. Eppure Ruby non può lasciare che quest’incubo si impadronisca di nuovo di lei, proprio
ora che Beth è sparita. Deve cercarla. La ragazza sa che c’è solo un luogo che racchiude tutte le
risposte. L’ultimo posto in cui vorrebbe tornare: Tarble, la sua università. Lì dove ha imparato che
ciò che conta è essere i migliori, a qualunque prezzo. Lì dove misteriosi tentativi di suicidio le
parlano di un destino a cui è difficile sfuggire. Lì dove, nel silenzio degli antichi e bui corridoi, ogni
traccia riconduce a quel libro su cui c’è ancora molto da svelare. Perché dietro un animo fragile può
celarsi un grande coraggio e dietro un amore innocente qualcuno che colpisce dove fa più male. Il
libro delle verità nascoste è un debutto indimenticabile, venduto in più di venti paesi. Amy Gail
Hansen, con l’intensità della sua scrittura, ha conquistato stampa e lettori. La storia di una ragazza
insicura ma determinata, che la vita ha messo alla prova. La storia di un luogo in cui la verità è solo
un inganno. La storia di un passato che non vuole smettere di far sentire la sua voce.
Amy Gail Hansen ha trascorso la sua infanzia nei pressi di New Orleans. Dopo essersi laureata in
inglese ha lavorato come insegnante, giornalista e scrittrice a Chicago, dove vive con il marito e i tre
figli. Il libro delle verità nascoste è il suo romanzo d’esordio.
NARRATORI MODERNI
www.garzantilibri.it
facebook.com/Garzanti
@garzantilibri
In copertina: © 2014, Hania Komasinska; © Neil Holden / Arcangel Images.
Art Direction: ushadesign
Traduzione dall’inglese di
Stefano Beretta
Titolo originale dell’opera:
The Butterfly Sister
© 2013 by Amy Gail Hansen
ISBN 978-88-11-14145-7
© 2014, Garzanti Libri s.r.l., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Prima edizione digitale: 2014
Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A mia madre Gail, per averci creduto
Il passato è il prologo.
William Shakespeare, La tempesta
1.
Durante la nostra prima seduta, Gwen non avrebbe potuto essere più esplicita: dovevo smetterla di
leggere libri su donne o di donne che si erano uccise.
Un’ossessione malsana, ecco come la definiva la mia psicologa, e io ero incline a condividere la
diagnosi di Gwen. Dopotutto non c’era altra spiegazione logica per la serie di eventi che mi avevano
condotta nel suo studio. I fantasmi non esistono e io non avevo preso funghi allucinogeni. Non avevo
un tumore al cervello. Mi ero rassegnata al fatto che ciò che avevo visto e fatto fosse una
conseguenza di uno stato mentale compromesso.
Come altre scrittrici prima di me, ero impazzita e basta.
Un tardo pomeriggio di dicembre uscii dallo studio di Gwen con un ritrovato interesse per la
libreria che avevo in camera da letto. Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf fu il primo a
sparire, seguito dalla Campana di vetro di Sylvia Plath, dalla Tappezzeria gialla di Charlotte
Perkins Gilman e dal Risveglio di Kate Chopin. Anche Hemingway si prese una bella batosta. In
effetti, qualsiasi titolo mi ricordasse anche vagamente un disturbo mentale finì nello scatolone delle
donazioni, compresi romanzi all’apparenza innocui come Jane Eyre. Potevo permettere che la pazza
della soffitta se ne stesse in agguato sugli scaffali della libreria?
Ma fu tutto inutile: i libri, gli antidepressivi, le sedute di psicoterapia con Gwen. Persino il tempo,
che cura tutte le ferite, risultò inefficace. Dieci mesi dopo, il mio passato non distava da me più di un
pensiero, un respiro, un battito del cuore.
Infine, quella particolare sera di ottobre bussò letteralmente alla porta di casa mia.
Quella sera la mamma mi trovò sul dondolo della veranda, mentre oscillavo meccanicamente.
Valutando il mio stato mentale con un’occhiata, venne subito verso di me con una tazza di tè in mano.
«Quanti oggi, Ruby?» mi chiese porgendomela.
Lasciai che il vapore e l’aroma fruttato dell’Earl Grey mi pungessero il naso. Bergamotto,
naturalmente. Un antidepressivo naturale.
«Dodici, ma niente di tragico», dissi. «Be’, a parte quel tesoro di bibliotecaria, la signora Talbot,
quella che ha ordinato i libri apposta per me l’estate scorsa.»
«È morta? Quella che dicevi profumava di marshmallow?» La mamma si sedette accanto a me.
Indossava ancora il suo camice da infermiera, azzurro con i bordi color pervinca. «Vuoi parlarne?»
«Aveva ottantanove anni», dissi stringendomi nelle spalle. «Credo che fosse davvero giunta la sua
ora.»
Per un attimo restammo sedute in silenzio, a parte il cigolio del dondolo, mentre la mamma si
sfregava le mani con energia. Speravo che avesse soltanto freddo e dovesse ancora abituarsi alle
gelide sere autunnali dell’Illinois, e che non fosse preoccupata.
«Ho ordinato la cena da Wu», disse infine.
«Non dovevi.»
«Volevo farlo.»
“Non ha freddo”, pensai. “È preoccupata.” «Però sto bene, davvero.»
Lei si strinse nelle spalle. «Forse sono troppo stanca per cucinare.»
Non ne ero convinta. Mia madre, Annette Rousseau, nata a New Orleans, aveva assorbito le ricette
per il gumbo e i gamberetti stufati quando era nell’utero: avevano varcato il confine della placenta
insieme con l’ossigeno. Era la prova vivente che si poteva togliere una ragazza da New Orleans, ma
non si poteva togliere New Orleans da quella ragazza. Trasferirsi nel Midwest non aveva intaccato la
sua capacità di preparare un roux color caramello persino alle tre di notte, persino dopo un doppio
turno all’ospedale. E invece aveva ordinato manzo mongolo e rangoon di granchio da Wu in Seventh
Street, il mio cibo-coccola.
«Sai, il negozio dell’ospedale cerca personale», proseguì. «Un’assistente fiorista. Tu ami i fiori.»
«Ma il mio lavoro mi piace.» La frase uscì troppo enfatica, troppo difensiva.
La mamma alzò un sopracciglio, che formò un arco perfettamente curvo e accusatorio.
Incrociammo gli sguardi e ognuna di noi cercò di leggere i pensieri dell’altra. Guardare mia madre
era come guardare un identikit generato da un computer della polizia, una versione invecchiata di me
stessa. Non avevamo i capelli rossi ma ramati, un colore che ricordava l’autunno, le partite di calcio
e le gite sui carri da fieno. Se i miei ricci erano compatti, i suoi erano più mossi, e con il tempo i
suoi occhi erano diventati più verde militare che smeraldo.
«Sono preoccupata per te, Ruby», disse. «Quando vedi ancora Gwen?»
Sorrisi alla sua domanda, poi lasciai che il mio sorriso svanisse. Non c’era da scherzare quando si
trattava delle mie sedute di psicoterapia con Gwen.
«Questa settimana», le risposi, cercando di darmi un’aria seria ma non triste. «Giovedì.»
«Be’, è lei la professionista, vedi un po’ che ti dice.»
«A proposito di che cosa?»
«A proposito di questo lavoro delle necrologie, se è adatto a te.» Mi diede una piccola pacca sul
ginocchio. «Considerando come vanno le cose.»
Annuii, come per dire che avrei fatto proprio così. La verità era che avevo lasciato passare già
due volte l’occasione di raccontare a Gwen del mio lavoro. Scrivere per un giornale locale era stata
una sua idea. Dovevo ricominciare a usare le mie «competenze», aveva sottolineato. Così avevo fatto
domanda per le necrologie, che erano il portone d’ingresso per i giornalisti in erba e l’unico posto
disponibile al «Cook County Chronicle». Il mio titolo ufficiale – coordinatrice delle necrologie –
significava che, mentre i giornalisti componevano titoli e sommari arguti prima della chiusura, io
inserivo informazioni in un modello, correggevo gli errori di stile nei comunicati dell’Associated
Press e, di tanto in tanto, cambiavo l’eufemismo «è scomparso» con «è morto».
Probabilmente Gwen avrebbe approvato il fatto che mi avevano assunta, ma temevo che avrebbe
psicanalizzato la mia scelta. Mi stavo punendo? Scrivere di morti era una specie di penitenza che mi
ero inflitta per i miei peccati passati, come in uno dei gironi infernali di Dante?
A questa domanda mi rifiutavo di rispondere.
Per fortuna la mamma lasciò cadere l’argomento e mentre finivo il tè chiacchierammo di questioni
meno pressanti, come la nuova mostra di Toulouse-Lautrec che era stata inaugurata all’Art Institute di
Chicago, quando nemmeno un quarto d’ora dopo un furgone bianco svoltò all’angolo.
«Dev’essere un nuovo record», disse la mamma, che corse in casa per prendere i soldi.
Mi avvicinai al furgone aspettandomi di vedere il figlio del signor Wu, un diciassettenne con un
sorriso a trentadue denti e l’etica lavorativa di un sopravvissuto alla Depressione. Mi aspettavo una
delizia olfattiva, l’inequivocabile profumo di grasso e salsa di soia, non appena avesse aperto la
portiera. Invece scese una donna in uniforme cachi. La coda di cavallo, colore del cartone, sbucava
dal foro posteriore di un cappello altrettanto marrone che le faceva ombra agli occhi. Aveva
femminilizzato il suo aspetto con una gonna pantalone al posto dei calzoni.
«Lei è Ruby Rousseau?» Il suo accento – Boston o Brooklyn – faceva suonare straniero il mio
nome alle mie stesse orecchie.
Prima che potessi rispondere, aprì il portellone del veicolo e dall’interno sollevò una valigia.
«Scommetto che è felice di vedermi. O meglio, di vedere questa», disse prima di lasciar cadere con
un tonfo il bagaglio davanti a me, come un gatto che porta al suo proprietario un topo morto.
Posai lo sguardo sul tessuto dai disegni cachemire con ghirigori rossi, oro e azzurri. Soffocai
inghiottendo la frizzante aria autunnale e la mia saliva. «Non è mia.»
«C’è il suo nome.»
Mi accovacciai accanto alla valigia e ne accarezzai il tessuto, rigido come una camicia molto
inamidata. Come se stessi leggendo dei caratteri Braille, sfiorai con la punta di un dito il simbolo
dell’American Tourister, poi afferrai la targhetta del bagaglio e lessi il mio nome e indirizzo scritto
con una calligrafia piena di curve.
Poco dopo sentii il respiro di mia madre su una guancia. Era accovacciata vicino a me e aveva
trenta dollari in mano. I nostri sguardi s’incrociarono di nuovo.
«Ma è la tua calligrafia», sussurrò.
Lasciai cadere la targhetta e mi alzai in piedi, feci persino un passo indietro, come per
disconoscere quella valigia attraverso la pura e semplice distanza. «È un errore. Questa valigia l’ho
presa in prestito da un’amica al college l’anno scorso. Dev’essersi dimenticata di togliere la
targhetta con il mio nome.»
«Come si chiama la tua amica?»
«Beth. O, meglio, Elizabeth. Elizabeth Richards.»
«Sta da queste parti? Nei dintorni di Chicago?»
«Nel Wisconsin», la corressi. «Almeno, è lì che abitava.»
La donna ci disse di aspettare mentre lei faceva una telefonata dal furgone.
Mia madre fece schioccare la lingua, come se stesse cercando di risolvere un enigma, salvo poi
scoprire che la risposta era di una semplicità disarmante. «Questa è la valigia che dovevi portare in
viaggio a Parigi», disse. «Quella che ho restituito alla ragazza del tuo pensionato studentesco.»
Io annuii, ma tenni lo sguardo fisso sul furgone.
«Okay, facciamo così», disse infine l’addetta alla consegna. «La sua amica, questa Elizabeth
Richards, sembra che non abbia ancora denunciato lo smarrimento del bagaglio alla compagnia
aerea. Ora, io potrei portarmi via la valigia, ma resterà in magazzino finché non la reclamerà.» A
questo punto abbassò la voce. «Senta, detto tra noi, la proprietaria la riavrà molto più in fretta e
senza troppe pastoie burocratiche se la contatterà lei direttamente, lo sa?»
«Io? Ma non c’è qualche collegamento tra Elizabeth e il bagaglio?» Cercai di ricordare come
funzionava. In fin dei conti la mamma e io non eravamo mai andate a Parigi, ma ero sicura che
l’etichetta adesiva, quella che il personale aeroportuale infila attraverso il manico della valigia,
indicasse il nome del proprietario e le informazioni sul volo.
«Se va tutto bene sì, ma quell’etichetta è andata distrutta.» La donna sollevò il pezzo sbrindellato
di carta bianca e nera che penzolava dalla valigia. «Il codice a barre è illeggibile. Probabilmente si è
incastrato in una delle macchine e così la valigia ha perso il volo. L’ho visto succedere decine di
volte. La compagnia si prende la responsabilità, quindi l’ha spedita alla persona indicata sulla
targhetta, che è lei.» Si schiarì la gola. «Non le hanno telefonato?»
Guardai mia madre, che rispose di no.
«Probabilmente suo papà ha preso il messaggio e si è dimenticato di dirglielo», suggerì la donna.
«Mio marito lo fa in continuazione.»
Feci cenno di no con la testa. Mio padre era morto quasi due anni prima.
«Guardi, non è la mia valigia», ribattei, evitando lo sguardo di mia madre, per sfuggire a qualsiasi
dolore potesse avervi lampeggiato alla menzione di papà. «Quindi non è un problema mio.»
Fu allora che la mamma strinse le dita sulla mia spalla. «Chiama quella ragazza, Ruby», disse. «Tu
vorresti che un altro facesse la stessa cosa per te.»
Era un buon argomento, ma sapevo che la mamma stava riprendendo da dove si era fermata Gwen.
Se avessi telefonato a Beth Richards, sarei stata costretta a riannodare i contatti con qualcuno del
Tarble College, un’università femminile privata di Kenosha, in Wisconsin, appena oltre il confine di
stato dell’Illinois. Avevo abbandonato Tarble durante l’ultimo anno, un semestre prima della laurea.
«Ma non ho il suo numero di telefono», replicai stizzita. «Non siamo rimaste in contatto.»
«Potresti chiamare il college», suggerì la mamma. «La segreteria delle ex allieve, magari.»
«Ma io non mi sono laureata.»
«E che importa?» Agitò la mano nell’aria, come per scacciare una mosca. «Se hai frequentato una
scuola, sei comunque un’ex allieva.»
L’addetta alle consegne tamburellava nervosamente con una penna sulla sua cartelletta, come per
tenere il tempo.
«A volte la gente conserva informazioni importanti dentro la valigia», disse. «Forse c’è un’altra
etichetta da qualche parte. Può guardare. Io non posso, io consegno e basta. E, parlando di consegne,
ora devo andare. Che cosa volete che faccia?»
La mamma afferrò la maniglia della valigia. «Ci pensiamo noi», dichiarò, e io misi uno
scarabocchio sulla cartelletta.
Quando la donna stava per ripartire, però, la fermai. Il furgone sussultò quando premette il freno.
«E se non la trovo?» gridai attraverso il finestrino.
Lei lo abbassò e mi porse un biglietto da visita. «Ci chiami», disse. Poco dopo vidi il veicolo
scomparire nel sole che tramontava.
Allora la mamma trascinò la valigia in casa. «Sei sicura di non avere il numero di telefono di
Beth?» chiese come se non avesse fatto niente di strano, come se avessimo preso la decisione di
comune accordo.
«Non eravamo esattamente amiche», le spiegai. «Eravamo più che altro conoscenti.»
Il mio rapporto con Beth Richards era stato di domanda e offerta. Io avevo bisogno di una valigia
più grande per andare a Parigi con mia madre, e Beth, che abitava a tre porte di distanza nella
residenza di North Hall, mi aveva offerto la sua. Allora mi tornò in mente Beth, con i suoi capelli
dorati e quasi un metro e ottanta d’altezza.
«La segreteria delle ex allieve sarebbe felice di aiutarti», insistette di nuovo mia madre.
«Sai che non posso telefonare.»
«Non hai motivo di nasconderti.»
«È domenica sera», osservai. «La segreteria non apre prima di domattina.»
«Non potresti chiamare Heidi?»
Heidi Callahan era la mia compagna di stanza a Tarble e, di conseguenza, la mia ex migliore
amica. Ci eravamo conosciute a un incontro di orientamento per matricole. Nella pausa, avevamo
scoperto una passione comune per il caffè macchiato alla nocciola. Una mattina di chiacchiere si era
trasformata in un’amicizia e il semestre successivo eravamo compagne di stanza. C’erano fidanzati
che andavano e venivano, ma la maggior parte dei fine settimana restavamo sempre noi due a
guardare commedie romantiche, mangiare pizza ai peperoni verdi e al salame piccante e bere vino
economico da bicchieri di plastica. Però tutto era cambiato durante l’ultimo anno. Alla fine del primo
semestre lei si era trasferita, e da allora non l’avevo più sentita.
«Non possiamo guardarci dentro?» implorai.
Maneggiammo le cose di Beth con cautela, sparpagliandole sul pavimento dell’ingresso come
pezzi di un puzzle, in modo da poterle poi riporre come le avevamo trovate. Tutto si riduceva al
contenuto di un bagaglio femminile. Un paio di jeans Gap. Una felpa grigia con cappuccio e cerniera.
Calze e biancheria intima. Una trousse piena di articoli Redken, MAC e Colgate. Un kit da cucito da
viaggio. Niente di tutto ciò mi diceva come trovare Beth Richards.
Poi, tra le pieghe di una T-shirt, la mamma trovò un libriccino e lo guardò protendendo il braccio,
come fa quando non porta gli occhiali da lettura. Fu allora che lessi il titolo, in minute lettere nere su
una rilegatura bianca. Tentando di controllare una reazione viscerale riuscii a malapena a distinguere
le parole.
«Virginia Woolf», dissi. «Una stanza tutta per sé.»
«Non è questo il libro? Quello su cui hai scritto la tesi dell’ultimo anno?»
Annuii fermandomi a pensare al lungo saggio di Virginia Woolf, basato sulle conferenze che aveva
tenuto in due università femminili. Nel libro la scrittrice afferma che «una donna deve avere soldi e
una stanza tutta per sé se vuole scrivere narrativa».
La mamma mi porse il volume senza soppesarne le conseguenze, come dare una boccetta di
sciroppo a un alcolista in via di disintossicazione. Obbedendo alle istruzioni che mi aveva impartito
Gwen in dicembre, la mia copia l’avevo regalata. Eppure, in qualche modo, la tentazione aveva
ritrovato la strada verso casa mia.
Come quando si perde al gioco della patata bollente, mollai il libro e lo feci cadere con un tonfo
sul pavimento di ceramica. Allora dalle pagine spuntò una cartolina, che tirai fuori e in cui riconobbi
subito la distesa d’acqua azzurra, i lampioni riccamente ornati, le aiuole di crisantemi gialli e
arancione, e il nome TARBLE scolpito nella pietra. Era una cartolina che annunciava il Raduno di
Tarble, la rimpatriata di ex allieve in programma per il weekend successivo.
La mamma recuperò il libro dal pavimento e lo aprì. «Sei fortunata», disse, cercando di
porgermelo di nuovo. «Ha scritto qualcosa all’interno.»
Allora abbassai lo sguardo e vidi il nome di Beth impresso nitidamente in inchiostro blu in cima
alla bandella interna e, sotto, un numero di telefono con un prefisso che sembrava del Wisconsin
meridionale.
«Con tutti gli squilibrati che ci sono in giro, mi sembra un po’ pericoloso», disse la mamma.
«Questo libro dev’essere tremendamente importante per lei.»
“È molto importante per me”, pensai.
La mamma mi suggerì di aspettare dopo cena per fare la telefonata, ma io sapevo che prima avessi
chiamato, prima la valigia avrebbe lasciato le mie mani… e con essa il libro e la tentazione di
leggerlo. Così portai il cordless verso il dondolo della veranda dove avevo lasciato la tazza da tè
vuota, che tenni in mano mentre ascoltavo gli squilli, passando le dita sulla scanalatura interna del
manico. Finalmente una donna rispose; una voce molto flebile mi diede un lieve brivido.
«Sono Ruby Rousseau», dissi. «Cerco Beth Richards.»
M’imbattei in un silenzio imbarazzato. Sentivo solo il suo respiro.
«Pronto?» tentai di nuovo.
«Sono la madre di Beth», disse la donna.
«Ah, bene. Senta, ho studiato a Tarble con Beth e per un caso strano ho qui la sua valigia. Me
l’hanno appena consegnata per errore. È tornata dal suo viaggio?»
Un sussulto. «Questo è un miracolo.»
«Sì, è bizzarro. Per qualche ragione ha lasciato il mio nome sulla targhetta.»
Sentii che la donna aveva cominciato a singhiozzare, un pianto che suonava euforico, lacrime di
tristezza mista a gioia. «Pregavo che succedesse, che accadesse qualcosa, qualsiasi cosa. Un segno.
Tornerà da me.»
«Tornerà? Tornerà da dove?»
«Beth è…» cominciò a dire la donna, ma poi s’interruppe. Il resto lo disse in frammenti:
«Scomparsa. Da venerdì».
Allora la tazza mi scivolò di mano e andò in frantumi sulle assi ai miei piedi, spargendo le ultime
gocce di tè nelle fessure della veranda. «Signora Richards, mi dispiace molto. Non ne avevo idea.
Voglio dire, Beth e io non eravamo amiche intime. Cioè, ci conoscevamo e basta», divagai. Volevo
rimettere in ordine il disastro, dire qualcosa di più appropriato, ma non riuscivo a formulare le
parole.
«La polizia dice che non ha indizi», proseguì la signora Richards, come se non mi avesse sentito.
«Mi ripetono che bisogna sperare per il meglio, ma prepararsi al peggio.»
Prepararsi al peggio. Beth Richards era scomparsa, ma c’era da sperare che fosse viva, a
differenza delle centinaia di persone di cui avevo scritto sul «Chronicle». Ancora una volta dissi alla
signora Richards che mi spiaceva.
«No, Ruby, non capisci? Si sbagliano. Perché questo è un indizio. Forse così finiremo per
trovarla.»
Ripensai agli oggetti banali che la mamma e io avevamo rinvenuto nella valigia di Beth. Non c’era
nulla che suggerisse dove poteva trovarsi ma nemmeno che indicasse qualcosa di brutto, e io non
avevo intenzione di distruggere le speranze di una madre sconvolta.
«Dimmi dove abiti», s’informò la signora Richards. «Vengo subito a prenderla.»
Chiesi alla signora Richards dove abitasse di preciso, poi le spiegai che in macchina era un
viaggio di due ore, da Milwaukee a Oak Park, ma lei disse che non le importava. Sarebbe andata
anche in Canada, se fosse stato necessario. Quindi mi frugai in tasca alla ricerca del biglietto da
visita che mi aveva dato l’addetta alle consegne.
«È meglio se resta a casa, non crede?» Le parole mi uscirono di bocca, come le sue, a spizzichi e
bocconi, interrotte da pensieri e sospiri. Mi sentivo in colpa per non essermi offerta di portarle la
valigia di persona, per aver implicitamente suggerito alla madre di Beth di guidare di notte nelle sue
condizioni. «Lasci che gliela porti il servizio di consegna. È il loro mestiere.»
«Ma io devo fare qualcosa, Ruby. Non posso restarmene seduta qui ad aspettare una telefonata, ad
aspettare la polizia. Ad attendere che Beth varchi la soglia di casa. Devo riavere mia figlia.»
«Lo so, lo so», dissi, anche se non lo sapevo affatto. Potevo solo immaginarmi come si sentiva, e il
senso di colpa triplicò. «Ma se la polizia chiama mentre lei è via? Se Beth varca davvero la soglia di
casa? Lei dev’essere presente.»
«Ma la valigia…»
«Gliela porto io.» La promessa mi uscì di bocca e ormai non potevo più ritrattare. «Domani, dopo
il lavoro.»
La signora Richards si tranquillizzò quel tanto da darmi il suo indirizzo e io entrai in casa per
cercare un pezzo di carta su cui appuntarlo prima che ci salutassimo.
Quando tornai in veranda mi accorsi che Una stanza tutta per sé era ancora aperto sul dondolo e,
malgrado la promessa fatta a Gwen il dicembre precedente, cominciai a sfogliarlo. Lessi solo una
frase prima di sentir cedere i punti con cui avevo tentato quotidianamente di ricucirmi il cuore, da
quando avevo lasciato Tarble.
Una manciata di parole bastò a disfarli.
2.
UN ANNO PRIMA
Prima di bussare, studiai la targa sulla porta socchiusa e le parole mark suter, assistente di inglese.
Poi, le dita strette attorno all’intelaiatura della porta, sbirciai dentro.
Sin dal primo giorno del seminario dell’ultimo anno pensavo che il mio insegnante fosse attraente
e mi sembrava un colpo di fortuna che la professoressa Margaret Preston, titolare del corso, avesse
preso un semestre sabbatico per fare ricerche sulla letteratura vittoriana a Londra. Pur non avendo la
cattedra, perché insegnava al college solo da tre anni, Mark Suter era un gradito supplente. Tutte le
mie compagne di corso pensavano la stessa cosa. Forse erano i suoi capelli color sabbia bagnata,
lunghi quel tanto che bastava per arricciarsi dietro le orecchie, o forse erano i suoi occhi, di un
azzurro da bambino, giocosi ma rilassanti. O forse era il suo sorriso ampio, che evidenziava non
soltanto i denti bianchi come madreperla, ma anche delle rughe meno perfette – e quindi
irresistibilmente accattivanti – attorno agli occhi. Qualunque cosa fosse, e non credo vi fosse un
unico modo di quantificarla, Mark Suter incarnava quel miscuglio disarmante e paradossale di
ruvidità e raffinatezza. Un cowboy in blazer. Un cattivo ragazzo con il dottorato. Durante le sue
lezioni spesso dovevo guardare fuori dalla finestra per fare riposare gli occhi, per cancellare il rosso
dalle guance, per fare cessare lo sfarfallio nello stomaco.
Anche se avevo sempre avuto il massimo dei voti, nessun altro docente mi aveva trattato con tanta
stima e considerazione come il professor Suter. Infatti, il secondo giorno di lezione, aveva definito la
mia analisi di una poesia di John Donne «un puro e semplice colpo di genio», con grande disappunto
delle mie compagne di classe. E da allora sfruttavo ogni occasione per trovarmi in sua presenza. Ero
la prima studentessa ad arrivare a lezione e l’ultima ad andarmene. E lui sembrava accorgersene
sempre.
«Professore, ha un minuto?» gli chiesi quel pomeriggio d’ottobre, picchiettando con le nocche
sulla porta. Fu solo allora, con la porta spalancata, che vidi una studentessa accasciata sulla sedia
davanti alla sua scrivania, uno zaino sulle ginocchia. I suoi corti capelli neri, con le punte tagliate in
modo strano, mi ricordarono un corvo e, di conseguenza, Edgar Allan Poe.
Il professor Suter si alzò dalla sedia e con il suo metro e ottantotto di statura catalizzò l’attenzione
di tutta la stanza, anche degli oggetti inanimati: il ficus nell’angolo, la stampa di Modigliani sopra la
sua testa, la lancetta dei secondi dell’orologio a muro. Sembrava che ognuno di essi si rimodellasse
attorno alla sua statura, con uno spostamento impercettibile, una minuscola modifica. I suoi occhi
saettarono verso i miei, colmi di deferente attesa, come se alla porta ci fosse una sua collega e non
una studentessa. Era la reazione che mi aspettavo, ma il suo gesto mi fece arrossire lo stesso. Come
al solito guadagnai tempo distogliendo lo sguardo.
«Scusi», sbottai. «Torno più tardi.»
«Non si preoccupi. Qui abbiamo finito», disse, senza permettere alla sua studentessa di dissentire.
«Aggiungi solo qualche passaggio in più e qualche altro esempio tratto dal testo», disse alla ragazza
mentre, prendendola per un gomito, l’accompagnava alla porta, «poi gli do un’altra occhiata.»
La ragazza abbassò gli occhi verso le punte delle sue Converse alte e sbrindellate, sulle quali
aveva disegnato una scacchiera con un pennarello indelebile.
«Madeline?» disse con tono secco e rapido, come un medico che cercasse di riportare di colpo
alla coscienza un paziente intontito.
«Posso tornare fra un’ora?» chiese lei.
«Io sono qui.»
Passandomi davanti nel corridoio, la ragazza stabilì finalmente un contatto visivo con me. Anche
se sfoderò un sorriso, i suoi occhi arrossati la tradirono. Aveva pianto.
Quando Madeline se ne fu andata, entrai nello studio, una stanza d’angolo con una finestra
d’angolo: una vetrata che dava sul lago Michigan e l’altra su una foresta dagli intensi colori
autunnali. Sembrava più spazioso e più lungo degli uffici dei miei altri docenti, forse per via di due
enormi librerie con centinaia di dorsi geometrici sistemati sia in verticale sia in orizzontale, come
una enorme partita di Tetris. Nella stanza spiccava anche un divanetto color melanzana i cui cuscini
ospitavano altri libri, oltre a un mucchio di riviste – numeri arretrati del «New Yorker» e di
«Ploughshares» – che sembravano lì in pianta stabile, come se il divano fosse un magazzino a sé
stante. Sorrisi per l’ordine disordinato del mio professore, la sua ovvia ossessione per la carta
stampata, la sua solerte promessa di leggere tutto, da cima a fondo, a tempo debito.
Quando udii la porta chiudersi con uno scatto, mi girai e vidi il professor Suter che mi osservava, i
piedi ben piantati sul pavimento, le braccia conserte. Sotto le maniche spiegazzate e arrotolate della
camicia, per il resto stirata, ammirai i suoi bicipiti, abbastanza possenti da evidenziare la sua virilità
senza apparire costruiti, il genere di muscoli che vengono spaccando la legna e non sollevando pesi. I
jeans, scuri ma sbiaditi dove le cosce erano più carnose, rivelavano un fisico atletico.
Il professore si avvicinò a me. Il delicato profumo di muschio – acqua di Colonia, gel doccia o
deodorante, non avrei saputo dire – mi ricordò il dopobarba di mio padre e mi procurò al naso un
pizzicore familiare.
«Il primo anno è il più difficile», disse, la voce ferma come la sua postura. «Quando scoprono che
questo non è l’inglese del liceo.»
Annuii con aria comprensiva. «Lei è proprio bravo. Voglio dire, è stato bravo con lei, poco fa.»
Accennai in direzione del corridoio – oltre la porta chiusa, dove era svanita Madeline – con un
movimento esagerato ed eccessivo. «Insomma, il modo in cui ha gestito la cosa... Avrebbe potuto
dirle solo di riprovarci.»
«Vero, ma questo non le insegnerebbe come scrivere un saggio coerente.»
«E a proposito di saggio coerente», cominciai, «vorrei parlarle della mia tesi di fine semestre.»
Adocchiai il mucchio di scartoffie sulla sua scrivania e la fetta mezzo addentata di pane rustico
integrale con burro di arachidi e marmellata. «È sicuro di avere un minuto?»
Allora sembrò squadrarmi dall’alto verso il basso, dal seno agli stivali, ma non nel modo per cui
la maggior parte degli uomini si meriterebbe un ceffone. «Per lei, signorina Rousseau, ho tutto il
pomeriggio.»
Aspettò che mi accomodassi sulla sedia di fronte alla scrivania, dove fino a qualche minuto prima
era seduta Madeline – il cuscino screpolato in finta pelle era ancora caldo e mi domandai quanto
tempo fosse rimasta in quell’ufficio a piangere per la sua tesina –, prima di sedersi a sua volta.
«La sua tesi.» Si sfregò freneticamente le mani, come se si stesse preparando a mettere giù una
lettera a Scarabeo e triplicare il punteggio.
«Sono settimane che m’interrogo su di lei… Ho la capacità di indovinare quali testi sceglieranno i
miei studenti. Ma lei…»
«Io…?»
Strizzò gli occhi, come un detective che aveva individuato un indizio trascurato. «Lei è la mia
incognita.»
Mi s’imporporarono le guance. Non sapevo quale parola mi piacesse di più, se «mia» o
«incognita».
«Mi rallegra sapere di essere imprevedibile», dissi, «ma indovinare non sarebbe ancora più
soddisfacente, in questo caso?»
Quasi non credevo alle mie orecchie: il tono scherzoso e leggero che usavo con il mio docente, la
facilità con cui lo stuzzicavo, mentre eravamo soli nel suo ufficio, con la porta chiusa, malgrado la
natura professionale del nostro rapporto.
Lui sorrise e le sue caratteristiche rughe intorno agli occhi si piegarono all’unisono con le sue
labbra. Era un sorriso che mi fece fermare e ripartire il cuore. «Lo sarebbe.»
«Allora indovini.»
«Kate Chopin.»
«Virginia Woolf», lo corressi.
I suoi occhi color zaffiro scintillarono pensierosi. «La Woolf, eh? Sapevo che avrebbe scelto una
femminista. Suppongo che le piaccia il flusso di coscienza.»
Annuii. «Quando in prima media ho letto La signora Dalloway…»
«In prima media?»
«Ero precoce», spiegai. «Ma a undici anni non sapevo che si chiamasse flusso di coscienza.
Ricordo soltanto di aver pensato che Virginia Woolf scriveva come io pensavo, con un sacco di
tangenti e divagazioni, intessendo il passato e il presente.»
Mi studiò per un momento, come se volesse evocare una versione di me adolescente, con il naso
infilato in un libro sulla panchina di un parco mentre i miei compagni giocavano a pallone in
lontananza.
«Precoce davvero», disse infine. «Allora è La signora Dalloway? Criticherà l’uso che Virginia
Woolf fa del flashback come stratagemma letterario per definire il passato dei suoi personaggi? O
forse esplorerà il tema dell’omosessualità attraverso l’affetto di Clarissa Dalloway per Sally
Seton?»
Ammiravo la sua capacità di snocciolare i nomi dei personaggi con tanta disinvoltura. Scrollai la
testa per dire no. «Sarebbero argomenti eccellenti, se volessi scrivere sulla Signora Dalloway, ma
non è così.»
Lui inclinò la testa, incuriosito.
«Una stanza tutta per sé», dissi.
«Ah, sì. Cosa diceva la Woolf?» Si schiarì la gola. «“Una donna deve avere soldi e una stanza
tutta per sé se vuole scrivere narrativa.” Qualcosa del genere, no?»
«Parola per parola», dissi prima di lanciarmi nel monologo che avevo provato un’ora prima
davanti allo specchio del bagno. «Intendo usare il saggio di Virginia Woolf come trampolino per una
riflessione più ampia, ovvero: perché tante scrittrici, compresa la Woolf, soccombono alla
depressione e, alla fine, al suicidio?»
Lui piegò di nuovo la testa e stavolta, dall’angolo dell’inclinazione, vidi che si preparava a fare
l’avvocato del diavolo. «Però il suicidio non conosce confini di genere», ribatté. «Che mi dice di
Hemingway?»
«Che cosa le dico?» replicai. «Si è sparato. Facile. Rapido. Risolutivo. Ma Virginia Woolf? Si è
annegata riempiendosi di sassi le tasche del cappotto e avanzando lentamente nelle profondità del
fiume Ouse. Sylvia Plath ha infilato la testa in un forno pieno di gas. Charlotte Perkins Gilman ha
preso un’overdose di cloroformio. E Anne Sexton? Avvelenamento da monossido di carbonio. Ha
indossato la pelliccia della madre e tracannato un bicchiere di vodka prima di andare nel garage e
sedersi in macchina con il motore acceso.» Feci una pausa solo per riprendere fiato. «Queste donne
erano complicate e tormentate, persino nei modi ossessivi e raffazzonati con cui hanno scelto di
abbandonare il mondo. E poi sì, erano artiste – artiste pazze, afflitte da malattie mentali e piene di
complessi sulle loro capacità creative –, ma erano anche femmine, donne che cercavano di inserirsi
in una tradizione storicamente patriarcale. E così hanno creato personaggi femminili letterari non
molto diversi da loro stesse – madri, sorelle, mogli – e altrettanto angosciati dalla loro creatività e
dalla loro intelligenza. E perché? Penso che la spiegazione si trovi nel saggio di Virginia Woolf.
Senza l’opportunità di esprimere pienamente sé stessa e la propria creatività – senza denaro e una
stanza tutta per sé – una donna rischia semplicemente di impazzire.»
Emisi un respiro profondo, euforica e intimorita all’idea di come avrebbe reagito il mio
professore. Mentre aspettavo, studiai le rughe sulla sua fronte. Le ragazze di Tarble facevano spesso
congetture sulla sua età. La vulgata era che avesse quarantadue anni.
«È originale», disse infine. «Interseca i programmi di psicologia e di storia. Me lo aspetterei da un
dottorando o da un docente di facoltà, non da una laureanda. Mi dica, a parte l’apprezzamento per la
scrittura della Woolf, che cosa l’ha ispirata?» Piegava e agitava le dita, come se stesse cercando
letteralmente e fisicamente di cavarmi le informazioni. «L’ha letto da qualche parte? Diciamo in una
rivista letteraria?»
L’idea mi era venuta in estate, quando mi ero trovata a rileggere la maggior parte dei libri di
Virginia Woolf prima di gravitare verso le opere della Plath e della Gilman. Ero a buon punto di un
libro di poesie di Anne Sexton quando avevo individuato il filo rosso del suicidio. Le letture estive
che mi ero scelta indicavano qualcosa di macabro? Me l’ero chiesto. Forse da quando mio padre era
scomparso ero ossessionata dalla morte? Ero attratta dalla malinconia?
«Ad attirarmi è stata l’originalità», dissi invece. «Non volevo scegliere qualcosa di scontato come
Jane Austen o di pretenzioso come La terra desolata. Non volevo essere come le altre ragazze del
corso.»
Mi fulminò con gli occhi. «Lei non potrebbe mai essere come le altre ragazze.»
Abbassai lo sguardo verso i miei piedi, dove dentro gli stivali avevo piegato le dita. Avvertii che
mi scrutava a lungo e intensamente, come se stesse cercando di contenere un fuoco.
«Lei non è originaria del Midwest, vero?» mi chiese.
Alzai lo sguardo. «Che cosa glielo fa dire?»
«In lei c’è un che di ultraterreno. Il suo atteggiamento, il suo modo di pensare. È rinvigorente. E il
suo accento… Ho notato che non pronuncia sempre la R alla fine di certe parole. E con un nome
come Rousseau… be’, pensavo, canadese francofona?»
Sorrisi. Non era la prima volta che al Nord qualcuno aveva tentato di identificare il mio accento
senza riuscirci. Siccome non avevo quella cantilena nasale tipica della parlata degli abitanti del
Mississippi o dell’Alabama, la gente non indovinava mai che venivo dal Sud.
«Vengo dalla Louisiana», dissi. «Da New Orleans, per essere precisi.»
«Ecco!» Diede una botta in segno di sconfitta al ripiano della scrivania. «New Orleans, ovvio.
Avrei dovuto saperlo. Io mi sono laureato alla Tulane, sa? I quattro migliori anni della mia vita.»
«Davvero? I miei genitori sono andati alla University of New Orleans.»
Lui annuì, poi guardò al di là di me, come se stesse rievocando i tempi di quand’era studente lui.
«New Orleans», mormorò. «Che città passionale e peccaminosa.»
«Non ci è più tornato da quando si è laureato?»
«No, ma a dire il vero tra qualche settimana vado a un convegno alla Tulane. È il genere di cose
che bisogna fare per avere una cattedra, da queste parti», aggiunse come digressione. «Frequentare
convegni, partecipare alle commissioni, pubblicare articoli. E, cosa interessante, il convegno
riguarda proprio la sua tesi. L’argomento è “Genere e creatività” . C’è qualche possibilità che in quel
periodo lei vada a trovare mamma e papà? Potrebbe essere mia ospite al convegno.»
L’idea di frequentare un vero convegno – cosa di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai
sperimentato di persona – a fianco del professor Suter mi entusiasmò, però era quasi un anno che non
andavo a New Orleans, da quando avevamo sepolto mio padre due giorni dopo Natale e mia madre
si era trasferita nel Midwest per assicurarsi che terminassi l’università. Non pensavo che sarei
riuscita a tornarci. New Orleans, che in passato era stata lo scenario magico della mia infanzia
incantata, si era trasformata in un fondale spezzato per i miei incubi.
«Non abitiamo più lì», dissi. «Ora casa mia è Oak Park, nell’Illinois.»
«È davvero un peccato.» Sfoderò di nuovo il suo sorriso assassino. «Per lei e per me.»
“Sta flirtando”, pensai. “Sì o no?”
«Allora lei approva?» chiesi, cercando di tenere a bada il rossore. «La mia tesi, intendo.»
«Assolutamente sì.» Sollevò un dito. «Però ho un monito. Lei dovrà analizzare parecchie fonti: non
solo il saggio di Virginia Woolf, ma anche La campana di vetro di Sylvia Plath e La tappezzeria
gialla di Charlotte Perkins Gilman, no?»
Annuii.
«Potrebbe essere troppo, persino per una studentessa del suo calibro.»
«Me la caverò.»
«Non c’è dubbio, però è giovane. È il suo ultimo anno a Tarble. Non vorrà mica rinunciare alla
sua vita sociale, no? Lasciare che il suo fidanzato se la sbrogli da solo il venerdì sera?»
Deglutii. «Non ho un fidanzato.»
«Bene, perché sarà impegnata a leggere e a svolgere ricerche. A scambiare idee con me. In
effetti…» Diede un’occhiata all’orologio. «Facciamo che ce ne andiamo da qui. Prendiamo un caffè,
discutiamone più a fondo.»
Indicai l’atrio d’ingresso. «Intende al bar della libreria?»
Fece una smorfia con le labbra. «Non bevo quella roba. Pensavo a quel caffè pittoresco in centro a
Racine.» Trattenne il mio sguardo per un attimo, intensamente, come per soppesare il mio carattere.
«Andiamo?»
Insistette su due cose: che lo chiamassi Mark dandogli del tu, e che andassi a Racine con la sua
jeep. Da Kenosha era un tragitto panoramico verso nord, lungo Sheridan Drive, durante il quale ci
scambiammo bozzetti di New Orleans, a base di po’boys all’arrosto – l’unione felice del manzo in
salsa con lattuga fredda e pomodoro su croccante pane francese – e di Tennessee Williams, Truman
Capote e William Faulkner, autori che consideravano casa loro la Crescent City, la città a falce di
luna.
Arrivata al locale tentai di ordinare un normale caffè americano, ma lui mi consigliò
calorosamente di prendere un latte macchiato. Io non mi opposi alla sua proposta né al fatto che fosse
lui a pagare. Era la cosa più gentile da fare, anche se era il mio insegnante.
«Dimmi», esordì quando ci fummo seduti a un tavolo sul retro. Assomigliava più a un tavolino
portatile che fingeva di essere un tavolo vero, ed era così intimo che sotto sentivo la gamba dei suoi
pantaloni che sfiorava la mia. «Che ne sarà di Ruby Rousseau dopo la laurea a Tarble?»
Mi pulii le labbra dalla schiuma alla vaniglia e sorrisi per il suo uso scherzoso della terza
persona. «Dottorato. Ho già fatto domanda alla Iowa State University.»
«Ah, il famigerato Laboratorio di scrittura», disse. «Una scelta ben fondata. Se però vuoi restare
un po’ più vicino a casa, posso mettere una buona parola per la Northwestern. È lì che ho fatto il
dottorato io.»
«Mi farebbe piacere.»
«Consideralo cosa fatta.» Sorseggiò il suo latte. «E dopo il dottorato dove vuoi insegnare?»
«Oh, non intendo insegnare. Voglio scrivere.» Vidi che abbozzava un sorrisetto scettico. «Lo so, lo
so. Spezzo il circolo della vita letteraria: si studia inglese, letteratura o scrittura creativa e poi li si
insegna a qualche poveretto che li studia solo per insegnarli a qualcun altro. Senza offesa.»
«Nessuna offesa. Qualche poveretto…» Rifletté. «Mi piace.» Si chinò verso di me e con voce
bassa e misteriosa disse: «Lo sai perché lo faccio?».
La sua domanda era retorica, ma io, inflessibile, feci cenno di no con la testa, come se mi avesse
chiesto se m’intendevo di carburatori. Fu una reazione nervosa improvvisa. Non avevo mai visto il
mio professore così da vicino, non ero mai stata sotto l’incantesimo dei suoi occhi azzurri così a
lungo.
«Perché mi piacciono le parole. Mi sono sempre piaciute, sin da quando ero bambino.»
«Allora già sapevi di voler diventare professore d’inglese?»
«No, come tutti i ragazzi della mia età volevo giocare a baseball nella Major League, però mi sono
rotto una mano durante un lancio in una partita di All-Star e ho passato il resto dell’estate a leggere Il
signore delle mosche: sono rimasto rapito.» Le sue parole scorrevano morbide come lenzuola di
flanella fresche di bucato. «Faccio l’insegnante perché voglio trasmettere agli altri questa passione,
incoraggiare il gusto per la sintassi, le metafore e la prosa poetica. Spesso è un mestiere ingrato, ma
credo che il sacrificio valga la pena.»
«Sacrificio? Ma tu sei Mark Suter!» Alzai la voce per sovrastare l’improvviso sibilo rumoroso
della macchina per l’espresso. «Siamo noi che ci sacrifichiamo per te. Restiamo sveglie fino a tarda
ora per prendere appunti su Milton o Yeats, così se ci chiami durante la lezione abbiamo la risposta
che vuoi, una risposta che ti faccia felice.»
«Quello che voglio dire è che non scrivo quanto dovrei, non pubblico quanto vorrebbe
l’università. Il mio tempo è riservato soprattutto alla formazione delle menti brillanti di domani.»
Fece quindi una pausa e aggrottò la fronte, guardando l’orologio con un sospiro.
«Che cosa c’è?» chiesi.
«La mia studentessa, Madeline. Dovevo rileggere la sua tesina.»
Sentii la delusione che mi saliva in gola. «Torniamo in università?»
Sembrò valutare questa possibilità, poi scrollò la testa. «Posso leggerla dopo, giusto?» chiese,
come per convincere sé stesso.
«Giusto.»
«Giusto», ripeté. «Vedi, Ruby? A volte insegnare è un sacrificio.» Mandò giù il resto del suo latte
macchiato come se fosse un bicchierino di gin. «E, detto tra noi, ha praticamente distrutto il mio
matrimonio.»
Matrimonio. Le mie compagne di corso facevano spesso congetture sullo stato civile di Mark
Suter. Era un argomento di cui io e la mia migliore amica e compagna di stanza, Heidi Callahan,
avevamo discusso al buio, alle due di notte, quando non riuscivamo a prendere sonno. Non portava
l’anello nuziale.
Sbirciai la sua mano sinistra e vidi solo una nocca nuda e virile, la pelle spolverata di una fine
peluria.
«Meryl, mia moglie, insegna matematica a Georgetown», proseguì. «Io sono l’emisfero destro, lei
quello sinistro. Io sono la benzina, lei il freno. Siamo la prova che gli opposti si attraggono, ma non
resistono a lungo.»
«Siete separati?» chiesi.
«Ci vediamo una volta al mese. Un mese viene qui lei, quello dopo vado io a Washington. È una
specie di accordo.»
«Ne ho sentiti altri così.» Raddrizzai la schiena per non accasciarmi. «Coppie che vivono e
lavorano in città diverse.»
«Meryl odia il Midwest, ma per me è casa mia. Non me ne sono reso conto appieno finché non è
morta mia madre.»
«È morta?»
Annuì. «Cancro.»
«Mi spiace molto.» Deglutii il piccolo groppo che mi si stava formando in gola, sperando di dare
sollievo all’improvviso bruciore che sentii agli angoli degli occhi, ma invece rimase dov’era e mi
asciugai le palpebre con il tovagliolo macchiato di caffè, cercando di contenere un’esplosione vera e
propria.
Allora Mark posò la sua mano sulla mia, con le dita carnose e calde leggermente piegate, che
aderivano alla mia pelle come una coperta. «Stai bene?»
Feci cenno di sì con la testa, poi di no quando altre lacrime, gocce gonfie di dolore salato, mi
scesero lungo le gote. «Anche mio padre è morto», rivelai. «L’anno scorso.»
«Era malato?»
«No, niente del genere. È stato un incidente. Un incidente d’auto», dissi stando sul vago.
Mark sospirò con il naso, quel genere di respiro enfatico che indica tristezza, rabbia e frustrazione
tutte insieme. «Come si chiamava?»
La sua domanda mi colse alla sprovvista perché i miei amici, sia a New Orleans sia a Tarble, non
mi facevano mai ulteriori domande quando accennavo alla scomparsa di mio padre. Mi fissavano
come se avessi dei gamberi che mi sbucavano dalle orecchie oppure cambiavano argomento. Sapevo
che non era perché non gli importava, ma semplicemente non sapevano cosa dire: era come
attraversare le lande rocciose della morte. Invece ora c’era il professor Suter – Mark – che mi
rivolgeva la più intima delle domande. Voleva sapere il nome di mio padre, voleva sapere come lo
chiamavano gli altri.
«Julian», dissi.
«Julian», ripeté adagio, come se stesse bevendo l’ultimo sorso di vino da una bottiglia centenaria.
«E com’era?»
«Energico, volitivo. Appassionato di storia. Faceva l’antiquario. È stato lui che mi ha fatto
conoscere scrittori come Virginia Woolf, Thoreau e le sorelle Brontë. Portava a casa dal negozio
copie ingiallite e ammuffite di libri dalle rilegature sempre decorate e intarsiate d’oro. Il passato lo
interessava più del futuro. La tradizione, la storia, la famiglia erano le cose che apprezzava. Quindi
non riusciva a comprendere perché volessi andare a Tarble, proprio nel Wisconsin, fra tutti i posti
possibili. Dove nevica, dove mangiano würstel e formaggio e bevono birra. Dove il Mardi Gras, il
carnevale, non è una vera festa, un giorno in cui si sta a casa da scuola e dal lavoro.»
«Allora non approvava la tua scelta.»
«La gente nata e cresciuta a New Orleans non se ne va», gli spiegai. «Non se ne va e basta.
L’unica volta che ci siamo allontanati per più di una settimana di vacanza è stato per via dell’uragano
Katrina, e solo perché avevano ordinato l’evacuazione. Quando ho detto a mio papà che volevo
andare a Tarble, ha ribattuto che a New Orleans avevamo delle buone università: Tulane, Loyola,
UNO. L’unica cosa che gli piaceva di Tarble era che fosse interamente femminile.»
«Era protettivo, eh? Faceva il terzo grado ai tuoi fidanzati?»
Risi. «Il terzo grado? Di’ pure il decimo. Se avesse posseduto un fucile lo avrebbe imbracciato
sedendosi in veranda all’ora del coprifuoco.»
Finalmente Mark tolse la mano dalla mia e le mie dita ne percepirono subito l’assenza.
«Stai sorridendo, ora», disse lui.
Era vero. Con poche, semplici domande Mark mi aveva fatto ripensare a mio padre; a quello che
era nel profondo, e non alla sua morte.
«E tua mamma?» chiesi io a mia volta. «Come si chiamava? Com’era?»
«Cassandra, ma tutti la chiamavano Cassie. Era una scrittrice, amava la letteratura e i libri, come
noi. Era una madre single, ma facendo due lavori aveva risparmiato abbastanza per comprarsi questa
casetta nel bosco dove a volte restava tutto il giorno, e scriveva.»
«Una casetta nel bosco?» Strinsi la mia tazza di caffè. «Che cosa idilliaca.»
«Sì, fa molto Henry David Thoreau, però a quell’epoca mio fratello e io non la vedevamo così.
Eravamo gelosi, per quanto si possa essere gelosi di un posto. La chiamavamo “la baita di Cassie”.
Ci andavamo in bicicletta e giocavamo a vedere chi riusciva ad avvicinarsi di più senza essere
beccato. La cosa curiosa è che da lontano sembrava marrone, ma da vicino si capiva che una volta
era stata bianca. La vernice si era scrostata. Comunque…»
Vidi il dolore attraversargli gli occhi e protesi la mia mano verso la sua, come lui aveva fatto con
me, ma la ritrassi subito. C’erano limiti che non osavo superare, per quanto allettanti, per quanto
magnetici.
«Con il senno di poi, ero solo un ragazzino», continuò. «Allora non capivo. Non comprendevo che
aveva bisogno di un posto in cui pensare e scrivere. Se non l’avesse avuto, sarebbe impazzita e se la
sarebbe presa con noi. È come diceva Virginia Woolf, no? Aveva bisogno di una stanza tutta per sé.»
Ammiravo la sensibilità di Mark nei confronti di sua mamma, una donna lacerata con il cuore di
una madre e la mente di una scrittrice.
«E quindi che cos’è successo?» chiesi. «Alla baita?»
«L’ha venduta. Suppongo che quando io e mio fratello siamo usciti di casa lei non ne avesse più
bisogno, però per una curiosa coincidenza temporale era di nuovo in vendita quando sono tornato a
stare qui. Così l’ho ricomprata e adesso ci abito.»
M’immaginai Mark che grattava la vernice vecchia e stendeva un nuovo strato di bianco. Lo vidi
martellare le assi e togliere le ragnatele dagli angoli. Lo vidi cenare da solo.
«Meryl non è venuta con te?» chiesi.
«Ha appena ottenuto la presidenza del dipartimento, come potevo chiederle di rinunciarvi?»
Era chiaro che non gliel’aveva chiesto e che sua moglie nemmeno si era offerta. Istintivamente mi
allungai di nuovo per dargli una piccola pacca sul dorso della mano, ma all’improvviso lui ruotò il
polso e il palmo della mia mano finì dentro il suo. Portò la mia mano verso di sé, a pochi centimetri.
Sentivo il cuore che mi pulsava nelle orecchie.
“È sposato”, rammentai a me stessa. “No, separato.”
«Ruby… come il rubino.» Mi fissò con due occhi intensi, la bocca socchiusa in un mezzo sorriso.
«È la pietra del tuo segno zodiacale, il rubino?»
«No, è stata un’idea di mio padre», dissi. «Quando sono nata i miei capelli erano rosso fuoco.»
Mi stava studiando. «Rousseau non vuole dire…»
«…una persona dai capelli rossi.»
«Allora sei la ridondanza personificata, Ruby Rousseau.» La sua lingua sembrava assaporare
l’allitterazione. «Raccontami qualcos’altro. Raccontami qualcos’altro di te.»
Il respiro mi s’ingarbugliò nel petto. «Cosa vuoi sapere?»
«Adesso? In questo istante?» Strinse la presa intorno alla mia mano. «Hai fame?»
Era quasi mezzanotte quando Mark salì con la jeep sul ponte rosso ai margini del campus e
parcheggiò all’ombra delle fronde. Brilla dopo tre bicchieri di vino, malgrado il filet mignon e le
patate al gratin che avevo mangiato durante la nostra cena lunga tre ore, non m’interessava dove mi
avrebbe scaricato. Mark, però, disse che il ponte era il posto più sicuro. E sarebbe stato il posto più
sicuro per la volta successiva.
La volta successiva.
Subito dopo le sue dita andarono verso i miei capelli, pettinandoli a lungo finché il collo non fu
interamente scoperto. Un formicolio mi percorse la parte posteriore delle braccia e, nel vortice
dell’ebbrezza, pensai che lui avesse delle zanne e io potessi soccombere ai suoi poteri paranormali
proprio lì, nella sua auto. Lui, però, non mi morse. Infilò la mano nell’incavo fra le cosce e si chinò
per premere le sue labbra sulle mie. In quel momento, mentre lo baciavo, ogni muscolo del mio corpo
si contraeva e si rilassava allo stesso tempo. Era come fare bungee jumping e, contemporaneamente,
meditare. Provai qualcosa che non avevo più provato da quando mio padre era morto.
Mi sentii viva.
Si staccò dalla mia bocca, ma rimase con il volto vicino al mio. «Non so come si fa», sussurrò.
«Mi sembra che tu stia andando bene.»
Rise. «Grazie, ma mi riferivo a noi. Non mi sono mai trovato prima in una situazione simile, non
ho mai desiderato qualcosa tanto e tanto intensamente: è una cosa che gli altri non capiranno. So che
dovrei rinunciare, ma non ce la faccio. Perché sei tu. Bella, intelligente, creativa… però se qualcuno
lo scoprisse…»
«Non lo scoprirà nessuno.»
«Dobbiamo essere discreti.»
«Non lo dirò ad anima viva», giurai.
Mi baciò di nuovo, stavolta con più veemenza e passione. Una promessa.
Ci salutammo e tornai nella mia stanza intirizzita dalla fredda sera autunnale, con la mente che
galleggiava, la coscia ancora calda per il suo tocco, le labbra gonfie che mi pizzicavano. Quando
aprii la porta Heidi era ancora sveglia.
«Finalmente», disse, saltando giù dal letto. «Stavo quasi per allertare la polizia. Dove diavolo ti
eri cacciata?»
Mi misi subito dietro al cassettone e cominciai a cambiarmi. «Oh… stavo studiando per la tesi.»
Mi sfuggì un gemito quando mi accorsi che avevo lasciato lo zaino nella jeep di Mark. Heidi avrebbe
notato che non l’avevo con me?
«La biblioteca chiude alle dieci», disse, sbirciando dietro un angolo del cassettone incurante del
fatto che stavo lì con soltanto il reggiseno addosso. Ci spogliavamo sempre l’una davanti all’altra.
Alla fine la guardai negli occhi. «Sono andata al diner.»
«Morivo di fame», protestò. «Sarei venuta con te.»
«Mi spiace, ma pensavo che sarebbe stato divertente andarci da sola.» Afferrai il pigiama dal
cassetto. «Sai, fare la donna misteriosa seduta al tavolo nell’angolo più remoto.»
Heidi scrollò la testa con fare canzonatorio. «Sei proprio una studentessa d’inglese fissata.»
«Stai ancora lavorando?» le chiesi.
«Purtroppo.» Sospirò. «Resti alzata anche tu?»
Sapevo che sarei rimasta sveglia gran parte della notte, rinvigorita dal concentrato di esaltazione
che avevo in petto, a ripercorrere ogni momento della serata, ogni sguardo, ogni contatto, ogni
confessione, ma a Heidi dissi che ero sfinita, sperando che non notasse il cambiamento nelle mie
abitudini prima di andare a letto. Non sopportavo l’idea di lavarmi la faccia o i denti, per paura di
cancellare il profumo di Mark e quel pizzicore alle labbra.
“Ho baciato Mark Suter”, immaginai di dire alla mia migliore amica mentre m’infilavo a letto.
“E aveva il sapore di un uomo.”
DICEMBRE
A volte mi interrogo sui genitori di Mark e mi chiedo se sia il caso di dare la colpa a loro per
ciò che è accaduto. Non a suo padre per averlo abbandonato e non a sua madre per averlo
trascurato, ma a entrambi, in egual misura, per il puro e semplice tempismo genetico del suo
concepimento. Se lo avessero concepito in un giorno diverso, in un’ora diversa, in un minuto
diverso, forse i suoi occhi non sarebbero stati così azzurri. Forse sarebbero stati di un marrone
torbido o di un verde muschiato e non avrebbero posseduto quel colore zaffiro così brillante.
Mi sono innamorata di Mark con un’innocenza infantile, come se avessi visto un palloncino
rosso vivace e l’avessi seguito, allungando la mano verso la cordicella, sempre più lontano da
casa, fino ad afferrarla giusto un attimo prima di precipitare in fondo alla piscina di un vicino. E
anche mentre mi dibattevo e soffocavo stringevo quel palloncino, convinta che mi avrebbe tirata
fuori dall’acqua e fatta volare in cielo, verso la promessa dell’orizzonte.
A quale punto non è stato più possibile tornare indietro? È stato quando mi ha toccata per la
prima volta, con quella sensazione elettrizzante della sua pelle sulla mia? O quando ci siamo
baciati per la prima volta, con il profumo del suo respiro che mi è rimasto addosso a lungo dopo
che ci siamo abbracciati?
No. No.
È stato in precedenza, la prima volta che l’ho guardato negli occhi.
Quegli occhi azzurri hanno decretato la mia fine.
3.
La notte in cui scoprii che Beth Richards era scomparsa, nulla mi conciliò il sonno, nemmeno il
latte di mandorla caldo con il miele che mi aveva preparato mia madre. Rimasi sveglia passando in
rassegna con la mente una serie di scenari in cui Beth Richards era scomparsa ma ancora viva.
Soffriva di amnesia.
Era rimasta intrappolata in fondo a un pozzo.
Era scappata per sposare suo cugino.
Ciò che m’infastidiva di più era che non riuscivo a rievocare Beth, non in maniera vivida. Non
rammentavo altri dettagli a parte i capelli biondi e l’altezza sorprendente, mentre il suo viso restava
confuso nella mia mente, come quello di una bambola di pezza i cui occhi, naso e bocca fossero stati
strappati da un cucciolo che si chiamava, in modo azzeccato, Dente. Se avessi conservato qualche
souvenir di Tarble, come gli annuari, avrei potuto cercare la sua foto.
Era più che naturale insistere su dove si trovasse Beth: era una persona scomparsa, una ragazza
che conoscevo e che aveva la mia età, ma c’era anche un altro motivo per i miei pensieri incessanti.
Rimuginare sulla scomparsa di Beth mi dava una tregua dalle cose a cui non volevo pensare, dai
ricordi che avevano invaso la mia mente dopo aver letto una sola frase di Una stanza tutta per sé:
Tarble, mio padre, la mia tesi, New Orleans.
Mark.
La conseguenza maggiore della mia insonnia, senza contare un’emicrania, fu che il lunedì mattina
arrivai al lavoro con tre quarti d’ora di ritardo. Diversamente dai giornalisti del «Chronicle», che
andavano e venivano alle ore più strane per partecipare alle riunioni delle commissioni scolastiche o
mettersi a caccia di incidenti annunciati dalla radio della polizia, io come coordinatrice dei
necrologi avevo un orario regolare. Tecnicamente dovevo essere al lavoro entro le otto di mattina,
ma ero riuscita a rimandare l’inizio di una buona mezz’ora. Georgene, l’assistente editoriale, era la
guardiana della porta dell’ufficio e ben presto avevo imparato a corromperla con il suo caffè di
Starbucks preferito, una brodaglia con la schiuma che usciva dal foro nel coperchio bianco, e glielo
appoggiavo con un sorriso sul bordo della sua scrivania. Di solito Georgene teneva gli occhi
sull’omaggio e non sull’orologio. Quella mattina, però, la mattina dopo l’arrivo della valigia di Beth,
quasi non guardò il suo cappuccino speziato o la fetta di torta alla zucca che avevo aggiunto per
rendere più dolce il nostro accordo.
«Che cosa succede, Ruby?» disse Georgene aprendo appena la bocca. Le vidi solo i denti
inferiori, con le macchie fucsia del rossetto.
«Ho dormito troppo.» Allungai verso di lei il sacchetto di carta con dentro il dolce. «Perché
bisbigli?»
«La polizia è venuta a cercarti.»
Non fu tanto quello che aveva detto, ma come. La polizia. Mi immaginai un’intera squadra di
uniformi nere dietro l’angolo, con i fucili spianati, pronti a sparare alla mia prima mossa irregolare.
«A cercare me?»
Dopo avere annuito in modo solenne e avermi fatto cenno di seguirla, Georgene schizzò lungo il
corridoio in direzione della sala ristoro. Ovviamente era quello che le avevano ordinato di fare:
consegnarmi subito alla polizia.
Attraverso la porta della sala vidi un uomo di proporzioni Cro-Magnon, con occhi scuri e tre
cespugli neri abbinati: capelli, baffi e sopracciglia. Indossava un trench nero e, sotto, una camicia
bianca e una cravatta a strisce rosse e grigie. Con le sue colossali spalle larghe se ne stava immobile
e aveva il volto altrettanto impassibile: non comunicava nulla.
«Eccola», disse Georgene, spingendomi attraverso la porta.
I miei stivali marrone e le gocce di caffè colate dalla mia tazza d’asporto lasciarono delle
impronte sul linoleum lucido.
I suoi occhi scuri si assottigliarono quando mi videro. «Ruby Rousseau?»
Guardai Georgene in cerca di sostegno morale, ma lei era già a metà strada, diretta alla sua
scrivania. Avrei voluto che quella fetta di torta alla zucca si rinsecchisse e ammuffisse.
«Lei chi è?» chiesi.
«Ispettore Steve Pickens del distretto di polizia di Milwaukee.» Inserì abbastanza spazio tra una
parola e l’altra da trasmettere un senso di autorità. Mi squadernò davanti un portafoglio nero
contenente un distintivo dorato. «Lei è Ruby Rousseau?»
«Che problema c’è?» Vidi il suo labbro superiore che si contraeva in un angolo. Era seccato. «La
valigia di Beth», dissi dopo un attimo, rispondendo alla mia stessa domanda.
Sembrava che mi studiasse, forse soffermandosi sui miei capelli unti. Quella mattina avevo
preferito il caffè alla doccia.
