jazzColours -- email-zine di musica jazz

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editoriale
Chi, fra gli appassionati di jazz in Italia, almeno una volta nella
vita non ha sfogliato Musica Jazz, il mensile fondato nel 1945 da
Gian Carlo Testoni, o non ha dato una sbirciata al programma di
Umbria Jazz, vagheggiando di poter organizzare le proprie vacanze
e gli impegni familiari per assistere magari ad uno soltanto dei suoi
concerti? Due storiche realtà — oggi comunque non le sole — che,
combinazione, quest’anno tagliano entrambe un importante traguardo: Umbria Jazz si appresta a celebrare, il prossimo luglio,
l’edizione numero 40, mentre Musica Jazz ha pubblicato, lo scorso
maggio, il 750° numero della sua carriera.
Nel nostro piccolo, questo mese di giugno dedichiamo la copertina a Leszek Możdżer, pianista polacco fra i pochi in Europa in
grado di far convivere perfettamente musica classica ed improvvisazione. Si prosegue con una sassofonista esile ma di grande spessore, la baritonista francese Céline Bonacina, che ha da poco
pubblicato un atteso album alla testa del suo consueto trio, questa volta allargato a nuove sonorità. Quindi, ancora per le interviste musicali, un’interessante chiacchierata con Nate Wooley, uno
dei trombettisti più creativi e di talento della scena improvvisativa
americana, in occasione della recente uscita in duo con il batterista Paul Lytton. Le pagine del
Jazz&Arts sono questo mese colorate dalle tinte brasiliane di Lindonês Silveira, pittore che ama molto
mischiare tecniche e stili.
Highlights
Per quanto riguarda le recensioni
cover
discografiche, si segnalano, in
leszek możdżer stati irriflessivi della mente
apertura, l’ultimo disco del Ma-Do
Antonio Terzo
della pianista nipponica Satoko
Spotlight/1
Fujii, quartetto colpito dalla diparcéline Bonacina jazz a cuore aperto
tita del contrabbassista Norikatsu
Marco Maimeri
Koreyasu, e, in evidenza, Ben Goldberg,
con un inedito ed articolato
Spotlight/2
quintetto,
e Samuel Blaser in un
nate Wooley logopedia della tromba free
quartetto con Marc Ducret, chiuAlain Drouot
dendo in bellezza con il ritorno su
jazz & arts
disco di Barry Altschul, in trio con
lindonês Silveira incanto brasileiro
Joe Fonda e Jon Irabagon. E nel
Marco Maimeri
mezzo ancora tanto da scoprire.
recensioni Cd
In chiusura di editoriale, desidero
Focus on Satoko Fujii ma-do TImE STAndS STIll
ricordare Mulgrew Miller, un pianiI 5 dischi imprescindibili di médéric collignon
sta del quale ci sarebbe piaciuto
occuparci,
prima o poi, ma non ce
Black & White
n’è
stato
il
tempo
perché, come diBarry Altschul ThE 3dom FAcTor
ceva John Lennon, la vita è quello
Enzo Boddi e Antonio Terzo
che ci capita mentre siamo impeEventuali
gnati a fare altri piani.
sommario giugno ’13
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34
Antonio Terzo
JazzColo[u]rs | giugno ’13
3
highlights
united states
canada japan
britain
europe
The Bridge, un ponte fra jazz americano e francese
di Alain Drouot
Ci hanno messo tempo i Francesi a capire come creare delle opportunità negli
Stati Uniti per i loro musicisti. Si era venuto a determinare un ghetto a causa dei
diversi meccanismi di finanziamento governativo che ignoravano la necessità,
imprescindibile per gli artisti, di avere
una piattaforma che consentisse loro
degli scambi con le rispettive controparti
di altri paesi. Negli ultimi dieci anni,
sono stati fatti parecchi sforzi per correggere la situazione.
C’è adesso un programma, il FrenchAmerican Jazz Exchange (FAJE), che fornisce modesti finanziamenti per progetti
che includano musicisti sia americani che
francesi. Più ambizioso era il festival Minnesota-sur-Seine, creazione di Jean Rochard, produttore outsider che aveva
provato ad alimentare delle relazioni fra
jazzisti francesi e musicisti provenienti
dall’area di Minneapolis-St. Paul. I musicisti avevano l’opportunità di restare per
gran parte della durata del festival in
modo da stringere i legami appena instaurati ed immergersi nella cultura e
nell’ambiente del luogo.
Chiamato The Bridge, il nuovo progetto
lanciato dall’etnomusicologo e scrittore
Alexandre Pierrepont è in qualche misura
modellato sul concetto di Rochard. Come
per il Minnesota-sur-Seine, i musicisti
francesi provenienti da ogni parte del
paese possono socializzare con gli artisti
di una specifica città americana — in
questo caso Chicago — e hanno l’opportunità di soggiornarvi per alcuni giorni in
modo da portare avanti la propria esperienza. Per altro verso, i musicisti cominciano a viaggiare in entrambe le
direzioni.
Fino ad adesso è stato completato un
primo programma di scambi. All’inizio di
quest’anno, la band Tortoise è andata a
Parigi per suonare con il trombettista Aymeric Avice, il chitarrista Julien Desprez
4
JazzColo[u]rs | giugno ’13
foto Edward Perraud
e l’ancista Antonin-Tri Hoang. Il 23 febbraio si sono esibiti per la chiusura del
Sons d’Hiver Festival. Alla fine di aprile il
batterista Edward Perraud ed il sassofonista Stéphane Payen hanno ricambiato
la visita andando a Chicago per incontrare il contraltista Fred Jackson ed il
batterista Frank Rosaly. Fra i festeggiamenti che Pierrepont aveva programmato per loro, una masterclass, delle
jam session ed un concerto ufficiale di
apertura al Chicago Cultural Center, che
ha raccolto il doppio di finanziamenti.
Il primo esperimento americano inaspettatamente ha gettato una luce su
una questione che da tempo affligge la
scena jazz di Chicago. Oltre a mettere
insieme musicisti dei due paesi, il progetto potrebbe anche aiutare a fare da
ponte sulle divisioni esistenti a Chicago
fra musicisti bianchi e neri. Infatti, Jackson e Rosaly non avevano mai suonato insieme prima della masterclass alla
Roosevelt University. Avendo scritto la
propria tesi di dottorato sull’Association
for the Advancement of Creative Musicians (AACM), non sorprende che PIerre-
pont abbia richiesto ad una congrua flottiglia di musicisti neri, soprattutto membri dell’AACM, di voler far parte della sua
iniziativa.
L’obiettivo di The Bridge è quello di
realizzare due scambi all’anno con due
gruppi di musicisti americani che vadano
in Francia e due team di omologhi francesi che si spostino in direzione opposta
— tutti presi da due pool di circa 30 artisti ciascuno. I prossimi insediamenti sono
programmati in Francia per ottobre, con
Joëlle Léandre, Jean-Luc Cappozzo, Bernard Santacruz, Michael Zerang e Douglas
Ewart, e a Chicago in novembre, in coincidenza con l’Umbrella Music Festival,
dove saranno coinvolti Benjamin Sanz,
Aymeric Avice, Joshua Abrams, Jason
Adasiewicz e Avreeayl Ra.
Se tutto andrà secondo i piani, il progetto si svilupperà in 7 anni e possibilmente verrà condotto di nuovo nel 2020.
Se avrà successo, sarà interessante vedere se il modello saprà ispirare altri
paesi a seguirne l’esempio con analoghi
esperimenti. Potrebbe essere l’Italia, la
prossima?
highlightsss
Ottawa, addio alle Jazz Series di John Geggie
di Marc Jessiteil
Gli Ottawani amanti del jazz hanno dovuto organizzarsi per tempo per poter assistere, l’ultimo sabato di maggio, al
concerto di Tara Davidson, William Carn,
Tim Bedner e Jim Doxas ospitato dal contrabbassista John Geggie per la sua Jazz
Series al National Arts Centre (NAC): la
concomitanza dell’Ottawa Race Marathon, infatti, ha reso praticamente impossibile non solo raggiungere il centro
cittadino ma perfino trovare un parcheggio a distanza praticabile. Ancora più difficile, però, è stato trovare i biglietti per
lo spettacolo, l’ultimo in programma. E
non soltanto per questa stagione.
È infatti palpabile una certa irritazione
nella comunità jazzistica di Ottawa alla
notizia che il NAC ha deciso di terminare
la programmazione del John Geggie Jazz
Series at the NAC’s Fourth Stage, il ciclo
di concerti jazz che da oltre dodici anni
si sono tenuti al Fourth Stage del centro
sotto la supervisione di John Geggie.
Creato negli anni ’60 dal Parlamento
canadese, il National Arts Centre è divenuto l’unico centro d’arte multidisciplinare e bilingue del Nordamerica, nonché
uno dei più grandi del mondo: un’importante vetrina per tutte le arti dal vivo, in
cui vengono proposte opere teatrali, balletti, spettacoli di arte visiva e mediale,
ed altre live performance.
E naturalmente la musica live è fra i
settori di maggiore interesse del NAC, occupando una posizione di assoluto rilievo
anche nello sviluppo culturale delle
nuove generazioni.
Fra i tanti appuntamenti musicali, nella
comunità jazz di Ottawa molto successo
hanno riscosso proprio quelli delle Geggie
Jazz Series. Oltre ad essere infatti un contrabbassista molto richiesto, John Geggie
si è occupato a lungo delle jam session affiancate all’Ottawa Jazz Festival, attività
che gli ha consentito di sviluppare una
fitta serie di contatti e relazioni con numerosi musicisti, rendendolo senz’altro
particolarmente qualificato per la direzione artistica di quella serie jazz.
Il suo programma ha portato in scena la
vera essenza del jazz, invitando jazzisti
canadesi, statunitensi o europei non necessariamente per promuovere il loro ultimo disco ma solo per improvvisare
L’ingresso del Fourth Stage, sede delle John Geggie Jazz Series
insieme a Geggie delle estemporanee jam
session. Impressionante l’elenco dei musicisti che in questi dodici anni Geggie è
stato in grado di coinvolgere: Donny
McCaslin, Edward Simon, Jon Christensen,
Rez Abbasi, Craig Taborn, Gary Versace,
Ron Miles, Ted Nash, David Occhipinti,
Billy Hart, Matt Wilson, Ben Monder, Vic
Juris, Marc Copland, John Taylor, John
Fraboni, Nancy Walker, Nick Fraser, Jim
Doxas e tantissimi altri ancora.
Qualunque grande città a vocazione
culturale ed aspirazioni internazionali farebbe di tutto per avere un ciclo jazz di
questo livello e per di più curato da un
jazzista di vaglia come John Geggie: proprio questo è il motivo della forte delusione dei jazzofili ottawani. Oltretutto,
ancora non è ben chiaro cosa andrà a
rimpiazzarlo.
Per la verità, già nell’ultimo anno gli
appuntamenti delle Geggie Series erano
stati ridotti in modo significativo. La
NAC, infatti, si è fatta carico di ospitare
solo tre concerti ed ha anche convenuto
che il programma dovesse accogliere soltanto musicisti canadesi. Di contro, lo
spazio dedicato al jazz è perfino aumentato, ma anziché la musica strumentale
ed improvvisata proposta dal contrabbassista, ha posto maggiore attenzione al
jazz vocale, certamente più orecchiabile.
Tuttavia, nulla trapela sui dettagli. Secondo quanto affermato dalla portavoce
del NAC, Marie-Chantale Labbe-Jacques,
la stessa produttrice Simone Deneau si
sta occupando di scritturare gli artisti per
la nuova stagione, puntando su tre criteri
di base: i musicisti dovranno essere canadesi, attuali e di rilievo.
Probabilmente sono proprio questi
nuovi criteri ad aver decretato la chiusura del programma di Geggie.
Ed in mancanza di ulteriori informazioni, gli appassionati di jazz iniziano a
gridare al boicottaggio. Perché, poi, eliminare una serie di successo — ogni concerto curato da John Geggie era infatti
molto seguito — resta un mistero.
In una recente intervista, lo stesso contrabbassista ringrazia la NAC nelle persone Peter Hernndorf, Michel Dozois e
Simone Deneau per avergli consentito di
occuparsi del programma per 12 anni.
E leggendo fra le righe, il suo unico
rammarico sembra riguardare il fatto che
una serie realizzata con passione per così
tanto tempo, portata ad un ottimo livello
sotto ogni punto di vista e che ha saputo
creare anche un pubblico fidelizzato, alla
fine non raccolga i frutti di quanto seminato, magari sotto una nuova direzione
artistica, e venga semplicemente chiusa.
Come dargli torto?
JazzColo[u]rs | giugno ’13
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highlights
La BuJazzO compie 25 anni
di Andrew Rigmore
Tutto è cominciato 25 anni fa, nel gennaio del 1988, allorquando l’appena costituita BundesJazzOrchester, l’Orchestra
Jazz Giovanile della Repubblica Federale
Tedesca, dava il suo primissimo concerto
pubblico all’auditorium dell’Ernst-Moritz-Arndt-Gymnasium di Bonn.
Il giorno successivo, il 6 gennaio,
avrebbe suonato, guidata dal suo fondatore e primo direttore, il trombonista
Peter Herbolzheimer, alla Cancelleria federale, alla presenza di Helmut Kohl.
Da allora l’Orchestra ha formato 750
musicisti, ha tenuto 440 concerti, svolto
50 stage e più di 20 tournée in ogni parte
del mondo, dando prova di essere un progetto unico, sostenibile e di successo.
Fortemente voluta dal cancelliere Kohl,
la BundesJazzOrchester oggi è supportata
dal Ministero federale per la famiglia, gli
anziani, le donne ed i giovani, dalla Westdeutscher Rundfun, ossia la celebre
radio WDR della Germania Occidentale,
dalla GVL — società per la tutela del diritto d’autore corrispondente grosso
modo alla SIAE italiana — e dalla multinazionale automobilistica Daimler AG.
Tra i suoi fondatori, dall’alto della sua
esperienza di jazzista ma pure come figura di spicco della scena jazzistica tedesca, Herbolzheimer fu fondamentale
anche nella selezione, nell’arrangiamento e nella produzione del repertorio,
costituito principalmente da jazz standards — Charlie Parker, Clifford Brown,
Dave Brubeck, Benny Goodman, Miles
Davis, Duke Ellington, Thad Jones, Michael Brecker, Thelonious Monk — nonché
da composizioni originali di Herbolzheimer e da pezzi scritti dagli stessi membri
della big band. Herbolzheimer diresse
l’Orchester, familiarmente soprannominata BuJazzO, dai suoi inizi fino al 2006,
prima di venire chiamato alla direzione
artistica e musicale della European Jazz
Band. Successivamente, e fino a metà
del 2011, i direttori artistici si sono avvicendati ogni 6 mesi, coinvolgendo figure
di spicco come Marko Lackner, Bill Dobbins, Ed Partyka, Mike Herting, Steffen
Schorn, Marko Lackner e Mary Baptist.
Dal 2011 la BuJazzO ha due direttori artistici, ossia Niels Klein ed il direttore
della BBC Big Band, Jiggs Whigham.
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JazzColo[u]rs | giugno ’13
La Bundes Jazz Orchester diretta da Niels Klein - foto Sophie Krische
Per accedere a quest’orchestra giovanile si segue un programma analogo a
quelli previsti per le orchestre giovanili
di musica classica: i candidati, che di solito provengono già da istituti musicali,
tedeschi o internazionali, devono avere
un’età non superiore ai 22 anni e possono
restare a suonare nella BuJazzO fino a
quando non ne abbiano compiuto 25.
Si lavora in formazioni variabili che possono andare da 17 a 24 elementi, con
classi di insegnamento strumentale, individuali o di gruppo, oppure in seno all’ensemble vocale.
