Gypsum silente - Galleria Benappi
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Gypsum silente - Galleria Benappi
Gypsum silente Gypsum silente Via Andrea Doria 10, Torino Antichità Sibona Via Bernardino Galliari 37, Torino 35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino La Bottega di San Luca - Benappi 35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino (iv 0 ) .0 itore 35 all’ed €a ass d Gypsum silente Gypsum silente 35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino catalogo della mostra a cura di ARMANDO AUDOLI SANDRA BERRESFORD MONICA TOMIATO testi di ARMANDO AUDOLI SANDRA BERRESFORD RAFFAELE MONDAZZI MONICA TOMIATO La Bottega di San Luca-Benappi Antichità Sibona Questo catalogo è stato ideato per la mostra Gypsum silente - 35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino, 25 settembre - 15 novembre 2008, ospitata dalla Bottega di San Luca - Benappi, via Andrea Doria 10, Torino e realizzata in collaborazione con Antichità Sibona, Torino. Il nucleo delle 35 sculture provenienti dallo studio di Edoardo Rubino è in via di acquisizione da parte della Regione Piemonte. La Bottega di San Luca s.a.s di M. Benappi & C., via Andrea Doria 10, 10123 Torino Tel. +39 011 812 73 58 - e-mail: [email protected] - www.labottegadisanluca.it Antichità Sibona & C. s.a.s., via Bernardino Galliari 37, 10125 Torino Tel. +39 335 527 00 41 Si ringraziano per cortesia e disponibilità: Marco Albera, Piero Bassani, Virginia Bertone, Andrea Bistolfi, Dimitri Brunetti, Caffè Baratti & Milano, Walter Canavesio, Chiara Celli, Renato Columba, Laura Facchin, Robert Freidus, Bruno Giordano, Maria Flora Giubilei, Maria Mimita Lamberti, Museo dei Bozzetti (Pietrasanta), Alessandra La Terra, Clotilde e Lidia Luciano, fratelli Macrì, Albina Malerba, Fausto Mosca, Paolo Pinamonti, Posteitaliane filiale di Torino, Mauro Scienza. Un affettuoso ringraziamento a Franca Dalmasso, sempre disponibile nei suoi preziosi consigli e un sincero atto di gratitudine a Pino Mantovani. Riprese fotografiche: Studio Gaidano, Torino Giorgio Olivero, Torino Referenze fotografiche: Archivio Eredi Rubino, Torino Archivio fotografico Museo dei Bozzetti, Pietrasanta Archivio fotografico di Edison S.p.A. Gestione Idroelettrica, Bolzano Archivio Luciano, Torino Armando Audoli, Torino Sandra Berresford, Ameglia Alessandro Caldana, Torino Robert Freidus, Londra Giorgio Stella, Torino Traduzioni: Sandra Berresford Coordinamento grafico: Santo Alligo Allestimento: Arch. Germano Tagliasacchi Restauro dei gessi: Gipsoteca, Torino “Scuola per Artigiani e Restauratori Maria Luisa Rossi”, Torino La Galleria è a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare. Sommario Premessa Preface pag. 11 pag. 13 Frammenti di un patrimonio d’arte: i gessi di Edoardo Rubino Fragments of Artistic Heritage: the Plaster Casts and Models of Edoardo Rubino Monica Tomiato pag. 15 pag. 21 L’enigma Rubino. Questioni aperte sulla fisionomia di uno scultore europeo tra arte e letteratura The Rubino Enigma. Reflections on the Physiognomy of a European Sculptor in an Artistic and Literary Context Armando Audoli Edoardo Rubino e il Laboratorio Luciano: storia di una collaborazione Edoardo Rubino and the Luciano Studio: the Story of a Partnership Sandra Berresford pag. 25 pag. 57 pag. 75 pag. 93 Catalogo delle opere Monica Tomiato pag. 103 Nota sul restauro delle opere pag. 167 Procedimenti tecnici e modalità operative nella scultura italiana tra Otto e Novecento Raffaele Mondazzi pag. 169 Cronologia della vita e delle opere di Edoardo Rubino pag. 187 Bibliografia consultata pag. 197 Premessa Quando tempo fa l’amico Pierluigi ci prospettò l’ipotesi dell’acquisto dell’atelier di Edoardo Rubino, inutile nascondere che, nonostante si fosse pigramente in vacanza, i sensi si risvegliarono, l’adrenalina salì e la risposta fu: checosaspettidattidafare. Di fatto era Pierluigi che stava lavorando e la risposta che poteva apparire un po’ brutale, con connotazione da basso profilo mercantile, nella realtà, fu quella in ragione di quello stato d’ansia che si pone ogniqualvolta si teme che vari impedimenti possano alterare il buon esito di un’operazione. E, in tutta sincerità, l’operazione era certamente di tipo mercantile ma i pensieri che seguirono immediatamente la proposta erano rivolti al fatto che si stava smembrando uno degli ultimi studi torinesi di scultura di primo ’900 e che sarebbe stato veramente un peccato, una volta acquisitolo, disperdere le testimonianze rimaste, senza prima almeno tentare una ricognizione di quel materiale. Si trattava delle testimonianze delle opere in gesso rimaste fino ad allora nell’atelier torinese. Fu necessaria una scelta delle sculture ma, fortunatamente, fu piuttosto generosa; meglio non si potè fare, ma poco rimase ancora appeso. Ci trovammo di fronte a un cospicuo numero di sculture che recavano i segni di anni e anni trascorsi nell’abbandono più totale, sporche, mute, alcune un po’ rotte e, soprattutto di gesso, mach ëd giss, solo di gesso, come avrebbe detto qualche vecchio torinese non particolarmente illuminato. A dispetto di ogni antiquato preconcetto si misero in moto tutti i meccanismi necessari per poter far rivivere le sculture, ridare loro la dignità per la quale furono create e capire o, quantomeno tentare di scoprire qualcosa in più del loro artefice, la cui figura, a parte qualche indagine sporadica, non era mai emersa a tutto tondo. L’idea di una mostra che si muovesse dallo spunto dell’idea d’atelier nacque all’unisono. In fondo si trattava di affrontare prima il restauro e poi lo studio delle opere, unito all’indagine di un artista affatto estroverso. Con un’intima scommessa demmo inizio all’avventura con le forze delle due gallerie. E qui, senza falsi pudori o sbavature di autoincensamenti, vorremmo veramente spezzare una lancia a favore di chi, come noi, piccole, anzi piccolissime istituzioni private, crede in un lavoro serio, dove il mercato può scrollarsi di dosso quell’ormai obsoleto fardello di un’accezione negativa quanto controproducente che tanto ha condizionato il mondo dell’arte. E se è pur vero che talvolta le ragioni ci sono state – i più vecchi e ahimè, bisogna dirlo, grandi antiquari o mercanti d’arte spesso non andavano certo per il sottile – ci auguriamo che i nostri sforzi aiutino a creare una generazione sempre più attenta al rigore, alla qualità, al confronto e, perché no alle emozioni. Certamente se i grandi antiquari di un tempo non andavano per il sottile, oggi, il dilagante protagonismo dell’arte 11 12 contemporanea ubriaca del marketing più spregiudicato non