«Si rende conto che quella valigia, di proprietà della signorina Richards, è una prova in un caso di
scomparsa?» chiese.
«No. Cioè, voglio dire, sì… pensavo che…» Deglutii saliva mista ad aria. «La mamma di Beth ha
insistito per venirla a prendere e così mi sono offerta…»
«Faccia un bel respiro, signorina Rousseau.»
Seguii i suoi ordini, ma la paranoia prese il sopravvento e mi chiesi se quell’uomo fosse un
impostore e se stesse semplicemente fingendo di essere un poliziotto, con lo stereotipo del baffo e
del trench copiati dalle repliche della Signora in giallo. Forse era lo stesso uomo che aveva rapito
Beth. Aveva già ammazzato sua madre e ora veniva a prendere me.
«Posso vedere di nuovo il suo distintivo?» chiesi.
Mi porse il portafoglio di pelle nera e io ispezionai il badge dorato che c’era dentro. Sembrava
vero. Notai che al dito aveva un sottile anello d’argento. Volevo chiedergli come facesse a sapere
dove lavoravo quando mi ricordai come si guadagnava da vivere.
«Dov’è la valigia?» chiese.
«Nel bagagliaio della mia auto. Dopo il lavoro volevo andare a Milwaukee.»
«La porto via con me.» Diede un’occhiata alla mia tazza di Starbucks e al liquido versato sul
pavimento. «Per sua informazione, prima sono andato a casa sua e lei non c’era.»
Con un tovagliolo di carta pulii il caffè che avevo rovesciato. «Avevo bisogno di un po’ di
caffeina», spiegai. «Sono rimasta sveglia metà della notte.»
«Che cosa ha disturbato il suo sonno?»
«Ho appena scoperto che una ragazza che conoscevo è scomparsa, ispettore. Non basta a far
venire l’insonnia?»
«Ha detto conoscevo invece di conosco, signorina Rousseau. Significa che recentemente non era
più in contatto con la signorina Richards?» Incastrò il suo corpo massiccio in una delle sedie di
plastica della saletta e con un gesto della mano m’invitò a fare lo stesso. «Telefonate? E-mail?
SMS?»
Siccome ai giornalisti piace leggere la concorrenza, sezioni smembrate del «Tribune» e del «SunTimes» erano disseminate sul tavolo della stanza. Cominciai a rimetterle in ordine per calmarmi i
nervi, ma l’ispettore posò la sua mano grassa sulla mia e scosse la testa con aria di disapprovazione.
«Non parlo con Beth da quando ho preso in prestito la sua valigia», chiarii. «È successo nel
dicembre dell’anno scorso. Quasi dieci mesi fa.»
Lui scribacchiò qualcosa sul suo taccuino.
«Che cosa le è successo, ispettore?»
«È quello che stiamo cercando di scoprire.»
«No, voglio dire, quand’è che qualcuno l’ha vista l’ultima volta? Perché ho cercato in rete, sui
giornali di Milwaukee, ma non ho trovato nulla. Sono rimasta sorpresa. Una ragazza giovane e bella
scompare, e i notiziari non lo sbandierano ai quattro venti?»
«In questo momento i dettagli del caso della signorina Richards sono riservati.» Mi fissò, a lungo e
intensamente come Superman quando usa la sua vista a raggi X, dopodiché disse: «È sicura di non
avere parlato con la signorina Richards di recente? O di non avere chattato con lei su Facebook? Su
Twitter? Su FaceTime?».
Annuii. Ne ero sicura. Non volevo avere più niente a che fare con Tarble o con chi l’aveva
frequentata.
«La signora Richards dice che lei si è laureata a Tarble con sua figlia», disse.
«Eravamo nello stesso anno», lo corressi.
«E qual era la natura del vostro rapporto?»
«Ci conoscevamo appena.»
«E ciononostante lei ha preso in prestito la sua valigia?»
«È un’università piccola, ispettore. Alloggiavamo sullo stesso piano», spiegai.
Proprio allora scorsi il mio capo, il direttore editoriale Craig Hewitt, che passava davanti alla
porta socchiusa della sala. Controllai l’orologio a muro. Erano le nove passate. Mi avrebbe
licenziata.
«Avevamo delle amiche in comune», aggiunsi. «Ma non uscivamo insieme o cose del genere.»
«Come descriverebbe Beth Richards?»
«Carina. Simpatica. Mi sembra che si sia laureata in scienze, o qualcosa così.»
«È rimasta in contatto con qualche altra sua compagna di Tarble?»
«No.»
«Perché no?»
Fu allora che mi apparve il viso di Mark – i suoi penetranti occhi azzurri, la sua mascella scolpita
–, così vivido rispetto al mio tiepido ricordo di Beth. Cominciai a giocherellare con il coperchio di
plastica della tazza di caffè, ma smisi quando scricchiolò.
«Non lo so», dissi. «La vita va avanti, suppongo.»
«È tornata al campus da quando si è laureata?»
«No.»
«Perché no?»
«Non c’è nessun motivo», risposi. «Il lavoro, la vita, le cose.»
«Le cose?»
«Non lo so», sbottai. «Perché mi sento come se fossi sospettata di qualcosa?»
«Lo è?»
«Me lo dica lei, ispettore.»
«Guardi la faccenda dal mio punto di vista, signorina Rousseau. Ricevo una telefonata dalla
signora Richards che mi dice che in Illinois una ragazza ha la valigia di Beth, una valigia che si era
portata dietro in un viaggio in cui è scomparsa. È sospetto, me lo concede?»
«Ma è colpa della targhetta. Vede, c’è scritto il mio nome sulla targhetta. Suppongo che Beth non
se ne sia accorta e non l’abbia cambiata dopo avermi prestato la valigia. Una compagnia aerea ha
pensato che fosse mia e me l’ha spedita.»
«Le credo.»
«Davvero?»
«Però devo fare lo stesso il mio lavoro.»
«Ma io non…» Mi si incrinò la voce. «Non so altro.»
Giocammo a chi abbassava lo sguardo per primo e fui io a perdere quando i miei occhi si
spostarono verso le ginocchia. Alzai lo sguardo in tempo per notare che le rughe intorno ai suoi occhi
si stavano distendendo.
«Ecco cosa posso dirle», dichiarò. «La signorina Richards ha preso un volo per Pittsburgh venerdì
sera per frequentare un laboratorio di fotografia che si teneva nel fine settimana. La compagnia ha
confermato che era sull’aereo. Tuttavia nessuno ha avuto più contatti con lei da prima che
s’imbarcasse. Nessuna telefonata al cellulare. Nessun acquisto con la carta di credito. Nessuna
traccia.»
Lasciai decantare l’informazione. «Avete intercettato il suo cellulare?»
L’ispettore emise un grugnito. «Mi faccia indovinare: lei guarda CSI? Sì, possiamo intercettare un
cellulare, ma solo se l’apparecchio è acceso. Tutte le telefonate per la signorina Richards vanno
dritte alla segreteria vocale. Il telefono è stato spento o abbandonato. Ha altri suggerimenti da darmi
per le indagini?»
Feci cenno di no con la testa.
Allora l’ispettore Pickens si alzò in piedi, infilò una mano nella tasca del suo impermeabile e mi
diede un biglietto da visita. «Se le viene in mente qualcos’altro, la prego di chiamarmi», disse.
«Seguo il caso in collaborazione con il distretto di polizia di Pittsburgh.»
Mi alzai anch’io. «E la valigia?»
«Certo», disse. «La valigia.»
Mi scortò oltre la reception, oltre le orecchie rizzate e lo sguardo periferico di Georgene, fino al
parcheggio e alla mia Corolla. A poche macchine di distanza dalla mia notai una berlina con i vetri
oscurati e compresi che era la sua. Non l’avevo notata entrando. Aprii il bagagliaio e lui issò la
valigia con un gemito per la mancanza di allenamento fisico. Ispezionò subito le etichette, proprio
come avevamo fatto mia madre e io.
«Il servizio di consegna gliel’ha portata ieri?» mi chiese.
«Intorno alle sei», dissi, sfilando di tasca il biglietto da visita dell’autista e porgendoglielo.
«Ha guardato dentro?»
Feci una smorfia. «Sì, ma abbiamo rimesso tutto com’era.» Chiusi il bagagliaio per evitare il suo
sguardo. «Spero che ci sia qualcosa che possa aiutarvi.»
Aprì la cerniera della valigia, guardò dentro, e la chiuse di nuovo.
«Pensa che Beth sia viva?» chiesi.
I suoi occhi si spensero. Freddi. Apatici. «Lo sa quanti casi aperti di persone scomparse ci sono in
questo paese? Circa centomila.»
«Che cosa vuol dire?»
«Signorina Rousseau, sono vent’anni che mi dedico a questi casi, d’accordo? Alcune delle persone
che cerchiamo non le troviamo e quelle che troviamo sono…»
«…sono cosa?»
Fece una pausa. «Devo proprio dirglielo chiaro e tondo? In fin dei conti lei scrive necrologi.»
Avevo appena avviato il computer quando dietro di me avvertii del calore e sentii un uomo che si
raschiava la gola. Ruotai con la sedia e vidi Craig Hewitt in piedi all’ingresso del mio box, con un
gomito appoggiato alla parete divisoria. Distolsi lo sguardo dal mucchio di fax che aveva in mano,
sperando che il mio capo non volesse licenziarmi.
«Giornata piena per i morti», disse, porgendomi i fogli ancora caldi.
Sfogliai i documenti informativi inviati dai direttori delle pompe funebri. Di solito me li portava
Georgene, non Craig.
«Lo sai che anch’io ho cominciato ai necrologi?» mi chiese, facendo roteare una Bic nera tra le
dita come una bacchetta. «Dicono che è il modo migliore per imparare lo stile giornalistico.»
Annuii, ma tenni lo sguardo fisso sui fax.
«Qui c’è un fatto divertente», continuò. «Sapevi che muore più gente in gennaio che in qualsiasi
altro mese?»
Feci cenno di no con la testa.
«E il minor numero di morti si registra in agosto», proseguì. «Gli omicidi avvengono generalmente
di domenica e i suicidi di mercoledì, non di lunedì come si pensava in precedenza.»
Ripensai a quella fredda sera di dicembre. Sì, era un mercoledì.
«Tutto questo è molto interessante», dissi.
«Nozioni inutili.» Fece una pausa. «Ruby? Puoi venire nel mio ufficio?»
«È per la polizia?» La polizia. Lo dissi come l’aveva detto Georgene.
Con gli occhi fece l’inventario dei presenti in redazione prima di sedersi sul bordo della mia
scrivania e bilanciare il peso allungando una mano sul ripiano. Io fissai il suo polso, dove l’orologio
d’argento interrompeva i folti peli castano chiaro dell’avambraccio. Aveva mani virili, polsi sexy.
«C’è qualcosa che devo sapere, Ruby?»
Alzai le mani in segno di difesa, agitando i palmi avanti e indietro per protestare. «Non si trattava
di me. Voglio dire, non sono nei guai con la legge o cose del genere. È solo una ragazza che conosco
o, piuttosto, una ragazza che conoscevo. È scomparsa. È sparita qualche giorno fa. L’ispettore mi
stava solo... facendo qualche domanda.»
«Scomparsa?» Craig inarcò le sopracciglia. «È di qui?»
«Milwaukee. Sono andata al college con lei.»
«Dove?»
Esitai, perché quando avevo fatto domanda avevo mentito sul mio diploma. Non mi avevano mai
chiesto una copia o altro. «A Tarble», dissi infine prima di aggiungere: «probabilmente non l’hai mai
sentito nominare.»
«Conosco Tarble. Curioso, non ti avrei classificato come un tipo da college femminile.»
«Che cosa vuol dire?» chiesi, anche se sapevo benissimo che cosa intendeva.
«Non importa.» Sorrise. «Comunque… questa ragazza scomparsa è una tua amica?»
«Solo una conoscente», dissi per quella che mi parve la centesima volta. Allora raccontai a Craig
del disguido con la valigia e lui ascoltò attentamente, facendomi delle domande e spingendomi a
chiarire i dettagli.
«Vuoi scrivere questa storia per le cronache?» chiese quando ebbi finito il mio discorso.
«Oh no, io non scrivo.»
«Che cosa intendi? Scrivi tutti i giorni.»
Ma scrivere necrologi non è scrivere per davvero, avrei voluto ribattere. Non richiede creatività,
immaginazione e, quindi, rischio. «Non scrivo articoli.»
«Però potresti. Te lo leggo negli occhi. Sei un’osservatrice, Ruby Rousseau.»
Alla fine lo guardai a lungo negli occhi marrone – un marrone chiaro, come quello delle caramelle
mou che rubavo dalle tasche della giacca di mio padre – e sentii un tremito che dal petto mi scese
nello stomaco.
«Potrebbe essere l’occasione per imparare a scrivere articoli veri», continuò. «Sai come ho
iniziato io? Ero in terza elementare e il criceto della classe era scomparso. E la signora Clark chi
scelse per raccontare il caso sul giornalino mensile? Il sottoscritto.»
Il suo aneddoto era adorabile, ma io rifiutai di cedere al suo fascino. Mantenni un’espressione
impassibile. «Stai davvero paragonando una ragazza scomparsa a un roditore?»
«Ti sfugge il punto.»
«Che sarebbe?»
Lui sorrise nel modo più cordiale possibile. «Non lasciarti scappare una buona opportunità.»
Non riuscii a non rispondere con un sorriso e increspai le labbra. «Okay», dissi. «E poi che cos’è
successo al criceto?»
«Il portinaio l’ha trovato nella sua cassetta degli attrezzi.»
«Morto?»
«No, stava solo dormendo.»
Sospirai. «Speriamo che Beth stia solo dormendo.»
Restammo seduti in un silenzio improvviso e solenne, finché con un gesto indicai i fax che mi
aveva consegnato. «Forse è meglio che li trascriva.»
Craig si alzò ma ancora non se ne andava. «Ehi, oggi ci facciamo una pizza al trancio per pranzo»,
disse d’un tratto.
«È un’occasione speciale?»
«Nessuna occasione», rispose spostando lo sguardo verso il pavimento grigio. Affondò la punta
della scarpa tra le fibre della moquette. «Perché me lo chiedi?»
«Perché nessuno esce a pranzo, a meno che non sia il compleanno di qualcuno o cose così.»
«Non è il compleanno di nessuno.»
Indicai il sacchetto marrone accanto a me. «Oggi mi sono portata da mangiare da casa.»
«Mangialo domani.»
«Non ho contanti con me.»
«Ti invito io.»
Pensai al pomeriggio passato con Mark al caffè, quando aveva insistito per offrirmi il latte
macchiato. «Grazie lo stesso», dissi, fingendo di leggere i fax. In realtà, le parole nere diventavano
confuse sullo sfondo dell’accecante carta bianca.
Finalmente Craig se ne andò e io, alzando lo sguardo, feci in tempo a vedere le sue spalle che si
accasciavano.
«Ehi, Craig?» lo chiamai, una reazione automatica al pensiero di aver offeso i suoi sentimenti.
Lui ritornò al mio box con occhi seri. «Sì, Ruby?»
«Hai dimenticato la penna», fu tutto quello che riuscii a dire.
Quella sera la mamma aveva il turno di notte in ospedale e lasciò sul tavolo della cucina un Post-it
in cui mi diceva di finire gli avanzi di Wu. Ne infilai una porzione nel microonde, su un piatto di
carta, e la mangiai in piedi accanto al bidone della spazzatura. Dieci minuti dopo mi era venuto un
tale mal di stomaco da indurmi a cercare un antiacido. Il nostro armadietto dei medicinali lasciava
alquanto a desiderare: una boccetta vuota di Tums e una di Pepto-Bismol scaduto da talmente tanto
tempo che era color arancione e non più rosa. Triste, in effetti, considerando la professione di mia
madre, ma in dicembre aveva buttato tutte le altre medicine come analgesici e antinfluenzali,
seguendo le raccomandazioni del mio medico.
Non si sa mai, aveva detto.
Alla fine trovai dei Rolaids nel cassetto superiore della console all’ingresso, stipata di penne,
coupon, ricevute, carte da gioco, chiavi che non aprivano nulla e carta per appunti. Aprii il cassetto
abbastanza da afferrare gli antiacidi e masticai due pastiglie della consistenza del gesso alla stessa
velocità con cui un bambino mangerebbe una caramella. Ma quando cercai di chiudere il cassetto,
questo non si mosse. Ci litigai un minuto buono, gli diedi un colpo con un’anca e alla fine decisi di
tirare fuori tutto il contenuto per poi rimetterlo di nuovo dentro.
E fu allora che trovai il colpevole, sotto il blocco di carta da appunti che avevo usato il giorno
prima per scrivere l’indirizzo della signora Richards. La copia di Beth di Una stanza tutta per sé mi
fissava da dentro il cassetto, come una fiaschetta di vodka accantonata per quando avessi ripreso a
bere.
Avrei giurato di aver rimesso quel libro in valigia, e invece eccolo lì. Com’era possibile che
avessi dimenticato di riporlo? Allora pensai all’ispettore Pickens e lo immaginai che mi arrestava
per avere occultato delle prove.
“È stato un incidente”, immaginai di dire a mia volta. “Non volevo tenerlo.”
Eppure mi chiesi se fosse davvero così, dato che, invece di chiamare immediatamente l’ispettore,
mi portai il libro sul dondolo in veranda, malgrado i ricordi che aveva suscitato il giorno precedente.
Masochista, sentii dire da Gwen.
Sfogliandolo mi resi conto che, se Beth era davvero morta, come sosteneva l’ispettore, il libro la
evocava in un modo molto reale. Aveva mantenuto in vita la sua coscienza. Ai margini Beth aveva
preso degli appunti con un vivace inchiostro blu. Qui e là aveva messo degli asterischi in
corrispondenza di alcuni passaggi. Aveva scritto cose come «Ah!» e «Verissimo!». In certe pagine
aveva semplicemente disegnato una freccia sui margini, dove aveva tracciato un punto esclamativo.
Era abbastanza per farmi rabbrividire. Sembrava una ragione per credere che Beth fosse ancora viva.
Le parole che aveva scribacchiato pulsavano ancora di vita.
In un primo momento pensai che voltare le pagine si sarebbe rivelata una caccia al tesoro e mi
aspettavo di trovare altre parole o altri simboli, ma quando girai la seconda pagina del primo
capitolo non potei fare altro che fermarmi a guardarla. Lì, accanto al paragrafo in cui Virginia Woolf
afferma l’importanza di avere una stanza tutta per sé, Beth aveva scritto: «Come la baita di Cassie».
Come faceva Beth a sapere del rifugio dove la madre di Mark si ritirava per scrivere?
Era possibile, riflettei, che Beth avesse seguito uno dei corsi d’inglese di Mark a Tarble, uno di
quelli in cui gli studenti leggevano Una stanza tutta per sé perché faceva parte del programma. Era
anche possibile che un giorno Mark si fosse messo a chiacchierare con le sue studentesse e avesse
raccontato a tutta la classe, Beth compresa, della casetta della madre nei boschi, il posto che lui e suo
fratello chiamavano «la baita di Cassie». Soffrivo all’idea che avesse rivelato alle sue studentesse
una storia così personale, la storia che mi aveva raccontato in un momento d’intimità al caffè. Ma
ancora più angosciante era che Beth se lo fosse annotato sul libro. Perché la vita privata di Mark era
così importante per lei?
Quella scoperta mi colpì forte, un pugno inaspettato nello stomaco. Era una domanda a cui si
poteva rispondere solo con un’altra domanda.
Perché significava tanto per me?
4.
UN ANNO PRIMA
Dopo il bacio nella sua jeep passai tutto il mio tempo libero con Mark – e anche quello non troppo
libero – saltando persino due volte le lezioni per vederlo. Furono due settimane di mano nella mano,
carezze sulle guance e baci davanti a cappuccini, cabernet e cene la sera tardi, finché un martedì sera
m’invitò a casa sua.
Non avevo idea che a Kenosha esistessero delle zone così isolate. Io mi ero avventurata solo nelle
strade periferiche di campagna, oltre i granai e i campi, nel tratto fra il lago Michigan e la Interstate.
Ma dalla strada principale, pochi chilometri a nord di Tarble, si dipartiva una stradina di ghiaia
diretta in un bosco di querce dove, dal finestrino abbassato della jeep di Mark, udivo solo il frinire
dei grilli e il fruscio delle foglie. Nessun essere umano, niente auto, a parte il rumore delle nostre
ruote che scricchiolavano sulla ghiaia.
«È così tranquillo», dissi mentre parcheggiava di fronte a quello che un tempo era il rifugio di sua
madre. Per le dimensioni mi ricordava uno snack bar ai bordi di un campo da baseball. «Hai ragione.
Qui è come il Walden Pond di Thoreau. Mi piace.»
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto. Non tutti ne apprezzano la… semplicità.»
E con «tutti» sapevo che intendeva Meryl.
Restammo in silenzio davanti alla porta mentre lui infilava la chiave nella serratura applicando sul
pomello il giusto grado di pressione.
«È fatta alla sua maniera», spiegò quando la porta si decise ad aprirsi.
Penetrando nell’oscurità avvertii un odore di legno, dolce e intenso, che proveniva dalle pareti e
dai pavimenti in assi di pino. Di primo acchito l’aria sembrava asciutta, come all’interno di una
segheria, ma all’improvviso una zaffata di umidità mi investì il naso, come una specie di retrogusto.
Muffa.
«Casa dolce casa», disse lui dopo aver premuto un interruttore accanto alla porta. Una lampada
tremolò diffondendo una luce fioca, equivalente per luminosità a un vasetto di lucciole intrappolate.
«Poco meglio di un campeggio, a dire il vero.»
«Però hai una cucina», ribattei indicando un angolo cottura minimalista. «Un lavello, due fornelli,
un frigorifero di buone dimensioni. Da bambina sono stata spesso in campeggio con mio padre nel
bayou. Questo è almeno due volte meglio di un campeggio, forse anche quattro.»
«È minuscola e andrebbe ristrutturata.»
«È accogliente», lo corressi, «e ha solo bisogno di un po’ d’amore.»
Allora lui mi attirò a sé, tenendomi i polsi dietro la schiena, così da poter premere completamente
il suo corpo addosso al mio. Poi mi baciò, prima delicatamente come se stesse sorseggiando del
vino, poi più forte, come se avesse deciso di mandar giù tutto il bicchiere.
«E questo a cosa si deve?» chiesi quando le nostre labbra si staccarono.
«Al tuo ottimismo. Sono un uomo adulto che vive in un… questa è una baracca, diciamo le cose
come stanno, e tu invece cerchi di convincermi del contrario.»
«Mostrami il resto della tua baracca.»
Dopo un’altra lampada e qualche altro scricchiolio di assi, avevo già visto tutto quello che c’era
da vedere. Un tavolo con due sedie spaiate, una di vinile e una di legno. Un letto sfatto di dimensioni
normali senza telaio e senza testata, le lenzuola aggrovigliate a una coperta di lana in un motivo a
strisce tipo bastoncino di zucchero. Un caminetto di pietra. Un divano ingombrante e sbilenco. Niente
televisore, ma una radio. Era tutta roba che c’era già quando aveva comprato quel posto. Casa rustica
da scapoli, così l’aveva definita l’agente immobiliare nell’annuncio.
«Vuoi qualcosa da bere?» chiese.
«Che cos’hai?»
«Acqua.» Fece una smorfia. «Acqua di pozzo. Oppure… credo di avere del succo d’arancia.»
Allora compresi perché nelle settimane precedenti eravamo usciti così spesso a prendere un caffè,
un drink o a cena, e perché sembrava che Mark vivesse nel suo ufficio. Ero sicura che un’occhiata nel
suo frigorifero avrebbe rivelato una colonia solitaria di bustine di ketchup. “Questa casa ha bisogno
di un tocco femminile”, pensai. “Lui ha bisogno di un tocco femminile.”
«Adoro il succo d’arancia», dissi accomodandomi sul divano.
Mi portò dell’acqua. Niente succo, quindi. In compenso accese il fuoco. Lo osservai sollevare
parecchi ceppi massicci per metterli nel caminetto e compresi perché aveva i bicipiti così definiti.
Probabilmente spaccava la legna da solo, usando un’accetta.
«Capisco perché a tua madre piaceva stare qui», dissi passando di nuovo in rassegna la stanza, i
cui contorni ora erano morbidi e sfumati dalla luce arancione del fuoco. «Nessuna distrazione, è quel
che serve per scrivere.»
«È tranquilla e sentimentale, sì, ma non è romantica.» Sospirò. «Però non possiamo andare al tuo
pensionato, giusto? E il mio ufficio è troppo visibile.»
Sapevo che una visita platonica alla casa di Mark non era il programma completo della serata e
che probabilmente avrei passato lì la notte e bevuto il caffè con lui la mattina dopo. Il pensiero mi
diede le vertigini.
«Non devi fare buona impressione su di me», dissi e, per dimostrarlo, sorseggiai l’acqua. Sapeva
di zolfo, ma non osai arricciare le labbra. «Qui mi piace perché sono con te.»
Si sedette accanto a me sul divano e mi diede un altro bacio, forte ma dolce, che mi attraversò
come una scossa elettrica scendendo fino ai piedi e poi risalendo. Quindi mi fissò negli occhi e mi
accarezzò una guancia con le nocche.
«Vieni con me questo fine settimana», sbottò.
«Davvero?»
«Davvero. Non penso di poter restare tre giorni interi senza di te.»
Mi si sciolse il cuore. L’imminente viaggio di Mark a New Orleans, per il convegno alla sua
università, aleggiava su di me come una nuvola gravida di pioggia. Nelle settimane precedenti non ci
eravamo separati mai più di mezza giornata.
«Non riesco a immaginarmi quanto costi un volo così all’ultimo momento», dissi.
«Ruby, penso io a tutto. Il volo, l’albergo, i pasti. Lasciamelo fare, lasciati trasportare in una
località pittoresca e affascinante.» Con un gesto indicò la trasandatezza tutt’intorno a noi, come se
fosse l’antitesi di entrambe quelle caratteristiche. «Posso prenotare una camera nel Quartiere
Francese. In qualche posto storico», aggiunse. «L’hotel Monteleone, magari. Dicono che è infestato
dai fantasmi. Se siamo fortunati possiamo farci qualche pinta con lo spettro di Faulkner al bar.»
Non ero mai stata in quell’albergo – non si va mai in albergo nella propria città – ma sapevo che
era frequentato da autori famosi come William Faulkner e Truman Capote e vi erano ambientati dei
racconti di Ernest Hemingway e di Eudora Welty. E poi, più di ogni altra cosa, io desideravo andare
con lui. Mi affascinava la sua determinazione nel volermi affascinare. Però non sapevo se ce l’avrei
fatta, se sarei riuscita a tornare a casa. Da quando studiavo a Tarble tornavo a New Orleans due
volte l’anno, per Natale e per il Mardi Gras, d’accordo con mio padre. Ma l’ultima volta in cui ci
ero andata era stata la mattina dopo che lui era morto. Avevo preso un volo a notte fonda e la mamma
mi aveva aspettato al di là dei controlli di sicurezza, tormentandosi le mani, con i ricci appiattiti, le
labbra pallide e uno sguardo vacuo. Mi aveva abbracciato come se fossi una ciambella di
salvataggio. «Mi dispiace tanto», aveva sussurrato con altruismo, come se, per un momento, il lutto
fosse solo mio e non suo. Poi eravamo andate a casa in macchina, in un silenzio insolito, consapevoli
che noi due – e nessun altro – eravamo tutta la nostra famiglia. Uno di noi era stato eliminato
dall’equazione: non dai nostri cuori – dai nostri cuori mai – bensì dallo spazio fisico in cui vivevamo
e respiravamo. Saremmo sopravvissute, ovviamente saremmo sopravvissute, ma già da quel primo
giorno senza mio padre sapevamo che la ferita non sarebbe mai sparita del tutto. Avrebbe sanguinato,
avrebbe fatto le croste, ma avrebbe lasciato una cicatrice.
Ero in grado di camminare per le strade del Quartiere Francese adesso, sapendo che l’antiquariato
di mio padre non c’era più, magari affittato a un negozio di oggetti vudù per i turisti, profumato di
patchouli? Il senso di colpa che provavo per la sua morte non mi avrebbe sopraffatto, gettando
un’ombra sul mio soggiorno con Mark? E che cosa sarebbe successo se mi fossi imbattuta in
qualcuno che conoscevo, cosa inevitabile, visto quanto tempo ci avevo vissuto? Come avrei spiegato
cosa facevo da quelle parti e chi era Mark? E forse, fatto ancora più importante, a che velocità la
notizia della mia sordida relazione clandestina avrebbe raggiunto mia madre, migliaia di chilometri
più a nord?
«Mi rendi molto difficile dire no», risposi.
«Allora non dirlo.»
Sospirai e le mie riserve volarono via con il respiro. Dissi di sì.
Ormai la decisione era presa e trasferimmo la nostra conversazione – improvvisamente fatta di
azioni e non parole – alle lenzuola scompigliate del suo letto sfatto.
Quando quel venerdì sera ci presentammo all’hotel Monteleone era il tramonto, la mia ora
preferita nella Crescent City, quando onde viola rigano l’orizzonte, quando il giorno soccombe alla
notte e sai che non si può più tornare indietro.
Per un istante restammo immobili davanti alle porte dell’albergo e io vidi che Mark guardava su e
giù per la strada, inalando infine una grande boccata d’aria di città. «È esattamente come me la
ricordavo», disse.
Il mio sguardo scese lungo la via. Eravamo in Royal Street – o rue Royal – e il negozio di mio
padre era soltanto un isolato più in là. Però New Orleans non era proprio come me la ricordavo. Le
sfumature erano completamente sbagliate. Le facciate rosa sembravano più corallo che salmone, le
felci sembravano più verde smeraldo che verde bandiera, gli oggetti in ferro più color caffè che neri.
Tornare a New Orleans era un po’ come baciare un ex fidanzato, allo stesso tempo familiare ed
estraneo. Conoscevo quel posto a memoria, eppure il tempo era passato.
Eravamo cambiati.
«Tu sei la mia guida turistica», disse Mark. «Dove andiamo?»
Indicai rue Royal in direzione del negozio di mio padre.
Quando Mark e io entrammo nel Vieux Carré camminando sottobraccio, il mio cuore cominciò a
battere forte, imitando il rumore dei miei alti tacchi neri che ticchettavano sul marciapiede, una
cacofonia ritmica simile agli zoccoli di un cavallo che calpestano il selciato. A quell’ora la maggior
parte delle botteghe di antiquariato e di gioielli avevano già chiuso per la giornata, però la strada era
ancora brulicante di turisti che si godevano il riverbero del tramonto. Per calmarmi i nervi guardai il
nostro riflesso nelle vetrine dei negozi. Vidi il mio vestito di seta nera, lo scialle rosso buttato su una
spalla, i miei capelli ricci e ramati raccolti da un lato, come una ragazzina. Vidi il blazer nero di
Mark e la camicia bianca infilata nei pantaloni marrone chiaro. Ogni vetrina era una specie di
fotogramma e la distanza fra l’una e l’altra faceva sparire e riapparire i fotogrammi, tremolanti come
in un 8 millimetri, quasi fossimo attori di un film muto.
Il film proseguì finché non arrivammo a quello che un tempo era il negozio di mio padre. Era
ancora un antiquario e non un negozio di oggetti vudù acchiappaturisti come avevo temuto, ma lo
specchio dalla cornice dorata in vetrina mi catapultò indietro nel tempo. E all’improvviso ebbi di
nuovo sette anni.
Era la fine dell’estate e la scuola aveva appena riaperto i battenti. Dopo le lezioni il papà mi
aveva portato nel suo negozio. Mi aveva promesso che se mi fossi comportata bene, se non avessi
rotto nulla, mi avrebbe comprato un’arancia al Mercato Francese, e io mi ero guadagnata il premio.
La stavo già sbucciando mentre tornavamo al tram e lasciavo cadere dietro di me la buccia arancione
come le briciole di Hänsel e Gretel. Quando arrivammo a un incrocio lui fece per afferrarmi la mano,
ma si ritrasse sorpreso quando sentì il mio palmo umido e appiccicoso.
«Sei un impiastro», mi aveva detto strofinando le gocce di succo d’arancia che mi macchiavano la
camicetta bianca, una delle due che indossavo ogni giorno per andare alla scuola parrocchiale.
«Voglio vedere», avevo detto, anche se mi ero appena messa un altro spicchio di arancia in bocca.
Lui mi aveva sollevata, infilando le mani sotto le mie ascelle, e mi aveva riportato davanti alla
vetrina del suo negozio, dove mi vedevo riflessa in uno specchio tempestato di gioielli. Pezzetti di
arancia mi punteggiavano le guance e il succo mi colava lungo il mento. Avevo sorriso al mio
riflesso. Poi avevo infilato l’ultimo spicchio in bocca a mio padre e il succo aveva cominciato a
sgocciolare lungo il mento anche a lui.
«Adesso siamo gemelli», avevo detto.
«Impossibile dire dove cominci tu e dove inizio io», aveva aggiunto. Dopodiché mi aveva rimessa
a terra e mi aveva stretto la mano mentre attraversavamo la strada. Non la mollava mai, finché non
eravamo sul tram. E quando aveva pescato i biglietti dalla tasca, le nostre mani erano letteralmente
incollate insieme dal succo dell’arancia.
Mark intercettò i miei pensieri. «C’è qualcosa che non va, Ruby?» mi chiese, dato che avevo
smesso di camminare. «Sembri così triste.»
I miei occhi erano velati dalle lacrime. «Non credo di farcela.»
Lui deglutì. Guardai il suo pomo d’Adamo andare su e giù in un colpo solo. «Ti sono venuti dei
dubbi su di noi?»
Feci cenno di no con la testa e lo baciai, sfiorandogli appena le labbra, perché mi era sembrato
così vulnerabile, come un bambino che stringe il salvadanaio a forma di porcellino e aspetta che
davanti a casa passi il furgoncino del gelato in un afoso pomeriggio d’agosto.
«Questo era il negozio di mio padre», dichiarai. «Pensavo di farcela a tornare, ma l’ultima volta
che sono venuta qui è stato per il suo funerale ed è tutto… è come se fosse appena successo.»
«Oh, tesoro, perché non me l’hai detto prima?» Mi strinse entrambe le braccia, accovacciandosi
per guardarmi da sotto in su con i suoi occhi afflitti. «Saremmo potuti andare a Las Vegas o a New
York, da qualche altra parte, un altro weekend.»
«Ma io volevo venire. E sto bene. Va tutto bene, sto bene.»
Studiò il mio viso: non mi credeva. «Avrei solo voluto che tu me l’avessi detto.»
Perché non gliel’avevo detto? Perché non gli avevo comunicato le mie preoccupazioni riguardo al
viaggio e all’impatto che temevo avrebbe esercitato sulla mia psiche? Perché non volevo più essere
quella ragazza, la ragazza a cui era morto il padre. Non volevo avere un handicap emotivo. Imparare
a vivere senza mio padre era stato come imparare a vivere senza una gamba e io non volevo più
zoppicare. Mark era diventato la mia protesi così in fretta e con una tale facilità da riempire quello
spazio vuoto e doloroso, sin dalla notte in cui ci eravamo baciati nella sua jeep. E io volevo godermi
l’euforia di sentirmi di nuovo completa.
«Vuoi tornare a casa?» mi chiese.
“Più di qualsiasi altra cosa”, pensai. “Voglio andare a casa, in una New Orleans che non esiste
più, quella in cui mio papà è ancora vivo.”
«Non essere sciocco», dissi. «Abbiamo preso un volo per venire qui. Abbiamo già fatto il checkin in albergo. E domani abbiamo il convegno.»
«Niente di tutto questo ha importanza se non sei felice, se non ti senti a tuo agio. Di’ solo una
parola e prenoto il primo volo di ritorno.»
«Lo faresti?»
«Certo.» La sua espressione era solenne, determinata, seria: l’atteggiamento di un cavaliere
dall’armatura scintillante un attimo prima di salvare la principessa.
Abbracciai i suoi fianchi e appoggiai la testa sul suo petto mentre soppesavo la decisione.
«Restiamo», dissi infine.
Allora lui mi prese la mano e mi condusse oltre il negozio di mio padre. I nostri palmi erano uniti
da un amore altrettanto forte e adesivo del succo d’arancia.
Quella sera Mark e io creammo una New Orleans alternativa, una città che si fondava ancora sulla
speranza, sui sogni, sulla promessa del domani.
Mangiammo a un tavolo per due all’aperto, sotto lampade antiche e fili di luci bianche che
attraversavano una volta di rami e viticci. Le nostre bocche furono allietate da un roux preparato con
tutti i crismi, dall’equilibrio perfetto di aglio, cipolla e sedano e, in seguito, dal calore burroso delle
banane flambée alla Foster. Infine, con lo stomaco pieno e i sensi acuiti, passeggiammo lungo Pirates
Alley, fermandoci a rendere i nostri omaggi a William Faulkner fuori dall’appartamento in cui aveva
abitato negli anni Venti, prima di mettere piede in una Jackson Square inquietante e buia, illuminata
dai lampioni e dagli stoppini luccicanti dei cartomanti. Guardammo la nebbia posarsi sul fiume
Mississippi e ascoltammo i lamenti delle navi cargo – richiami notturni riecheggianti la beatitudine
che cantava dentro di noi – prima di salire su una carrozza trainata dai cavalli.
«Ma è una cosa da turisti», sbottai quando Mark estrasse una mazzetta di contanti per il
conducente.
Sfoggiò un sorriso irresistibile. «E noi che cosa siamo?»
E poi, come se non avessimo già battuto in lungo e in largo ogni strada del quartiere, le
ripercorremmo di nuovo tutte, alcune in silenzio e altre conversando con schiettezza. A ogni cosa che
Mark vedeva e sentiva i suoi ricordi dei tempi dell’università sembravano acuirsi – riguardavano
soprattutto le serate di bevute in Bourbon Street – ed era quasi mezzanotte quando ci ritrovammo al
punto di partenza della serata, davanti al nostro albergo.
Mi sfilai le scarpe con i tacchi e rimasi a piedi nudi sul marciapiede fresco, facendo dondolare le
scarpe dal dito indice. Mark mi abbracciò e la sua bocca andò verso il punto più morbido dietro il
mio orecchio. Il suo respiro caldo mi fece correre un brivido lungo la schiena. Poi mi abbassò una
spallina del vestito per baciare la pelle al di sopra della clavicola.
«Mi inviti a salire in camera tua?» sussurrò.
«Sai di che cosa avrei voglia?» chiese Mark un’ora dopo sotto le lenzuola, il suo corpo a
cucchiaio contro il mio. «Di uno di quei krapfen con lo zucchero a velo.»
Mi piaceva quel suo «avrei voglia»: aveva un suono familiare, come se fossimo stati sempre così,
come se fossimo sempre stati insieme.
«Intendi un beignet.» Lo ammonii posandogli un dito sulle labbra. «Non chiamarli mai krapfen, è
un peccato capitale.»
«Scusa. Un beignet.» Guardò l’orologio sul comodino. «Credi che quel bar sia ancora aperto?»
«Il Café Du Monde? È sempre aperto.»
«Andiamoci.»
«Adesso?»
«Perché no?»
E così ci infilammo di nuovo i vestiti che avevamo sparpagliato su tutto il pavimento della camera
d’albergo e ci dirigemmo al Café Du Monde. Stavolta, però, io mi misi un paio di infradito e Mark
rinunciò alla giacca e si limitò alla camicia bianca con il colletto slacciato. Occupammo un tavolino
ai margini del locale che dava sul marciapiede, dove un sassofonista aveva lasciato aperta la
custodia del suo strumento per raccogliere monetine dopo aver suonato Dream a Little Dream of Me .
Mark teneva d’occhio il cameriere mentre io mi godevo la vista e i rumori del caffè.
Due tavoli più in là vidi un gruppo di studenti universitari che sembravano appena usciti da
Bourbon Street. Il collo delle ragazze era adorno di perline e le guance dei ragazzi erano coperte da
impronte rosse di baci. Una ragazza aveva ancora in mano un alto bicchiere ricordo in cui era rimasta
qualche goccia di daiquiri rosa. Gli occhi luccicanti e le gote arrossate rivelavano che se l’era
scolato quasi tutto. Studiai ogni studente del gruppo ma nessuno mi risultò familiare. Tirai un respiro
di sollievo. Nessuno se ne sarebbe uscito con un imbarazzante: “Ma non eravamo seduti vicino alle
lezioni di biologia del professor Harrison?”.
Accanto agli studenti c’era una donna intorno ai trentacinque anni dagli ispidi capelli castani e con
gli occhiali dalla montatura scura, più in stile New York che New Orleans. Sembrava che stesse
scrivendo qualcosa su un quaderno. Il modo in cui inclinava la testa e la sua mascella morbida e
rilassata mi fecero pensare che non avesse un altro posto dove andare e nient’altro da fare.
E poi c’erano l’uomo che piegava i tovaglioli facendone origami, il travestito e la coppia di
fidanzati che, tra un sorso di caffè e l’altro, si baciava con la lingua. Sorrisi, felice di vedere il caffè
come l’avevo spesso visto in passato, pieno di artisti, eccentrici e innamorati. Il cameriere, un
giovane vietnamita che indossava il cappellino di carta bianco dell’uniforme, venne da noi con un
volto di pietra. Mark ordinò due cafés au lait e una porzione di beignets.
«Allora domani», disse quando il cameriere se ne andò, «prendiamo il trolley per andare alla
Tulane?»
«Qui il tram si chiama streetcar», lo corressi.
«Streetcar, beignets….» Roteò gli occhi. «Siete pignoli in fatto di semantica, non c’è che dire.»
Risi. «A che ora dobbiamo essere al convegno?»
Fece una smorfia. «Vorrei poterti portare con me, Ruby. Sul serio. Ma credo sia troppo rischioso.
Conosco ancora un bel po’ di gente alla Tulane: i miei ex professori, i colleghi del settore. Se
qualcuno ci vedesse, farebbe due più due… Inoltre non penso che riuscirei a concentrarmi vedendo il
tuo bel visino in mezzo alla folla.» Mi accarezzò una guancia. «Troverai qualcosa con cui tenerti
occupata, vero? Fai un giretto nel campus e in libreria finché non ho finito.»
Avvertii un tuffo al cuore. Avevo semplicemente dato per scontato che sarei andata al convegno
con lui, poiché quel pomeriggio nel suo ufficio mi aveva chiesto di parteciparvi, ancora prima che
iniziasse la nostra relazione. Nascosi la mia delusione facendo un cenno esagerato con la testa.
«Andrò in biblioteca. Devo comunque lavorare.»
«Sapevo che avresti capito.» Mi strinse la mano. «E come sta venendo la tua tesi?»
«Davvero bene. Proprio in questo momento sto lavorando sulle connotazioni della parola “stanza”.
Quando Virginia Woolf diceva che una donna dovrebbe avere una stanza tutta per sé intendeva
soltanto uno spazio fisico? Io penso che “stanza” potrebbe essere qualcosa di più astratto e avere un
risvolto linguistico, alludere a una dimensione poetica libera da giudizi, sensi di colpa e aspettative.»
Lui non disse nulla ma mi guardò con occhi affettuosi e un accenno di sorriso.
«Che cosa c’è?»
Scrollò la testa. «Niente. Amo il modo in cui lavora la tua mente.»
“Amo. Mi ama. Mi ama?”
«Comunque sono ancora nella fase in cui prendo appunti», proseguii. «Finora ho quindici pagine,
ma ci sono ancora un sacco di informazioni da setacciare. Quindi, a dire il vero, è positivo che io
non debba venire al convegno. Posso rintanarmi a studiare.»
«Be’, non sgobbare troppo», mi ammonì. «Volevo che questo fosse un weekend di piacere e non di
lavoro.»
Gli appoggiai una mano sulla coscia. «Be’, di certo io mi sto divertendo.»
«Anch’io. Però…» Mi studiò come se fossi la chiave di un cruciverba, come se si sentisse confuso
e stimolato da me allo stesso tempo. «Credo che dovremmo parlare di quello che è accaduto prima,
in Royal Street. Comincio a pensare che tu non mi abbia raccontato tutta la storia.»
«La storia?»
«Di tuo padre, di quello che è successo quando è morto.»
In quel momento Mark doveva aver visto che mi si stavano inumidendo gli occhi, perché infilò uno
dei miei vagabondi ricci ramati dietro l’orecchio, poi mise una mano a coppa attorno alla mia
guancia. Il calore della sua mano fece cadere la prima lacrima e le altre seguirono subito dopo. Con
le dita mi premetti gli angoli degli occhi per smettere di piangere, ma, come un cerotto su una ferita
aperta, non funzionò. Nel giro di pochi secondi stavo singhiozzando: un pianto improvviso e brutto,
da mocciosa. Mi nascosi il viso tra le mani.
«Scusami tanto», dissi d’impulso.
«Non c’è niente di cui scusarsi.» Mark cercò di calmarmi. «Ruby, voglio sapere tutto di te, non
soltanto le parti che vuoi mostrarmi. Mi piace quando sei felice, ma questo non significa che non
voglio sapere quando sei triste. Quindi non lasciarmi all’oscuro, d’accordo?»
Mi soffiai il naso con un tovagliolo preso dal recipiente di metallo che c’era sul tavolo.
«È stata colpa mia», dissi.
«Hai detto che è stato un incidente d’auto. Stavi guidando tu?»
Feci cenno di no con la testa. «È stato investito da qualcuno che poi è scappato. Stava
attraversando la strada.»
«E come fa a essere colpa tua?»
«Non sarebbe successo se fossi tornata a casa come avrei dovuto.»
Continuai raccontando i dettagli a Mark: ogni anno, la sera prima della vigilia di Natale, mio
padre e io andavamo al festival delle luci che si tiene ogni anno negli Oaks, il parco cittadino. Era
tradizione che ci andassimo solo noi due, sin da quando ero una bambinetta, perché mia madre faceva
sempre gli straordinari in ospedale per essere sicura di avere libero il giorno di Natale. E con il
passare degli anni quella gita festiva era diventata sacrosanta almeno quanto il Mardi Gras.
«L’ultimo anno, però, Heidi mi aveva invitato ad andare a casa da lei in Minnesota e io le avevo
detto di sì», spiegai. «Volevo vivere un vero “bianco Natale”. Ma, soprattutto, credo di aver voluto
mettere alla prova la mia autonomia. Forse non sarei tornata a casa dopo la laurea, forse sarei
rimasta nel Midwest. E avevo bisogno di dimostrare a me stessa che potevo farcela, che potevo
recidere il cordone ombelicale con New Orleans, con la mia famiglia, con mio padre. Certo, non
avevo idea di quello che sarebbe successo. Lui sarebbe ancora qui se io non fossi stata così egoista.»
«Se fossi stata con lui saresti stata investita anche tu», razionalizzò lui.
«No, perché la tempistica sarebbe stata diversa. Papà e io andavamo sempre a farci un
cheeseburger con patatine come prima cosa. Era una nostra debolezza, il nostro piccolo segreto.
Facevamo rifornimento di grassi e carboidrati e poi li smaltivamo camminando nel parco finché non
andava via la puzza dai vestiti, così la mamma non avrebbe sentito niente quando sarebbe rientrata.
Invece non sono tornata a casa per le vacanze e mio padre ci è andato da solo. Niente cheeseburger,
ma solo lo spettacolo di luci. Se ci fossi stata anch’io avremmo attraversato la strada almeno un’ora
dopo. Non sarebbe successo.»
«Non puoi fartene una colpa, Ruby. Non puoi giocare a “che cosa sarebbe successo se”.»
«Invece ci gioco in continuazione da allora. Persino nel sonno. Subito dopo ho cominciato ad
avere questi incubi ricorrenti in cui mio padre cammina da solo nel parco e la gente – le madri con i
loro rampolli che indossano cappellini con le corna da renna – lo fissano quando passa, perché quale
uomo di quarantacinque anni va da solo a un festival di luci? Un pedofilo?»
«Sei troppo dura con te stessa», disse.
«Lo sai che qui è nevicato l’anno scorso?» proseguii. «Per la prima volta da molto tempo. È
nevicato quella sera, solo qualche centimetro, ma la gente non sa guidare nella neve, non come su al
Nord. Per una spolverata di neve qui chiudono le scuole, bloccano le strade. E quella sera è
nevicato. E chiunque fosse al volante dell’auto che l’ha investito – la polizia non l’ha mai beccato –
probabilmente non sapeva guidare in quelle condizioni atmosferiche.»
«È un senso di colpa enorme da sopportare, Ruby.» Mark sospirò. «Ti sei fatta aiutare?»
«Quando è successo, sì, soprattutto perché gli incubi mi tenevano sveglia tutta la notte. Ero
diventata insonne. Mi hanno diagnosticato un disturbo da stress post traumatico e mi hanno prescritto
delle pillole per dormire. Ma ultimamente stavo bene e dormivo bene. Non mi sono più sentita in
colpa. Fino a ora, e…»
«…Vieni qui», disse Mark abbracciandomi forte. Restammo seduti così, il mio viso sepolto nel
suo petto e le mie lacrime che punteggiavano le nostre ginocchia, finché ripresi a respirare
regolarmente.
Allora, dopo che ci fummo staccati dall’abbraccio, mi accorsi che la donna con il quaderno, quella
che sembrava non avere un posto dove andare né qualcosa da fare, ci stava osservando. Mi fissava
come se mi conoscesse, come se stesse cercando di collocarmi nella sua memoria, e la mia mente
passò rapidamente in rassegna una serie di volti: le donne con cui mia madre lavorava in ospedale, le
madri dei miei compagni di liceo, i nostri vecchi vicini di casa. “La conosco?” mi chiesi. “Mi
conosce?” Conosceva mia madre e aveva scorto una somiglianza? No, la sua espressione non era di
riconoscimento ma di disgusto, piuttosto. Sembrava che avesse assistito ai nostri gesti affettuosi. O
forse aveva udito la nostra conversazione? In entrambi i casi, era chiaro che non approvava.
Il cameriere mi diede una tregua dal giudizio di quella donna quando apparve con due tazze piene
di un liquido del colore di una bella abbronzatura estiva e un piattino di beignets ricoperti di
zucchero a velo. Mark pagò mentre io lanciavo alla donna un’altra occhiata, tirando un respiro di
sollievo quando vidi che era nuovamente immersa nel suo quaderno. Forse non stava osservando me,
ma qualcuno o qualcosa dietro di me. Mi girai per guardarmi alle spalle, ma vidi solo un tavolo
vuoto.
Allora sorseggiai il mio caffè, il cui vapore salendo dava conforto ai miei occhi arrossati, e ne
assaporai il gusto di cicoria così inequivocabilmente terreno. Nel frattempo Mark aveva la bocca già
piena di frittelle e lo zucchero bianco gli impolverava le labbra e la punta delle dita dopo un solo
morso. Aveva un’aria adorabile.
«Prendine uno», disse, spingendo il piatto verso di me. «Niente è in grado di metterti di buon
umore quanto una bella dose di grassi e zuccheri.»
Sventuratamente non c’è un modo signorile per mangiare un beignet, così presi la massa di pasta
calda e guardai lo zucchero in bilico sul bordo, pronto a spruzzare polvere di fata del Café Du
Monde sul mio vestito nero. I tovagliolini erano così piccoli che avrei dovuto usarne venti per
proteggermi. Sporgendo la testa sopra il piatto, portai il beignet verso le labbra e lo mangiai tutto in
quel modo, con le spalle curve e il mento sollevato. Ma lo zucchero, miracolosamente, impolverò lo
stesso il davanti del mio abito. Tamponai le macchie con dell’acqua, ma sembrava che la seta nera
avesse assorbito lo zucchero e, sfregandole, avevo trasformato quelle macchioline in chiazze.
«Temo di avere rovinato il vestito», dissi dopo aver esaurito tutti i tentativi.
Mark mi fece l’occhiolino, con fare scherzoso. «Vorrà dire che dovrai togliertelo.»
Non parlammo più di mio padre. Credo che Mark avesse capito che la conversazione mi aveva
emotivamente prosciugata. Invece mangiammo e bevemmo, ascoltammo il sassofonista, ci godemmo
l’atmosfera del caffè, il soffitto alto e i ventilatori che roteavano, il tintinnio delle tazze e dei
sottopiatti, il chiacchiericcio rumoroso della gente nelle ore piccole del mattino.
Quando infine ce ne andammo dal caffè passammo davanti agli studenti universitari, al travestito e
all’artista dell’origami, ma, ancora prima, davanti alla donna con il quaderno. Lei alzò lo sguardo al
nostro passaggio, ma io non riuscii a fissarla negli occhi. Temevo che mi avrebbero ricordato troppo
quelli di mia madre e il senso di colpa a cui in qualche modo mi ero sottratta grazie all’affetto per
Mark. Vidi solo che piegava gli angoli della bocca all’ingiù, scrollando la testa.
«Mah», mi parve di sentirle dire tra i mormorii del caffè e il rumore dei piatti.
O forse aveva detto «amante»?
Una volta in Decatur Street cercai di concentrarmi sul cielo notturno, sulle guglie della cattedrale
di St Louis che puntavano verso le stelle. Però l’immagine mi sfuggì e l’unica cosa che vedevo era il
disgusto di quella donna. Strofinai di nuovo il davanti dell’abito.
«È inutile.» Mark mi strinse la vita. «Quel che è fatto è fatto.»
Sapevo che, lavandolo, avrei risolto il problema. Sapevo che a quell’ora di notte nessuno mi
avrebbe notato. Eppure, finché non arrivammo nella nostra camera d’albergo tenni le mani davanti al
petto per nascondere le macchie bianche di zucchero a velo sul vestito: la lettera A – benché chiara e
non scarlattta – che vi aveva impresso quella donna del bar con il suo sguardo severo.
Quando aprii gli occhi la stanza era buia. I pesanti tendaggi erano così efficaci che non sapevo più
se era la mattina o il pomeriggio del giorno dopo, però ben presto vidi una striscia sottile di
caliginosa luce mattutina nel punto in cui la tenda incontrava il muro.
Mark era ancora addormentato a pancia in giù, le braccia sopra il cuscino. Questa posizione gli
metteva in evidenza i bicipiti e gli addominali tonici. Avrei voluto infilargli una mano sotto la vita e
baciarlo delicatamente su una spalla, non solo perché nel sonno era bello, ma anche perché aveva
rotto il ghiaccio a proposito di mio padre. Come potevo ripagarlo per quella gentilezza al caffè? Era
stato così dolce e così forte. Aveva visto al di là della mia facciata. Aveva formulato le domande più
difficili. Aveva ascoltato. Come facevo a chiedermi se mi amava? Non era evidente dalle sue azioni?
Decisi di non svegliarlo e scesi invece dal letto. Mi ero addormentata leggendo Una stanza tutta
per sé di Virginia Woolf. Il libro, la mia alternativa ai sonniferi, era ancora a letto con me e lo misi
sul comodino. Fu allora che pensai a Leonard Woolf.
Dalle mie ricerche sapevo che il marito di Virginia Woolf era stato altrettanto gentile e l’aveva
accudita durante le crisi depressive che invariabilmente la colpivano quando terminava un romanzo.
Leonard aveva donato a sua moglie così tanto tempo e tanta comprensione che lei aveva finito per
sentirsi un peso che gli rovinava la vita. Oltre alle voci che udiva e alla sensazione di impazzire,
questa fu una delle ragioni per cui la Woolf si tolse la vita nel 1941.
«Hai avuto una pazienza infinita e una bontà incredibile nei miei confronti», Virginia aveva scritto
a Leonard nella lettera d’addio vergata poco prima di annegare nel fiume Ouse. «Non posso
continuare a distruggere la tua vita. Non credo che due persone abbiano potuto essere più felici di
noi.»
Non volevo che Mark mi vedesse come un peso. Non volevo approfittarmi della sua compassione.
E giurai che non avrei pianto su mio padre per il resto del fine settimana, che non mi sarei mostrata
debole, ferita, bisognosa o emotiva. Gli avrei dimostrato di essere forte. Stoica. Sarei stata
divertente, serena e spensierata: il genere di donna che si meritava.
Allora mi avvicinai alla finestra per assistere all’alba di un nuovo giorno. Tirando le tende vidi il
cortile sottostante immerso nella nebbia. La nebbia, soprattutto la mattina, è tipica di New Orleans
almeno quanto il jazz o i frutti di mare, e io rimasi a guardare quella nube indistinta di bianco che a
poco a poco rivelava tavoli, sedie e una chaise longue, adagiati nella pace di una leggera pioggia.
Protesi la mano verso l’orologio di Mark – l’aveva appoggiato sulla scrivania accanto alla finestra –
e vidi che erano le sei meno un quarto. Avevo dormito solamente tre ore. Avevamo fatto ancora
l’amore dopo il café au lait, i beignets e la spolverata con lo zucchero, però mi sentivo abbastanza
rinvigorita da avventurarmi fuori per un caffè nella hall dell’albergo e quattro passi nel cortile. Avrei
portato a Mark una tazza di caffè appena fatto, proprio come piaceva a lui. Avremmo iniziato la
giornata con il piede giusto.
La luce del sole penetrò lentamente attraverso il velo di nebbia e continuò a sollevarlo mentre
camminavo nel cortile. Dopo pochi minuti l’umidità aveva già raffreddato il mio caffè, che ormai
sapeva un po’ di gesso, ma in realtà si trattava di un sapore nostalgico, simile a quello del brodo di
pollo. Mi ricordava tutte le domeniche mattina in cui ero rimasta seduta al tavolo della cucina con
mia mamma parlando di tutto e di niente. Avevo una gran voglia di chiamarla, di addossare a lei quel
peso invece che a Mark, ma non aveva idea che fossi a New Orleans con lui, con il mio professore,
un uomo sposato. Avrebbe sicuramente disapprovato la nostra relazione, ma in un certo senso era una
faccenda secondaria rispetto a un peccato più imperdonabile: ero tornata a New Orleans senza di lei.
Allora decisi di rientrare in camera e, mentre stavo per andare nella hall a prendere il caffè per
Mark, mi fermai all’improvviso alla vista di una donna che si trovava proprio sotto la nostra finestra.
Persino tra i fumi della nebbia il suo profilo mi colpì immediatamente. La riconobbi, ma in maniera
vaga, come se avessi visto un’amica d’infanzia ormai cresciuta. I capelli, colore dell’acqua torbida,
erano raccolti sulla nuca in un modo allo stesso tempo arruffato e raffinato. Forse era la camicetta,
bianca con un colletto di pizzo con le ruches, che suggeriva una certa riservatezza. Oppure la gonna
marrone che le arrivava alle caviglie. O il naso sottile e appuntito da monaca.
Chiusi gli occhi, poi li riaprii, ma lei era ancora lì. La fissai nel cortile silenzioso, le osservai le
mani che armeggiavano nella tasca del cardigan e cercai di collocarla. Aveva l’aria di non stare
bene: era pallida... o era il biancore della nebbia che si stava levando?
«Salve», dissi.
Lei non sussultò, ma diresse i suoi occhi verso i miei girando languidamente il collo. Socchiuse le
labbra, ma non per sorridere. Era più una smorfia, la smorfia di chi la sa lunga, venata quasi di un
senso di superiorità, come se lei conoscesse cose di cui io avevo solo letto. Poi si allontanò e
scomparve lungo il corridoio che conduceva alla hall dell’albergo.
Rimasi ferma un attimo, sconcertata dalla sua espressione e dalla rapidità con cui se ne era andata.
Non avevo udito dei passi, ma poco dopo la seguii nella hall dai pavimenti di marmo. Non c’era
nessuno, tranne l’impiegato della reception.
«È appena entrato qualcuno?» gli chiesi. «Una donna?»
Lui arricciò le labbra e inarcò le sopracciglia con aria perplessa.
«L’ho appena vista, è passata di qui.» Mi girai a guardare il cortile. Come aveva fatto quella
donna a scomparire così in fretta? «Era… Credo che indossasse un costume.»
L’impiegato annuì. «Quest’albergo è infestato di fantasmi. Ne abbiamo molti che ci abitano», disse
con disinvoltura, come se avesse detto che l’albergo aveva molte suite disponibili.
I fantasmi fanno parte della cultura di New Orleans quanto le parate e le praline: ci sono giri
turistici dedicati ai fantasmi, come del resto ai cimiteri e ai riti vudù. Però la donna che avevo visto
possedeva qualcosa di impressionante. I capelli, il naso, i vestiti. Perché mi era sembrata così
familiare e, allo stesso tempo, difficile da collocare? D’un tratto, però, mi esplose nella mente una
rivelazione e mi precipitai di sopra.
Aprii la porta della stanza con circospezione, ma Mark si mosse lo stesso. Dopo aver guardato nel
letto accanto a sé, allungò il collo per cercarmi. «Mi era sembrato di averti sentito uscire», disse.
Aveva la voce stridula, come se fosse entrato e uscito dai bar di Bourbon Street tutta la notte.
Andai dritta al comodino dove avevo appoggiato la copia di Una stanza tutta per sé che stavo
leggendo e la girai sulla quarta di copertina per studiare la fotografia di Virginia Woolf. Era giovane,
aveva i capelli scuri e raccolti sulla nuca, la pelle liscia e bianca come porcellana, il colletto della
camicetta era femminile, di pizzo. Era uno scatto di profilo, perciò spiccava il particolare del naso a
punta. Viceversa, la donna che avevo visto in cortile non era così giovane. Aveva le rughe. Anzi, era
segnata dal tempo. Tuttavia la somiglianza dei due profili, la Woolf della fotografia e la donna in
cortile, era così sorprendente che mi sentii come se mille aghi mi pungessero le braccia.
«Che cosa c’è? Che cosa stai guardando?» chiese Mark.
Non risposi. La mia mente stava ancora ripercorrendo tutto ciò che aveva visto e che non aveva
visto. La donna mi era parsa così reale, eppure era scomparsa più rapidamente di quanto fosse
umanamente possibile.
«Ruby?» gridò quasi. La sua voce era vigorosa e autorevole. Mi ricordò il primo pomeriggio nel
suo ufficio, il modo in cui si era rivolto a Madeline e l’aveva ridestata di colpo dalla sua tristezza.
«Ho visto una donna nel cortile», risposi infine. «Era identica a lei», aggiunsi indicando la
fotografia di Virginia Woolf sul retro della copertina del mio libro.
Mark si stropicciò gli occhi ancora pieni di sonno, poi studiò la fotografia. «Se la memoria non
m’inganna, questa città è piena di tipi strani», dichiarò. «Un sacco di gente che si traveste senza un
motivo particolare. Probabilmente avrai visto uno di quegli artisti di strada che se ne stanno fermi
per ore solo per raccogliere qualche spicciolo.»
«Ma non sembrava una persona reale», replicai. «Era pallida, bianca e muta. Ed è scomparsa alla
velocità del lampo. L’impiegato della reception non l’ha nemmeno vista e non si può uscire da qui se
non attraversando la hall.» Feci una pausa. «Tu credi nei fantasmi, Mark?»
«I fantasmi, Dio mio. Non saprei.» Socchiuse gli occhi. «Credi di avere visto un fantasma?»
«No», dissi, e poi: «Non lo so».
«Non lo stavi leggendo ieri sera?» Picchiettò sul libro che avevo ancora tra le mani. «Prima di
andare a letto?»
Annuii.
«Non hai dormito molto», aggiunse.
Aveva ragione: soffrivo di privazione del sonno.
«Probabilmente hai visto una donna, qualcuno che sta qui e che assomiglia vagamente a Virginia
Woolf», mi spiegò. «Poi c’era la nebbia, tu eri stanca e ti sei immaginata che quella donna fosse la
Woolf.»
«C’era la nebbia», ammisi.
«Be’, visto? Ecco tutto.»
Il suo tono era disinvolto, ma notai che intorno agli occhi gli si erano formate delle rughe di
preoccupazione.
“Non assillarlo”, pensai.
E così lasciai perdere, attribuendo l’episodio alla stanchezza e alla nebbia. Con il senno di poi,
avrei dovuto riconoscere la premonizione. Allora non compresi interamente le ripercussioni
dell’avere visto Virginia Woolf nel cortile.
Niente m’indicava il sentiero scuro e intricato che stavo per percorrere.
5.
Bussai piano – un colpo ansioso delle nocche contro la porta-zanzariera di metallo – e attesi che la
signora Richards mi rispondesse, attesi che il mio coraggio facesse capolino.
“È un’idea stupida”, pensai fissando lo spioncino e immaginandomi che dall’altra parte ci fosse un
occhio scrutatore. “Perché ti sei incaponita a venire a Milwaukee, in quest’orario di punta oltretutto,
per vedere qualcuno che potrebbe essere in casa oppure no, che potrebbe gradire la tua visita oppure
no?”
Per Mark.
Be’, per Beth e Mark.
Lunedì sera avevo terminato di leggere la copia di Beth di Una stanza tutta per sé, in cerca di
altre note a margine, oltre a qualche indizio sulla possibile relazione di Beth con Mark, e non avevo
trovato nulla di più incriminante di «come la baita di Cassie». Eppure non riuscivo a togliermi dalla
testa l’idea che Beth Richards fosse stata innamorata di Mark. Lo ammetto, era un pensiero illogico.