Anche le stesse rette annuali provenienti dalle iscrizioni sono destinate a finanziare la BuJazzO, la quale, infatti,
come orchestra di formazione, assieme
ad un vero e proprio programma di studi
articolato per fasi, prevede il rilascio di
un attestato finale.
Dal canto loro, Niels Klein e Jiggs Whigham non si limitano alla sola direzione
orchestrale, ma sono ampiamente coinvolti nei corsi di insegnamento, insieme
ai direttori ospiti designati per taluni
progetti particolari, fra i quali Ansgar
Striepens, che ha condotto la collaborazione della BuJazzO con la WDR Big
Band, John Ruocco e, attualmente, Florian Ross. Tutto ciò garantisce un elevato
livello nella qualità dell’insegnamento
ma anche dell’esperienza pratica, con
direttori di vaglia.
Particolare significato ha rivestito il
concerto che l’Orchestra ha tenuto lo
scorso maggio, nel corso del Bonn Jazz
Festival, presso la Art and Exhibition
Hall, sotto la direzione di Klein, per festeggiare le prime 25 candeline.
Nel corso di questi 25 anni, davanti ai
leggii della BundesJazzOrchester sono
passati musicisti di talento, oggi vere affermazioni del jazz tedesco, come Till
Bronner, Roger Cicero, Tom Gaebel, Julia
Hülsmann, Fredrik Koester, Robert Landfermann, Matthias Schriefl, Sebastian
Sternal, Peter Weniger, Nils Wogram, Michael Wollny e Nils Wülker.
Attualmente la BuJazzO è impegnata in
un tour in Africa occidentale, mentre al
suo rientro sono già state pianificate
delle sessioni di registrazione, in programma nel Baden-Wüttemberg e nella
North Rhine Westfalia, da cui dovrebbero
scaturire due nuove uscite discografiche.
E si proseguirà ancora con le esibizioni
programmate a Trossingen, Klagenfurt e
ovviamente Bonn e Berlino.
La BuJazzO rappresenta l’eccellenza
dell’attuale scena jazzistica tedesca e
continuerà a determinare quella dei
prossimi vent’anni, i cui futuri talenti
oggi certamente suonano nella BuJazzO.
highlightsss
Nuovo direttore per l’ONJ
di Marc Jessiteil
Sarà una bella “sfida” quella che il
44enne chitarrista Olivier Benoît si appresta a sostenere, a distanza, con Daniel Yvinec.
Com’è nel suo DNA, infatti, l’Orchestre
National de Jazz (ONJ) cambia direzione
artistica affidando un mandato pluriennale a musicisti che si siano distinti per le
loro capacità alla guida di organici orchestrali. Così, l’Association pour le Jazz
en Orchestre National (AJON), preposta
a decidere delle sorti dell’ONJ, ha designato Benoît alla successione di Yvinec
con un mandato di 4 anni a partire dal
prossimo gennaio.
Il bilancio dei 6 anni di direzione di Yvinec è senz’altro positivo: tre album —
“Around Robert Wyatt”, “Shut Up and
Dance” e, l’ultimo, “Piazzolla!”, arrangiati rispettivamente da Vincent Artaud,
John Hollenbeck e Gil Goldstein — basati
sulla musica di importanti esponenti
della scena contemporanea e del jazz,
ma anche su musiche originali, come
quelle appositamente scritte dai musici-
sti dell’ONJ, tutti dotati compositori,
come colonna sonora del film muto “Carmen” di Cecil B. DeMille.
Senza dimenticare l’idea, tutta yvinechiana, di Dixcover(s) che, disarticolando
un’Orchestre National de Jazz ormai matura in combinazioni più ridotte, dal duo
al quartetto, ha voluto puntare a far
emergere le varie personalità presenti in
organico, le quali si sono così potute sbizzarrire su rivisitazioni di Duke Ellington e
Carla Bley, ma anche Bach, György Ligeti
e perfino Pink Floyd e Prince.
Tutto questo solo negli anni più recenti
e parallelamente ad un’intensa attività
concertistica che ha portato l’ONJ ad esibirsi dentro e fuori i confini nazionali,
fino in Marocco.
Il mandato di Benoît affida al chitarrista una nuova e ambiziosa missione:
“ONJ Europa”, un progetto squisitamente
europeo incentrato attorno alle capitali
europee, per il quale Benoît avrà la possibilità di rivolgersi ad artisti della scena
jazzistica ed improvvisata, con l’obiet-
Olivier Benoît
tivo di creare un ponte fra Parigi e gli
Stati Uniti, puntando alle origini del jazz,
segnatamente alla volta di New Orleans.
Scelto per la sua quasi quindicennale
esperienza orchestrale alla guida di Pievre e Circum Grand Orchestra, due ensemble con base a Lille e nella Regione
Nord Pas-de-Calais le cui attività si sono
proiettate oltre i confini nazionali, Olivier Benoît saprà certamente condurre in
porto con successo la missione affidatagli: la sfida è cominciata.
I BBC Awards aprono al jazz
di Andrew Rigmore
È vero che la buona musica non ha bisogno di etichette. Ma è anche vero che
non tutti riconoscono la buona musica, e
sono poi in tanti quelli ad avere dei preconcetti nei confronti di questo o quel
genere, ad un punto tale da non riconoscergli diritto di cittadinanza neppure nel
regno delle sette note.
Non è questo il caso del BBC Young Musician of the Year, competizione musicale
curata dall’emittente nazionale britannica e trasmessa sul canale radio BBC 3 e
su quelli televisivi BBC 2 e 4: il vincitore
della prima edizione in assoluto fu Mike
Hext, un trombonista all’epoca diciassettenne, che frequentava anche il jazz e
che da allora ha suonato con Guy Barker,
Mark Lockheart, John Parricelli, Gwilym
Simcock, Alan Barnes, Steve Waterman,
James Watson, Richard Edwards, Mark
Nightingale e tanti altri.
Forse proprio sulla base del recente rilancio del jazz britannico, uno dei diret-
tori operativi della BBC, Jan Younghusband, ha annunciato che nel 2014 al seguìto BBC Young Musician si affiancherà
anche un premio per giovani jazzisti.
Una scelta che la BBC ha pensato con
l’obiettivo di far conoscere e lanciare i
giovani talenti del jazz allo stesso modo
in cui avviene per quelli della musica
classica con il BBC Young Musician, coinvolgendo in tal modo un pubblico più giovane e attento anche ad altri generi, di
cui le emittenti BBC pure si occupano.
Creato nel 1978 da Humphrey Burton e
Walter Todd, ex componenti del BBC Television Music Department, il BBC Young
Musician è riservato soltanto agli strumentisti — segnatamente percussioni, tastiere, archi, ottoni e strumenti a fiato —
e, a dispetto del suo nome, viene assegnato ogni due anni, laureando talenti
britannici davvero giovanissimi, che abbiano al massimo 18 anni all’1 gennaio
dell’anno di riferimento, ai quali viene
riconosciuto un premio in denaro (in origine di 1000 sterline e oggi raddoppiato).
Per quanto riguarda il BBC Young Jazz
Musician, si tratterà di un concorso a sé
stante, con una sua fase eliminatoria —
sono previste due audizioni — ed una finale programmata per marzo 2014. Il periodo di invio per le candidature è già
stato fissato dall’1 agosto al 18 ottobre.
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Leszek Możdżer
stati irriflessivi della mente
di Antonio Terzo
foto di Alessandra Freguja
Tanto ricercato nell’eseguire Chopin, tanto spontaneo nel suonare jazz,
il pianista polacco ha trovato la sua chiave di lettura per coniugare
la struttura ed il caos insiti nel rigore della musica classica e nell’improvvisazione.
Ispirato dalla lezione di Komeda e guidato dall’esperienza con Tomasz Stańko,
oltre a scrivere per il cinema, il suo tocco anima tanto il duo con Zohar Fresco che il loro trio con Lars
Danielsson: insieme, si apprestano a pubblicare un nuovo album di cui dà qualche anticipazione.
Provieni da una formazione clas- raggiungere quello stato irrifles- rienza non inquinata dai pensieri
sica: quale chiave hai trovato sivo della mente e tuttavia re- elaborati attraverso le parole. Il
per conciliare il rigore di questa stare consapevole di tutto ciò che sistema delle parole, infatti, ha
con la libertà della musica jazz? succede. La musica è un ottimo impiantato dentro di sé il potenLa musica classica opera nel con- strumento per esperire la realtà, ziale della menzogna, ma dal motesto di una realtà ben
mento che invece la
dettagliata in ogni singola
musica è un linguaggio
Questo vuol dire
nota, ciascuna delle quali
astratto, qui nella sua
è scritta, riconosciuta ed entrare dentro la realtà temporale: sfera non è assolutamente
identificata in termini di
possibile mentire.
forza espressiva, di arti- meno tempo ti occorre per reagire,
colazione, di tempo e
La differenza più impormigliore sei come musicista.
contestualità. Io cerco di
tante fra questi due uniadattare questa filosofia
versi musicali?
I migliori jazzisti riescono a
allo spazio del jazz, dove
L’esecuzione nella musica
modificare
la
performance
invece molto spesso l’inclassica è attentamente
tensità
dell’emozione
pianificata, mentre la
operando nell’ordine
consente all’artista di non
musica jazz è una materia
stare a preoccuparsi di
soggetta a cambiamenti
dei millisecondi.
ogni singola nota. Aumenin corso di svolgimento.
tare la temperatura emozionale in quanto è basata sulle vibra- Sto imparando ad utilizzare questi
durante la performance mentre zioni. Noi musicisti facciamo vi- due strumenti, il caos e la costrucontemporaneamente si mantiene brare l’aria e crescere la zione. Il jazz ha elaborato una nola capacità di riconoscere ogni risonanza nel corpo umano. La vi- tazione che consente a due o tre
singolo dettaglio della costruzione brazione ci restituisce una vera musicisti di improvvisare e nello
costituisce il mio obiettivo finale: esperienza della realtà, un’espe- stesso tempo di evitare di gene-
“
”
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rare caos. È un sistema davvero
intelligente.
Qual è l’aspetto del jazz che
consideri più importante?
Entrare nella realtà del jazz mi
offre la possibilità di coinvolgere
la sensibilità di chi sta suonando
con me sul palco. Poiché non ci è
dato sapere cosa avverrà un secondo dopo, ci ascoltiamo con attenzione l’un l’altro e reagiamo
istantaneamente. Questo vuol
dire entrare dentro la realtà temporale: meno tempo ti occorre
per reagire, migliore sei come
musicista. I migliori jazzisti riescono a modificare la performance operando nell’ordine dei
millisecondi. E mentre si costruisce il groove, trenta millisecondi
fanno una significativa differenza,
talvolta perfino un millisecondo fa
la differenza. È tutta una questione di consapevolezza.
È questa la cosa che ti ha affascinato, inducendoti a passare
dal mondo della classica a quello
del jazz?
La ragione principale per la quale
sono diventato un musicista jazz
è stata il riconoscimento del jazz
come musica effettivamente dei
nostri tempi. Ho come l’impressione che i compositori più celebri della storia per metà oggi
sarebbero dei jazzisti. Comporre
è un processo basato sull’improvvisazione, e nel jazz è possibile
fare esperienza diretta della composizione istantanea: adesso la
componi ed immediatamente la
suoni. Sotto quest’aspetto, l’improvvisazione jazz non raggiungerà mai la complessità ed il
livello di sofisticatezza della musica classica, che invece è attentamente pianificata. A volte ci
vogliono mesi o anche anni per
comporre un pezzo. Ma per
quanto riguarda ciò che è successo a me, si è trattato di usare
le tecniche classiche della composizione lasciando che determi10
JazzColo[u]rs | giugno ’13
nati margini di caos fossero controllati attraverso il sistema di notazione del jazz.
In tutti i casi, nel tuo approccio
al jazz riesci a mantenere un
pronunciato aspetto melodico:
cosa è per te la melodia?
La melodia è la corona sulla testa
di un re. O piuttosto dovrei dire di
una regina, dal momento che sicuramente la musica è una donna.
“ Komeda non era
soluto, non sapevamo cosa aspettarci. Walter Norris era un artista
puro e vero, ed è diventato uno
dei miei idoli. Non si è mai curato
della fama, non ha mai fatto
qualcosa che fosse basato semplicemente sull’aspetto commerciale. La musica, oggi, viene
trattata come un prodotto,
quando invece è un’espressione
dell’unicità del sé. Norris riusciva
a riportare tutto sotto la giusta
prospettiva. L’albero non dà mele
perché vuole mettersi in affari.
Allo stesso modo, il vero artista
non fa musica per concludere
degli affari, ma in quanto per lui
è un bisogno naturale. Walter ha
creato un suo proprio modo di
suonare, uno stile unico, ed in
questa maniera ha fatto sì che
quell’album suonasse così, nel
modo in cui suona.
soltanto un musicista,
ma anche un filosofo.
Gli insegnamenti che
ha lasciato sono molto
importanti per me.
Stava cercando di individuare e sfidare la
posizione dell’artista
nella società moderna
ed è pervenuto a
molte conclusioni cruciali, come ad esempio “Non vivere della
Musica, vivi per la
Musica”.
Nulla a che vedere con la tua
precedente esperienza in doppio
piano insieme ad Adam Makowicz, “At the Carnegie Hall”
(2004), dunque?
La musica che abbiamo suonato
con Adam era diversa, ma questi
incontri sono stati tutti e due importanti per me. Ho imparato
tanto da Makowicz, mi ha mostrato che la tastiera è l’ultimo
territorio su cui si muove il pianista. Questa è un’importante verità che ogni pianista dovrebbe
sempre tenere a mente.
Il tuo recente lavoro “The Last
Set”, l’album in doppio piano, è
un omaggio al grande pianista
Walter Norris, che forse è stato
sottovalutato: vi si nota un marchio jazz anche più forte del tuo
solito, una sorta di combinazione in equilibrio fra il tuo lato
melodico ed il suo istinto improvvisativo. Come vi siete trovati, tu e Norris?
Direi che si è trattato di un test
per entrambi. Quella è stata la
nostra prima performance in as-
“Komeda” è l’album che invece
hai dedicato ad una delle più importanti figure del jazz polacco,
Krzysztof Komeda: quali novità
e che taglio innovativo ritieni
abbia apportato al jazz europeo?
Ha apportato il suo sound unico,
ricco di una certa malinconia e
profondità. La sua musica è pura
espressione di un essere umano
sensibile ed eccezionale. Intelligente ma puro. Era in grado di
raggiungere regioni emozionali
veramente profonde usando strumenti davvero semplici. Alcuni
”
dei suoi pezzi sono fatti con un semplice motivo musicale, ma ricevono dal pubblico un [grande] rispetto a causa dei livelli emozionali che affiorano
mentre li si esegue.
masz. Con Stańko ho suonato la musica di Komeda
anni fa, per me è stato un accesso diretto alla
fonte, dato che loro avevano collaborato molto
prima che io nascessi.
E cosa hai voluto evidenziare della sua musica con
il tuo tributo discografico?
Come musicista polacco per me è importante riconoscere quali siano le mie radici. Komeda è stato il
padrino del jazz polacco, tutti i migliori performer
hanno imparato da lui: Jan Ptaszyn Wróblewski, Janusz Muniak, Bronislaw Suchanek, Zbigniew Namysłowski, Tomasz Stańko. Io desidero essere parte
di quella famiglia.
C’è un’altra gloria nazionale in Polonia, con la
quale hai un forte legame, che sicuramente ha
contribuito alla tua popolarità: Fryderyk Chopin.
Quando ti capita di ricevere richieste per suonarlo, inserisci adesso qualche nota jazz?