è da meno, compromettendo qualità e ricerca ma, evidentemente, “business is business”. Si parlava di restauro, e il restauro è stato lungo, pensato, dibattuto; grazie alle preziosa collaborazione di Raffaele Mondazzi da una parte e alla competenza e sensibilità di Fausto Mosca che ha diretto in modo impeccabile i ragazzi della “Scuola per Artigiani e Restauratori Maria Luisa Rossi” di Torino; si parlava di indagine storico-artistica e l’indagine c’è stata, non certamente esaurita negli esiti prodotti, come non era negli intenti, ma indubitabilmente condotta con molto entusiasmo; all’inizio, spesso, un po’ perplessi e spaventati dall’incognita e poi, via via, a mettere tasselli che, come per magia, affioravano dal cilindro degli autori dei testi. Che si trattasse di magia o di più semplice perseveranza, ma ci piace credere a tutte e due, l’avventura è giunta al termine, grazie a tutti coloro che ci hanno creduto; Edoardo Rubino, scultore italiano nato a Torino, non appare più così enigmatico e anche le sue impronte impresse nel gesso ci hanno trasmesso una sottile emozione. Altrimenti non ci avremmo creduto. Nadia Benappi Preface When, some time ago, our friend Pierluigi proposed purchasing Edoardo Rubino’s atelier, it would be useless to deny that, although we were lazing on the beach at the time, our instincts were awakened, the adrenalin rushed and we answered «what-are-you-waiting-for?get-on-with-it!». In actual fact Pierluigi was already on the job and our reply, which may seem a little abrupt, almost too mercenary, in fact depended on a state of anxiety that always accompanies such transactions and the fear that something or other may go wrong at the last moment. To be perfectly honest, it certainly was a commercial transaction but we were also immediately struck by the fact that one of the very last important early 20thC sculpture studios in Turin was being split up and that it would have been a great pity, once the sale had gone through, to have dispersed what testimony remained before having tried, at the very least, to first identify exactly what there was. We were confronted with a collection of gessi (plaster models and casts) which had remained in Rubino’s Turin atelier. We had to choose among these works but we were lucky enough to be able to take a good many and just a few were left hanging. In the end we had a considerable number of Rubino’s works which had lingered for years and years in total abandon, dirty, silent, some a bit broken, and, above all, made of that “poor man’s” material gesso or plaster, «mach ëd giss»/«nothing but plaster» as some old, and not particularly enlightened, resident of Turin might have said. But we ignored antiquated preconceptions of this nature and forged on, setting into motion all measures necessary to bring the sculptures back to life, to restore their dignity of purpose, and to understand their creator, or at least try to discover something more about him, since he had been the subject of but sporadic investigation and certainly had yet to emerge in all his depth. We all agreed that it would be a great idea to put on an exhibition taking the sculptor’s atelier as our starting point. Firstly, the works would have to be restored, of course, and then studied alongside their creator, who was anything but extrovert. The two galleries united their forces to take on this venture together. In this context, though we should hate to be accused either of false modesty nor, indeed, of “blowing our own trumpet”, we should like to say a word in favour of small, even tiny, private galleries that are seriously committed to their work; it is high time that such galleries cast off the obsolete burden of criticism, as negative as it is counterproductive, associated with their mercantile activities, which has so conditioned the world of art. And though it must be admitted that sometimes such criticism was justified – some of the greatest antique and art dealers were none too choosy – we hope that our efforts will help to create a more rigorous younger generation, heedful of qual- 13 14 ity, comparison and, why not, emotions? Certainly, if the great antique dealers of the past were none too choosy, nowadays the stage has been taken by contemporary art, inebriated with the most ruthless marketing, which no less compromises quality and research… but evidently “business is business”. We mentioned restoration and this was, indeed, thought out, debated at length and painstakingly drawn out; thanks to the precious contribution of Raffaele Mondazzi, on the one hand, and, on the other, to the competence and sensibility of Fausto Mosca who impeccably supervised the work of the students from the “Maria Luisa Rossi School for Craftsmen and Restorers” in Turin. We also spoke of art historical research and this, too, was undertaken, with great enthusiasm, even if it is not, nor was it our intention that it should be, exhaustive. We started out a bit perplexed, daunted by the unknown but then, step by step, the pieces of the puzzle started to fall into place as if by magic, “pulled out of the hat” by the authors of the texts. Whether it was magic or sheer perseverance we cannot say but perhaps it was a bit of both, and now we have reached the end of our venture thanks to all those who believed in it. Edoardo Rubino, an Italian sculptor born in Turin, no longer seems quite so enigmatic and the traces of his fingerprints in the gesso have squeezed their way into our emotions. Had we not been emotively as well as intellectually involved, we would never have believed we could “bring it off”. Nadia Benappi Frammenti di un patrimonio d’arte: i gessi di Edoardo Rubino MONICA TOMIATO «Gentile Signora, Ho sentito in tutto il suo alto, commovente significato la prova di affettuosa considerazione che il grande, caro Amico Rubino mi ha dimostrato consentendomi di scegliere, fra le opere del suo studio, quelle che ritenessi più convenienti e significative per rappresentare al Museo Civico, da Lui tanto amato, la Sua scultura». Così Vittorio Viale, Direttore dei Musei Civici torinesi, si rivolgeva alla nipote dello scultore, Lucia Bernardi Tua, in una lettera datata 3 maggio 1954. Erano trascorsi pochi mesi appena dalla morte di Rubino e Viale, cui era toccato il compito di selezionare le opere che l’artista aveva voluto donare alle collezioni civiche, non nascondeva la difficoltà dell’operazione: «E mi vorrà perdonare se per la scelta che mi toccava fare ho impiegato un certo tempo: era in realtà ben ardua per me una scelta fra tante opere importanti e, sotto questo o quel