Poche parole – un semplice riferimento al posto in cui sua madre si rifugiava per scrivere – non
erano una dimostrazione di trasporto amoroso. Eppure quelle lettere, la sfumatura indaco scuro
dell’inchiostro, le punte arricciate e vezzose della C, indicavano un’emozione che riconoscevo in
fondo a me stessa, un desiderio che mi prendeva allo stomaco, di amare e di essere amata. Dovevo
sapere.
Ed era per questo che mi trovavo fuori dalla casa di Beth Richards il martedì sera, al tramonto,
contro ogni logica.
La curiosità vinceva sulla logica.
Bussai di nuovo alla porta, stavolta in modo più deciso, ma i miei colpi incontrarono il silenzio, a
parte il tremolio di una leggera brezza. Aspettai un altro minuto prima di tornare, sconfitta, alla mia
auto.
Stavo inserendo la retromarcia quando vidi aprirsi la porta del bungalow di mattoni e una donna –
i capelli biondi che le arrivavano alle spalle, un po’ più scuri perché erano bagnati – scendere di
corsa i gradini del portico e venire verso la mia macchina, a una velocità tale che saltò un gradino e
quasi scivolò. Agitava un asciugamano giallo verso di me, poi imitò un vigile urbano alzando la
mano nel tentativo di fermarmi. Stava anche dicendo qualcosa, ma con la radio accesa non riuscivo a
sentirla.
Quando parcheggiai di nuovo la macchina e abbassai il finestrino, lei era già accanto alla portiera
dalla parte del conducente.
«Ero sotto la doccia», sbottò senza fiato.
«Mi scusi.»
Scrollò la testa con una forza tale che delle gocce d’acqua le caddero dai capelli sulla camicia di
flanella da uomo che indossava. Era più grande di un paio di taglie, una specie di camicia da notte, e
forse – pensai – se l’era infilata solo per aprire la porta.
«No, scusa tu. Sono rimasta sotto nemmeno tre minuti.» Parlava in maniera concitata, ancora sotto
gli effetti dell’adrenalina scaricata durante l’impresa olimpica di precipitarsi alla porta. «Di tutti i
momenti in cui potevi venire… Ma tu… sei qui per Beth?»
La donna non aveva bisogno di presentazioni. Era la madre di Beth Richards. Lo seppi nel
momento in cui i nostri sguardi s’incrociarono. Aveva lo stesso aspetto di sua figlia, soltanto più
vecchia, nel modo misterioso in cui anche mia madre e io ci assomigliavamo, e immediatamente mi
tornò in mente Beth Richards, cosa che non era accaduta fino a quel momento. Il mio ricordo di lei si
acuì: i lunghi capelli biondi, i tranquilli occhi azzurri, la corporatura snella e atletica di una abituata
a correre, e una bellezza naturale che non dipendeva dal rossetto o dall’eyeliner, ma da una
lucentezza salutare simile al colorito dopo l’allenamento.
La signora Richards, invece, non aveva quella lucentezza. I suoi occhi, bordati da cerchi scuri e
gonfi per il pianto e la mancanza di sonno, danzavano sgranati e attenti in un’attesa disperata. Su un
lato del volto le colò una goccia d’acqua, ma lei parve non accorgersene e continuò a stringere
l’asciugamano.
Aprii la portiera per parlarle più direttamente. «Sono Ruby Rousseau», dissi prima di aggiungere:
«Avevo la valigia di Beth».
«Sì, sì, Ruby.» Annuì troppe volte, ricordandomi un pupazzetto di gomma, prima di aggrottare la
fronte. «L’ispettore non è venuto a prenderla ieri?»
«Sì, lei non l’ha vista?»
«Non posso, non finché non la “lavorano”.» Fece il segno delle virgolette per illustrare la sua
frustrazione.
Stavo per spiegarle che cosa ci facevo lì, ma lei continuò con la sua tirata.
«E nemmeno la polizia di Pittsburgh sembra stia facendo qualcosa. Sai, volevo andarci di persona,
in Pennsylvania, e mi hanno detto di non farlo. Mi sono offerta di chiamare gli amici di Beth o la
gente che conosce e l’ispettore Pickens mi ha risposto di lasciar fare alla polizia il suo lavoro. Gli ho
detto che volevo la fotografia di Beth nei notiziari e loro hanno replicato che bisogna aspettare.
Aspettare che cosa? Non abbiamo tempo di aspettare.»
Dopo aver visto lo sguardo disperato della signora Richards, dopo aver udito l’angoscia nella sua
voce, mi rimproverai da sola per essere lì. La figlia di questa donna era scomparsa, presumibilmente
morta, e io avevo l’audacia di importunarla, trascinarla fuori dall’unica doccia che probabilmente si
era fatta negli ultimi giorni – gli unici tre minuti in cui aveva pensato a sé stessa – solo per curiosare
nella vita privata di Beth, solo per scoprire se qualcosa che avevo «intuito» dalla lettura di una nota
a margine in un libro era vero. La signora Richards voleva delle informazioni, indizi su dove si
trovava sua figlia. Ecco perché si era precipitata fuori dalla porta con i capelli bagnati fradici, quasi
rompendosi l’osso del collo sulle scale. “Che delusione”, pensai, “quando scoprirà che non ho nulla
di concreto da offrire.”
Deglutii il senso di colpa che, come un groppo, sentivo in gola. «Immagino quanto sia difficile per
lei, signora Richards», dissi, preparandomi ad andare via. «Mi spiace molto di averla disturbata.»
Mi fermò. «Voglio essere disturbata.» La sua voce tuonò. «La polizia non mi ha disturbata
abbastanza. Sto impazzendo, Ruby, ad aspettare e basta che le cose si “lavorino”, si “solidifichino” o
“arrivino a maturazione” o qualunque sia il gergo poliziesco che gli ispettori usano al giorno d’oggi.»
Rispose al mio sguardo, gli occhi improvvisamente morbidi e pieni di lacrime. «Ho bisogno di
parlare. A un essere umano, a qualcun altro che non sia io stessa. Puoi… puoi entrare?»
Appena misi piede nell’atrio d’ingresso della casa le narici mi si riempirono dell’odore di caffè
bruciato e di aria viziata: una casa cui serviva disperatamente lo spiraglio di una finestra. Un vulcano
di posta chiusa aveva eruttato su una mensola. Parecchi giornali, ancora avvolti nel cellophane e
inzaccherati dopo una pioggia recente, stavano sul linoleum ingiallito appena dietro la porta.
La signora Richards buttò l’asciugamano bagnato in cima alla pila di giornali. «C’è un sacco di
merda in questa casa», sbottò. «Eppure, senza Beth, sembra così vuota.»
L’uso della parolaccia mi fece tenerezza e mi sconvolse allo stesso tempo, però non seppi che
cosa dire, o se dovevo dire qualcosa. All’improvviso sentii il bisogno di mentire e di fornire una
ragione concreta per la mia visita estemporanea. Ma mentre stavo per parlare, la signora Richards
emise un sospiro, prese le mie mani tra le sue, e vi diede parecchi buffetti, come per assolvermi da
una vita di peccati.
«Ci prendiamo qualcosa di caldo da bere?» mi chiese.
Stavo per dire: “Non voglio disturbarla”, ma ricordai che voleva essere disturbata e così mi
limitai a seguirla in cucina.
La signora Richards mi fece spazio a tavola e io sbirciai tra la pletora di appunti appiccicaticci,
mappe, documenti e fotografie che non soltanto avevano invaso il piano ma si erano arrampicati
come un viticcio al muro adiacente. Sembrava che la signora Richards stesse conducendo delle
indagini private sulla scomparsa di Beth e che il tavolo fosse il suo quartier generale.
«Ho continuato a riepilogare tutto, ogni dettaglio, pensando che avrei visto qualcosa di diverso
rispetto alla volta precedente», mi spiegò, raccogliendosi i ricci umidi in una coda di cavallo prima
di andare ai fornelli per mettere su il bollitore.
Una stanza tutta per sé – gli appunti di Beth sui margini – poteva essere il «qualcosa di diverso»
che lei stava cercando, pensai, ma decisi che avrei tirato fuori il libro dalla borsa dopo, al momento
opportuno. Ci saremmo dovute arrivare a piccoli passi, prima dei miei c’erano i suoi bisogni da
soddisfare.
Diedi un’altra occhiata alla sua raccolta di appunti su Post-it e di cartine e immaginai che mia
madre avrebbe fatto la stessa cosa se a scomparire fossi stata io: nemmeno lei si sarebbe data pace –
fisicamente o mentalmente – finché non mi avesse trovata. La mia curiosità crebbe.
«Non so molto di quello che è successo», dissi. «L’ispettore è stato piuttosto abbottonato sul caso
di Beth.»
La signora Richards prese dal ripiano una scatola di metallo con le bustine di tè e la mise sul
tavolo. «Io sono la madre di Beth e non riesco a ottenere informazioni da lui.»
«Non era nemmeno sui giornali», aggiunsi.
«Infatti.» Si accasciò sulla sedia davanti a me come se finalmente le avessi dato io il permesso.
«Non capisco perché il viso di Beth non sia su tutti i canali televisivi. Voglio dire, come fa la gente a
trovarla se non sanno che è scomparsa? Come la rintracciano se non sanno che faccia ha?»
Mi ricordai di avere fatto all’ispettore Pickens una domanda simile e la sua risposta era stata
sfuggente. Come la signora Richards, non riuscivo a comprendere perché la vicenda di Beth non
fosse nei telegiornali nazionali.
La madre di Beth protese la mano dietro di me e prese una busta marrone, ne estrasse una
fotografia e me la porse. «È la foto che avevo scelto per la stampa», disse.
Era una fotografia di Beth all’ultimo anno a Tarble. «Era bella», dissi.
«Era...» Le labbra della signora Richards tremavano mentre fissava la fotografia della figlia che
avevo in mano. «Non riesco ad abituarmi a usare questa parola.»
«È», mi corressi istintivamente, maledicendo i necrologi che mi avevano condizionato a usare il
passato. «È bella.»
Mi perdonò con un sorriso, non proprio smagliante, ma forse era il massimo che poteva fare.
«Vuole che riepiloghiamo quello che sa?» mi offrii, cercando di rimediare al danno della mia
precedente scelta di parole. «Tra l’altro io lavoro per un giornale di Chicago.»
«Sei una giornalista?»
Annuii, poi mi strinsi nelle spalle, poi annuii di nuovo. Date le circostanze, sarebbe stato
inappropriato, pensai, dirle come mi guadagnavo davvero da vivere.
«Sono tutta occhi e orecchie», aggiunsi.
La signora Richards emise un lungo sospiro, come se l’avesse trattenuto sott’acqua per settimane.
«È stato venerdì, venerdì scorso», disse infine. «Ho lasciato Beth a Mitchell, l’aeroporto di
Milwaukee, alle tre. Andava a Pittsburgh per un laboratorio di fotografia che si teneva nel fine
settimana. Sapevi che Beth era una fotografa dilettante?»
Scrollai la testa. «Pensavo che si fosse laureata in scienze.»
«Sì, è così. Biologia. Ora studia medicina, qui a Milwaukee, però quando aveva cinque anni suo
padre le aveva comprato una trentacinque millimetri e credo che da allora la fotografia sia il suo
sfogo artistico.»
La mamma di Beth proseguì dicendomi che il laboratorio di Pittsburgh a cui stava andando Beth
era di fotografia per matrimoni. Beth pensava di fotografare le cerimonie nei fine settimana e in estate
per pagarsi gli studi.
«Non capisco perché, con i tutti i corsi che ci sono, sia dovuta andare proprio a Pittsburgh»,
osservò sua madre. «Però sapevo che non bisognava contraddirla quando si ficcava in testa qualcosa,
anche se sono stata io a convincerla a prendere l’aereo. Voleva andare in macchina e io le ho detto
che non era sicuro. Una donna sola che si fa dieci ore di autostrada.» Appoggiò il mento sulla mano.
«È colpa mia.»
Riconobbi il senso di colpa che le faceva contrarre i muscoli del volto.
«Ma lei come faceva a saperlo? Mia mamma avrebbe detto la stessa cosa», obiettai.
Lei annuì, ma senza convinzione. «Ho fatto promettere a Beth di telefonarmi non appena fosse
arrivata», continuò. «Aveva l’aereo alle cinque e il volo dura un’ora e venti, più o meno, così mi
aspettavo una telefonata alle sette al massimo. Ma le ore sono passate e lei non ha mai chiamato.
Così ho cominciato a chiamarla io, una decina di volte, e continuava a scattare la segreteria
telefonica. Pensavo che il suo aereo avesse fatto ritardo e non potesse rispondere perché era ancora
in volo. Però poi ho controllato al computer – Beth mi aveva insegnato come fare – e allora ho
scoperto che il suo aereo era atterrato puntuale, molte ore prima. Perciò ho chiamato l’albergo – era
quasi mezzanotte a Pittsburgh – e mi hanno detto che non aveva ancora fatto il check-in.»
Fece una pausa solo per tirare il respiro. Non la interruppi.
«Sapevo che qualcosa non andava. Lo sapevo. Non era da Beth, ma mi sono imposta di essere
razionale. Sai, non volevo reagire in maniera eccessiva. Ho cominciato a pensare che avesse perso il
volo e ne avesse preso un altro che partiva dopo, che forse non aveva caricato il telefono e che per
questo non rispondeva. Però ho visto il sole sorgere e non l’avevo ancora sentita. Non sapevo chi
chiamare, così ho fatto il numero delle emergenze e mi hanno messo in contatto con l’ispettore
Pickens.»
Ripensai alla mia conversazione con l’ispettore il giorno precedente. «E lui ha scoperto se alla
fine Beth era su quell’aereo?»
«Il suo biglietto è stato utilizzato e l’assistente di volo si ricordava di lei.» Negli occhi della
signora Richards spuntarono le lacrime, perciò prese un fazzoletto di carta sgualcito dalla tasca dei
jeans. Quando il fazzoletto si ruppe, usò il dorso della mano. Allora incrociò le braccia, come per
difendersi dal freddo, e i frammenti di quello che non sembrava più un fazzoletto le pendevano da
una mano. «Quindi Beth è da qualche parte a Pittsburgh, ma dove? Che cosa è successo a mia figlia?»
Come se le avessimo dato un segnale, la fiamma del fornello bruciò il fondo bagnato del bollitore,
che emise un sibilo allarmante. La signora Richards corse al fornello e il silenzio riempì la stanza
mentre lei si affaccendava attorno al bollitore e io guardavo le bustine assortite di tè nella scatola sul
tavolo. Scelsi una tisana, mela e cannella, e posai la bustina davanti a me non appena lei riprese a
parlare.
«E la polizia… Non capisco. Avranno controllato gli ospedali? Beth non si sentiva bene prima di
partire. Era stanca e aveva sempre sonno. Non aveva molto appetito. Forse è svenuta nel bagno
dell’aeroporto, ha battuto la testa e ora soffre di amnesia. E magari è in qualche letto d’ospedale a
Pittsburgh che guarda fuori dalla finestra e non sa chi è.»
Mentre la signora Richards versava l’acqua bollente nelle due tazze sul ripiano, io osservai
un’altra volta il materiale sul tavolo e sul muro. C’era uno schema cronologico che comprendeva gli
orari esatti di ogni ricerca su Internet compiuta dalla signora Richards in quei quattro giorni, e di
ogni telefonata. Trovai il mio nome sotto Domenica, ore 18.15. L’aveva scritto in modo sbagliato,
Ruby Russo, con l’aggiunta di un dettaglio, «Amica di Tarble, ha la valigia di Beth», scritto con la
biro nera e un altro appunto scritto con la biro rossa, forse un ripensamento: «Sembra sincera. Non
sospetta».
Distolsi lo sguardo dal muro quando la signora Richards tornò al tavolo con le nostre tazze.
Ognuna sfoggiava il suo cucchiaino d’argento.
«E tu che cosa ne pensi?» chiese, scegliendo la stessa tisana che avevo scelto io. «Come ha fatto
mia figlia a scomparire nel nulla?»
Guadagnai del tempo affondando parecchie volte la bustina di tè nella tazza: era rovente e mi
scottai le dita. «Signora Richards…»
«Dammi del tu e chiamami Janice», disse.
«Okay, Janice. Non penso che spetti a me formulare delle ipotesi.»
«Sii sincera.»
Mi strinsi nelle spalle e mi chiesi se l’ispettore Pickens aveva informato la madre di Beth riguardo
alle statistiche sulle persone scomparse e se sapeva che le probabilità erano contro di lei.
«Una madre dovrebbe saperlo, non è così?» continuò Janice. «Se sua figlia è morta? Io lo saprei.
E io non credo… La sento, Ruby. Qui dentro.» E si posò il palmo della mano sul petto.
Ricordai come mi ero sentita la sera precedente, leggendo da cima a fondo il libro di Beth in cerca
di altri indizi su Mark. Avevo avvertito la presenza di Beth, avevo udito persino la sua voce, come se
mi stesse parlando non dall’oltretomba, ma forse da appena prima della tomba.
«Allora fidati del tuo istinto», dissi a Janice.
La madre di Beth strinse la tazza come un orsacchiotto e fissò il suo tè. Sembrava così sola.
«Hai altri figli?» chiesi.
Scrollò la testa. «Siamo solo Beth e io. Ken – mio marito, il padre di Beth – è morto tanto tempo
fa. Beth aveva sette anni. Ne è rimasta devastata. Sai come sono le bambine con il loro papà.»
Eccome se lo sapevo, ma avrei detto che sapevo meglio com’erano le bambine senza il loro papà.
Allora raccontai a Janice della morte improvvisa di mio padre e le dissi che anch’io ero figlia unica.
«Non ho mai saputo che avessimo tante cose in comune», dissi, ricordandomi all’improvviso
perché ero andata a trovare Janice. Beth e io avevamo qualcos’altro in comune, a parte le dinamiche
familiari? Me lo chiedevo. Eravamo state innamorate dello stesso uomo?
«Beth è rimasta in contatto con molte ragazze di Tarble durante l’estate?» chiesi, giocherellando
con la bustina nella tazza. Avevo la sensazione che Janice avesse raggiunto una soglia emotiva a
proposito della scomparsa della figlia e fosse lì lì per cambiare argomento, un argomento su cui io
invece volevo disperatamente soffermarmi.
«Certo. Era andata a trovare delle amiche che seguivano dei corsi estivi.»
Lasciai cadere la bustina. «Ti ricordi i nomi di qualche ragazza?»
«Una di loro lavora per il college. Heidi. Era in classe con voi.»
Heidi Callahan. Avevo pensato che la mia ex migliore amica – l’unica Heidi del nostro corso –
fosse tornata a casa a Minneapolis. E invece, a quanto sembrava, era rimasta tutta l’estate a Tarble, a
lavorare per il college dopo la laurea. Però Heidi e Beth non erano mai state amiche: si conoscevano
appena, proprio come Beth e me. Possibile che fossero diventate amiche dopo che io avevo mollato
l’università?
«Con che frequenza ci andava Beth?» chiesi.
«Quasi ogni fine settimana.»
«Andava e tornava in giornata?»
«A volte restava la notte, anche se abitiamo vicino. La divertiva, credo, stare al pensionato. Come
se non si fosse ancora laureata.» Janice posò la tazza sul tavolo con un tonfo, come se fosse giunta a
una conclusione. «Ruby, ho capito dove vuoi arrivare e credo che tu abbia ragione.»
La guardai con aria confusa. Era impossibile che conoscesse le mie intenzioni nascoste.
«Davvero?»
«Dobbiamo informare le ragazze di Tarble.»
«Oh, giusto. Dobbiamo farlo.»
«L’ispettore ha parlato con alcuni studenti e professori alla facoltà di medicina, ma non credo che
abbia parlato con nessuno di Tarble, a parte te. E ci potrebbe essere qualcuno che sa qualcosa.»
Poteva essere Mark? Me lo domandavo. Era lui il qualcuno che sapeva qualcosa? Davvero Beth
era andata a trovare Heidi Callahan tutta l’estate? O era solo la scusa che Beth aveva accampato con
sua madre per trascorrere i fine settimana con Mark?
«Quando è andata a Tarble l’ultima volta?» chiesi.
«Credo che fosse all’inizio di settembre. Da allora è rimasta a casa tutti i weekend.»
«Perché ha smesso di andarci?»
«Ha cominciato la facoltà di medicina. Troppo impegnata, immagino. Poi, come ti ho detto, non
stava benissimo.» Janice posò di nuovo la sua tazza. «Sai, avevo intenzione di chiamare Sarah per
dirglielo, ma non ho il suo numero di telefono.»
«Ti riferisci alla compagna di stanza di Beth? Sarah Iverson?»
Janice annuì.
«Non sa che Beth è scomparsa?»
«Volevo chiamarla per sapere se aveva avuto notizie da Beth, ma l’ispettore mi ha intimato di
aspettare. Come ti ho già detto, aspettare che cosa?»
Non capivo perché l’ispettore Pickens volesse tenere sotto silenzio la scomparsa di Beth, perché
non fosse interessato ai vecchi amici di Beth o ai suoi contatti a Tarble. Forse aveva un motivo
nascosto. Così come io avevo i miei. Ormai il libro di Beth mi scottava nella borsa e dovevo trovare
una maniera disinvolta per introdurre l’argomento a Janice.
Ricordai la cartolina infilata fra le pagine.
«Sapevi che questo fine settimana c’è il Raduno di Tarble?» chiesi, togliendo finalmente la bustina
dal tè, che era diventato amaro per via della lunga infusione. «Beth te ne aveva parlato?»
Proprio allora squillò il telefono e Janice si precipitò fuori dalla stanza per rispondere. «Non
lascio che nessuna chiamata vada sulla segreteria telefonica», mi spiegò.
Finii l’ultimo sorso di tè prima di prendere un mucchio di fotografie dal tavolo. Vidi Beth all’età
di sei anni, con addosso un tutù rosa. Beth a dodici anni, con un giaccone da sci e gli occhiali. Beth a
sedici anni, con un abito da sera color acquamarina, in posa davanti a un caminetto accanto a un
ragazzo in smoking e con la fascia e il papillon in tinta. Janice doveva avere radunato quelle foto nei
giorni precedenti, nel tentativo di raccogliere i ricordi della figlia, oltre alle prove concrete che era
esistita e continuava a esistere. Cominciai a pensare che se Beth era morta, se non fosse più tornata a
casa, quelle fotografie sarebbero state tutto quello che le restava. E fu allora che decisi di non
mostrare a Janice Una stanza tutta per sé. Non ebbi il coraggio di avanzare l’ipotesi che Beth
avesse una relazione con un uomo sposato. Non sarebbe stato giusto. Dopotutto, neanche mia madre
sapeva di Mark.
Sbirciai fuori dalla cucina e vidi che Janice aveva portato il telefono in una veranda sul retro della
casa, forse per maggiore riservatezza. Pensai che fosse l’unica occasione che avevo per rimettere il
libro di Beth al suo posto e ne approfittai.
Trovai la porta della camera di Beth parzialmente socchiusa in fondo al corridoio e la aprii con
una spinta piuttosto forte, perché si era incastrata sulla spessa moquette. Quando fui dentro, ebbi
l’impulso di curiosare nella vita di quella ragazza che non avevo conosciuto davvero. Temevo però
che in qualche modo Janice scoprisse che mi ero intrufolata lì, quindi mi limitai a esaminare la stanza
con lo sguardo. Oltre al letto rifatto a puntino, il cassettone appena spolverato e una scrivania senza
carabattole, la camera era una specie di galleria della fotografa in erba. Le fotografie – ritratti,
paesaggi od opere astratte – coprivano ogni centimetro disponibile della parete. Alcune erano
esposte in vere cornici, dietro un vetro, mentre altre erano disinvoltamente appese a mollette di
metallo come dei vestiti.
Lungo il muro, all’altro capo della stanza, una serie di fotografie catturò la mia attenzione:
ciascuna di esse era uno scatto del campus del Tarble College, realizzato da un’angolazione artistica.
Il soggetto scelto da Beth mi spaventò. Lungi dall’essere commerciali o adatte a una brochure, le
fotografie coglievano gli eventi quotidiani della vita al campus attraverso l’occhio perspicace di una
studentessa. Una scalinata illuminata dal sole fuori da Langley Hall, l’edificio principale. Il sole che
sorgeva sul lago Michigan. Un albero che perdeva le foglie davanti al centro studentesco. Il
ponticello rosso sul ruscello ai margini del campus.
Il ponticello rosso. Era il posto preferito da Mark per i nostri incontri: nel campus, e quindi
comodo, ma riservato. Ci andavo a piedi e lo aspettavo, a volte dando da mangiare del pane alle
anatre che sguazzavano lì sotto, altre volte limitandomi ad ammirare il panorama della Frieburg
Chapel, punteggiato di alberi. Per una strana coincidenza la fotografia di Beth, scattata nel tardo
autunno, coglieva la stessa vista dell’ultima volta che mi ero trovata su quel ponte ad aspettare Mark.
Rami spogli, un torbido cielo grigio.
Staccai la foto dal filo metallico per guardarla più da vicino, ignorando la mia precedente
decisione di non toccare nulla. Immediatamente sentii un sibilo riecheggiare dalla parete, seguito da
un colpo secco sul battiscopa. Era un’altra fotografia che Beth aveva nascosto dietro quella del
ponte. Quando allungai la mano per raccoglierla vidi due facce che mi fissavano. Beth e Mark
insieme, sorridenti. Il braccio di lui attorno a lei. La testa di lei poggiata delicatamente sulla spalla di
lui. Era un primo piano e lo sfondo era confuso. Però supposi che la foto fosse stata scattata a
qualche spettacolo o concerto. In lontananza scorsi degli uomini in completi scuri e una donna con un
cappello a tesa larga, piuttosto antiquato, e una sciarpa drappeggiata, forse un’artista che interagiva
con il pubblico dopo lo spettacolo.
«Sai qual è il guaio delle fotografie?» mi aveva detto Mark una volta, quando avevo tentato di
ritrarre lui e me insieme, allungando il più possibile il braccio per scattare una bella foto. «Sono
come i diari: prove incriminanti.»
Mentre le mie gote si arrossavano per la gelosia, udii dei passi nel corridoio e istintivamente
infilai la fotografia nella borsetta, tra le pagine di Una stanza tutta per sé, per impedire che si
sgualcisse. Era ufficialmente il secondo effetto personale che rubavo a Beth Richards.
Mi girai giusto in tempo per vedere Janice sulla soglia e mi preparai a spiegarle perché ero entrata
nella camera da letto di Beth senza di lei. Tuttavia Janice non sembrava arrabbiata. Le sue guance
avevano assunto un colore grigio e gli occhi erano vitrei.
A palmi aperti mi porse il telefono, come se fosse ricoperto di sangue.
«L’ispettore mi ha detto che Beth corrisponde a un profilo», fu tutto quello che disse.
«Un profilo?» chiesi. «Di che cosa?»
Janice lasciò cadere il telefono. «Delle vittime di un serial killer.»
In attesa di parlare con l’ispettore Pickens, ero seduta in un corridoio del distretto di polizia di
Milwaukee e cercavo di cancellare dalla mia mente le immagini – le mani di Beth legate con una
corda, la bocca imbavagliata, il corpo bianco e pallido che galleggiava a faccia in giù in un fiume, un
uomo dalle unghie sporche che le si avvicinava da dietro – che si ripetevano come scene da Law &
Order. Poi vennero le parole: Beth Richards, 22 anni, di Milwaukee, morta l’8 ottobre...
Fortunatamente l’ispettore Pickens entrò destreggiandosi con la pesante porta di acciaio e
interruppe la prima stesura del necrologio di Beth.
«Signorina Rousseau?»
Scattai in piedi. «Mi ha spaventata.»
«Anche lei è riuscita a sorprendermi. Cosa posso fare per lei? O si è fatta due ore di auto solo per
venire a salutarmi?»
«Ero a casa di Janice quando le ha telefonato», spiegai.
La verità era che non avevo fatto in tempo a rimettere a posto il libro di Beth in camera sua. E di
certo non volevo rifilarlo a Janice dopo che mi aveva detto del serial killer. Una volta arrivata
Susan, la sorella di Janice, a sollevarmi dal mio incarico di «farle compagnia», la mia unica opzione
era consegnare il libro a qualcuno di più obiettivo.
Purtroppo l’ispettore Pickens era la persona in questione.
Inclinò la testa verso la porta. «Nel mio ufficio», disse.
Lo seguii in un corridoio bianco che sembrava più luminoso del sole di mezzogiorno.
Camminammo in silenzio, lungo quel corridoio e poi un altro ancora, passando davanti a porte
d’acciaio nero complete di finestre quadrate dai vetri pesanti. In una sala, un uomo era seduto con la
testa fra le mani. Mi chiesi se fosse un testimone o un sospettato.
Nel suo ufficio l’ispettore Pickens mi offrì una sedia con un lurido rivestimento in similpelle
arancione. Mi sedetti, ma solo sulla metà anteriore del sedile perché non volevo mettermi troppo
comoda, se mai fosse stato possibile. Nel frattempo lui incastrò il suo corpaccione nella poltrona
dietro alla scrivania e spostò un mucchio di buste marrone da un punto all’altro del ripiano
incasinato. Lo osservai che si massaggiava i rotoli di grasso sulla nuca.
«Cos’ha saputo?» domandò.
«Beth corrisponde a un profilo?»
Un sospiro. «Il distretto di polizia di Pittsburgh sta sorvegliando un sospettato proprio in questo
momento. Beth è il suo tipo. Gli piacciono giovani, alte e carine, okay? Capelli biondi. Anche le altre
sono scomparse dall’aeroporto di Pittsburgh. Una l’anno scorso, un’altra circa sei mesi fa. In altre
parole, doveva colpire ancora. Abbiamo tracciato il suo profilo, tutto corrisponde, persino la finestra
temporale.»
Rievocai le immagini dello strangolatore di Boston, di David Berkowitz – il Figlio di Sam – e di
Ted Bundy. «Che cosa è successo alle altre ragazze?» chiesi. «Quelle scomparse dall’aeroporto di
Pittsburgh?»
«Sono state trovate morte. Stuprate, pugnalate, scaricate in uno specchio d’acqua.»
Stuprate. Pugnalate. Scaricate. M’immaginai il braccio bianco di Beth, un braccialetto d’oro che le
penzolava dal polso delicato, in un folto di sterpaglie fangose.
«In mancanza di un corpo o di un arresto, in questo momento evitiamo di diffondere la notizia.» Mi
sventolò l’indice grasso in faccia. «Quindi niente chiacchiere con i suoi colleghi al “Chronicle”,
okay?»
Feci cenno di sì. Allora compresi perché la scomparsa di Beth non era stata spiattellata in tutti i
notiziari nazionali come le vicende di altre ragazze scomparse. Con una mossa tattica, la polizia
negava informazioni al sospettato.
L’ispettore si leccò le labbra. «Per lei, signorina Rousseau, è un bel pezzo di strada, da Oak Park.
Che cosa l’ha portata a Milwaukee stasera?»
«Come dicevo, sono andata a trovare Janice.»
I suoi occhi m’incenerirono. Distolsi lo sguardo.
«E quindi?» indagò lui.
«Probabilmente non è nulla.»
«Uhm... e allora perché è qui?»
Strinsi la borsetta. «Forse è irrilevante, considerando questo nuovo sviluppo, ma c’è qualcosa che
vorrei lei sapesse.» Deglutii forte, cercando le parole adatte. «Beth ha... o almeno penso ci sia la
possibilità che abbia avuto... una storia con uno dei professori di Tarble.» Con le mani disegnai un
cerchio davanti a me, il modo migliore che avevo di mimare quello che intendevo con «storia».
L’ispettore Pickens non parve impressionato.
«È sposato», aggiunsi.
Il suo volto rimase di pietra. «Come fa a saperlo?»
«Non lo so… Non con certezza, però… è per via del libro.» Mi sentii piccola, fisicamente e
mentalmente, in presenza dell’ispettore, e all’improvviso le mie dita persero ogni destrezza. Per
prendere il libro dovetti togliere quasi tutto dalla borsetta: il cellulare, il portafoglio, un assorbente,
uno scontrino di Starbucks, una bustina di mandorle, un tubetto di vitamine. L’ispettore sbirciò
l’interno della borsetta mentre gli porgevo Una stanza tutta per sé, aperto alla pagina in questione.
«Beth ha preso degli appunti a margine e da quello che ha scritto penso…» Smisi di parlare perché
mi sentivo ridicola. Come facevo a convincere l’ispettore di questo fatto se non gli mostravo la
fotografia che avevo rubato dalla stanza di Beth, una fotografia che avevo messo al riparo nella tasca
interna della mia borsetta insieme con la cartolina del Raduno? Come facevo a dirglielo senza
rivelare il mio sordido passato?
L’ispettore Pickens si limitò a dare un’occhiata alla pagina. Poi mi puntò gli occhi addosso. «L’ha
preso dalla casa Richards oggi?» La sua voce era dura e accusatoria.
«A dire il vero era nella valigia di Beth.»
«Intende la valigia che ho recuperato da lei ieri? Quella che ho messo sotto chiave perché è una
prova?»
«L’ho tenuto per errore. Avevo tirato fuori il libro quando ho guardato che cosa c’era dentro. Sa, è
così che ho trovato il numero di telefono di Beth. È scritto sull’interno della copertina.»
Mentre guardavo l’ispettore che esaminava la bandella, aggiunsi: «E avrei giurato di averlo
rimesso in valigia, ma evidentemente non l’ho fatto e…».
«E ha deciso di dilettarsi a leggere un po’.»
«Avevo assolutamente intenzione di restituirlo.»
L’ispettore sospirò, mostrandoi denti inferiori storti e gialli. Capovolse il libro tenendolo con le
sue dita a forma di salsiccia e agitò le pagine avanti e indietro, in attesa che qualcosa cadesse giù.
Ma non cadde niente. Poi lo sfogliò di nuovo fino alla pagina originaria. Abbassò lo sguardo lungo il
dorso del naso e, a occhi sgranati, lesse: «Come la baita di Cassie». Fece una pausa, si grattò i baffi.
«E questo che cosa vuol dire?»
«È un riferimento alla casa di questo professore. Prima apparteneva a sua madre.»
«Ah, certo, ecco che cosa vuole dire.» Piegò all’ingiù gli angoli delle labbra, rendendo
impossibile distinguere tra la fine del mento e l’inizio del collo. Il suo sarcasmo era pesante.
«Ovvio.»
«Lei si chiamava Cassandra», spiegai. «Però tutti la chiamavano Cassie.»
«E lui come si chiama?»
«Mark Suter.»
Sembrava che l’ispettore si stesse pulendo l’interno della guancia con la lingua. Scribacchiò
qualcosa su un pezzo di carta. «E perché questo vorrebbe dire che Beth aveva una relazione con
Mark Suter?»
«Che abbia raccontato a Beth della baita di sua madre è qualcosa che suppongo si possa
definire… intimo? Non l’avrebbe detto a qualunque studentessa. A meno che, sa…» Con le mani feci
di nuovo il gesto della storia.
«Ma lei lo sa. Quindi lei...» Imitò il mio gesto.
Mi spostai sulla sedia e la finta pelle arancione squittì sotto i miei jeans, con un rumore simile a un
peto. Vidi formarsi sulle labbra dell’ispettore un sorriso che durò mezzo secondo e poi scomparve.
«Ho solo pensato che fosse un indizio», dissi nel silenzio improvviso.
«Un indizio? Che carina. Come nei gialli per ragazzi. Però ogni indizio implica qualcosa,
signorina Rousseau. Insinua che questo Suter abbia rapito Beth? Che l’abbia uccisa?»
«Non l’ho mai detto.» Sentii una stretta al petto quando mi resi conto che non avevo pensato a
come si sarebbe svolta la conversazione. Che cosa implicavo? Chi stavo implicando? Si trattava di
trovare Beth o di soddisfare la mia curiosità?
Infilai una mano nella borsetta e presi la cartolina di Tarble. «Nel libro ho trovato anche questa.
Forse Beth lo vedeva ancora. Durante l’estate è andata spesso a Tarble, mi ha detto Janice.» Indicai
le date segnate sulla cartolina. «Forse aveva in programma di vederlo questo weekend.»
L’ispettore quasi non guardò la cartolina ma fissò invece la mia borsetta. «Quella borsetta ha un
fondo?» chiese. «Che cos’altro ha lì dentro?»
La fotografia. Se gliel’avessi fatta vedere, avrebbe avuto la dimostrazione che Beth e Mark erano
innamorati e quindi l’avrebbe confiscata – proprio come il libro e la cartolina – definendola una
prova. E probabilmente mi avrebbe arrestata per il mio furtarello.
«Niente», dissi.
«D’accordo. Senta, ha fatto bene a richiamare la mia attenzione su queste cose», disse in tono
brusco, ormai spazientito. «Però adesso il fatto che Beth possa avere avuto una relazione con un
professore sposato è, come ha detto lei prima in modo eloquente, irrilevante. Infatti io so che il
distretto di polizia di Pittsburgh sta per arrestare l’uomo responsabile dell’omicidio di Beth. Un
uomo che era all’aeroporto di Pittsburgh quando l’aereo di Beth è atterrato, come ha confermato la
sorveglianza aeroportuale.»
Non dissi nulla. Lui tossì.
«Inoltre voglio che lei sappia che qui io ho fatto il mio lavoro», continuò. «Ho passato in rassegna
le ricevute della carta di credito di Beth, le sue telefonate al cellulare, la sua casella e-mail alla
facoltà di medicina e quella personale. Abbiamo perquisito la sua auto e la sua camera da letto. E
non ho scoperto nulla che indicasse che Beth Richards avesse una relazione con un uomo sposato o,
se è per quello, con chiunque altro. Non c’erano schemi ricorrenti o telefonate frequenti.» Si inumidì
le labbra. «Okay?»
«Okay.»
Mentre mi alzavo per andarmene, vidi che l’ispettore buttava il libro e la cartolina all’estremità
della scrivania, dove c’era già un sacchetto vuoto di patatine, come se per le sue indagini non
significassero nulla. Come se non significassero nulla per Beth Richards.
Come se non significassero nulla per me.
DICEMBRE
Se c’è un’immagine di Mark che mi ossessiona, è questa: sta attraversando il campus, in mezzo
al caos dell’università, e sembra ignorare il mondo circostante. Passeggia, a dire il vero. E questo
richiede confidenza, fiducia e chiarezza.
Lo invidiavo per questo.
Il suo mondo era una sua creazione. Anche il mio lo era, finché non mi sono innamorata di lui.
Allora il mio mondo è diventato una pura e semplice raccolta dei luoghi in cui andavamo insieme:
il bar fuori dal campus, Royal Street, le rive del fiume Mississippi, il Café Du Monde. Se lui non
era con me, io non ero viva. Non ero capace di perdermi in territori stranieri al di là delle pagine
della nostra storia d’amore.
Mark mi amava? Penso di sì, o almeno all’inizio sì, quando eravamo felici, quando il futuro ci
apparteneva. E se allora mi amava, avrebbe potuto amarmi ancora.
Dicono che il tempo cura tutte le ferite, ma io la penso diversamente.
Sembra soltanto che renda le cicatrici più profonde.
6.
UN ANNO PRIMA
Prima della metà di sabato mattina la nebbia si era diradata un bel po’, ma l’immagine di Virginia
Woolf non era svanita dalla mia mente. Il suo naso a punta e la sua pelle pallida incombevano su di
me come una notte di sonno inquieto. Era lì, sempre presente mentre Mark e io bevevamo il caffè e
mangiavamo le uova, ed era lì ancora, mentre prendevamo il tram che scendeva per St Charles e
andava alla Tulane University. Non fui in grado di evitarla fino a che non ci trovammo ad
attraversare la corte quadrangolare vicino a Gibson Hall, diretti al convegno.
«Una volta giocavo a pallone qui», disse Mark indicando l’ampio spazio erboso accanto a noi.
M’immaginai un Mark diciannovenne che lanciava un vecchio pallone all’aria aperta con i suoi
compagni d’università, i capelli più chiari, baciati dal sole. A quell’epoca i miei genitori, che
avevano solo quattro anni più di Mark, abitavano in un appartamento sopra un negozio di Toulouse
Street. Questo significava che Mark e io avevamo vissuto vicini per alcuni anni. Ci eravamo sfiorati
un pomeriggio in Audubon Park? Me lo chiedevo. Io in un passeggino e lui, uno studente di vent’anni
o poco più, che faceva jogging? Volevo credere che fosse possibile, che i nostri sentieri si fossero
incrociati tutti quegli anni prima, a dimostrazione che eravamo destinati a stare insieme.
Avrei anche voluto prenderlo a braccetto, ma non lo feci. Qualcuno avrebbe potuto vederci.
«Ne senti la mancanza?» chiesi invece. «Del periodo universitario?»
«Non credo. Sono passati decenni. Trovarmi qui, però… sì, mi dà un po’ di nostalgia.»
Quando andavo al liceo avevo visitato qualche volta la Tulane, dietro suggerimento di mio padre
che insisteva perché frequentassi un college vicino a casa, e ricordavo che il campus era bello,
un’oasi piena d’alberi. Allora alzai lo sguardo verso i tronchi spessi e ricoperti di muschio che
davano origine a una nidiata di rami storti.
«Raccontami qualcosa di te», dissi, «di quando studiavi qui, qualcosa che mi sorprenderebbe.»
«Tipo che cosa?»
«Non lo so… Facevi feste pazze? O piantavi la tenda davanti alla casa del rettore? O forse hai
attraversato nudo questo cortile per scommessa?»
«Piantare una tenda o spogliarmi nudo? No, io no.»
«Non hai mai fatto niente di folle?» insistetti. «Di bizzarro?»
Mark studiò per un istante il corridoio tra gli edifici. «D’accordo. Vedi quella panchina? Davanti a
quella facciata di pietra con le finestre tonde sotto le grondaie?»
Annuii con decisione.
«Una volta sono rimasto seduto sei ore di fila su quella panchina.»
La mia mente andò subito a questioni accademiche. «Stavi conducendo un esperimento
sociologico?»
«No. Ero stupido e innamorato.»
All’improvviso avvertii un dolore nel solco tra i seni, come se mi si fossero sgonfiati i polmoni.
Mark aveva conosciuto sua moglie Meryl all’università? Lì dove stavamo camminando noi?
«Si chiamava Jenny», proseguì.
Il dolore scemò. Meryl era, di nuovo, a chilometri di distanza.
«Jenny?» ripetei.
«Era una studentessa del primo anno. Una brunetta. Studiava teatro. L’avevo vista un giorno
all’associazione studentesca.» Fece una risatina, come d’imbarazzo. «E ammiravo tanto questa
ragazza da lontano che l’aspettai tutto il giorno fuori dalla sua classe solo per attaccare bottone.
Purtroppo, proprio quel giorno era malata. Due giorni dopo, però, mi vide all’associazione e mi
rivolse la parola, dicendomi di aver sentito della mia impresa eroica e di esserne lusingata. Uscimmo
insieme per qualche mese, finché…» A quel punto un’ombra gli attraversò il viso. «Mi mollò per un
giocatore di football. Un certo Henry, o qualcosa del genere. Tutto muscoli e niente cervello. Così va
la vita.»
«Poveretto.»
«Forse è stata una benedizione sotto mentite spoglie. Era una ragazza… con dei problemi.
Immagino che oggi la si definirebbe così. Era emotivamente instabile. Attrice di grande talento –
aveva ottenuto il ruolo principale in The Mikado, se ricordo bene – ma, come un sacco di persone
creative, aveva i suoi demoni nell’anima.»
Dopo i miei attacchi di pianto la notte precedente, dopo quello che avevo rivelato a Mark al caffè
– a proposito dei miei sensi di colpa, degli incubi e delle pillole per dormire –, per non parlare
dell’avvistamento di Virginia Woolf quella mattina, ero preoccupata che ritenesse anche me
«emotivamente instabile». Pensava che fossi il tipo creativo con delle turbe psichiche?
«E poi ha sposato il giocatore di football?» chiesi.
«Ne dubito. Ho saputo che ha mollato l’università per… Non so, fare la volontaria con Peace
Corps o qualcosa del genere.» Con un gesto scacciò quel ricordo e poi all’improvviso si fermò sul
vialetto. «Il convegno è da questa parte. Credo sia meglio che ci separiamo qui, non si sa mai.»
«Va bene», dissi, cercando di non assumere un’aria triste.
«Per la cronaca, vorrei baciarti proprio ora. Più di qualsiasi altra cosa.»
Sorrisi e, invece, gli strinsi forte la mano. «Arrivederci, professor Suter.»
«Arrivederci, signorina Rousseau», disse, stringendomi la mano più a lungo del necessario.
Avevo fatto solo tre passi quando lui aggiunse: «Va tutto bene?».
«Sì, me la caverò da sola.»
«No, mi riferivo a… quello che è successo stamattina. Stai bene, giusto?»
«Oh, ero soltanto stanca», spiegai. «Come hai detto tu, non ho dormito molto.»
Lui annuì, le labbra tese dalla preoccupazione, e io mi girai prima che potesse aggiungere altro.
Non sono sicura che mi abbia guardato mentre me ne andavo, perché non mi voltai più, per timore di
verificare se la sua ansia si fosse spostata dalle labbra agli occhi e alle rughe sulla fronte.
Forse, in fondo, quell’ansia era giustificata, perché quando arrivai in biblioteca e tirai fuori il
materiale per la mia tesi dalla borsa a tracolla, i miei appunti – quindici pagine scritte a mano di
citazioni, commenti e informazioni – erano scomparsi. Spariti.
“Sto impazzendo”, pensai mentre frugavo tutte le tasche e tutti gli scomparti della borsa chiusi con
una cerniera, passando in rassegna ogni articolo e sfogliando le pagine di ogni libro.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Più tardi quello stesso giorno, mentre tornavamo al Quartiere Francese in tram, chiesi a Mark se
avesse visto i miei appunti per la tesi nella camera d’albergo prima che uscissimo. Lui non se lo
ricordava.
«Sono sicuro che salteranno fuori», disse. «A proposito della tua tesi, spero che non ti spiaccia se
oggi ho condiviso alcune delle tue idee al convegno.»
Arrossii, lusingata. «Davvero? E quali?»
«Le tue riflessioni sul termine “stanza”. Quello che hai detto ieri sera al caffè era brillante e ho
dovuto ripeterlo. Naturalmente ti ho dato il giusto credito. Senza citare il tuo nome, però ti ho definita
la mia allieva modello.»
Gli diedi un pugno sul braccio. «Non è vero.»
«Okay, non è vero. Ti ho definito “una mia collega”.»
«Collega.» Sorrisi. «Mi piace come suona.»
«Be’, hai un vero talento: una mente complessa e intricata.»
“Crede che io sia brillante”, pensai. “Non emotivamente instabile, ma complessa. Intricata.”
Quando mi girai vidi che Mark aveva gli occhi chiusi, cullato dal rumore sordo e dal movimento
ritmico del tram, la testa appoggiata allo schienale del sedile. Era stata una giornata lunga. Allora
colsi l’occasione per controllare un’ultima volta il contenuto della mia borsa, convinta che il passare
delle ore avrebbe prodotto un risultato diverso. Ma non trovai gli appunti e trascorsi il tempo
rileggendo La tappezzeria gialla di Charlotte Perkins Gilman.
Nel racconto, una donna che soffre di depressione post partum è costretta dal marito medico a
sottoporsi, per tutta un’estate, a una «terapia del riposo» in una stanza con una tappezzeria gialla
«repellente, quasi disgustosa». Dopo che le viene diagnosticata «una lieve tendenza isterica» e le
viene negata l’opportunità di scrivere, la protagonista è ossessionata dal disegno della tappezzeria e
da quello che vede al di là di essa: una donna che striscia. Comincia a credere che la donna
strisciante sia imprigionata nelle folli volute e nelle spire della tappezzeria ed è turbata al punto da
strapparla dal muro, staccandola un pezzo dopo l’altro.
Ero appena arrivata alla descrizione di quella scellerata tappezzeria quando Mark si mosse.
«Mi spiace», si scusò, scrollandosi di dosso il sonno. «Non so che cosa mi sia successo.»
«Non c’è problema», dissi, rimettendo il libro nella borsa. Quindi, senza chiedere il permesso, le
parole mi salirono in gola: «Voglio andare al cimitero».
Lui sgranò gli occhi. «Hai detto quello che penso tu abbia detto?»
Annuii. «Voglio andare alla tomba di mio padre.»
Lui ruotò il collo da una parte all’altra e sospirò. «D’accordo, è l’ora della confessione: i cimiteri
mi terrorizzano. Soprattutto quelli di qui, con le cappelle invece delle fosse. I morti non dovrebbero
stare sopra la terra.»
«Non vai mai a trovare tua mamma?» chiesi.
«Solo con la mente.»
Guardai fuori dal finestrino del tram e vidi che il sole si stava già tuffando sotto l’orizzonte. Presto
avrebbe fatto buio. «Non puoi fare un’eccezione?» Lo baciai sul collo. «Per me?»
Emise un brontolio basso, come se avessi individuato una specie di punto G sul suo collo. «Certo.
In tutta coscienza non posso lasciare che ti aggiri da sola in un cimitero di sera. Dov’è?»
«È a Lafayette», dissi, e già stavo tirando la cordicella sopra la mia testa per segnalare al
manovratore la nostra fermata. «Possiamo scendere a Washington Avenue.»
Mentre percorrevamo a piedi l’isolato che ci separava dal cimitero, dissi a Mark che volevo mi
aspettasse al cancello principale. «È una cosa che devo fare da sola», spiegai.
Diversamente da Mark, io non avevo mai avuto paura dei cimiteri, grazie a mio padre. Quando la
mamma aveva iniziato a fare il secondo turno al lavoro, io ero una bambina e lui mi portava al
cimitero di Lafayette per vedere la tomba della sua famiglia. Facevamo il picnic – pollo fritto e
biscotti con burro e miele – sui due gradini che conducevano al portone della cappella. Imparai ad
apprezzare l’architettura decorata e i fronzoli delle tombe mentre camminavamo tra le file di
sepolcri. Paragonavo il cimitero a un piccolo villaggio, completo di case della dimensione giusta per
una bambina di sei anni.
«Voglio vivere qui un giorno», avevo detto a mio padre in un’occasione.
«Un giorno, forse», mi aveva risposto. «Ma deve passare ancora molto, molto tempo.» Mi aveva
liberato la fronte dai ricci, premendo un ciuffo ribelle della frangetta. «Molto tempo», ripeté.
«Perché molto tempo? Voglio vivere qui adesso. Potrei vivere nella casetta con il nonno e la
nonna.»
«Ma loro non vivono qui.»
«Però noi veniamo a trovarli qui.»
«Qui ci sono i loro corpi, ma i loro spiriti non ci sono. La nonna e il nonno vengono solo quando ci
siamo noi.»
«Ma se io vivessi qui, loro sarebbero sempre qui.»
«Non puoi vivere qui, Ruby. Serve un biglietto speciale, sai, come quelli che si prendono al
cinema. Ne serve uno per entrare e tu non ce l’hai.»
«E come si fa ad averlo?»
Allora aveva fatto una pausa, come per riflettere sulle parole da usare. «Te ne danno uno quando
muori.»
«Allora vorrei morire.»
«Non è una cosa da dire», mi aveva rimproverato.
«Mi spiace. Ho detto qualcosa di brutto?»
«No, tesoro.» E di nuovo mi aveva premuto la frangetta sulla fronte. «Morire non è brutto, solo che
hai ancora una vita lunga e bella da vivere.»
«Poi però potrò morire? Dopo la mia vita bella?»
«Sì», disse. «Dopo potrai.»
«Tu morirai con me?»
«Suppongo di sì. Tu, io e la mamma, potremo morire tutti insieme. Come una famiglia.»
«E Fat Tuesday?»
Mio padre aveva pensato anche al nostro gatto obeso. «Certo, può venire anche lui.»
Ci avevo riflettuto sopra e avevo acconsentito. «E poi possiamo vivere tutti insieme con la nonna e
il nonno nella casetta bianca?»
Con l’indice mi aveva premuto il nasino a patata. «Tutti insieme.»
Ogni cosa mi tornò in mente mentre attraversavo il tratto erboso che conduceva alla sezione
posteriore del cimitero. Conoscevo la strada per la tomba di famiglia, anche al buio, quasi il mio
cervello fosse stato programmato come un GPS per trovarla.
Era più piccola di quanto mi ricordavo da bambina. La cappella, che un tempo sembrava
abbastanza grande da ospitare tante persone, aveva le dimensioni di una dispensa o di un bagno.
Girai tutt’attorno al suo perimetro per accertarmene. Da un lato era sprofondata di una quindicina di
centimetri e le intemperie avevano rovinato l’intonaco bianco esterno. Quando ero piccola mi
sembrava conservata molto meglio.
«Ciao, papà», dissi sedendomi su un gradino. «Avrei dovuto portarti un po’ di pollo.»
Poi mi colse una fitta improvvisa agli occhi e dalle palpebre chiuse cominciarono a scorrere le
lacrime.
«Oh, papà», singhiozzai. «Mi dispiace tanto!»
Mi rendevo conto che non chiedevo scusa solo per il succedersi degli eventi che avevano
provocato la morte di mio padre, e per il mio senso di colpa. Sapevo che stavo chiedendo scusa
anche per qualcos’altro. Qualcosa che speravo di non dover proferire ad alta voce, qualcosa che
speravo avrebbe capito da dove si trovava. Qualcosa che avevo cercato di razionalizzare da quando
avevo baciato Mark per la prima volta nella sua jeep. Qualcosa che avevo capito la sera prima, dopo
la donna al caffè e la macchia sul vestito.
Ero una ragazza cattiva.
Proprio in quel momento cominciò a levarsi il vento, che soffiò un alito gelido sulla tomba. Udii
un tonfo e, attraverso gli occhi velati, alzai lo sguardo chiedendomi se Mark avesse deciso di
seguirmi lo stesso. Fu allora che vidi le scarpe – stivali femminili a punta alti, con i lacci – che
spuntavano da dietro un mausoleo adiacente. Mi alzai di scatto dal gradino e scorsi una donna con
indosso una lunga gonna nera e una giacca nera abbinata, che terminava con un bavero a V increspato
e metteva in mostra un colletto alto di pizzo. Sbattei le palpebre, mi strofinai gli occhi, ripetei
persino «no» con la mente, sperando che scomparisse dalla mia vista. Lei, invece, non scomparve.
Nel buio notturno strizzai gli occhi per distinguerne i capelli neri, divisi al centro, intrecciati ai lati
del capo e infine raccolti a crocchia sulla nuca.
Sapevo chi era – e non era Virginia Woolf.
Chiusi gli occhi strizzandoli, stringendo i pugni ai fianchi, e contai per cinque lunghi secondi.
Quando li aprii di nuovo, lei non era più lì, però colsi un lampo di qualcosa – nero, svolazzante, un
lembo della gonna forse? – da dietro la tomba adiacente. Avevo fatto sparire la donna o se ne era
semplicemente andata?
Corsi vero il punto in cui l’avevo vista, dietro quella e altre tombe, zigzagandovi in mezzo con
un’energia tale che inciampai e andai a sbattere contro il cemento bianco, graffiandomi una mano.
Anche se mi bruciava il palmo, dove mi si era spellato durante la caduta, continuai a correre finché
non giunsi all’uscita. Quando sentii una mano sulla spalla, ebbi un sussulto e lanciai un urlo nel buio.
Ma era soltanto Mark.
«Sono io, sono io», gridò. «Santo cielo, Ruby, che cosa è successo?»
Riprendendo fiato, cercai la donna a destra e a sinistra, come se mi aspettassi che ricomparisse e
dimostrasse a Mark che ero sana di mente.
«Era proprio qui», ansimai.
«Chi?» Fu allora che gli vidi la preoccupazione nelle rughe intorno agli occhi. «Virginia Woolf?»
Feci cenno di no con la testa e cercai ancora.
Però Charlotte Perkins Gilman, che fino a un attimo prima era così reale da poterla toccare, era
scomparsa, come Virginia Woolf quella mattina.
Ripresi fiato quando fummo di nuovo sul tram, ma il cuore mi batteva ancora all’impazzata nel
petto. Pazza, pazza, pazza, sentivo a ogni battito.
«C’è una spiegazione logica per questo», disse Mark.
«Davvero?»
«Lo stress. È capace di combinare disastri con la psiche, Ruby. Fidati, ho scritto abbastanza tesine
e sgobbato per molti esami in vita mia da saperlo. Oggi hai lavorato troppo, tutto qui, e hai visto
qualcosa che non c’era.»
«Stai dicendo che ho avuto un’allucinazione?»
Scrollò la testa. «Sono sicuro che ci fosse qualcuno che passeggiava per il cimitero. Una donna
con una gonna lunga. E tu ti sei immaginata che fosse la Gilman. Perché sono giorni che non ti fai una
bella dormita. Eri sconvolta perché eri davanti alla tomba di tuo padre.» Articolava le parole con
troppa nettezza, pensai, come se parlasse con qualcuno che stesse ancora imparando l’inglese. «Forse
è meglio che torniamo in albergo. Possiamo farci portare da mangiare in camera.»
«Pensavo che saremmo usciti.»
«Sì, ma… questa è la seconda volta che tu… Penso che sia meglio se ci riposiamo. Possiamo
ordinare una bottiglia di vino. Prendiamocela comoda.»
Era gentile, da parte di Mark, usare il «noi», anche se si riferiva a me.
Mi mise un braccio attorno. «Ti preparo un bagno con tanta schiuma.»
«Okay», dissi e appoggiai la testa sulla sua spalla.
Restammo seduti in silenzio per il resto del viaggio. Anche se il mio corpo era perfettamente
immobile sotto il braccio di Mark, la mia mente si muoveva a velocità record, mentre tentavo di dare
un senso alla giornata. Mark aveva ragione? Possibile che la spiegazione fosse una cosa così comune
come lo stress? Volevo crederlo, volevo accettare il ragionamento di Mark perché era la spiegazione
più razionale, preferibile alle allucinazioni o ai fantasmi. E vantava le conseguenze minori. Dopo un
po’ di riposo e di relax sarei guarita, in teoria, proprio come la donna della Tappezzeria gialla.
Allora m’interrogai sui confini tra romanzo e memorie. Quanto era autobiografico il racconto della
Gilman? Sapevo che aveva sofferto di depressione tutta la sua vita e aveva scritto La tappezzeria
gialla dopo aver consultato un medico che le aveva prescritto come cura la terapia del riposo. Il
medico le aveva detto di «vivere una vita il più domestica possibile» e di limitare le ore di
stimolazione mentale. In sostanza, le aveva ingiunto di smettere di scrivere. Che effetto aveva avuto
questa terapia sulla mente della Gilman? Me lo domandavo. Aveva mai visto delle donne strisciare
dietro la tappezzeria? Aveva mai visto delle cose che non c’erano? Alla fine, nel 1935, era morta per
un’overdose di cloroformio. Colpita dal cancro al seno, aveva preferito «il cloroformio al cancro»,
come recitava la sua lettera d’addio. Non voleva che fosse il cancro a dettare la sua morte, così
l’aveva scelta lei.
Quando tornammo all’albergo, Mark riempì la vasca da bagno come aveva promesso. Mi preparò
l’accappatoio dell’hotel su uno sgabello, abbassò le luci e mi tenne persino la mano mentre
m’immergevo nella vasca, prima di inginocchiarsi accanto a me e infilarmi un asciugamano
arrotolato dietro il collo.
«Sei sicuro di non avere avuto sorelle?» chiesi.
Lui rise, poi mi diede un bacio delicato ma sensuale. «Prenditi tempo», disse.
Il cuscino, l’acqua calda e il profumo di lavanda delle bollicine mi rilassarono così tanto che mi
addormentai. Quando mi svegliai avevo le dita delle mani e dei piedi rugose e quando mi alzai in
piedi ebbi un giramento di testa, ma il mio corpo e la mia mente erano piacevolmente rilassati. Mi
sentivo in pieno possesso delle mie facoltà mentali. Infilandomi l’accappatoio, entrai nella camera da
letto più fresca e trovai Mark che armeggiava con un cavaturaccioli.
«Stavo per venire a chiamarti», disse. «Hai fame?»
«Muoio di fame!»
«Bene. Ho ordinato un po’ di cose perché non sapevo di che umore fossi.» Si affrettò a sollevare i
coperchi d’argento per mostrarmi le sue scelte. «Ah, e ti ho comprato un regalo», aggiunse,
porgendomi un sacchettino di carta marrone, con della carta velina che spuntava in cima.
Dentro trovai un diario. La copertina di pelle marrone, che appariva consunta, lisa e morbida come
dopo anni di uso, sfoggiava un giglio dorato. Le pagine interne, con i bordi dorati, erano intonse ma
macchiate di nero, grigio e blu.
«Sono materiali riciclati», spiegò. «La copertina, la carta. Persino il segnalibro di seta. Il
commesso del negozio di antiquariato mi ha detto che viene dall’orlo di un abito d’epoca. Pensavo
che potresti scrivere di tuo padre. I tuoi ricordi. Magari ti sarebbe d’aiuto.»
«È bello», dissi, facendo scorrere le dita lungo le pagine intatte e lisce. Era il regalo più carino
che un uomo mi avesse mai fatto, il genere di dono che rivelava esattamente quello che lui provava
per me. Mi amava. Gli interessavano i miei sentimenti, i miei pensieri, i miei ricordi più cari.
Però pensava anche che avessi bisogno di «aiuto».
Gli buttai le braccia al collo e compresi che c’era solo una donna che intralciava il nostro futuro.
E non era Meryl.
Ero io.
7.
Mercoledì mattina, per la terza volta, riagganciai prima che la telefonata andasse in porto, prima
ancora di sentire uno squillo. Volevo chiamare. Lo volevo davvero. Ero più che curiosa, ero
sull’orlo dell’ossessione. Mi trovavo al lavoro da un’ora e non avevo quasi toccato la pila di
necrologi che si era formata sulla mia scrivania. Se solo avessi lasciato squillare il telefono a
Tarble, se avessi lasciato che Heidi rispondesse, se in qualche modo avessi rotto il ghiaccio, forse
avrei smesso di torturarmi. Forse.
Janice Richards aveva ragione sul fatto che Heidi lavorava al college. Adesso era la coordinatrice
delle ex allieve di Tarble, secondo il sito dell’università che quella mattina avevo visitato invece di
scrivere necrologi. Heidi si era laureata in pubbliche relazioni, quindi era il mio opposto:
esuberante, diplomatica e molto brava a vendere fumo, anche se era una ragazza sincera. Tuttavia ero
stupita che fosse rimasta a lavorare al college. Venendo da una famiglia che studiava a Tarble da tre
generazioni, a Heidi era stato detto – e non chiesto – dove studiare, e lei questo lo raccontava a
chiunque la stesse ad ascoltare. Naturalmente io la ascoltavo. Se altre ragazze la trovavano odiosa, a
me stava simpatica e ammiravo i suoi modi schietti e il suo atteggiamento sfrontato.
Avrei dovuto smettere in quell’istante di esplorare il sito web, invece cliccai sul link della facoltà,
pentendomi ancora prima che la nuova pagina si caricasse. Eccolo lì, Mark, un collegamento
ipertestuale in blu. Non era più un assistente, era diventato professore associato. Il comitato per
l’assegnazione delle cattedre doveva averlo ritenuto idoneo per un posto a lungo termine a Tarble,
quindi. La foto della sua faccia, però, non era stata aggiornata. Era la stessa foto che fissavo un anno
prima quando sentivo la sua mancanza. Mi piaceva la sua sobria eleganza: in bianco e nero, con
Mark che non guardava l’obiettivo ma fissava un punto in lontananza.
Ora, invece, vedevo solo che guardava al di là di me.
Cercai di redigere un necrologio, ma scrissi solo il nome del defunto prima di sollevare il
ricevitore una quarta volta. Trattenendo il respiro, attesi che s’interrompesse il silenzio dopo aver
composto il numero e tenni duro per parecchi squilli acuti. Poi qualcuno rispose e fu troppo tardi per
riagganciare.
«Segreteria delle ex allieve.» La voce della ragazza era vivace come un caffè espresso.
«Posso parlare con Heidi Callahan?» dissi.
«Aspetta la sua telefonata?»
«Sono una sua vecchia amica.»
«Chi devo riferire?»
«Le dica che… le dica che è Holly Golightly.»
Mentre aspettavo, il mio stomaco faceva le capriole, ma incollai il ricevitore all’orecchio finché
non udii un clic dall’altra parte.
«Pronto?» disse Heidi, la voce garrula ma esitante.
«Ciao.» Feci una pausa. «Sono io.» Un’altra pausa. «Ruby.»
«Ah, sei tu», sbottò, la voce sonora e cacofonica come la ricordavo. «Volevo che fossi tu, ma
senza farmi troppe illusioni… del resto, chi altri al mondo poteva chiamare e dire di essere Holly
Golightly? Soltanto tu, Ruby. Adoro il fatto che tu l’abbia detto.»