Ogni tanto ricevo richieste per suonare i pezzi di
“Chopin Impressions” e, anche se non è il mio repertorio preferito, a volte acconsento. Credo che la
sua musica dovrebbe essere suonata nel modo in cui
l’ha scritta, l’ho riarrangiata quand’ero giovane ma
oggi non lo rifarei. E a proposito, prendere qualche
tasto sbagliato sembra essere parte del mio stile:
una cosa che ho imparato ad accettare.
A proposito, hai anche suonato con Tomasz Stańko,
trombettista che è proprio una sorta di testimone
diretto del lavoro di Komeda: com’è stata quell’esperienza?
Stańko ha una sua propria visione della musica. Rispettando la sua stessa forza, utilizzando l’esperienza e la conoscenza che ha ed accettando le sue
debolezze ha creato uno stile unico. Non c’è un
altro trombettista come lui. Quando ascolti i suoi
dischi non hai dubbi, deve essere Tomasz Stańko,
nessuno suonerebbe mai in quel modo. Si può dire
che oggi sia uno dei musicisti più potenti che esistono sulla Terra. Alcuni degli spartiti che ho usato
per realizzare l’album “Komeda” li ho avuti da To-
Com’è il panorama jazz in Polonia, attualmente?
Siamo pieni di straordinari giovani musicisti, pertanto posso personalmente constatare l’enorme sviluppo del jazz in Polonia, a tutti i livelli. A livello di
produzione, a livello manageriale, tecnologico e di
conoscenza. I giovani suonano cose che noi potevamo soltanto sognarci quando avevamo la loro
stessa età. Ma l’obiettivo primario del fare musica è
quello di diventare un puro esempio di personalità
unica e questo aspetto non può essere risolto dalla
JazzColo[u]rs | giugno ’13
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tecnologia o dal saperci fare dal punto di vista manageriale. Si tratta di un lavoro spirituale che ciascun musicista ha bisogno di fare.
Fra i tuoi progetti di maggior successo c’è il duo
con il violoncellista svedese Lars Danielsson: come
vi siete incontrati e cosa vi ha portato a formare
un duo insieme?
Ci siamo incontrati sulla scena, eravamo stati ingaggiati per lavorare nella sezione ritmica di David
Liebman e Piotr Wojtasik, in Polonia. E così ci siamo
conosciuti. Da allora suoniamo molto insieme, abbiamo avuto fin dal primo momento una capacità
comunicativa ed una forma di [mutua] comprensione straordinarie.
Con Danielsson lavori anche nel Możdżer-Danielsson-Fresco trio, una compagine di lungo corso.
Come avete deciso di trasformare il duo in qualcosa di totalmente differente, includendo il tocco
mediterraneo delle percussioni e della voce di
Zohar Fresco?
In realtà il trio esisteva già da prima, poi ci siamo
disseminati in duetti, considerato che collaboro
anche separatamente tanto con Lars che con Zohar.
Noi tutti rappresentiamo lo stesso tipo di sensibilità
e andiamo alla ricerca della bellezza negli stessi luo12
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ghi: è questo il motivo per cui abbiamo registrato
così tanti album insieme.
Adesso state registrando un nuovo disco: cosa ci si
troverà dentro e quando uscirà?
Quest’album sarà più speziato di quelli precedenti.
E dato che questa volta non abbiamo avuto un produttore esterno, tutte le decisioni sono state prese
da noi stessi, quindi è un lavoro che proviene dalle
scelte di musicisti e perciò c’è da aspettarsi delle
cose nuove.
Cosa puoi dire dei tuoi progetti per grande ensemble orchestrale quali “Metalla Pretiosa” o “Pub
700”, fino alla recente “Missa Gratiatoria”?
Continuerò a procedere in questo settore, infatti ho
appena terminato di scrivere della musica per una
big band ed in una delle tracce del nuovo album del
trio Możdżer-Danielsson-Fresco useremo un’orchestra sinfonica. Adoro la musica e desidero possederla
in ogni modo possibile.
Hai suonato nelle colonne sonore di Jan Kaczmarek
e Zbigniew Preisner e tu stesso scrivi per il cinema:
hai dato qualche contributo alla loro musica?
Scrivo per il cinema quando mi viene richiesto, ma
non lavoro come arrangiatore per altri compositori.
Il cinema mi ha sempre interessato, lavorare sulle
colonne sonore mi costringe a guardare la musica da
un punto di vista differente. Non è un lavoro facile,
perché devo spesso semplificare il mio linguaggio
musicale per raggiungere il giusto feeling, ma è affascinante vedere come funziona bene il risultato finale della musica e delle immagini insieme.
Fra le musiche da film che hai interpretato, quale
è la tua preferita?
Ce ne sono molte. L’altra volta ho visto “Hachiko”
[diretto da Lasse Hallström, musica di Jan Kaczmarek, ndr]: mi piace molto quella colonna sonora.
E per quanto riguarda la musica per il teatro, il
processo di scrittura è lo stesso o la cosa ti coinvolge ancora di più?
Sia per il cinema, sia per il teatro scrivere ha un
unico elemento cruciale: stare a contatto con il regista. Il regista ha un certo concetto del film o del
pezzo e a volte è difficile capirsi. Comprendere la
sua visione è la parte più importante di tutto il gioco.
Mi è capitato di dover scrivere della musica anche
tre volte per lo stesso film. Un’altra volta il regista
non ha usato affatto la mia musica ma ha mantenuto
il mio nome nei crediti. Se si vuol essere un compositore per il cinema o il teatro allora si deve lasciare
da parte il proprio ego. Questo fa male.
Tornando a Komeda, quanto del suo approccio
metti nelle tue partiture per colonne sonore?
Komeda non era soltanto un musicista, ma anche un
filosofo. Gli insegnamenti che ha lasciato sono molto
importanti per me. Stava cercando di individuare e
sfidare la posizione dell’artista nella società moderna ed è pervenuto a molte conclusioni cruciali,
come per esempio “Non vivere della Musica, vivi per
la Musica”, o ancora “Il pubblico paga per la musica
con i propri soldi, l’artista paga con la propria vita”.
E allora quanta parte della tua vita prende la musica, e quanto personalmente vivi per la musica?
La musica è la strada della mia vita, mi alzo per
fare musica, faccio la doccia per fare musica e mi
alleno in palestra per apparire in forma sul palco.
Quello che guadagno con la musica lo spendo per la
musica. Casa mia è un grande studio di registrazione. La musica mi tiene lontano da alcool e droga,
perché suono al meglio con la mente pulita. Suonare rende il mio corpo caldo e porta la mia energia vitale al giusto livello. La musica mi dà amici e
amore e mi fa vedere posti che non avrei mai potuto
vedere se non fossi stato un musicista. Infine, la
musica è uno spazio in cui posso nascondermi e sentirmi al sicuro. La musica è il mio posto.
foto Markus Lackinger / www.jazzfoto.at
Céline Bonacina
jazz a cuore aperto
di Marco Maimeri
Specializzata in tre tipi di sassofono ha scelto soprattutto il baritono per esprimersi al meglio.
Nata in Francia, un po’ per lavoro un po’ per curiosità ha vissuto a lungo sull’isola di Réunion,
dove, oltre ad insegnare, ha suonato insieme a vari musicisti locali ed al pianista cubano Omar Sosa.
Tornata in Francia, ha avuto l’opportunità di collaborare con il chitarrista franco-vietnamita
Nguyên Lê, continuando a sperimentare tanto sul recentissimo “Open Heart” che dal vivo.
Suoni quasi tutta la famiglia dei sassofoni, ma cosa
ti ha spinto verso il baritono e il soprano?
Ho iniziato a otto anni con il sassofono contralto, che
ho suonato in prevalenza fino al 1995, quando poi
sono passata a fare pratica con il sax baritono. Dal
momento che una parte importante dei miei studi
era costituita dalla musica classica e da quella contemporanea, prima di tutto ho studiato il baritono
per eseguire alcune trascrizioni delle Suite per violoncello di Johann Sebastian Bach. Allo stesso
tempo, suonavo quel tipo di sax in diverse big band,
a Parigi. È stato allora che ho realizzato che il baritono sarebbe stato per me ben più che uno strumento da big band, e così ho cominciato ad
esplorarlo anche come strumento solistico. È stato
soltanto alcuni anni dopo che ho incominciato a suonare anche il sax soprano.
Cosa puoi dire del contributo dato da sassofonisti
baritoni, quali Gerry Mulligan, Pepper Adams,
Serge Chaloff ed altri, alla storia della musica jazz
nonché alla tua personale?
Sono stata influenzata da tutti questi meravigliosi
baritonisti, Mulligan, Chaloff, Adams, ma anche Nick
Brignola, Gary Smulyan e John Surman. Ritengo che
il loro contributo alla storia del jazz sia stato molto
importante e, ovviamente, lo è stato anche per
quanto concerne la mia storia personale: ciascuno di
loro mi ha ispirato in tanti momenti della mia evoluzione allo strumento.
Chi sono stati i tuoi maestri, quelli che ti hanno influenzato nello sviluppo di un tuo personale stile
strumentistico, per ciascuno di quei sassofoni?
Per quanto riguarda il sax contralto, i miei primi
maestri sono stati Charlie Parker, Cannonball Adderley, Art Pepper e così via. Sin dal primo momento in
cui ho scoperto le sonorità di quegli strumentisti,
sono letteralmente impazzita per il linguaggio bebop
Una volta diplomata, ti sei trasferita sull’isola di
Réunion, nell’Oceano Indiano, fra Madagascar e
Mauritius: perché una simile “scelta di vita” e cosa
t’è rimasto di quel periodo?
Mi sono trasferita a Réunion per tenere dei corsi di
sassofono presso il conservatorio dell’isola. All’epoca non avrei mai lasciato Parigi per andare a vivere in campagna, ma mi sono sentita euforica
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e desideravo suonare proprio come facevano loro! In
seguito, ho ascoltato pure sassofonisti più attuali e
contemporanei del tipo di Kenny Garrett, Bob Mintzer o John Surman.
foto Paul Emmanuel Roy
all’idea di provare un’esperienza di vita in un posto
a 10mila chilometri da Parigi! Ero davvero entusiasta
di scoprire le musiche ed in modo particolare i ritmi
dell’Oceano Indiano, come per esempio il maloya.
Ma quello che è fantastico di Réunion è l’ibridazione: lì sono presenti tantissime persone differenti
e molte culture diverse, sia nell’ambito della musica che nella vita!
In quegli anni hai suonato in vari festival locali con
il Céline B Group e con il pianista cubano Omar
Sosa: in che modo tutto ciò ti ha aiutato a sviluppare il tuo stile?
È stato allora che ho cominciato a suonare con numerosi e differenti musicisti locali. Ho costruito le
fondamenta di una mia band personale ed ho iniziato
a scrivere le mie prime composizioni. Ho suonato
tanto e spesso per tutta l’isola, come pure in molti
altri festival della regione dell’Oceano Indiano. Tutto
questo è stato parecchio importante per la mia ispirazione e mi ha anche aiutato a sviluppare il mio
stile personale.
Tornata in Francia, hai realizzato il tuo primo Cd,
“Vue d’en Haut”, con il tastierista Didier Makaga,
il bassista Lionel Guillemin e il batterista Hary Ratsimbazafy: come si lega a Réunion?
È stato proprio prima di lasciare l’isola che ho registrato quello che è il mio primo progetto discografico, “Vue d’en Haut” appunto: si tratta di un disco
collegato in maniera diretta a quei miei sette anni di
esperienza a Réunion.
célInE BonAcInA TrIo
oPEn hEArT
(AcT - 2013)
céline Bonacina (s.br, sa, ss), Kevin
reveyrand (bs.el), hary ratsimbazafy
(bt), himiko Paganotti (vc), Pascal
Schumacher (vb, glockenspiel), mino
cinelu (prc)
michael Wollny (pn), lars danielsson
(cb)
Souffle d’un Songe
circle dance
Wild World
Bayrum
So close So Far
Watch Your Step
out of Everywhere
Pierrot
desert
open heart
Snap the Slap
lonely dancer
(bonus track)
Cosa puoi raccontare di “Way of Life”, il tuo debutto con la ACT in trio con il bassista francese Nicolas Garnier ed il batterista malgascio Hary
Il nuovo Cd di Céline Bonacina è una sorta
di summa delle sue esperienze pregresse e
delle probabili vie che la sua musica prenderà negli anni a venire — vedi traccia eponima. Ci sono retaggi classici che rimandano
all’impressionismo di Satie (Souffle d’un
Songe) e robusti pezzi hardbop-rock alla
Hancock-Davis (Circle Dance), supportati da
basso e batteria, con cori femminili — frutto
di sovra-incisioni della titolare o di scambi
fra lei e la cantante Himiko Paganotti, come
avverrà poi su Snap the Slap, duo sax baritono/voce dal sapore funky-soul — e leggiadri, sognanti interventi di Pascal Schumacher
(Bayrum, Out of Everywhere). Deliziosa So
Close So Far, in cui i due ospiti mettono a
disposizione il loro talento per un’interpretazione raffinata ed avvolgente (la Paganotti
pure la penna, visto che il brano è suo e
della Bonacina). Ci sono derive etno-world,
guidate dalle frullanti e dialettiche percussioni di Mino Cinelu (Wild World, Desert),
che rimandano ai trascorsi della leader sull’isola di Réunion, insieme a pezzi scritti da
Kevin Reveyrand (Watch Your Step, Pierrot),
vibranti ed intensi, dove il jazz si mescola al
rock più sofisticato, il basso dell’autore
suona arpeggia e riempie la scena come una
chitarra, e la musica si fa grumosa e vivida.
Ma a colpire è soprattutto la compattezza
del trio che all’occorrenza si trasforma, con
leggerezza ed originalità, in quintetto/sestetto, grazie all’ingresso di special guests
come quelli convocati in studio — ma si può
immaginare accada lo stesso dal vivo nel Céline Bonacina Réunion, con Romain Labaye
al basso e Leila Martial, Illya Amar e Stéphane Edouard come ospiti. E ciò senza perdere né identità né forza espressiva. Ma anzi
inglobando quelle voci nella comune e corale “vox musici” del gruppo. Su tutto svetta
poi il talento strumentistico della leader,
che passa dal baritono all’alto, al soprano,
con agilità e spessore artistico invidiabili. In
sostanza, è un gran bel progetto. Discorso a
parte per Lonely Dancer, tratto da “ACT Jubilee Concert”: questo brano mostra un altro
trio, quello con Michael Wollny, suo autore,
al piano e Lars Danielsson al basso, ed un’altra atmosfera, molto nordica e molto cameristica, fra classica contemporanea e jazz,
comunque bella._Ma.Ma.
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foto Markus Lackinger / www.jazzfoto.at
Ratsimbazafy, più il chitarrista Nguyên Lê?
Quando sono tornata in Francia, ho deciso di smetterla con i quartetti, i quintetti o i sestetti, per suonare invece solamente in trio. Nel 2009, ho ricevuto
un premio francese chiamato “Tremplin Rezzo Jazz
à Vienne”, una parte del quale consisteva nella registrazione di un progetto discografico. Per me si è
trattato dell’opportunità di realizzare un sogno: suonare con il chitarrista Nguyên Lê. In seguito, ho spedito quella registrazione alla ACT e... beh, si è visto
poi quello che è successo!
Il contributo di Nguyên non riguardava solo il suo
ruolo di chitarrista: da allora è divenuto sia il tuo
ingegnere del suono che il tuo co-produttore.
Come si è evoluta questa collaborazione?
A dire il vero, dal momento stesso in cui abbiamo registrato insieme, Nguyên è diventato un amico, sicché il suo contributo come ingegnere del suono e
come co-produttore è venuto del tutto naturale. Mi
posso fidare ciecamente di lui, inoltre ho una sincera ammirazione nei confronti del suo lavoro.