riguardo, tutte di alta significazione per rappresentare l’arte di Rubino!».1 Un imbarazzo più che comprensibile se si pensa alla quantità di oggetti conservati nell’atelier dell’artista. L’elenco allora stilato da Viale registra la presenza di 70 gessi di varie dimensioni nello studio di via Asti, a Torino, più altri 6 suddivisi tra il magazzino di via Cinzano e Villar Perosa.2 A fronte di tanto materiale il numero limitato delle opere che il Museo avrebbe potuto acquisire e consegnare alla fruizione pubblica imponeva una scelta davvero ponderata. A complicare le cose c’era poi la palese difficoltà di ingabbiare in una definizione schematica la sfaccettata produzione di Rubino, e certo non sfuggivano a Viale i rischi di un frettoloso e penalizzante etichettamento critico; preoccupazione del resto condivisa da chi Rubino l’aveva conosciuto bene, come Marziano Bernardi, che nell’acuto e partecipe ricordo dello scultore pubblicato nello stesso 1954 sul “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle Arti”, denunciava la pericolosità di letture preconcette. «Nessun artista è immune dalle impronte del proprio tempo», scriveva Bernardi contestando le accuse di accademismo e freddezza retorica rivolte a Rubino, bersaglio come tanti altri colleghi scultori delle polemiche che nel teso clima culturale e politico del dopoguerra avevano investito la statuaria monumentale, finendo con l’affossare in blocco la produzione plastica “ufficiale” dell’ultimo ventennio. «Ma se di Rubino si esaminano le opere senza la pregiudiziale di determinate (ed oggi ben note…) posizioni critiche, vi si troveranno anche […] le impronte di una forte individualità, di un narratore conciso di fatti drammatici, di un modellatore che della realtà sapeva dare una sintesi vigorosamente e severamente espressiva. E l’ultimo ventennio poi di codesta sua produzione fu sorprendente […]».3 15 Rubino rifinisce il gesso per il monumento ad Umberto I di Aosta, 1903 ca. (foto archivio eredi Rubino) Era chiaro a Bernardi che all’interno dell’attività dello scultore, protrattasi per ben sei decenni, andavano fatti necessariamente dei distinguo, ma liquidare sbrigativamente la produzione degli ultimi vent’anni definendola senile o involutiva doveva sembrargli una forzatura che le opere stesse contraddicevano con la loro qualità. Una qualità anche (o innanzitutto) artigianale, «nobilmente, simbolicamente artigianale». Perché al di là dell’inevitabile modificarsi del linguaggio e delle committenze, a contraddistinguere l’arte di Rubino era proprio la concretezza del mestiere, accompagnata da una rigorosa autocritica e dall’insofferenza verso qualsiasi faciloneria o “furbizia”. Affiorava in quel testo – come già nel necrologio apparso su “La Stampa” all’indomani della morte dell’artista – il sospetto che le riserve della critica riflettessero anche un’imbarazzante carenza di lettura diretta sulle opere e che troppa attenzione fosse stata prestata a quelle più appariscenti, inevitabilmente assoggettate ad esigenze commemorative o celebrative.4 Ma Rubino non era solo l’autore del colossale Faro della Vittoria sul Colle della Maddalena o dei monumenti a De Amicis e al Carabiniere Reale (peraltro presenze di spicco in una città ad alta densità di monumenti pubblici come Torino); era anche l’artefice di un cospicuo numero di monumenti funerari e sculture a soggetto sacro, opere a carattere decorativo, medaglie, placchette e ritratti. È perciò significativo che nell’elenco delle opere scelte da Viale per il Museo civico torinese finiscano col predominare proprio gli aspetti meno noti e vistosi della produzione figurativa rubiniana e che anche l’attività degli anni Trenta Quaranta sia rappresentata con il dovuto rilievo. Ed è degno di nota che ad eccezione del marmo raffigurante la «bimba Luciano» (non sfuggiva a Viale la corretta identificazione del soggetto) tutte le opere elencate – bozzetti e modelli di rilievi o sculture a tutto tondo – siano in gesso.5 Spesso trascurati in passato perché realizzati con un materiale povero e deperibile, considerato meno “nobile” del marmo o del bronzo, i gessi originali serbano non meno dei bozzetti in terracotta, cera o plastilina le tracce del lavoro autografo dell’artista, che se ne serve per mettere a punto l’idea iniziale e la definizione formale dell’opera. È direttamente sul modello in gesso che si effettuano le correzioni e le rifiniture necessarie prima di procedere alla fusione in metallo o alla trasposizione in marmo o altro materiale durevole. La superficie dei gessi di Rubino reca abitualmente segni di interventi “a secco”, inequivocabile indizio di quel riflessivo e cauto procedere che per lo scultore fu un’esigenza costante, particolarmente sentita, si direbbe, negli ultimi decenni di attività. Si potrebbero citare a titolo d’esempio diverse opere, anche tra quelle esposte in questa occasione, ma basterà osservare la bella figura femminile della Tomba Chiesa (scheda 24) per apprezzare la finissima qualità della lavorazione. A pensarci bene è l’artista stesso che tramanda di sé, nelle foto che lo ritraggono, un certo tipo d’immagine: quella dell’artefice interamente dedito al suo lavoro, il più delle volte raffigurato proprio mentre è intento a rifinire i modelli in gesso delle sue opere. 17 18 Anno dopo anno i gessi si accumulano nello studio, testimoni silenti di una vita di lavoro. Un materiale insostituibile per poter ricostruire il corpus dell’artista, ma anche fragile ed ingombrante, soggetto a deperimento nel corso delle trasmissioni ereditarie ed ancor prima, per le cause più svariate, solo in parte riconducibili alla volontà dell’autore di evitare il rischio di speculazioni commerciali. Alcune lettere di Guido Luciano, assiduo collaboratore di Rubino, ci mettono sull’avviso ricordandoci i danni arrecati dalla guerra ai gessi di «Cherù» (siamo nel 1945) o la necessità di distruggere quelli dall’iconografia “compromettente” eseguiti nel ventennio littorio. Lo scarso interesse della critica non ha peraltro giocato a favore della conservazione del materiale dell’atelier rubiniano. C’è da rallegrarsi per la migliore sorte toccata alle gipsoteche di altri scultori attivi fra Otto e Novecento nel contesto torinese come Davide Calandra e Leonardo Bistolfi, ma se si pensa al numero e alla vitalità degli studi di scultura e dei laboratori di fonderia artistica esistenti a Torino ancora nei primi decenni del secolo scorso, il bilancio delle perdite resta drammatico quanto ad oggetti e documentazione. La mostra si propone di richiamare l’attenzione su un tassello significativo ancorché minimo