Le lacrime mi velarono la vista e mi fecero pizzicare la gola. Se avevo immaginato delle tensioni
o un’avversione, queste non esistevano. Tra di noi tutto era cambiato, eppure tutto era rimasto uguale.
«Non ero certa che te ne ricordassi», dissi.
«Colazione da Tiffany? Mi prendi in giro?»
Ci facemmo una bella risata, forse per mascherare il profondo significato emotivo del film che
avevamo guardato innumerevoli volte nel semestre dopo la morte di mio padre. Malgrado la
scintillante apparenza – Audrey Hepburn davanti alla vetrina della gioielleria con il suo
inconfondibile abito nero e gli occhiali da sole più grandi del normale – il film, tratto da un racconto
di Truman Capote, in fondo è un viaggio attraverso la depressione. Avevo capito la differenza tra
essere triste e avere le paturnie.
«Non posso credere che lavori a Tarble», dissi.
«Lo so. Proprio io fra tutte! Ovviamente mia madre è entusiasta, ma continuo a pensare che mi
licenzieranno il giorno che spunterà un mio video su Internet, uno dei miei tanti sfoghi sulle lesbiche
che tengono i capelli cortissimi, calzano le Birkenstock, indossano gonnellone da contadina e non si
depilano le ascelle.»
«Adesso ti riconosco.»
«Però sono cambiata. Be’, in un certo senso… Non importa, non dovrò mantenere a lungo un
atteggiamento positivo verso l’istruzione separata. Hai sentito che dall’anno prossimo Tarble
introdurrà la coeducazione? Il consiglio di amministrazione non deve esprimere il suo voto fino a
settimana prossima, ma è praticamente cosa fatta.»
«Ma la rettrice Monroe si è sempre opposta alla coeducazione», replicai.
«Anche lei ha dovuto rassegnarsi alla realtà: o i corsi misti o chiudiamo i battenti sul serio. Le
iscrizioni hanno raggiunto il minimo storico, per non parlare delle donazioni da parte delle ex
studentesse. Non possiamo competere con le altre università se non ammettiamo gli uomini.»
Un’amarezza improvvisa mi riempì la bocca. Forse era il retrogusto del mio caffè mattutino, ma
più probabilmente era una reazione esacerbata alla notizia. Da quando avevo abbandonato gli studi
avevo cercato di dimenticare Tarble, spingerla negli anfratti della mia mente, ma ora, tutt’a un tratto,
sentivo la mancanza dell’università, una nostalgia pungente per quei mattoni ricoperti d’edera.
«È triste, non sarà più la stessa cosa», commentai. «Temo che avrei dovuto laurearmi quando ne
avevo la possibilità.»
Heidi rimase in silenzio per un momento. «Ruby, mi dispiace davvero tanto», disse infine. Tirò un
gran sospiro, come se avesse portato quelle cinque parole su per sei piani di scale.
«Sono io quella a cui dovrebbe dispiacere.»
«Assolutamente no, mi sento in colpa per essermi trasferita. Tu avevi bisogno di me e io non c’ero.
Che razza di amica sono?»
«Non c’è problema.»
«Sì che c’è», ribatté. «Sapevi che sono venuta a cercarti in ospedale?»
«Sei venuta?»
«L’infermiera mi ha detto che ti avevano già dimesso.»
«Però sei venuta.»
«Eravamo amiche per la pelle.» Le si incrinò la voce. «Hai pensato per tutto questo tempo che
fossi arrabbiata con te?»
«Non eri venuta in ospedale… be’, almeno era quello che pensavo. E poi non mi hai mai
chiamata.»
«Volevo chiamarti, ma pensavo che avresti sbattuto giù la cornetta», mi spiegò.
«E io pensavo che l’avresti sbattuta giù tu.»
Ridemmo di nuovo: sembravamo due bambine delle elementari.
«Sono così felice che tu abbia telefonato, Ruby. Oggi è proprio un giorno fantastico!»
A quel punto mi si riaffacciò alla mente l’immagine di Beth legata nel retro di un furgoncino
sporco, e mi preparai a rovinare il buon umore di Heidi.
«Volevo parlarti, Heidi», attaccai. «Un po’ di tutto, ma ho chiamato soprattutto per una ragione
specifica. Hai presente Beth Richards?»
«Certo.»
«È scomparsa.»
«Scomparsa in che senso?»
«Nel senso che è sparita nel nulla diversi giorni fa.»
«Che cosa?»
Era una domanda retorica e non risposi.
«Dio, Ruby, ho la sensazione di dover vomitare. Come l’hai saputo?»
Questo era il modo gentile di Heidi per chiedermi come avevo fatto a scoprire di Beth prima di
lei. E dalla sua reazione alla notizia – triste, confusa, ma non devastata – intuii che non aveva passato
l’estate organizzando dei pigiama party con Beth.
Allora raccontai la storia a Heidi: la valigia di Beth, la targhetta con il mio nome e tutto il resto,
da Janice Richards all’ispettore Pickens fino al distretto di polizia di Pittsburgh. Tuttavia omisi gli
altri dettagli: il serial killer, Una stanza tutta per sé e Mark.
«Non ci posso credere», disse quando ebbi finito. «Non sono sicura per quanto riguarda il
protocollo, ma forse dobbiamo far venire degli psicologi o qualcosa del genere. Voglio dire, noi ci
siamo appena laureate. Al campus ci sono ancora un sacco di studentesse che conoscevano Beth.»
Due parole catturarono la mia attenzione: il «noi» – era gentile, da parte di Heidi, sorvolare sul
fatto che io avevo abbandonato gli studi e non avevo mai ottenuto un diploma – e, naturalmente,
«conoscevano»: Heidi, come me, parlava di Beth già al passato.
«Inoltre Beth ha passato un sacco di tempo al college durante l’estate», aggiunsi.
«Davvero?»
«Non l’hai vista al campus?»
«Beth Richards? Non la vedo da quando si è laureata.»
Raccontai a Heidi delle visite estive di Beth a Tarble, riferendo la mia conversazione con Janice,
senza dire però che Beth aveva usato Heidi come alibi. «Sei sicura di non averla vista in giro?»
«Sai quanto è piccolo questo campus, Ruby. Credimi, me lo ricorderei se l’avessi vista.»
Era Mark, pensai. Doveva essere Mark. Beth non aveva passato le notti estive al campus insieme
con Heidi, le aveva passate con Mark, indubbiamente nella sua baita, nel suo letto, lo stesso letto in
cui lui aveva fatto l’amore con me.
«Devo aver frainteso, allora», dissimulai. «In ogni caso, la mamma di Beth pensava che il college
dovesse essere informato. E inoltre voleva che qualcuno lo dicesse a Sarah Iverson.»
«Posso farlo io», disse Heidi. «Però mi sentirei meglio a dirglielo di persona, non al telefono. La
vedo questo fine settimana.»
Mi tornò in mente la cartolina che avevo trovato dentro il libro di Beth. «Intendi al Raduno?»
«Vengono un sacco di ragazze della nostra classe, forse perché è l’ultimo fatto secondo la
tradizione. Perciò non so bene come trattare questa faccenda di Beth Richards.» Riconobbi lo stress
nell’esitazione della voce di Heidi e sentii, sullo sfondo, un frusciare di carte. «Devo parlare con la
rettrice Monroe subito.»
«Ho come l’impressione di doverti lasciare andare…»
«No, tu non mi lasci andare. Sì, possiamo anche riagganciare, ma non abbiamo di certo finito di
parlare, Ruby. Voglio sapere come stai e che cosa hai fatto tutto questo tempo. E voglio riprendere da
dove ci eravamo interrotte.»
La sua insistenza mi fece inumidire gli occhi. «Anch’io.»
«Be’, miss Golightly», scherzò. «Che diavolo fai questo weekend?»
Craig aveva lasciato la porta del suo ufficio socchiusa, quindi bussai e attesi educatamente nel
corridoio.
«Sì», urlò, come se avessi bussato non una, ma quattro volte.
«Sei occupato...» Feci marcia indietro. «Torno dopo.»
«Ruby, aspetta», lo sentii dire dopo essermi girata. Fu subito alla porta e mi strattonò per una
manica del maglione per fermarmi. «È solo che Georgene è entrata venti volte oggi. Pensavo fosse
lei. Di nuovo.»
«Sei comunque occupato, quindi io…»
Craig mi tirò ancora la manica. «Ti prego, entra. Siediti.»
Seguii le sue istruzioni. «Mi chiedevo se la tua offerta è ancora valida», dissi.
«Certo. Possiamo andarci stasera. Cioè, se sei libera.» Tentò di stabilire un contatto con gli occhi.
«Sei libera stasera, Ruby?»
Ci fissammo a vicenda per un momento. Scrutai i suoi occhi marrone e i suoi capelli castani con la
riga precisa da un lato. Aveva le braccia conserte e i risvolti della camicia di stoffa scozzese si
erano sollevati per mostrare quei bei polsi.
È un bel ragazzo, sentii mia mamma che diceva.
Però è il mio capo, le risposi nella mia mente.
«A dire il vero non stavo parlando della pizza.» Abbassai lo sguardo per evitare di leggergli la
delusione in volto.
«Oh, scusa. Pensavo che… Di cosa stavi parlando?»
«L’articolo… sulla ragazza scomparsa di Milwaukee. La mia compagna di università.»
«Vuoi scrivere un pezzo?»
«Be’, avevi detto che potevo, se volevo…»
«Sono sorpreso, tutto qui.» Le parole gli uscirono di bocca adagio, in tono professionale. Adesso
era tutto affari. «Prima non sembravi interessata.»
Finalmente lo guardai negli occhi e, se era rimasto male, non ve n’era più traccia. E, curiosamente,
ero delusa che non sembrasse più turbato. «Ci sono stati nuovi sviluppi nel caso.» Adottai il suo
stesso tono professionale. «E ho qualche indizio, però non posso dirti nulla. Non ancora. Per adesso
è tutto segreto. L’ispettore mi ha fatto giurare che non avrei aperto bocca.»
«Se la polizia mantiene il silenzio sulla vicenda, perché raccontarlo a te?» mi chiese.
«Perché ho fatto la piccola investigatrice.»
«Be’, non vedo l’ora di leggere il tuo giallo per ragazzi.» Buttò un occhio al calendario da
scrivania dove aveva scritto e cancellato talmente tante cose con l’inchiostro blu che sembrava che
fosse esplosa una penna. «Riesci a farmelo avere entro lunedì mattina?»
«Senz’altro», promisi. «Ma richiede una trasferta.»
Gli raccontai dei festeggiamenti in occasione del Raduno al Tarble College per quel weekend. «Ci
saranno un sacco di ex compagne di Beth, per non parlare dei professori. Molte possibili interviste,
belle frasi a effetto. Magari faranno una specie di veglia per Beth. Ho appena parlato con una
rappresentante del college.»
«Un campus colpito dal dolore, ma in cerca di speranza?»
«Precisamente.»
Allargò le mani, come per dire ta-dah. «Sembra che tu ti sia trovata un incarico.»
Sorrisi: era stato così facile guadagnarsi la sua fiducia come reporter. Ma io potevo fidarmi di lui?
E se non gli piaceva come scrivevo? Del resto, l’avrei scritto davvero questo articolo? Avevo
accettato l’invito di Heidi al Raduno – dopo che mi aveva implorato tre volte – non perché volevo
rappacificarmi con la mia alma mater, e non perché volevo scrivere un pezzo per il «Chronicle», ma
a causa della mia ossessione per Beth e Mark. Era curiosità o gelosia? Entrambe. Qualcuno a Tarble
doveva sapere qualcosa sulla natura della loro relazione: forse l’ex compagna di stanza di Beth,
Sarah Iverson, o qualche altra studentessa che aveva seguito i corsi estivi. La possibilità di scoprire
dettagli indecenti era un incentivo sufficiente perché mi rimangiassi il mio orgoglio e mostrassi la
mia faccia al Raduno, anche se le ex compagne di corso sparlavano alle mie spalle, anche se
significava essere a una sgradevole distanza ravvicinata da Mark.
«C’è un’altra cosa», aggiunsi. «Ho bisogno del venerdì libero, per partire presto.»
«Ti faccio sostituire da Georgene», disse.
Allora mi alzai, gli porsi la mano, ma prima che potessimo concretizzare l’accordo con una stretta,
il telefono sulla sua scrivania squillò. Lui sollevò un dito e mi fece segno di restare.
«Hewitt», disse.
Vidi i muscoli del suo viso sciogliersi, gli zigomi scolpiti appiattirsi, dopodiché mi girò le spalle.
«Non è un buon momento», disse con un sussurro. «Ne parliamo stasera.» Una pausa. «Perché sono
al lavoro, Victoria.»
Intuii che stava per sbattere giù la cornetta, ma mi guardò e si trattenne, limitandosi a posarla
delicatamente.
«Scusami», disse.
«Avevamo comunque finito.» Feci qualche passo verso la porta.
Lui sospirò, come se la telefonata gli avesse sottratto tutte le energie. «Suppongo di non poterti più
nascondere questo segreto.»
Deglutii, incuriosita da quelle parole.
«Ho divorziato da poco», proseguì.
«Non sono fatti miei», sbottai. E poi mi sorpresi aggiungendo: «Non sapevo nemmeno che tu fossi
sposato».
«Da cinque anni, ma è successo tutto quando abbiamo cominciato a parlare di bambini. Io li
volevo, lei no. Ci siamo separati sei mesi fa. Il divorzio è definitivo da venerdì scorso.»
Unii i puntini. «È per questo che siete usciti a mangiare una pizza lunedì?»
«È stata la mia festa di divorzio.»
«Perché non me l’hai detto?»
Si strinse nelle spalle. «Non volevo che tu mi giudicassi.»
Scrollai il capo in segno di protesta. «Ma non sono fatti miei», ripetei. «Sono solo una tua
dipendente. Voglio dire, non sono nessuno.»
Allora lui si alzò in piedi, ma sembrava infiacchito, come se gli avessi appena assestato il colpo
finale in una lotta.
«E invece non è vero», disse. «Non è vero che non sei nessuno per me.»
Si avvicinò a me, che ero sulla porta. Feci un altro passo indietro, alzando le mie difese, ma lui si
limitò a protendere una mano. «Mi sembrava che stessimo per sigillare quell’accordo con una stretta
di mano, no?»
Emisi un sospiro e annuii, offrendo la mia stretta di mano migliore e più professionale.
Il movimento fece scappare un ricciolo ramato da dietro il mio orecchio e, in maniera automatica,
Craig lo rimise al suo posto. Fu allora che cominciai a chiedermi se fossi destinata a ripetere gli
errori del passato.
Perché, malgrado tutte le ragioni contrarie, glielo permisi.
8.
UN ANNO PRIMA
Arrivata la domenica mattina, volevo tornare a casa.
E per casa intendevo Tarble. Il Wisconsin, il Midwest. Volevo andare dove erano stati cancellati i
ricordi di mio padre, dove il mio senso di colpa era stato addomesticato, dove mi ero sentita sana di
mente. Speravo che ciò che era accaduto a New Orleans – l’aver visto Virginia Woolf nel cortile e
Charlotte Perkins Gilman al cimitero, per non parlare poi dello smarrimento degli appunti per la mia
tesi – fosse dovuto a una condizione di stress temporaneo, provocata dalla vicinanza alla città. Avrei
recuperato la mia lucidità mentale una volta che fossi partita da New Orleans.
E così fu, almeno in un primo momento. Nelle settimane successive al nostro viaggio mi tuffai
nelle ricerche, cercando di compensare la perdita dei miei appunti – non li avevo più ritrovati –, e
lessi molto più di quanto necessario o richiesto: due biografie della Woolf e della Gilman, una di
Sylvia Plath, vari articoli su Anne Sexton e Sarah Kane e tre testi di psicologia sulla depressione
femminile e sul suicidio. A chi notava e, di conseguenza, avanzava dei dubbi sulla mia mania –
soprattutto Heidi e talvolta mia madre, quando tornavo a casa o lei veniva a trovarmi – spiegavo
l’importanza di questi libri per il successo della mia tesi, evitando allo stesso tempo il loro sguardo.
L’unica persona che riusciva a strapparmi al mio lavoro era Mark, però la maggior parte del nostro
tempo insieme la passavamo parlando della Woolf, della Gilman e della Plath: troppo, a quanto
sembrava.
«Ruby, comincio a sentirmi poligamo», disse Mark una notte di novembre, dopo che avevamo fatto
l’amore a casa sua.
«Perché? Perché non hai ancora divorziato da Meryl?»
Lui scosse la testa in modo così solenne che mi domandai se intendesse davvero lasciarla. Ogni
volta che gli chiedevo del divorzio, lui rispondeva sempre che «queste cose richiedono tempo».
«Perché quando sono con te non siamo mai soli», disse, mettendosi a sedere, con un cuscino tra la
schiena e la parete. «Virginia Woolf e Sylvia Plath ci accompagnano sempre. Sta diventano un po’
affollato, qui, per i miei gusti. Io sono un uomo da una sola donna.»
Le parole che aveva scelto mi lasciarono perplessa. Dopotutto era ancora sposato con Meryl.
«Sai che cosa voglio dire», aggiunse.
Era vero: ero ossessionata. Non riuscivo a tenere Virginia Woolf e le altre lontano dalla mia
mente, nemmeno di notte. Non appena posavo la testa sul cuscino, non appena chiudevo gli occhi,
vedevo la Woolf che scriveva la sua lettera d’addio con penna e inchiostro prima d’infilarsi i sassi
nelle tasche; vedevo le fragili mani bianche di Charlotte Perkins Gilman che si somministrava una
dose letale di cloroformio; vedevo Sylvia Plath che bagnava degli strofinacci per piatti nel
lavandino, li strizzava e li metteva sotto le porte per impedire al gas del forno di diffondersi nel resto
della casa, dove dormivano i suoi due figli piccoli. Proprio come gli incubi con mio padre, queste
visioni mi costringevano a prendere un sonnifero ogni sera prima di coricarmi, però non smisi mai di
lavorare alla tesi. Perché leggere, prendere appunti, formulare teorie e difenderle con informazioni
concrete tratte da materiali concreti mi faceva sentire razionale. Mi faceva sentire sana di mente. E
avevo paura che, se avessi distolto l’attenzione da questo processo cerebrale, prima o poi avrei visto
un’altra scrittrice morta. L’ironia della cosa non mi sfuggiva. Per impedirmi di impazzire dovevo
studiare delle donne dalla discutibile salute mentale.
«Mi spiace», dissi a Mark. «Ma ho quasi finito. Presto mi avrai tutta per te.»
«Non fraintendermi. Amo il tuo impegno. È il sogno di ogni insegnante avere uno studente così
fissato con la ricerca, e non ti chiedo di diminuire i tuoi sforzi. In realtà pensavo che ci dovremmo
prendere una pausa, almeno finché non hai terminato la tesi.»
«Una pausa?» La mia voce s’incrinò.
«Non proprio una pausa... È un termine sbagliato. Volevo solo dire che devi dare la priorità alla
tua tesi e poi pensare a me. Solo per ora, almeno finché non avrai finito.»
Mi drizzai a sedere e tirai su le lenzuola per coprirmi il seno nudo, perché all’improvviso mi
sentivo esposta e vulnerabile.
«Perché devo mettere una cosa prima dell’altra?» chiesi. «Posso fare entrambe le cose: lavorare
alla mia tesi e passare un po’ di tempo con te.»
«So che puoi farlo, però sei stata… Voglio solo che tu sappia che ti capisco se nelle prossime
settimane non ci vedremo spesso. Non offenderai la mia sensibilità. In effetti, anch’io ho un sacco di
ricerche da fare, prima della consegna degli elaborati e di ritrovarmi immerso fino al collo nella
correzione.»
«Ricerche? Per che cosa?»
«Un articolo per una rivista letteraria. Quando il comitato per l’assegnazione della cattedra mi
esaminerà il prossimo semestre, dovrò sembrare prolifico. Purtroppo si bada più alla quantità che
alla qualità.»
«Di che cosa parla il tuo articolo?»
Si fece piccolo. «Preferirei non dirlo finché non è terminato. È una questione di creatività e
parlarne la nega, in un certo senso. Capisci? Suppongo di essere superstizioso.»
Non pensavo che Mark credesse nella superstizione.
«D’accordo», dissi tuttavia. E poi: «Perché ho la sensazione che qualcosa sia cambiato? Tra di
noi? All’improvviso?».
«Non è cambiato niente.» Fu allora che mi baciò: un bacio rapido, forte e asciutto, senza quasi
muovere le labbra. «Solo che questo è un periodo pesante dell’anno, ci stiamo avvicinando alla fine
del semestre. È sempre così. Ma siamo due adulti, no? Dobbiamo capire che qualche volta il lavoro
viene prima del resto. Ma questo non cambia quello che proviamo l’uno per l’altra. Anzi, in realtà
rafforza la nostra relazione.»
Annuii, anche se la mia testa e il mio cuore stavano ancora cercando di dare un senso alla
conversazione. «Allora è tutto a posto?» chiesi.
«Certamente.» Mi diede una piccola pacca sulla spalla, come la si dà a qualcuno quando lo si
abbraccia, un gesto che mi era sempre sembrato riservato ai conoscenti, non alle persone amate.
«Però tra un po’ ti riaccompagno a casa. È quasi mezzanotte.»
Mandai giù un groppo di delusione. «Pensavo di rimanere.»
«Davvero?» Si alzò per infilarsi i jeans. «Solo che domattina ho un appuntamento presto e, a
essere sincero, è un po’ che non dormo bene.» Si mise la maglietta, poi si passò una mano sui capelli
per lisciarseli. «Però puoi restare, se davvero ci tieni.»
«No, vado.» Mi alzai, ma mi coprii il corpo con le lenzuola finché non trovai i miei vestiti
stropicciati per terra. «Anch’io ho bisogno di farmi una bella dormita stanotte.»
«Vedi che hai capito? A volte bisogna prendersi cura prima di sé stessi, in modo da essere nelle
condizioni migliori per gli altri, giusto?»
Annuii con aria esitante.
«Giusto», ripeté, controllando l’ora mentre si allacciava l’orologio. «E adesso torniamo al
campus.»
Nelle settimane seguenti non vidi molto Mark. O, per lo meno, lo vidi soltanto durante il seminario
dell’ultimo anno, a cui arrivava sempre in ritardo o da cui ci faceva uscire in anticipo. Certi giorni
cancellava persino le lezioni, dicendo che così potevamo lavorare ai nostri elaborati. Quando ero in
classe cercavo di attirare la sua attenzione – catturare il suo sguardo, condividere un sorriso – ma lui
non mi guardava mai. Volevo credere che fosse stressato per le sue ricerche e per le correzioni di
fine semestre. Tuttavia non mostrava segni d’ansia e, anzi, sembrava estremamente felice e
spensierato, camminava con energia e gli brillavano gli occhi.
Poiché non avevo più rapporti con Mark, la mia tesi divenne un problema unicamente mio, e così
continuai a leggere, svolgere ricerche, scrivere e correggere senza freni, persino restando sveglia
tutta la notte. Depositai il testo in anticipo, sperando che allora Mark avrebbe voluto vedermi, non
appena avesse saputo che il mio lavoro era terminato e che ero libera da ogni obbligo accademico. E
invece non cambiò nulla nemmeno dopo che l’ebbi consegnato. Anzi, le cose peggiorarono. In classe
m’ignorava del tutto e faceva parlare un’altra studentessa quando io alzavo la mano; fingeva di non
sentirmi quando lo chiamavo in corridoio. Quando finalmente un pomeriggio lo misi con le spalle al
muro nel parcheggio della facoltà, lui si scusò e mi disse di aspettare ancora un po’. Alla fine del
semestre le cose sarebbero cambiate, mi disse.
Il giorno in cui dovevano comunicarci i voti delle tesi, mia madre telefonò la mattina con una
notizia a sorpresa: saremmo andate a Parigi per le vacanze invernali. Dovevamo partire di lì a due
giorni e ci saremmo rimaste due settimane, per Natale e Capodanno. Non era soltanto il mio regalo di
Natale – disse – ma anche una vacanza premio perché per tutto il semestre avevo lavorato alla tesi
con tanta assiduità.
«Non so ancora come sono andata», dissi.
«Prendi sempre il massimo dei voti», mi stuzzicò lei.
Sapevo che il viaggio era qualcosa di più di una vacanza dono, più di una ricompensa per avere
studiato sodo. Era una fuga da un Natale senza papà. Ci stavamo rapidamente avvicinando al primo
anniversario della sua morte: era evidente dappertutto, dalle file di luci rosse e verdi che orlavano le
finestre del pensionato fino alle canzoni natalizie che risuonavano a tutto volume all’interno
dell’emporio locale. Se andavamo a Parigi, a migliaia di chilometri di distanza, il Natale non ci
avrebbe fatto così male. O almeno l’idea era quella.
Non ero mai stata a Parigi e, anche se avevo sempre voluto andarci, non volevo però lasciare
Mark. Con le tesi finalmente corrette e il semestre ufficialmente finito, speravo che avremmo di
nuovo avuto del tempo per noi e volevo recuperare quello che avevamo perduto. Però non potevo
dire no a mia madre, così con riluttanza cominciai a fare le valigie per trascorrere due settimane
intere senza di lui. Se le facevo di mattina, ragionai, avrei avuto più tempo da trascorrere con Mark
quella sera. Il problema era che non avevo una valigia grande abbastanza. Per fortuna Beth Richards,
che stava a qualche porta di distanza, fu felice di prestarmi la sua valigia a motivi cachemire, in cui
di solito riponeva le coperte di riserva per le gelide notti del Wisconsin. Quella mattina la riempii
fino all’orlo e scrissi persino il mio nome sulla targhetta, così poi non avrei avuto più niente da fare
e non ci sarebbe stato più nulla a distogliere la mia attenzione da Mark, ora che il semestre era finito,
ora che finalmente potevamo stare insieme.
Heidi entrò mentre stavo piegando i vestiti.
«Che cosa stai facendo?» chiese, con le mani sui fianchi. «Ti trasferisci?»
«Trasferirmi? E perché dovrei trasferirmi?»
«Allora che cosa stai facendo?» mi chiese ancora.
«I bagagli. Mia mamma mi porta a Parigi.»
«Stai scherzando?»
«E perché dovrei scherzare?»
«Non riesco a credere che tua madre non…» cominciò, ma poi s’interruppe. «Ruby, che cosa ti
succede?» chiese, senza tanti complimenti.
«Che cosa vuoi dire?»
Girò la testa all’indietro e sbatté le palpebre. «Lo sai che ieri sei uscita lasciando la porta
spalancata?»
«Davvero? Mi spiace.» Andai dietro il mio cassettone, dove tendevo a nascondermi.
Lei mi seguì. «So che si avvicina l’anniversario della morte di tuo padre. Credo che tu sia
depressa.»
Questo pensiero era passato per la testa anche a me. «Tu sei pazza.»
«Io sono pazza? Non sono io quella che ha buttato per aria la stanza la settimana scorsa per
cercare le chiavi che poi aveva in tasca. Non sono io quella che colleziona sassi sul davanzale.»
I sassi. Da quando avevo consegnato la tesi avevo cominciato a fare lunghe passeggiate sulla riva
del lago e ogni volta trovavo un sasso liscio che mi piaceva. Li tenevo sul davanzale accanto al mio
letto. Mi piaceva strofinare la loro superficie fredda, dura e piatta.
«Lascia che ti aiuti», disse dolcemente Heidi. «Parla con me.»
«Non c’è niente di cui parlare.»
«Davvero? E la tua scrivania?» Con un gesto indicò libri su libri, gli articoli scaricati da Internet,
gli appunti che coprivano ogni centimetro disponibile. «Questo è accumulo patologico.»
«È ricerca», ribattei.
«Per un lavoro che hai già scritto e consegnato. Che cosa ci fa ancora qui tutta questa roba?»
Non risposi.
«Va bene, non vuoi parlare della scrivania. Ti sei vista di recente?»
Mi sbirciai allo specchio. Intorno agli occhi avevo dei cerchi scuri. I capelli erano lucidi, ma non
come quando sprizzano salute all’uscita dal parrucchiere. Era il grasso, perché non li lavavo da
cinque giorni. La mia pelle aveva una sfumatura più chiara del solito. Da tre giorni di fila mangiavo
caramelle Skittles per pranzo.
«Ultimamente non dormo molto, tutto qui», dissi a Heidi. «Negli ultimi tempi tutti hanno un aspetto
di merda. È il periodo dell’anno. Quelli di noi che seguono dei corsi di laurea seri hanno dovuto
consegnare delle tesi vere.»
Heidi, che studiava pubbliche relazioni, non reagì al mio insulto. «Hanno dovuto consegnare delle
tesi. Hanno dovuto. L’hai detto tu stessa. Al passato, Ruby.» Mi fissò. «Hai bisogno di aiuto? Piangi
perché qualcuno ti aiuti?»
«Non sto piangendo.» Per dimostrarlo, abbassai drammaticamente la pelle sotto gli occhi per farle
vedere che dentro erano asciutti.
Guardai gli occhi marrone di Heidi e vidi l’amore che nutriva per me, la profondità del suo affetto,
quello che ultimamente mancava negli occhi di Mark, per quanto a lungo e quanto spesso vi
guardassi. Anche lui aveva notato gli stessi cambiamenti e gli stessi comportamenti in me? Era per
questo che non voleva guardarmi? Vedermi? Pensava che mi stessi lasciando andare?
«Perché sei così arrabbiata?» andai alla carica. «Che cosa te ne importa se mi lavo i capelli?»
«Perché sono la tua migliore amica.» Mi afferrò per un braccio. «O ero la tua migliore amica,
suppongo. Prima che tu cominciassi a frequentare Virginia Woolf e Sylvia Plath.»
«Sei una stronza», dissi.
Heidi scrollò la testa e gli occhi le si riempirono di lacrime. Mollò la presa. «Mi trasferisco da
Rachel, Joy e Amanda», disse. «Vengo a prendere la mia roba oggi pomeriggio quando tu sei a
lezione. Stanotte dormo lì.»
«Bene.»
«Ti daranno una nuova compagna di stanza per il prossimo semestre», aggiunse.
“Pagherò il supplemento per una singola”, pensai. “Senza una compagna di stanza, Mark potrebbe
chiamarmi quando vuole.”
«Chi se ne importa», dissi.
«Chi se ne importa», ripeté lei, prima di sbattere la porta.
Quel pomeriggio Mark ci restituì le tesi, posate a faccia in giù su ognuno dei nostri banchi. Poi
terminò all’improvviso la lezione, sostenendo che il dipartimento di inglese cercava un nuovo
professore per l’anno accademico che stava per iniziare e lui doveva assistere ai colloqui. Mi chiesi
se fosse vero o se aveva semplicemente paura di un confronto, paura che io mi arrabbiassi con lui.
In fin dei conti mi aveva dato D, un’insufficienza.
Avrei dovuto essere furente, rossa in viso dalla rabbia, ma non lo ero. Tornai invece in camera
mia in stato confusionale, disorientata dalla consonante piena di disprezzo che Mark aveva tracciato
sulla prima pagina della mia tesi. Il voto sembrava meno una valutazione del mio lavoro e più una
specie di punizione, uno schiaffo a freddo sulla mano. La furia sarebbe arrivata dopo, una volta che
si fosse esaurito il bruciore iniziale. Però prima provai qualcosa di peggio della collera: mi sentii
indegna del suo amore.
Non appena rientrata, mi preparai a chiamare Mark sul cellulare, ma lui aveva già lasciato un
messaggio nella mia segreteria, qualcosa che non aveva mai fatto per timore che Heidi potesse
sentire.
«Ruby, sono io», diceva Mark nel suo messaggio dopo una pausa iniziale. «Non possiamo vederci.
Mai più.» La sua voce era più acuta del solito. «È la soluzione migliore. Per te, adesso. Hai
bisogno… Sono una distrazione, non è vero? Davanti a te hai il dottorato e io sono un’ancora che ti
trattiene. Quindi è finita. Deve finire. Sto sistemando le cose con mia moglie, che verrà qui per
Natale. È la cosa giusta da fare.»
Mi sentivo come se mi avessero infilato una corda intorno al collo e poi l’avessero legata
passando per le narici. Provai una fitta di dolore. Rimasi lì così, incapace di muovermi e incapace di
piangere, e riascoltai il messaggio, sperando di avere capito male, sperando di averlo frainteso. Ma
la conclusione era sempre la stessa: aveva rotto con me.
Ma perché lo aveva fatto? pensai. Non perché non mi amava, e non perché amava Meryl, ma
perché era «la cosa giusta da fare» e lui era «un’ancora che mi tratteneva». Si preoccupava più del
mio futuro – i miei studi, il mio dottorato – che dei suoi sentimenti e di quello che voleva lui. Non era
egoista, era altruista.
Oppure si era disamorato di me? Era ciò che mi chiedevo. Avevo notato la distanza crescente nei
suoi occhi, la sua voce priva degli accenti sinceri di un tempo. E che altro diceva nel suo messaggio?
«Hai bisogno…» Di che cosa pensava che io avessi bisogno? Dell’aiuto di un professionista? Forse
l’avevo allontanato ancora di più nelle ultime settimane, a furia di essere paranoica e ansiosa per via
della sua mancanza d’attenzione?
“Non posso permettergli di mettermi al primo posto”, decisi mentre mi preparavo ad andare da lui.
Si sarebbe sentito lusingato dal mio gesto e dalla mia determinazione di parlargli di persona. A casa
sua, fuori dal campus, non sarebbe stato capace di negare il suo amore per me.
Avrei spezzato le sue resistenze.
Parcheggiai la mia auto in fondo alla strada di ghiaia, così da non fargli sentire il motore quando
mi avvicinavo, e andai a piedi fino alla baita, infilando le mani nelle tasche della giacca, che tenevo
davanti a me per compensare il fatto che era slacciata. Le lacrime avevano lasciato la mia pelle
vulnerabile ai venti artici e le aspre folate mi frustavano le guance come se fossero bandiere. Nella
notte buia e fredda la baita aveva un aspetto caldo e invitante perché la luce eterea del camino
risplendeva attraverso le tende trasparenti della finestra sulla facciata.
“Ruby, entra, che fa freddo”, immaginavo che Mark mi avrebbe detto prima di abbracciarmi e
farmi tornare a una temperatura corporea normale. Io non avrei detto niente. Un solo sguardo negli
occhi sarebbe bastato.
Bussai alla porta d’ingresso – Mark non aveva mai installato un campanello – ma le mie nocche
fredde e senza guanti si limitarono a sfiorare la superficie e il suono si disperse nel legno massiccio.
Non l’avevo sentito io e neppure Mark l’avrebbe udito. Allora mi diressi verso la finestra e vidi la
luce che si faceva più intensa al centro della stanza. Riconobbi la nuca di Mark qualche centimetro
sopra i cuscini del divano. Vidi che alzava e poi abbassava un gomito. Stava bevendo qualcosa per
affogare i suoi dispiaceri, supposi.
Ma poco prima di tamburellare sulla finestra ghiacciata con la punta di un dito, vidi una seconda
figura, che si avvicinò al divano e si mise a cavalcioni su di lui, creando una specie di macchia di
Rorschach resa confusa dal fuoco. Non riuscivo più a scorgere Mark o la sua nuca. I due corpi
divennero uno solo. Poi la figura emerse dalla macchia come un delfino dall’acqua. Divenne più alta,
torreggiante su di lui. Bloccava la luce del camino in alcuni punti ma non in altri, sinuosa come le
curve di un prezioso bicchiere da vino.
Dentro e fuori, dentro e fuori.
Inequivocabilmente una donna.
Meryl.
Chinandomi sotto il davanzale persi l’equilibrio e rovinai in un cumulo di neve, bruciandomi la
pelle al contatto della sua superficie fredda. Il mio cuore andò in mille pezzi quando compresi che
Mark era tornato con sua moglie. E lì, infilata sotto la pergola a fianco della casa, c’era la prova. La
carrozzeria dell’automobile si confondeva con la notte. Però, alla luce della luna, vidi che era nera e
ne distinsi la targa provvisoria. Sotto la punta delle mie dita la parola jetta decorava il paraurti. Era
chiaro che Meryl era venuta da Washington per trascorrere le vacanze con lui.
Vedere Meryl attraverso la finestra e la sua auto nel vialetto mi fece salire un calore dal petto
nella gola. Le mie guance s’infiammarono, ma le mie mani erano ghiacciate e le infilai in tasca per
tenerle calde. Lì trovai il portachiavi e cominciai a passare la punta delle dita sui contorni dentellati.
Fu un attimo: avvicinai la chiave con gli spigoli più appuntiti alla portiera dalla parte del passeggero
e la ficcai a fondo nella vernice metallizzata finché non scavò un solco. Lo feci più volte di quanto
possa ricordare, finché la chiave non mi scivolò nella mano gelata e mi tagliai una nocca.
Succhiando la ferita mi avviai per la strada sterrata, allontanandomi dalla baita di Mark.
È un sapore devastante: l’amaro del sangue, il salato delle lacrime.
Guidai per un’ora ma non sapevo dove andare, così ritornai a Tarble, parcheggiai la macchina e
rientrai a piedi al pensionato. Quella notte il lago sembrava in preda a una furia selvaggia. Alte onde
grigie, sormontate da una schiuma bianca che ricordava un cane con la rabbia, segno certo di
un’imminente tempesta invernale, staffilavano la spiaggia rocciosa. Malgrado ciò decisi di fare una
deviazione verso la sabbia gelida accanto alle acque agitate.
Lungo la spiaggia il vento proveniente dal lago, unito allo spruzzo delle onde, sembrava abbassare
la temperatura di un’altra decina di gradi. Dopo qualche minuto il freddo pareva quasi caldo sulla
mia pelle esposta, poiché mi bruciava le guance e la bocca e, in un certo senso, attenuava il dolore
che mi pulsava nelle viscere. Ormai avevo esaurito le lacrime e gli occhi erano gonfi e chiusi per il
troppo piangere. Vedevo a malapena dove stavo andando, ma non m’importava. Se fossi inciampata e
caduta nell’acqua, mi sarebbe stato indifferente. Le onde mi avrebbero trasportato fino al mare.
Immaginai di infilarmi nella tasca della giacca i sassi che tenevo sul davanzale, come aveva fatto
Virginia Woolf.
Ero a metà della spiaggia quando ebbi la sensazione di non essere sola. E da lontano scorsi una
figura che s’incamminava verso di me. Uomo o donna, non avrei saputo dirlo in un primo momento,
per via del velo della notte, dei miei occhi gonfi e degli spruzzi d’acqua. Però, man mano che si
avvicinava, il mio cuore accelerò alla vista di una sagoma che infine riconobbi.
Era una donna. Capelli biondo scuro arricciati ai lati, in stile anni Cinquanta. Persino di notte le
labbra apparivano scure, a causa di quello che poteva essere solo un rossetto rosso. Indossava un
caban color cammello.
Mi fermai, abbassai lo sguardo verso la sabbia, poi lo rialzai di nuovo. Scrollai la testa, sbattei i
piedi, grugnii persino, cercando di farla scomparire. Ma lei si avvicinò ancora di più e, diversamente
dalla Woolf e dalla Gilman, mi rivolse la parola.
«Ruby», disse.
Fu allora che mi misi a correre. Non sono sicura che lei mi abbia rincorso, perché non mi voltai
mai a guardare, almeno finché non fui arrivata alla scala d’ingresso di North Hall. Allora, per quanto
potevo vedere, nessun altro occupava il marciapiede dietro di me.
Ma nei miei occhi era rimasta l’immagine di una giovane Sylvia Plath.
«Non tentare di parlare, per adesso», sussurrò l’infermiera, le labbra carnose contratte come
quelle di una madre pronta a baciare la fronte di un bambino. «Hai una visita», aggiunse. «Ma forse è
meglio che riposi un po’ prima di vedere qualcuno.»
Una visita. Mark. Aveva saputo quello che era successo, si era precipitato in ospedale per
scusarsi, per dirmi che aveva commesso un errore. Mi aveva quasi perso per sempre.
«Chi è?» Cercai di alzarmi a sedere, ma non avevo più energia.
«Trisha, la tua referente al pensionato. È stata lei che ti ha trovata e ha chiamato il 911.»
«Nessun altro?»
«Tua madre sarà qui tra poco e alcune ragazze – cinque, mi pare – sono venute poco fa, ma
abbiamo detto loro di restare al college. Non sapevamo quanto c’era da aspettare. Hanno detto che
sarebbero tornate.»
«Nessun... uomo?»
Gli occhi dell’infermiera si riempirono di compassione. «Mi spiace.»
Qualche minuto dopo vidi la porta aprirsi di un paio di centimetri. Gli occhi di mia madre erano di
un verde luminoso, ammorbidito attorno agli angoli dalla tristezza, dalla paura o forse dalla rabbia.
Quando la vidi mi sciolsi. Chiusi gli occhi, ma le lacrime continuarono a scorrere oltre quella
barriera.
«Va tutto bene, tesoro», disse, stendendosi sul letto con me. Ben presto le sue braccia mi
circondarono interamente. Mi strinse forte, avvolgendomi nella solidità e nella sicurezza del suo
amore materno. «Sono qui.»
Restammo così, io accoccolata addosso al corpo di mia madre, e respiravamo in sincronia, come
probabilmente facevamo quando ero ancora una neonata che doveva imparare a respirare, che
doveva imparare il ritmo della vita.
«Mi dispiace», disse nel silenzio. «Capivo che c’era qualcosa che non andava, ma pensavo solo
che fossi stressata per via della tesi. Ecco perché volevo portarti a Parigi. Credevo che tu avessi
bisogno di rilassarti. Non mi sono resa conto...»
«Mi dispiace per Parigi», dissi. «Puoi farti rimborsare i soldi?»
Lei scosse la testa, come per dire che i soldi dovevano essere l’ultima delle mie preoccupazioni.
Poi la sua mano prese la mia e la tenne stretta, legandomi a lei per sicurezza come il gancio sulla
corda di un alpinista. «Sei viva. Grazie a Dio, sei ancora qui.» Mi guardò di nuovo negli occhi,
spostandomi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
«Non intendevo farlo, non sul serio.» La mia voce era roca, come preannunciato dall’infermiera.
Però era anche monotona, automatica, le mancava qualcosa che la rendesse umana. «Volevo solo
dormire, così ho preso le pastiglie. Poi ne ho prese altre. E alla fine non sono più riuscita a fermarmi.
Continuavo a inghiottire pastiglie.»
Era vero. All’inizio i sonniferi erano stati un’idea pratica. Volevo sfuggire al dolore, sperando che
mi sarei svegliata e tutto si sarebbe rivelato un incubo, che Mark mi avrebbe amato ancora e che non
fosse tornato con Meryl. Ricordavo di avere preso dalla boccetta una pillola dopo l’altra,
mettendomele sulla lingua, contandole a mente. Dieci. Undici. Dodici. Tredici. Quattordici.
Fino a che punto mi ero spinta? Non ricordavo. Ricordavo soltanto di aver visto Sylvia Plath sulla
spiaggia. Mi aveva forse ispirato a farlo, a uccidermi come aveva fatto lei?
Dalle mie ricerche sapevo che la Plath, sofferente di disturbo bipolare, si era suicidata all’età di
trent’anni infilando la testa in un forno saturo di gas. Molti davano la colpa del suo suicidio
all’infedeltà del marito, il poeta inglese Ted Hughes, ma Sylvia Plath aveva già tentato di togliersi la
vita. Quando studiava ancora allo Smith College, interamente femminile, aveva inghiottito quarantotto
pillole di sonniferi. In seguito da quell’esperienza aveva tratto La campana di vetro, l’unico romanzo
che aveva pubblicato.
La mamma mi strinse più forte. «Perché, Ruby?»
Se le avessi rivelato chi ero davvero – una donna senza morale e senza valori, una donna che va a
letto con un uomo sposato, il mio professore per di più –, temevo che mia mamma non mi avrebbe
più guardata con gli stessi occhi. Ci sarebbe stata una minuscola chiazza nera nelle sue iridi verdi,
un’ombra, una piccola sacca di delusione. Così le raccontai tutto, ma non di Mark. Le dissi che Heidi
se n’era andata, che mi ero sentita ansiosa, triste e depressa nelle ultime settimane, che dimenticavo
di chiudere la porta della mia stanza e raccoglievo oggetti a caso come i sassi, e che avevo avuto
un’insufficienza per la mia tesi, un lavoro a cui avevo dedicato sei mesi della mia vita.
«Magari la puoi riscrivere», suggerì lei, «riconsegnarla il prossimo semestre?»
Mi morsi un labbro. Ormai Mark doveva avere saputo la notizia, eppure non era venuto. Allora
compresi che le cose non sarebbero più state le stesse. Potevo tornare a essere semplicemente una
sua studentessa? Potevo tornare a Tarble, ora che tutti sapevano che avevo tentato di uccidermi?
Guardai mia madre nei suoi occhi dolci e pronti a perdonare.
«No», le dissi. «Mollo tutto.»
DICEMBRE
Ricordo che al liceo una ragazza l’aveva fatto. Era una cheerleader, il tipo della reginetta del
ballo studentesco. Aveva preso delle pastiglie – il Valium della madre – ed era finita al pronto
soccorso. E nei corridoi, a scuola, il giorno dopo ronzava una domanda scottante: voleva davvero
morire o non voleva più vivere? A quanto sembra, c’è una differenza. Nel primo caso il problema è
molto più profondo, il secondo è comprensibilmente associato alla reazione a un evento
traumatico.
Se non posso stare con Mark, se lui non mi ama più, non vedo a che cosa serva vivere. Nel corso
della nostra storia d’amore – forse ogni giorno che abbiamo trascorso assieme – m’immagino di
aver ritagliato un pezzo di me stessa, come se fosse una striscia di tessuto, e di averlo intrecciato
dentro, sopra e sotto di lui, così ora non c’è modo per me di sfuggire.
Siamo intessuti insieme.
Fa male. Fa male essere strappati alle cuciture, con ogni filo esposto, ogni fibra nuda. L’unico
modo di porre fine al dolore, l’unico modo per curarmi, è impedire al mio cuore di battere,
impedire ai miei polmoni di respirare, impedire al mio cervello di pensare.
Voglio morire. E non ho più voglia di vivere.
Non capisco la differenza.
9.
Dalla strada non vedevo il lago Michigan e non distinguevo il punto in cui il cielo nuvoloso
incontrava l’acqua plumbea, ma quel venerdì pomeriggio, man mano che mi avvicinavo al Tarble
College, avvertivo la sua presenza come se qualcuno mi stesse alle spalle. I peli delle braccia mi si
rizzarono e un alito freddo mi solleticò tra le scapole. La temperatura bassa e una pioggerellina
nebbiosa – caratteristiche di un autunno del Midwest come le foglie ramate – avevano appannato il
finestrino della mia Corolla e dovetti abbassarlo per vedere la scuola dalla strada.
Il campus di Tarble non copriva nemmeno un chilometro in lunghezza, ma se ne stava orgoglioso
sul suo promontorio che guardava il lago a est e la strada a ovest. Distante dalla strada principale e a
più di un chilometro dalla città, mi aveva sempre fatto pensare a un villaggio in miniatura all’interno
di una sfera con la neve: un mondo utopico protetto da una bolla di vetro.
Stringendo il volante con le nocche bianche, mi avvicinai all’ingresso principale della scuola. Non
sfoggiava un’inferriata o un cancello, ma solo una grande insegna di pietra circondata da aiuole di
crisantemi curati, stupefacenti schizzi di colore: giallo, arancione e rosso. D’istinto portai il piede al
freno ma non premetti il pedale, tenendo lo stivale sospeso a mezz’aria, i muscoli della gamba tesi.
Osservai i tergicristalli che spazzavano i finestrini davanti a me stridendo ogni volta che tornavano
indietro.
“Non devi farlo”, pensai.
“Vai a casa.”
“Vai a casa.”
“Vai a casa.”
Svoltai lo stesso, all’ultimissimo secondo, sbandando bruscamente sul vialetto del campus. Poiché
era l’inizio del weekend del Raduno e le lezioni erano ancora in corso, dovetti parcheggiare vicino
all’ingresso. Da lì per arrivare agli edifici accademici c’era una bella salita, che accelerava le
pulsazioni, ma mi godetti ogni passo, ogni boccata d’aria odorosa di sabbia, limo e gabbiani, prima
di perdere inevitabilmente il mio anonimato. Più avanti vidi una folla di studentesse che si
avvicinavano a Langley Hall – riconoscevo il loro incedere appesantito dagli zaini – e lo stomaco mi
schizzò in gola. “Perché qualche ragazza mi riconoscerà”, pensavo. “Qualche ragazza mi fermerà.
Qualche ragazza dirà: ‘E tu che cosa ci fai qui?’.” E allora, ancora prima che io potessi rispondere,
le sarebbe tornata la memoria e avrebbe piegato la testa da un lato con aria compassionevole, e
sarebbe calato il silenzio mentre lei m’immaginava con la camicia di forza. E io sarei rimasta lì
impalata e silenziosa in mezzo al brusio e al ronzio degli studenti, rimpiangendo di essere tornata.
Ed è in questo che risiede la differenza tra le parole e le azioni. Era sembrato tutto così semplice:
accettare l’invito di Heidi, che aveva insistito perché pernottassi nella sua camera per gli ospiti e non
in una stanza al motel Lakeview, chiedere a Craig il weekend libero, dire alla psicologa e mia madre
che ero entusiasta di ritrovare le mie vecchie amiche al Raduno di Tarble. Ma erano solo
chiacchiere, nient’altro che parole. Per me era facile parlare e non fare davvero. Ora che ero al
campus, nei pressi immediati della jeep di Mark al parcheggio della facoltà, del ponte rosso dove ci
incontravamo sempre, della spiaggia dove avevo visto Sylvia Plath e del pensionato in cui avevo
preso un’overdose di sonniferi, volevo incassare la testa nel corpo come una tartaruga. Per fortuna un
ombrello gigante – la mamma aveva controllato le previsioni del tempo e mi aveva ricordato di
portarne uno con me – mi nascondeva ai possibili sguardi e alle dita puntate mentre raggiungevo il
marciapiede principale e prendevo il ritmo della camminata delle altre ragazze.
Le voci, però, mi giunsero solo dopo pochi passi.
«L’hanno trovata sul pavimento», sussurrò una voce femminile.
«Si è tagliata i polsi?» chiese un’altra.
«Overdose», disse la prima. «Si è presa tutta la boccetta.»
«Perché l’ha fatto?»
«Perché gli altri lo fanno?»
Le voci, attutite dal rumore della pioggia, restavano intrappolate sotto la volta nera del tessuto
dell’ombrello e mi ronzavano intorno alla testa come uccellini cinguettanti in un cartone animato.
Però io continuai a camminare con il pilota automatico, le gambe ben piantate a terra e determinate,
ma la mente lontana e galleggiante. Strinsi la presa sul manico dell’ombrello.
“Stanno parlando di me”, pensai. “Stanno già parlando di me.”
«State parlando di Julie?» chiese una terza voce.
Allora mi voltai e vidi quattro studentesse che camminavano dietro di me in una massa compatta
come un iceberg, le spalle ricurve e le teste chine in un inequivocabile scambio di pettegolezzi.
Grazie agli spruzzi di pioggia e alla brezza che soffiava dal lago, nessuna di loro mi vide sbirciare
da sotto l’ombrello. Avevano gli occhi incollati al marciapiede mentre sfidavano le forze della
natura con la sommità del capo incappucciata dalla felpa.
«Avete sentito?» rispose la prima ragazza.
«Hanno sentito tutti», s’intromise una quarta.
Inclinando indietro l’ombrello scrutai le studentesse che occupavano il marciapiede davanti a me.
Anche loro formavano dei capannelli, facevano comunella e sembrava che si sussurrassero qualcosa
mentre andavano in classe. La pioggia costituiva solo metà del rumore di fondo, l’altra metà era il
loro mormorio mentre si scambiavano dicerie su Julie.
Julie, Julie, Julie.
Ovviamente, era il giorno dopo.
Quando scrollai l’ombrello all’interno dell’atrio di Langley Hall, i mormorii si smorzarono fino a
diventare un basso ronzio sonoro. Lo spazio era animato da un sacco di persone: studentesse, ex
allieve e personale docente, tutti rossi in viso, tesi per l’eccesso di sorrisi. Perlustrando l’atrio vidi
Heidi dietro un tavolo con una tovaglia rossa, sotto uno stendardo che recitava BENVENUTE
ALLIEVE DI TARBLE. Era esattamente come la ricordavo, e non c’era da aspettarsi altro, dopo soli
dieci mesi. Eppure il tempo era passato con grande lentezza per me – mi erano sembrati più dieci
anni – e, in qualche modo, mi aspettavo che avesse un aspetto diverso e fosse più vecchia, cambiata.
Invece aveva ancora i capelli tagliati in un carré liscio che incorniciava il volto tondo, la pelle
naturalmente rosea e fresca, gli occhi di un marrone accattivante.
Solo il suo sorriso socievole e il suo spirito allegro erano spariti. Persino da lontano aveva
un’aria stranamente severa e una ruga le sormontava le sopracciglia. Quella ruga sembrò diventare
più profonda quando vide che mi avvicinavo al tavolo.
«Ruby.» Diede la cartelletta alla sua collaboratrice annoiata, con il nome su una targhetta, che era
al suo fianco. «Sei qui. Di già.»
«Avevo detto all’una, no?»
«Certo, certo che sì.» Afferrandomi per le spalle, mi allontanò di parecchi passi dal tavolo. Le
suole bagnate dei miei stivali marrone stridevano sul pavimento lucidato di recente. «È molto bello
vederti.»
Allora mi abbracciò, stringendomi più a lungo del necessario, come se dovessimo congedarci
invece che salutarci. Mi strinse così forte che il mio naso affondò nella lanugine rossa del suo
maglione di cashmere e sentii un profumo di pompelmo. Doveva averne mangiato uno a pranzo.
«Com’è andato il viaggio?» mi chiese dopo il nostro abbraccio.
«Bene.»
Vide l’ombrello. «Piove, vero? Sta ancora piovendo? Speravo davvero che il tempo migliorasse.»
Le appoggiai una mano sulla spalla per placare il suo chiacchiericcio nervoso e sconnesso.
«Heidi, lo so.»
In un primo momento inclinò la testa, come per mentire, poi esalò un respiro profondo, come se si
fosse rassegnata a dire la verità. Il tono di voce aumentò di un’ottava. «Sul serio?»
«Questa Julie», fu tutto quello che dissi.
Lei sospirò. «Stavo per dirtelo, però più tardi, quando ti fossi sistemata.»
«Che cosa è successo?»
Prima di continuare Heidi spostò la nostra conversazione a un altro mezzo metro dal tavolo.
«Julie Farris», disse sottovoce. «È una studentessa del primo anno. Una ragazza sveglia, dolce. La
sua referente interna l’ha trovata priva di sensi a notte fonda. Accanto a lei sul pavimento c’era una
boccetta vuota di Tylenol. Sta bene. Almeno, è viva. È al Kenosha General Hospital. Dicono che più
tardi la trasferiranno in psichiatria.»
Trasalii. Era lo stesso reparto in cui sarei stata ricoverata io in dicembre, se mia mamma non
avesse chiesto che venissi trasferita all’ospedale di Oak Park dove lavorava lei.
Allora Heidi mi afferrò per un gomito, come se fosse una maniglia e avesse paura che scappassi.
«Come l’hai saputo?»
«Le notizie corrono in fretta a Tarble, ricordi?»
«Mi spiace molto, Ruby», si lasciò andare Heidi. «Se avessi saputo che stava per succedere, non
avrei mai…»
«Non mi avresti mai chiesto di venire?»
Mi prese la mano e me la strinse. «Volevo che fosse tutto perfetto.»
«Non c’è problema», mentii. «E tu, come va?»
Heidi si strofinò l’angolo di un occhio. «Sono esausta. Sono in piedi dalle quattro di stamattina
a… spegnere incendi. Non poteva accadere in un momento peggiore. Oltre a tutti gli eventi legati al
Raduno, che devono svolgersi senza intoppi nonostante la pioggia – per non parlare della veglia che
stiamo preparando per Beth –, la rettrice Monroe mi ha messo a controllare i danni. A quanto pare,
qualcuno ha spifferato delle informazioni a uno stronzo di cronista del “Kenosha Sentinel”, che ha
chiamato facendo domande capziose, e ora tocca a me assicurare ai finanziatori e alle ex allieve che
Tarble non è terreno di coltura per…»
«Per la pazzia?»
Scrollò la testa. «Non è una cosa che succede tutti i giorni. È successa solo due volte.»
Due volte, e io ero stata la prima.
«Forse è meglio che me ne vada», dissi.
«Ma perché?»
«È strano, no? Una studentessa tenta di uccidersi la sera prima del mio ritorno al campus? Non
voglio dare sensazioni strane a nessuno.»
«Nessuno avrà sensazioni strane. E se sì, allora sarà perché è strano lui», ribatté Heidi. «Anzi, è
un bene che tu sia qui. Voglio dire, guardati: sei la dimostrazione che la vita continua. La gente
guarisce. La gente migliora. Non sei marchiata a vita. Adesso stai perfettamente bene.»
“Sembra solo che io stia bene.”
«Ti prego, resta», m’implorò Heidi. «Ti prego! Non vedevo l’ora che arrivasse questo fine
settimana per ordinare una pizza al salame e ai peperoni verdi, guardare Colazione da Tiffany e
mangiare cioccolatini alla menta tirati fuori dal freezer. Sono dovuta andare a caccia di una Scout per
trovarli e non è stato facile.»
Sorrisi all’elenco che Heidi aveva fatto delle nostre cose preferite e per come si era preparata
diligentemente al mio arrivo. Ce l’aveva messa tutta, compiendo un grande sforzo per accogliermi al
campus, di nuovo nella sua vita. Come potevo andar via? E perché avrei dovuto? “È una
coincidenza”, pensai. Quello che era successo all’intelligente e dolce Julie Farris non aveva nulla a
che fare con me.
«Pizza e cioccolatini alla menta, eh?» Finsi di rimuginare. «D’accordo, resto.»
Heidi mi abbracciò ancora. «Fammi prendere la targhetta con il tuo nome.»
Si diresse al tavolo e io la seguii. La osservai acchiappare un’etichetta adesiva bianca da un mare
di altre identiche e appiccicarmela sulla maglietta.
Abbassando lo sguardo, vidi il mio nome in Garamond corsivo e l’anno della mia classe, anche se,
tecnicamente, non mi ero laureata.
«Perché dobbiamo indossare le targhette con i nomi?»
«La rettrice Monroe dice che ti fa sentire importante e bene accetta.» Lisciò gli angoli della mia
targhetta che si arricciavano all’insù. «E se ti senti importante e bene accetta, ti divertirai un sacco. E
se ti divertirai un sacco, è più probabile che tu faccia una donazione. Tutto gira attorno alle
donazioni.»
Premetti di nuovo la targhetta dopo che l’aveva già fatto Heidi, pensando che non servisse a niente.
Tutti sapevano già chi ero: la ragazza che aveva tentato di uccidersi. E, adesso, quella che l’aveva
fatto l’anno prima.
Notai che il colore delle mie lettere era diverso. «Perché la mia è in verde?»
«Il colore dipende dalla materia del tuo indirizzo. È un altro modo per farti sentire speciale.» Mi
fece l’occhiolino. «È anche un modo per valutare il numero di persone che oggi pomeriggio
assisteranno alle lezioni. Ai professori piace sapere che cosa aspettarsi, per le fotocopie eccetera.»
«Alle lezioni?»
«Non ti ricordi che per i Raduni le ex allieve partecipavano alle lezioni, in onore dei vecchi
tempi? Non è passato molto tempo per te, ma quelle che si sono laureate vent’anni fa lo trovano
divertentissimo.» Prese la cartelletta dalla sua collaboratrice e vi diede una scorsa. «Sembra che le
tue opzioni siano letteratura inglese con Suter o letteratura americana con Barnard.»
Mi sentii stringere lo stomaco. “Mark è qui. In quest’edificio. A pochi metri di distanza.”
Aprii la bocca per dire che volevo saltare tutta questa storia delle lezioni quando qualcuno ci
interruppe: «Ho sentito il mio nome? È per questo che mi fischiano le orecchie?».
Mi girai e vidi una donna che indossava un vestito scampanato di un blu vivace, con una cintura
che le stringeva la vita sottile. Una crocchia raffazzonata le teneva i capelli biondi – con un paio di
centimetri di ricrescita castana – lontano dal viso.
«Professoressa Barnard», disse Heidi. «Ruby, ti stavo parlando di Virginia Barnard… È nuova a
Tarble, da quest’anno. Insegna letteratura americana, teoria femminista e studi di genere.»
«Ottima memoria.» La professoressa protese la mano, ma all’improvviso la ritrasse, pulendosi
sulla gonna quello che sembrava gesso. Poi la protese una seconda volta. «Virginia Barnard», ripeté.
«Assistente di inglese. E tu sei…» Lesse il mio nome sulla targhetta. «Ruby Rousseau. Splendida
allitterazione.»
I nostri sguardi s’incrociarono e io trovai quella donna raffinata, affascinante e calorosa. E
immediatamente familiare, come una cugina che non avessi visto da tempo, ma che non potevo
dimenticare. Dimostrava intorno ai trentacinque anni e sembrava più giovane della maggior parte dei
docenti di Tarble. Aveva zigomi tesi e un mento deciso. Le sopracciglia erano folte, di una sfumatura
più scura della radice dei capelli. Su di me fece complessivamente un grande effetto. Mi colpiva. Le
labbra erano color succo di lampone, non Max Factor. La sua mise – aveva combinato il vestito di
tela con degli stivali e massicci orecchini di mogano – la faceva quasi sembrare una zingara, il
genere di donna che predice il futuro e le sorti dalla sua capanna ai margini del villaggio.
«Vedo che ti sei laureata di recente», disse la professoressa Barnard, strizzando gli occhi per
leggere la mia targhetta.
Sbirciai l’anno di laurea sulla targhetta, una menzogna palese. «Ah sì, in un certo senso.»
Heidi mi salvò da ulteriori imbarazzi. «Stavo appunto spiegando a Ruby quali lezioni può
frequentare oggi pomeriggio.»
La professoressa sorrise. «Be’, sarei onorata di averti in classe da me oggi. Dovevamo discutere
del Senso comune di Thomas Paine, ma ho in serbo qualcos’altro. Però non lasciarti influenzare nella
tua decisione», proseguì. «Ho sentito che Mark Suter è eccellente. L’hai avuto quando studiavi qui?»
Annuii, sperando che il sangue non m’imporporasse le guance al sentire il suo nome.
«È bravo come dicono?» chiese.
Le guance mi s’incendiarono lo stesso. Avevo la gola secca. «Non è male», riuscii a dire. «Ma la
sua lezione sembra interessante. Letteratura americana?»
«Sì, le tue idee potrebbero tornarmi utili. Come te la cavi con la poesia?»
«Scriverla o leggerla?»
«Analizzarla», disse.
«Me la cavicchio.»
«Non le dia retta», s’intromise Heidi. «Fa la modesta.»
«La modestia è una qualità molto apprezzabile», disse la professoressa. «Vieni con me?»
Guardai Heidi.
«Vai pure», disse. «Devo lavorare un’altra ora a questo tavolo.»
Chiacchierando del più e del meno, la professoressa Barnard e io salimmo la scala a chiocciola di
Langley Hall che portava al primo piano, aula L219, la stessa dove avevo seguito il seminario
dell’ultimo anno con Mark. Con mano gentile ma ferma mi condusse in classe e mi disse di trovare un
posto libero mentre lei svuotava la borsa alla cattedra.
Occupai il posto più vicino alla porta e osservai le altre che entravano in fila nella stanza, notando
quali erano le ex studentesse e quali le nuove. La donna corpulenta che indossava una felpa di Tarble
rosso squillante, nuovissima, era appena uscita, ovviamente, dal negozio del campus.
Le ultime a entrare furono tre ragazze, ognuna delle quali portava al fianco il cartello di un
picchetto, con delle scritte in pennarello nero sul cartone inchiodato a dei bastoni di legno. Li
appoggiarono a testa in giù contro il muro della classe. Quello che riuscii a leggere recitava IL
SILENZIO È CONSENSO, in grassetto e a lettere maiuscole.
“Il silenzio è vergogna”, pensai.
La professoressa Barnard corse a parlare con la più alta delle tre, quella i cui capelli formavano
due trecce bionde e che aveva ancora un megafono.
«Tia», le disse. «Oggi sei scusata. Perché non sei ancora nel boschetto?»
Tia si soffiò via dagli occhi i capelli, che però ricaddero sullo stesso punto. «La rettrice Monroe
ha minacciato di chiamare la polizia. E i miei genitori dicono che non posso farmi arrestare di
nuovo.»
Una ragazza con la coda di cavallo nella seconda fila interruppe la loro conversazione privata.
«Non posso credere che siate andate là oggi», disse. «Non avete cuore, non avete compassione, non
avete decenza?»
Tia si accigliò. «Julie non vorrebbe che abbandonassimo la causa per colpa sua.»
Julie. Drizzai le orecchie.
«È perfettamente inutile», replicò l’altra. «Non cambierà nulla. Sappiamo tutti che il consiglio ha
già deciso. Perché continuate ad andarci?»