Come ti sei trovata a far parte della ACT Family
Band, diretta dal trombonista Nils Landgren e nata
per festeggiare i 20 anni dell’etichetta, culminata
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nel doppio Cd “The ACT Jubilee Concert”?
Suonare con la ACT Family Band è stata un’esperienza fantastica! Trovarsi sullo stesso palco con musicisti ed amici così straordinari è stata davvero una
preziosa opportunità. Inoltre, sono molto felice di
aver potuto dare il mio contributo all’album celebrativo della label.
Suoni spesso con Ratsimbazafy alla batteria e vari
bassisti francesi, da Remy Chaudagne a Romain Labaye, un’evoluzione del tuo progetto Alefa: cosa ti
piace della formazione sax-basso-batteria?
In effetti mi piace moltissimo anche il trio senza la
chitarra oppure senza il piano. Mi fornisce l’opportunità di esplorare un modo di fare musica nel quale
l’armonia viene appena suggerita, invece di essere
direttamente suonata. Inoltre, quella formazione
consente uno spazio speciale per la libertà.
Cosa ti affascina, invece, del quintetto/sestetto
Céline Bonacina Réunion, completato dalla cantante Leila Martial, dal vibrafonista Illya Amar e dal
percussionista Stephane Edouard?
Suonare in quintetto o in sestetto allo stesso tempo
mi consente di sviluppare altri elementi cromatici.
Inoltre, è un modo per introdurre il mio nuovo
foto Johan Van Moorhem
album, “Open Heart”, con strumenti che appaiono
in quella registrazione come ospiti, ovvero il vibrafono, il canto e le percussioni, appunto.
È stata questa l’idea che, in “Open Heart”, al trio
con Kevin Reveyrand al basso e Ratsimbazafy alla
batteria ti ha portato ad aggiungere la voce di Himiko Paganotti, il vibrafono di Pascal Schumacher
e le percussioni di Mino Cinelu?
Quando ho registrato quest’album ho voluto che il
contesto in trio venisse mantenuto, introducendo
però anche delle nuove esperienze. Questa è la ragione per la quale ho messo insieme ospiti provenienti da paesi diversi e con spiriti [musicali e
culturali] differenti, come la cantante “rock” Himiko
Paganotti, il vibrafonista lussemburghese Pascal
Schumacher e il celebre percussionista Mino Cinelu,
il quale con le sue percussioni ha apportato una coloritura tribale al disco.
Come sono nate le composizioni di quel disco e
come mai hai inserito anche Lonely Dancer di Michael Wollny come bonus track dal vivo, tratta dal
concerto del giubileo ACT?
Per me la musica non è mai separata dalla vita, perciò le composizioni di questo mio nuovo progetto
sono ispirate dalla musica che ho avuto modo di
ascoltare, dalle persone che ho conosciuto, dai
viaggi che ho fatto, e così via. È stato Siggi Loch, invece, a suggerirmi di terminare il disco con Lonely
Dancer: penso che quel brano dia un senso di coesione fra l’inizio e la fine dell’album, grazie anche
ad una spiccata dolcezza. Inoltre, costituisce un bellissimo ricordo dell’ACT Jubilee Concert!
Sei reduce da un exploit all’Opéra di Lione con il
pianista inglese Gwilym Simcock e il bassista francese Michel Benita: cosa puoi dire di quell’esperienza e uscirà mai un Cd di quel concerto?
In effetti, forse la fine di quell’album [si riferisce a
Lonely Dancer con Michael Wollny al piano e Lars Danielsson al basso, ndr] può essere interpretata come
una “transizione” verso questo recente concerto in
trio insieme a Gwilym Simcock e Michel Benita. Non
so, però, che cosa accadrà con questa musica: per
saperne di più al riguardo, occorrerà essere molto
ma molto pazienti!
Alcuni anni fa, al festival Woma Jazz di Salsomaggiore, hai suonato nel Lotus Blossom 4et, formato
da Simona Premazzi al piano, Caterina Palazzi al
basso e Julie Saury alla batteria: com’è stato?
Conservo davvero un bellissimo ricordo di quell’esibizione a Salsomaggiore Terme. Ognuna di noi aveva
spedito in anticipo alcune composizioni alle altre.
Dal momento, poi, che stavamo molto distanti — chi
negli Stati Uniti, chi in Francia, chi in Italia e così
via — abbiamo fatto solamente una prova il giorno
stesso del concerto. Ad ogni modo, devo dire che abbiamo subito trovato e condiviso all’istante un feeling genuino. A volte accade proprio così: è questa,
in fondo, la magia della musica!
Sempre sull’album “Way of Life”, hai registrato un
pezzo di solo sax, dal titolo Tôty Come Bach: che
rapporto hai con quel tipo di performance e
quando organizzerai qualcosa in sax baritono solo?
Onestamente preferisco di gran lunga suonare con
altri musicisti piuttosto che da sola. Quando nel
corso di un concerto suono “a cappella”, la maggior
parte delle volte lo faccio esclusivamente per introdurre un brano, per esempio. Ma la coincidenza
più curiosa è che proprio di recente mi hanno contattato da un festival jazz in Francia [il Luberon Jazz
Festival, ndr] per invitarmi a fare un concerto in
solo il prossimo 6 giugno, ed io alla fine ho accettato
di lavorarci sopra. Suonerò alcuni arrangiamenti
della mia musica insieme ad alcune improvvisazioni
con o senza la mia loop station. E può darsi che proseguirò esibendomi in altre performance in solo,
dopo quel concerto.
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Nate Wooley
logopedia della tromba free
di Alain Drouot
foto di Maurizio Zorzi
Originario dell’Oregon, il giovane trombettista non ha dimenticato le sue radici, ma la sua musica,
lontana dall’essere bucolica o pastorale, continua a spingersi oltre e non conosce limiti.
Insieme a Peter Evans, con il quale collabora regolarmente, oggi è fra i talenti più promettenti e
creativi del suo strumento, animato da un insopprimibile desidero di espandere i propri orizzonti,
che trasferisce nel lavoro con musicisti provenienti da varie parti degli Usa e del mondo.
Al jazz ti ha iniziato tuo padre, portandoti fin da
piccolo a vedere musicisti come il sassofonista Jim
Pepper. Quanti anni avevi e che impatto questo ha
avuto su di te?
Mio padre è stato grande in questo. Andavamo a vedere un mucchio di musicisti, da Jim ed il World Sax
Quartet e Steve Lacy fino a Mel Torme e Ray Charles
e i Tower of Power. Non sono sicuro di quanto mio
padre fosse addentro alle cose più free, ma per lui
andava sempre bene quando si trattava di voler sperimentare. Dove sono cresciuto, una piccola città
dell’Oregon che si chiama Clatskanie, il più vicino
centro seriamente culturale in quel senso era Portland, e Jim Pepper occupava, per quel che potevo
capirne io, una sorta di strana posizione nella scena
musicale di Portland. Per molti versi il mondo del
jazz era, ed è ancora, estremamente conservatore,
ma all’epoca sembrava come se Jim fosse accolto
come un eroe del luogo. Penso di averlo visto una o
due volte proprio quando iniziavo ad interessarmi al
jazz, avevo forse 10 o 11 anni, e non credo che lo
capissi, ma amavo l’intensità e la qualità vocale del
suo stile. È quasi come se lo strumento fosse un appendice e potevi sentire la musica direttamente dal
musicista con un minimo di filtro da parte della tecnica strumentale. In questo senso, vedere Jim quan-
d’ero giovane ha avuto senz’altro un forte impatto
sul modo in cui adesso cerco di suonare la tromba o
anche sull’estetica della mia musica.
Hai imparato la musica con tuo padre?
Ho imparato da mio padre da un paio di punti di vista
diversi. Era il direttore di banda della mia scuola,
quindi è certo che da questo punto di vista ho imparato da lui, godendo della stessa attenzione che avevano tutti i suoi allievi, e lo rispetto immensamente
come insegnante — come pure rispetto mia madre.
Inoltre, quando avevo 12 o 13 anni, con lui ho iniziato a suonare in big band e questo è un tipo diverso
di insegnamento.
Il miglior consiglio che ti ha dato?
Mio padre non è un tipo eccessivamente espansivo,
per cui non ricordo un particolare consiglio che mi
abbia dato. Però, mettermi in condizione di poter
fare delle serate è stato istruttivo in sé. Inoltre, ho
visto mio padre suonare sera dopo sera come elemento di una sezione trombe insieme ad ex membri
delle orchestre di [Stan] Kenton o Woody Herman, e
ho colto molto da quell’esperienza.
Parli spesso di quanto il periodo in cui stavi in OreJazzColo[u]rs | giugno ’13
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gon abbia plasmato il tuo modo di suonare: puoi
essere più specifico?
Sono piuttosto fanatico riguardo all’Oregon. C’è
qualcosa di indefinibile nel crescere là, specie in una
cittadina in cui sostengono molto i loro giovani e ne
vanno molto fieri, a prescindere da quello che fanno.
Ero un ragazzino in una città di meno di duemila abitanti e ascoltavo Ornette e Dolphy o “Om” [di Coltrane] cercando di capirci qualcosa e la popolazione,
che in prevalenza è nel settore del legname o nella
pesca, sembrava sostenermi tanto quanto sosteneva
i ragazzi che facevano atletica, il che mi rendo conto
fosse una situazione abbastanza speciale. Sono per
lo più una persona molto tranquilla, ma crescere in
un posto senza i suoni o le luci della [grande] città
infonde un certo attaccamento al silenzio e al buio,
al loro potere e al suo calore: cose alle quali ritengo
d’essere riuscito ad attingere per la mia musica.
Usi molto le tecniche estese: le hai imparate da
qualcuno o sono il risultato di assiduo esercizio?
Suono solo secondo il modo in cui sento le cose nella
mia testa. Ci sono certi elementi di quelle tecniche su
cui, per un’esecuzione coerente, agevole e sicura, ho
lavorato per lunghi periodi di tempo senza danneggiare il mio sound o l’imboccatura, ma sono davvero
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JazzColo[u]rs | giugno ’13
pochi quelli che ho appreso effettivamente lavorandoci su. Credo di aver provato con un paio di cose e
non mi sono rimaste perché non sembravano naturali
per me o per il modo in cui le mie orecchie sentono
la musica. Perciò, le cose che faccio sono quelle che
risultano organiche alla mia tecnica, in quanto le
sento come parte del mio linguaggio personale.
Puoi descrivere il tuo progetto da solo basato sulle
sillabe?
Ho iniziato quel progetto come metodo per provare
a sbarazzarmi del mio attaccamento al modo in cui
la tromba doveva secondo me suonare. Mi sentivo
come se stessi sbattendo al muro e quel muro dipendeva da quanto lontano potessi andare con
quello che sentivo dentro la testa. Dato che ho un
profondo interesse per la linguistica, ho cominciato
a guardare ai meccanismi in cui la bocca, i denti, la
lingua, la cavità nasale e la gola creano fonemi, che
sono i mattoncini delle sillabe. Così mi sembrava che
avesse senso poter isolare quelle posizioni differenti,
regolare l’imboccatura, la cavità orale e il resto su
quella base, come una macchina fisica, per poi semplicemente emettere l’aria e vedere cosa succedeva
al suono dello strumento. Il primo pezzo che ho
fatto, [8] Syllables, fu parte di una residenza all’Is-
sue Project Room di Brooklyn e fu davvero un esperimento. Da allora ho fatto soltanto un altro pezzo,
[9] Syllables, che ho pubblicato quest’anno per la
Mnoad Records. Continuo a sentirmi bene con questa
musica come mezzo per spingermi oltre i confini del
mio linguaggio musicale, ma mi guardo bene dal lasciarlo diventare un’altra tecnica o un altro concept
fine a sé stesso.
Quali obiettivi musicali Peter Evans e tu state cercando di raggiungere con il vostro progetto in duo?
Non abbiamo proprio alcun obiettivo con il duo, in
tutta onestà. Suoniamo e basta. Credo di poter tranquillamente parlare anche per Peter su questo, ma
al di là del godere semplicemente della compagnia
l’uno dell’altro e suonare insieme della musica, questo è davvero tutto.
Come hai conosciuto Paul Lytton? E come avete
deciso di invitare Ikue Mori e Ken Vandermark ad
unirsi a voi?
Ho incontrato Paul grazie ad una serie di concerti
fatti dal tubista tedesco Carl Ludwig Huebsch. Aveva
richiesto me, Paul ed il clarinettista Michael Thieke
per fare un paio di concerti nel periodo del suo compleanno, ma Michael non poté fare il primo, così
suonammo in trio. Paul ed io andammo immediatamente d’accordo in quanto entrambi sentiamo un
vero amore per il jazz e la storia che gli ruota attorno ed i dischi ed un sacco di altri argomenti e discussioni intellettuali e non strettamente musicali.
Non pensavo affatto che avremmo suonato così
tanto dopo, ma al secondo concerto stavamo suo-
PAul lYTTon - nATE WoolEY
+ IKuE morI & KEn VAndErmArK
ThE noWS
(clean Feed - 2012)
Paul lytton (bt, prc), nate Wooley (tr,
ampli), Ikue mori (computer), Ken Vandermark (cl.bs, cl, st, s.br)
cd1
Free Will, Free Won't
Abstractions and replications
Berlyne's law
cd2
men caught Staring
The Information Bomb
Automatic
destructive to our Proper Business
The ripple Effect
nando in modo molto calmo e spazioso — cosa nella
quale all’epoca ero particolarmente coinvolto ma
che stava cominciando a non darmi più soddisfazione
— quando ad un certo punto Paul rovesciò una scarica di tutto il suo armamentario di percussioni sul
pavimento, il che ci indusse a suonare in modo
molto aggressivo. A quel punto pensai che dovevo
avere in qualche modo quell’individuo nella mia
vita, semmai ci riuscivo: e fortunatamente 6 o 7 anni
dopo il duo sta ancora andando forte. Per quanto riguarda Ken e Ikue, è successo in modo naturale. Una
delle poche cose consapevoli che Paul ed io facciamo con il duo è di cercare di includere il più possibile degli ospiti ad ogni tour. Ci piace l’idea di
essere una “sezione ritmica viaggiante” per varie
personalità musicali divergenti. Quando stavamo
mettendo insieme il tour da cui è venuto fuori “The
Nows”, basandoci sulle nostre rispettive storie musicali con Ken e Ikue sapevamo solo che sarebbe
stato divertente e avrebbe funzionato: e penso che
sia così! Questo fa vedere due lati diversi del duo e
credo che Ken ed Ikue suonino da dio in quel disco.
Il duo tromba-chitarra è piuttosto insolito: come
mai tu e Joe Morris avete deciso di fare una prova?
Ho incontrato Joe ad un concerto in Connecticut
quando suonavo con il grande gruppo di fiati di Stephen Haynes. Ero suo fan da molto tempo. All’epoca,
lui mi presentò a Daniel Levin, con il quale si avviò
una collaborazione. Credo che il duo inizialmente
fosse pensato per essere una sessione con Daniel, ma
lui si fece male alle dita e non riuscì a farlo. Joe suonava in acustico e mi piaceva molto il modo in cui ci
Ex dentista, il batterista Paul Lytton non si
affida ad effetti d’artiglieria pesante ma intesse con estrema precisione fitte trame e
fondali elaborati, seppur leggeri, all’occasione infranti dal suono della cassa. Ed anche
quando aumenta il livello di intensità, ha
sempre cura di non sommergere i compagni.