di questo patrimonio d’arte maltrattato, con la speranza di sollecitare nuovi recuperi e nuove iniziative di ricognizione e di studio che possano contribuire ad evitare altre dispersioni. Nelle schede che seguono (alle pagine 103 - 168) e nella biografia conclusiva si è cercato di precisare la cronologia dei gessi in esame e di fornire i dati utili per un corretto inquadramento storico delle opere finite (che non sempre si è riusciti ad identificare e a localizzare). Grazie alla generosità delle persone – studiosi, funzionari, collezionisti e appassionati – che hanno messo a disposizione notizie e materiale fotografico o documentario spesso inedito è stato possibile colmare almeno parte delle carenze d’informazione sull’attività di Rubino, restituire al catalogo dell’artista opere andate distrutte, come la statua equestre di Mussolini realizzata per la centrale idroelettrica di Ponte Gardena (cat. n. 28) e correggere varie imprecisioni per quanto riguarda date e titoli di altre. Ma il lavoro di ricerca sviluppatosi attorno al piccolo nucleo di gessi recuperati è tutt’altro che concluso. L’auspicio è che possa in futuro estendersi anche ai molti disegni e schizzi autografi di Rubino che rappresentano il momento iniziale di progettazione delle opere plastiche (di particolare interesse quelli relativi al bassorilievo della Tomba Boido, in parte riprodotti alla scheda 8). E chissà che questo non possa contribuire a sgombrare il terreno da certi pregiudizi tenaci sulla qualità dell’opera grafica dello scultore… 19 Il Genio del Fascismo, già presso la centrale idroelettrica “Claudio Castellani” di Ponte Gardena, opera distrutta (archivio fotografico di Edison S.p.A. Gestione Idroelettrica Bolzano) Note 20 1 Archivio dei Musei Civici di Torino, CAA 830, Donazioni, Pratica Rubino. Viale ricoprì la carica di Direttore dei Musei Civici dal 1930 al 1965; Rubino fu membro del Consiglio direttivo – per la sezione d’Arte Moderna – nel biennio 1911-12 e quindi nel 1914-21, 1925-27 e 1936-39. 2 Ibid., Opere dello scultore E. Rubino esistenti nello studio, dattiloscritto. 3 Marziano Bernardi, Edoardo Rubino. 1871-1954, in “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle Arti”, anni 5 e 6, 1952-53 (ma 1954), pp. 229-231. 4 5 Marziano Bernardi, La morte di Edoardo Rubino, in “La Stampa”, 17 gennaio 1954, p. 3. Archivio dei Musei Civici di Torino, CAA 830, Donazioni, Pratica Rubino. Opere di Edoardo Rubino che il dott. Viale sceglierebbe per il Museo. Un altro elenco riguarda le opere individuate per un’eventuale mostra sull’artista, destinata a rimanere allo stato di progetto nonostante le buone intenzioni. La maggior parte delle opere di Rubino presenti nelle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino proviene dal legato dello scultore. Quasi tutte sono conservate attualmente nei depositi del museo. Fragments of Artistic Heritage: the Plaster Casts and Models of Edoardo Rubino by MONICA TOMIATO «Dear Madam, I am deeply conscious of the proof of my dear friend Rubino’s consideration towards me in letting me choose for the Civic Museum, from among the works left in his studio, those which I hold to be most appropriate and representative of his beloved Sculpture». Vittorio Viale, Director of Turin’s Civic Museums thus addressed the sculptor’s niece, Lucia Bernardi Tua, in a letter dated May 3rd 1954. Only a few months had passed since Rubino’s death and Viale, who had the task of choosing from among the works the sculptor had wished to donate to the city’s collections, could not hide how arduous a task this was: «He would forgive me, I’m sure, for the time it took me to make this selection: it was, indeed, difficult for me to choose among so many important works, all of them extremely significant for one reason or another in representing Rubino’s art!»1 He was understandably faced with an embarrassingly wide choice if one considers the sheer quantity of objects conserved in the artist’s atelier. The list that Viale drew up contains 70 pieces, maquettes, models and casts of various sizes in the Via Asti studio in Turin, plus six other pieces divided between a storeroom in Via Cinzano and Villar Perosa.2 Faced with so much material, the number and range of works that the Museum could afford to purchase for the public did indeed seem meagre. The selection was made still harder by the fact that it was clearly difficult and restrictive to pigeonhole Rubino’s multi-faceted production and certainly Viale was well aware of the risks involved in hastily classifying the works under this or that critical “label”; such concern was shared by those who had known Rubino well like Marziano Bernardi who, in a perceptive and passionate commemoration of the sculptor, published in 1954 in the “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle Arti”, denounced how very risky it would be to make preconceived judgements about the artist’s work. «No artist is immune to the characteristics of his or her own times», wrote Bernardi, contesting the accusations of academicism and rhetorical coldness made against Rubino, targeted, like so many of his fellow sculptors, by polemical attacks, in the tense cultural and political climate of the Post Second World War period, which were waged against monumental sculpture, resulting in the ditching, in its entirety, of the “official” sculpture of the previous two decades. «But if Rubino’s works are examined without taking prejudicial (and by now “standard”…) critical stances, then we will find the stamp of a strong individuality, a concise narrator of dramatic events, a man capable of modelling reality in a vigorous and severely expressive synthesis. And the last twenty years of his production were surprising […]».3 It was obvious to Bernardi that some process of fine distinction needed to be applied to the sculptor’s œuvre, prolonged as it was over no less than six decades, but to hastily liquidate the production of the last twenty years, defining it senile or involutional must have seemed to him a preconceived interpretation and one contradicted by the quality of the works themselves. A quality which was also, (or rather, above all) craftsman like and «nobly and symbolically» so. Because, however much his expressive language was inevitably modified, and however much it was determined by the kind of commission, Rubino’s art was distinguished by the expertise of craftsmanship, accompanied by rigorous self criticism and intolerance of anything that reeked of superficiality or “cunning”. In the aforesaid text – and in the obituary that appeared in “La Stampa” the