«Perché il silenzio è consenso.» Uno spruzzo furente di saliva schizzò dalla bocca di Tia.
«Ammettendo gli uomini a Tarble vogliono eliminare noi, le nostre abitudini e il nostro stile di vita.
Se restiamo zitte, approviamo le loro azioni. E come gli antichi matriarcati, siamo destinate a
scomparire. Le nostre tradizioni si perderanno per sempre.»
«Ma non sono le nostre tradizioni», ribatté la ragazza con la coda di cavallo. «Sono le tradizioni
delle donne che frequentavano Tarble un secolo fa, quando non avevano alternative se volevano
studiare. Oggi le ragazze non hanno bisogno di un college femminile per sfondare nel cosiddetto
mondo degli uomini. Le donne lavorano come medici, avvocati e scienziati. Sono leader. Voglio dire,
guardate Hillary Clinton.»
«È andata a Wellesley», osservò Tia.
La ragazza sospirò. «Va bene, ma noi abbiamo scelto di venire qui, preferendo questo posto ai
college misti che ci avrebbero accettate su un piano di parità con gli studenti maschi.»
«Parità?» sbottò Tia. «Vivi nel paese dei sogni, Becca.»
«No, ci vivi tu, se pensi che Tarble possa sopravvivere nel XXI secolo senza ammettere gli
uomini.»
«Ragazze, basta così!» interruppe la professoressa Barnard intromettendosi fra le due. «Fate un bel
respiro e tornate ai vostri posti.»
Mentre le ragazze si sedevano di malavoglia, la professoressa si avvicinò alla lavagna. Ascoltai
con piacere il rumore del gesso che scivolava sulla superficie nera e opaca. L’aula L219 era una
delle poche a Tarble che ancora avevano una vera e propria lavagna. Le altre erano state rinnovate e
provviste di lavagne bianche prive di ogni romanticismo, a mio avviso. La professoressa Barnard se
la prese comoda a scrivere le parole Non m’importerà con una calligrafia curva. Sottolineò due
volte il titolo prima di girarsi verso di noi.
«Sara Teasdale vi dice qualcosa?» chiese alla classe.
Ovviamente conoscevo Sara Teasdale. La poetessa americana si era suicidata nel 1933. Come me
e Sylvia Plath, aveva preso un’overdose di sonniferi.
Dopo qualche cenno con la testa e qualche scrollata di spalle delle studentesse, la professoressa
continuò. «All’inizio del Novecento la Teasdale era una poetessa molto popolare. I critici
l’amavano, così come il pubblico. Successivamente, però, i critici cominciarono a ignorare le sue
opere. La ritenevano troppo timida e educata.» Prese una pila di fogli dalla scrivania e iniziò a
distribuirli, leccandosi di tanto in tanto un dito per prendere le pagine, come fa la maggioranza degli
insegnanti.
Becca alzò la mano. «Pensavo che oggi avremmo parlato del Senso comune.»
La professoressa Barnard fece un sorriso furbo alla ragazza. «Questo è più attinente», si limitò a
dire.
Ecco le discipline umanistiche in tutto il loro splendore. Le studentesse erano entrate in classe
aspettandosi una lezione sul Senso comune di Paine e l’argomento era stato cancellato per un
capriccio. Ripensando alla mia esperienza universitaria a Tarble, non avrei saputo contare le volte in
cui il programma delle lezioni era cambiato per le fisime di uno dei docenti. Se il sole splendeva in
un giorno di primavera sorprendentemente caldo, facevamo lezione sul prato dell’università. Se le
notizie riportavano qualcosa d’importante, parlavamo di quell’evento e non delle pagine di Chaucer
che avevamo letto restando alzate fino alle due di notte.
Quando i fogli furono distribuiti, lo sguardo della professoressa cominciò a rimbalzare per tutta la
stanza. «Bene, una delle nostre coraggiose ex allieve vuole cimentarsi nella lettura?»
La donna corpulenta si rannicchiò dietro al suo banco.
Gli occhi della professoressa incrociarono i miei. «Ruby?»
Abbassai lo sguardo sul foglio, sentendomi gli sguardi di tutti puntati addosso, in attesa che io
parlassi. Le parole nere balzarono fuori dal bianco accecante della pagina quando mi misi a leggere:
Quando sarò morta e il luminoso aprile
sopra me scrollerà le chiome madide di pioggia,
se pure su di me ti chinerai dolente,
non m’importerà.
Avrò pace come sono pacifici gli alberi frondosi,
quando la pioggia incurva il ramo,
e sarò più silenziosa e fredda
di come tu sei ora.
Tia parlò per prima. «È una lettera d’addio, prima di un suicidio», disse.
La professoressa Barnard si appoggiò al bordo della cattedra. «Che cosa te lo fa dire?»
«La scelta delle parole: Quando sarò morta e sopra me. M’immagino un cimitero in una giornata
piovosa di primavera. Voglio dire: dove altro puoi essere morta sotto la chioma di un albero?»
«E le altre? Anche secondo voi è una lettera d’addio?»
Non rispose nessuno.
«Allora?» insistette la professoressa.
Becca alzò di nuovo la mano e l’insegnante le diede la parola, apparentemente seccata dalla
formalità. La ragazza si girò nel suo banco per rivolgersi alla maggior parte delle presenti.
«Credo di parlare a nome di tutta la classe quando dico che questa conversazione mi mette a
disagio», esordì. «È poco appropriata, considerando… quello che è successo.»
La classe fu tutta una serie di teste che si voltavano e di occhiate laterali.
«Considerando quello che è successo, è assolutamente appropriata», ribatté la professoressa
Barnard. «So che tutti, compresa l’amministrazione, vogliono far finta che la scorsa notte non sia
successo nulla. Infatti mi hanno intimato di non parlarne con voi e di tenere la lezione nonostante
questo enorme elefante in classe. Il weekend del Raduno dovrebbe essere divertente. E non possiamo
divertirci se viviamo nella realtà, vero? Fatto sta, però, che la scorsa notte una ragazza ha rischiato
di morire. Si è quasi tolta la vita. E tutti stiamo pensando solo a questo, oggi. Vuoi il Senso comune,
Becca? Il senso comune ci impone di elaborare i nostri pensieri e i nostri sentimenti. E quale modo
migliore per farlo se non leggendo poesie?» Si schiarì la gola. «Allora, rifaccio la domanda. Pensate
che la poesia della Teasdale sia una lettera d’addio?»
Parecchie studentesse si agitarono nei loro banchi, me compresa.
«No», rispose infine Becca.
«Perché no?»
«È una fantasia. S’immagina soltanto come sarebbe se fosse morta.»
«In tal caso, avrebbe detto se», controbatté Tia. «Invece lei dice quando.»
Becca rifletté su questo aspetto. «Però non sembra depressa. Sembra piuttosto arrabbiata, cerca
vendetta. Non vuole morire, vuole solo farlo sentire male per come l’ha trattata. Vuole che lui soffra.
Vuole che s’inginocchi accanto alla sua tomba dolente.»
«Lui?» La professoressa incrociò le braccia. «Perché dai per scontato che sia un uomo? Potrebbe
parlare di una donna. Sua madre, sua sorella, un’amica.»
Becca scrollò la testa. «È troppo arrabbiata. Una donna non può fare arrabbiare così un’altra
donna. Solo un uomo ha il potere di suscitare simili sentimenti di scoraggiamento.»
«Ah, davvero? E se fosse lesbica?» chiese Tia.
Becca roteò gli occhi. «Lo era?»
«Non che si sappia», intervenne la professoressa. «Era sposata, anche se poi lei e il marito
divorziarono.»
«D’accordo, per essere politicamente corretta riformulo la frase», proseguì Becca. «Parlo di
amore romantico. Questo è il genere di amore che ci rende più vulnerabili, quello che ci fa
arrabbiare e ci rende vendicative. E siccome sappiamo che l’autrice era eterosessuale, presumo che
il tu nella poesia sia un uomo.»
«Così va meglio», notò la professoressa. «Adesso sentiamo le altre. Becca ha ragione? L’autrice
sembra arrabbiata? E l’amore romantico è l’unica fonte possibile di una simile collera?»
«È certamente arrabbiata», intervenne una studentessa. «Vuole essere più silenziosa e fredda.»
«Io non vi vedo rabbia», disse un’altra. «Vedo…»
«Rassegnazione.» Non era mia intenzione inserirmi nella discussione, ma la parola mi sfuggì di
bocca.
La professoressa Barnard venne verso il mio banco con la mano protesa. «Puoi spiegarti meglio,
Ruby? Leggi di nuovo la poesia. Dove vedi la rassegnazione?»
Abbassai gli occhi sulla pagina. «Nella parola pace», dissi. «Vuole la pace. La pace della mente.
La pace del cuore. Come il ramo dell’albero, che la pioggia piega all’ingiù, vuole soccombere.
Vuole sentirsi stordita. Vuole rinunciare. Non vuole provare più interesse. Non m’importerà. Non
credo che sia arrabbiata. Forse lo è con sé stessa, ma non con lui. È sconfitta. Vuole sfuggire al
dolore che lui le ha inflitto e l’unico modo per farlo è…» Alzai lo sguardo verso il resto della classe
e deglutii. «Morire.»
La professoressa sfoderò un sorriso serio. «Ben detto.»
Mentre la conversazione continuava – parecchie altre studentesse espressero la loro opinione sulla
poesia di Sara Teasdale – io mi isolai e i miei pensieri soffocarono le loro voci. Le mani mi
tremavano dopo quello che avevo detto, condividendo un’istantanea della mia anima con delle
perfette sconosciute.
«Non è una lettera d’addio», dichiarò la professoressa quando la discussione si smorzò. «È vero
che la Teasdale si suicidò, ma pubblicò questa poesia molto prima di togliersi la vita. Tuttavia credo
che possiamo concordare tutte sul fatto che nella sua scrittura c’è una buona dose di premonizione.»
«E come si è uccisa?» chiese una studentessa all’insegnante.
«Sonnifero.»
«Non è quello che ha preso anche Julie?» chiese un’altra studentessa.
«Era Motrin», disse Becca.
«Tylenol», la corresse Tia.
«Ho sentito che si è anche scolata una bottiglia di Jim Beam», aggiunse un’altra delle contestatarie.
Rimasi impressionata dalla velocità con cui la conversazione si era trasformata in pettegolezzo e
dallo zelo con cui le studentesse parlavano del tentato suicidio di Julie una volta che la professoressa
Barnard aveva concesso loro di farlo.
«La mia compagna di stanza mi ha detto che l’anno scorso un’altra ragazza ha tentato di uccidersi»,
annunciò una studentessa in ultima fila. «Forse ha voluto imitarla.»
Mi sentii una stretta al petto. Parlavano di me, proprio davanti a me, senza nemmeno saperlo. Io
guardai la professoressa Barnard, sperando che le zittisse, ma lei rimase lì con le braccia incrociate
a osservare la conversazione che si dipanava.
«Forse è positivo che Tarble diventi un’università mista», disse Becca. «Ci sono troppi estrogeni
che intasano l’aria. Forse è questa la causa dell’epidemia e del perché le ragazze di Tarble cercano
di farsi fuori.»
«Due casi non sono un’epidemia», replicò Tia.
«Be’, quante ce ne vogliono per ammettere che c’è un problema?» chiese Becca a tutta la classe.
«Tre? Quattro? Dieci?»
Un’altra studentessa stava per rispondere alla domanda di Becca quando intervenne la
professoressa Barnard.
«Se da un lato penso che sia salutare discutere di questo argomento, credo anche che sia
fondamentale la sincerità», disse, ritornando alla cattedra. Aprì un cassetto scricchiolante ed estrasse
una pila di quaderni blu. «Forse un esercizio di scrittura è quel che ci vuole.»
Il compito assegnato dalla professoressa Barnard era semplice: dovevamo scrivere la nostra
interpretazione della poesia. Se volevamo divagare e parlare per esempio dell’epidemia di suicidi a
Tarble, o riflettere su un periodo in cui eravamo così disperate che avremmo potuto toglierci la vita,
eravamo libere di farlo. Non c’erano regole, disse.
Scrivere e basta.
Non appena ebbe finito di darci le istruzioni, il silenzio calò sulla classe e le ragazze chinarono la
testa per lavorare. La professoressa Barnard venne verso di me con un quaderno blu in una mano e
una biro nera nell’altra. Posò i due oggetti sul mio banco.
«Vuole che anch’io faccia il tema?»
«Prometto che non ti do un voto.»
Guardai la porta. La donna corpulenta che indossava la felpa di Tarble se ne stava andando. «Non
è un segnale perché vada via anch’io?»
Lei si sedette al banco vuoto accanto al mio, come a volte una cameriera si siede in un séparé
mentre prende un ordine, e indicò il quaderno blu. «Ti farebbe star male provarci?»
Riflettei sul tema. «Sì.»
«Si chiama rischio, Ruby. E scrivere senza correre rischi non significa scrivere.»
«Ma non so da dove cominciare.»
«Comincia in medias res», disse la professoressa Barnard. «Comincia ora.»
Detto questo, si allontanò.
Io fissai il quaderno blu, girai la copertina, e fissai ancora un po’ la pagina bianca, poi, con
riluttanza, avvicinai la penna alla carta.
L’inchiostro sanguinò sulla pagina.
A Heidi raccontai i dettagli della lezione con la professoressa Barnard solo più tardi quella sera
stessa, quando eravamo a metà di Colazione da Tiffany.
«Sembra proprio che ti abbia preso in simpatia.» Heidi alzò e abbassò le sopracciglia parecchie
volte come Groucho Marx. «Non mi sorprende. Pare che le piacciano quelle intelligenti.»
«Che cosa vuoi dire?»
Heidi si strinse nelle spalle, con fare scherzoso, come se sapesse esattamente che cosa voleva
dire. «Sei proprio il suo tipo, tutto qui.»
«Il suo tipo?» Allora compresi quello che Heidi stava insinuando. «Intendi che è…?»
«Non ha fatto coming out o niente di esplicito, ma insegna studi di genere.»
«Heidi Callahan», la canzonai. «Non sei cambiata neanche un po’. Solo perché insegna studi di
genere non significa che sia lesbica.»
«Le ultime due docenti prima di lei lo erano. Inoltre non è sposata. Poi è la referente per quelle
studentesse che protestano, e almeno tre di loro fanno parte dell’associazione LGBT del campus. Il
calcolo delle probabilità mi dà ragione. Voglio dire, non che m’importi. Non ci sarebbe niente di
male.»
Sapevo che Heidi non era omofoba – la sua zia preferita, la sorella di sua madre, era
dichiaratamente lesbica – ma senza volerlo alimentava la concezione errata che la maggior parte
delle persone ha delle università femminili, ovvero che siano una specie di culla dell’amore lesbico
per studentesse e insegnanti. Quando c’erano in ballo questioni di sessualità, io adottavo sempre
l’atteggiamento di Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé: «Non arrossite. Ammettiamo che
nell’intimità della nostra società queste cose a volte accadono. A volte le donne amano le donne».
Ripensai al mio incontro con la professoressa Barnard avvenuto in giornata. Era stata gentile,
rispettosa, incoraggiante. Possibile che avessi interpretato male la sua attenzione? Ci stava provando
con me, in uno strano modo da insegnante di cui io, troppo distratta, non mi ero accorta?
Stavo per chiedere a Heidi che cosa sapesse di certo riguardo alla Barnard – di dov’era? Dove
altro aveva insegnato? – ma fui messa a tacere da un colpo deciso alla porta d’ingresso. Lei aprì con
apprensione, pensando che una delle sue vicine avesse chiamato l’amministratore per denunciare
rumori molesti durante la nostra esecuzione di Moon River. Invece era Sarah Iverson, la ex compagna
di stanza di Beth. Aveva i capelli flosci per via della pioggia. Riconobbi immediatamente
l’espressione vacua della ragazza, come se la sua mente fosse lontana, imprigionata dal rimpianto.
Sarah sembrò notare come prima cosa i nostri pantaloni del pigiama. «Mi spiace intromettermi
così», disse, «ma ho appena scoperto…» Mi guardò e le spalle le crollarono. «Oh, Ruby», disse,
prima di mettersi a singhiozzare sulla mia spalla.
«Va tutto bene», dissi, anche se sapevo che non era vero. La sua migliore amica era morta,
probabilmente. Era solo questione di tempo prima che la verità saltasse fuori. Però la lasciai
piangere sulla mia camicetta finché non la sentii prendere fiato tra un singhiozzo e l’altro. Nel
frattempo Heidi aveva spento il televisore.
Quando Sarah smise di piangere e cominciò a tirare su con il naso, indicai il divano nel soggiorno
dietro di noi. «Ti va di parlare?»
Lei annuì e mi seguì. Si sedette adagio sul divano, come se non fosse sicura che potesse reggere il
suo peso, poi accettò un fazzoletto di carta dalla scatola che Heidi aveva messo con disinvoltura sul
tavolino davanti a lei.
«Vado a fare il caffè», annunciò Heidi, lasciandoci un po’ d’intimità.
«Cerco di non pensare al peggio», cominciò Sarah, con la voce che le tremava. «Però non riesco a
impedirmelo. E se… Dio, Ruby, e se Beth fosse morta?»
Appoggiai le mie mani sulle sue. «Dai, ancora non lo sappiamo.»
«Perché non ho visto niente nei notiziari?» Sarah inarcò le sopracciglia, serrò la mascella, come
varcando il confine sottilissimo tra dolore e ira. «Mi viene voglia di mettere insieme una squadra di
ricerca o di fare dei manifesti. Offrire una ricompensa.» Prese un altro fazzoletto dalla scatola e si
soffiò il naso. «Mi sento uno schifo. Non lo sapevo, finché non ho visto Jodie Schwerdtman al
Newton Center. Mi ha detto che tu avevi delle informazioni.»
«Heidi ti avrebbe detto tutto, ma voleva farlo di persona», spiegai. «E la mamma di Beth voleva
chiamarti subito, ma non aveva il tuo numero di telefono.»
Sarah si pulì il naso. «Non sapevo che tu e Beth foste amiche.»
Notai una punta di gelosia nel tono della sua voce. «Oh, Sarah. Non lo eravamo.» E le raccontai
tutta la faccenda della valigia.
«È strano soltanto che sia tu a sapere tutto. Voglio dire, io sono la sua migliore amica. O, almeno,
lo ero. Mi sento male. È da prima dell’estate che non ci parliamo.»
Mi riaccomodai sul divano. «Non parli con Beth da quando vi siete laureate?»
Lei annuì. «A essere sincera, non ci parlavamo nemmeno prima. Adesso mi sembra tutto così
stupido.»
«Non riesco a immaginarmi per che cosa potreste aver litigato.» Era una domanda mascherata da
affermazione e, dopo averlo detto, provai un vago senso di nausea. Era coercitiva.
«Per delle sciocchezze. Ragazzate.» Estrasse un altro fazzoletto dalla scatola. «Ho dato a Beth la
colpa di tutto, ma poi mi sono resa conto che era colpa mia. Ero gelosa.»
«Di Beth?»
«Del suo fidanzato.»
Deglutii. «Il suo fidanzato?»
«Un tizio. Uno più vecchio. Dico così perché una volta ha telefonato in camera da noi e sembrava
davvero vecchio, abbastanza da essere mio padre. A un certo punto le ho chiesto chi fosse; lei era
molto riservata, ma finalmente ha vuotato il sacco e mi ha detto che era un dottorando alla Marquette.
Mi ha raccontato di averlo conosciuto uno dei fine settimana in cui era tornata a casa, in una gelateria
o in una pizzeria, qualcosa del genere. In un primo momento ero felice per lei. So quant’è difficile
trovare dei ragazzi decenti da queste parti. Si finisce per uscire o con un tamarro di Kenosha o con
qualche idiota che si conosceva già al liceo. Andava sempre lei a trovarlo. Ci passava i weekend e,
qualche volta, anche le notti infrasettimanali. Era come se non avessi più una compagna di stanza.»
«L’hai mai incontrato?»
«Dio mio, no. Non voleva nemmeno dirmi il suo nome. Non erano fatti miei con chi usciva. Era lui
il motivo per cui ci stavamo allontanando l’una dall’altra. Io davo la colpa a lui.»
«È comprensibile», dissi, rendendomi conto di quanto dovesse essersi sentita sola Heidi mentre io
stavo con Mark.
«Ma non valeva la nostra amicizia», proseguì Sarah. «Abbiamo fatto una litigata clamorosa prima
delle vacanze invernali e da allora non ci siamo quasi più rivolte la parola, se non per dirci
stupidaggini come: “Ehi, quand’è che lavi la biancheria?” oppure: “Ehi, hai usato il mio shampoo?”.
Era una brutta situazione e…»
«Scusa, ma hai appena detto vacanze invernali?»
Lei annuì.
«Ne sei sicura?» chiesi.
Sarah socchiuse gli occhi, come se io non avessi motivo di mettere in dubbio la sua memoria. «Ne
sono assolutamente certa. Usciva la mattina presto per il corso di letteratura inglese e non tornava
fino a dopo cena, a volte non prima di mezzanotte. Io ho cominciato a cenare con Jodie
Schwerdtman.»
«Letteratura inglese», dissi, cercando di mandar giù un groppo in gola. «Era con Mark Suter?»
Annuì. «E poi le cose hanno cominciato a peggiorare. Ero scocciata perché mi aveva promesso
che potevo usare la sua macchina per fare le mie ore di affiancamento in aula nel secondo semestre.
Però a un certo punto mi ha accusato di avergliela graffiata. Qualche stronzo le ha rovinato la
portiera dalla parte del passeggero, e lei ha dato la colpa a me. Sono dovuta andare a comprare una
merdosa Escort usata.»
Mi vennero le vertigini e dovetti aggrapparmi al cuscino del divano in cerca di appoggio. «Che
auto guidava Beth?» chiesi.
Sarah arricciò il naso, come se non riuscisse a capire che importanza aveva. «Una Jetta.»
«Di che colore?»
Fece una pausa, ancora confusa dalle domande fuori tema.
«Nera.»
Con il proverbiale senno di poi mi tornò in mente quella fredda notte di dicembre. Era Beth le cui
curve avevo intravisto quella notte attraverso la finestra della casa di Mark. Beth a cavalcioni di
Mark sul divano. Era la macchina di Beth parcheggiata fuori dalla baita quella notte, non quella di
Meryl.
«Senti, sapevo che non saremmo diventate delle vecchie zitelle che vivono insieme», disse Sarah,
riprendendo il tema della conversazione, «però non avrei mai pensato che avremmo permesso a un
ragazzo di intromettersi tra noi.»
Io però non la stavo più ascoltando: all’improvviso sapevo perché Mark e Beth mi
ossessionavano, perché non avevo mollato l’osso, perché avevo accettato di tornare a Tarble.
Inconsciamente avevo sempre saputo la verità, sepolta sotto la convinzione superficiale che la
relazione tra Beth e Mark avesse avuto luogo mesi dopo che lui aveva rotto con me, solo dopo che gli
sforzi per salvare il suo matrimonio erano falliti. Sapevo, in fondo in fondo, che Mark non aveva
nemmeno tentato di aggiustare le cose con Meryl.
Mi aveva piantato per Beth.
E in una frazione di secondo Beth Richards non fu più la ragazza carina che stava sul mio stesso
piano e che mi aveva prestato la valigia. Non fu più la figlia di Janice o la fotografa intellettuale.
Non fu più la donna giovane e bella la cui vita era stata spezzata da un serial killer.
Era l’altra donna.
10.
Sabato mattina il tragitto dall’appartamento di Heidi al campus sembrò durare molto più di due
minuti, soprattutto perché mi sentivo i suoi occhi addosso quando non guardava la strada o il
tachimetro. Heidi aveva passato tutta la mattina a sorvegliarmi come una chioccia mentre cucinava
french toast per colazione e mentre guardavamo il notiziario mattutino del fine settimana. Sapeva che
la conversazione con Sarah mi aveva innervosito. Glielo leggevo nel sorriso a labbra tese e negli
occhi pensierosi.
«Allora?» disse infine.
«Allora cosa?»
«Che cosa ne pensi del caffè?»
Abbassai lo sguardo sulla tazza da asporto rosa – contributo alla lotta contro il cancro al seno –
che mi aveva dato prima che uscissimo di casa. In realtà mi ero dimenticata di averla in mano. Stavo
pensando ancora a quello che mi aveva detto Sarah la sera prima.
Bevvi un sorso. «È buono.»
«Hai notato l’aroma?»
«Vaniglia?»
«È nocciola», sbottò. «Non devo avercene messa abbastanza. Pensavo che l’avresti notata subito e
avresti detto qualcosa.»
Bevvi un sorso esagerato e annuii generosamente. «È proprio nocciola, ora la sento.»
«Ho comprato lo sciroppo quando ho saputo che saresti venuta. Quello che ci piaceva tanto.»
«Mi ricordo», dissi. «Grazie.»
Stavolta Heidi tenne gli occhi sulla strada. «Non c’è di che.»
Per il resto del viaggio rimase in silenzio, così bevvi velocemente il resto del caffè, per
dimostrare il mio apprezzamento e per dare al mio cervello un’altra dose di caffeina. Eravamo a
pochi metri dall’ingresso del campus quando Heidi parlò di nuovo.
«Fa ancora freddo, ma almeno ha smesso di piovere», disse, ricorrendo all’argomento del tempo,
vecchio di secoli. «Grazie per avermi aiutato a organizzare le cose per la parata.»
Il giorno prima avevo dato una mano a Heidi con la parata del Raduno, perché era sotto stress per
tutto ciò che aveva tra le mani: i festeggiamenti, il contenimento dei danni relativi a Julie Farris, la
veglia per Beth. Ora, però, il pensiero di trovarmi in mezzo a una folla – guardando come un’ebete le
migliori bande musicali delle scuole medie e dei licei di Kenosha e i carri allegorici ricoperti di
carta crespa – mi sembrava un modo orrendo di passare la mattinata. Non avevo dormito quasi tutta
la notte per via della conversazione con Sarah. Una serie di domande avevano continuato a
risuonarmi in testa come canzoni ripetute. Com’era successo? Quand’era cominciato? Un giorno Beth
aveva indugiato troppo a lungo dopo una lezione di letteratura inglese? Aveva riso a tutte le battute di
Mark davanti a un’innocente tazza di caffè? Forse avevano bevuto del vino? Forse Mark si era
scolato troppi bicchieri di Shiraz e non aveva saputo dire di no quando lei si era fatta avanti? Una
cosa aveva tirato l’altra?
E la domanda più pressante di tutte: perché Mark aveva preferito Beth a me?
Questa domanda continuò a suppurare finché non generò in me una rabbia contro Beth Richards che
non avrei mai immaginato possibile. Beth era scomparsa – probabilmente morta – eppure io la
odiavo. La odiavo per avermi rubato Mark.
Ora, nell’auto di Heidi, cominciai a provare una certa nausea per avere bevuto il caffè così in
fretta.
«Non mi sento bene», le dissi. «Ti spiace se salto la parata?»
«Be’, io non posso saltarla. Fa parte del mio lavoro, in un certo senso.»
«Possiamo rivederci dopo?»
Heidi svoltò nel viale del campus a una velocità tale che dovetti afferrare il maniglione all’interno
della portiera.
«Dove vuoi che ti scarichi?»
Mi strinsi nelle spalle. «Davanti alla biblioteca, penso.»
«Il tuo vecchio terreno di caccia.»
«Che cosa intendi?»
«Non era lì che andavi sempre? A lavorare alla tua tesi? Era sempre la biblioteca o il diner fuori
dal campus.»
«Ce l’hai ancora con me.»
«No… Ruby, non capisco. Tutto andava bene, le cose andavano in maniera meravigliosa. Ieri sera
ti stavi divertendo. Te l’ho letto in faccia. Ti sei completamente dimenticata della faccenda di Julie
Farris, poi hai fatto la tua chiacchierata con Sarah Iverson e mi sembra di averti perduta ancora. Ieri
sera ti sei comportata in modo strano, stamattina e adesso idem.» Sospirò, come se il resoconto delle
ultime dodici ore l’avesse spossata. «Di che cosa avete parlato?»
«Solo di Beth.»
«Beth Richards ti ha sconvolto così tanto?»
«Be’, probabilmente è morta, Heidi.»
Mi pentii immediatamente di averlo detto, perché stavo usando la probabile morte di Beth come
copertura per l’orribile gelosia che provavo nei suoi confronti. Ma come potevo rivelare a Heidi,
che lavorava per il college, la verità su Beth e Mark, la verità su Mark e me?
«Vorrei solamente che tu mi dicessi che cosa sta succedendo invece di escludermi ancora», disse
Heidi. «Pensavo che saremmo ripartite da zero.»
«Ho bisogno di una pausa dal Raduno», spiegai. «Tornare qui è stato davvero difficile per me.»
«E pensi che per me non lo sia? Mettere di nuovo in gioco la nostra amicizia?»
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo, facendomi sentire in colpa. Non avevo nemmeno
considerato i sentimenti di Heidi.
«Ti aiuterò con la parata», dissi.
«Non voglio che tu lo faccia.» Accostò davanti a Langley Hall. «Se vuoi ancora pranzare con me,
ci vediamo qui alle undici e mezzo.»
Annuii e scesi dall’auto, poi mi diressi dalla parte del guidatore perché volevo dirle qualcos’altro.
Invece vidi Heidi che ripartiva.
La biblioteca non era ancora aperta. Heidi doveva saperlo, ma non me l’aveva detto. Così rimasi
fuori dalle porte di vetro, in attesa che i bibliotecari le aprissero. Quando udii qualcuno entrare
dall’ingresso principale di Langley Hall, mi aspettai di vedere Heidi, pensando che fosse tornata per
scusarsi di essere ripartita così all’improvviso. Invece era la professoressa Virginia Barnard. In un
primo momento non la riconobbi: aveva i capelli sciolti, il suo look del weekend, suppongo.
Indossava un vestito vintage simile a quello del giorno prima, ma rosso. Le guardai i riccioli biondi
che le ondeggiavano sulle spalle mentre stava per salire la scala a chiocciola.
Non si accorse che la stavo guardando finché non ebbe posato il piede sul terzo scalino.
«Ruby», disse, tornando sui suoi passi verso di me. «Ruby Rousseau.»
Sorrisi. «Buongiorno, professoressa Barnard. Ha buona memoria.»
«Be’, non darmi troppo credito. È passato solo un giorno.» Indicò le porte di vetro dietro di me.
«Stai aspettando che apra la biblioteca?»
Annuii.
«Ci dev’essere qualcosa di più divertente da fare per una ragazza della tua età.»
«La biblioteca mi piace. È tranquilla.»
Notai che la professoressa aveva una grossa borsa piena fino all’orlo di libri, scartoffie e
cartellette. Indicai il carico di lavoro che le gravava su una spalla. «E lei non ha niente da fare di
sabato mattina, a parte correggere delle tesine?»
Lei abbassò lo sguardo sul suo lavoro come se si fosse dimenticata di averlo con sé. «Ma io sono
una docente universitaria. Mi sono già rassegnata a una vita noiosa.» Mi sorrise, strizzandomi
l’occhio sinistro. «Accompagnami nel mio ufficio, ti va? Possiamo parlare del tuo saggio.»
«Mi aveva promesso che non mi avrebbe dato un voto.»
«E hai la mia parola, però non potrei definirmi un’insegnante se non facessi almeno qualche
commento.»
Un reflusso gastrico acido al gusto di nocciola mi salì improvvisamente in gola.
«C’è qualcosa che non va, Ruby?» chiese.
«Non mi sento bene», le dissi. «Nausea.»
«Ho io quel che ti serve. Il mio ufficio è giusto di sopra.»
Riprese a salire le scale, ma io feci una pausa, ricordando le osservazioni di Heidi la sera prima
riguardo al fatto che io ero il tipo della professoressa Barnard. Lei si muoveva così veloce, però, che
non ebbi altra scelta se non seguirla su per la scala a chiocciola fino al suo ufficio senza finestre al
secondo piano.
«Sembra quasi che io viva qui… perché praticamente è così», disse, togliendo dalla scrivania una
tazza da caffè sporca e un muffin al mirtillo mangiato a metà. «Faccio le ore piccole, per così dire.»
Accomodandomi su una poltrona rivestita di un tessuto scozzese bianco e blu, perlustrai la stanza e
osservai le decorazioni centimetro per centimetro: un collage di fotografie attaccate a una bacheca di
sughero, il poster di una rappresentazione di Casa di bambola di Ibsen, tutti gli atti del Macbeth
condensati in un unico manifesto, e un poster READ del 1980 con una giovane Goldie Hawn,
accoccolata con un libro in mano. Goldie aveva un’aria sorpresa, come se il finto libro che stava
leggendo le avesse appena riservato una svolta inattesa nella trama.
Sembravano cose disparate e scombinate, così mi domandai se avesse scelto di persona gli
addobbi ai muri o se avesse ereditato l’ufficio in quel modo.
Nel frattempo la professoressa si mise a un cucinotto improvvisato, un piccolo carrello che
ospitava un microonde, un bollitore e una macchina per il caffè. Girò una manopola del bollitore che
emise un sibilo in quello spazio ristretto.
«Ti faccio una tisana di cui mi ha lasciato la ricetta mia nonna: igname selvatico, alfalfa, zenzero,
salvia e camomilla», disse. «Resterai sorpresa da come fa passare in fretta la nausea. Fa miracoli per
le donne che hanno malesseri mattutini.»
La osservai mentre prendeva delle foglie secche da un sacchetto e le metteva in un infusore
rotondo di metallo. Non ero dell’umore per una tisana pura e semplice. Pensavo più a una fetta di
pane bianco, qualcosa per assorbire l’amaro del caffè. Però, man mano che mi rilassavo sulla
poltrona con lo schienale alto, all’interno dell’accogliente perimetro del suo ufficio, una tazza di
tisana cominciò a sembrarmi esattamente ciò di cui avevo bisogno.
La osservai mentre chiudeva l’infusore e poi lo faceva oscillare dalla catenella sotto la sua mano,
come un pendolo. «Che cosa ti ha riportato a Tarble?» chiese.
Avrei voluto giocare con la sintassi della sua domanda e cambiarla in: “Che cosa ha riportato
Tarble da te?”. Perché erano state la valigia, Beth Richards, Una stanza tutta per sé e Mark che mi
avevano indotto a ritornare al campus, non un desiderio innato di rivivere i bei vecchi tempi del
college.
«Le amiche», le dissi invece. E, come se avessi avuto bisogno di un’altra scusa, aggiunsi:
«Domenica vado alla veglia, quella per la ragazza scomparsa».
«Sì, Beth Pritchard?» Indicò un pezzo di carta sulla sua scrivania. Sembrava un promemoria della
rettrice per la veglia.
«Richards», la corressi.
«Scusa.» Fece una smorfia per il suo passo falso. «Eravate amiche?»
Mi strinsi nelle spalle, chiedendomi se Beth avesse saputo di me. Aveva provato piacere nel
soffiarmi Mark da sotto il naso?
In quel momento l’acqua cominciò a evaporare sopra il bollitore e la professoressa Barnard ne
versò un po’ in un’enorme tazza di ceramica. Vi tuffò l’infusore per un po’ prima di porgermi la tazza
con le due mani, delicatamente, in modo da non rovesciare il liquido caldo.
Mentre sorseggiavo la tisana la osservai estrarre una cartelletta dalla borsa e, da lì, il mio
quaderno blu del giorno prima. Non me lo porse subito, ma cominciò a sfogliarne le pagine.
«Ti piace?» chiese.
Feci cenno di sì.
Lei si concentrò di nuovo sul mio saggio. «La tua amica Heidi aveva ragione: sei modesta.»
Girava piano le pagine, come una madre che ai fornelli rimestasse una zuppa di pollo in una pentola
mentre risolveva i problemi dei figli seduti al tavolo della cucina. «Perché il tuo scritto è brillante,
Ruby. Sì, hai cominciato lentamente. In maniera riservata, timorosa quasi. Però, arrivata alla fine,
l’ho trovata la migliore analisi che abbia visto produrre da una studentessa negli ultimi tempi.»
Mi chinai in avanti per sbirciare la mia calligrafia sulla pagina. Mi risultava estranea. Sciatta e
scura, come se avessi premuto con tutto il mio peso sulla punta della penna.
«Grazie», le dissi. «Però non ricordo più che cosa ho scritto.»
Allora lei mi diede il quaderno blu, come per rinfrescarmi la memoria. Sfogliai le pagine, proprio
come aveva fatto lei.
«È una sfortuna che io non insegnassi qui quando tu studiavi ancora», disse. «Sarebbe stato un
onore avere qualcuno così perspicace alle mie lezioni. Suppongo che tu stia facendo un dottorato?»
Feci cenno di no con la testa.
«Insegni? In una scuola superiore, magari?»
«Lavoro per un giornale a Chicago.»
«Giornalista?»
Annuii da dietro il quaderno blu. «Più o meno.»
«Be’, sono rimasta favorevolmente colpita dalla tua capacità di calarti nella mente dell’autrice, di
provare quello che lei provava, di vedere le cose come le vedeva lei», continuò. «Io sono una grande
ammiratrice di Sara Teasdale e della sua poesia e ho trovato il tuo saggio misteriosamente intuitivo,
quasi come se lo spirito della Teasdale si fosse impossessato di te.»
Allora indicò la bacheca di sughero, la fotografia di una donna con un cappello a tesa larga e una
sciarpa. Sara Teasdale. Riconobbi la poetessa dalle ricerche che avevo svolto l’anno precedente.
Posai il quaderno sul ripiano della scrivania. Avevo perso il controllo delle dita, che mi tremavano.
Lei se ne accorse. «Ruby, cosa c’è che non va?»
«Sono io la ragazza di cui parlavano ieri in classe», dissi. «Quella che ha tentato di uccidersi
l’anno scorso.»
La professoressa socchiuse le labbra, ma non ne uscì neanche una parola.
«Ecco perché la mia analisi era così acuta», aggiunsi. «Non stavo scrivendo dal punto di vista
della Teasdale, ma dal mio.»
Scrollò la testa, come per rimproverarsi da sola. «Mi scuso, Ruby. Non ne avevo idea. Scrivere
questo saggio dev’essere stato molto doloroso per te. Mi sento malissimo.»
«Lei come poteva saperlo? Inoltre mi ha fatto bene tornare a leggere, pensare e scrivere.
Ovviamente dovevo togliermi un peso dal cuore.» Indicai il quaderno blu. «Dovrei considerarla una
terapia gratuita.»
«Ma tutti quei discorsi ieri sul recente tentativo di suicidio… dev’essere stato…» Emise un
sospiro profondo. «Quella ragazza, Julie Farris, è una delle mie manifestanti. Sono molto affezionata
a lei e non volevo nascondere la cosa sotto il tappeto», cercò di spiegarmi.
«Capisco.»
Accennò un sorriso. «Se non ti spiace che te lo chieda, cosa l’ha provocato? Il tuo tentativo di
suicidio? È stato un evento traumatico o una depressione immotivata?»
«Mio padre era morto l’anno prima», spiegai.
«Mi spiace. La morte di una persona amata è un dolore insopportabile.» Gli occhi le caddero sul
mio saggio, che era ancora sulla scrivania. Lo fissò. «Però c’era qualcos’altro? Oltre a tuo padre?»
Cominciai a sentire il cuore che mi batteva in gola. «Perché me lo chiede?»
«Il tuo saggio…» disse. «Ora che so che lo hai scritto partendo da un’esperienza personale, lo
vedo in maniera diversa.» Aprì il mio quaderno blu sulla scrivania e lo distese con i palmi come se
fosse una cartina. «Sei arrabbiata.»
«Lo sono?»
«E non riesco a immaginarmi che tu nutra una rabbia simile per tuo padre. Dunque suppongo sia
come diceva William Congreve: “Né l’inferno ha furie paragonabili a una donna disprezzata”.»
Annuii. Ero una donna disprezzata. «Non sapevo di essere arrabbiata.»
La professoressa intrecciò le dita. «Ah, questo è il miracolo della parola scritta. Sollecita il nostro
inconscio a uscire dal suo nascondiglio. Ci dice cose che dobbiamo sapere, a volte cose che non
vogliamo sapere.»
«Io non voglio essere arrabbiata.»
«La collera non è poi così negativa, Ruby. Sposta gli ostacoli. Senza collera non succederebbe
nulla. È un catalizzatore per il cambiamento.» Fece una pausa. «Ti ha fatto male, vero?»
«Mi ha spezzato il cuore. Ho mollato l’università, non mi sono laureata.»
«Ma lo ami ancora?»
«Credo che lo amerò sempre, anche se so che non mi ama e che forse non mi ha mai amato.
Perché?»
Lei si chinò verso di me e, con voce suadente, disse: «Perché le donne amano in modo diverso
dagli uomini. Noi possiamo amare senza essere ricambiate. Noi possiamo amare al di là della verità
e persino nonostante la verità».
«Quando lui ha troncato la relazione, io ho dato la colpa a me stessa», confessai. «Pensavo di
averlo allontanato io, ma ora so che non è vero. Ho imparato la lezione.»
«E la conoscenza è potere.»
«Davvero? Allora perché mi sento così impotente?»
Lei scrollò la testa. «Ho detto che la conoscenza è potere, non ho detto che ti rende potente. La
conoscenza è come il talento, Ruby. Non serve a niente, a meno che tu non la usi per fare qualcosa. Il
potere lo sentirai dopo, come una scossa secondaria. Lo sentirai quando avrai scoperto che cos’è che
vuoi fare.»
Restammo sedute in silenzio per un attimo e io abbassai lo sguardo sulle ginocchia. Quando lo
rialzai, vidi la professoressa che mi osservava quasi con soggezione, come se avesse scorto un’aura,
un campo cromatico rosa, rosso e arancione.
«Sai niente sulle stelle?»
«Intende in astronomia?»
Annuì. «Spesso ci dimentichiamo che sono lontane anni luce. La luce delle stelle che ora
ammiriamo nel cielo proviene dal passato, è stata emessa migliaia di anni luce fa. Quando le navi
solcavano i mari facendosi guidare dalle stelle, i navigatori cercavano letteralmente il futuro
studiando il passato.»
«È interessante.»
Lei scrollò la testa, come per dire che non si era nemmeno avvicinata al punto. «Il passato è una
cosa curiosa, Ruby. È il fantasma più sottovalutato della natura. È ancora estremamente vivo, il suo
cuore continua a battere. Ossessiona. Influenza e detta sempre il futuro, che alla fine diventa passato.
Vedi, questo enigma si espande. Diventa sempre più grande fino alla fine, inghiotte tutta la tua vita.
Ogni giorno, ogni momento si trasforma nel passato.»
Stavolta non dissi nulla e aspettai che ebbe finito.
«Credo che la vera farsa avvenga molto prima, quando siamo giovani e acquistiamo una tale
consapevolezza di questo futuro, del giorno sconfortante in cui il passato consumerà la nostra vita,
che smettiamo di vivere del tutto. E gettiamo la spugna.»
Prese il mio saggio dalla scrivania e me lo porse come se fosse una torcia.
«È la lotta contro il passato che mantiene lo spirito vivo e sano», disse.
Rimpiansi di essere uscita dall’ufficio della professoressa Barnard non appena ebbi chiuso la
porta. Le quattro pareti del suo semplice spazio, la sua casa lontano da casa, mi avevano accolto
abbastanza a lungo da farmi abituare al loro calore e ora il corridoio mi sembrava freddo e arido. Lo
studio di Gwen non aveva mai avuto quell’effetto su di me. Anzi, dalle nostre sedute del giovedì sera
uscivo sbattendo le ali in cerca della libertà, come una farfalla liberata dalla trappola di un barattolo
di vetro. In soli venti minuti la professoressa Barnard aveva fatto qualcosa che Gwen non era riuscita
a fare in dieci mesi di terapia.
Mi aveva fatto sentire più forte.
Ridiscesi la scala a chiocciola fino all’atrio di Langley Hall, il quaderno blu ancora arrotolato in
mano come una torcia, e mi ritrovai nel punto esatto da cui ero partita quella mattina, appena fuori
dalle porte della biblioteca. Rimasi lì un secondo, incerta su dove andare e sul da farsi. La
pseudotorcia, ormai bagnata dal sudore del mio palmo, non faceva luce sulla faccenda.
Fu allora che la vidi… me stessa. Me stessa prima di Mark, prima che mio padre morisse. Più
giovane di due anni, con il viso fresco e fiducioso, una studentessa dell’ultimo anno dai capelli
ramati con uno zaino sulla spalla destra. Quando cammina quasi saltella, e sulle labbra ha un sorriso
placido ma quasi malizioso. Sa dove sta andando e dov’è stata. Il suo futuro non è ancora scritto, ma
questo non sembra turbarla. Prova anzi un senso di potenza se pensa a ciò che potrà accadere. Ha
tutta la vita davanti a sé, una pagina bianca piena di storie promettenti. E così seguii questo ricordo
di me stessa, uscii dalle porte principali di Langley Hall e m’immersi nell’aria fresca e pulita della
tarda mattinata.
Da lontano vidi che il viale del campus era bloccato dalla parata. Gli spettatori, alcuni in piedi e
altri accomodati su sedie pieghevoli fornite di portabicchieri, fiancheggiavano entrambi i lati della
strada. Io puntai verso North Hall, il pensionato sul lato settentrionale del campus. Man mano che mi
avvicinavo all’edificio sottile e spigoloso i miei occhi risalivano la facciata ricoperta di edera fino
al secondo piano, trovando la quarta finestra da destra. Nella mia vecchia stanza, la 318, le tende
erano aperte, ma intravedevo solo oscurità.
Per fortuna qualcuno aveva lasciato la porta laterale accostata con un mattone, come facevano gli
studenti di tanto in tanto per evitare la seccatura di strisciare il tesserino, e così entrai con facilità,
attraversando con circospezione il corridoio del pianterreno come se fossi entrata dopo il
coprifuoco. Quando arrivai nell’atrio principale, però, fui fermata dall’odore, un inequivocabile
misto di profumo femminile e candeggina. Quella mattina l’atrio era vuoto e silenzioso, eppure io lo
vedevo brulicante di studentesse, vedevo la mia referente interna alla reception e vedevo quella
versione più giovane di me stessa girare l’angolo e scomparire nella tromba delle scale. In piedi, lì
in mezzo all’atrio di North Hall, circondata dal profumo familiare della mia giovinezza, mi chiesi se
in qualche modo avrei potuto riportare indietro quella ragazza dal regno dei morti.
Potevo salvare Ruby Rousseau? Anche se non potevo più salvare Beth Richards?
Salii le scale fino al secondo piano, dove passai di stanza in stanza, in sequenza decrescente: 330,
328, 326 e 324. I nomi delle studentesse erano scritti su cartoncini rossi e arancio a forma di foglia
spolverati di lustrini dorati, probabilmente preparati dalla referente interna nel suo tempo libero.
Mi fermai prima davanti alla stanza 324. Era stata la camera di Beth Richards, condivisa con
Sarah Iverson. L’ultima volta che avevo visto Beth era proprio fuori da quella porta, il giorno che
avevo preso in prestito la valigia. Sostai lì un momento, come se la porta fosse la sua lapide.
Poco dopo giunsi alla camera 318. Adesso era la stanza di Sheila e Lisa, stando ai nomi sulla
porta. Sfiorai con la punta di un dito il legno marrone, poi posai la mano sulla porta. Mi aspettavo di
sentire del calore, una specie di energia ad alto voltaggio, invece provai una sensazione di freddo
sotto la pelle. Inspirando ed espirando cercai di espellere dal mio corpo un improvviso senso di
nausea, ma dopo parecchi sforzi quella sensazione mi formò un nodo allo stomaco e si inacidì. Non
riuscivo più a muovermi. Rimasi con il braccio proteso, con il palmo sulla porta, a inspirare ed
espirare.
«Non ci sono», disse qualcuno.
Staccai di colpo il braccio dalla porta, come se fosse davvero rovente al tatto, e vidi una ragazza a
pochi metri di distanza. Non la riconobbi. Probabilmente era una studentessa del primo anno. Mi
chiesi da quanto tempo mi stesse guardando.
«Chi?» domandai.
«Sheila e Lisa.» La ragazza indicò la porta. «Non stai cercando loro?»
«No. Una volta abitavo su questo piano», cercai di spiegare.
«È vero?» chiese, quando mi fu di fronte. «Ciò che dicono di quella stanza?»
«Dipende, suppongo. Che cosa dicono?»
«Ho sentito che lì dentro è morta una ragazza. Si è uccisa. È vero?»
Grazie al tentato suicidio di Julie Farris, le chiacchiere si erano già propagate con il passaparola,
distorcendo la verità. “Tutto sommato ha ragione”, pensai. “È vero che una ragazza è morta in quella
stanza. La ragazza che ero prima.”
«Ha preso un’overdose di sonniferi», dissi.
«E quindi…?» m’incoraggiò la ragazza.
«Quindi niente.»
«Non è morta?»
«Può raccontare da sola la sua storia», conclusi. «È sopravvissuta.»
11.
Heidi mi stava ancora aspettando fuori da Langley Hall quando la raggiunsi, con cinque minuti di
ritardo.
«Non ero sicura che saresti arrivata», disse, il volto tondo e serafico illuminato da un sorriso.
«Scusami per prima…» cominciai.
«Ti senti meglio?»
«Molto meglio.» Grazie alla tisana magica della professoressa Barnard, la nausea era passata. Che
cosa aveva detto che conteneva?
«Allora devi farti invitare a pranzo», disse Heidi, infilando il suo braccio sotto il mio, come se mi
avesse già perdonato.
Il diner lungo il lago era una scelta ovvia: era dove Heidi e io eravamo sempre andate per
studiare, parlare o piangere davanti a una torta alle carote. Era stato il nostro rifugio quando le cose
si facevano difficili, come accadeva spesso al college. Non era un posto elegante o da buongustai, ma
trovavo incantevole la sua posizione vicino al porto di Kenosha e il tono nautico dell’arredamento. Il
soffitto di un blu spento come l’oceano contrastava con la finta pelle dei séparé, che era azzurro
cielo. Acquarelli raffiguranti barche e gabbiani erano appesi alle pareti. E c’era sempre odore di
pesce persico fritto e limone.
Dedicammo i primi minuti, in un séparé d’angolo che dava sul lago, a cose semplici come ordinare
da bere, leggere il menu e chiedere alla cameriera di spiegarci i piatti del giorno. Non ci dicemmo
molto altro, a parte: «L’insalata di pollo thai pare buona» oppure «Ricordati che per un dollaro in
più, puoi prendere anche una fetta di torta». Sapevamo che la nostra conversazione avrebbe dovuto
prendere un’altra strada: tortuosa e sconnessa, impantanata da sentimenti di abbandono e di colpa.
Per il momento, però, mettemmo da parte le nostre emozioni e ci dedicammo ad attività spensierate e
punzecchiature amichevoli.
«Io mi faccio un cheeseburger.» Heidi sbatté il menu sul tavolo, allungò le braccia sopra la testa e
sbadigliò, come se fosse la fine di una giornata lunghissima. «E tu?»
Io scelsi il tacchino, completo di puré di patate e sugo d’arrosto. E avrei anche pagato il dollaro
extra per una fetta di torta alla ciliegia.
Dopo aver ordinato da mangiare ci avventammo sul cestino del pane, spalmando il burro sul pane
di segale come se fosse marmellata. Trangugiai una fetta intera prima di dire quello che c’era da dire.
«Ho avuto una relazione con Mark Suter.»
In un primo momento la fronte di Heidi s’increspò per la confusione, ma subito dopo, quando ebbe
capito, spalancò gli occhi. «Il professor Mark Suter?»
Allora raccontai a Heidi tutta la storia: quel pomeriggio nell’ufficio di Mark, la conversazione
sulla mia tesi, il caffè a Racine e il bacio sulla sua jeep. E New Orleans. Ma oltre a quei momenti di
euforia c’erano stati anche momenti di vergogna, insicurezza e disperazione, e la resi partecipe pure
di quelli. Lo sguardo di disapprovazione della donna al Café Du Monde. L’insufficienza nella tesi. I
sonniferi.
Le visioni delle scrittrici morte, invece, le tenni per me.
Quando ebbi finito, alzai lo sguardo verso il porto e guardai una barca che navigava all’orizzonte,
oltrepassando la linea tra lago e cielo. Heidi non disse nulla e io trattenni il respiro.
«Non sto zitta perché ti giudico», disse infine. «Sto solo cercando di mettere insieme i pezzi. La
prima cosa che credo di doverti dire è: grazie per esserti fidata di me.» Parlava adagio, come se
stesse ancora tentando di risolvere un enigma. «È lui il motivo per cui eri così distante? Per cui in
quel semestre ti sei allontanata da me?»
«Capisci perché non potevo dirtelo? Non volevo che ci scoprissero. Avevo vergogna.»
«Ovviamente. Cioè, non che tu avessi fatto qualcosa di sbagliato…»
«Era sbagliato», dissi. «Lui era sposato. È sposato.»
«Ma era il tuo insegnante. Se ne è approfittato.»
«Ero un’adulta consenziente, Heidi.»
«Ma lui era in una posizione di potere. Aveva il doppio dei tuoi anni. Avrebbe dovuto essere più
saggio.»
Heidi sembrava fissare la stessa barca che mi aveva ipnotizzato prima.
«Adesso molte cose sono più chiare», disse.
«Ti riferisci al mio comportamento?»
«Sì, è molto più comprensibile, con il senno di poi, ma in realtà stavo parlando di…» Si guardò
attorno nella sala, in cerca di volti familiari o di orecchie ritte. «Senti, devi promettermi di non dirlo
ad anima viva. Potrei davvero perdere il lavoro.»
Mi feci una croce sul petto.
«Tornando a Julie Farris, la ragazza che ha preso il Tylenol… Be’, solo qualche giorno fa aveva
lanciato delle accuse contro il professor Suter. Una cosa tipo molestie sessuali. Ha raccontato alla
rettrice Monroe che lui le ha fatto delle avance e, quando lei ha detto di no, l’ha punita con un brutto
voto.»
Sentii un brivido gelido alla nuca. «Lui ha negato?»
«Non sono sicura che si sia arrivati fino a quel punto. Le indagini erano ancora in corso quando
lei… be’, hai capito.» Sospirò. «Pensi che l’abbia fatto per questo motivo? Forse era imbarazzata?
Rimpiangeva di essere uscita allo scoperto?»
«O forse avevano una relazione», ipotizzai. «E lui le ha spezzato il cuore come ha fatto con me.»
Allora un’ondata di tristezza solcò il volto di Heidi e compresi che il fardello del mio tentato
suicidio pesava a lei almeno quanto a me.
Proprio in quel momento arrivò la cameriera con i nostri piatti. Ci fecemmo riempire le tazze di
caffè e chiedemmo altri tovaglioli e una bottiglietta di ketchup per le patatine di Heidi.
«Bisogna fare qualcosa», disse infine Heidi, colpendo il fianco della bottiglietta per fare uscire il
ketchup. «Non gli si può permettere di continuare a insegnare.»
Passai i rebbi della forchetta nel puré e lasciai scorrere il sugo nei solchi. Mi ricordai quello che
aveva detto la professoressa Barnard a proposito dell’ira che rimuove gli ostacoli, della conoscenza
che è potere. «Mi stai chiedendo di uscire allo scoperto?»
Heidi addentò senza ritegno il suo hamburger, leccandosi via dalle labbra una goccia vagante di
ketchup. «Lo faresti?»
«È stato già abbastanza difficile raccontarlo ora a te. E poi c’è mia mamma.» Appoggiai la
forchetta sul piatto. «Non voglio che mia mamma lo scopra.»
Heidi smise di masticare quando si accorse che avevo perso l’appetito. «Dio mio, Ruby, scusami.
Ti prego, mangia. Io sto divagando, penso ad alta voce. Non mi aspetto che tu dica o faccia niente.»
Solo quando mi decisi a mangiare un bel boccone di tacchino lei continuò.
«Adesso lo odio. Non so come spiegartelo. Una volta mi era indifferente. Non ho mai pensato che
fosse così carino come le altre ragazze… senza offesa. Però non pensavo che fosse uno stronzo o
cose del genere. Adesso, invece, lo odio proprio. Per averti spezzato il cuore, per aver rovinato la
nostra amicizia. Per essere stato un porco schifoso.»
Sorrisi. Era un’amica devota.
«Ma a che cosa servirebbe se parlassi?» dissi, una volta che la tensione si fu allentata. «È passato
quasi un anno. Qualcuno mi crederebbe? Ne sarei solo imbarazzata e, ammettiamolo, mi sono già
messa abbastanza in imbarazzo finora. Mostrare la mia faccia qui intorno in questo fine settimana è
stato un test mica male per il mio coraggio.»
«È stato coraggioso.» Mi diede un colpetto sulla mano. «Però qualcuno deve impedirgli di
continuare a fare il predatore con le studentesse. È indecente e non è per niente professionale.
Dovrebbero licenziarlo.»
Heidi emise un rutto, scusandosi, poi coprì gli avanzi dell’hamburger e delle patatine con un
tovagliolo e li spostò d’un lato, come se non volesse più vedere cibo.
«Tengo un po’ di spazio per la cena delle ex allieve stasera», spiegò. «Sono cinquanta dollari a
piatto. Roba buona.»
Non risposi. I miei pensieri erano volati alla sera in cui ero andata a trovare Janice Richards. Beth
non era più tornata al campus di Tarble dall’inizio del corrente anno accademico, aveva detto Janice.
Era stato allora che le cose si erano guastate fra Beth e Mark? Forse Mark aveva mollato Beth per
Julie?
«Ehilà!» Heidi mi sventolò una mano davanti agli occhi. «Ti sei persa nel tuo mondo?»
«Scusa. Stavo pensando a Beth Richards.»
Heidi socchiuse gli occhi e guardò lontano, come se stesse cercando di rievocare chiaramente
l’immagine di Beth, poi il suo sguardo incrociò di nuovo intenzionalmente il mio.
«Vuoi sapere una cosa bizzarra? Una cosa di cui mi sono appena resa conto?» Quindi scosse la
testa, come se non potesse credere a quello che stava per dire.
«Che cosa?»
«Julie», disse, «assomiglia in maniera spaventosa a Beth.»
Chiaramente ci stavano corteggiando: la quantità infinita di birra e di vino, gli antipasti serviti dai
camerieri, il risotto al peperoncino dolce e la spigola cilena con salsa di lime al miele… Quando
addentai la torta al cioccolato senza farina, glassata di ganache, capii perché il Tarble College si
fosse impegnato tanto per accogliere le ex studentesse con una cena formale di sabato sera. La torta
era così ricca e golosa che presi in considerazione una cospicua donazione in denaro alla mia alma
mater.
Dopo aver mandato giù l’ultimo boccone di torta con un sorso di cabernet – era il terzo bicchiere –
provai un senso di sazietà e di calore, lieta per una volta di essere stata al centro dell’attenzione.
Quando ero entrata nella sala dei banchetti le mie ex compagne di classe, Amanda, Brandy, Joy e
Rachel, mi erano ronzate attorno come api. Mi ero sentita come il centro giallo e vistoso di un fiore.
Abbraccio dopo abbraccio, i loro profumi mi avevano avvolto in una nuvola pesante e fastidiosa,
facendomi venire le vertigini.
Ora, acquistata fiducia grazie all’alcol, perlustrai la sala in cerca di Mark ma, malgrado ci fossero
diversi docenti – compresa Virginia Barnard –, non lo vidi. Leccando l’ultima traccia di ganache dai
rebbi della forchetta, lo sfidai mentalmente a varcare la soglia.
La mia euforia, al limite dell’arroganza, durò finché la rettrice Eileen Monroe non si avvicinò al
nostro tavolo. Come la maggior parte delle studentesse di Tarble, ammiravo e temevo al tempo stesso
l’ex allieva che aveva diretto l’università negli ultimi quindici anni. Era per suoi capelli: neri con
una caratteristica ciocca di grigio, lisci e pettinati da un lato, fermi al loro posto come un elmetto.
Sempre. Quella sera l’acconciatura era particolarmente perfetta, come se fosse stata preparata su un
manichino e applicata sulla testa della rettrice qualche istante prima della sua comparsa. Si sposava
impeccabilmente al suo abito rosso da first lady.
«Buonasera, signore.» La rettrice si fermò dietro la sedia vuota di Heidi, che ci aveva lasciato per
dedicarsi ai suoi doveri di coordinatrice delle ex allieve. «Confido che la cena vi sia piaciuta.»
Dopo aver udito molti sì e un «deliziosa», si schiarì la voce con qualcosa di più raffinato di un
colpo di tosse. «Voglio ringraziarvi personalmente per avere partecipato al Raduno. So che Tarble
può contare sul vostro sostegno, ora che ci imbarchiamo in un nuovo capitolo di eccellenza
nell’educazione. Non sarà un percorso facile, ma i cambiamenti non lo sono mai. Una cosa che non
cambierà, tuttavia, è la capacità di questa scuola di perseverare.»
Annuimmo, desiderose di compiacerla.
«Vi vedremo alla veglia per Beth Richards domattina?» chiese.
Annuimmo di nuovo, stavolta con aria solenne.
La rettrice Monroe fece una smorfia. «È stata una decisione davvero difficile proseguire con i
festeggiamenti per il Raduno, alla luce della notizia di Beth. Però cancellare gli eventi avrebbe
significato perdere la speranza, e noi non dobbiamo perderla. Dopotutto Beth è una ragazza di
Tarble. Tenace, coraggiosa. Dobbiamo credere nella conclusione migliore possibile. Dobbiamo fare
spazio a Beth e alla sua famiglia nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere. Ecco che cosa dobbiamo
fare.»
«E l’altra ragazza?» chiese Joy, l’unica di noi che ebbe il coraggio di sollevare l’argomento di
Julie Farris. «Come sta?»
Notai che una vena pulsava sulla fronte della rettrice.
«Sì, Julie. Anche questa è una situazione triste, però lei sta bene, cara. È ancora convalescente in
ospedale, ma speriamo che abbia tutto l’aiuto di cui ha bisogno.» Sospirò. «Be’, non avevo
intenzione di attaccarvi bottone per tutta la serata, perciò godetevi un altro bicchiere di vino. Restate
sedute, rilassatevi, fatevi un giro. E ancora grazie per il vostro sostegno.»
I suoi consigli furono seguiti. Mentre alcune di noi si alzavano per andare a prendere un altro
bicchiere al bar e altre riprendevano le loro conversazioni, la rettrice Monroe si sedette accanto a me
al posto di Heidi.
«Ruby, è un piacere rivederti a Tarble.» Mi diede una pacca materna sulla spalla. «Voglio che tu
sappia… e lo dico sinceramente… che se vuoi tornare e terminare il tuo corso di laurea, qui ti
accogliamo a braccia aperte.»
Arrossii, perché non mi aspettavo che si rivolgesse a me personalmente. La ringraziai prima che i
miei occhi mi tradissero con le lacrime, che asciugai imbarazzata con il tovagliolo di tessuto bianco,
macchiandolo di mascara.
«Mia cara, non volevo farti piangere.»
«È solo che… è molto gentile da parte sua.»
«Be’, Tarble è una famiglia», disse. «E noi ci prendiamo cura l’una dell’altra. Mi rendo conto che
l’università può essere molto stressante per una ragazza, con questa enorme pressione ad avere
successo. A volte rischia di prendere il sopravvento su di noi.»
Parlava a voce alta, troppo alta, pensai, per quella che avrebbe dovuto essere una conversazione
privata e mi chiesi se fosse davvero sincera o se fosse una manovra – come l’aveva definita prima
Heidi – di controllo dei danni.
Prima che potessi replicare qualcosa, la rettrice si scusò per dedicarsi a una faccenda che, a
giudicare dalla direzione del suo sguardo, la chiamava dall’altra parte della sala. La vidi
attraversare rapida la stanza, come viaggiasse in carrozza, e approdare vicino alla porta.
E fu allora che vidi Mark. Però non era il Mark che ricordavo. Infatti, nell’anno trascorso, era
invecchiato. Dove prima ricordavo dei lineamenti fini, ora la pelle era piena di rughe. Mi sembrava
di rammentare che avesse un naso sottile e a punta, mentre ora sembrava un becco. I suoi occhi
azzurri ricordavano più l’ardesia che il cielo e avevano un rossore che poteva essere solo il prodotto
dell’alcol. Era molto ubriaco oppure molto triste, o forse entrambe le cose. Se era disperato per la
scomparsa di Beth, non era granché bravo a dissimularlo. Comunque non era da solo. Poco dopo una
donna lo affiancò, lo prese sottobraccio e scherzosamente appoggiò la testa sulla sua spalla. I capelli
biondi e le unghie laccate di rosso contrastavano con il suo abito nero da cocktail, rendendola
sgargiante e audace. Quando la donna si accorse che la stavo osservando e sollevò le sopracciglia,
come per chiedere: “Posso fare qualcosa per te?”, capii chi era. Avevo visto una sua fotografia
nell’ufficio di Mark, una volta.
Mi alzai di scatto dalla sedia e andai in cerca di Heidi, che era all’altra estremità della sala e
stava blandendo i finanziatori del college, come le avevano ordinato.