Un approccio che ben si attaglia al trombettista Nate Wooley, il quale non è il più rumoroso dei musicisti neppure quando ricorre
all’amplificazione. La mancanza di variazione
nel drumming di Lytton implica che sia Wooley a farsene carico, ruolo cui è in grado di assolvere grazie ad un ampio range di tecniche
estese, estremamente espressive. Wooley è
da ammirare: non scende mai a compromessi
e mostra un’accanita determinazione a superare la proprie idee e a portare il proprio approccio il più lontano possibile. Il primo disco
è registrato allo Stone di New York e su un
paio di tracce si avvale dell’elettronica della
giapponese Ikue Mori, i cui contributi rendono
gli sviluppi meno volubili e più densi. Abstractions and Replications mostra come le
sue elettroniche scintillanti si aggiungono alla
tavolozza sonora: capace di assumere un
ruolo centrale, sostituendo Wooley e divenendo voce principale, altrove il suo contributo al duo si fa quasi certosino. Il secondo
disco è registrato qualche giorno dopo allo Hideaout di Chicago. In diverse improvvisazioni
Lytton e Wooley invitano l’idolo locale Ken
Vandermark ad unirsi a loro con le sue varie
ance. Il Chicagoano per lo più impegna Wooley in un eloquente dialogo. Unica eccezione,
The Ripple Effect, dove Vandermark passa al
baritono, strumento meno agile, per fornire
supporto semplicemente con un motivo reiterato. Ma, ancora, la principale debolezza di
questo set — altrimenti affascinante — è
l’ostinazione di Lytton ad affidarsi ad un repertorio di giochini piuttosto vecchio. Due
esempi: l’epica Free Will, Free Won’t, registrata a New York, e Men Caught Staring, suonata a Chicago. A metà di ognuna il drummer
sistema un toy sopra uno dei suoi tom per produrre un rumore continuo mentre lavora su
altri elementi della batteria. La somiglianza
fra i due passaggi fa sorgere la domanda su
cosa davvero sia l’improvvisazione._Al.Dr.
JazzColo[u]rs | giugno ’13
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combinavamo dal punto di vista sonoro. Non sarò mai il
trombettista che si sente maggiormente nella sala. Il mio
sound mi piace di più quando è calmo, qualcosa riguardo
alla purezza di quel tipo di rilassamento lo rende davvero
ricco ai miei occhi. Adoro suonare in duo con Joe. Riesco
ad ottenerne le stesse cose di quando suono con Lytton: la
capacità ed il bisogno di spingerti assolutamente a suonare
qualcosa di diverso ed il desiderio di sorprendere. In duo
facciamo uno o due concerti all’anno, e sto lentamente
iniziando a pensare ad un altro disco con questa formazione, dato che la musica che stiamo facendo [ora] è diventata molto distante da “Tooth and Nail”.
Come vedi la connessione fra le tue attività di musicista
e le altre tue iniziative come il giornale online, la distribuzione musicale, il database?
Fa tutto parte della stessa cosa, per me, in un certo qual
modo. Per un altro verso è un lavoro quotidiano — entrare
in ufficio, sedersi davanti al computer — ma si tratta di un
lavoro quotidiano che mi consente di coinvolgere muscoli
diversi e di lavorare a quest’utopica idea che, nel bene e
nel male, sembra sia stata impiantata nella mia testa
quando ero molto piccolo. Sono convinto che non ci sia
cosa reale complicata quanto la musica. Penso che ogni
singola registrazione e interpretazione, se presenta un filo
di sincerità da parte del compositore o dell’interprete,
abbia un minimo di senso se ogni essere umano può trarne
vantaggio e arricchimento. Sono preoccupato dall’elitarismo nel pubblico della musica sperimentale, specialmente
in quanto musicista che vede venire sempre meno gente ai
concerti o nota come l’età di chi viene aumenti lentamente. Credo, forse ingenuamente, che se posso approfittare di Internet per rendere le informazioni disponibili,
allora forse un po’ più di gente si innamorerà di quella musica e lo dirà ai propri amici.
Con Peter Evans o anche Shane Endsley sei stato annunciato come una delle nuove voci più interessanti fra
i trombettisti: senti pressione nel fatto di mantenerti all’altezza di questa reputazione o la prendi con filosofia?
È bello, sempre, sentirlo e mentirei se dicessi di essere indifferente a frasi come questa o di non esserne orgoglioso.
Ma mi interesso di musica in modo serio da 25 dei miei 38
anni, adesso. Ho guardato gente andare e venire e so bene
che ognuno un attimo prima è considerato interessante da
colleghi, dai media, dal pubblico e l’attimo dopo non lo è
più. Per quanto mi piacerebbe essere sempre considerato
nel modo in cui mi hai appena descritto, sono abbastanza
realistico per sapere che non a tutti piacerà per sempre
tutto quello che faccio e che l’unica cosa reale a cui devo
restare aggrappato a questo mondo è la mia personalità,
simpatie e antipatie, capacità ed incapacità.
ss
jazz & arts
Lindonês Silveira
incanto brasileiro
di Marco Maimeri
È un artista brasiliano che sembra più pan-sudamericano,
ha una visione multiculturale del suo paese e della sua arte,
è autodidatta e questo gli ha permesso di creare uno stile
unico e personalissimo, fatto di colori vivaci e tratti danzanti.
La passione per l’arte si intreccia spesso a quella per il jazz e
le sue opere testimoniano appieno l’amore per tali atmosfere.
Quale formazione hai avuto e chi sono stati i tuoi
maestri?
L’amore per l’arte è sbocciato al contrario: non ho
avuto stimoli da bambino, ho passato un’infanzia
molto povera e in famiglia non c’erano artisti né
amanti d’arte. Sin da piccolo però mi piaceva disegnare: a 6 anni, mio padre mostrava i miei disegni e
commentava la ricchezza di dettagli di quegli schizzi
che erano per me solo storie del mio vissuto. A 10,
feci la prima opera in argilla, presa da un torrente
vicino casa. L’istruzione artistica nelle scuole pubbliche brasiliane è fiacca: una volta portai un lavoro
da casa al mio maestro ed egli dubitò che avessi
fatto io quella scultura. Continuai a disegnare ma
non feci più vedere nulla a nessuno. Adolescente, mi
imbattei nel lavoro di Dalí e mi identificai con lui: i
miei disegni erano surreali, dipingevo su scatole
d’imballaggio per la carta usando vecchia vernice e
mischiando materiali. A 16, andai a lavorare in un
laboratorio d’intaglio legno per mobili facendo arabeschi: dopo il lavoro, con i materiali eccedenti, trasformavo vecchi disegni in sculture. A 19, feci la
prima mostra di sculture. Ebbi un premio d’eccellenza per le arti visive nel 1991 e decisi di prendere
l’arte più seriamente: iniziai a leggere libri, riviste,
e scambiare informazioni con altri artisti, ma frequentavo botteghe e laboratori d’arte, solo 10 anni
dopo feci dei corsi in disegno anatomico.
Come sei riuscito a trasformare tale educazione
nel tuo peculiare stile?
Non avendo la direzione dell’accademia, ho studiato
da solo e grazie ad esperienze e miscugli di diversi
materiali e tinte d’ogni genere, ho sviluppato questo stile particolare. Quando iniziai ad acquistare
materiali, scelsi pigmenti in polvere e liquidi con
JazzColo[u]rs | giugno ’13
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giorno, più tardi cominciai a suonare chitarra e percussioni: suonavamo alle feste scolastiche ed aprivamo i concerti delle band maggiori, ho lavorato
pure come impresario per vari artisti. Ho fatto manifesti, dipinto costumi e scenografie per spettacoli
nostri e di altri musicisti e ho mescolato così arte e
musica. Quando ho smesso effettivamente di lavorare con la musica, ho cambiato anche la mia arte,
attraversando varie fasi: motociclette, donne, scene
urbane. I dipinti musicali nel mio lavoro sono arrivati
nel 2010, quasi per caso. Avevo deciso di entrare nel
2010 pitturando, di isolarmi in studio senza sapere
cosa fare, e ho passato la notte dipingendo “Street
Blues”. Dopo quel giorno le cose sono accadute
quasi magicamente, in modo naturale: quell’anno
ho realizzato 93 tele dipinte con motivi musicali.
Crei i tuoi lavori durante concerti o in altri modi?
Faccio solo qualche pezzo l’anno per i concerti del
Mississippi Delta Blues Festival, che si tiene a Caxias
do Sul, la città dove vivo: lavoro nell’ambito della
produzione eventi e dell’editing che lo scorso anno
ha creato “Blues Art Ville”, in cui diversi artisti mostrano lavori connessi alla musica e hanno un palco
dove creare opere durante le esibizioni. Ho molti
amici ed artisti legati alla musica: pur non lavorando tutto il tempo con la musica, non mi sono mai
staccato dal palco, guardo gli spettacoli settimanali, le prove di chi andrà in tour con orchestre e
gruppi per concerti in altre città, fotografo, scarabocchio e così creo scene musicali da trasferire poi
su tela a studio.
vernici ed altri leganti per creare i miei colori. Comprai molto più tardi quelli pronti e tuttora ne uso alcuni di mia fattura. Con lo studio di fotografia e
disegno digitale definisco e traccio figure frammentate e sature di luce.
Molte opere sono ispirate alla musica, che ruolo
svolge nel tuo processo creativo?
La musica è sempre stata nella mia vita: mio padre
era un musicista dilettante, aveva tanti dischi e suonava a casa, ma non mi ha mai insegnato a suonare
chitarra ed armonica, strumenti con cui faceva musica folk in festival rurali regionali che non frequentavo perché non mi piaceva lo stile. Quando andai a
lavorare nell’atelier di sculture, iniziai a cantare in
una rock band, conobbi molti musicisti di cui avevo
parecchi dischi che ascoltavamo e suonavamo ogni
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JazzColo[u]rs | giugno ’13
Quando hai scoperto il jazz e che importanza ha
assunto nella tua vita?
Avevo circa 18 anni ed ero in quella fase in cui tutto
il giorno si ascolta musica, ho conosciuto il padre di
un mio amico, un annunciatore in pensione passato
poi al cinema, che a casa aveva una vasta collezione di dischi: prendevo delle musicassette e trascorrevo i pomeriggi registrando ed ascoltando
quegli album, a lui piaceva spiegare gli stili, il
bebop, le grandi orchestre, John Coltrane, Miles
Davis, Bird, quei momenti sono stati decisivi per la
mia conoscenza musicale.
Chi sono i tuoi jazzisti preferiti e perché?
Di recente ho ascoltato tanto neo-bop ma mi sono
fermato ai nomi nuovi, citerò i vecchi che mi hanno
fatto amare lo stile: Baden Powell, Hermeto Pascoal
per le stupende percussioni, Egberto Gismonti, Charlie Parker, Miles Davis, Chet Baker, ho sempre preferito il jazz strumentale, però anche le cantanti
Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Etta
James vanno ricordate.
Alcune opere sono ispirate più da artisti locali che
da cosiddetti big, perché questa scelta?
Forse per il mio stile di vita, sempre circondato da
musicisti, e così è per i laboratori dove creo i miei
lavori scegliendo fra artisti locali, è naturale,
quando scelgo un grande musicista lo faccio più per
l’emozione e l’energia che mi dà sul momento che
per l’importanza sulla scena musicale.
Sembri, infatti, interessato più all’atmosfera che
agli artisti, in che modo la rappresenti?
Ciò che voglio è registrare “quel” momento, la luce
che satura in un punto nella totale oscurità, mentre, dall’altra parte, c’è la posizione delle mani
sullo strumento, l’emozione e il movimento dei musicisti, tutto come se si cercasse un quadro e si potesse quasi sentire la musica suonata lì.
Inoltre, sembra che ti piaccia usare due tipi di rappresentazione, una con colori vividi e l’altra con
toni più scuri, tale scelta nasce dal tuo stato emotivo mentre dipingi o da altro?
Penso non ci sia modo di separare il mio stato
d’animo al momento del dipingere con ciò che sto
dipingendo, finisce sempre per esserne influenzato,
c’è da notare però che pure nei toni scuri cerco di
rappresentare l’atmosfera della scena, a volte si
tratta di una musica più intima, altre di una più malinconica. Non pianifico mai l’esito finale: talvolta è
il mio stato emotivo ad agire.
Quando usi il colore lo fai in modo molto vivido e
personale, rispecchia la tua idea di vita?
Certo, riflette indubbiamente la mia visione esi-
stenziale: sono un tipo positivo, una faccia allegra
che sprizza vita, cerco di vedere il buono in ogni
cosa, persino nei momenti tristi, ritengo che l'arte
abbia la funzione di elevare lo spirito di coloro che
l’apprezzano ed anche usare istintivamente colori
vividi credo acquisti questa valenza.
Illustrazioni
Nella prima pagina, in alto:
l’artista (foto di Eduarda Silsan); in basso: “Jazz Festival 3” (2010), tecnica mista su
cotone grezzo.
Nella pagina precedente: “Sax
Star” (2012), tecnica mista su
tela.
In questa pagina, in alto: “Recital 2” (2011), acrilico su tela;
qui a fianco: “Red Blue Jazz”
(2012), acrilico su cotone
grezzo.
Tutte le opere riprodotte sono
protette da copyright
Per ulteriori informazioni:
www.flickr.com/lindoness
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recensioni
CD
SATOKO FUJII MA-DO
TIME STANDS STILL
(NotTwo Rec. - 2013)
Registrato alla fine di un tour
estivo in Nordamerica nel 2011,
questo “Time Stands Still” trova il quartetto Ma-Do della pianista Satoko Fujii in piena maturità artistica. “Ma-Do” significa in
giapponese “finestra”, e allo stesso tempo “ma” indica anche il
silenzio fra le note: una finestra attraverso cui la musica si proietta all’esterno, ma con una particolare attenzione ai colori
espressivi, e dunque ai pianissimo, agli spazi che circondano le
note e le valorizzano. Come sempre, è una musica scritta nelle
sue linee tematiche, che poi vive dell’apporto personale dei musicisti. L’avvincente avvio sul contrabbasso strapazzato di Koreyasu, l’arresto sulla tromba di Tamura ed il flusso dei volumi
d’insieme in Fortitude, l’incedere solenne, le cigolanti vibrazioni di tromba e contrabbasso, le frange romantiche o avventurose, quasi prog-rock di North Wind fra blues e arabian
feeling, con l’improvviso cambio di scenario per il tayloriano assolo del piano montato sul pedale di basso, così come il tempo
sfuggente di Time Flies a volare rapido sui volteggi di tromba,
per poi assestarsi sul disegno reiterato da basso e piano e perdersi con l’esplosivo break di Horikoshi, la breve Rolling Around
che sembra accompagnare la lenta rotazione terrestre, la forma
quasi a canone di Set the Clock back che si articola fra tromba,
piano e contrabbasso, e ancora gli echi estremo-orientali nelle
scale enarmoniche del contrabbasso per Broken Time, con i potenti bassi del piano aggravati dalla tellurica batteria, la danza
ondivaga e passionale dell’unisono tromba-piano, il vamp su cui
si sviluppa il lucido discorso solistico della Fujii: tutto questo
racconta di pause drammaturgiche, di silenzi magnificamente
funzionali fra cui incastonare le note, che si impreziosiscono accrescendo il pathos, in un folgorante trait-d’union fra improvvisazione jazz e d’avanguardia, sull’idea che la pianista
nipponica ha sempre dichiarato di voler sottendere per la musica di questo quartetto. E dal momento che i tempi interni poco
hanno a che spartire con l’inarrestabile movimento delle lancette, si tratta, purtroppo, anche di un lavoro d’addio, dopo
foto Davide Susa
quasi sei anni di intensa attività
del Ma-Do, testimoniata da altri
due dischi. Poco dopo il tour, infatti, il contrabbassista Norikatsu Koreyasu viene stroncato
da un attacco cardiaco. Certamente il cinquantaseienne musicista avrebbe avuto ancora
molto da dire dal punto di vista
musicale, come mostra il sentito
assolo in Set the Clock back o il
controcanto archettato nella
malinconica Time Stands Still, a
rendere tutta l’inesorabilità del
tempo. E seppure potrà sembrare che queste ultime righe
siano scritte sotto una certa
spinta emotiva, nessun timore
ad affermare che “Time Stands
Still” è senz’altro il lavoro più
compiuto del Ma-Do._An.Te.