day after the artist’s death – the suspicion arose that reservations on the part of critics was due to an embarrassing lack of direct contact with and interpretation of his works and that too much attention had been paid to the more obvious ones such as those inevitably subject to commemorative or celebrative specifications.4 But Rubino was not just the author of the colossal Victory Beacon on the Colle della Maddalena, of the Monument to De Amicis or to the Carabiniere Reale (significant contributions, 21 22 moreover, in a city, like Turin, full of public monuments); he was also the author of a considerable number of funeral monuments, of religious sculpture, decorative works and medals, plaques and portraits. It is indicative, therefore, that among the works chosen by Viale for the Turin Civic Museum, it is just these lesser known, less “showy” aspects of Rubino’s figurative production that predominate, alongside his activity in the 1930s and 1940s which is also given its due. It is remarkable, too, that with the exception of the marble portrait of the «little Luciano girl» (as Viale correctly entitled the work) all of the chosen pieces – maquettes, models in relief and in 3-dimensions – were in plaster.5 Although often ignored in the past because they are made of a poor and perishable material, considered less “noble” than bronze or marble, original gessi conserve traces of the hand of the artist no less than maquettes in terracotta, wax or plasticine in which the artist determines his original idea and the formal definition of his work. And the sculptor would intervene directly on the plaster model, correcting and finishing it, before proceeding to have it cast in bronze or carved in marble or any other more durable material. The surfaces of Rubino’s gessi are regularly marked with signs of intervention on the dry plaster, an unequivocal indication of that cautious and reflective creative process that the sculptor constantly required and which seems to have made itself particularly felt in the last decades of his work. Many examples could be cited, including several on exhibition here, but one will suffice for all: the lovely female figure of the Chiesa Tomb (cat. n. 24) where the extremely fine quality of workmanship may be observed. On reflection, it is the artist himself who has transmitted a certain type of image to us, in the various photographs that portray him: that of a craftsman entirely devoted to his work, more often than not portrayed when intent on finishing one of his plaster models. Year after year, the plaster maquettes, models and casts accumulated in his studio, silent witnesses of the work of a lifetime. Material that is absolutely irreplaceable in reconstructing the corpus of his œuvre but one which is fragile and cumbersome, subject to damage and breakages during the inevitable transfer of property from one hand to the next, or for whatever reason, only in part ascribable to the author’s wish to avoid commercial speculation. Several letters written by Guido Luciano, Rubino’s assiduous collaborator, put us on the alert when they recall the damage caused by the war to the gessi of «Cherù» (we’re talking about 1945 here) or the need to destroy those executed in the Fascist period that were “compromising” in subject. The paucity of interest shown on the part of critics for Rubino’s works has certainly not played in favour of the conservation of the gessi from his atelier. We can at least draw some comfort from the fact that Fate has been kinder to the collections of other sculptors active in the Turin ambience at the end of the 19thC and the beginning of the 20thC, such as Davide Calandra or Leonardo Bistolfi. If, however, we recall the number and vitality of the sculpture studios and artistic foundries still active in the city in the early years of the last century then the scales – both in terms of objects and of documentation – weigh heavily in favour of dramatic losses to the detriment of our artistic heritage. This exhibition aims at drawing attention to a small but significant piece of this heritage that has suffered so much mistreatment in the past, in the hope that other pieces of the puzzle will come to light, stimulating further research and avoiding any future occurrence of such lamentable dispersion. The catalogue entries (that follow on pages 103 - 168) and the concluding biography, attempt to collocate the gessi in question within a precise chronological and historical framework with reference to finished works, although it has not always proved possible to date and locate them. Thanks to the generosity of many people – researchers, collectors and enthusiasts – who have supplied data, photographs or often unpublished documentary information, it has been at least partially possible to fill in some of the gaps in our knowledge of Rubino’s oeuvre, to rediscover some, like the equestrian statue of Mussolini, executed for the Hydroelectric Power Station at Ponte Gardena (see page 19), as well as to correct various inaccuracies with regard to title and date. Nevertheless, the research undertaken on this small nucleus of restored gessi is far from being complete. We hope to be able to extend it to the many original drawings and sketches by Rubino, the first stage of his sculptural works, (those relating to the bas-relief for the Boido Tomb, partly reproduced in Catalogue entry n. 8, are particularly interesting) which are waiting to be studied and catalogued. Who knows… perhaps this would serve to definitively eradicate certain tenacious prejudices with regard to the quality of the sculptor’s graphic work… 23 Studio di nudo Studio di testa Torino, archivio eredi Rubino Notes Archives of the Turin Civic Museums, CAA 830, Donations, Rubino File. Viale was Director of the Civic Museums from 1930 to 1965; Rubino was a Member of the Board of Directors – for the section on Modern Art – in the two-year period 1911-12 and then again in 1914 -21, 1925-27 and 1936-39. 1 2 Ibid., typescript of Works by the sculptor E. Rubino existing in his studio. M. Bernardi, Edoardo Rubino. 1871-1954, in “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle Arti”, Years 5 & 6, 1952-53 (but 1954), Pp. 229-231. 3 4 M. Bernardi, La morte di Edoardo Rubino, in “La Stampa”, 17th January 1954, p. 3. Archives of the Turin Civic Museums, CAA 830, Donations, Rubino File. Opere di Edoardo Rubino che il dott. Viale sceglierebbe per il Museo. (Works chosen by Dr. Viale for the Museum). Another list concerns the works selected for a future exhibition on the artist which, despite good intentions, was never to be. The majority of works in the Collection of the Gallery of Modern Art in Turin were donated by the sculptor. Nearly all are now in the Museum’s deposits. 