«È arrivato», mormorai. «E c’è anche Meryl, sua moglie.»
«Bastardo», mi rispose Heidi in un soffio.
Passai l’ora successiva in uno stato di tensione ma anche di risolutezza, comportandomi come un
poliziotto in incognito. Osservai ogni mossa di Mark e di Meryl facendo finta di niente, mentre
continuavo a conversare educatamente con le mie amiche e a scambiare convenevoli con alcuni miei
ex professori.
Man mano che la serata procedeva, Meryl, che all’inizio pareva rotolare al fianco del marito come
una palla incatenata al piede di un prigioniero, arrivò a trovarsi a qualche metro di distanza da lui.
Ma un certo punto conficcò le lunghe unghie rosse nel petto di Mark e dalla sua bocca altrettanto
rossa uscì una litania di parole. Dopo aver probabilmente raggiunto un punto di rottura nella
discussione, Mark l’allontanò con un gesto, ma lei reagì con uno spintone abbastanza forte da farlo
inciampare e rovesciare quel che restava del suo gin tonic, dopodiché andò di filato alla porta.
Quando Meryl fu uscita vidi Mark che perlustrava la stanza in cerca di sguardi di disapprovazione,
e ben presto i suoi occhi si posarono su di me. Deglutii forte, ma sostenni il suo sguardo. Temevo che
le mie ginocchia avrebbero ceduto. Temevo di sorridere, piangere oppure ridere in modo
inappropriato, ma invece, curiosamente, non provai nulla. Forse era l’effetto dei tre bicchieri di vino,
ma non mollai.
Allora lui distolse lo sguardo, senza dare segno di avermi riconosciuta: nessun sorriso, nessun
cenno della testa, nemmeno una piega amara delle labbra.
Era come se non mi avesse vista.
Poco prima delle dieci vidi Mark fare un mezzo inchino a un gruppo di colleghi per poi dirigersi
verso l’uscita. Stavo per seguirlo, ero quasi alla porta, quando sentii qualcuno che mi strattonava.
«Non vorrai mica pedinarlo, vero?» chiese Heidi, senza lasciare la mia manica. Sembrava le
mancasse il respiro, come se mi fosse corsa dietro per due isolati e non in una sala semiaffollata.
Annuii e cercai di continuare a camminare. Heidi mi trattenne.
«E sua moglie?» chiese.
«Meryl se ne è andata un’ora fa.»
«Pensi di essere pronta?»
Annuii ancora, anche se nella mia testa una voce aveva da ridire.
Finalmente Heidi mi lasciò andare. «Se tra venti minuti non sei di ritorno, vengo a cercarti.»
Aprii energicamente la porta a spinta, come per dimostrare la mia forza, e non appena mi si chiuse
alle spalle sentii Heidi che mormorava qualcosa come «stai attenta».
Naturalmente non c’era ombra di Mark nella hall del Newton Center. Heidi mi aveva trattenuto
abbastanza a lungo da farmi perdere le sue tracce. In che direzione era andato? Era ubriaco e lo
sapeva. Non poteva mettersi al volante di un’auto, o almeno lo speravo. Prima avrebbe dovuto farsi
passare la sbornia facendo una passeggiata o un sonnellino. Dove poteva dormire senza essere
disturbato, lì al campus?
Allora mi diressi verso l’uscita settentrionale del centro congressi aggirando una serie di divani a
forma di L. Picchiai il ginocchio contro il bordo di legno di uno di essi e gemetti nell’atrio vuoto, ma
proseguii. Arrivata fuori vidi in lontananza una figura che camminava sul marciapiede, diretta a
Langley Hall. La seguii.
Quando fui davanti alla porta dell’ufficio di Mark, notai che sfoggiava una nuova targa: MARK
SUTER, professore associato DI INGLESE. Sotto aveva affisso una copia del programma dei suoi
corsi. Teneva ancora alcune delle lezioni del mio anno, come quella sui classici. Però aveva aggiunto
un corso speciale sulla leggenda di re Artù e i suoi orari di ricevimento erano cambiati.
Allora udii un tonfo. Premendo un orecchio alla porta rimasi in ascolto, in attesa di un segno di
vita, magari di qualcuno che russava, ma ciò che sentii fu un cassetto che scorreva e veniva sbattuto
e, alla fine, un rumore di vetro che andava in frantumi. Non si era messo a dormire, pensai. Era in
preda a un attacco di collera.
Girai la maniglia.
Meryl era accucciata sul pavimento accanto all’archivio e raccoglieva i cocci di vetro della
cornice di una fotografia. Imprecava sottovoce. Sbirciai il resto della stanza, che sembrava devastata
da un tornado. Le scartoffie sulla scrivania di Mark – i suoi mucchi disordinati – erano crollate sul
pavimento. I cuscini del divano erano stati ribaltati. Parecchi libri erano stati scaraventati a terra
dagli scaffali.
Richiusi adagio la porta, ma scricchiolò, e Meryl girandosi mi vide in faccia. Reggendo un
frammento di vetro scintillante come una mannaia, si avvicinò a me. Abbassai lo sguardo al
pavimento, ma non provai alcun sollievo. Le aguzze scarpe nere con il tacco di Meryl puntavano
verso di me con aria d’accusa.
«Mi scusi.» Finsi smarrimento. «Credo di essere nel posto sbagliato.»
Con la sua scarpa a punta, Meryl impedì alla porta di chiudersi ed emise un ibrido tra una risata e
un sospiro di esasperazione. «Sei una di loro, non è vero?»
Era così vicina che sentivo il suo alito. Era dolciastro, come se avesse appena bevuto un bicchiere
di tè freddo. Però il rossetto sembrava intatto: un rosso morbido e satinato.
«No», sbottai, rendendomi conto con un secondo di ritardo che la risposta esatta sarebbe stata:
“Una di chi?”. Guardai di nuovo il pavimento, ma sentivo ancora Meryl che mi trafiggeva con gli
occhi.
«Tesoro, fai schifo a dire bugie.» Fece un passo indietro e rilassò le spalle. «E mio marito,
invece? Lui ha preso il dottorato in stronzate. Sa esattamente che cosa dire e come dirlo. Conosce la
precisa quantità di dettagli da aggiungere a una storia per renderla credibile ma senza esagerare.
Conosce le domande giuste da fare per convincerti che gliene frega qualcosa di te.»
Non dissi nulla, ma drizzai le orecchie in attesa di un rumore di passi in corridoio o di una porta,
qualcosa che distraesse la donna. Poi osservai il frammento di vetro che Meryl aveva ancora in
mano. Era abbastanza tagliente da uccidere qualcuno.
Meryl stessa abbassò lo sguardo verso il vetro e scrollò la testa incredula. «Per amor del cielo,
non voglio farti del male.» Gettò con indifferenza la scheggia nel cestino. «Suppongo che tu abbia già
sofferto abbastanza.»
«Mi scusi, davvero», sbottai.
Lei non rispose e tornò invece al mucchio di vetri rotti sul pavimento. Io rimasi lì impalata,
chiedendomi se non fosse il caso di andarmene finché mi voltava la schiena. Avevo fatto solo un
passo, però, quando disse: «Non intendevo romperla. Sinceramente. Mi è caduta di mano». Soffiò via
un po’ di polvere di vetro dalla fotografia e me la porse. «Stento a riconoscermi.»
Probabilmente fu per via del lieve tremore della sua mano mentre me la porgeva, o della triste
rassegnazione che venava la sua voce, che presi in mano la fotografia. Era lo scatto che ricordavo di
avere già visto nell’ufficio di Mark: Meryl che indossava una T-shirt color ottanio, in piedi accanto a
una sequoia. L’avevo studiata innumerevoli volte quando Mark non mi guardava. Ne ero attratta,
sperando di vedervi qualcosa di brutto, qualcosa di guasto e di contaminato. Invece, ogni volta,
vedevo qualcosa che io non ero, qualcosa al di là della mia portata. Ora fissai la fotografia, poi
tornai a guardare i capelli biondi e le unghie rosse di Meryl.
«In effetti mi sembra diversa.» Rimpiansi immediatamente il mio commento. Era la battuta di una
conversazione tra ragazze, indicava che volessi continuare a parlare.
Lei si strinse nelle spalle e si spostò la frangetta dagli occhi, lasciando una scia di sangue sulla
fronte. Doveva essersi tagliata con il vetro. «Sto cercando di salvare il mio matrimonio.»
Il senso di colpa mi si esacerbava nello stomaco. Era stato così facile stare con Mark quando non
c’era Meryl tra i piedi! Era come se lei esistesse solo di nome, come un personaggio fittizio che
continua a vivere nella storia dopo che si è chiuso il libro. Adesso invece era lì, davanti a me, in
carne e ossa.
E sanguinava.
«Sai dove l’ho trovata?» mi chiese riprendendosi la foto e facendo scorrere le dita lungo la
cornice. «Nell’archivio. Sotto la M, per di più. Come Meryl. Mi ha letteralmente archiviato.»
«Mi dispiace molto», dissi ancora, vedendo Meryl per quello che era: la vittima. Avrei voluto
dirle che anch’io ero rimasta molto ferita, ma sapevo che non avrei suscitato la sua pietà.
Si strinse di nuovo nelle spalle, come se non gliene importasse più, come se non avesse più voglia
di combattere o, piuttosto, come se già fosse stata sconfitta. «Scommetto che pensavi di essere molto
speciale», disse. «Di essere la prima. Ma il fatto è che sono anni che mio marito fa lo stupido con le
sue studentesse. Non so nemmeno quale numero tu sia.» Rise ancora, come se piangere non le fosse
servito a niente in passato. «E sei solo una delle ragazze che hanno detto sì. Quante hanno detto no?»
Aveva ragione. Avevo pensato di essere la prima. Sapevo che Beth e forse Julie Farris erano
venute dopo di me, ma non avevo ancora pensato che qualcuna fosse venuta prima di me. Dalla mia
prospettiva, tra Mark e me era avvenuto tutto in maniera inattesa. Un incontro nel suo ufficio si era
tramutato semplicemente in un appuntamento galante. Era stato tutto così nuovo, sorprendente,
proibito. Per me, almeno.
«Suppongo di essere stata ingenua», dissi.
«È un manipolatore», proseguì, posando la cornice sulla scrivania prima di afferrare dei fazzoletti
di carta da una scatola e avvolgerseli attorno alla mano. Finalmente si era accorta del sangue. «Mi
aveva detto che lavorare in due università così distanti ci avrebbe permesso di concentrarci sulle
nostre carriere. Che cosa importava se il nostro matrimonio passava in secondo piano? Quando hai
un certo grado d’istruzione, sei maturo e sicuro di te, non hai bisogno di qualcuno che ti tenga per
mano, ti accarezzi una guancia e ti sussurri che ti adora. Se tuo marito non pende dalle tue labbra, non
significa che abbia una relazione.» Premette sulla ferita. «Questo sì che è ingenuo.»
A me quella donna sembrava tenace, nonostante ciò che aveva detto. E volevo sapere come aveva
fatto a rimanere con lui, sapendo che le era stato infedele. Non sono sicura che io ne sarei stata
capace, eppure mi domandavo se sarei stata abbastanza forte da lasciarlo.
Mi fissò, a lungo e con attenzione. «Ti stai chiedendo perché non l’ho mollato.»
Annuii.
«Sapevo, in fondo al mio cuore, che era solo sesso, non amore. Finché…»
«Beth.» Il suo nome mi spuntò sulla bocca.
«Allora sai di lei? L’unico vero amore di Mark?» disse con un risolino, la rassegnazione
improvvisamente sparita dalla sua voce. «Nessun’altra poteva reggere il suo confronto. Me l’ha
persino detto in faccia quando ha chiesto il divorzio.»
Spalancai la bocca – Mark non aveva mai parlato seriamente di divorziare da Meryl quando era
con me – ma tentai di camuffare la mia sorpresa.
E comunque Meryl non mi stava guardando. Si stava togliendo il fazzoletto macchiato di sangue
dalla mano. «Era pronto a buttare via tutto per lei. Ma il karma è un bastardo, e così salta fuori che
lei non vuole sposarlo. Quando lei gli ha dato il benservito, lui è tornato strisciando da me. E come
una scema io me lo sono ripreso.»
Le sue parole mi colpirono, perché non avevo preso in considerazione questo scenario: che Beth
avesse rotto con Mark e non viceversa.
«Però lui l’amava ancora», continuò Meryl. «Era ossessionato.»
Un orrore improvviso le attraversò il volto. «E io continuo a pensare a quel modo di dire,
qualcosa riguardo alla linea sottile che separa l’amore dall’odio.» Allora mi fissò dritto negli occhi.
«Hai saputo che Beth Richards è scomparsa?»
Annuii.
«Le ragazze scomparse di solito non riappaiono, vero? E chi è la prima persona che sospettano?»
«Il marito», risposi. «O il fidanzato.»
Annuì solennemente. «Pensavo di conoscere mio marito. Pensavo di sapere di che cosa fosse
capace. Però adesso… Non lo so.» Buttò la cornice rotta della fotografia nel cestino della
spazzatura. «Non so più niente.»
DICEMBRE
Com’è possibile? Che io abbia potuto sentirmi così legata, che io abbia potuto intrecciare la
mia vita e il mio corpo con una persona così fredda?
Come ha potuto fare l’amore con me un giorno e quello dopo dirmi che era finita?
Come fa a dormire di notte? Pensa mai a me? Si sente mai in colpa?
Se ne fossi stata sicura, se avessi saputo che vantava un frammento di umanità, quel tanto da
dedicarmi un pensiero – anche fugace –, allora forse avrei potuto perdonarlo. Forse, un giorno,
potrei ancora.
Però temo che mi abbia già dimenticato, dimenticato il mio aspetto, dimenticato la linea del
mio viso, la forma dei miei occhi. Mi ha cancellato dalla sua memoria al punto che potrebbe
passarmi accanto per strada o vedermi in una stanza affollata senza nemmeno riconoscermi.
Potrebbe guardarmi dritto in faccia e poi distogliere lo sguardo senza alcun cenno di
riconoscimento.
Ma, del resto, non mi riconosco nemmeno io.
12.
La mattina dopo decisi di chiamare l’ispettore Pickens.
Forse avevo guardato troppi episodi di CSI, ma era anche possibile, riflettei dopo la mia
conversazione con Meryl, che fosse Mark il responsabile della scomparsa di Beth. Possibile che
Beth fosse scomparsa – o, peggio, che fosse morta – in un modo così stereotipato, da soap opera? Per
un crimine passionale, perché se Mark non poteva avere Beth, allora nessun altro doveva averla?
Per quanto Mark mi avesse ferito, non volevo sospettarlo di un delitto. Non volevo pensare di
essere stata innamorata di un uomo capace di uccidere. Eppure sentivo la responsabilità di parlare,
di raccontare all’ispettore ciò che sapevo. Non reggevo più il senso di colpa che mi suscitavano tutti
quei dubbi.
Stavo frugando nella borsa in cerca del suo biglietto da visita quando Heidi entrò nella mia camera
da letto con un’espressione grave in volto.
«È meglio che tu venga di qua», disse con voce piatta e senza vita.
Passai una mano sulla testata del letto e la seguii nel soggiorno, dove c’era il televisore acceso.
«È in tutti i notiziari», disse.
Ancora inebetita, in un primo momento non capii a che cosa si riferisse. Poi mi venne in mente:
«Beth?».
Heidi annuì e saltò di canale in canale finché una foto di Beth Richards non riempì lo schermo. Era
la stessa foto che mi aveva mostrato Janice. Beth sorrideva e una fossetta le segnava la guancia
destra. Sembrava scoppiare di salute, era la tipica ragazza della porta accanto.
«…è scomparsa la settimana scorsa», sentii dire il cronista fuori campo. «La ragazza, originaria di
Milwaukee, era andata a Pittsburgh per un laboratorio di fotografia, ma non è mai giunta a
destinazione.»
Fissai di nuovo lo schermo e compresi che nel corso della notte doveva essere accaduta una di
queste due cose: o avevano trovato il corpo di Beth Richards, o il sospettato aveva confessato.
«La polizia tiene sotto sorveglianza un uomo, John C. Grenshaw di Pittsburgh, da un periodo
indefinito di tempo. È stato arrestato ieri, dopo che nel bagagliaio della sua Chevy Camaro blu sono
stati trovati una pistola e altri oggetti sospetti.»
Girai la testa quando mostrarono quell’uomo. Era caucasico, di aspetto normale, ma aveva i
capelli di un arancione squillante e i baffi. I suoi occhi verdi trafissero i miei, persino attraverso lo
schermo televisivo.
«La notte scorsa Grenshaw ha confessato di avere violentato e ucciso Beth Richards», proseguì il
cronista, «e ha raccontato alle autorità di averne gettato il corpo nel fiume Monongahela. I
sommozzatori lo stanno cercando. La polizia ritiene che Grenshaw sia implicato in altri due casi di
omicidio nell’area di Pittsburgh. Il capo della polizia Jack Blumberg rilascerà una dichiarazione oggi
a mezzogiorno. Vi terremo aggiornati su questa scottante vicenda.»
Heidi fece zapping su altri canali. «Tutte le stazioni principali ne parlano, se vuoi vedere altro.»
Appoggiai la mano sulla sua. «Ho visto abbastanza.»
Heidi spense il televisore ed ebbe un brivido. «Hai visto che capelli? Sembra uno gnomo cattivo.»
Tremai anch’io.
«Stai bene?»
Annuii. Diversamente da Heidi, io ero preparata all’arrivo di questa notizia, ma in qualche modo
mi aveva colpito più di quanto mi aspettassi. I miei sentimenti nei confronti di Beth Richards
avevano attraversato tutta la gamma dall’indifferenza al dolore, dalla gelosia alla collera. In quel
momento avvertivo in fondo allo stomaco un senso di rimpianto e di lutto. Però sapevo per certo
anche una cosa: Mark era innocente. Tirai un respiro di sollievo al pensiero di non avere telefonato
all’ispettore, solo qualche istante prima, per puntare l’indice accusatore contro di lui.
«Suppongo che questo cambi la natura della veglia in programma per oggi», disse Heidi.
«Dovevamo pregare per la salvezza di Beth.»
Heidi annuì. «Adesso dovremo pregare per la salvezza della sua anima.»
Ferma e pesante, l’aria all’interno della Frieburg Chapel era gravida della notizia relativa
all’omicidio di Beth Richards. Tutti avevano visto i telegiornali o l’avevano sentito dire mentre
facevano colazione con caffè e ciambelle zuccherate nell’atrio dell’università. Notai che i presenti
avevano la testa bassa, gesti contenuti e voci solenni. Era come se una nube di tempesta fosse caduta
dal cielo e fosse penetrata all’interno, facendo ammutolire tutto, persino le vibranti sfumature delle
vetrate della cappella.
Qualche ora prima, quando erano cominciati i notiziari, gli amministratori di Tarble avevano
pensato di cancellare la veglia, perché per definizione una veglia è uno stato di vigilanza, di allerta.
Implica una certa speranza. Ma la rettrice Monroe, che aveva personalmente telefonato a Heidi per
discutere della cosa, aveva insistito affinché la cerimonia avesse comunque luogo. L’omicidio di
Beth – aveva detto – era un’ulteriore ragione perché la comunità di Tarble si riunisse e pregasse.
La veglia, trasformata in commemorazione, non era sfuggita all’attenzione dei cronisti dei giornali
locali, che si erano avventati sulla storia dell’assassinio di una donna giovane e bella. Quella mattina
erano arrivati i giornalisti dei quotidiani dell’area di Kenosha e di Milwaukee, con taccuini e
registratori digitali, a intervistare le ex compagne di classe e i professori di Beth. Tecnicamente
avrei dovuto fare la stessa cosa anch’io. L’indomani mattina avrei dovuto consegnare a Craig un
articolo sulla scomparsa di Beth, ma senza dubbio ora se ne aspettava uno sul suo omicidio. Io però
sapevo che non ci sarebbe mai stato nessun articolo: era un caso estremo di conflitto d’interessi.
Mentre Heidi e io ci sedevamo nei banchi in prima fila, osservai le altre persone – calcolai che
fossero almeno centocinquanta – prendere posto. Nessuno parlava e il silenzio amplificava i loro
passi pesanti sul pavimento di legno. Vidi Sarah Iverson, con un fazzoletto premuto sugli occhi rossi
e gonfi, che si sedeva poche file dietro di noi. C’erano anche le altre ragazze della mia classe, oltre
alla professoressa Barnard.
«È tradizione rivolgersi a voi con un buongiorno», disse finalmente la rettrice Monroe dal pulpito,
quando la folla si fu zittita. Indossava un tailleur pantalone nero invece del suo solito rosso o blu.
«Però questa è una mattina di grande dolore. Oggi dovevamo pregare per Beth Richards, per evocare
la forza e il coraggio necessari per ritrovare la strada di casa. E invece abbiamo ricevuto una notizia
che ci pare assurda. Un uomo malato e fuorviato ha confessato di averle tolto la vita.»
La Monroe abbassò lo sguardo verso il podio e sospirò. In risposta un’ondata di emozione si
diffuse tra le file dei presenti che sospirarono a loro volta.
La rettrice pareve faticare a trovare le parole, il volto contorto in quello che sembrava un vero e
proprio stato di shock. «Che senso possiamo dare a questa tragedia?» chiese, ritrovando la sua
compostezza. «Suppongo che serviranno riflessione, preghiera e, forse, perdono. E questo richiede
tempo. Ma ora dobbiamo ricordare Beth per la sua vita, non per la sua morte.»
La rettrice continuò descrivendo Beth Richards come una «studentessa bella e intelligente,
appassionata negli studi e nella vita». Poi invitò le ex compagne di classe e i professori di Beth a
farsi avanti e a parlare. Lo fecero in molti. Un insegnante condivise un aneddoto, un altro un ricordo
affettuoso. Parlò persino Sarah Iverson, raccontando alla folla con voce tremante di quella volta che
lei e Beth avevano studiato tutta la notte in vista degli esami del primo anno, solo per scoprire poi
che Beth era già passata con il massimo dei voti.
Mentre Sarah parlava, vidi Mark alzarsi dall’altra parte della navata. Nessuna traccia di Meryl.
Non sapevo che ci sarebbe stato anche lui. Avrebbe osato tenere un discorso su Beth? No. Lo vidi
districarsi per uscire dal banco a testa bassa, quindi scomparve nell’atrio attraverso le porte a vetri.
Quando nella cappella calò un silenzio improvviso e il microfono fu libero, la rettrice Monroe
recitò una semplice preghiera, dopodiché ci incoraggiò a iniziare un dialogo sul modo di trovare la
pace tra gli uomini.
Heidi e io ci ritrovammo con le altre ragazze nell’atrio, dove ci abbracciammo, piangemmo e
rimanemmo in gruppetti silenziosi, cercando di avvolgere la mente attorno a quella notizia. Avevamo
preso tutte una tazza di caffè, una ciambella e un tovagliolino di carta con cui tenerla, ma nessuna di
noi sembrava voler mangiare o bere. Invece ci scambiavamo frammenti di pensieri.
«Spero che gli diano la pena di morte», disse Joy.
«La sua povera mamma…» aggiunse Amanda.
Janice, pensai. Povera Janice. Come aveva preso la notizia? Era svenuta, scoppiata in lacrime o
aveva urlato contro l’ispettore Pickens picchiandogli il petto con i pugni? Me la vedevo ripetere
«no» migliaia di volte, come se pronunciare quella semplice parola potesse negare la realtà del
destino della figlia. A un certo punto avrebbe dovuto accettare la perdita e fare cose che non aveva
mai pensato le sarebbero toccate, come scegliere una bara e un luogo di sepoltura, fissare una data
per la veglia e il funerale, pubblicare i necrologi sui giornali locali. Io ero rimasta al fianco di mia
madre durante tutta quella trafila quando era morto mio padre, e me lo ricordavo come un sogno
lucido, un incubo da sveglia.
Stavo per addentare la ciambella – o almeno leccare un po’ di zucchero a velo – quando sentii
qualcuno che mi toccava una spalla. Era Tia Clark, la leader della protesta contro l’apertura del
college ai maschi. La riconobbi dalla lezione della professoressa Barnard di venerdì.
«Mi spiace per la tua amica», disse, aggiustandosi imbarazzata la T-shirt troppo stretta su cui c’era
scritto LE DONNE PERBENE RARAMENTE FANNO LA STORIA. Prendendomi per un gomito mi
allontanò dal gruppetto delle mie amiche. Mi stringeva il braccio così forte da strapparmi un gemito,
ma la ringraziai per le sue parole gentili.
Però sembrava che Tia tenesse la bocca serrata, come per non lasciarsi sfuggire quello che voleva
dire. «Senti, forse non è il momento più adatto, ma vorrei parlarti di questa Beth Richards.»
«Invece non riesco a immaginare un momento più adatto», le dissi. Dopotutto era la veglia
commemorativa di Beth.
L’espressione di Tia si fece più aspra. «Non ha nulla a che fare con il suo omicidio. È una cosa un
po’ strana... Pensavo che tu dovessi saperlo, tutto qui.» Prese un pezzo di carta dalla tasca posteriore,
il programma sgualcito dell’evento di quella mattina. «Ho parlato con Beth Richards circa due
settimane fa», disse. «Allora non sapevo come si chiamasse. Però quando ho visto le sue foto
oggi…» Indicò il programma che riportava la foto di Beth in prima pagina. Era la stessa immagine
che avevano mostrato tutti i telegiornali. «Sono certa che fosse lei. Era venuta a parlare con Julie.»
Sentii un tonfo al petto. «Julie Farris?»
«Stavamo protestando nel boschetto e lei si avvicinò chiedendo chi di noi fosse Julie.»
«E Julie le ha parlato?»
«Era a lezione.»
«Beth ha detto che cosa voleva?»
«No. Non credere che non gliel’abbia chiesto. Mi ha risposto che era una faccenda privata.»
Tornai a fissare le trecce bionde e l’espressione dura di Tia e mi domandai che direzione stesse
prendendo la nostra conversazione. «Non sono sicura di capire», dissi.
«Sembra un po’ strano, no? Che Beth sia andata a cercare Julie e poi, be’, sia morta? E qualche
giorno dopo Julie abbia tentato di uccidersi?»
Altro che strano, pensai, considerando il legame di Mark con entrambe.
«Non capisco perché lo vieni a dire proprio a me», chiarii.
«Tu sei Ruby Rousseau, giusto?»
Annuii.
«Be’, quando ho parlato con Beth, lei aveva qualcosa in mano, qualcosa che immagino avesse
portato da far vedere a Julie. E io ho cercato di vedere che cosa fosse, perché sono una ficcanaso.»
«Che cos’era?»
«Una specie di rivista. Non patinata, qualcosa dall’aspetto più serio. Ho riconosciuto solo le
parole Midwest e Council. Il resto era coperto da un Post-it giallo.»
«D’accordo…»
Tia si sistemò un’altra volta la maglietta. «Aveva scritto dei nomi di ragazze sul Post-it. Quattro
nomi. Quello di Julie era in cima.»
Mi strinsi nelle spalle, come per dire che non capivo.
Esitò. «E il tuo nome era scritto immediatamente sotto.»
13.
Beth Richards sapeva di me. O, per lo meno, sapeva qualcosa di me. Aveva scritto il mio nome su
una specie di lista, una lista che comprendeva anche Julie Farris. Avevo due cose in comune con
Julie: Mark Suter e il mio tentativo di suicidio. Quali altri nomi si era appuntata Beth? Era una lista
delle conquiste di Mark?
Mi veniva in mente solo una persona a cui chiedere.
Dovetti aspettare venti minuti prima dell’inizio dell’orario di visita al reparto psichiatrico del
Kenosha General, e poi ci furono altri dieci minuti di formalità – metal detector e perquisizione,
etichetta arancione squillante con il nome, chiavi dell’auto infilate in una busta di plastica trasparente
e inventariate, e la passeggiata con scorta attraverso due porte con codice d’accesso – prima che
riuscissi a vedere Julie Farris.
Quelle misure di sicurezza mi sorpresero. Io ero stata solo una paziente in un reparto di
psichiatria, mai una visitatrice. E mentre subivo ogni passo della procedura pensavo a mia madre,
che doveva aver fatto lo stesso tutte le volte che era venuta a trovarmi prima che mi dimettessero.
Come ci si sente – mi domandai – quando ti perquisiscono prima di farti vedere tua figlia? Avevo
ferito mia madre più di quanto sapessi.
Incontrai Julie in una sala comune, piena di divani duri e tavoli e sedie sterili. Poiché era sotto
sorveglianza per rischio di suicidio, un’infermiera rimase nella stanza mentre parlavamo, pronta a
intervenire al primo cenno di autolesionismo.
Rimasi a bocca aperta quando vidi i lunghi capelli biondi di Julie e la sua figura alta e slanciata.
Heidi aveva ragione: assomigliava a Beth Richards, non soltanto per il colore dei capelli e per la
corporatura, ma anche per la fisionomia del volto. Occhi azzurri ravvicinati, naso sottile, labbra
sporgenti. “Avrebbero facilmente potuto essere sorelle”, pensai. Forse persino gemelle.
«Non ero sicura che avresti accettato di vedere qualcuno che non conoscevi», dissi.
Julie non rispose, ma si girò sulla sedia. «Può lasciarci sole per un po’?» chiese all’infermiera.
«Conosci le regole», replicò la donna.
Con riluttanza Julie si girò di nuovo verso di me. «So chi sei», disse infine. «A dire il vero volevo
chiamarti non appena mi avessero fatto uscire di qui.»
«Sul serio?»
Si sistemò la scollatura del camice ospedaliero perché pendeva da una parte, scoprendole la
clavicola sinistra più della destra. «Abbiamo molto in comune, no?»
«Che cosa sai?» chiesi.
«Prima tu.»
Feci una pausa, colta alla sprovvista dal suo approccio diretto e dalla sua voce fredda e
calcolatrice.
«Hai denunciato Mark Suter per molestie sessuali», dissi infine. «Però sospetto che ci fosse
qualcos’altro sotto. Hai avuto una relazione con lui, non è così? Lo ami.»
Lei sogghignò. «Non più.»
Due notti nel reparto di psichiatria avevano ovviamente fatto miracoli per Julie. Era passato un
anno e io Mark lo amavo ancora. Temevo che l’avrei amato sempre.
«Hai anche detto che ti ha dato un brutto voto», aggiunsi, «quando ti sei rifiutata di andare a letto
con lui.»
«Okay, non è vero che l’ho respinto, ma è vero che mi ha dato un brutto voto per motivi personali.
Molte persone non sanno giudicare oggettivamente quello che scrivono, ma io sì. E la tesina che
avevo scritto era una figata.»
Ammiravo la sua sicurezza, ma mi lasciava anche perplessa. Questa ragazza – una ragazza che
aveva tentato di uccidersi solo due giorni prima – era davvero sicura di sé o era solo una posa?
Stava cercando di apparire così perché i medici la dimettessero prima?
«Perché lo hai fatto?» chiesi.
«Perché meritavo una A.»
«No, intendo dire, perché hai preso le pastiglie?»
«Ah.» D’un tratto le cascarono le guance. «Perché ero devastata, naturalmente. Mi aveva messo la
testa sottosopra. L’ha fatto con me come l’ha fatto con te.»
«Tu sai di me?»
«Tutti sanno di te.»
Ovviamente la macchina dei pettegolezzi di Tarble aveva assicurato la mia fama per i decenni a
venire.
«Ma come sapevi della mia relazione con Mark?»
Lei si sistemò un’altra volta il camice. «Me l’ha detto lui.»
Non riuscivo a capire perché Mark avesse raccontato di me a Julie Farris. A che scopo? Ero uno
scheletro del suo passato, un elemento imbarazzante. Ma non insistetti sull’argomento. Vidi
l’infermiera che controllava l’orologio. Avevamo un tempo limitato e io avevo domande più
importanti da fare.
«Di recente è venuta a parlarti una ragazza di nome Beth Richards?»
Julie non batté ciglio. «La mia amica Tia mi ha detto che una ragazza mi ha cercata, un giorno, nel
boschetto, ma non le ho mai parlato. Non so che cosa volesse.» Increspò la fronte, come se
all’improvviso fosse curiosa. «Perché me lo chiedi?»
Feci una pausa, incerta su quale informazione rivelare per prima.
«Era in tutti i notiziari stamattina», decisi di dire. «È stata assassinata.»
Sbatté le palpebre per la sorpresa. «Aspetta. Chi è?»
«Ha studiato a Tarble. Si è laureata l’anno scorso.» Lanciai un’altra occhiata all’infermiera che
sorvegliava la nostra conversazione. «Anche lei ha avuto una storia con lui. Penso che fosse venuta a
cercarti per questo.»
Dissi a Julie della lista di Beth, anche se non sapevo quali altri nomi ci fossero su quel foglio. «La
mia ipotesi è che stesse cercando di mobilitarci», aggiunsi. «Farci uscire allo scoperto e
denunciarlo.»
«E ora è morta?»
Annuii. «Tia ha detto che aveva in mano anche una pubblicazione, qualcosa con le parole Midwest
e Council. Ho cercato su Google, e potrebbe trattarsi di una rivista letteraria accademica pubblicata
dal Midwest Collegiate Council. Ti dice qualcosa?»
Lei fece cenno di no con la testa. «Si sa chi l’ha uccisa?»
«Uno di Pittsburgh. A dire il vero pensano sia un serial killer.»
Questa informazione avrebbe dovuto innervosire Julie e farla rabbrividire visibilmente, ma
sembrò invece tranquillizzarla. Forse, per un istante, anche lei aveva sospettato di Mark.
«E tu perché volevi parlarmi?» chiesi.
«Per lo stesso motivo. Chiederti di denunciarlo. Lo farai?»
«Vuoi andare ancora fino in fondo?»
«Perché non dovrei?»
Immaginavo, a causa del tentato suicidio, che Julie avrebbe lasciato cadere le accuse contro Mark.
Pensavo volesse dire che non era più così determinata. Volevo vedere Julie come vedevo me stessa:
innocente e ferita. Però nei suoi occhi taglienti e nella sua lingua svelta c’era qualcosa che lo rendeva
impossibile.
«Ma perché non hai mai detto niente?» sbottò. «L’anno scorso? Quando è successo?»
Perché uscire allo scoperto sarebbe stato come dire che quella relazione era sbagliata, pensai. Che
non era amore, ma qualcosa di immorale. Qualcosa di disgustoso. Mi avrebbe fatta sentire come
quella prima notte a New Orleans, la notte in cui la donna del caffè aveva detto sottovoce «mah», la
notte in cui non riuscivo a togliermi la macchia di zucchero a velo dal vestito.
«Non volevo che lo sapesse nessuno», dissi invece.
«E adesso?»
Mi strinsi nelle spalle.
«È colpa sua se hai cercato di ucciderti, lo sai. E se ci ho provato anch’io. Deve pagare per quello
che ci ha fatto.»
«Non ci ha messo i sonniferi in bocca, Julie.»
«Ma abbiamo rischiato di morire. Ora sarei morta se la referente interna non mi avesse trovato.»
Non volevo giocare a «di chi è la colpa». L’avevo fatto fin troppe volte con Gwen. Concordavamo
che non potevo dare interamente la colpa a me stessa, però dovevo assumermi la responsabilità delle
mie azioni. Era stata una mia scelta quella di inghiottire le pillole.
«Okay. Lascia che ti chieda una cosa.» Julie tornò alla carica. «Mark non ti ha mai dato un brutto
voto, un voto che non ti meritavi?»
«La mia tesi. Mi ha dato una D.»
«La prima D che hai preso in vita tua, giusto?»
«L’unica.»
Julie incrociò le braccia compiaciuta. «Allora forse è ora che qualcuno dia un secondo parere.»
Quella domenica pomeriggio avevo trovato la professoressa Barnard che stava correggendo dei
compiti nel suo ufficio, sulla scrivania un altro muffin mangiato a metà, stavolta al limone e ai semi
di papavero. Però aveva accettato cortesemente di recuperare una copia della mia tesi dalla
segreteria del dipartimento di inglese senza chiedere spiegazioni.
Adesso era seduta a leggere le mie parole su Una stanza tutta per sé e sulle tribolazioni delle
scrittrici che volevano dare sfogo alla loro creatività in un settore da sempre dominato dagli uomini.
Mentre aspettavo che si pronunciasse su quale sarebbe stato un voto ragionevole, il cuore mi batteva
forte e veloce e non riuscivo più a restare seduta a guardarla. Andai su e giù per il suo ufficio,
leggendo ogni centimetro della sua bacheca.
Poco dopo la professoressa Barnard alzò gli occhi e mi fece un sorriso, ampio e onnisciente. La
sua espressione mi diceva che il verdetto era positivo. Ma quale sarebbe stata per me la buona
notizia? Volevo la conferma che Mark era stato onesto e che il suo voto era stato giusto? O preferivo
sapere di avere scritto una tesi di buon livello?
La professoressa posò il documento e si tolse gli occhiali da lettura, ma non parlò. La bocca era
piegata da un lato, come se stesse masticando le parole. «Ti avrei dato A meno», dichiarò infine.
«Buono a sapersi», dissi. «Perché il professor Suter mi ha dato D.»
«La valutazione dei saggi è sempre soggettiva, però una D non è assolutamente giustificata.» Fece
una pausa. «A meno che, naturalmente, non si tratti di un plagio.»
«Non lo farei mai.»
«Forse non intenzionalmente, ma… devo essere onesta con te, Ruby, ho la sensazione di aver già
letto qualcosa del genere.»
«Com’è possibile?»
Si strinse nelle spalle. «Dimmelo tu.»
Sbuffai sbalordita. «Ogni parola di quella tesi è mia, professoressa Barnard, tranne le citazioni.»
La fissai dritto negli occhi per dimostrare che non stavo mentendo. «Non ho rubato niente.»
Lei resse il mio sguardo. «Però mi è così familiare che…» Liquidò la cosa con un cenno della
mano. «Ma suppongo che ormai non importi più nulla, no?»
«Invece importa», dissi. «Importa a me che lei mi creda.»
Il suo sguardo si addolcì. «Ti credo, ma non capisco dove andiamo a parare. Perché me l’hai fatta
leggere? Vuoi contestare il voto? Perché adesso? Perché non hai detto qualcosa l’anno scorso?»
Deglutii. «Immagino che m’importasse più di lui che del voto.»
Socchiuse le labbra dalla sorpresa. «Vuoi dire che era Suter? È di lui che hai scritto in classe da
me l’altro giorno?»
«Abbiamo avuto una relazione», dissi, anche se odiavo tutto ciò che rievocava quella parola.
Tuttavia era il termine più adatto, la descrizione più accurata. Non era amore. Almeno non lo era per
lui.
La professoressa sospirò. «Non mi sorprende. Conosco il tipo. Arrogante ma affascinante.
Intelligente ma emotivamente immaturo. Ho avuto a che fare con un’infinità di uomini come lui a ogni
livello della mia carriera. Sapevo che era viscido, anche quando ho fatto il colloquio per questo
posto.» Scrollò la testa con sincero disgusto. «Suppongo che non sia finita bene, vero?»
«Il giorno in cui ha assegnato i voti è stato lo stesso in cui mi ha detto che era finita», spiegai. «Ed
è lo stesso giorno in cui ho tentato di uccidermi.»
«L’hai denunciato?»
«Volevo solo dimenticare che fosse mai successo.»
«E ce l’hai fatta? Hai dimenticato?»
Abbassai la testa, in silenzio.
«Senti, Ruby, sarò felice di appoggiarti se decidi di contestare questo voto, ma prima devi
rispondere a una domanda molto importante: che cosa ti sta più a cuore adesso?» Indicò la mia tesi:
«Suter o la tesi?».
Feci una smorfia. «Non è tutto bianco e nero. So che dovrei raccontare di noi, perché lui si è
approfittato della situazione. Ma non posso farlo, non voglio che lo sappia nessuno. Non voglio che
mia madre lo sappia.»
«Capisco come ti senti, però gli uomini come Suter non sono in grado di controllare il loro
bisogno di potere, il loro bisogno di dominare. Se ti ha trattato così, scommetto che l’ha fatto anche
con altre studentesse. Se esci allo scoperto, potrebbero farlo anche le altre.»
«Un’altra ragazza l’ha già fatto», dissi. «Qualche giorno fa Julie Farris l’ha denunciato al college
per molestie sessuali.»
«Julie? Non dirmi che anche lei aveva una storia con Suter!»
«Era distrutta quando lui l’ha mollata», dissi. «Proprio come me. Ecco perché l’ha fatto, mi ha
detto.»
«Le hai parlato?»
Allora raccontai alla professoressa della mia visita al reparto di psichiatria.
La Barnard fece schioccare la lingua. «Avrei voluto che Julie fosse venuta da me. Avrei potuto
aiutarla.» Fece una pausa. «Come sta? Emotivamente, intendo.»
Ripensai a Julie, alla sua fredda sicurezza, così poco caratteristica di qualcuno che aveva appena
tentato il suicidio. «Molto meglio di quanto mi aspettassi. Vuole ancora far licenziare Suter e mi ha
chiesto di aiutarla.»
«E tu lo vuoi fare? Far licenziare Suter?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Perché vuoi proteggerlo, Ruby?»
«Non voglio proteggerlo, voglio proteggere me stessa.»
«Ma il silenzio è assenso. Ecco perché le mie manifestanti vanno in quel boschetto ogni giorno.»
«Il silenzio è anche dignità», ribattei.
«Ma se nessuno lo ferma, lui continuerà a comportarsi così, con altre ragazze, in continuazione. E
guarda le conseguenze. Tu e Julie avete entrambe cercato di uccidervi. Per fortuna non ci siete
riuscite. Un giorno, però, qualche ragazza potrebbe…» Si fermò e deglutì. «Qualche ragazza potrebbe
finire male.»
Mi si rivoltò lo stomaco per il senso di colpa.
«Forse non c’è bisogno di raccontare della vostra relazione», suggerì. «Concentrati sul voto e
basta. Già quello è sufficiente per far licenziare Suter.»
«Verrebbe licenziato per aver assegnato un voto ingiusto a una tesi?»
«A due tesi», mi corresse. «Rivedrò anche quella di Julie. Sono sicura che non concorderò con la
sua valutazione. Il problema è: come faccio a mettere le mani sulla sua tesi? Se Julie si è lamentata
del voto, probabilmente la copia non sarà nell’archivio del dipartimento ma nel suo dossier
personale, e a quello non ho accesso. Solo gli amministratori ce l’hanno.»
Heidi, pensai. Heidi aveva accesso a quei dossier. Però volevo trascinarla in questa faccenda?
Malgrado le cattiverie che Heidi diceva sempre su Tarble, vedevo che il suo lavoro le piaceva
davvero e che era brava a svolgerlo. Non volevo mettere a repentaglio la sua carriera. Ma sapevo
che anche lei voleva fare licenziare Mark – me l’aveva detto a pranzo il giorno prima – e che lo
odiava.
«E se riuscissi a recuperarla io?» chiesi.
Sbirciando fuori dalla porta del suo ufficio, Heidi guardò nel corridoio, in entrambe le direzioni. Il
campo era libero: Langley Hall era silenziosa e quieta come ogni domenica. Mi fece cenno di
entrare.
«L’hai trovata?» le chiesi, seguendola.
«Oh, sì.» Chiuse la porta alle nostre spalle. «E ho anche qualcos’altro.»
Mi porse un foglietto di carta azzurro chiaro, con l’emblema di Tarble ben visibile in cima. Il
bordo del foglio mostrava ancora tracce di colla perché era stato strappato da un blocchetto da
scrivania. Fissai quello che Heidi vi aveva scritto in inchiostro nero e poi le feci la domanda di cui
conoscevo già la risposta.
«Che cos’è?»
«Le altre ragazze che Suter ha fregato», disse.
14.
Tina Beyers e Madeline Kohl.
Fissai i due nomi che Heidi aveva scritto sul foglio e mi chiesi se fossero gli stessi della lista di
Beth Richards.
«Li hai trovati nel dossier di Julie?» chiesi.
«In quello di Suter.» Fece tintinnare una chiave dorata appesa a una catenella. «La mia chiave
generale funziona con qualsiasi porta dell’edificio, compreso l’ufficio del personale.»
Secondo l’archivio relativo ai dipendenti, Mark era stato oggetto non di una, ma di tre denunce per
molestie sessuali nel corso degli ultimi due anni. Le altre due denunce – inoltrate da Tina Beyers e
Madeline Kohl – erano poi state ritirate. Perché avessero rinunciato non avrei saputo dirlo, ma
almeno ci avevano provato. Come Julie Farris, avevano fatto qualcosa di nobile, qualcosa di
coraggioso, qualcosa cui io non avevo neanche pensato. Che avessero avuto una storia con Mark o
fossero state semplicemente oggetto delle sue attenzioni, avevano rotto il silenzio su di lui.
Ero in grado di seguire il loro esempio?
«Entrambe si sono ritirate da Tarble», proseguì Heidi. «Avete anche questo in comune. Ma
nessuna di voi si assomiglia. Se Suter ha un tipo preferito, qui non lo vedo. Ecco, ti faccio vedere.»
Andò verso lo schermo del computer sulla sua scrivania.
Avvicinai una sedia al suo fianco. «Hai le foto delle studentesse sul computer?»
«Tarble ha sostituito gli archivi cartacei con quelli digitali qualche anno fa», spiegò Heidi. «Figo,
eh?»
Annuii.
«Okay. Questa è Tina Beyers», disse, cliccando sul mouse.
Studiai i lineamenti minuti e infantili della ragazza – una frangetta di folti capelli castani pettinata
da un lato a scoprire una fronte stretta – e faticai a credere che Mark avesse mai avuto una relazione
sessuale con Tina o che ci avesse mai provato. Non sapevo con certezza quale fosse il suo tipo, visto
che io avevo i capelli ramati e Beth e Julie erano bionde, ma in ogni caso Tina Beyers non sembrava
quello adatto.
«Adesso guarda questa Madeline», disse Heidi, avvertendo che ero pronta ad andare avanti.
Quando il computer ebbe caricato la foto, spalancai la bocca. Madeline. Quei capelli neri e corti
erano indimenticabili. Non avevo dubbi: era la ragazza che stava piangendo nell’ufficio di Mark quel
pomeriggio, il giorno in cui io e lui eravamo andati a prendere un caffè, il giorno in cui tra noi era
cominciato tutto. Ricordai che cos’era accaduto nel suo ufficio, come Mark le aveva detto di tornare
un’ora dopo e come in seguito l’aveva trascurata per restare a chiacchierare con me.
Probabilmente aveva aspettato fuori dalla porta del suo ufficio tutto il pomeriggio.
«La conosco», dissi.
«Davvero? Chi è?»
Fissai la foto un attimo più a lungo. «La ragazza che Mark ha mollato per mettersi con me.»
Heidi mi permise di usare il telefono del suo ufficio per fare la telefonata e io premetti ogni tasto
con attenzione, confrontando due volte ogni cifra con quelle che lei aveva scritto. Lasciai che il
telefono squillasse otto volte prima di riagganciare e ricomporre il numero, pensando che nonostante
la concentrazione e la precisione i nervi mi avessero indotto a premere un tasto sbagliato. Il telefono
squillò altre dieci volte e io ero già pronta a riattaccare, ma proprio mentre stavo staccando il
ricevitore dall’orecchio una donna rispose.
«C’è Madeline?» chiesi.
«Sono io», disse, a voce bassa ed esitante.
«Sono Ruby Rousseau», cominciai. «Probabilmente non ti ricordi di me, ma…»
«Mi ricordo di te.»
Il suo tono era così freddo che mi venne un brivido. Madeline Kohl si ricordava di me, ma non con
affetto.
«Eravamo insieme a Tarble», divagai. «Ero all’ultimo anno quando tu eri al primo…»
«So chi sei. Che cosa vuoi?»
Non c’era modo di girarci attorno per arrivare al punto, così ci arrivai subito. La reazione di
Madeline sarebbe stata rivelatrice, pensai. «Voglio parlarti di Mark», dissi.
Silenzio. E poi: «Che cos’hai da dirmi?».
«Usciva con te quando ha iniziato una relazione con me.» Non era tanto una domanda, quanto
un’affermazione che poteva confermare o negare.
All’altro capo Madeline rimase in silenzio.
«Pronto?» dissi, pensando che avesse riappeso.
«Sono qui.» La sua voce era apprensiva. Sospirò. «Mi aveva detto che si stava rimettendo con sua
moglie, ma io sapevo che mentiva. Sapevo di te. Come potevo non saperlo? Come potevo fingere di
non vedere come ti ha guardato quando sei entrata nel suo ufficio quel giorno, o quante volte ti ho
visto entrare nel suo ufficio in seguito? Ho osservato. Ho osservato come si svolgevano le cose. Ho
visto che intorno a me crollava tutto, finché non ce l’ho più fatta.»
Sentii un vuoto nella sua voce, un mormorio cavo che mi ricordava il mio. Era inspiegabile che,
senza nemmeno saperlo, io avessi contribuito a ferire quella ragazza. Mi chiesi se avessi mai visto
Madeline ciondolare fuori dall’ufficio di Mark o nascondersi dietro a un pilastro di Langley Hall per
spiarci.
«È per questo che hai abbandonato l’università?» chiesi.
«Il mio dottore ha detto che era la cosa migliore da fare.»
«Il tuo dottore?» Ebbi un tuffo al cuore. «Intendi dire uno psicologo?»
«Non volevo più vivere.»
«Hai tentato…?»
«No. Mi sono passata un coltello su un polso, una volta», disse. «Ma non ho avuto il fegato di
premere. Ho cercato aiuto prima di fare una stupidaggine.»
«Una stupidaggine», come quella che avevamo fatto Julie e io con le nostre pastiglie. Tremai al
pensiero di quanto noi tre avevamo in comune.
«Non sapevo niente di te, Madeline. Lo giuro», dissi. «Almeno non allora. Ma voglio che tu sappia
che anche con me ha usato la stessa scusa, quella di aggiustare le cose con Meryl. Era una bugia, è
semplicemente passato a un’altra ragazza.»
«Vuoi la mia compassione o cosa?» sbottò.
Non potevo biasimare Madeline per la sua collera. Era la stessa furia che avevo provato io nei
confronti di Beth quando avevo scoperto chi era la figura formosa che avevo visto a cavalcioni di
Mark attraverso la finestra.
«Mark non l’ha fatto soltanto con te e con me», le dissi. «Ci sono altre due ragazze. Forse anche di
più. E se fossi coraggiosa come voi, potrei uscire allo scoperto e raccontare quello che è successo…
Insomma, l’unione fa la forza, no?»
«Coraggiosa come me?» si schermì Madeline. «Di che cosa stai parlando? Non ho fatto niente di
coraggioso. Ho fatto la cosa più vigliacca che si potesse fare. Sono scappata.»
«Non direi che denunciarlo sia un atto di vigliaccheria.»
«Non ho sporto proprio nessuna denuncia. Che cosa te lo fa pensare?»
Non potevo fare il nome di Heidi o raccontare i rischi che aveva corso per aiutarmi quando aveva
curiosato in quegli archivi riservati, però non capivo. La denuncia compariva nel fascicolo di Mark.
Perché ora Madeline avrebbe dovuto mentire?
«Quindi non hai detto nulla all’amministrazione di Tarble su quello che è successo fra te e Mark?»
chiarii. «Non l’hai accusato di molestie sessuali?»
«No. E non l’ho mai nemmeno detto a nessuno. Mark me l’ha fatto promettere. Aveva paura di
perdere il lavoro.»
«Come andavi alle sue lezioni?» chiesi. «Voglio dire, ti dava dei voti equi?»
«Il mio saggio sulla Lettera scarlatta…» disse. «Era la tesina di cui stavamo parlando quando ci
siamo viste nel suo ufficio. Ci avevo lavorato sodo, per fare colpo su di lui e mostrargli che ero
intelligente e creativa.» Fece una pausa. «Però mi aveva dato una D.»
E con Madeline erano tre.
Tornai nell’ufficio della professoressa Barnard armata di una copia del saggio di Julie Farris e
glielo porsi con aria orgogliosa, come una bambina di otto anni che sfoggia i suoi primi biscotti
cucinati con il forno giocattolo. «L’ho già letto», dissi. «È buono.»
Lei sorrise e, in un primo momento, tenne il documento con la punta delle dita, come se fosse
contaminato. «Ah, sì. Anne Bradstreet. La prima poetessa americana», commentò, scorrendo il saggio
di Julie con occhio esperto. «Non ti chiederò come l’hai avuto.»
«Ottimo, anche perché non potrei dirglielo.» Feci una pausa. «Ma c’è dell’altro.»
Quando inarcò le sopracciglia con aria curiosa, le raccontai tutto quello che ero venuta a sapere da
quando ci eravamo salutate: le altre denunce nei confronti di Mark per molestie sessuali nell’archivio
del personale e la mia successiva conversazione con Madeline Kohl a proposito del suo saggio sulla
Lettera scarlatta.
«Anche se queste ragazze hanno ritirato le loro accuse, non riesco a credere che Suter conservi
ancora il suo posto.» La professoressa Barnard scrollò la testa. «Tre lamentele sono sufficienti a far
alzare più di un sopracciglio. Ovviamente l’amministrazione qui si è sbagliata di grosso.»
«Ma adesso arriva la parte strana», aggiunsi. «Madeline dice di non avere mai sporto denuncia.»
«Ma deve averlo fatto, se era nel dossier di Suter.» La professoressa arricciò il naso confusa.
«Che cosa ha detto l’altra ragazza, questa Tina Beyers, quando le hai parlato?»
«Non sono riuscita a rintracciarla, ma continuerò a provarci.»
«Pensi che ce ne siano altre?»
Mi strinsi nelle spalle. «C’erano solo quattro nomi sulla lista.»
«Lista?» Socchiuse gli occhi. «Quale lista?»
Feci una smorfia quando mi resi conto della mia svista. Non volevo fare cenno alla relazione di
Beth con Mark, né alla professoressa Barnard né a Heidi, né a nessun altro. Però era troppo tardi.
Considerai se fosse il caso di mentire, dicendole che mi ero sbagliata a parlare, ma la professoressa
sembrava troppo intelligente per bersela. Così non ebbi altra scelta se non raccontarle la verità,
ovvero che Beth era il motivo per cui Mark aveva rotto con me e che lei era venuta al campus a
cercare Julie Farris per mostrarle una lista di nomi e la rivista accademica del Midwest Collegiate
Council.
«Non so che cosa c’entri con Mark quella rivista», aggiunsi.
La professoressa spalancò la bocca. «Il corso d’aggiornamento», sbottò.
«Il… che cosa?»
Allora si alzò e cominciò a passare in rassegna il contenuto degli archivi delle riviste sullo
scaffale. «L’agosto scorso, al mio corso d’aggiornamento, ricordo che hanno conferito dei
riconoscimenti ad alcuni professori, e Mark Suter era uno di loro. Ha pubblicato una ricerca in un
numero recente di quella rivista. Ne sono quasi sicura. È qui. So che è qui.»
Dopo aver fatto cadere qualche libro dallo scaffale, tirò fuori diversi numeri del trimestrale in
questione, e cominciammo a sfogliarli girando le pagine con foga. Non ci prendemmo nemmeno la
briga di sederci. Restammo in piedi, l’una accanto all’altra, con le riviste aperte sulle scaffalature.
La professoressa parlò per prima.
«Eccolo», disse prima di leggere il titolo. «Depressione femminile e creatività letteraria: una
rivisitazione delle opere di Woolf, Plath e Gilman, di Mark Suter, professore associato di inglese,
Tarble College.»
Mi cadde la mascella.
«Ti ha rubato il lavoro», disse.
Fissai l’articolo e cominciai a leggerlo, seguendo le parole con il dito, sperando di trovare scelte
lessicali e sintattiche diverse dalle mie. Una parola o due erano state cambiate, un paragrafo era stato
omesso, ma la maggior parte del testo era mio. Parola per parola.
«Spero che non ti spiaccia», ricordai che Mark aveva detto a New Orleans dopo il convegno, «se
ho condiviso alcune delle tue idee… Ti ho dato il giusto credito, naturalmente. Senza citare il tuo
nome.»
Che bugiardo, pensai. Non avevo perso i miei appunti, a New Orleans. Me li aveva rubati lui.
La professoressa puntò il dito indice contro l’articolo. «Ecco perché non riuscivo a scrollarmi di
dosso l’impressione di aver già visto la tua tesi o di avere letto qualcosa di simile», osservò. «Non
c’è da stupirsi che ti abbia dato una D. Non voleva che pensassi che il tuo lavoro fosse valido.»
Deglutii una pozza di saliva che mi si era formata in bocca da quando stavo trattenendo il respiro e
guardai ancora l’articolo, con a fianco il nome di Mark come autore. Le guance mi avvamparono.
«Diceva sempre che doveva pubblicare molto per compiacere il comitato per l’assegnazione della
cattedra, che doveva apparire prolifico», dissi. «E invece di fare lui il lavoro, l’ha rubato a me.»
«Non soltanto a te. Sono pronta a scommettere che ha rubato anche da Julie e da Madeline.» La
professoressa tornò alla scrivania e prese in mano la tesi di Julie. «Scommetto che Suter ha salvato
sul suo computer questo stesso testo su Anne Bradstreet, ma con il suo nome in cima, pronto da
consegnare: un altro articolo da aggiungere al suo curriculum vitae orrendamente lungo.»
Il computer di Mark, pensai. Che cosa avrei trovato se vi avessi dato un’occhiata? Altri articoli
rubati alle sue studentesse? Le prove delle sue innumerevoli relazioni? Lettere d’amore a Beth?
Sicuramente la chiave generale di Heidi avrebbe aperto la porta del suo ufficio.
Heidi avrebbe voluto fare anche qualcos’altro, oltre a darmi la sua chiave generale; avrebbe
voluto intrufolarsi nell’ufficio di Mark insieme con me. Però aveva già rischiato di perdere il posto
spiando negli archivi del college e non potevo permettere che diventasse mia complice in tutto e per
tutto. Con rammarico mi lasciò andare da sola. Voleva aspettarmi nel suo ufficio, ma le dissi di
sbrigare delle commissioni e tornare al campus di lì a un’ora. In quel modo, se qualcuno mi avesse
beccato, lei non sarebbe stata presente e io avrei potuto mentire dicendo che le avevo rubato la
chiave.
Nell’ufficio di Mark l’aria era viziata e mi domandai se c’era stato dopo la sera prima, quando
Meryl l’aveva devastato. Alcuni oggetti, come i cuscini del divano e i mucchi di scartoffie, erano
stati messi a posto, ma in maniera approssimativa. I fazzoletti macchiati dal sangue di Meryl erano
ancora nel cestino della spazzatura. Era probabile che Mark non tornasse nel suo ufficio fino alla
mattina seguente, ma in ogni caso mi diressi alla scrivania con passo svelto e circospetto.
Accesi il computer ma mi fermai quando apparve la pagina con il login di sicurezza. Avevo
dimenticato che sarebbe stato protetto da una password, perché lo usava per collegarsi al sistema
informatico del college e inserire i voti. Curiosai sulla sua scrivania in cerca della password,
guardando persino sotto la tastiera, perché pensavo che l’avesse scritta da qualche parte, nel caso in
cui se la fosse dimenticata. Non l’aveva fatto. Così non avevo altra scelta che tirare a indovinare,
cercando di azzeccarla prima che troppi tentativi mi bloccassero definitivamente.
Mi guardai attorno nella stanza in cerca di qualche indizio. Era qualcosa di semplice e diretto,
come il suo nome? O forse il nome di uno scrittore? Era un qualche acronimo? O il suo compleanno?
I miei occhi andarono al cestino dei rifiuti dove Meryl aveva buttato i fazzoletti sporchi di sangue il
giorno prima. Come aveva definito Beth? L’unico vero amore di Mark?
Digitai Beth nello spazio bianco e trattenni il respiro mentre premevo il tasto invio. Niente. Sullo
schermo apparve password non valida. Fissando queste tre parole rosse, mi resi conto che le
probabilità mi erano avverse. Sapevo che avrei finito per compiere altri due tentativi, senza
successo, e il sistema mi avrebbe bloccato. Abbandonai la missione, spensi il computer ed ero già a
metà strada verso la porta quando mi fermai all’improvviso, con un’idea. Tornai di corsa alla
scrivania per un ulteriore tentativo, che questa volta fu coronato dal successo.
Beth era troppo corto per essere una password, mi ero resa conto, mentre Elizabeth no.
Quando fui riuscita ad accedere al computer di Mark, mi trovai davanti lo stesso caos che regnava
nella stanza. File e icone tappezzavano tutto il desktop. Lessi rapidamente i titoli delle cartelle,
sperando che avesse dato dei nomi semplici, facilitandomi involontariamente il compito. Saltando le
cartelle dai titoli generici come Valutazioni e Liste di libri cliccai su una chiamata Curriculum
vitae.
Il curriculum di Mark era, come aveva ipotizzato la professoressa Barnard, orrendamente lungo.
Comprendeva le credenziali di base – laurea alla Tulane e dottorato alla Northwestern – ma anche
una lista esauriente dei convegni a cui aveva partecipato, oltre a ogni articolo che aveva pubblicato.
Il suo articolo su Woolf, Plath e Gilman – quello che aveva rubato a me – era la sua pubblicazione
più recente e risaliva all’estate. Ma il titolo indicato appena prima, Decostruire Hester, attirò la mia
attenzione. Secondo il curriculum aveva pubblicato un saggio sulla Lettera scarlatta solo quattro
mesi dopo aver interrotto la sua relazione con Madeline Kohl e aver affibbiato una D al suo saggio
sul romanzo di Hawthorne. Non poteva essere una coincidenza.
Sul desktop c’era una serie di file di lavoro, senza un contenuto compiuto. Un paio erano incipit,
frammenti di romanzi o racconti brevi che non aveva mai terminato. Malgrado lo sforzo di
controllare quanti più documenti fosse possibile, non trovai nulla su Anne Bradstreet, nulla che
indicasse che aveva rubato delle idee anche a Julie Farris.
Ma mi imbattei in qualcosa di più inquietante.
Il documento s’intitolava La sua mente divisa: dove creatività e follia coincidono e già questo
ridestò il mio interesse perché si ricollegava all’argomento della mia tesi. Supponevo che si trattasse
di un’altra versione rielaborata delle mie idee, ma quando aprii il documento e vidi le parole TESTO
PER «PSYCHOLOGY NOW», PRIMA STESURA in cima alla pagina, mi vennero dei dubbi sulla
mia ipotesi.
Mi chiesi che cosa potesse scrivere Mark per una pubblicazione di psicologia.
La risposta era nel testo:
Guardando a ritroso, paragonerei la sua mente alla biblioteca pubblica della mia città natale,
affollata di fatti, storie e idee. Come uno scolaro precoce, volevo leggere ogni libro che c’era
sugli scaffali, ma non posso edulcorare la realtà: soffriva di allucinazioni. Vedeva cose che non
c’erano.
Come poteva una mente così bella e così fantasiosa essere tanto disturbata? Che cosa l’aveva
spinta sull’orlo del suicidio? La sua mente era predisposta a nevrosi e psicosi?
Ovvero, era destinata a impazzire?
Quelle parole – allucinazioni, disturbata, suicidio, impazzire – mi trafissero gli occhi come
lampi di luce mentre cercavo di dare un senso al saggio di Mark. Controllando le proprietà del
documento, vidi che aveva creato il file nel dicembre dell’anno prima, appena dopo il mio tentato
suicidio. Le guance mi avvamparono, la gola mi si strinse. Chiusi rabbiosamente i pugni.
“Sono io”, pensai stampando una copia del documento. “Sono io quella che soffre di
allucinazioni.”
15.
Quando tornai nel suo ufficio, la professoressa Barnard aveva finito di leggere il saggio di Julie.
Ormai erano quasi le tre e vedevo che la giornata la stava logorando: il trucco si era consumato, in
particolare sotto gli occhi, e quando varcai la soglia stava sbadigliando. Sapevo che, se non le avessi
chiesto aiuto, per quell’ora normalmente sarebbe già stata a casa e mi sentii male per avere messo in
dubbio le sue intenzioni, basandomi soprattutto sui commenti di Heidi a proposito della sua
sessualità. Forse era eccentrica e radicale – pensai – ma era leale. E, alla fine, questa era l’unica
cosa che contava davvero.
«Hai trovato qualcosa?» chiese. «Qualcosa sulla Bradstreet?»
«No, ma all’inizio di quest’anno ha pubblicato un articolo sulla Lettera scarlatta», dissi,
indicando la nota sul curriculum vitae di Mark. «Probabilmente l’ha sgraffignato a Madeline Kohl. E
ho trovato anche questo.» Le porsi il testo incompleto per «Psychology Now». «Parla di me. Lo so.
Ha creato il documento più o meno nel periodo in cui ho cercato di uccidermi.»
«Una rivista di psicologia? Ma perché mai lui…?» Le parole le morirono in bocca quando
cominciò a leggere. «Mio Dio», disse. «Non capisco. Se parla di te, che cosa intende per
“allucinazioni”?»
Feci una pausa. Fino a quel momento avevo raccontato soltanto a due persone delle mie visioni, a
Mark e a Gwen. «Prima di farlo, prima di prendere un’overdose di sonniferi, ho visto… penserà che
sono matta.»