L’album che ha segnato la svolta musicale nella tua vita?
Count Basie “The Atomic Mr. Basie - E=Mc2”.
Quello che consideri cruciale per la musica jazz?
“In a Silent Way”, Miles Davis.
Il disco con la tromba che ami di più?
Miles Davis, “Live in Paris” (1960).
La colonna sonora cinematografica che ritieni un capolavoro?
Ennio Morricone, “Il Etait une Fois la Revolution” (“Giù la Testa”).
L’album più ricorrente nella tua playlist?
“Antologia”, Egberto Gismonti.
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foto Juan-Carlos Hernández
I 5 dischi imprescindibili di Médéric Collignon
Musicisti
Satoko Fujii (pn),
Natsuki Tamura (tr),
Norikatsu Koreyasu (cb),
Akira Horikoshi (bt)
Brani
Fortitude
North Wind and the Sun
Time Flies
Rolling Around
Set the Clock back
Broken Time
Time Stands Still
domAncIch/cYrIllE/hElIAS
Sophia domancich (pn), Andrew cyrille (bt), mark helias
(cb)
En el Barrio de Triana
how to
dr. licks
Vestiges
courtepointe
Aubade
En el Barrio de Triana (take 2)
Un disco che stava quasi per sfuggirci ma che s’è
voluto non sfuggisse anche a chi segue i suggerimenti di ascolto di questa rivista. Uscito nell’agosto del 2012, si tratta di un live al Sunside,
celebre jazz club parigino, registrato a luglio dell’anno precedente. Protagonista, un trio paritario continuamente in bilico fra avanguardia e jazz
libero, formato dalla pianista parigina Sophia Domancich, il contrabbassista Mark Helias ed il batterista Andrew Cyrille: eleganza, misura ed
essenzialità. Alla fine degli anni ’70 sono Steve
Lacy, Bernard Lubat e Jean-Louis Chautemps che
la Domancich deve ringraziare per averla introdotta al mondo del jazz e dell’improvvisazione,
lei che proveniva da una formazione classicistica.
Ne deriva una verve melodica che molto ricorda
il caro Michel Petrucciani, come da En el Barrio
de Triana, speziata però dalla curiosità per le
tecniche estese, di cui è cosparsa How to. Dr.
Licks sarebbe da portare ad esempio di come è
possibile — anche con il piano — riuscire a suonare un intero brano affidandosi ad una manciata
di note soltanto, frammentando e ricostruendo
continuamente i fraseggi che ne scaturiscono. Vestiges ha tutto lo charme di un jazz-blues addoldIcE FAcTorY
Tom challenger (st), george
Fogel (pn), Tom Farmer (cb),
Jon Scott (bt)
heyu nantucket
gooch
Saribund
You’re lucky
Eternal Sleep
Zout
Eternal moment
Pipes
T.n.g.
Saribund (coda)
courTEPoInTE - lIVE AT ThE SunSIdE
lE cuBE
cito da accenti francesi che viaggiano su un movimento a tratti vagamente valzeristico, ma sempre con splendidi innesti che vanno oltre il jazz
più convenzionale: basta ascoltare lo scorcio crepuscolare in cui viene inserito l’intervento solitario di Helias, per rendersene conto. Ancora più
sfuggente il clima dell’eponima Courtepointe,
Helias a contornare con l’archetto le circospette
note della Domancich e Cyrille a pennellare al
tratto con le sue bacchette, assecondando con
venature cromatiche ogni trovata dei compagni:
10 minuti in cui la simbiosi fra i tre raggiunge livelli apicali. Da non trascurare neppure Aubade,
composizione dedicata all’alba dove, fra l’archetto, il tapping sulle pelli e gli svolazzi di pianoforte, l’intensità è altrettanto elevata, pure
grazie ad inflessioni pentatoniche proiettate dai
primi raggi timidi provenienti dal Sol Levante. La
seconda take di En el Barrio de Triana con cui il
disco si chiude è meno temeraria e più intima di
quella con cui s’era aperto, come se, filtrata attraverso i vari brani dell’album, fosse stata ridotta alla sua essenza più free ed immediata,
genuina ed estemporanea. Davvero un peccato
lasciarselo scappare._An.Te.
dIcE FAcTorY
Molto dice sul concept del gruppo il fatto che Dice
Factory, nome sia del quartetto che del suo album
d’esordio, si riferisca al romanzo “The Dice Man”
di Luke Rhinehart (alias George Cockcroft), il cui
protagonista prende le decisioni semplicemente
al lancio dei dadi: il caso che regola la musica è un
aspetto affascinante, specie se l’improvvisazione
è elemento principe. Se è vero che molte discussioni e molte prove hanno preceduto la musica
vera e propria, e che la sfida è stata quella di
scuotere armonia, melodia e ritmo attraverso la
casualità, allora i quattro devono aver avuto il
loro bel da fare a tirar dadi per dar vita, infine, ad
un progetto così coerente. Quattro fra le più brillanti promesse del jazz d’Oltremanica: Tom Challenger al tenore, George Fogel al piano, Tom
Farmer al contrabbasso e Jon Scott alla batteria,
ognuno già membro di una nota band della scena
britannica. E dato che sono in tre a contribuire al
repertorio del gruppo, il sistema sembra funzionare a prescindere dalla firma dei brani. Così per
Heyu Nantucket, di Fogel, caratterizzato da una
certa complessità ritmica, con Challenger a dare
profondità e fantasia, mentre il pianista spadro-
(Babel label – 2012)
neggia con interventi, ora lineari ora più refrattari, lungo tutto il brano. In Gooch, di Challenger,
l’inizio è sul piano preparato, ma il groove si scioglie sulla ritmica e sull’unisono tenore-contrabbasso. Saribund (Fogel) mostra un lato più
europeo e melodico, You’re Lucky (Challenger) è
più asciutta e funky, turbata dai tempi obliqui di
Scott. Proprio il batterista, l’unico a non figurare
come autore, diviene un jolly che agita le acque,
per altro mai del tutto calme: batteria e contrabbasso si muovono quasi su un altro binario in Eternal Sleep (Farmer). Antitetica rispetto a questa è
Eternal Moment (Fogel), struttura di basso e batteria con piano e sax su continue linee trasversali.
Zout (Challenger) si riavvolge sulla frase iniziale,
esposta dal tenore e poi tenuta dal piano, che si
parlano a distanza sul pedale basso-batteria.
Unico pezzo riflessivo e uniforme è Pipes (Challenger), mentre T.N.G. (Farmer), dopo un avvio
piuttosto rilassato, torna a incresparsi sui colpi del
piano per cambiare ancora umore sul tenore rotondo di Challenger e il crescendo pianistico di
Fogel. Capaci di sorprendere ad ogni passo, i Dice
Factory meritano un ascolto attento._An.Rig.
FrElon rougE
A distanza di un decennio il sassofonista francese
Alban Darche rilancia il suo Le Cube. E a differenza delle due precedenti uscite, “Autorité Culinaire” (2001) e “Le Thé” (2003), nelle quali
faceva ricorso a musicisti d’appoggio, questa
volta si presenta nel formato del trio insieme con
i fidi Sébastien Boisseau al contrabbasso e Christophe Lavergne alla batteria. In realtà tutti e
tre fanno anche parte del Gros Cube, formazione
Alban darche (st, sa, ss), Sébastien Boisseau (cb), christo- orchestrale di una quindicina di elementi, gui-
(marge – 2012)
(Yolk - 2013)
data sempre dal sassofonista di Nantes e di cui il
trio sax-contrabbasso-batteria può considerarsi
lo zoccolo duro. Ciò non toglie che, sia presi singolarmente sia nelle due versioni del Cube, i tre
jazzisti sono fra i musicisti più attivi del collettivo Yolk — di cui Darche e Lavergne sono anche
fondatori, insieme al trombonista Jean-Louis
Pommier — che animano con svariati progetti.
Autore di tutti i brani, molti dei quali presentano
un carattere sottilmente funky, come l’eponimo
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phe lavergne (bt)
la Pornicaise
le café du change
caminhada
Frelon rouge
l’homme rigolo
la Bille
la Pascoalaise
Seriatim
mon Tribut à Tim Burton
Spirale du Phraseur
la mort d’Archimède
Frelon Rouge, Darche non ha timore di mostrare
il carattere più melodico della propria musicalità, ma anche qui non vuole rinunciare ad esplicare la visione orchestrale maturata in questi
anni, attraverso le sovraincisioni dei suoi strumenti su alcuni pezzi, come La Pornicaise, le sezioni de Le Café du Change o anche la
stan-getziana Caminhada. Lo stesso avviene pure
ne L’Homme Rigolo, dove Darche mette in evidenza il proprio lato umoristico, sicuro del walking di Boisseau e degli interventi rilassati e
puntuali di Lavergne. Con La Pascoalaise, invece,
il trio si spinge verso elementi più folk, dove non
mAchA ghArIBIAn
macha gharibian (vc, pn, Fr),
david Potaux-razel (ch), Théo
girard (cb), Fabrice moreau
(bt)
ritual Prayer
Byzance
night
la douceur
Kélé Kélé
Parmani
Passage des Princes
Affect Stories (to ralph Alessi)
Sei Kei
mArS
Un progetto interessante, profondo, d’appeal.
Che ammalia e colpisce, soprattutto perché è
un’opera prima. Un album intrigante, che coniuga folk armeno, pop, world e jazz ed è quest’ultimo a tenere legati fra loro, amalgamare ed
esaltare il sapore di tutti gli ingredienti dell’impasto sonoro. Una pietanza ben condita, lontana,
nella sostanza come nella forma, dall’apparente
insipidezza, seppur a tratti piacevole e leggera,
di una Norah Jones. Forse più vicina a certe ricette, elaborate, speziate e cosmopolite, di una
Cassandra Wilson, specie se la si pensa, come
Macha Gharibian, alle prese con un ricettario di
cucina franco-armena. E meno male che gli
aiuto-cuochi sono fedeli, competenti e pronti ad
agire all’istante. Ad ogni modo, la voce calda
della Gharibian è come miele di castagno, forte
e persistente nel suo retrogusto amaro. I brani
strumentali poi, gli originali a propria firma Byzance, La Douceur, Passage des Princes, Sei Kei,
nonché l’arrangiamento di un pezzo autoctono
della sua terra d’origine, Parmani, scritto da
Khatchadour Avedissian, vivono di un fraseggio
pianistico — raro, per una “semplice” cantante —
TIno TrAcAnnA
JazzColo[u]rs | giugno ’13
(Bee Jazz – 2013)
e di un’atmosfera tout court, d’impronta decisamente jazz-tzigano-francese (suo padre è Dan
Gharibian, fondatore del gruppo Bratsch). Più
particolare e sperimentale, invece, Affect Stories, omaggio a Ralph Alessi, musicista che lei
stima molto e che l’ha iniziata, in un certo qual
modo, al jazz contemporaneo di stampo newyorchese, insieme a quel Jason Moran che, con
Alessi, viene ringraziato nel libretto interno, e la
cui influenza si fa sentire in vari risvolti musicali
del Cd. A rendere ancora più fascinoso e particolare il tutto, il fatto che, a parte due pezzi tradizionali armeni arrangiati per l’occasione, quali
Kélé Kélé di Komitas Vardapet e il già citato Parmani di Avedissian, il disco contiene pure due
brani dai testi insoliti: Ritual Prayer su liriche del
contrabbassista free-jazz, poeta e compositore
americano William Parker, e Night ad opera del
poeta, incisore e pittore inglese William Blake.
Da un certo punto di vista una chicca, dall’altro
l’ennesimo ingrediente azzeccato e stuzzicante
di un piatto, che premia e fa esultare il palato
dell’ascoltatore assaggio dopo assaggio, traccia
dopo traccia._Ma.Ma.
AcroBATS
Nuovo progetto discografico per Tino Tracanna,
sassofonista livornese purtroppo poco considerato dai più, ma con un curriculum di grandissimo rilievo: collaborazioni pluriennali nelle
formazioni di Franco D’Andrea e Paolo Fresu,
progetti con innumerevoli musicisti italiani e
stranieri, una intensa attività da leader e più di
un centinaio d’incisioni realizzate come solista.
Docente affermato, dal 1995 insegna in diversi
Tino Tracanna (st, ss), mauro
ottolini (tbn, euph, launed),
conservatori, e dal 2001 è di ruolo e coordinaroberto cecchetto (ch), Paolino tore dei corsi di jazz presso il Conservatorio di
dalla Porta (cb), Antonio Fusco Milano. Dopo due anni di attesa dal precedente
(bt, prc)
“Un’Ora”, Tracanna presenta “Acrobats” un
album strepitoso, pensato e studiato fin nei miIgor Sneezes
nimi dettagli: dagli interessanti temi, agli armr. d.P. Introduces dundun
rangiamenti realizzati per mettere in luce
dundun
l’originalità della formazione; dagli spazi imPagan deity
new mind lines
provvisativi calibrati per evidenziare l’espressiScie
vità e la personalità dei singoli musicisti, alla
cartomante
ricchezza ritmica non comune della coppia Dalla
Free links
Porta-Fusco, contrabbasso e batteria. Tutti i
brani sono composti dal sassofonista e presentano un bop moderno, mai banale, carico di interplay e senza cali di tensione. Ognuna delle
28
mancano momenti più nervosi, che vengono marcati con maggiore enfasi in Spirale du Phraseur e
nella sua crescente accelerazione. A dare movimento e organicità a tutte e undici le esecuzioni
è la batteria di Lavergne, che abbiamo imparato
ad apprezzare nel trio di Sylvain Cathala, ma che
qui sembra ancora più rilassata, come per un
vero ritorno a casa. E di questo si tratta, infatti.
Considerando poi che Darche non aveva che 28
anni ai tempi della prima uscita di Cube, questo
“Frelon Rouge”, festeggiando i dieci anni del
trio, appare come il meglio riuscito, finora, ed
anche il più maturo._Ma.Je.
(Abeat rec. - 2012)
otto tracce merita un ascolto attento, e nell’imbarazzo della scelta emergono: Igor Sneezes, forse il pezzo più rappresentativo
dell’album, un ritmo tiratissimo, quasi funky, su
cui si innesta il tema, suonato all'unisono dai
fiati, con un assolo tagliente di Cecchetto, seguito dall’improvvisazione blues di Ottolini che
lascia spazio ad un bellissimo solo del leader,
per concludere con un brillante scambio di idee
musicali tra trombone e sassofono. Oppure la
bellissima introduzione in solitudine di Paolino
Dalla Porta, Mr. D.P. Introduces Dundun, di
grande atmosfera, unita ad un rumoreggiare
delle dita su corde e legno. Segue Dundun, dove
su un ritmo quasi africano troviamo due spettacolari assolo, rispettivamente di Tracanna e
Cecchetto, con una chitarra acidula. New Mind
Lines, invece, il brano più mainstream del progetto, vede un mirabolante Ottolini con il suo
trombone sordinato, uno swingante intervento
di Tracanna che va a concludere su un break di
batteria. Un disco di un grande musicista, da
ascoltare, sperando in un maggiore interesse di
pubblico e critica._Da.Su.