5 Giovanni Battista Carpanetto, Ritratto di Edoardo Rubino, 1896 (Pinerolo, collezione privata) L’enigma Rubino Questioni aperte sulla fisionomia di uno scultore europeo tra arte e letteratura ARMANDO AUDOLI E davvero, quello di Rubino, rischiava di rimanere poco più che un nome, riverito sì, ma vacante nella purtroppo assai lacunosa bibliografia intorno alla scultura a cavallo tra Otto e Novecento, se si eccettuano alcune fascinosamente impolverate ricordanze d’epoca e – avvicinandoci all’oggi – se si escludono la diffusa panoramica di Daniele Pescarmona,1 un ottimo approfondimento di Walter Canavesio,2 nonché un paio di tesi di laurea e una manciata di note sparse, a firme varie. Edoardo Rubino. Poco più che un nome – dicevamo – e un esordio folgorante nella Torino in modern style, che si stava aprendo all’Europa; la Torino della strepitosa esposizione internazionale del 1902 e delle pirotecnie floreali di Pietro Fenoglio: la Torino di Bistolfi, Canonica e Calandra; dell’anglofilo Cesare Ferro e del Carena ancora emulo di Carrière; di Carpanetto, Grosso e Tavernier, ottocentisti “rinnovati”; di Oreste Pizio e Luigi Onetti; del pigro Reviglione, innamorato pazzo delle chimere di Khnopff; di Anton Maria Mucchi e del suo fosco simbolismo gotico; la Torino di Domenico Buratti: pittore sociale, sodale di villici e poeti; dello sventurato Gariazzo, futuro profeta del “teatro muto”;3 di Cesare Maggi, divisionista dal pennello innevato; di Pastonchi giovane e di Gozzano giovanissimo dandy subalpino, dalla bocca tesa di malinconia e sempre bagnata d’assenzio (la fata verdeamara, il dissolvente degli impressionisti, il fantasticante); la Torino mia di Nicola Galante e del teutonico Curt Seidel, folle suicida sulle orme di Nietzsche; la città di Mantovani e Thovez critici temuti, di Amalia Guglielminetti4 sirena. Una Torino spasmodica, che si era già avvicinata alla temperie europea sull’onda degli intricati rapporti fra scapigliatura e arti figurative, indispensabili per comprendere la nascita della scultura moderna in Piemonte,5 fondamentali per capire il repentino spalancarsi di questa sugli orizzonti estetici d’oltralpe e per spiegare il fermento creativo che ha travolto gli scultori torinesi a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento. Il nodo si trovava proprio lì, all’incrocio fra i linguaggi artistici in subbuglio contro l’impaludamento risorgimentale. Ma c’è dell’altro. Sicuramente la statura carismatica di alcune personalità d’eccezione (quali 25 Copertina di Mario Reviglione per Le seduzioni di Amalia Guglielminetti 1921 26 La Pittura e La Scultura statue ornamentali per l’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa di Torino 1902 furono proprio quelle dominanti di Bistolfi, di Rubino, di Canonica e di Davide Calandra) era il motivo principale dell’afflusso a Torino di giovani pieni di talento, accorrenti dal resto d’Italia e dal mondo intero per frequentare gli studi degli scultori o per iscriversi all’Accademia Albertina, dove fino al giorno prima aveva imperato l’egemonia classicista di Vincenzo Vela e di Odoardo Tabacchi; altro punto saliente nell’incoraggiare la fioritura plastica torinese fu la presenza, in città, di importanti fonditori d’arte, figure sovente eccentriche e paradossali, ossessionate dalle proprie smisurate ambizioni e dalla tenuta qualitativa del loro lavoro (un nome su tutti: Emilio Sperati). Così la febbrile Torino fin de siècle si trovava sulla ribalta internazionale, pronta a contendere a Parigi il primato di capitale della scultura e delle arti decorative. Solo due episodi, per intenderci. Il Grand Palais parigino fu messo in piedi, nel giro di un paio d’anni, per ospitare l’Exposition Universelle del 1900, l’evento artistico che elettrizzò il mondo intero e che battezzò, con clamore inaudito, il secolo neonato. Un fenomeno mediatico globale, diremmo noi. Tanto che a coordinare i lavori di decorazione del palazzo venne chiamata la star del momento, Auguste Rodin, il quale convocò – tra i giovani collaboratori – un solo scultore straniero. Era un torinese: si chiamava Giovanni Battista Alloati e in patria si era già distinto nell’ideazione di curiosi oggetti d’uso quotidiano, concepiti in un precoce stile liberty. Oltre a rappresentare una fulgida promessa del simbolismo di casa nostra, Alloati poteva considerarsi l’antenato di un odierno designer. Non a caso, l’Exposition del 1900 segnò un punto d’arrivo proprio all’interno dell’acceso dibattito sulle arti decorative, inteso a infrangere una volta per tutte la barriera fra arti “belle” e arti “applicate”; dibat- tito estetico-sociale in cui non esitò a buttarsi a capofitto, immediatamente, anche Rubino.6 Secondo episodio: in seguito all’Exposition Universelle, Rodin – per tramite dell’ormai parigino Alloati – entrò in contatto con il critico e poeta crepuscolare Giovanni Cena, che nel giro di un anno si fece in quattro, insieme all’attivissimo amico Rubino, per organizzare una festa e un banchetto7 in onore del genio francese. La festa sabauda ebbe luogo al Circolo degli Artisti, il 25 ottobre 1901, e in quell’occasione Auguste, in viaggio per Carrara, si recò ad ammirare Il Dolore confortato dalle Memorie di Bistolfi, il supremo altorilievo per il monumento sepolcrale della famiglia Durio: fu, in un colpo, la consacrazione di Torino quale privilegiato centro italico di ricezione dell’opera e dello spirito rodiniani.8 Per di più l’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa del 1902, che ebbe una gestazione a dir poco travagliata, era già in programma nel 1899 (quindi Torino avrebbe dovuto addirittura battere sul tempo Parigi e la sua fastosa esposizione universale): ipotizzata poi per il 1901, si tenne invece nel 1902, sia perché l’anno precedente ci fu il regicidio di Monza, sia perché per il ’02 era prevista anche l’Esposizione di Belle Arti. «Torino, la più terribile delle città italiane. Barocca, algebrica, liberty, lunatica, spettrale, luogo di suicidi e di catastrofi, Torino sfugge alla presa. Città amante più che città madre, chiara e seducente in apparenza, vertiginosa nell’intimo».9 Già, ma non è solo Torino – come dice magnificamente Milo De Angelis – a sfuggire alla presa. Spesso risultano sfuggenti, con le loro vertigini nascoste, pure i personaggi che vi hanno recitato il proprio romanzo d’arte e di vita. Personaggi straordinari, sebbene difficilmente decifrabili, seppure catalogabili