Fece cenno di no con la testa. «Che cosa hai visto?»
Così le raccontai di Virginia Woolf, Charlotte Perkins Gilman e Sylvia Plath.
«Woolf, Gilman e Plath? È per questo che l’hai fatto, che hai tentato di ucciderti?»
«Pensavo di stare impazzendo», spiegai. «Non sapevo se vedevo dei fantasmi o se erano delle
allucinazioni. In seguito la mia psicologa mi ha detto che era la realtà che si manifestava in forma
surreale, o qualcosa del genere.»
Aggrottò la fronte e capii che stava mettendo in dubbio la mia salute mentale, anche se aveva detto
di no.
«Si rende conto della sfrontatezza?» proseguii. «Scrivere di me come se fossi un caso clinico?»
Emise un sospiro profondo, dal naso. «Che cosa vuoi fare?»
Finalmente compresi che cosa intendeva la professoressa Barnard il giorno prima quando aveva
parlato di stelle. Non avrei mai fatto progressi, non sarei mai guarita se non avessi affrontato di petto
il mio passato, se non l’avessi guardato negli occhi e non gli avessi detto: “Non mi possiedi più”.
«Racconterò tutto alla rettrice Monroe», dissi.
Sorrise, le labbra serrate ma gli occhi bene aperti e raggianti, con lo stesso sorriso di mia madre
quando avevo fatto la prima comunione, quando avevo ottenuto la patente di guida, quando mi ero
diplomata al liceo. E, anche se non lo diceva, sapevo che la professoressa era orgogliosa di me
perché stavo prendendo la decisione giusta, una decisione che dipendeva solo da me.
«Mi può preparare?» chiesi. «Aiutarmi a organizzare che cosa dire e come dirlo?»
«Ne sarei onorata», disse. «La Monroe è tosta. È per questo, suppongo, che è arrivata dov’è oggi.
Se sei dolce e carina non riesci a fare carriera in ambito amministrativo. Però è anche una persona
che bada ai fatti e ai numeri. Le piacciono i dati. Quindi devi andare da lei con quante più prove
concrete possibili. Cerca ancora di contattare Tina Beyers. Procurati una copia del saggio di
Madeline, se puoi, e una copia dell’articolo di Suter.»
Annuii con aria seria, come se stessi prendendo appunti durante una lezione.
«Con il voto sulla coeducazione a pochi giorni di distanza, sarà difficile ottenere un appuntamento
a breve termine», aggiunse. «Quindi bisogna che tu vada da lei o domattina presto o, meglio ancora,
stasera.»
«Stasera? Ma è domenica. Il suo ufficio è chiuso.»
«Intendo a casa sua», spiegò la professoressa. «C’è un motivo se abita al campus. Dev’essere a
disposizione delle studentesse in qualsiasi momento.»
Ricordai che la casa della rettrice era nella parte meridionale del campus. Non era un maniero, ma
poco ci mancava. Con i mattoni arancione, le grandi colonne bianche e un prato curato, mi aveva
sempre ricordato le piantagioni della Louisiana che avevo visitato da piccola.
Proprio allora mi squillò il cellulare. Sul display apparve il numero del «Chronicle» e risposi
pensando che fosse un orario molto insolito per una chiamata di Craig. Per guadagnare tempo avrei
dovuto dirgli che stavo ancora lavorando all’articolo su Beth, ora però con un taglio diverso. Sarei
dovuta restare un’altra notte a Tarble per completarlo.
«Hai sentito che cosa è successo?» chiese Craig quando risposi. «A proposito di quella ragazza, la
tua amica?»
«Il serial killer? Sì, l’ho visto al telegiornale stamattina.»
«Non mi riferisco a stamattina.» Fece una pausa. «Il distretto di polizia di Pittsburgh ha appena
rilasciato una nuova dichiarazione. Pare che quel Grenshaw abbia mentito. Non hanno ancora trovato
il corpo di Beth nel fiume, anche se è tutto il giorno che i sommozzatori lo cercano.»
«Ma perché dovrebbe avere mentito?»
«Magari per ottenere una riduzione di pena per le ragazze che ha ucciso davvero. O forse si è
semplicemente preso gioco della polizia per dispetto. Non importa per quale motivo, in realtà.
Adesso sono intenti a proteggere l’immagine della polizia. Si stanno affannando per trovare un altro
indiziato. Lo sai come vanno queste cose normalmente: di solito è il fidanzato o il marito. Lei però
non era sposata, vero?»
Mark.
«Beth vedeva qualcuno», mi scappò di bocca. «Hanno rotto prima che lei scomparisse.»
«Che cosa?» Craig alzò la voce, come se stesse cercando di comunicare con me attraverso una
linea disturbata. Io, invece, non sentivo nessuna interferenza.
«Ho detto che Beth vedeva…»
«No, aspetta, Ruby. Non dico a te. Georgene mi sta facendo dei segni con il braccio. È appena
entrato qualcuno. Puoi restare in linea?»
Mentre aspettavo sentii dei mormorii e i telefoni che squillavano in sottofondo. Mi sembrava di
vedere i divisori coperti di panno grigio del mio ufficio e mi accorsi che non sentivo minimamente la
mancanza del lavoro.
«Che cosa succede?» chiese la professoressa, una ruga ansiosa a separarle le sopracciglia.
Stavo per rispondere quando Craig tornò all’apparecchio. Alzai un dito per dirle che le avrei
spiegato tutto di lì a un minuto.
«Non ci crederai.» Ansimava, come se avesse appena fatto di corsa una rampa di scale. «Si è fatta
avanti la donna che risultava seduta accanto a Beth sull’aeroplano per Pittsburgh.» Recuperò fiato.
«Dice che, dopo avere visto tutte le fotografie di Beth al telegiornale di stamattina, è certa che la
donna seduta accanto a lei non era Beth Richards.»
«Ma l’assistente di volo non ha confermato che Beth era sull’aereo?»
«Suppongo che la persona che le era seduta di fianco se la ricordi meglio dell’assistente di volo.»
Fece una pausa. «Sai che cosa vuol dire, Ruby? Insomma, se questa donna ha ragione, se sta dicendo
la verità? Pensaci. Hanno cercato Beth a Pittsburgh.»
Capii dove stava andando a parare. «Vuoi dire che Beth potrebbe essere ovunque?»
«Magari non è mai partita dal Wisconsin. Magari all’aeroporto qualcuno ha finto di essere Beth,
qualcuno che le assomigliava abbastanza da superare i controlli di sicurezza con i suoi documenti. È
ingegnoso, non credi? E sicuramente ha messo la polizia su una falsa pista.»
Qualcuno che assomigliava abbastanza a Beth, pensai. Alta e magra. Capelli biondi. Pelle chiara.
«Craig, devo andare», dissi. «Devo telefonare subito alla polizia.»
Il suo tono si fece serio. «Cosa c’è che non va?»
«Penso di sapere chi c’era su quell’aereo.»
Non dovetti spiegare molto di quella conversazione alla professoressa Barnard. Ne comprese il
succo sentendo solo le mie battute e interpretando il linguaggio del mio corpo. Però le riferii le
informazioni più importanti che Craig mi aveva dato.
«Allora chi era?» chiese. «Chi c’era sull’aereo?»
«Julie Farris. È l’immagine sputata di Beth Richards», dissi, cercando nella mia borsa il biglietto
da visita dell’ispettore. «Devo raccontarlo alla polizia. Anche Mark è sospettabile. Forse è lui che
ha coinvolto Julie.»
«Vuoi dire che ha scoperto quello che Beth aveva in mente e ha cercato di farla tacere? E ha usato
Julie per coprire le sue tracce?»
«Forse è per questo che lei ha cercato di uccidersi. Si sentiva in colpa. A meno che non sia stata
addirittura lei a far sparire Beth.» Un brivido mi corse su e giù per le braccia nel ripensare alla
calma e alla sicurezza di Julie quando ero andata a trovarla all’ospedale. «In ogni caso, devo
chiamare l’ispettore e raccontargli quello che so.»
«Che cosa ne facciamo di tutta questa roba?» chiese, indicando il caos sulla sua scrivania, la pista
di indizi che avevamo raccolto su Mark. «E il colloquio con la rettrice Monroe?»
Alzai le spalle. «Credo che dovrà aspettare.»
La mia telefonata all’ispettore Pickens fu dirottata alla segreteria vocale dopo tre squilli, ma
lasciai un messaggio dicendo che era urgente, che avevo informazioni cruciali sul caso di Beth
Richards.
Dopo che ebbi riagganciato, la professoressa Barnard afferrò la sua borsa. «Ti spiace se usciamo
a prendere una boccata d’aria fresca?» chiese. «È tutto il giorno che sono rinchiusa in questo
ufficio.»
«Certo», dissi, alzandomi a mia volta. «Oltretutto all’aperto c’è più campo.»
«Probabilmente è meglio che io scappi a casa», aggiunse. «Qualche settimana fa mi sono presa un
cucciolo e se non lo porto fuori subito sono quasi colpevole di maltrattamento.» Mi posò una mano su
una spalla. «Te la caverai? Da sola?»
Annuii. «Perché non dovrei?»
Mi diede un’occhiata perplessa, poi abbassò la voce. «E se Mark Suter avesse davvero fatto
qualcosa a Beth per impedirle di smascherarlo? Potrebbe sapere che gli stai alle calcagna anche tu.
Potrebbe cercare di… Sono preoccupata», disse. «Per la tua incolumità.»
Mi tornò in mente quello che la sera prima Meryl aveva insinuato a proposito di Mark. Anch’io
non avevo idea di che cosa fosse davvero capace. «Andrà tutto bene», la rassicurai, guardando
l’orologio. «E presto Heidi sarà di ritorno.»
La professoressa fece un cenno d’assenso. «Ci metto venti minuti. Al massimo», disse. «Ci
vediamo dopo?»
«Non occorre che ritorni, se non vuole.»
«Devo», replicò. «È troppo tardi ormai, ci sono dentro fino al collo.»
Decidemmo d’incontrarci dietro Langley Hall, sui massi che costeggiavano la spiaggia. Non
soltanto era il punto migliore per la ricezione del cellulare – non volevo perdermi una telefonata
dell’ispettore – ma anche il nascondiglio migliore di tutto il campus, incuneato fra il lago e gli edifici
accademici. Era lì che spesso le ragazze di Tarble portavano i ragazzi. Se Mark era al campus, se mi
stava cercando, lì non mi avrebbe vista.
Seduta sul secondo gruppo di massi con il cellulare in mano, pronta a rispondere, contemplavo il
vasto lago azzurro rivivendo la gamma delle emozioni che mi avevano assalito durante il fine
settimana. L’inquietudine per il ritorno al campus, la collera verso Beth per avermi rubato l’affetto di
Mark, il senso di colpa dopo l’incontro faccia a faccia con Meryl, la tristezza alla notizia
dell’uccisione di Beth, la rabbia contro Mark per aver plagiato il mio lavoro e il terrore viscerale
che lui, un uomo che avevo amato sinceramente, fosse il vero responsabile della scomparsa di Beth.
La seconda lancetta del mio orologio si muoveva lentamente e io tenevo d’occhio il cellulare muto,
sperando che suonasse. Non sopportavo l’attesa, così richiamai l’ispettore, stavolta componendo il
numero della stazione. Lasciai un messaggio all’agente di guardia, il quale mi disse che avrebbe
riferito l’informazione il più presto possibile. Nella voce della donna, però, c’era un accento di
dubbio, come se nel corso degli anni avesse raccolto fin troppe chiamate di balordi che dicevano di
avere «informazioni importanti».
Telefonai anche a Heidi ma non ottenni risposta, così rimasi seduta dov’ero a osservare l’acqua, in
attesa.
Ero in uno stato di trance così profondo che sussultai quando finalmente il telefono squillò,
scivolandomi dalla mano sudata come una saponetta umida. Risposi senza nemmeno guardare il
numero di chiamata.
«Signorina Rousseau?» disse un uomo.
«Ispettore Pickens», risposi riconoscendo la sua voce. «Grazie per avermi richiamato, devo…»
«A dire il vero, stavo per chiamarla io», m’interruppe. «Ho bisogno che lei risponda a qualche
altra domanda su Beth Richards.»
Il cambio di argomento mi sconcertò. Mi ero riproposta di raccontargli di Julie Farris e di Mark.
«La signorina Richards le sembrava depressa nel periodo in cui l’ha conosciuta?» chiese. «Chiusa
in sé stessa?»
«No.»
«Ha mai parlato di farsi del male? O si è mai rivolta a lei in cerca di aiuto?»
Farsi del male? «No, perché?»
Ignorò la mia domanda. «La signora Richards ha detto che Beth aveva una compagna di stanza a
Tarble», continuò. «Una ragazza di nome Sarah Iverson. Sa come potrei trovarla?»
«Sì, l’ho vista questo weekend, ma… ispettore, ho chiamato per dirle una cosa. Una cosa che
credo sia molto importante per il caso di Beth.»
Fece una pausa. «Okay», disse infine. «Ma sia breve.»
Allora raccontai all’ispettore tutto quello che sapevo, gli spiegai della somiglianza di Julie Farris
con Beth, della sua relazione con Mark Suter, di come Beth avesse cercato di contattare Julie prima
di morire. Mentre parlavo, rimase in silenzio all’altro capo e supposi che stesse prendendo appunti.
«Va bene», disse quando ebbi finito.
«Va bene?» ripetei. «Significa che mi crede? Interrogherà Mark Suter e Julie Farris? Perché Julie
è nel reparto di psichiatria all’ospedale di Kenosha», aggiunsi, «ma non so fino a quando ci resterà.
Può darsi che l’abbiano già dimessa.»
Si schiarì la gola. «Reparto di psichiatria?»
«Ha tentato di uccidersi qualche giorno fa.»
Una lunga pausa. «Capisco.»
Non sentii più nulla all’altro capo e mi domandai se avesse riagganciato. «Pronto? Ispettore
Pickens?»
«Sì?»
«Perché mi ha chiesto se Beth era depressa? O se aveva cercato di farsi del male?»
Emise un incrocio tra un sospiro e un gemito. «Senta, non volevo dirglielo proprio adesso. Non
ancora, ma… c’è la possibilità che Beth Richards si sia uccisa.»
La saliva mi si fermò in fondo alla gola. La ricacciai giù deglutendo a fatica.
«Ho appena parlato con Janice Richards», spiegò. «A quanto pare, Beth le aveva mandato un’email il giorno in cui era partita per Pittsburgh. Una lettera d’addio. Per qualche ragione, l’e-mail è
arrivata oggi. Non sappiamo perché ci sia stato questo ritardo, ma stiamo studiando varie possibilità.
I nostri esperti d’informatica stanno controllando il messaggio, verificandone l’origine.»
«Ma…» Mi mancavano le parole. Allora mi tornò in mente una cosa che Janice mi aveva detto.
Prima di andare a Pittsburgh Beth non si sentiva bene. Era stanca e apatica. Si era anche allontanata
dai suoi amici, come Sarah Iverson. Potevano essere sintomi della depressione.
Alla fine della telefonata, non potei fare a meno di chiedermi se Mark fosse attratto da ragazze
emotivamente instabili, o se fosse lui a farci diventare così.
Stavo riflettendo sulla risposta a quella domanda quando come un lampo due mani mi apparvero
davanti agli occhi prima di accecarmi con uno straccio bianco. Mi sentii soffocare nel tessuto di
spugna.
Mi dimenai, mi dibattei e scalciai finché non mi venne un capogiro.
Allora tutto si fece nero.
DICEMBRE
Non riesco a smettere di pensare al bambino. Il nostro bambino. Il mio bambino. Mi chiedo se
lui – o forse era una lei, non lo saprò mai – mi abbia perdonato.
Ma in fin dei conti nemmeno io ho perdonato me stessa.
Quando lo stomaco mi brontola per la fame o sento un po’ di gas durante la digestione,
immagino che sia lui o lei, simile alla pallina di un flipper. Che scalcia. Che si capovolge. Che fa
le capriole. Che agita le sue minuscole dita nel liquido amniotico. Quando accade, mi strofino la
pancia e dico, con voce cantilenante: «Ti amo, bambino mio». E ogni volta la mia voce riecheggia
in quella cavità e il vuoto mi consuma. Non c’è nessun bambino, mi rendo conto per la centesima
volta.
Non c’è nessun bambino.
Non c’è nessun bambino.
Non c’è nessun bambino.
16.
La sua voce, acuta e dolce, mi svegliò come un pettirosso che cinguetta di buon’ora fuori dalla
finestra della camera da letto in una mattina di primavera.
«Ruby», sussurrò. «Ruby, svegliati.»
Non riuscivo ad alzare le palpebre: erano gonfie di sonno. Ovviamente ero ancora sotto l’effetto
della sostanza chimica che aveva impregnato quello straccio bianco. Tutto sembrava così distante: i
massi, il lago, le mani, la colluttazione. Era successo qualche ora prima? Un giorno? Una settimana?
Sulla scia di quella temporanea cecità, gli altri miei sensi si acuirono e avvertii un odore umido,
quasi dolciastro: di muffa, di acqua invecchiata fra le assi di legno come il cabernet nelle botti di
quercia. Ero distesa su una superficie morbida, probabilmente un letto, e sentivo sulla spalla una
mano che mi scrollava per farmi uscire dal sonno.
«Ruby», sussurrò ancora. «Ti prego, devi svegliarti.»
Ovunque mi avessero portata, non ero sola. E questa ragazza dalla voce suadente e sdolcinata non
era la mia carceriera. Cercando di riaprire gli occhi, la vidi come una sagoma, confusa e scura.
«Chi sei?» sussurrai.
«Sono io.» Fece una pausa. «Beth.»
Allora fui attraversata da una scintilla di lucidità mentale. Mi si aprirono gli occhi e sbattei più
volte le palpebre per tenerli aperti. La vidi, leggermente emaciata, la pelle bianca come un giglio più
chiara del solito, i capelli biondi più scuri e unti. Li teneva ravviati dietro le orecchie.
«Sei viva», dissi.
«Sono viva», ripeté lei.
«Dove siamo?» chiesi mentre lei mi tirava su a sedere.
Ma la risposta arrivò non appena i miei occhi si adattarono a ciò che mi circondava. La stanza era
buia – le finestre chiuse con assi di legno lasciavano filtrare solo un raggio di luce attraverso le
fessure – ma vidi delle scaglie di vernice bianca che si staccavano dall’impiantito, un caminetto di
pietra, un rivestimento di legno da parete a parete.
Eravamo all’interno della baita di Mark.
Però erano cambiate alcune cose dall’ultima volta che c’ero stata. Il letto con il piumone a balze su
cui ero seduta, addossato alla parete come se fosse un divano, era nuovo, così come il tavolo rustico
e le tre sedie nell’angolo. Sopra le finestre c’erano delle mantovane; un tappeto a pelo lungo sul
pavimento; quadri ai muri.
«Beth…» esordii, con la voce che acquistava forza nel tono e nel volume.
Lei però si portò un dito alle labbra e scrollò la testa guardando la porta che conduceva alla
cucina.
«Non dobbiamo fare rumore», sussurrò. «Altrimenti lei ci sente.»
«Lei?»
Beth fece una pausa prima di sussurrare il nome. «Meryl.»
Mentre Beth e io parlavamo bisbigliando, sentivo che fuori stava scendendo la notte. I raggi di
luce che filtravano attraverso le fessure delle assi diminuivano. Beth era seduta a pochi centimetri di
distanza, ma i dettagli del suo viso erano sfumati.
«Possiamo scappare?» chiesi, continuando a bisbigliare.
Lei scrollò la testa. «Non credere che non ci abbia provato. Ha chiuso la porta con un
chiavistello.»
Lanciai un’occhiata verso la finestra. «Non possiamo sfondare quelle assi a calci?»
«Ho provato anche così. Credo che le abbia inchiodate doppie, legno spesso e chiodi grossi. Non
cedono. Quando lei non c’è io continuo a gridare, sperando che prima o poi qualcuno mi senta. Ho
gridato così forte da farmi bruciare la gola per giorni interi. È come essere nel deserto, Ruby.»
“Cercheremo aiuto con il mio cellulare”, pensai. Ma dov’era? Dov’era la mia borsa? Li avevo
entrambi con me quand’ero sui massi. Invano tastai le tasche dei pantaloni e la coperta accanto a me.
Doveva averli presi Meryl.
«Non possiamo aspettarla di fianco alla porta», suggerii, «e aggredirla quando entra? Non c’è
niente con cui possiamo colpirla? Un’asse del pavimento?»
«Ha una pistola, Ruby.» Beth si abbracciò la pancia in modo protettivo. «Non posso rischiare.»
Riconobbi il suo gesto. «Non sei… Beth, sei incinta?»
Lei annuì.
«È di Mark?»
Annuì di nuovo. «E credo che Meryl lo voglia.» Le si incrinò la voce. Era sull’orlo dei singhiozzi.
«Penso che mi terrà in vita finché non avrò partorito, dopodiché…»
«Prima di allora saremo fuggite», sussurrai. «O qualcuno ci troverà.»
Ripensai a quando avevo letto «come la baita di Cassie» sul margine di una pagina di Una stanza
tutta per sé. Un gelo improvviso mi scosse tutto il corpo quando mi venne in mente che, senza
nemmeno saperlo, Beth aveva lasciato un indizio su dove si trovava. Mi domandai chi altro sapesse
della casetta. La prima persona che mi venne in mente fu Heidi. Gliel’avevo detto? Non me lo
ricordavo. Mi stavano cercando Heidi e la professoressa Barnard? Avrebbero chiamato la polizia?
«Probabilmente la polizia mi sta cercando, in questo momento», le assicurai.
«E io? Mi cercano ancora?»
«La polizia ha individuato un serial killer», tentai di spiegarle, «e tu corrispondi al profilo delle
sue vittime, così da subito hanno pensato che fossi…»
«Morta?»
Annuii. «Ma tua mamma…»
«Mia mamma cosa?»
«Tua mamma giurava che eri viva, Beth.» Allora le raccontai della valigia. «Probabilmente non ti
eri accorta che avevo messo il mio nome sulla targhetta, perché quel viaggio non l’ho più fatto.»
Rimase a bocca aperta. «Ho lasciato il tuo nome sulla mia borsa?»
«Non lo sapevi?»
«Ho fatto i bagagli di corsa. Aspetta… La mia valigia era sull’aereo?»
«Certo. Non hai fatto tu il check-in?»
Lei scrollò la testa. «Meryl mi ha rapito in aeroporto. Deve avere… Dio mio, ha consegnato il mio
bagaglio per far credere che fossi sull’aereo.»
«Temo che abbia fatto di più», dissi. «Ha finto di essere te, Beth. La polizia pensava che fossi
salita sull’aereo, e quindi che fossi scomparsa a Pittsburgh. Be’, almeno fino a oggi.»
Allora le raccontai della donna che era seduta vicino a lei – o, per meglio dire, vicino a Meryl –
sull’aereo. La donna era stata abbastanza perspicace da accorgersi che la Beth Richards accanto alla
quale si era seduta non era la stessa ragazza che aveva visto al telegiornale.
«Perciò è solo questione di tempo perché scoprano che cosa è successo», la rassicurai. Intanto
cercavo di convincere anche me stessa. Ripercorsi tutto ciò che avevo detto e fatto nel weekend, ogni
indizio che potevo avere lasciato alla polizia affinché mi trovasse. Ci trovasse. E fu allora che mi
ricordai della mia telefonata con l’ispettore Pickens e compresi che Meryl doveva avere falsificato
la lettera d’addio alla mamma di Beth. Però a lei non volevo farlo sapere: l’avrebbe solo sconvolta.
L’avrebbe scoperto dopo, quando fossimo scappate.
«Tu sai di me», dissi invece. «E le altre ragazze? Avevi un elenco dei nostri nomi…»
«È stata Meryl a raccontarmi di te. Tutto di te.»
«Sapevi che Mark mi ha rubato un articolo spacciandolo per suo?»
Annuì, poi appoggiò la sua mano sulla mia. «Ma, Ruby, per la cronaca, non sapevo che tu stessi
con Mark quando è iniziata la nostra storia. Non ho mai voluto farti del male.»
«Lo so.» Pensai a Madeline Kohl. «Ti sei innamorata dell’uomo sbagliato. L’abbiamo fatto tutte.»
«Ma io no. Non ho mai amato Mark.»
Arricciò il naso, piegando le labbra all’ingiù. «Cercavo solo di passare il corso di inglese.»
«L’hai usato?»
«Io mi sono laureata in biologia. Dovevo pensarci due volte prima di scegliere letteratura inglese
per i complementari di materie umanistiche. Shakespeare e Wordsworth?» Roteò gli occhi. «Stavo
per essere bocciata e non volevo che risultasse nel mio curriculum accademico. Così, quando un
giorno ho visto Mark che sbirciava nella mia camicetta, ho pensato, ehi, magari funziona. Non è stato
difficile. Qualche risatina e qualche strizzatina d’occhi, e lui mi ha portata fuori a cena.»
«E tu hai superato il suo corso.»
«Ho preso A.»
Non potei fare a meno di provare un certo risentimento, visto che alla mia tesi Mark aveva dato D.
«Però hai continuato a uscire con lui anche dopo che l’anno accademico era finito», osservai,
ricordando i numerosi viaggi di Beth a Tarble durante l’estate. «Perché non hai rotto con lui?»
«Stavamo bene a letto», disse con franchezza, «e lui aveva perso la testa per me, faceva qualsiasi
cosa volessi. Non voglio mentire, me ne sono approfittata. Inoltre avevo paura che avrebbe finito per
braccarmi se l’avessi mollato durante l’anno accademico. Sembrava ossessionato da me, non sapevo
come avrebbe reagito se l’avessi piantato. Così ho deciso di aspettare. E quando è arrivata l’estate,
non so, forse per inerzia, la relazione è andata avanti.»
«Hai detto a tua mamma che andavi a trovare Heidi Callahan», aggiunsi.
«Sì, Heidi era la mia copertura perché lavorava al college. Ma quando l’anno accademico è
ricominciato ho capito che era ora di farla finita con quella farsa. Così, l’ultima volta che sono
venuta a Tarble, l’ho mollato.»
Non riuscivo a immaginarmi qualcuno che tagliasse i ponti con Mark: sembrava lui il rubacuori.
«Non l’ha presa bene», continuò. «Piangeva, implorava. In ginocchio, persino. Mi ha scongiurato
di dargli un’altra possibilità. Mi ha detto che aveva appena chiesto il divorzio a Meryl. La lasciava
per me. Ha persino preso in affitto una casa in città, pensando che mi sarei trasferita da lui. Si era
illuso.» Prese di nuovo quell’espressione disgustata. «È stato davvero patetico. A un certo punto non
voleva farmi uscire dal suo ufficio, mi ha detto che non mi avrebbe lasciata andare finché non avessi
acconsentito a restare con lui. Ero così scocciata che l’ho minacciato: se non la smetteva, avrei
rivelato la nostra relazione alla rettrice Monroe. L’avrei fatto licenziare.»
«Ha funzionato?»
Annuì. «Però, mentre tornavo a casa, mi sono fermata a fare benzina e a quel punto mi sono trovata
davanti Meryl. Avevo lasciato uno psicopatico e adesso mi toccava affrontare la moglie.»
«Ti ha seguita?»
«Era al campus. A quanto pareva, aveva sentito tutto quello che era successo tra noi nel suo
ufficio.»
«Che cosa voleva?«
«È questa la cosa strana. Supponevo che volesse rimproverarmi, prendermi a schiaffi o darmi
della puttana, e invece no. È stata molto simpatica e comprensiva. È stato allora che mi ha detto che
Mark si era portato a letto un sacco di studentesse. E mi ha chiesto se volevo sul serio fare un
esposto al college.»
«Ed era così?»
«Non proprio. L’avevo detto solo perché mi lasciasse andare. Ma la settimana dopo Mark ha
cominciato a perseguitarmi. Mi aspettava fuori dalle lezioni di anatomia, si sedeva davanti a casa
mia la sera, mi telefonava e mi mandava e-mail in continuazione.»
«Avresti dovuto chiedere un ordine restrittivo.»
«Ma sarebbe stato troppo imbarazzante! Andare alla polizia? Raccontare tutto di me e di Mark? E
poi non volevo che mia mamma lo scoprisse. Era già fin troppo difficile nascondere il fatto che mi
stava perseguitando. Così ho cercato di prendere in mano la cosa. Ho immaginato che l’unico modo
per farmi lasciare in pace fosse minacciarlo. Perciò quando Meryl mi ha telefonato per sapere se ci
avevo ripensato, ho acconsentito a vederla per parlare di come farlo licenziare. Mi ha dato lei quella
lista di nomi. Tu, Tina, Madeline. Una ragazza di nome Julie Farris. Ha detto che, se fossimo uscite
allo scoperto, avremmo potuto rovinare lui e la sua carriera. Mi ha mostrato un articolo che aveva
scritto per una rivista accademica e ha giurato che non era farina del suo sacco. Era sicura che
l’avesse rubato a una di voi.»
«Sì, a me.»
Annuì. «Sai, in realtà non volevo farlo licenziare. Non volevo che a Tarble qualcuno sapesse della
nostra relazione. Volevo solamente che mi lasciasse in pace. Però più informazioni avevo, più
munizioni, maggiori erano le possibilità che lui facesse marcia indietro.»
Mi ricordai quello che mi aveva detto Julie in ospedale: non aveva parlato con Beth. «Hai mai
parlato con qualcuna delle ragazze della lista?»
«Sono andata a cercare questa Julie, ma non l’ho trovata, e subito dopo ho scoperto di essere
incinta. Non riuscivo a credere di essere stata così sprovveduta. Mark nemmeno lo amavo e non
avrei mai pensato di tenere suo figlio, nemmeno in un milione di anni. Così ho interrotto le mie
pseudoindagini perché avevo cose più grosse di cui preoccuparmi. Volevo che uscisse dalla mia
vita.» Fece una pausa. «E dal mio corpo.»
«Volevi abortire?»
Fece un’altra pausa e nella sua esitazione sentii il sospiro pesante del rimorso.
«Non è che non volessi un figlio; non volevo un figlio da lui», disse infine. «Pensavo di farlo in
una clinica di Milwaukee, ma poi mi sono tirata indietro quando ho visto una ragazza che conoscevo
a catechismo e lavorava in un negozio nell’edificio accanto. Non potevo farlo, non così vicino a
casa. Non volevo un ricordo fisico, un posto davanti al quale sarei passata in continuazione
ricordandomi quello che avevo fatto. Così ho scelto Pittsburgh. È stata una scelta casuale. Non ci ero
mai stata prima, non conoscevo nessuno da quelle parti e non avevo in programma di tornarci in
futuro. Sembrava un posto triste e orribile dove andare ad abortire.»
«Tua mamma mi ha detto che andavi a un laboratorio di fotografia», osservai.
«Era il mio alibi.»
Nella mia mente cercai di ricostruire la vicenda. «Dici che Meryl ti ha rapita perché eri incinta?
Ma come faceva a saperlo?»
«Gliel’avevo confessato io. Questo è stato il mio errore più stupido. Continuava a tormentarmi,
chiedendomi come andavano le cose e quando intendevo presentare il caso ai pezzi grossi di Tarble.
Nel momento in cui le ho detto che avevo cambiato idea, mi ha chiesto a bruciapelo se ero incinta.
Sembrava quasi che se lo sentisse. E, non so perché – forse mi sentivo in colpa per avere avuto una
relazione con suo marito – le ho detto la verità. Come potevo sapere che voleva prendersi il mio
bambino?»
«E sapeva quando saresti andata all’aeroporto?» chiesi.
Beth non esitò a rivelarmi i dettagli della sua scomparsa. Mi raccontò che Meryl si era avvicinata
a lei mentre era in fila davanti ai terminali per il check-in elettronico e le aveva detto che doveva
parlarle, le aveva persino offerto un caffè. Beth aveva accettato perché era arrivata in anticipo
all’aeroporto e non riteneva Meryl un pericolo. Erano andate a prendere un caffè e, nel frattempo,
Meryl l’aveva pregata di non abortire, di non permettere che Mark dettasse il suo futuro. Ma lei non
intendeva cambiare idea.
«Posso solo supporre che a un certo punto mi abbia versato qualcosa nella tazza», spiegò Beth,
«perché ho cominciato ad avere dei capogiri. Si è offerta di farmi dormire un po’ nella sua auto e io
ho accettato, perché ero troppo intontita per pensare con chiarezza. Ricordo di essermi coricata su un
fianco sul sedile del passeggero. “Mi prenderò cura io di te”, mi ha assicurato Meryl. “Comincio
adesso.” E poi non ricordo altro. Finché non mi sono svegliata qui.»
«È spaventoso», dissi, immaginando la sua disperazione negli ultimi nove giorni.
«Sai, non mi ha trattato male», ammise Beth. «Ho dormito quasi tutto il tempo perché sono
talmente spossata! Credo che sia normale a questo punto della gravidanza. Mi sveglio per mangiare,
più che altro. E lei mi prepara cose deliziose. Omelette, frutta fresca, spremute d’arancia, insalata di
spinaci, petto di pollo.»
«Mangi quello che ti prepara? Non temi che voglia avvelenarti?»
«No. Quando ho scoperto che voleva il bambino, ho capito che non mi avrebbe fatto niente di
male. Questo bambino è la mia salvezza, Ruby. Mi ha salvato la vita.»
«Quando hai scoperto che voleva il bambino?»
«Me ne sono accorta per gradi. Ne parlava continuamente, si chiedeva se era un maschietto o una
femminuccia, e sperava che non assomigliasse a Mark. Diceva che ero fortunata ad averlo concepito,
ad avere questo dono speciale che cresceva dentro di me.» Beth fece una pausa, come se le parole di
Meryl l’avessero convinta di quel fatto. «È vero che si prende cura di me. Mi dà le vitamine e la
mattina, anche se a me fa schifo, mi serve questo infuso meraviglioso fatto di erbe: contiene
camomilla, zenzero e igname, un sacco di cose salutari.»
Tutto il mio corpo si paralizzò, ogni arto, ogni dito, ogni organo. Non respiravo, non battevo le
palpebre, non tremavo. Tutto smise di muoversi, tranne il mio cervello, in cui era esplosa l’orrenda
scoperta.
«Infuso?» riuscii a dire.
«È una ricetta che le ha lasciato sua nonna.»
Non reagii, e Beth si accorse che ero rimasta zitta troppo a lungo.
«Ruby?» disse, allungando la sua mano verso la mia.
«Quella non è Meryl», mi uscì di bocca.
«Chi non è Meryl?»
Ma proprio in quel momento sentii qualcuno che sganciava il chiavistello e apriva la porta; un
raggio di luce proveniente dalla stanza principale della casetta attraversò il pavimento disegnando
una freccia puntata su di noi.
Guardando la figura che si delineava sulla soglia, mi preparai a vedere un viso molto familiare.
17.
Lei fece scattare l’interruttore della luce, e quando i nostri occhi si incrociarono fui percorsa da
un’ondata di collera. Se fosse stato qualcuno tipo John C. Grenshaw a tenermi prigioniera, mi sarei
spaventata, ma nei confronti di Virginia Barnard la collera ebbe il sopravvento. Francamente, ero
scocciata.
«Ma che cosa pensi di fare?» sbottai.
La professoressa Barnard alzò una mano, come se dovessi caricarla da un momento all’altro.
«Ruby, ti prego. Non sono io la nemica, qui. Lascia che ti spieghi.»
«Spiegare perché hai finto di essere Meryl?» ribattei.
«Come, non è Meryl?» esclamò Beth, come se mentire sulla sua identità, e non il rapimento vero e
proprio, fosse stata la peggiore delle azioni della nostra carceriera. «Ma allora chi è?»
«Una bugiarda patologica», dissi. «Si chiama Virginia Barnard. Insegna a Tarble da qualche
mese.»
Beth sbatté le palpebre parecchie volte e scrollò la testa, gli occhi fissi nel vuoto mentre la sua
mente elaborava l’informazione. «Non capisco», disse. «Se non sei Meryl, perché mi hai preso?
Perché mi tieni qui?»
«Per proteggerti», disse. «Per proteggere entrambe.»
In precedenza, quello stesso giorno, mi ero stupita dell’intimità che la professoressa Barnard e io
avevamo stabilito, ma ora mi contorcevo dal disgusto. Era semplicemente raccapricciante.
«Proteggerci? E da che cosa?»
«Da Mark.»
Era la prima volta che la professoressa Barnard si riferiva a lui chiamandolo Mark e non Suter o
professor Suter. E il modo in cui aveva pronunciato il suo nome – il sospiro nella sua voce, il tono
acuto della vocale – rivelò che non era così imparziale nei suoi confronti come avevo creduto.
«Non avrei mai voluto mentirvi.» Allora venne verso di noi, piegando la testa in segno di resa,
come un cane che mostra la pancia. «Ma è stato per il vostro bene. E so che capirete le mie azioni se
lasciate che vi spieghi. Fidatevi: il fine giustifica davvero i mezzi.»
Beth e io ci scambiammo uno sguardo, ma nessuna di noi due invocò una spiegazione.
La professoressa si fermò per inspirare ed espirare parecchie volte. Vidi che i suoi occhi si erano
fatti lucidi e cupi mentre cercava di ricacciare indietro le lacrime.
«Dovete capire quanto amavo mia sorella», disse infine. «E quanto lei amava me. Eravamo due
anime gemelle. Avremmo potuto essere davvero gemelle. Jenny però aveva sei anni quando sono nata
io e quindi provava per me sentimenti quasi materni. Era solita dire che io ero meglio di qualsiasi
bambola avesse mai avuto. Perché ero vera e perché contraccambiavo il suo amore. Mi chiamava
“sorella farfalla” perché ero nata lo stesso giorno di primavera in cui le farfalle monarca erano uscite
dal loro bozzolo nella sua classe, quand’era in prima elementare. E non smetteva di guardarmi con
curiosità e meraviglia, né di elogiare la mia bellezza, la mia bontà e la mia grazia. E io, in cambio, la
adoravo. Tutto quello che faceva, il modo in cui camminava e parlava, il modo in cui s’intrecciava i
capelli, il modo in cui ballava e andava sui pattini e cantava senza sforzo, erano per me una pura
magia. Non mi stancavo mai di guardarla: ero affascinata da lei. Ve lo dico perché dovete capire che
cosa rappresentavamo l’una per l’altra e quanto avevamo bisogno l’una dell’altra per sfidare questo
mondo. Dormivamo nella stessa stanza perché volevamo, non perché dovevamo. E le sere in cui mio
padre tornava a casa ubriaco, restavamo coricate nel mio letto, le dita intrecciate nello spazio fra noi,
timorose che si stancasse di picchiare nostra madre e ci trascinasse fuori dal letto. Non lo fece mai,
ma sapevo che, se l’avesse fatto, ci sarebbe andata Jenny. Jenny mi avrebbe sembre difeso.»
Beth e io ci guardammo di nuovo negli occhi e sul suo volto lessi la stessa perplessità che nutrivo
io. Però nessuna di noi due interruppe la professoressa, che continuò la sua storia.
«Eravamo inseparabili, anche quando la nostra differenza di età cominciava a farsi sentire, persino
quando Jenny diventò una donna e io ero ancora una bambina. Se poteva, mi prendeva sempre con sé
quando usciva di casa, senza pensarci su, come quando afferri la borsetta prima di imboccare la
porta. E quando per lei giunse l’ora di andare al college, non avrebbe voluto lasciarmi a casa. Però
aveva un grande talento, era un’attrice molto dotata e avendo ottenuto una borsa di studio per il teatro
– un’offerta che non poteva rifiutare, da un ateneo altrimenti fuori dalla sua portata –, colse
l’opportunità. Era a tre ore di distanza e promise di tornare a casa tutte le volte che avesse potuto.
Nel frattempo mi avrebbe scritto. Mantenne la parola: ricevevo una sua lettera ogni due o tre giorni.
Apprezzavo ogni dettaglio che raccontava, sulla sua compagna di stanza e sulla vita al pensionato,
sulle lezioni e sulle audizioni. Vivevo tramite lei, per interposta persona, e a dodici anni, senza avere
avuto esperienze di vita mie e solo leggendo le sue lettere, avevo la possibilità di provare quello che
provava lei. Quando ottenne la parte principale nella produzione teatrale dell’università, fu come se
l’avessi ottenuta anch’io. E quando s’innamorò, m’innamorai anch’io.
«Era laureando, aveva tre anni più di lei. E com’era bello! Quel sorriso, quegli occhi... Mi mandò
la sua fotografia e io l’appesi sopra il mio letto e la fissavo, anche di notte, nella frazione di secondo
in cui un’auto passava davanti a casa nostra e i fari illuminavano la stanza. Mi addormentavo
pensando a lui e sognandolo. Lei diceva che poteva avere qualsiasi ragazza del campus, ma aveva
scelto lei. E, nella mia mente, aveva scelto me. Forse se nostro padre fosse stato più attento, se non
fosse stato un ubriacone, se non avesse tradito in continuazione nostra madre, non saremmo state così
vulnerabili. E invece... Adoravo il racconto di come si erano conosciuti. Lui vedendola da lontano si
era innamorato di colpo, e si era seduto su una panchina fuori dalla sua classe ad aspettare che lei
passasse per chiederle di uscire con lui. Io mi immaginavo la scena, e mi immaginavo che lo
chiedesse a me. Lei s’innamorò di lui come ci s’innamora la prima volta, quando la giovinezza è
ancora dalla tua parte, in una maniera molto fisica, con tutto il cuore, la mente e l’anima. Lui entrò a
far parte della sua identità. Della mia identità. Come un sistema di sopravvivenza senza il quale non
potevamo respirare.»
Un calore mi riempì il petto e poi risalì in gola prima di ridiscendere lungo le spalle e giù per le
spalle come una spuzzatina di pioggia. Questa storia l’avevo già sentita. Da Mark.
Jenny, era questo il nome della ragazza emotivamente instabile che Mark frequentava a Tulane, la
ragazza che aveva avuto la parte da protagonista in The Mikado.
«E le fece un dono preziosissimo.» La voce della professoressa s’incrinò alla parola «dono», ma
si riprese subito schiarendosi la gola. «Rimase incinta di suo figlio. Per molte ragazze questa sarebbe
stata una scoperta spaventosa, ma non per Jenny. Certo, avrebbe compromesso i suoi studi e la sua
carriera, ma a lei non importava. Aveva il figlio di lui che le cresceva dentro e, in questo modo, non
si sarebbero mai separati. Avrebbe dovuto amarla per sempre. Lui, invece, la implorò di non tenere
il bambino.» Abbassò la voce di un’ottava. «“Che futuro avremo insieme se non finiamo
l’università?” le disse. “Voglio sposarti, Jenny, ma voglio farlo nel modo giusto. Se mi ami, un
bambino può aspettare.”»
Virginia Barnard chinò la testa. «Jenny gli credette», continuò, gli occhi ancora fissi sul
pavimento. «Prese a cuore la sua promessa di un futuro insieme. E mise fine alla vita del bambino.»
Guardai Beth che portò subito la mano al ventre, dove rimase come una barriera.
«Non ti permetterò di prendere il mio bambino!» gridò.
La professoressa Barnard sorrise. «Sono contenta di sentirtelo dire, perché io non voglio il tuo
bambino, Beth. Voglio solo che tu lo voglia.»
Beth socchiuse gli occhi: sembrava offesa, disorientata, terrorizzata.
«Perché l’hai rapita allora?» m’intromisi io.
«Posso terminare la storia?» chiese.
Annuimmo, e lei proseguì.
«Qualche settimana dopo l’aborto, Mark smise di rispondere alle telefonate di Jenny. Così, di
punto in bianco. Un giorno aveva fatto l’amore con lei e il giorno dopo aveva dimenticato che
esisteva. La evitava. Lei passava dal suo appartamento, ma il compagno di stanza diceva che era
uscito. Lo cercava in tutti i posti dove solitamente si vedevano, ma non lo trovava mai. Era una
tortura, e un giorno decise che ne aveva abbastanza. Aveva rinunciato a un figlio per lui, si era
strappata una vita da dentro. L’avrebbe costretto a parlare con lei.» A ogni sillaba picchiava il
pugno sul palmo dell’altra mano, con violenza. «Così lo aspettò fuori da una lezione, come aveva
fatto lui con lei all’inizio. Ma quando finalmente lo affrontò, lui la prese in giro, davanti a tutti. La
chiamò svitata, le disse che non l’amava e che non l’aveva mai amata.»
Immaginai tutto in maniera vivida. La ragazza che piangeva, le lacrime che le rigavano il volto, una
folla di studenti che assisteva alla scena.
«Era lo stesso giorno della prima dello spettacolo. Era così stravolta che non riuscì a recitare»,
continuò la professoressa. «Dovette lasciare il posto alla sostituta. Non riusciva più a mangiare e a
dormire. Era in uno stato di prostrazione. Aveva ucciso suo figlio, la sua carne e il suo sangue, per un
uomo che non l’amava. E il senso di colpa le mangiava il cuore, rosicchiandoglielo a poco a poco,
finché un giorno, in un momento di profonda disperazione, ingoiò tutti gli antidolorifici della sua
compagna di stanza. Non la trovarono finché non fu troppo tardi. Non riuscirono a rianimarla. Se
n’era andata e io avevo perso l’unica persona a questo mondo che mi amava, l’unica persona a cui mi
fossi mai sentita legata. In cuor mio sapevo che mia sorella non voleva morire. Come per la maggior
parte delle ragazze giovani che prendono un’overdose di pillole, il suo era un grido d’aiuto. Non mi
avrebbe mai lasciata sola al mondo, non di proposito. Pensava che qualcuno l’avrebbe trovata. O
forse non ci aveva pensato e aveva agito seguendo un impulso e non un pensiero.»
La professoressa Barnard cadde in ginocchio davanti a Beth. L’improvviso movimento fece
sciogliere la crocchia di capelli che aveva sulla nuca. «Non capisci perché ho dovuto rapirti, Beth?»
implorò. «Ti stavo proteggendo dal dolore della decisione che stavi per prendere. Una decisione che
avrebbe potuto distruggere il resto della tua vita. Non capivi quale dono ti sta crescendo dentro. Non
conoscevi il dolore e il senso di colpa che ti aspettavano. Ho dovuto fermarti, non avevo scelta.»
Allora fissai quella donna, i ciuffi selvaggi dei suoi capelli e l’espressione angosciata, e compresi
la sua sofferenza. Compresi anche lo scenario peggiore per il mio futuro: rischiavo di continuare per
anni a raccontare come Mark mi aveva ferito. L’avrei usato ancora come scusa per non uscire con
nessuno, per non scrivere, per non vivere. Il mio passato mi avrebbe sempre paralizzata.
«Mi dispiace tantissimo per il tuo lutto», dissi, «ma non penso che c’entri Beth. È una cosa che
riguarda te e tua sorella. Tu cerchi vendetta. Vuoi punire Mark per quello che è successo allora.»
Beth sgranò gli occhi. «Mark?» ripeté. «Vuol dire che è lui quell’uomo?»
«Lo ha rintracciato», dissi. «Dopo tanti anni, lo ha cercato.»
«No, non è andata così. È stato lui a venire da me», obiettò la professoressa. «Come te.»
«Io?»
«Era destino, credo. Dopo la morte di mia sorella ho ereditato tutti i suoi effetti personali: i suoi
libri, il suo diario, le sue fotografie, le lettere che non aveva mai spedito, e ho ricostruito quello che
era successo. Ho dato a Mark la colpa della sua morte. E con la stessa facilità con cui mi ero
innamorata di lui a distanza, ho cominciato a odiarlo. A disprezzarlo. La collera che nutrivo nei suoi
confronti ha cancellato la tristezza che provavo per mia sorella. Anni dopo, quando sono stata
abbastanza grande da andarmene da casa, mi sono trasferita a New Orleans perché era lì che lei era
morta, e lì sentivo il suo spirito e la sua anima. Anch’io sono andata all’università e mi sono laureata
in teatro, proprio come lei, e in inglese. Ci ho abitato parecchi anni, senza pensare mai a Mark Suter.
Però una sera, giusto un anno fa, non riuscivo a dormire e qualcosa mi ha spinto a uscire a prendere
un caffè. Nemmeno dieci minuti dopo, lui era lì. L’ho riconosciuto subito, nel momento in cui siete
entrati in quel bar. Il suo incedere arrogante e il suo sorrisetto compiaciuto. E tu, un’altra vittima del
suo bell’aspetto e delle sue bugie.»
Un ricordo guizzò dentro di me, ma ancora prima che la mia mente riuscisse a coglierlo, il mio
corpo l’aveva già percepito. Mi si drizzarono tutti i peli e ogni poro della mia pelle si aprì, in cerca
d’aria.
«Eri tu», fu l’unica parola che pronunciai.
«Sì, Ruby, ero io», disse.
La mia mente frugò tra i ricordi della mia prima notte a New Orleans con Mark. La donna al Café
Du Monde che scriveva sul suo quaderno non assomigliava molto a Virginia Barnard. I capelli erano
castani e ispidi. Portava gli occhiali.
«Quella sera mi hai parlato», dissi, ricordando il suo sguardo di disapprovazione. «Mi hai definito
la sua amante.»
«Oh, tesoro, è questo che hai pensato?» Protese la mano verso il mio braccio, ma io lo ritrassi.
«Ho detto: “Mandalo via”. Cercavo di avvisarti. Il solo vederlo mi ha dato il voltastomaco, perché
ho capito che era invecchiato ma non era cambiato. Continuava ad approfittarsi delle ragazze giovani
dal cuore ingenuo e vulnerabile. E sapevo che un giorno ti avrebbe scartata come un osso spolpato,
proprio come aveva fatto con Jenny. Ti avrebbe rovinato e privato del tuo futuro. È stato allora che
mi si è accesa una lampadina e ho giurato di impedirgli di fare la stessa cosa a un’altra ragazza.»
«Allora è per questo che hai cercato lavoro a Tarble?» chiesi. «Per braccarlo?»
«Per sorvegliarlo», mi corresse. «Sapevo che tu non saresti stata né la prima né l’ultima a cedere
al suo fascino. Bisognava fermarlo, bisognava punirlo. Volevo seppellire Mark sotto le sue
menzogne. Doveva essere umiliato in pubblico e la sua indecenza morale doveva essere sbattuta su
tutti i notiziari. Bisognava rovinarlo. Ma più di ogni altra cosa, volevo liberare voi. Tutte voi.
Doveva pagare per quello che aveva fatto e dovevate essere voi a infliggere la punizione. Avrei
potuto guidarvi, assistervi, spronarvi, ma alla fine volevo che foste voi a farlo. Sapevo che dovevate
farlo per poter andare avanti con la vostra vita.»
«Allora perché hai finto di essere Meryl?» domandò Beth. «Per convincermi a uscire allo
scoperto?»
«Non potevo dirti chi ero davvero, no? Non mi avresti creduto. Dovevo essere Meryl. Era una
parte in causa e sapeva quello che c’era da sapere. Tu eri quella che poteva chiamare a raccolta le
altre, perché avevi un potere che loro non avevano. Non lo amavi, Beth, non l’hai mai amato. L’ho
capito il giorno che avete rotto. L’ho sentito nel tono fermo e distante della tua voce. Non esercitava
nessun controllo su di te, e per questo potevi essere tu quella che l’avrebbe abbattuto, quella che
avrebbe guidato le altre. Ma poi hai scoperto di essere incinta e non soltanto volevi abbandonare la
battaglia, ma volevi anche fare qualcosa che sapevo avrebbe fatto male più a te che a Mark.»
Beth la fissò. «Sapevi che ero incinta, ancora prima che te lo dicessi io?»
La professoressa annuì. «Il giorno in cui sei andata alla clinica ti ho seguita. Quando sei tornata
indietro ho cominciato a nutrire delle speranze, pensavo che avessi cambiato idea. Invece no, e allora
ti ho rapita, pensando che, se non riuscivo a farti cambiare parere, ti avrei trattenuta finché non fosse
stato troppo tardi per abortire. Poi ho deciso di convincervi tutte a uscire allo scoperto, una alla
volta se necessario. Ho cominciato con Julie Farris. È stato patetico il modo in cui Mark ha cercato
di sostituirti con un’altra che ti assomigliava, come se fossi un cane e bastasse andare in un canile a
prenderne uno uguale. Quando ha mollato anche lei, ho telefonato a Julie fingendo di essere Meryl e
lei ha accettato di denunciarlo. Però il suo colloquio con la rettrice Monroe non è andato come mi
aspettavo. La Monroe voleva insabbiare tutto. Si preoccupava per lo scandalo e per la perdita dei
finanziamenti al progetto di coeducazione. Così abbiamo deciso che Julie avrebbe inscenato il suo
suicidio alla vigilia del Raduno. Potenza dello scandalo! Non solo è servito a fare abbassare le ali
alla Monroe, ma ha anche aumentato il numero di prove a carico di Mark. Perché ora sono due le
ragazze che hanno tentato di suicidarsi per colpa sua.»
Ecco perché – pensai – Julie era così composta durante la mia visita al reparto di psichiatria.
Perché non aveva tentato di uccidersi per Mark. Non era depressa. Era vendicativa.
«E Tina e Madeline? Hai contattato anche loro?» chiesi.
«Volevo che lo facessi tu.»
«Ma mi hai dato una lista con i loro nomi», ribatté Beth. «Come sapevi che avevano avuto una
relazione con Mark?»
«Non lo sapevo, almeno con certezza. Sapevo solo che Ruby aveva abbandonato il corso di Mark,
e poi ho confrontato l’elenco delle studentesse che hanno lasciato Tarble con il registro delle sue
lezioni, cercando delle sovrapposizioni. Tina e Madeline corrispondevano ai requisiti e quindi
immaginai che ci fossero buone possibilità che una di loro avesse avuto una storia con lui.»
«E le accuse di molestie sessuali che Heidi ha trovato nel suo dossier all’ufficio del personale?»
chiesi.
«Sono finte. Ce le ho messe io.»
«Credevi che mi avrebbero convinto a uscire allo scoperto?»
Mi fulminò con lo sguardo. «Non è andata così? Ci eravamo vicine, Ruby. Ma poi, quella donna
dell’aereo… Dovevo agire rapidamente. Non potevo aspettarmi un altro colpo di fortuna come tutta
la faccenda del serial killer. Quindi ho dovuto rapire anche te.»
«E adesso puoi lasciarci andare», la pregò Beth. «Se quello che hai detto è vero, che mi hai rapito
per impedirmi di abortire, adesso puoi lasciarmi andare. Missione compiuta. Ormai amo il mio
bambino e voglio tenerlo.» Quindi guardò me. «E puoi lasciare andare anche Ruby. Non ti
denunceremo, non racconteremo nulla alla polizia. Vogliamo solo tornare a casa.»
La professoressa Barnard sembrò prendere in considerazione la sua richiesta. «Capisco che
vogliate tornare a casa. E vi lascerò andare. Per voi non desidero altro, solo che le vostre siano vite
felici e produttive, però non posso liberarvi finché non sarò sicura che Mark non possa più fare del
male né a voi né a nessun’altra. E c’è un solo modo per garantire che ciò avvenga.»
Vidi la gravità della sua espressione. «Garantire?»
«O mio Dio», esclamò Beth. «Vuoi ucciderlo?»
L’altra scosse la testa. «L’unico modo per fermarlo è togliergli ciò che gli dà potere, ciò che lo
rende Mark Suter.»
Beth e io ci scambiammo uno sguardo. Non sapevamo di che cosa stesse parlando.
«Se avesse violentato mia sorella, nessuno metterebbe in dubbio che dev’essere punito», proseguì.
«Eppure, in un certo senso, l’ha fatto. Non fisicamente, però. L’ha usata e ha abusato di lei, l’ha
derubata della bontà e dell’amore e, alla fine, si è preso la sua vita.» Sogghignò. «E voi sapete qual
era una volta la punizione per lo stupro, vero?»
Non dovette nemmeno dirlo.
18.
Beth cominciò ad avere dei conati di vomito. Le prendevano delle fitte continue allo stomaco,
come se avesse un virus o un’intossicazione alimentare. Vidi il suo volto contorcersi al sapore aspro
dei succhi gastrici.
«La stai facendo agitare», dissi.
«Ha lo stomaco vuoto e basta», ribatté la professoressa. «Deve mangiare. Beth, tesoro, devi
mangiare. Ti viene sempre la nausea se lasci passare più di due ore senza mettere qualcosa nello
stomaco.»
Allora accompagnò Beth per mano fino al tavolo e Beth, esausta, glielo lasciò fare.
«Dai, Ruby, anche tu.» Avvicinò una sedia. «Possiamo parlarne mentre ceniamo.»
Incrociai le braccia e non dissi nulla. Non volevo partecipare alla fantasia della professoressa: noi
tre sedute al tavolo della baita a condividere i pasti come le sorelle di Piccole donne.
Inoltre la mia curiosità era stata soddisfatta, adesso che ci aveva spiegato chi era e perché ci
aveva rapite. Non c’era niente che mi trattenesse, niente che mi costringesse ad ascoltare le sue folli
elucubrazioni. Prima Beth aveva fatto cenno alla pistola della professoressa Barnard, ma io non
l’avevo ancora vista. Così, quando Virginia si precipitò in cucina, probabilmente a prendere
qualcosa da mangiare per Beth, io la seguii, sperando di coglierla alla sprovvista, ma lei mi stava un
passo innanzi. Quando girai l’angolo, andai a sbattere proprio contro la canna della pistola che mi
puntava al petto. Nell’altra mano aveva un pezzo di corda arrotolato.
«Non volevo fare così, Ruby», disse, spingendomi di nuovo nella stanza principale. «Ma ora non
mi dai altra scelta.»
«Non vorrai spararmi», dissi, mentre lei mi faceva sedere sulla sedia davanti a Beth.
Non rispose e invece, usando la corda, mi legò il polso sinistro alla gamba del tavolo di legno,
controllando intanto che Beth non facesse movimenti improvvisi. Pensai di afferrare la pistola, che
aveva posato all’estremità del tavolo in modo da potermi legare la mano, ma finì prima che potessi
mettere in azione il mio proposito.
«Devo legare anche te?» chiese a Beth.
Beth scrollò la testa.
La professoressa uscì per un attimo dalla stanza – non abbastanza perché Beth e io potessimo
sussurrare qualcosa di coerente l’una all’altra – e ritornò con un vassoio fumante, che si rivelò
contenere un intero pollo arrosto, accompagnato da puré di patate e piselli, e per la fame mi venne
una fitta allo stomaco. Quella mattina avevo mangiato soltanto una ciambella.
Guardai Beth cacciarsi con vigore pezzi di pollo e forchettate di puré in bocca. Non potevo
biasimarla per la sua voracità. In fin dei conti, mangiava per due. Virginia preparò un piatto anche
per me, e me lo mise davanti. Poi si sedette e cominciò a mangiare. Io diedi un’occhiata al cibo. Il
pollo era ben cotto, i piselli di un verde vivo, il puré bianco e cremoso. Possibile che il veleno
avesse un aspetto così nutriente?
La Barnard sembrò leggermi nella mente. «Perché dovrei avvelenarti?»
Era una domanda retorica e io non risposi. Invece m’infilai una cucchiaiata di piselli in bocca.
Erano deliziosi come quelli freschi, non sapevano di legumi in scatola.
Mangiammo in silenzio, finché mi guardai attorno nella stanza e chiesi: «Come hai fatto a entrare
in questa casa?».
«L’ho presa in affitto dalla donna a cui Mark l’ha venduta quando si è trasferito in città», spiegò la
professoressa cominciando a sparecchiare. «E ora ho l’ho chiamato spacciandomi per lei. Ho detto a
Mark che volevo rivendergli la baita. Sapevo che sarebbe stato interessato. L’aveva ceduta solo per
rendersi più attraente ai tuoi occhi, Beth, perché sperava andassi a vivere con lui. E ora, disperato
per averti perduto, ha bisogno del conforto di qualcosa di familiare.»
«Hai chiamato Mark?» chiesi.
«Dovevo, se volevo che venisse qui.»
«Viene qui?» disse Beth. «Quando?»
La professoressa controllò l’orologio e sgranò gli occhi. «Tra meno di un’ora, quindi è meglio
concordare un piano.» Parlava con calma, come se stesse programmando la raccolta annuale dei
finanziamenti.
«Perché lo vuoi fare?» la implorò Beth. «Perché non possiamo farlo licenziare, come volevi
all’inizio?»
«Perché ora ho capito che non è sufficiente. Continuerà a fare del male alle ragazze. E non smetterà
mai e poi mai.»
La voce della professoressa era tesa, tirata come un elastico pronto a spezzarsi, e i suoi occhi
erano disperati, cupi e vulnerabili. Sapevo che non saremmo mai uscite da quella casa, che non
saremmo mai scappate, a meno che non l’avessimo accontentata. A meno che non avessimo finto di
attenerci al suo piano.
«Se lo facciamo», dissi. «Se… insomma… allora ci lascerai andare?»
«Avete la mia parola», rispose.
Allora Beth e io ci scambiammo uno sguardo e tra noi vi fu un accordo silenzioso.
«Okay», disse Beth. «Ci stiamo.»
Quando il sole fu tramontato la baita divenne gelida, e allora la professoressa accese un fuoco. Le
fiamme, con il loro aspetto primitivo e rituale, gettavano un sinistro riverbero arancione su tutte le
cose – il pavimento, i nostri volti – e parevano intonarsi a ciò che quella donna voleva farci fare
quella sera. Il suo piano era semplice. Costringere Mark a confessare quello che aveva commesso e
fargli chiedere perdono per il suo comportamento superbo e per la sua disonestà, prima di punirlo nel
modo peggiore che un maschio potesse immaginare.
Beth e io eravamo ai nostri posti accanto al camino quando sentimmo un’auto sulla ghiaia del
vialetto. Il rombo del motore mi colpì. C’era un ronzio, come un lieve sibilo, e capii che era la jeep
di Mark. A quanto pareva, anche Beth l’aveva riconosciuta. Subito dopo sentimmo bussare alla
porta: un colpo, una pausa e due colpi ravvicinati, come un codice.
Mentre la professoressa andava ad aprire, Beth mi guardò. «Come facciamo?» sussurrò. «Le
interessa più fare male a lui che a noi, ma ho paura che ci spari se ci discostiamo dal suo piano.»
Udii la porta d’ingresso aprirsi con un cigolio e deglutii il groppo che mi si stava formando in
gola. «Quando vediamo che c’è una possibilità di disarmarla, la cogliamo al volo», dissi.
Sentimmo l’immediata sorpresa di Mark quando vide la sua collega, Virginia Barnard, aprire la
porta della baita. «Che cosa ci fai tu qui?» chiese.
«Io abito qui», rispose lei.
«Davvero?» Sbuffò. «Com’è piccolo il mondo.»
«È una buona cosa», sentimmo che lei diceva. «Altrimenti i nostri sentieri non si sarebbero
incrociati di nuovo.»
«Temo di essermi perso qualcosa», disse lui.
«È stato un sacco di tempo fa, Mark, ma ora ti ho ritrovato.»
«Scusa?»
«Ne hai di scuse da fare», disse lei.
Sentimmo scattare la sicura della pistola. Trattenni il respiro e sentii che Beth faceva lo stesso.
«Che cazzo…» sbottò Mark.
Allora la professoressa Barnard lo condusse nella nostra stanza puntandogli la pistola contro la
schiena. «Non te l’ha mai detto, la mamma, di non usare quel linguaggio con una signora?»
Quando ci vide, il volto di Mark parve cedere trasformandosi in una massa informe per la
sorpresa.
«Beth!» esclamò, accennando a scattare verso di lei. Ma la Barnard lo trattenne per un braccio e
gli conficcò la pistola nella schiena.
«Beth, sei viva!» Gli occhi di Mark s’inumidirono. «Io ti ammazzo», sbottò contro la
professoressa, che gli appioppò un calcio a una gamba abbastanza forte da farlo gemere, e lo spinse
verso la sedia che avevamo preparato per lui. Fu allora che si accorse di me.
«Ruby?» Si alzò dalla sedia, travolto da un’altra ondata di collera.
Non c’era tempo per la verità. Non era nella sceneggiatura e sarebbe dovuta emergere più tardi.
Dopo che la donna gli ebbe puntato la pistola alla tempia, lavorammo in fretta, legandogli le mani
dietro la schiena e i piedi fra di loro e alle gambe della sedia. Cercai di non stringere troppo i nodi,
ma la professoressa se ne accorse.
«Più stretti, signore», ci rimproverò. «Più stretti.»
Quando Mark fu immobilizzato alla sedia, lei cominciò a cantargliele.
«Sei un esempio d’uomo disgustoso», disse prima di assestargli una gomitata in faccia.
Malgrado la forza del colpo, lui lo incassò bene, come se volesse dimostrare di essere in grado di
sopportare le percosse di una donna. Il suo viso però si contorse mentre gli si formava un ematoma
sulla guancia.
«Chiedi scusa a queste ragazze», disse lei.
«Io? Chiedere scusa? Sei tu la pazza che le ha rapite.»