SAmuEl BlASEr QuArTET
Samuel Blaser (tbn), marc ducret (ch), Bänz oester (bs),
gerald cleaver (bt)
As the Sea Part I
As the Sea Part II
As the Sea Part III
As the Sea Part IV
AS ThE SEA
Dalle note di copertina si apprende che la session di questo Cd non è stata preceduta da prove
preliminari, trasformando in vantaggio quello
che potrebbe a tutta prima apparire invece
come uno svantaggio. Ma è di jazz e musica improvvisata che si sta parlando, quindi niente di
più facile che Blaser ed i suoi siano saliti sul
palco dello Hnita-Jazz Club di Heist-op-denBerg, in Belgio, disarmati di ogni preparazione
se non quella dell’esperienza derivante dall’aver
già suonato insieme, sia in studio che dal vivo.
Preso atto di questo, non si può non considerare
che, a differenza di quanto era avvenuto per il
precedente “Boundless” (2011), dove i componenti erano tutti diversi rispetto ai due primi dischi, e dove era una suite a guidare la
compagine, in questo “As the Sea” il Samuel Blaser Quartet ha mantenuto esattamente la stessa
configurazione dell’ultima uscita, puntando ancora sulla particolare combinazione sonora che
si genera fra chitarra e trombone. Soprattutto
quando la chitarra a fianco del titolare è quella
del piroclastico autodidatta Marc Ducret. Dunque, fatta salva l’assenza di notazioni di riferimento, non si tratta certamente di una seduta
affrontata completamente allo sbaraglio. Molto
indovinata l’idea dell’ambientazione “marina”,
che permette di liberare la fantasia sulle ali
della musica di Blaser e soci, immaginando gli
strumenti a riprodurre le sonorità ovattate del
BEn goldBErg
mondo sommerso sotto il pelo dell’acqua. Su
questi presupposti, suggeriti dal titolo dell’album, Part I sembra restare sospesa a mezz’acqua, immersa in un’atmosfera ottusa, attutita,
con molli rimescolii, qualche gorgoglio del trombone e profondità misurate dai pizzicati arpeggi
di Ducret. Part II, al contrario, presenta un caustico groove di partenza, fertile terreno di pesca
per la polisemica chitarra di Ducret, ma anche
per il trombone, i cui profili melodici sembrano
quasi tridimensionali, opportunamente ingrossati dal riverbero e dal campionario di tecniche
estese del trombonista, nonché dai reticoli imbastiti dalle batterie di Cleaver — fondamentali
sia nel portamento del ritmo che nelle rutilanti
figurazioni solistiche — e dalle trame filamentose della chitarra. È il contrabbasso di Oester a
dare l’abbrivio a Part III, mantenendosi a filo
d’acqua, con lievissime increspature fomentate
da Blaser e Ducret, che sfociano sulle onde degli
spumeggianti cimbali di Cleaver. Part IV è
l’unico pezzo ad avere un tracciato ben definito
fin dall’inizio, con tema enunciato dal trombone, ed è anche il brano più muscolare, chitarra a portata piena, sia per la dinamicità di
Ducret sia per il timbro corposo del distorsore,
solcando un mare in tempesta le cui scariche
elettrostatiche sono evocate dalla tuonante batteria e dai bollori del contrabbasso. Un disco da
ascoltare in apnea._An.Te.
SuBATomIc PArTIclE homESIcK BluES
Il clarinetto di Goldberg ha mille sfaccettature:
può suonare cool alla Jimmy Giuffre, bebop alla
Buddy DeFranco, andare indietro alle sonorità di
New Orleans o avanti verso lo swing di Artie Shaw
o Benny Goodman. Si pone, insomma, come
alter-ego moderno di Ken Peplowski e come ispiratore di Anat Cohen, rimanendo sempre peculiare. E ciò grazie anche al fatto di essere in
grado — giacché lo sente come un modo per
Ben goldberg (cl.Bb, cl.a), Joesprimere e portare avanti la sua idea di musica
shua redman (st), ron miles
(tr), devin hoff (bs), ches
— di fondere questi riferimenti in uno stile che
Smith e Scott Amendola (bt)
abbraccia persino il free-jazz di stampo colemaniano, proseguendo così il discorso abbozzato e
Evolution
purtroppo mai sviluppato appieno da Eric Dolphy.
Ethan’s Song
Tutto questo si palesa, nel progetto in esame, sin
Study of the Blues
dalla prima traccia non a caso intitolata Evoludoom
tion, dove si intrecciano elementi classici, a
The Because of
tratti ieratici, divagazioni dixieland, stop-and-go
Possible
Asterisk
neworleansiani e uno spiccato incedere swing,
Satisfied mind
con pause cariche di tensione emotiva che deWho died and Where I moved to viano spesso il corso dell’evoluzione musicale.
lopse
Ogni elemento del quintetto dialoga con l’altro
how to do Things with Tears
con dinamismo e apparente semplicità. Sembra
di ascoltare una partitura classica o di cool-jazz
cameristico ma, come detto, tutto viene poi
squarciato da devastanti inframmettenze pluristilistiche. Pure Ethan’s Song è un brano vibrante
e frastagliato, c’è un gran dialogo strumentistico, e si percepisce pienamente il controllo
della batteria: Smith è una sorta di allenatore in
campo, prodigo di consigli, stimoli e verticaliz-
(hathut rec. - 2012)
(Bag Prod. - 2013)
zazioni. Ascoltare Redman duettare con i compagni in modo così disinvolto — specie su Study
of the Blues, spigoloso duo sax-clarinetto, e
Lopse, acuminato trio sax-tromba-clarinetto —
stupisce positivamente, sebbene solo fino ad un
certo punto: le sue qualità (un esempio per tutti,
il suo “Spirit of the Moment” del 1995) sono infatti ben note, ed è un peccato che lui stesso ed
i suoi discografici puntino su band elastiche altalenanti e progetti “leggerini” con orchestre improbabili. Qui è in perfetta sintonia con Goldberg
e Miles: i dialoghi sono ficcanti ed espansivi, un
discorso a tre voci ciarliero e mirato. Le batterie
di Smith si mostrano continuamente cangianti e
colorate, ben supportate dal robusto e coriaceo
basso di Hoff. Il clima non cambia in Doom, anzi
si fa più euforico e divertito, con scambi continui
fra solisti ed accompagnatori in un bel mix di dixieland, swing, bop, cool e free. Su The Because
of e Possible la batteria passa a Scott Amendola
e tutto scivola verso lidi più rilassati, quasi esotico-latini nel primo caso, e nostalgici, da funerale di New Orleans nel secondo. Suadenti e
malinconici Asterisk e Who Died and Where I
Moved to, quest’ultimo con sfavillanti reticolati
R&B-soul-jazz fra i fiati. Di dylaniana memoria
Satisfied Mind, che coniuga blues della Louisiana
e free, mentre la ballad neworleansiana How to
Do Things with Tears, condita sempre da interventi d’impronta free, giunge come degna conclusione di un album meraviglioso._Ma.Ma.
JazzColo[u]rs | giugno ’13
29
CITTÀ DI STRESA
John hollEnBEcK
SongS I lIKE A loT
Ultima fatica del talentuoso e — fortunatamente
— non-categorizzabile fondatore del Claudia Quintet, che risponde alla richiesta di collaborazione
della Frankfurt Radio Big Band, qui anche committente e produttrice. L’estesa cultura musicale,
la grande curiosità intellettuale e uditiva, la raffinatezza di scrittura, permettono ad Hollenbeck
di giocare a mischiare i generi con alto e basso, in
costante e sovente proficuo dialogo. Tra “le canJohn hollenbeck (arr, dir, prc),
zoni che piacciono molto a John” — titolo indoviTheo Bleckmann (vc), Kate
mcgarry (vc), gary Versace (pn, natissimo — si trova di tutto: due temi del
org), Frankfurt radio Big Bang pluripremiato songwriter pop Jimmy Webb, Canvas di Imogen Heap, il “fantascientifico” Ornette
di All My Life, uno hit dei Queen, il tradizionale
Wichita lineman
canvas
Man of Constant Sorrow e a chiudere una propria
The moon’s a harsh mistress
composizione. L’elenco delle scelte era assai più
man of constant Sorrow
lungo, ma quelle alla fine selezionate devono esAll my life
sergli parse una degna rappresentazione dei proBicycle race
pri gusti ed interessi musicali. La concezione
Falls lake
orchestrale di Hollenbeck ha radici profonde in Gil
chapel Flies
Evans, Ives e nel minimalismo americano, ma da
qui muove per cercare un proprio modo espressivo. Il Glen Campbell interprete dei motivi di
Webb è stato uno degli idoli paterni: in questa
cArlo cATTAno TrIo
carlo cattano (s.br, fl.a), Alberto Amato (cb), Antonio
moncada (bt, prc)
uno
logic
Impromptu
monky
danza
Blacksmith
downy Skin
leva la lava
rhythm
mem
horSElESS hEAdmEn
g d Painting (ch), nick cash
(bt, prc), Ivor Kallin (bs.fretless), Paul Taylor (tbn),
scelta psicologico-affettiva e nella profonda consuetudine con i suoi brani si rintraccia una delle
chiavi di lettura del lavoro. Il Webb di Whichita
Lineman è parimenti emblematico: pop song americana, con influssi vagamente country-folk, orchestrata con abilità e gusto superiori ma senza la
volontà di intervenire sul materiale di partenza.
Anche i bravissimi McGarry e Bleckmann ne risentono e, troppo fedeli al dettato Webb-Campbell,
risultano alfine stucchevoli. Le cose vanno decisamente meglio nel resto del disco, sia perché la
scrittura ha il sopravvento, sia perché All My Life
rimane un gran tema, — ma la brava McGarry non
vale Asha Puthli. Alla fine i titoli migliori rimangono il lungo The Moon’s a Harsh Mistress, l’ipnotico Man of Constant Sorrow con una lunga
cavalcata di Arguelles, e i due finali in cui la straordinaria vocalità di Bleckmann è impiegata in
modo congruente: Falls Lake, che sarebbe perfetto per il Claudia Quintet, e Chapel Flies, liquido
e fluttuante, basato su un semplicissimo arpeggio
timbricamente iridescente di flauti, corni inglesi e
con continue lievi sospensioni che lasciano da solo
il pianoforte di Gary Versace._An.Ga.
ImPromPTu
Vanto dell’entroterra siculo e la Sicilia tutta,
Carlo Cattano è un jazzista, sassofonista e flautista, che se vivesse in Germania, in Belgio o anche
in Francia finirebbe a suonare insieme a Brötzman, Emler ed infine pure Zorn. Mente aperta e
schietta, animo profondo, il suo flauto ha un
suono che proviene da lontano, soffiato come un
omologo peruviano ed arcuato come quelli orientali o del folk russo: su questo registro si muove
Uno, mollemente accompagnata dal contrabbasso
di Amato e le spazzole di Moncada. Molto concettuale la progressione di Logic, dove invece è il suo
baritono a risaltare, multisfaccettato come i polinomi che formano il brano. Impromptu si svolge
su di un canovaccio in gran parte improvvisato
con contributi ricercati: Cattano ancora al flauto
assume la seminale lezione incompiuta di Dolphy
più che quella futuristica — o futurista — di Threadgill. Un blues approntato sul basso marciante
dell’impeccabile Amato e che di monkiano, come
il titolo Monky suggerisce, oltre alla scarna architettura tematica, ha la spigolosità delle linee improvvisative percorse dal baritono su vari
denominatori temporali. La cavata poderosa del
(Anaglyphos - 2012)
contrabbassista svolge un fraseggio articolato ed
avvincente, tanto quanto il gioco di charleston e
spazzole sfarfallanti al centro del turno di Moncada. A metà fra tribale e folk siciliano — percussivi contrabbasso e batteria — Danza è tutta
ballata sugli armonici del flauto, una tecnica davvero mirabile. Blacksmith sgrana un funk snodato
su più piani, splendide le nervature del baritono,
pimpante il contrabbasso, ellittiche le batterie,
con due strepitosi monologhi della ritmica, ed
una cavalcata solitaria di Cattano fra note abrasive ed ance scoppiettanti. Seguono tre pezzi parimenti rocciosi, Downy Skin, un blues degno
degli organici mingusiani di piccolo taglio, la galvanizzante Leva la Lava, percorsa per elettrocuzione dall’unisono baritono-contrabbasso sul
flusso di corrente rilasciato dalle fibrillanti percussioni di Moncada, e Rhythm, sincopato rhythm
change apparentemente schizoide, montato sul
pulsante walking di Amato. Infine Mem, di Moncada, che sembra annodare un legame invisibile
con il subconscio, un po’ per il disegno tematico
mesmerizzante, un po’ per l’ancestrale blues minore che lo pervade._An.Te.
ThE WholE nInE YArdS
C’è chi li definisce un collettivo “cosmico industriale”, chi li considera rock-progressive, chi li
avvicina ad un combo indie rock, mentre loro descrivono la loro musica come “skronk psichedelico”, dove skronk sta per dissonante
avanguardia. Dinanzi a questo putiferio — inutile
— di definizioni, l’unica soluzione è ascoltarli.
Loro sono gli Horseless Headmen, un quartetto
messo insieme dall’enigmatico chitarrista e violoncellista G D Painting, con Paul Taylor al trombone, Ivor Kallin al basso fretless e Nick Cash alla
(Sunnyside - 2012)
(north circular rec. - 2012)
batteria e alle percussioni. Tutti musicisti di
lunga esperienza, con militanze nelle più svariate formazioni, dal duo alle orchestre di improvvisazione. Data di nascita l’autunno 2011 a
Londra, spesso in concerto chiamano altri strumentisti per contribuire al sound complessivo.
Come in questo loro debut-album, “The Whole
Nine Yard”, registrazione di tre live londinesi in
cui al quartetto si uniscono Roland H Bates alle
tastiere, Karl Blake alla chitarra basso, Alex Gray
al piano e Julia Doyle al contrabbasso. A Year
JazzColo[u]rs | giugno ’13
31
roland h Bates (pn, sint, campane), Karl Blake (ch.bs), Alex
gray (pn), Julia doyle (cb)
A Year late and a hundred
dollars Short
dread Fluid
Voltaire Stands Watch
Pacific and Black Five
Scratched Beyond help
Late and a Hundred Dollars Short parte con profilo basso, un’atmosfera sonora quasi impalpabile, per assestarsi su una combinazione di
accordi di chitarra e piano, con assoli che giungono a percorrere territori astratti. Dread Fluid
vede l’aggiunta di Blake, sul groove di Cash si sviluppano gli scambi fra trombone e chitarra, incisivi e quadrati. Voltaire Stands Watch offre
spunti di improvvisazione free combinata ai ritmi
pestanti di Cash. Pacific and Black Five varia la
geometria del gruppo sommando al trio PaintingThomAS Enhco
Thomas Enhco (pn), chris Jennings (cb), nicolas charlier (bt)
The outlaw
You’re Just a ghost
Träumerei
Train de nuit
Awakening - intro
Wadi rum
Soulmate
morning Blues
la Fenetre et la Pluie
Ballade pour un Esprit
nocturne
BoumBoumBoum - intro
open Your door
choral
christophe monniot (sa, s.br,
ssp), didier Ithursarry (fs),
guillaume roy (vl), Atsushi
Sakaï (vlo)
Amazing grace
Spanish, ouiz et money hot
heureux
l’épingle du Jeu
mécanique Samovar
le Sommeil de l’Ange
lettre à marie W
Valse pour Alex
Avant Back
Back Train
les Amoureux des Bancs
Publics
32
JazzColo[u]rs | giugno ’13
FIrEFlIES
Terzo disco per il ventitreenne parigino Thomas
Enhco che, nonostante la giovane età, si è già
fatto notare nel mondo della musica: sia per i
numerosi premi, tra i quali il Django d’Or 2010
ed il FIPA d’Or 2012, sia per essere compositore
di colonne sonore, sia, inoltre, per una fittissima
agenda di concerti che lo hanno portato a visitare 14 paesi e quattro continenti. Trasferitosi a
New York nel 2012, ha pure inciso con grandi
nomi del jazz, da Jack De Johnette a John Patitucci, esibendosi con diverse formazioni, dal
duo al quartetto. In questo disco, Encho si è circondato dei musicisti con cui ha condiviso due
anni di tournée. La coppia ritmica JenningsCharlier, contrabbasso e batteria, riesce a sviluppare un grande interplay con il pianista, con
idee e musica che creano un flusso costante catturando l’ascoltatore. Una band empatica dove
ogni membro mette a disposizione degli altri
tutte le sue brillanti capacità, doti musicali,
passione ed intensità senza cercare di primeggiare rispetto ai partner. “Fireflies” contiene 13
brani, composti interamente da Enhco, fatta eccezione per l’interpretazione di Träumerei, da
“Kinderszenen, Op. 15” di Robert Schumann,
monnIoT-IThurSArrY-roY
Kallin-Cash il piano di Gray ed il contrabbasso
della Doyle: i colori si arricchiscono dei toni rumoristici del primo e dell’arco della seconda, con
un’interessante fusione fra la chitarra di Painting
e il piano di Gray. In chiusura la band mostra in
Scratched Beyond Help il suo lato più sperimentale, ricerca timbrica per Bates e tecniche estese
sul trombone di Taylor, senza dimenticare i pedali di Painting ad aumentare, insieme a Kalin e
Cash, il volume del finale, prima di tornare ad
una serenità addirittura campestre._An.Rig.
dove il pianista dimostra grande raffinatezza, lirismo e dolcezza. Le altre composizioni presentate rappresentano un’esplorazione della luce, i
brani più veloci ed accattivanti, e del buio,
quelli lenti e riflessivi, che evocano ampi spazi
carichi di melodia, tutti conditi da un sempre
presente swing. Tra i primi, tutti caratterizzati
da una ricchezza ritmica non comune, risaltano:
The Outlaw, probabilmente il brano migliore
dell’album che, ad una introduzione dissonante,
alterna un tema affascinante con un assolo di
piano mai scontato, il brevissimo Morning Blues,
per continuare con Wadi Rum, La Fenetre et la
Pluie, e finire con Open Your Door che, al tema
riflessivo, fa seguire un intenso assolo di piano.