a stento. Così è per Edoardo Rubino. L’enigmatico Rubino. Egli, a differenza di Bistolfi, non ha inventato uno stile talmente riconoscibile, una cifra che balza all’occhio con scattante e immediata evidenza; diversamente da Bistolfi, non ha creato un intero mondo spirituale e visivo, ad altissima densità letteraria e mai visto prima, quantunque parzialmente mutuato dalle visioni degli adorati confratelli preraffaelliti: un mondo estetico che, con i suoi sofisticati preziosismi simbolisti, è stato capace di conquistare l’Europa e di varcare addirittura gli oceani, per spingersi a colonizzare – per esempio – teatri e cimiteri del continente latinoamericano. Tutto questo Rubino non lo ha fatto, siamo d’accordo. Il suo modo di esprimersi, piuttosto in sordina, da vero torinese, non era però meno ricco di stimoli e fermenti. Un modo meno gridato e tirato rispetto a quello del grande casalese, ma dal mordente inabissato e dalla morbosità latente. Solo in apparenza più semplice e piano, il linguaggio formale di Rubino si è subito dichiarato autonomo da ogni retaggio unilateralmente verista o scapigliato, traghettando a sprazzi questi due attributi ottocenteschi nel primo Novecento e mantenendoli vivi solo per contaminare – qua e là – una maniera vibrante e lieve 27 Schizzo per lampada matita su carta, 1900 ca. Torino, archivio eredi Rubino Lampada in bronzo 1900-902 28 Giovinetta di Nazareth marmo, 1902 Gelosa, marmo, 1902 ca. di lavorare la materia, materia che sotto le sue dita (come ai colpi del suo scalpello) si fa raffinata e sobria insieme, oggetto di un dire sottilmente poetico, di un cantare per forme plastiche che si dispiega nell’alternanza continua di vertiginose elevazioni estetizzanti e di smorzamenti colloquiali: di picchi lirici e di abbassamenti di tono improvvisi, che somigliano al bisbigliare cose umanissime e tutte terrene. Tale ultimo atteggiamento “parlato” della lingua tridimensionale di Rubino, unito ai retaggi veristi di cui accennavamo poc’anzi, si sente chiaramente nella produzione ritrattistica primonovecentesca, di committenza borghese e non. Nella plastica di Rubino «il verismo borghese si sublima in chiave simbolica», stando almeno a una formula di Rossana Bossaglia. Lo stile dello scultore si basa su equilibri delicatissimi (anche quando gonfia le vene e si irrobustisce, come dagli anni Venti in poi), e per questo sfugge alla presa. È uno stile che vive di raffinatezza d’esecuzione e che si esprime al meglio nel particolare ricercato con artificiosa naturalità, trovato con esattezza sbalorditiva (si pensi alla mesta espressione della gressonara del 1899, alle mani squisite della Giovinetta di Nazareth,10 allo sguardo obliquo dell’introversa Gelosa,11 alla pepata giocondità trattenuta sotto i baffi da Casimiro Teja, alle labbra tumide e alle borse sotto gli occhi di Federico Sclopis, agli innumeri dettagli incantevoli che “istoriano” l’altorilievo del monumento a De Amicis). L’importanza del particolare rispetto al tutto venne già sottolineata – nel 1902 – dalle giuste considerazioni di un critico francese: «Le figure12 dello scultore Rubino, che circondano la rotonda centrale dell’Esposizione [Internazionale d’Arte Decorativa Moderna], non sono sole a rappresentare a Torino l’arte italiana, e nemmeno l’arte architettonica e monumentale d’Italia. Questo spirito italiano, se difetta un po’ troppo nelle costruzioni d’insieme, bisogna cercarlo in alcuni particolari; e dopo tutto non è là che è destinato ad apparire con maggior vantaggio: è prima di tutto uno spirito di finezza e di ingegnosità, che si fa soprattutto apprezzare nelle raffinatezze d’esecuzione, nel senso della composizione, alle volte anche troppo sottile, nella concezione qualche volta troppo guidata della ricerca sentimentale. Ma nelle opere in cui queste qualità sono fermate a tempo e moderate, si gode di un’arte molto gustosa».13 Spirito di finezza e di ingegnosità, ovvero l’anima di uno stile che sembrava incarnare in pieno la «forma moderna», quella che Thovez aveva individuato come ideale superamento dei morbosi manierismi tardo preraffaelliti: una forma «agile, balzante, nervo- sa, palpitante di gioventù», dalla quale sarebbe dovuta sorgere finalmente «l’arte capace di riflettere la poesia del mondo moderno».14 L’anima di uno stile che, per i tocchi delicatissimi delle dita di Edoardo, ora si ammorbidiva indicibilmente, avvicinandosi al pittorico accarezzamento della pennellata (non all’agitato effetto impressionistico di matrice scapigliata, si badi bene), ora si alleggeriva con impercettibile gradualità, appressandosi – di modulazione in modulazione – all’aerea fluidità di un melodiare appena accennato. La musicalità del modellato rubiniano venne avvertita, nel 1907, da un giovane critico e architetto genovese vicino a Thovez, Mario Labò,15 che esclamava, commentando il piccolo ritratto a figura intera di Viven Chartres: «Guardate quanto essa è, anche plasticamente, musicale!».16 Per inciso: Rubino eseguì il ritratto della violinista prodigio Vivien Chartres su incarico del sindacato dei giornalisti torinesi; la statuetta, gettata in bronzo, venne poi offerta alla concertista quattordicenne, in ricordo di Torino, città che – per di più – l’aveva vista nascere, nel 1893. Vivien era figlia della scrittrice cosmopolita Annie Vivanti e dell’irlandese John Chartres, un giornalista col vizio degli affari, nonché attivista Sinn Féin per l’indipendenza d’Irlanda. Vivien, che aveva studiato violino a Praga, nella maturità non riuscì a tenere il passo con le luminose promesse del proprio talento infantile (cosa che capita con una certa frequenza a chi è lambito dalla pericolosa fiamma del talento precoce). Rimasta prematuramente vedova, finì i suoi giorni a Brighton, in un torvo clima di tregenda: martoriata da un micidiale intreccio di nevrosi e depressione, Vivien si suicidò insieme al secondo marito, Richard Young, il primo giorno di settembre del 1941. John Chartres – uomo eccentrico e padre distante, che l’aneddotica vuole anche impresario di Rudyard Kipling – era già morto in miseria a Dublino, nel 1927. Ad Annie Vivanti fu inizialmente detto, e a lungo tutti (biografi compresi) vi hanno creduto, che sua figlia e il genero fossero rimasti vittime dei bombardamenti tedeschi. Annie (di ceppo ebraico e cittadinanza britannica) si trovava allora costretta, dalla svolta anglofoba del regime fascista, a un domicilio coatto in Arezzo; la ex musa-fanciulla di Carducci fece appena in tempo a tornare a Torino, liberata per diretta intercessione di Mussolini: la notizia della morte di Vivien non la lasciò