Questo sfogo gli guadagnò un’altra gomitata alla mandibola. Quando grugnì per il dolore, accanto a
me sentii Beth trasalire. Osservai la Barnard in cerca di qualche segno di debolezza, ma la sua presa
sulla pistola era sempre salda. Saremmo dovute andare alla carica.
«Allora chiedi scusa a me.»
«A te?» Le lanciò un’occhiata incredula. «Per che cosa? A malapena ti conosco.»
«Non hai idea di chi sono?»
«Una pazza furiosa?»
Lei gli colpì la guancia con la pistola come se lo schiaffeggiasse. «Il nome di Jenny Barnard ti dice
qualcosa? Ti sei dimenticato che cosa le hai fatto? Che cosa hai fatto a mia sorella?»
Lui la fissò, in un primo momento con durezza, freddezza e senza compassione. Erano passati più
di vent’anni da quando Mark usciva con quella ragazza a Tulane. All’improvviso, però, la sua
espressione si fece più cupa. Era la stessa tristezza che avevo visto solcargli il volto quando
eravamo al campus di New Orleans, prima che lui mentisse e dicendomi che Jenny era partita per
fare volontariato all’estero.
«Si fidava di te, Mark», sibilò Virginia. «Con tutto il cuore, con tutto il corpo. E tu l’hai derubata,
le hai sottratto l’amore, la verginità, l’innocenza. L’hai buttata via come se fosse spazzatura, come
un’inutile buccia di banana.»
Mark chiuse gli occhi e scrollò la testa. «Ero giovane», disse, «e stupido. Non… Non pensavo che
avrebbe… che si sarebbe fatta del male.»
«Non si è fatta del male. Tu le hai fatto del male. Tu hai ucciso il suo bambino. Tu l’hai uccisa.»
«Mi dispiace. Mi dispiace molto. Ma lascia andare Beth. Ti prego, lascia andare Beth.»
Per un attimo vidi uno sguardo soddisfatto solcare il volto della professoressa Barnard, ma presto
fu sostituito dalla malizia. «Chiedere scusa non basta», replicò con stizza.
«Allora perché cazzo me l’hai fatto dire?»
Lo colpì di nuovo con il calcio della pistola, facendogli sanguinare il naso. Il sangue gli scese
lungo mento colandogli sul petto.
«Hai usato mia sorella e hai usato Ruby. E Tina. E Madeline. E Julie.»
Lui mugolò. «Tina? E chi è Tina?»
«Dillo!» gridò lei. «Dillo che hai usato queste ragazze innocenti.»
«Okay, le ho usate. Ecco, l’ho detto. Hai vinto. Adesso lascia andare Beth.»
Beth, pensai. Era Beth che aveva visto nel momento in cui era entrato nella baita, non me. Era la
libertà di Beth per cui era disposto a sacrificare la sua vita, non la mia. “Non mi ha mai amato”,
pensai. Non come aveva amato lei, non come l’amava ancora. E per un attimo ebbi pietà di lui.
Perché sapevo che Beth non ricambiava il suo amore e non l’avrebbe mai ricambiato. L’aveva ferito
proprio come lui aveva ferito me. Eppure lui era ancora innamorato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per
lei. A quel punto la mia collera verso Mark eclissò tutto il resto.
«Hai rubato il mio lavoro», sbottai.
La professoressa Barnard mi guardò come aveva già fatto in precedenza quello stesso giorno,
quando avevo deciso di portare allo scoperto la mia relazione con Mark. Era sorpresa che parlassi,
ma anche orgogliosa.
«La mia tesi», continuai. «Mi hai dato un brutto voto e poi l’hai pubblicata a tuo nome, non è
vero?»
In un primo momento lui non rispose, ma Virginia gli premette la pistola contro la tempia.
«Rispondile», insistette.
«Sì», disse lui.
«Hai rubato anche il lavoro di Madeline. E di Julie.»
«Sì», ripeté lui.
«E stavi scrivendo un articolo su di me, usando quello che mi è successo come materiale da
pubblicare.»
Lui scrollò la testa e un’altra goccia di sangue gli cadde dal mento. «Non ho mai scritto nulla su di
te.»
«Ma l’ho visto nel tuo computer, Mark», ribattei. «Quello che hai scritto dopo che ho tentato di
uccidermi. La sua mente divisa. Hai scritto di una persona che soffriva di allucinazioni e ha detto
che vedeva cose che non c’erano. Parlavi di me.»
Lui fece una pausa. «Parlavo di mia madre.»
«Tua madre?»
«Era… schizofrenica.»
«Non me l’hai mai detto», disse Beth.
«Non è una cosa che racconto volentieri. Ne aveva tutti i sintomi. Sentiva le voci. Vedeva la gente
appostata nell’ombra. Era paranoica. E quand’ero piccolo ha tentato di uccidersi un paio di volte.»
Abbracciò la stanza con lo sguardo. «Proprio qui.»
Guardando Mark, con il sangue che gli macchiava il volto e la camicia, non vedevo più il
donnaiolo manipolatore ma il ragazzino innocente e vulnerabile, che combatteva con la malattia
mentale della madre lottando per un po’ di affetto e chiedendosi perché lui non fosse una ragione
sufficiente per farle amare la vita. La professoressa Barnard doveva aver intuito il mio improvviso
moto di compassione per Mark, perché estrasse di tasca un taglierino e me lo porse.
«Basta parlare», ordinò. «Diamoci da fare.»
Abbassai lo sguardo verso la lama, scintillante alla luce del fuoco. Sentivo il cuore pulsare fin
nelle tempie. «Ma io pensavo che avremmo legato…»
«Questo serve per i pantaloni», disse stizzita la professoressa. «Bisogna tagliarli e toglierglieli.»
«I pantaloni?» ansimò Mark. «Ruby, di che cosa sta parlando? Beth? Beth? Di che cosa sta
parlando?»
«Ha chiesto scusa», implorò Beth.
La professoressa Barnard strinse più forte la pistola e mi tenne gli occhi puntati addosso. «Ruby,
sbrigati.»
M’inginocchiai davanti a lui e la capocchia di un chiodo sporgente nell’impiantito mi si conficcò
in una rotula.
«Che cosa volete fare?» urlò Mark. «Non vorrete… oddio… non vorrete…»
«Non resistere, Mark, o ti farà ancora più male», disse la Barnard.
Guardai Beth negli occhi pieni di panico e vidi che era sull’orlo delle lacrime. Mi chiesi se
sarebbe stata in grado di sopraffare quella donna. Fino a che punto mi sarei dovuta spingere? Fino a
che punto sarei dovuta arrivare?
Anche se Mark si divincolava sulla sedia, gli tenni ferma una gamba e praticai un taglio nei
pantaloni, appena sopra il ginocchio, dopodiché allargai il piccolo strappo che avevo creato,
lacerando la stoffa finché non vidi la biancheria sotto i brandelli di tessuto. Quando l’aria sfiorò la
pelle della coscia, Mark trattenne il respiro.
«Ruby!» urlò. «Non farlo!»
«Continua», intimò la professoressa. «Taglia anche gli slip.»
Guardando l’inguine di Mark, la peluria delle sue cosce, mi venne quasi da vomitare. Una volta
vederlo svestito mi eccitava e creava un senso d’intimità. Adesso era soltanto repellente.
«Sbrigati», mi ordinò la professoressa.
Mark sussultò quando gli avvicinai di nuovo la lama all’inguine e si divincolò sulla sedia
abbastanza da urtarmi un braccio, così gli punsi l’interno della coscia con il taglierino. Trattenni il
respiro mentre con il pollice e l’indice sollevavo la stoffa degli slip e v’infilavo la punta della lama
quel tanto che bastava a praticare un foro. Il resto lo strappai come avevo fatto con i pantaloni.
Cominciarono a sudarmi le mani.
Allora la professoressa mi prese il taglierino e lo sostituì con un lungo capo di spago da cucina,
del genere che immaginavo usasse per legare le zampe del pollo. All’improvviso mi sentii le mani
vuote e rimpiansi di non avere agito quando avevo ancora la lama. Era un’arma, l’unica arma che era
stata disposta a darmi, e io non l’avevo usata contro di lei. Sapevo di dover fare qualcosa prima che
fosse troppo tardi, ma non riuscivo a superare il confine tra il pensiero e l’azione. Immaginai che
Beth provasse la stessa cosa.
«Adesso legaglielo», disse.
Mi tremavano le mani. «Non ce la faccio.»
Puntò la pistola contro Beth. «Fallo o le sparo.»
«Non oserai farlo.»
La professoressa Barnard sparò un colpo contro le travi del soffitto. L’esplosione improvvisa mi
fece venire le lacrime agli occhi. Mi coprii la testa mentre la segatura ci spolverava i capelli come
neve.
«Legalo come abbiamo detto», ordinò. «Dev’essere stretto per interrompere il flusso sanguigno.»
«Oh, merda», gridò Mark. «No, Ruby, non farlo.»
La professoressa gli infilò in bocca un tovagliolo di stoffa per farlo stare zitto. «Coraggio», mi
disse.
Sentii le grida soffocate di Mark mentre prendevo lo spago e lo passavo sotto la biancheria
tagliata, ma le mani mi tremavano in maniera incontrollabile e mi mancava la destrezza per fare il
nodo. Dovetti provare tre volte prima di fare il cappio alla cordicella, ma non tirai le due estremità.
«Tira la corda», ordinò la professoressa. «Più stretta, più stretta!»
«Non ci riesco», urlai ancora.
«Lascia fare a me», sibilò. Mi spinse via per prendere il mio posto e io andai a sbattere sul
pavimento di legno, la guancia bruciante al contatto con il legno scabro. Udii il gemito soffocato di
Mark quando la professoressa strinse il nodo. Però, un secondo dopo, sentii un corpo accasciarsi a
terra e la pistola scivolare all’altro capo della stanza. Mi girai e vidi Beth con in mano l’attizzatoio.
«Ruby, prendi la pistola!» gridò Beth mentre l’altra cercava di alzarsi dal pavimento.
Mentre correvo per recuperare l’arma la Barnard si tuffò verso Mark, e Beth cercò di fermarla
ancora con l’attizzatoio. Le due si azzuffarono, con movimenti spasmodici e irregolari, e io vidi la
sedia di Mark rovesciarsi e cadere accanto al fuoco. Era ancora legato e le sue urla – gemiti acuti e
stridenti – mi fecero capire che le fiamme avevano cominciato a bruciargli il viso.
Afferrai la pistola e mi preparai a sparare, ma la Barnard era già sul pavimento – Beth le aveva
assestato un altro colpo con l’attizzatoio – e io rimasi in piedi sopra di lei, tenendola sotto tiro. Nel
frattempo Beth allontanò la sedia di Mark dal fuoco e, tolto il tovagliolo che aveva in bocca,
cominciò a soffocare le fiammelle che si erano appiccate ai capelli e alla camicia.
«Mark», disse con urgenza Beth, quando ebbe spento le fiamme, «dove sono le chiavi della
macchina?»
Allora la professoressa Barnard rise sardonica, anche se era distesa perfettamente immobile sul
pavimento. «Dai, cercale», disse. «Non le troverai mai.»
«Allora chiamiamo la polizia», dissi. «Mark, hai il cellulare?»
Con un gesto Mark indicò la tasca dei pantaloni, la cui fodera era ancora visibile attraverso il
taglio. Beth tirò fuori il cellulare e lesse le parole sul display: nessun servizio.
«Non ti ricordi?» disse la professoressa. «Non ci sono stazioni radio nel giro di chilometri e
chilometri. Hai passato in questa casa abbastanza tempo da saperlo.»
«Allora cominciamo a camminare», mi disse Beth. «La leghiamo e la lasciamo qui finché non
arriva la polizia.»
«Non possiamo pretendere che Mark cammini fino alla strada principale nelle sue condizioni»,
ribattei.
«Ma non può stare qui», replicò Beth. «La ucciderà.»
«Può restare Ruby», mormorò Mark con le labbra ustionate.
«Non lascio Ruby qui da sola», lo aggredì lei. «Andiamo tutti e tre. E facciamola finita.»
«La lego io», proposi, dando la pistola a Beth. Non la volevo più tra le mani.
Dopo che ebbi legato i polsi della Barnard al letto, Beth e io liberammo Mark e lo aiutammo ad
alzarsi. Ci passò davanti con uno scatto improvviso di energia, come per negare di essere rimasto
ferito. Beth e io lo seguimmo per qualche passo prima di voltarci a guardare quella donna. Al buio
sarebbe dovuta sembrare vulnerabile, ma in realtà non lo era.
Aveva un’aria pacifica, come se nel mondo tutto fosse al suo posto.
Controllavo il telefono di Mark ogni pochi metri, così da poter chiamare la polizia non appena
avessi avuto campo. Fu una camminata lenta e, fino alla strada principale, al buio. Di tanto in tanto
dirigevo sulla ghiaia della strada la luce del cellulare di Mark, per assicurarmi di non aver perso la
rotta finendo nel bosco.
Avanzammo in silenzio per un tempo che ci sembrò lunghissimo, finché non sentimmo un rumore e
scorgemmo dei fari apparire in lontananza. Un attimo dopo vedemmo il lampo delle luci rosse e blu
che guizzavano sopra l’automobile.
L’auto della polizia si fermò davanti a noi e in un primo momento, gli occhi accecati dalle luci,
vidi solo delle figure nere che scendevano. Uno dei poliziotti, il più magro dei due, sbraitò degli
ordini alla radio, mentre l’altro, tondo come una palla, si avvicinò a noi. Riconobbi subito il trench e
i baffi. Era l’ispettore Pickens.
«Dov’è la Barnard?» chiese.
Indicai dietro di me. «Nella baita, legata al letto.»
L’altro poliziotto tornò a parlare nella radio mentre l’ispettore Pickens si avvicinava ancora di
più. «C’è qualche ferito?» chiese.
Indicai Mark.
L’ispettore gli lanciò uno sguardo e poi spalancò gli occhi allarmato.
«Fai mandare due ambulanze!» urlò al suo collega, prima di correre al fianco di Beth. «Ti hanno
sparato?» le chiese.
Lei fece cenno di no con la testa, ma subito dopo i suoi occhi seguirono quelli dell’ispettore. A
mia volta diressi lo sguardo al pigiama di Beth, ora macchiato di un rosso acceso.
Beth toccò quel rosso, come incredula, poi alzò le mani tremanti per studiarne le tracce sulle dita.
Allora svenne, accasciandosi tra le braccia dell’ispettore.
«È incinta», sbottai.
E fu allora che Mark cadde in ginocchio.
19.
Dopo essere arrivati in ambulanza al Kenosha General Hospital, Beth e Mark furono trasferiti in
reparti specializzati, mentre io finii dietro una tenda in una sala del pronto soccorso. Sotto lo sguardo
vigile di mia madre – aveva dichiarato di essere un’infermiera professionale nel momento stesso in
cui era arrivata – le sue colleghe mi controllarono la pressione, il battito cardiaco, la respirazione e i
riflessi. Alla fine mi diedero un blando sedativo e mi applicarono una crema antibatterica
sull’escoriazione alla guancia.
Durante tutta la visita la mamma mi accarezzò la testa con il palmo della mano, lisciandomi i
riccioli sulla fronte come faceva quando ero piccola. Continuò a chiedermi se stessi bene, senza mai
affrontare l’argomento di Mark e dei miei rapporti con lui, né accennare al fatto che non le avevo
detto quasi niente sui fatti di Tarble a seguito dei quali la professoressa Barnard mi aveva rapita. Era
sottinteso che avremmo parlato di questi argomenti al momento giusto.
Era mezzanotte meno un quarto quando l’ispettore Pickens aprì la tendina. L’espressione era
severa, ma lo sguardo era gentile. Mi portò la mia borsa. L’avevano trovata nascosta alla baita.
«Come sta Beth?» chiesi.
«Stabile.»
«E il bambino?»
«Il battito cardiaco c’è, anche se, vista l’emorragia, c’è rischio di aborto.» Fece una pausa.
«Presto a Suter verrà praticato un innesto di pelle. La maggior parte delle ustioni sono di secondo
grado, ma in alcuni punti sono di terzo.»
«E la Barnard?» chiesi. «È agli arresti?»
Fece una smorfia. «Non ancora. Sul pavimento abbiamo trovato la corda con cui l’avete legata.
Dev’essere riuscita a scappare. Però abbiamo perquisito la baita e abbiamo trovato delle prove. Una
squadra la sta cercando. Salterà fuori. La cosa più importante è che tu e Beth siate al sicuro.»
«Come ci ha trovate?»
L’ispettore si sedette sulla piccola sedia accanto al letto, quella che mia madre aveva rifiutato,
preferendo restare in piedi di fianco a me. «Innanzitutto», disse, «voglio scusarmi per non avere
accolto subito i tuoi motivi di preoccupazione.» Le sue dita grassocce si agitavano quasi a mimare i
sentimenti che mancavano nella sua voce brusca. «Abbiamo perso tempo con Grenshaw quando
avremmo dovuto concentrarci sull’università.»
«Ma come siete arrivati alla Barnard? Io sicuramente non sapevo che era stata lei a rapire Beth,
almeno finché non è stato troppo tardi.»
«Avremmo potuto arrivarci insieme, seguendo fino in fondo la pista.»
«Che cosa intende?»
Assestò il suo corpaccione sulla piccola sedia e lanciò un’occhiata a mia madre. «Il libro che mi
hai dato apparteneva alla Barnard, non a Beth.»
Lo fissai perplessa. «Una stanza tutta per sé?»
«Non era la calligrafia di Beth», spiegò. «Il nome e il numero di telefono all’interno della
copertina, quegli appunti a margine sulla “baita di Cassie”… Beth non ha scritto niente di tutto
questo. Non l’ho scoperto finché non l’ho mostrato a sua madre, proprio oggi.»
Cercai di dare un senso alle informazioni ricevute dall’ispettore. «Quindi la Barnard ha infilato il
libro nella valigia di Beth? Prima di fare il check-in?»
«Prima o magari dopo, quando l’ha consegnata a te.»
«Consegnata?» Le parole mi morirono in gola.
«La Barnard era la donna delle consegne, quella che ha lasciato la valigia a casa tua. Non era un
corriere, Ruby, e l’avrei scoperto prima se avessi indagato con una telefonata alla compagnia aerea.
Il bagaglio di Beth non si è mai perso. La Barnard si è limitata a recuperarlo a Pittsburgh e poi l’ha
portato a te.»
La mia mente ritornò a quella sera di una settimana prima, alla donna in camicia cachi e gonna
pantalone, la coda di cavallo infilata nel cinturino posteriore del cappello, l’accento della costa
orientale.
«Ha messo nella valigia il libro», dissi, «e la cartolina sulla Riunione. Voleva che tornassi a
Tarble.»
Mi chiesi che cos’altro Virginia Barnard avesse orchestrato per il weekend. Aveva impostato la
lezione e il saggio sulla poesia di Sara Teasdale apposta per me? Faceva parte tutto del suo piano?
Voleva che trascinassi Mark davanti alla giustizia, che riprendessi da dove Beth si era fermata. E io
ero caduta nella sua trappola.
«Ma come ha scoperto che la donna delle consegne era proprio lei?» chiesi.
«Lasciami ricostruire un po’ a ritroso. Quando ci siamo resi conto che probabilmente Beth non era
mai salita su quell’aereo, ho ordinato a una squadra di visionare i video della sicurezza
dell’aeroporto General Mitchell del giorno in cui Beth era scomparsa. Il distretto di polizia di
Pittsburgh aveva già guardato i video di quell’aeroporto, ma non avevamo avuto motivo di guardare
anche quelli di Milwaukee, almeno finché il caso di Grenshaw non si è sgonfiato.»
«Hanno visto la Barnard nei video?»
«Sì, anche se in un primo momento non sapevamo chi fosse. Fra l’altro indossava un
travestimento.»
«Fingeva di essere Meryl, la moglie di Mark», spiegai. «Beth pensava che fosse lei.»
Annuì. «Poi si è truccata per sembrare più giovane e somigliare a Beth, così da poter volare a
Pittsburgh al suo posto. Non sappiamo ancora di preciso dove abbia nascosto Beth per tutto quel
tempo.»
«Nella sua auto», suggerii. «Beth mi ha detto che all’improvviso ha avuto un attacco di sonnolenza
e si è addormentata nella macchina di Meryl, cioè di Virginia. Quando si è risvegliata, era nella
baita.»
L’ispettore prese una biro dal taschino e scribacchiò qualcosa. «La Barnard deve avere drogato
Beth in maniera piuttosto pesante, visto che è riuscita ad andare in Pennsylvania e tornare indietro. In
ogni caso, i video hanno confermato che Beth ha seguito di sua spontanea volontà questa donna non
identificata. Nel frattempo ero con la squadra informatica e cercavo di individuare l’origine della
lettera d’addio che Janice ha ricevuto via e-mail. Era un nuovo account, creato proprio quel giorno.
C’è voluto del tempo, ma l’abbiamo ricondotto a un computer del campus di Tarble.»
«Ma aveva detto che l’e-mail, la lettera d’addio, portava la data del giorno in cui Beth era
scomparsa», dissi. «Come ha fatto la Barnard a manipolare la data?»
«Semplice. Ha cambiato la data e l’ora del computer che stava usando. L’e-mail che ha mandato è
entrata nella casella di Janice con l’ora e la data del computer sorgente e non di quello ricevente.
Janice si è limitata a supporre che si fosse incagliata nel cyberspazio. La verità è che la Barnard
l’aveva appena inviata.»
«Sapeva della passeggera che rischiava di smascherarla», spiegai. «Stava cercando di sviare le
indagini.»
«E subito dopo mi ha chiamato tua madre dicendo che non aveva tue notizie. Aveva cercato di
telefonarti, ma non riusciva a trovarti.»
«Avevo capito che qualcosa non andava», aggiunse la mamma, rompendo il silenzio.
«Poi ho ripensato a tutto quello che mi avevi raccontato di Mark Suter e di quel libro», proseguì
l’ispettore. «E quando Janice ha insistito che quella non era la calligrafia di Beth, ho controllato il
numero sul biglietto da visita del corriere e alla fine l’ho ricollegato alla Barnard. Quando sono
arrivato a Tarble, però, era troppo tardi. Non la si trovava da nessuna parte. Anche tu e Mark Suter,
spariti. Però ho parlato con la tua amica Heidi, che mi ha ragguagliato su un paio di faccende.»
«Non le avevo detto tutto», dissi con rimorso.
«Sapeva abbastanza. Ti abbiamo trovato, no?»
«Ma come ha capito che doveva venire alla baita?»
«Sempre per l’appunto nel libro, “la baita di Cassie”. Meryl Suter mi ha detto dov’era», disse.
«Senti, per la cronaca, raramente ammetto di essermi sbagliato. Ma qui mi sono sbagliato. Se ti
avessi dato retta, avrei potuto risparmiare a te, a tua madre, a Beth e alla sua famiglia dolore e
sofferenza. Se potessi tornare indietro e fare le cose in maniera diversa, lo farei. Però non posso.»
Allora si alzò in piedi e prese la mia mano nella sua, coprendola con l’altra. «Mi spiace, Ruby.»
Era la prima volta che mi chiamava con il mio nome di battesimo.
«E se non trovate la Barnard?» chiesi.
«La troveremo.»
«Non so. Lei è…» M’interruppi. Dopo aver saputo che aveva ingannato non soltanto Beth,
facendole credere di essere Meryl, ma anche me, spacciandosi per un’addetta alle consegne, non
trovavo le parole giuste per descriverla. Non c’era da stupirsi se mi era sembrata familiare. In fin dei
conti, l’avevo già vista due volte, a mia insaputa, di cui la prima al Café Du Monde.
«Astuta?» suggerì l’ispettore.
«Ingegnosa», dissi.
L’ispettore annuì. «Fammi un favore», aggiunse. «Controlla la tua borsa. Assicurati che ci sia tutto,
perché la Barnard potrebbe averti rubato la carta di credito.»
«Non mi sembra che nessuno ci abbia messo le mani», dissi dopo avere aperto la cerniera. Il
portafoglio c’era: patente di guida, carta di credito, tessera della biblioteca, cellulare. Venti dollari
in contanti.
«Manca qualcosa?» chiese.
Scrollai la testa mentre controllavo le tasche laterali. Una era vuota, ma l’altra conteneva ancora la
foto di Beth e Mark. «Devo confessarle una cosa», dissi all’ispettore. «Ho preso questa dalla camera
da letto di Beth.»
«Puoi restituirgliela.»
Studiai la fotografia come avevo fatto il giorno in cui l’avevo trovata, ma questa volta i miei occhi
isolarono la donna sullo sfondo, quella che indossava un cappello a tesa larga e una sciarpa, quella
che in un primo momento avevo scambiato per un’attrice.
«È lei.» Picchiettai sulla fotografia. «La Barnard, sullo sfondo.»
L’ispettore me la strappò di mano per studiarla. «Questa è lei?»
Mi tornò in mente la fotografia di Sara Teasdale attaccata alla bacheca di sughero nell’ufficio
della professoressa, con il cappello a tesa larga e la sciarpa.
«È meglio che questa la prenda io, allora», disse l’ispettore.
Troppo sbalordita per parlare, chiusi gli occhi mentre dentro di me ribolliva una rivelazione
pronta a esplodere. Speravo che la polizia trovasse quella donna, ovunque si fosse nascosta.
Aveva un bel po’ di cose da spiegare.
Un’ora dopo la mamma si allontanò per vedere se potevano dimettermi e io mi addormentai.
Avevo il televisore in miniatura acceso, ma il volume era così basso che avrebbe anche potuto essere
spento. Per un attimo chiusi gli occhi, cullata dai rumori di fondo, il suono di un carrello che passava,
il bip-bip di un macchinario.
Quando sentii scorrere la tendina, aprii gli occhi e vidi una nuova infermiera di turno, con il
camice rosa – una tinta più salmone di quella del resto del personale – e grandi occhiali dalla
montatura di tartaruga. I capelli biondi, lisci e chiari, erano legati stretti in una crocchia che le stirava
le rughe sulla fronte e la faceva sembrare più giovane di dieci anni. Malgrado il travestimento –
abbastanza ingegnoso, a quanto pareva, da ingannare i poliziotti nella sala d’attesa – riconobbi
Virginia Barnard dal colore marrone degli occhi. Immediatamente tastai la coperta bianca in cerca
dei pulsanti importanti, soprattutto quello che avverte l’infermeria in caso di emergenza. Però la
pulsantiera era sepolta fra le pieghe.
«Ti prego, non farlo. Non ti farò del male», disse.
Alla fine trovai il pulsante sotto la coperta e vi appoggiai sopra il dito come se fosse il grilletto di
una pistola. «Allora perché sei venuta?»
«Per vedere come state. Tutt’e due.» Sospirò. «Spero che Beth non perda il bambino.»
Ero sorpresa che sapesse del rischio di aborto di Beth. «Sei andata a trovarla?»
«No, ma le infermiere parlano. Hanno detto anche che Mark ha perso parecchia pelle sul viso.
Potrebbe restare sfigurato. Che disgrazia.» Sorrise sardonica. «Era così bello.»
«Non uscirai libera da qui», dissi.
«Correrò i miei rischi.»
«Tutto quello che devo fare è premere questo pulsante.»
«Ma non lo farai», ribatté lei, togliendosi i finti occhiali mentre si avvicinava a me.
Strinsi più forte la pulsantiera, respirai profondamente e dissi: «Eri tu, travestita».
«Sì», disse. «Ti ho portato la valigia. Proprio come vedere Mark al caffè, è stata tutta una
questione di destino. Ho guardato la valigia di Beth ed eccoti con il nome e l’indirizzo sull’etichetta,
quasi m’implorassi di trovarti, di spingerti a tornare. E così ci ho messo il libro e la cartolina
apposta per te. Era la copia di mia sorella.»
Allora compresi tutto. Era stata Jenny Barnard a scrivere «come la baita di Cassie» a margine. Era
il suo affetto per Mark che avevo intuito da quell’appunto, non quello di Beth. Ricordai la mia
conversazione con Mark quel primo pomeriggio. Aveva stabilito un paragone tra la casetta di sua
madre e il libro di Virginia Woolf. Aveva rubato l’idea a Jenny o era lei che l’aveva presa da lui?
«Non parlo della valigia», dissi. «Parlo di Virginia Woolf e di Charlotte Perkins Gilman a New
Orleans, di Sylvia Plath qui sulla spiaggia.»
Lei scrollò la testa. «Non ho mai finto di essere Sylvia Plath.»
«Non mentire. Eri venuta al campus per i colloqui al dipartimento di inglese. Hai detto il mio
nome. Eri tu.»
«Sì, ero io sulla spiaggia, ma non fingevo di essere Sylvia Plath, Ruby. Quella sera ero me stessa,
con i miei vestiti. Ho pronunciato il tuo nome perché volevo parlarti.»
«Ma io…» Ripensai agli abiti in stile anni Cinquanta che la professoressa aveva indossato per
tutto il fine settimana e ripensai alla donna sulla spiaggia, al suo caban color cammello e ai suoi
capelli biondi. Possibile che fosse la professoressa Barnard quella che avevo visto? L’avevo fusa
con l’immagine della Plath perché ero predisposta a farlo?
«Ma la Woolf e la Gilman?» ribattei. «Lì ti eri travestita, giusto?»
Annuì. «Devi capire che quando ti ho vista al caffè, così giovane e innocente, ho rivisto mia
sorella. E ho giurato di far uscire Mark dalla tua vita il più presto possibile. Sapevo che sua madre
era schizofrenica. Lui l’aveva raccontato a mia sorella. Era nel suo diario. E quando ho letto gli
appunti per la tua tesi, mi è stato subito chiaro come salvarti.»
Spalancai la bocca. «Tu hai rubato i miei appunti?»
«Sì, sapevo che avresti finito per raccontare a Mark le tue visioni – eri stata così aperta e onesta
con lui al caffè, quando gli hai parlato di tuo padre – e sapevo che questo gli avrebbe ricordato sua
madre. Avrebbe perso interesse per te o forse ti avrebbe amata di più, ma io ho puntato sulla prima
possibilità. Alla fine ti avrebbe spezzato il cuore, io mi sono solo limitata ad accelerare il
processo.»
«Ma mi hai fatto credere di essere pazza!» dissi. «Ti importava più di far uscire Mark dalla mia
vita che non della mia salute mentale. Pensavi di risparmiarmi il destino di tua sorella, ma in realtà
hai contribuito a condurmi in quella direzione.»
«Mi spiace, Ruby. Non ho mai avuto intenzione di farti del male. Nella mia mente, io stavo dando
la caccia a Mark, cercando di ricordargli quello che aveva fatto a mia sorella.»
Tornai a fissare la professoressa. La collera mi pulsava nelle vene, ma ben presto un altro
sentimento ne prese il posto. Sollievo. Tutto ciò che era accaduto – quelle visioni ossessionanti di
scrittrici morte – non erano altro che il complotto di una donna folle che voleva giocare con la mia
vita.
Alla fine non ero io la pazza.
La professoressa si portò una mano al cuore. «Ho fatto ammenda, no? Ti ho riportata a Tarble, ti
ho costretta ad affrontare il tuo passato, a fronteggiare Mark. Ti ho fatta risorgere dai morti.» Allungò
una mano dietro la schiena. «Senti, non ho molto tempo. Anche se non premi quel pulsante, una vera
infermiera tirerà questa tendina.»
M’irrigidii, chiedendomi se fosse armata. Ma non tirò fuori una pistola.
«Questo è per te», disse, porgendomi un quaderno rilegato in pelle, simile a quello che Mark mi
aveva dato a New Orleans.
Lo presi in mano ma non lo aprii. Invece passai un dito lungo i bordi della carta. «Che cos’è?»
«Il diario di Jenny. Voglio che tu e Beth lo leggiate, così capirete.»
La fissai.
«Puoi fingere di essere arrabbiata, Ruby», disse. «Ma so che cosa provi davvero per me. Quando
si tratta di mostrare i nostri sentimenti, quello che conta è ciò che facciamo, non ciò che diciamo. E tu
hai dimostrato tutto stanotte quando mi hai legata al letto. Hai lasciato il nodo allentato.»
«Non è vero», ribattei. «Era stretto.»
«Davvero?»
Ripensai a poco prima, quella sera stessa, quando avevo legato i polsi della professoressa
Barnard. Prima che la polizia arrivasse alla baita, lei si era liberata. Era impossibile – pensai – che
avessi voluto che scappasse, che l’avessi aiutata a fuggire. Ma, d’altro canto, forse l’avevo fatto.
Perché, dopo che si fu allontanata dal mio letto, aspettai un minuto buono prima di premere il
pulsante di chiamata.
EPILOGO
UN ANNO DOPO
L’unica cosa che mi manca del Midwest sono i colori autunnali. Quando viene l’autunno, a New
Orleans gli alberi non cambiano colore, ci sono anche ventisette gradi e io trascorro la maggior parte
dei pomeriggi all’aperto, curiosando al Mercato Francese, leggendo in Jackson Square, scrivendo al
caffè di Pirates Alley. Lo splendore del Quartiere Francese è letteralmente sulla soglia di casa mia,
perché la mamma e io abbiamo preso in affitto un appartamento sopra una bottega d’antiquario, ad
appena due isolati dalla cattedrale di St Louis. Però la mamma ha messo gli occhi su un ranch nei
dintorni e, quando l’avrà comprato, l’appartamento sarà tutto mio.
Non ci abbiamo messo molto a riabituarci a vivere qui. Anzi, era come se non fossimo mai andate
via. Una notizia inattesa dal distretto di polizia di New Orleans aveva fatto la sua parte. Quasi tre
anni dopo l’investimento di mio padre, erano finalmente riusciti a trovare chi guidava la macchina
quella sera. Risultò che era una ragazza di sedici anni, al volante dell’auto dei genitori una settimana
dopo aver preso la patente. Alla lunga, distrutta dai sensi di colpa, si era costituita e, potendo
attribuire a lei la responsabilità, non biasimo più me stessa per la morte di mio padre. Ma la cosa
strana è che non riesco a odiarla. Vorrei, ma non posso. Perché se ho imparato qualcosa dal calvario
dell’anno passato è questo: la collera non mi renderà mio padre.
Ora che siamo tornate a casa, la mamma e io abbiamo delle nuove abitudini. Ogni domenica, per
esempio, andiamo a fare colazione al Café Du Monde. Però questa mattina di metà ottobre sono sola.
La mamma è tornata a Chicago per chiudere la nostra vecchia casa di Oak Park e, anche se mi sono
offerta di accompagnarla, ha rifiutato, dicendo che non devo saltare le lezioni. E ha ragione. Mi sto
dando molto da fare questo semestre alla New Orleans University per terminare il mio corso di studi.
Non posso permettermi di perdere una giornata, se l’anno prossimo voglio iniziare un master in
scrittura creativa.
Stamattina il caffè brulica di avventori come sempre, ma mi accaparro un tavolo vuoto sul retro. Il
cameriere deve ancora sgomberarlo, ma so che passerà tra poco. Nel frattempo decido di smistare il
mucchio di posta che ho accumulato da quando la mamma è partita. Non sono mai stata brava ad
aprire la posta a tempo debito. Ed è un peccato, mi rendo conto, perché straripa di cose interessanti.
Dopo aver scartato i volantini e le pubblicità, vedo il mio primo pagamento dal «TimesPicayune», settantacinque dollari per un articolo da freelance sulla sagra del pesce del mese scorso.
“È un inizio”, penso, ripromettendomi di mandare un’e-mail a Craig Hewitt per dargli la buona
notizia. Anche se dopo il mio ritorno da Tarble il mio ex capo e io abbiamo flirtato un po’, non è mai
successo niente di serio. Appena uscita da quell’odissea non ero pronta a frequentare nessuno. E
benché nemmeno adesso abbia un ragazzo, mi sento pronta a incontrare la persona giusta. Stavolta lo
capirò, quando sarà la persona giusta. Gwen e io ci siamo trovate d’accordo su questo, durante la
nostra ultima seduta.
Dietro la nota di pagamento trovo una cartolina dal Tarble College che annuncia il primo Raduno
annuale di ex allievi verso la fine di questo mese. Malgrado le proteste, il consiglio
d’amministrazione di Tarble ha votato all’unanimità per la coeducazione e quest’anno il Raduno si
chiamerà Homecoming come nelle altre università. Sorrido vedendo quello che ha scritto Heidi sul
retro della cartolina: «So che non ce la farai, ma vediamoci a New Orleans per il Ringraziamento!».
La coeducazione non è stata l’unico cambiamento che si è verificato a Tarble. Mark non è più tra i
docenti. Ho portato avanti le accuse contro di lui, non per molestie sessuali, ma per plagio. Julie e
Madeline hanno fatto la stessa cosa. Alla fine avevo parlato con Tina Beyers, ma nel suo caso le
ipotesi della professoressa Barnard erano prive di fondamento. Sì, aveva seguito i corsi di Mark, e
aveva abbandonato Tarble, ma le due cose non erano collegate. In ogni caso, in risposta alle nostre
accuse e al disvelamento delle numerose relazioni avute con le sue studentesse, la rettrice Monroe
era disposta a licenziarlo, ma lui ha rassegnato le dimissioni.
Non sono più arrabbiata con Mark. Dopo qualche riflessione, ho deciso di lasciar perdere, perché
mi sono resa conto che anche lui era ossessionato dal suo passato. Crescere senza un padre, e con una
madre schizofrenica, aveva influenzato le sue convinzioni, i suoi valori, il suo atteggiamento verso le
donne. Ovviamente aveva amato sua madre. Me ne aveva parlato con grande affetto ed era attratto da
donne come lei: creative, emotive, appassionate. Però era risentito con lei proprio perché possedeva
queste caratteristiche. Era combattuto, e questa contrapposizione di sentimenti si rifletteva nelle sue
relazioni. Ecco perché riusciva a essere così comprensivo e sprezzante al tempo stesso. Perché, per
quanto amasse la madre, voleva anche punirla. Ora lo capisco, e arrabbiarsi non serve. Dopotutto è
già stato punito per le sue malefatte. Grazie alle fiamme che gli hanno rovinato il viso e il collo, la
professoressa Barnard ha avuto quel che desiderava. Quella notte nella baita voleva privare Mark
del suo potere e, malgrado lui abbia ancora la sua virilità, il suo disarmante bell’aspetto è svanito
per sempre.
Naturalmente neanche Virginia Barnard insegna più a Tarble. È stata accusata di sequestro di
persona e di falso documentale, anche se non è finita in galera ma in un istituto statale per malati di
mente in Louisiana, poco più a nord di Baton Rouge: a un’ora di auto da dove sono io adesso, il che a
volte mi dà da pensare. Quindici minuti dopo che avevo premuto quel pulsante di chiamata per la
sala infermieri, la polizia di Kenosha ha catturato la Barnard nella macchina di Mark, davanti a un
Burger King a dieci chilometri a ovest dell’ospedale. Giudicata dai pubblici ufficiali del Wisconsin
non in grado di essere processata, alla fine è stata trasferita in Louisiana, dove dei parenti potevano
assisterla. Malgrado tutto ciò che era accaduto, Beth e io abbiamo convenuto che l’istituto era il
posto migliore per lei, e, nel prendere la sua decisione il giudice ha tenuto conto del nostro punto di
vista. Alla fine né io né Beth provavamo disprezzo per lei. Non avremmo mai potuto perdonare le sue
azioni, ma le capivamo.
Abbiamo letto anche il diario di sua sorella Jenny, quello tenuto quando era al primo anno della
Tulane University. Descriveva ogni emozione relativa alla sua rottura con Mark, dal perché si era
innamorata di lui, tanto per cominciare – erano stati i suoi occhi azzurri, diceva –, al senso di colpa
per avere abortito. Stranamente era successo tutto in dicembre, lo stesso mese in cui, molti anni dopo,
io avevo preso la mia overdose di sonniferi. E in ogni pagina, in ogni parola, rivedevo un pezzo di
me stessa.
Quel diario avrei potuto scriverlo io.
Il diario di Jenny è stato catartico anche per un altro motivo. È servito come trampolino di lancio
per il discorso che avrei voluto fare a mia madre fin da quando avevo abbandonato l’università. Ho
finito per raccontarle tutto, da Mark a New Orleans, fino alla visita a papà al cimitero, tutte le cose
che giuravo non le avrei mai detto. E persino dopo che ha ascoltato tutto, persino dopo che ha
scoperto che avevo avuto una storia con un professore sposato, non c’era nemmeno una macchia
scura nel verde dei suoi occhi.
Il cameriere interrompe i miei pensieri per sbarazzare il tavolo e prendere la mia ordinazione; io
gli chiedo un café au lait e una porzione di beignets prima di dedicarmi all’articolo successivo nel
mio mucchio di posta: un biglietto di ringraziamento di Beth Richards per il regalo che le ho mandato
per la sua bambina. Alla fine non ha abortito, e a maggio ha dato alla luce una bella bimba – Renée,
che significa «rinata» – dai capelli biondi, con un naso a patatina e labbra simili a petali di rosa e
dello stesso colore. Sapevo che Janice Richards era rimasta accanto a Beth durante il parto e le
aveva tenuto la mano, incredibilmente grata per il finale miracoloso: sua figlia viva e, per di più, una
nipote. Finora – e con grande soddisfazione di Beth – la bambina non assomiglia affatto a Mark.
Tuttavia lui sarà parte della vita di sua figlia. Beth gli ha concesso il diritto di farle visita perché ha
capito che avere un padre, anche se imperfetto, è meglio che non averlo affatto. E Mark avrà un sacco
di tempo per vedere sua figlia durante i fine settimana, poiché lui e Meryl hanno divorziato in
primavera.
Guardo la fotografia della piccola Renée che Beth ha allegato al biglietto – adesso la bambina ha
cinque mesi e le sta spuntando un dentino – e rifletto sulla fragilità della vita umana. Se Virginia
Barnard non avesse rapito Beth, lei sarebbe salita su quell’aereo per Pittsburgh e, con il pretesto di
frequentare il laboratorio di fotografia, avrebbe impedito la nascita di quella bambina che ora mi
sorrideva.
“Ragazzina, devi la tua vita a una pazza”, penso.
Ma, del resto, gliela devo anch’io.
È vero, quello che ha fatto la professoressa Barnard – fingere di essere i fantasmi di scrittrici
morte – ha giocato un ruolo chiave nel mio tentativo di suicidio, ma non è stata interamente colpa sua.
Anche Mark ha avuto la sua parte e, a conti fatti, ce l’ho avuta anch’io. Alla fine sono io che ho
scelto di ingoiare le pillole. Era la mia insicurezza, il mio disperato bisogno di essere amata, di
riempire il vuoto lasciato da mio padre alla sua morte, che mi hanno spinto a quel gesto, non le
visioni di Woolf, Gilman e Plath.
Ma quanto al raccogliere i cocci della mia vita, devo dare credito alla professoressa Barnard. Se
non avesse portato la valigia a casa mia, se non vi avesse infilato dentro il libro e la cartolina per la
Riunione, non sarei mai tornata a Tarble. Grazie a lei ho affrontato Mark, affrontato il dolore,
affrontato il mio passato e, facendolo, ho finalmente abbracciato il mio futuro. Rifletto spesso sulla
storia che la professoressa ci ha raccontato nella baita a proposito di sua sorella. Non il suicidio di
Jenny, ma il loro profondo legame. Non ho mai avuto una sorella, ma immagino che, se l’avessi
avuta, sarebbe andata in capo al mondo per proteggermi. Il suo amore non avrebbe avuto limiti. E
così ho finito per vedere la professoressa Barnard sotto un’altra luce, perché la verità è che è entrata
nella mia vita in punta di piedi, per un breve tempo e senza che io me l’aspettassi, però ha prodotto
una metamorfosi. Mi ha cambiato e ha alterato il corso della mia vita.
È stata – come l’ha definita Jenny in modo bizzarro – la mia «sorella farfalla».
Il cameriere mi porta il caffè e i beignets e io appoggio la posta per gustarmeli.
Finisco il mio café au lait, ma mi porto via due frittelle avanzate in un sacchetto di carta. “Per
papà”, penso, decidendo che è una giornata perfetta per andare al cimitero. Esco dal bar e attraverso
Jackson Square diretta alla fermata del tram di Canal Street. Gli artisti di strada sono già pronti per
la giornata sul marciapiede d’ardesia, i cavalletti in mostra, le loro opere appoggiate contro la
ringhiera in ferro battuto.
«Scusami», dice una voce, interrompendo i miei pensieri. «Ti sistemi qui?»
Mi volto e vedo un uomo intorno ai trent’anni con in mano un cavalletto. Le dita e la camicia sono
macchiate di pittura, ma è rasato di fresco e sfoggia un taglio di capelli da ragazzo. I suoi occhi,
color verderame, m’ipnotizzano al punto che non trovo più la voce.
«Non sono un’artista», dico infine.
«Siamo tutti artisti», ribatte lui.
«È vero, ma io non mi fermo qui», aggiungo indicando il suo cavalletto. «Prego.»
Mi sposto mentre lui posa il cavalletto e comincia a tirar fuori i suoi dipinti da una grande
cartelletta. Sono i più belli che abbia mai visto e ritraggono New Orleans. Uno rappresenta un
cortile, misteriosamente nebbioso. Un altro è Royal Street, con toni rosa e verdi così vivaci e così
fedeli all’originale.
«Sono stupefacenti», gli dico.
«Grazie.» China la testa, come colto da un’improvvisa timidezza. «Ma è soltanto un hobby. Un
guadagno extra. Sono all’ultimo anno di legge alla Loyola.»
Continuo a guardare i quadri man mano che li tira fuori. L’ultimo mi sorprende. È un uomo sotto
una tenda verde che tiene la figlia piccola per mano. Nell’altra mano lei ha un’arancia, sbucciata in
parte. S’intitola Domenica mattina al Mercato Francese.
«Voglio questo», dico. «Dev’essere mio. Quanto vuoi?»
Mi scruta e sorride. «Te lo regalo, prendilo.»
«Non posso, non senza pagarti qualcosa.»
«Be’, che cos’hai in mano?» chiede.
Guardo il sacchetto di carta del Café Du Monde, i due beignets che pensavo di portare alla tomba
di mio padre. «Avanzi della colazione.»
Si frega lo stomaco. «Si dà il caso che non abbia mangiato. Facciamo un baratto?»
«Li ho promessi a qualcun altro, in un certo senso», gli dico.
Geme: «Al tuo fidanzato?».
«Non ho un fidanzato.»
Finge di asciugarsi una goccia di sudore dalla fronte, simulando sollievo. «Be’, se è così, allora,
piacere, io mi chiamo Julian», dice, la voce squillante mentre mi tende una mano.
Sorrido quando sento l’insolito nome di mio padre e accetto la sua stretta di mano, dicendogli che
mi chiamo Ruby. Lui ricambia il sorriso. Ci guardiamo negli occhi più a lungo e più a fondo di
quanto faccia la maggior parte della gente quando s’incontra per la prima volta.
«Julian», dico infine, tenendo sempre la sua mano, «be’, allora questi sono per te.» Gli porgo il
sacchetto.
«Sei sicura?»
Studio lui e il dipinto con il padre, la figlia e l’arancia.
«Suppongo che non si possa mai essere sicuri», dico. «Ma ho un buon presentimento.»
Cara Jenny,
mia cara sorella, non scriverò mai abbastanza in fretta, per timore che una delle infermiere
scopra questa penna e mi strappi di mano questo salvagente. La penna appartiene a Claudia,
l’unica persona decente che lavora qui, e non vorrei che perdesse il posto per la negligenza nel
custodire i suoi effetti personali. È poco probabile che faccia del male a me o ad altri con una
penna, o che riesca a usarla per fuggire come MacGyver. O forse potrei…
Ora, però, non importa. Sto scrivendo di nuovo. Oltre alla penna ho rubato anche due fogli di
carta dal blocco giallo di Claudia e li ho piegati in modo che sembrino un diario, rilegandoli con
un filo strappato dal tappeto nella stanza per la terapia di gruppo. Dovrà bastare.
Se Claudia dovesse scoprire quello che ho fatto, le spiegherò perché e basta. L’ho fatto per lei.
L’unico modo che ho per pensare bene – grazie ai farmaci che mi danno – è scrivere. Devo
rifletterci sopra con chiarezza e con attenzione, devo pianificare come e dove tutto questo
accadrà. Perché il dottor Berger dev’essere fermato. Oltre a Claudia, sono certa che va a letto
con due altre infermiere di questo istituto. Lo capisco da come si sforzano di non guardarlo, da
come lui accarezza loro le dita quando gli porgono una cartella. Farà loro del male – a tutte loro,
ma soprattutto a Claudia. Lo capisco dal modo in cui lei lo segue con gli occhi, anche dopo che
lui è uscito da un bel po’ dalla stanza, che è cotta. Intuisco che non è mai stata innamorata prima.
Lui è il suo primo amore. E il primo, be’, sappiamo tutte fin troppo bene che può creare danni
irreparabili. Ecco perché non posso più restare seduta con le mani in mano. Non posso permettere
che lei gli consegni la sua vita. Non posso permettere che diventi un altro numero di una folle
statistica.
Ho deciso di aiutarla.
RINGRAZIAMENTI
Innanzitutto ringrazio mia madre, Gail Angell, per il dono più prezioso che un genitore possa fare a
un figlio: la fiducia. Mamma, mi hai detto che sarei potuta diventare qualunque cosa volessi e avevi
ragione! Hai letto un’infinità di stesure, hai risposto a un milione di domande e hai ascoltato i miei
sfoghi, i miei dubbi, le mie speranze e i miei sogni. E, cosa più importante, hai risuscitato questo
libro e hai ridato slancio in continuazione al mio entusiasmo. Sinceramente non avrei saputo farcela
senza di te, mamma! C’è così tanto di te in questo libro ed è più che giusto che il tuo nome – il mio
secondo nome – appaia sulla copertina. Condivido questo successo con te.
Ringrazio anche i miei splendidi figli – Andrew, Luke e Amelia – per avermi dato lo stimolo a
essere la migliore persona possibile. Ho inseguito i miei sogni perché volevo che un giorno voi
faceste la stessa cosa.
Sarò per sempre grata a mio marito, Neil, per avere rispettato il mio bisogno di creatività e per
avere sopportato la mia inclinazione per il dramma, sia sulla pagina sia nella vita. Neil, hai vissuto
con questi personaggi durante tutto il nostro matrimonio! Hai creduto in me, mi hai dato retta e mi hai
tirato su il morale in ogni fase del lavoro. Ti amo!
Questo libro non sarebbe giunto nelle mani dei lettori senza l’occhio acuto della mia straordinaria
agente letteraria, Elisabeth Weed della Weed Literary, che ha trasformato in realtà il mio proposito
per l’anno nuovo. Elisabeth, grazie al nostro processo di revisione ho avvertito come assimilavi la
storia e i suoi personaggi, superando le mie aspettative. Sei andata ben al di sopra e al di là del tuo
dovere professionale e sono felicissima di lavorare con te. Ringrazio anche Stephanie Sun per tutte
quelle piccole cose che fanno una grande differenza.
Un altro grazie va all’agente che si occupa dei diritti esteri, Jenny Meyer della Jenny Meyer
Literary Agency, per aver venduto i diritti italiani alla Garzanti Libri a tempo di record. Sei
fantastica!
Sono estremamente grata alla mia preziosa editor, Carrie Feron, della William
Morrow/HarperCollins. Carrie, grazie per avere impedito alla mia fervida immaginazione di
prendere il sopravvento in questo romanzo! Sembri sapere esattamente quando lasciarmi galoppare e
quando tirare le redini, e con i tuoi arguti suggerimenti questo romanzo ha espresso il suo massimo
potenziale. Ringrazio anche gli sgobboni nella squadra di HarperCollins, soprattutto Nicole Fischer,
Julia Meltzer, Mumtaz Mustafa, Shelly Perron, Diahann Sturge e Tessa Woodward.
Per aver creduto in me con il suo atteggiamento positivo e per aver letto una prima stesura,
ringrazio mia sorella, Lisa Bauer. Per la sua perspicacia da lettrice e il suo costante incoraggiamento,
ringrazio mia zia, Jillian Schneider, che oltretutto ha fatto sembrare l’uso di quella macchina da
scrivere nel seminterrato così cool. Grazie a mio padre, George Bauer, per aver introdotto New
Orleans nella mia vita. Ringrazio Mike Angell per essere stato un primo editore sui generis.
Ringrazio anche i miei suoceri, Rick e Shahnaz Hansen, per avere orgogliosamente parlato del libro a
tutti i loro conoscenti.
Per tante notti in bianco, per tante discussioni letterarie e per l’essenziale ispirazione, ringrazio
Heather Temple. Grazie alle mie amiche di sempre e alle ragazze del club del libro, Heather Arnold
e Jill Tsuji, per aver letto due volte il manoscritto e aver tifato per il mio successo. Per avermi
fornito un feedback costruttivo e un affettuoso incoraggiamento, ringrazio Melissa Citarelli, Lisa
Damian Kidder e Liz Hum.
Per avere letto degli estratti da questo libro e avermi sostenuto con il loro cameratismo – di cui
avevo un grande bisogno – ringrazio i soci del Gruppo degli scrittori dell’Algonquin Area e il
laboratorio di scrittura di Barrington, soprattutto Claire Beck, Toni Diol, Lisa Guidarini, Bev
Ottaviano e Shaku Rajagopal.
Per avermi aiutato a costruire la mia carriera di scrittrice freelance e per avermi messo in contatto
con alcuni autori di grande fama, ringrazio i miei editor alla Pioneer Press: Dorothy Andries,
Michael Bonesteel, Andrea Brown, Robert Loerzel, Mike Martinez e Jenny Thomas. Un grazie
enorme va anche a Nancy Swanson, straordinaria assistente editoriale, per la sua presenza costante.
Ringrazio inoltre gli insegnanti che, con il loro entusiasmo, hanno levigato le mie capacità di
scrittura, nutrito la mia passione per la letteratura o mi hanno ispirato in altri modi: Sue Aavang,
Sharon Barger, Tony Casalino, Sam Chell, Michael Craft, Caryl Dierksen, Annette Duncan, Travis
DuPriest, Mary Kennelly, Micheline Lessard, Cris Mazza e Pamela Smiley.
Grazie ai docenti e al personale del Carthage College per avermi regalato quattro favolosi anni di
studio. Il mio debito verso di voi è perenne.
Devo molto alle brillanti scrittrici che mi hanno spianato la strada e le cui vite e opere hanno
ispirato parti di questo libro: Charlotte Perkins Gilman, Sylvia Plath, Anne Sexton, Sara Teasdale e
Virginia Woolf. Vorrei anche menzionare i libri che ho consultato per comprendere queste donne e
ricostruirle sulla pagina: Anne Sexton: A Biography (Anne Sexton: Una biografia) di Diane
Middlebrook; The Bell Jar (La campana di vetro), Perennial Classics Edition, HarperCollins,
prefazione di Frances McCullough e nota biografica di Lois Ames; Charlotte Perkins Gilman: The
Woman and Her Work, a cura di Sheryl L. Meyering; The Norton Anthology of American Literature,
a cura di Nina Baym e M.H. Abrams; Sara Teasdale: Woman and Poet di William Drake; e Virginia
Woolf: An Inner Life di Julia Briggs.
Ringrazio inoltre i seguenti autori, da me intervistati, perché sono stati una fonte d’ispirazione e
hanno sinceramente incoraggiato i miei obiettivi di scrittura: Elizabeth Berg, Jane Hamilton, Wally
Lamb, Elizabeth Strout e Nancy Woodruff. Per aver condiviso con me le sue opinioni sul «viaggio
dell’eroe» e aver criticato la mia lettera di presentazione per gli agenti, ringrazio Jay Bonansinga.
E a proposito di colleghi scrittori, devo assolutamente ringraziare Therese Walsh, il cui romanzo
The Last Will of Moira Leahy mi han spinto a rivolgermi a Elisabeth Weed. Therese: la sezione «Per
gli scrittori» del tuo sito web mi ha istruito, incoraggiato e ispirato innumerevoli volte mentre
scrivevo e rivedevo questo libro.
Per avere risposto alle domande relative al lavoro della polizia ringrazio l’ispettore Jay Tapia del
distretto di polizia di Waukegan.
Ringrazio Liz Zona per avere preso in prestito la mia valigia e avervi lasciato l’etichetta con il suo
nome.
E, ultimo ma non meno importante, ringrazio mio fratello, il compianto Brian Bauer, per avermi
insegnato che la vita è troppo breve per non seguire i nostri sogni.
UNA CONVERSAZIONE CON AMY GAIL HANSEN
Il meccanismo del romanzo parte da una valigia che arriva nel posto sbagliato. Da dove è nata
quest’idea?
Sono contenta di questa domanda, in particolare pensando alla pubblicazione in Italia, perché il
vostro paese gioca un ruolo fondamentale nella storia che mi ha poi ispirata a scrivere il romanzo.
Nel 2004, ero in fila per il check-in con la mia valigia in partenza per la luna di miele in Italia, un
viaggio fantastico di dieci giorni con tappe a Roma, Firenze e alcune località della Toscana. Poco
prima che arrivasse il mio turno, ho guardato l’etichetta della valigia e mi sono accorta che c’erano
scritti il nome e l’indirizzo di un’altra persona. Così mi sono ricordata che ben cinque anni prima
avevo prestato la valigia a una ragazza conosciuta al college, che evidentemente aveva lasciato la sua
etichetta sul bagaglio; io non l’avevo mai notato perché non avevo più usato la valigia in tutti quegli
anni. Mentre scrivevo i miei dati sull’etichetta al posto dei suoi ho pensato: «E se la valigia si fosse
persa e fosse stata restituita a lei invece che a me?». È stata questa domanda che mi ha fatto venire in
mente l’idea per il romanzo.
Lei è stata insegnante di letteratura inglese. Quanto l’ha influenzata questo nello scrivere il
libro, che è ricco di citazioni letterarie?
Il mio amore per la letteratura inglese, sia come studentessa al college sia poi come insegnante, mi
ha influenzato notevolmente. È una mia grande passione e mi è venuto naturale tessere nel romanzo
allusioni a certi autori e alle loro opere. La letteratura è ricca di metafore, temi profondi e lezioni da
imparare. È uno degli strumenti attraverso i quali do un senso alle cose e cerco di comprendere la
mia vita, quindi immagino che tutti i miei libri avranno riferimenti letterari in qualche modo.
La protagonista, durante la stesura della sua tesi di laurea, diventa ossessionata da quelle
scrittrici che hanno messo volontariamente fine alla propria vita. In particolare è il libro di
Virginia Woolf Una stanza tutta per sé che la colpisce. La Woolf è anche la sua scrittrice di
riferimento, o ha altri autori che l’hanno ispirata?
Io adoro Virginia Woolf, ma non necessariamente per il suo stile. Mi piacciono le trame e i temi
dei suoi libri; invece la sua prosa, che viaggia come un flusso di coscienza, anche se unica e
inimitabile è lontana dalle mie corde di scrittrice. Ma è sicuramente un’autrice di riferimento per
quanto riguarda l’ispirazione e soprattutto per il suo impegno nella promozione della parità di genere
nella scrittura. Gli autori che ammiro più specificamente per come scrivono sono classici come Jane
Austen, Charlotte Brontë, Edgar Allan Poe e Kate Chopin, ma anche contemporanei come Gillian
Flynn, Diane Setterfield, Chris Bohjalian e Wally Lamb.
Ruby è una ragazza in gamba che a un certo punto si perde travolta dalla sua stessa passione
per la letteratura. Una ragazza fragile che deve però trovare in sé tutta la forza per contrastare il
suo destino. Questo personaggio assomiglia a qualcuno in particolare?
Penso che assomigli a molte persone, soprattutto a quelle persone creative che sono molto in
contatto con la propria interiorità. Essere profondi sia nello studio sia nei sentimenti può essere un
disagio. Quando sei intelligente, il mondo diventa un posto complicato, pieno di troppe possibilità.
Spesso ci si sente incompresi e soli. Mi identifico con Ruby per certi versi. Mi sono laureata anch’io
in letteratura inglese in un ambiente simile e sono una persona creativa, così ho capito molto su come
ragiona e vive Ruby. Ma io sono anche molto diversa da lei. Sono più disincantata e meno fiduciosa.
La fragilità di Ruby deriva anche dall’aver perso il suo punto di riferimento, il padre. Secondo
lei è davvero così speciale il rapporto tra padre e figlia?
Penso che madre e padre svolgano entrambi un ruolo importante e intrinsecamente unico nella vita
dei bambini. Il rapporto che una figlia ha con il padre è fondamentale, perché questo rapporto può
influenzare notevolmente i rapporti che avrà con gli uomini in generale e in particolare la scelta di un
compagno per la vita. Un buon padre aumenta l’autostima di una donna giovane, e Ruby, perdendo il
padre, il genitore in cui si riconosceva di più, è diventata molto vulnerabile.
Uno dei punti di forza del libro è la sua ambientazione legata a un prestigioso college. Un
luogo in cui, accanto a forti legami come quelli l’amicizia e l’amore, sorgono situazioni difficili
basate sulla forte competizione e l’ambizione personale. Quanto l’ambiente in cui si studia e si
cresce può influenzare una persona secondo lei?
Per me, l’ambiente circostante è importantissimo. Gli esseri umani sono estremamente influenzati
dall’ambiente, che se ne rendano conto o meno. Variabili apparentemente banali, come cenare in un
ristorante affollato e scuro oppure in uno luminoso e arioso, possono avere un impatto sull’umore. Il
college è un microcosmo con la propria cultura e le proprie regole, e come contesto nel quale si
studia e si cresce diventa un fattore chiave nella formazione e nello sviluppo personale. La mia
università, il Carthage College, che ha ispirato Tarble nel libro, è una buona scuola, non troppo
grande, di discipline umanistiche. Le sue dimensioni e il suo orientamento disciplinare erano perfetti
per me. Penso che mi sarei persa in una grande università, e il mio amore per l’arte, la cultura e le
scienze umane ha trovato terreno fertile in quell’istituto. Mi ha fornito le giuste condizioni non solo
per crescere, ma per fiorire e maturare.
A proposito di amicizia, questo è un altro tema del romanzo. Quanto sono state importanti per
lei le amicizie nate negli anni del college?
Gli anni del college sono al tempo stesso un momento emozionante e spaventoso nella vita di un
giovane. Per molti è la prima esperienza di libertà e indipendenza e quei quattro anni possono essere
estremamente formativi. Ma si tratta anche di un momento terribile, perché ci si sente spesso smarriti
ed è difficile a quell’età rispondere a domande quali «chi sono?» o «chi voglio essere?». Gli amici
che ti aiutano in questa fase di transizione verso l’età adulta sono gli amici di tutta la vita. Diventano
una parte di te, perché sono stati l’impalcatura su cui si è costruita la tua essenza. Gli amici che ho
conosciuto al college mi sono ancora carissimi, anche se non sempre possiamo parlarci o vederci;
c’è un legame profondo che il tempo e la distanza non potranno mai distruggere.
Il libro è pieno di suspense e mistero. Ha un ritmo che non cala mai e tiene viva l’attenzione
fino all’ultima pagina. Quanto era già deciso della trama e quanto invece è nato mentre stava
scrivendo?
Una prima stesura di questo libro aveva quasi il doppio delle pagine e, anche se aveva la stessa
premessa, era un romanzo molto diverso per quanto riguarda la trama. Aveva un finale scontato, ma
durante il processo di revisione mi sono sforzata di giungere a qualcosa di più originale. Nella fase
di revisione sono partita con un piano per la trama, ma poi scrivendo tutto è stato rielaborato. Mi
piace avere una solida idea iniziale, ma sono poi aperta a cambiare parere mentre scrivo. È una
perfetta combinazione di buona pianificazione e creatività spontanea.
Ruby ha la sfortuna di incontrare sulla sua strada un insegnante che ruba le sue idee e la
plagia psicologicamente per raggiungere i suoi scopi. Lei, che ha fatto questo mestiere, quale
crede dovrebbe essere invece il ruolo di un insegnante?
Il ruolo di un insegnante è quello di diffondere la conoscenza, di ispirare e guidare.
L’apprendimento è molto personale, ognuno fa questa esperienza in modo diverso. Un insegnante
deve riconoscere lil talento unico di ogni studente e deve rappresentare un aiuto prezioso nel
percorso verso la conoscenza e la comprensione. Un insegnante deve essere disinteressato e
concentrarsi sullo studente, non su sé stesso. Purtroppo, questo non avviene nel caso di Ruby. Lei
incontra un insegnante egoista che persegue finalità personali.
È già al lavoro su un nuovo progetto?
Sì. Sto scrivendo un nuovo romanzo che non è in alcun modo correlato al Libro delle verità
nascoste, hanno però in comune il senso di mistero e la suspense del thriller psicologico. Non c’è
ancora un titolo, ma verrà con il tempo. Senza rivelare troppo della trama, posso dire che tratta della
memoria, di come funziona e di come a volte può ingannare. C’è anche il tema forte della
genitorialità, che viene esplorato attraverso i ricordi delle fiabe dell’infanzia. Continuate a seguirmi!
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EPILOGO
RINGRAZIAMENTI
UNA CONVERSAZIONE CON AMY GAIL HANSEN