Quando le atmosfere si fanno rarefatte, Enhco
fa emergere tutta la sua sensibilità ed amore
per la melodia, come in You’re Just a Ghost oppure Train de Nuit, dove l’improvvisazione
evoca un treno che sfreccia nella notte, o ancora Ballade pour un Esprit Nocturne, concludendo il Cd con una dolcissima Choral. Un disco
che svela un giovane artista ed una formazione
da seguire attentamente, magari ascoltandola
dal vivo._Da.Su.
STATIon mIr
Terzo disco a proprio nome, dopo “Vivaldi Universel”, rivisitazione in chiave jazz delle celebri
“Quattro Stagioni” del compositore italiano, e
“This Is C’est la Vie”, all’insegna di una ricercata
miscela di elettronica ed improvvisazione, il plurisassofonista Christophe Monniot dà ancora una
sterzata diversa e particolare alla sua musica. In
questo “Station MIR” — non soltanto il nome
della stazione spaziale russa ma anche l’acronimo delle iniziali dei musicisti — guida un trio
totalmente acustico, completato dal fisarmonicista Didier Ithursarry e dal violinista Guillaume
Roy, a cui si aggiunge il violoncello di Atsushi
Sokaï in alcuni brani. Si parte con Amazing
Grace, probabile retaggio di un’infanzia in cui il
padre cantava nei cori religiosi, interpretata in
modo struggente dal violino di Roy, dove Ithursarry si incarica sia degli accordi che di trascinanti parti solistiche. Del fisarmonicista sono
pure i volumi dell’intensa Back Train, con ritmo
punteggiato dal violoncello e dal baritono, mentre violino e fisarmonica intrecciano un incessante dialogo. È inevitabile che alla fisarmonica
spetti il compito di ampliare la base timbrica aumentando la densità dei colori del trio quando
(label Bleu - 2012)
(Triton – 2012)
questo si trasforma in quartetto con l’inserimento del violoncello. La musica originale di
Monniot è variegata, ed anche in questo contesto
acustico i suoi sax sviluppano lunghi fraseggi discorsivi e coinvolgenti. Allo stesso modo, i suoi
compagni vi si immergono tirando fuori il meglio
delle proprie capacità grazie alla potenza evocativa dei brani, semplici e diretti. Ma anche in
quei casi in cui le composizioni si presentano in
apparenza permeate di una certa leggerezza, la
ricchezza degli sviluppi di cui i solisti sono capaci
ne rivela la complessità: una complessità a volte
sofisticata, più spesso immediata, ma mai
astrusa o cerebrale. La particolare musicalità del
sassofonista di Caen si desume anche dal repertorio con il quale viene a confrontarsi: l'ultimo
brano, Les Amoureux des Bancs Publics, è un
grande successo del celebre cantautore e poeta
Georges Brassens. E per chi non lo sapesse, Monniot tiene a precisare che MIR in russo vuol dire
“pace” ma anche “mondo”: un mondo in cui intende far convivere pacificamente insieme il
gusto per il jazz, la musica russa, la musette, e
ancora swing, improvvisazione e contrappunto. E
tutto questo si trova in “Station MIR”._Ma.Je.
Black
L’ultimo disco di Altschul come titolare risale al 1986: “That’s
Nice” (Soul Note). Quindi, non si può che salutare con entusiasmo
questo suo nuovo lavoro. Di Altschul si ricorda ovviamente il ruolo
di protagonista dell’avanguardia degli anni Settanta: nel trio di
Chick Corea e nel quartetto Circle; motore dei gruppi di Anthony
Batterista di lungo corso, dei suoi 70 anni,
Braxton; complemento indispensabile per
BARRy ALTSCHUL
compiuti lo scorso gennaio, più di 50 Barry
Dave Holland; sostegno prezioso per Sam
THE 3DOM FACTOR
Altschul li ha suonati collaborando con
Rivers e Paul Bley. Che quella formidabile
(TUM Rec. — 2013)
un’infinità di jazzisti e avanguardisti, da
stagione abbia prodotto semi fecondi, lo
Paul Bley a Steve Lacy, Chick Corea, Dave
dimostra ampiamente questa incisione, in
Holland, Anthony Braxton fino a Sam Ricui Altschul ritrova Fonda (membro del
vers ed altri luminari dell’AACM. In questo
FAB Trio con lui e Billy Bang) e prosegue la
suo disco da leader, il primo dopo circa un
recente collaborazione con Irabagon. Auquarto di secolo, chiama accanto a sé Joe
tore di ben nove brani, il batterista opera
Fonda, autorità del contrappuntismo free
una riflessione critica sul suo passato in
che con lui ha militato nel FAB Trio fino
tre circostanze. Natal Chart proviene dal
alla dipartita del mitico Billy Bang, e Jon
suo primo disco “You Can’t Name Your
Irabagon, esuberante tenorista dei Mostly
Own Tune” (Muse, 1977). Prende le mosse
Other People Do the Killing nonché scateda una sequenza seriale e sconfina in
nato titolare di propri progetti. Diversi i liun’area free, dove Irabagon dà fondo ad
velli di lettura. Intanto la generosa
asprezze timbriche degne di Albert Ayler e
condivisione della scena con un giovane
Pharoah Sanders, con suoni stoppati, verampollo: una prassi tipica dei grandi, non
trosi e laceranti. C’è anche un’allusione
per forza legata ad un’età veneranda —
al jazz delle origini, col tenore che si avMichael Brecker docet —, che è sempre
ventura sui sovracuti. Irina intitolava un
stata il sale del jazz d’Oltreoceano, ma
disco Soul Note del 1983 con Enrico Rava,
che nell’eurocentrico egocentrismo viene Musicisti: Barry Altschul (bt), Jon IrabaJohn Surman e Mark Helias. Raffinatissima
spesso trascurata, salvo rari casi. Neppure gon (st), Joe Fonda (cb)
ballad, dai rarefatti intervalli, che pocasuale, a tal proposito, è la scelta dei
trebbe appartenere al repertorio di Paul
brani, tutti tratti dalla discografia del Brani: 1. The 3dom Factor, 2. Martin’s
Motian per il particolare uso dello spazio
drummer newyorkese, su cui Irabagon dà Stew, 3. Irina, 4. Papa’s Funkish Dance,
e gli spunti melodici. Irabagon dà prova di
una convincente prova non già del suo ta- 5. Be out S’Cool, 6. Oops, 7. Just a Simnotevole controllo timbrico e dinamico
lento, indiscutibile, quanto di un’innata ple Song, 8. Ictus, 9. Natal Chart, 10. A
delle risorse del tenore; Fonda si profonde
capacità a calarsi nei registri più vari. Pun- Drummer’s Song
in un intervento di rara pregnanza nella
tare sui giovani, dunque, ma non per torsua concisione. Si può tracciare un paralnare alla ribalta — ché Altschul non se n’è
lelo con Just a Simple Song, benché qui la
mai discostato — avvalendosi del loro apstruttura sia quella della ballad classica.
peal o per riesumare vecchi successi nel
Firmato da Carla Bley, Ictus si riallaccia al
nome della tradizione o di qualche lascito
sodalizio con Paul Bley ed è interpretato
ereditario, bensì per misurarsi con loro e confermare come le de- su un up tempo vertiginoso, in una sorta di free bop. Martin’s
cantate rivoluzioni di oggi altro non sono che i frutti di semi sparsi Stew è alimentato da un bordone prodotto dall’arco, da un tegià molto tempo fa. Del resto, le sue spinte propulsive sono on- nore zigzagante e dall’uso coloristico di pelli e piatti. Fonda si
nipresenti — bacchette, spazzole, fischi, campanacci e giocolerie ritaglia un cospicuo spazio sempre con l’arco. Irabagon mette in
varie — con energia davvero invidiabile e non c’è un brano in cui mostra un fraseggio frammentato, con venature robuste r&b, apAltschul si limiti soltanto a guardare il sassofonista. La struttura parentabile a quello di Ellery Eskelin. The 3dom Factor è un tema
dei pezzi offre ampi margini di manovra ai tre: si ascolti l’equili- fortemente strutturato, di impronta nettamente ritmica; tant’è
brio generale delineato, anche durante l’assolo di Fonda, nella vero che le figurazioni della batteria, tonanti e circolari, costisplendida Just a Simple Song (dal repertorio del FAB Trio), ballata tuiscono uno stimolo continuo per i partner: il pizzicato strapd’antan ma di una leggerezza e freschezza di rado riscontrabili in pato di Fonda, le frasi brucianti di Irabagon. Be out S’Cool vanta
analoghi esempi dei nostri giorni. E perfino in Irina, il tempo largo caratteristiche analoghe nella conformazione del tema, con
crea una lenta cadenza riempita da rilassati assolo. Natal Chart cambi metrici che poi danno luogo a frequenti sconfinamenti atopresenta un campionario di stili: il free, il bop e una ventata di nali. Oops sviluppa un poliritmo afrocubano a cui si adegua anche
blues-jazz popolare molto divertente. Per nulla stantio, il bop ce- Irabagon con segmenti ritmici e spirali; nell’assolo Altschul non
lato in Papa’s Funkish Dance è piuttosto vivificato dal piglio del te- solo mantiene l’impianto poliritmico ma esprime anche valenze
norista e dalle sempreverdi bacchette del titolare, come pure Be melodiche. Papa’s Funkish Dance nasce da un sagace frazionaout S’Cool, con echi di Monk e Gillespie. Sul piano storico, è Ictus mento di una latente traccia funky. Anche qui emerge un certo re— composizione risalente al periodo della collaborazione con Paul troterra r&b nel suono e nel fraseggio del tenore. A Drummer’s
Bley e scritta da Carla Bley, unica nel Cd non firmata da Altschul Song è tutt’altro che un assolo; piuttosto, una sequenza struttu— a mostrare con il suo bruciante rhythm changes come già negli rata di figure create con controllo assoluto di dinamiche e colori.
anni ’60 l’innovazione sul solco della tradizione fosse un pallino Degna conclusione di una prova magistrale._En.Bo.
di molti. Sono invece inediti l’eponimo The 3dom Factor, dai
tratti ornettiani, Oops, dai colori esotico-caraibici e A Drummer’s Song, con assortite spruzzate di piatti e tamburi, in un drum
solo di Altschul che suggella la qualità dell’intero album._An.Te.
White
eventuali
RADIO
Albania
Boom Boom Radio 101.2 FM (Tirana)
Austria
Neno Point Field (Salisburgo)
Belgio
Crooze FM (Antwerp)
Bulgaria
Jazz FM Radio (Sofia)
Danimarca
DR Jazz (Copenhagen)
Radio Jazz (Copenhagen)
Francia
Kanaljazz on live365.com
Radio RVB
Radio-G 101.5 FM (Angers)
Radio Grenouille (Grenouille)
Radio Albatros (Le Havre)
Swing FM (Limoges)
Frequence Jazz (Lione)
Radio France (Parigi)
TSF 89.9 (Parigi)
Germania
Radio 42 (Amburgo)
Jazz Radio.net (Berlino)
Hot Club Radio (Duisburg)
Italia
Radio SNJ
Radio Capital
“Suite Jazz” e “Battiti” su Radio 3
“AnimaJazz” su PuntoRadioCascina
(Toscana)
Radiopellenera (Milano/Bari)
Radiovinilemania (Parma)
Radio Alt (S. Teresa di Riva - ME)
Radio Web Italia (Sabaudia - LT)
Sorrento Radio (Sorrento - NA)
Lituania
Jazz FM (Vilnius)
Macedonia
Jazz FM 100.8 (Skopje)
Malta
Jazz Diaspora
Norvegia
Jazzonen (Bergen)
Olanda
Alphen Stad FM
Kabelradio
De Concertzender (Hilversum)
Afterdinnerjazz, Radio Hoogeveen
(Hoogeveen)
Arrow Jazz (The Hague)
Jazz Radio2 (The Hague)
34
JazzColo[u]rs | giugno ’13
Polonia
Jazz Radio (Cracovia e Varsavia)
Principato di Monaco
Radio Monte Carlo
Regno Unito
Totally Radio
The Hillz Radio (Coventry)
Jazz FM.com (Londra)
Solar Radio (Londra)
The Jazz (Londra)
BBC Radio3 (Londra)
Jazz Syndicate Radio (Londra)
Soft Jazz Expresso (Londra)
Jazz Syndicate Radio (Scozia)
BBC Radio Scotland (Scozia)
Russia
Radio Jazz (Mosca)
Relax FM (Mosca)
Slovenia
Radio Tartini (Piran)
Spagna
Barcelona Jazz Radio (Barcellona)
All That Jazz (Malaga)
Svizzera
ESpace 102.5 FM
Swiss Jazz (Berna)
Radio Jazz International (Crissier)
RTSI - Radiotelevisione svizzera di
lingua italiana
Ucraina
Radio Renaissance (Kiev)
Ungheria
Jazz Radio (Budapest)
jazzColo[u]rs
email-zine di musica jazz
Periodico Mensile
(reg. al Tribunale di Palermo n.46 del 18/12/2007)
Anno VI - numero 6 (giugno 2013)
direttore responsabile
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coordinamento redazionale
Piero Rapisardi
progetto grafico
Antonio Terzo e Stephen Bocioaca
CREDITI
foto di copertina
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quarta di copertina
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hanno collaborato per i testi
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Andrew Rigmore
Marc Jessiteil
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Marco Maimeri
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hanno collaborato per le foto
Juan-Carlos Hernández
Giorgio Alto
Daniele Molajoli
Andrea Feliziani
Davide Susa
Alessandra Freguja
Heiko Purnhagen
Stefano Landi
Maurizio Zorzi
USA
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Dig Jazz Radio
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JazzColo[u]rs | giugno ’13
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