più vivere e così si spense, sfinita, il 20 febbraio 1942, poco dopo essersi convertita al cattolicesimo. Fino a qualche anno fa, tra le carte di Rubino, si potevano ammirare diversi schizzi di quel piccolo ritratto di Vivien Chartres, così delicatamente celebrativo e oggi fatalmente disperso. Sempre in odore di musica,17 Rubino giunse fino a captare la suggestione delle più sontuose sofisticazioni sonore mitteleuropee, ritraendo il celebre soprano Gemma 29 Orologio in bronzo 1902 ca. Coppa in bronzo per il Concorso Ippico Internazionale di Torino 1902 30 La statuetta di Vivien Chartres ancora in gesso, 1907 Salome, bronzo, 1907 La cantante Gemma Bellincioni, storica interprete di Salome Bellincioni nel ruolo di Salome.18 La principessa dello scultore torinese, ben lontana dalle isterie iconografiche di Beardsley, è una femmina di Giudea in carne e ossa, colta nel momento topico della danza dei sette veli: lo spunto creativo originò dalla prima discussa esecuzione italiana dell’omonima opera di Richard Strauss, avvenuta al Teatro Regio di Torino, il 23 dicembre 1906.19 Dovette essere un evento memorabile: sul podio c’era lo stesso compositore bavarese, già allora considerato un genio del melodramma contemporaneo, e la Bellincioni eseguì in prima persona la danza osé. Edoardo esibì la sua Salome20 – una statuetta mobile e sinuosa, dalle stemperate ascendenze secessioniste – alla settima biennale di Venezia, la mitica rassegna del 1907, segnata dalla presenza di due ambienti “mitteleuropei”: il salone centrale di Giulio Aristide Sartorio e la discussa “Sala del Sogno”, oniricamente ornata dal quartetto Chini, Previati, Nomellini e De Albertis. Abbiamo divagato un po’, sopraffatti dalle inaspettate morbidezze del modellare pittorico e musicale di Rubino: un modellare che, in sostanza, conservava ancora non poche tracce della composta nitidezza romantica del dettato di Odoardo Tabacchi e Luigi Belli, ma le faceva convivere – attraverso una maestria di genio – con i fermenti strani e gli accenti speciosi dell’Arte Nova, figlia bella e viziosa del secolo nascente. Il secolo romantico, invece, Rubino se l’era lasciato alle spalle lavorando alla Fontana dei Mesi, progettata per il parco torinese del Valentino dall’architetto Carlo Ceppi, nel 1898, in occasione dell’esposizione generale italiana. A Edoardo era stato affidato il gruppo in cemento de La Dora.21 Ma l’inatteso trionfo dell’opera gli fruttò la commissione, per la stessa fontana, di altre tre allegorie: una Sirena, da porsi al centro della vasca, oltre a La Pace e La Guerra, da collocarsi lateralmente; queste vennero ultimate, per i convulsi tempi di consegna, con il soccorso di Cesare Biscarra. Detto questo si può intuire, dunque, quale sia l’elemento chiave per farsi una ragione dell’oblio progressivo dell’opera di Rubino, nonché della conseguente distrazione critica in margine alla sua fisionomia artistica e umana: l’inclassificabilità della cifra stilistica, ossia l’impossibilità di ridurre il linguaggio estetico a uno schemino semplificato e immediatamente accessibile a tutti. Lo stile dello scultore e la sua interiore fisionomia di essere umano (certo non esuberante, piuttosto serio e introverso), sono sfuggenti e di non così agevole lettura. Sono un enigma. L’enigma Rubino, appunto. A questo si aggiunga il fatto che, sia all’inizio del secolo sia nell’intervallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’estetica di Rubino è sempre stata perfettamente al passo con i tempi. Mai innovativa o in anticipo, però. E ciò, per il più ossessivo e ottuso dei dogmi progressisti, è un limite tremendo. Ce lo ricordano le note di Alessandro Marabottini: «Esiste una diffusa tendenza, figlia del pensiero positivo e dello storicismo, a giudicare l’arte secondo principi che sono indiscutibili solo quando si tratta di scienza. Un artista appare importante solo se è un novatore rispetto al passato e una fonte d’ispirazione per l’avvenire. Da questa posizione deriva la sventura di certe personalità che concludono un’epoca e hanno vicino altri giova31 ni maestri capaci di aprirne una nuova».22 A quanto fin qui evidenziato si sommi, ancora, lo sciagurato stato di abbandono progressivo in cui è caduta l’arte plastica italiana, dal secondo dopoguerra in poi. Rubino oltretutto, in un sessantennio di continua attività, è artista che ha prodotto con relativa moderazione per il mercato (tiranno spietato che da troppo tempo tiene tutti in scacco: musei, storiografi e collezionisti), sempre impegnato com’era nell’ideazione e nell’esecuzione di grandi opere monumentali e funerarie; eccezion fatta – forse – per la sommersa produzione giovanile: targhe, medaglie e oggetti vari di arte applicata, calorosamente sostenuti da Enrico Thovez23 e in gran parte ancora da scoprire e studiare. In verità una scoperta significativa, in questo campo, la possiamo vantare: intendiamo il fortunato ritrovamento24 di un rilievo decorativo per camino (cm 45x90), realizzato da Rubino nel 1906 su commissione dei conti Frigerio, di stirpe veneta, allora residenti in una delle più belle ville di corso Massimo D’Azeglio (scampata, per miracolo, alle bombe del ’43). Il bronzo, superbo per fusione e patina, reca un crepitante monito pagano: Ignem in sinu abscondas. D’impatto sembrerebbe di avvertire – quasi fuochi nascosti in petto – i palpiti del neoquattrocentismo bistolfiano, ma tendendo l’orecchio si riconoscerà subito la timbrica insolita di Rubino, qui esemplificata con toni alti e chiarificatori: una timbrica estetizzante e veritiera a un tempo, raffinatissima benché assolutamente non sdolcinata (diremmo, anzi, che il virtuosismo dell’opera riemersa, culminante in un indicibile intreccio di mani e dita, tradisce vigorosi scatti di nervosismo plastico); un tim- Ignem in sinu abscondas rilievo in bronzo per camino 1906 Torino, collezione privata (foto Alessandro Caldana) 32 Schizzo per Ignem in sinu abscondas, matita su carta 1906 ca. Torino, archivio eredi Rubino Schizzo per la copertina del libro Caricature di Teja matita su carta, 1900 ca. Torino, archivio eredi Rubino bro intimo e suadente, quello rubiniano, sempre controllato per precisa volontà e non certo per mancanza di estro. Anche la ritrattistica privata – vetta creativa e vena feconda per il nostro scultore, destinata ciclicamente a riproporsi sul mercato – sarebbe adatta ad alimentare ed estendere un possibile collezionismo di Rubino: ma ci duole constatare come la ritrattistica sia, oggi, la più negletta espressione di un’arte negletta. Né, pensando proprio ai meravigliosi gessi provenienti dall’atelier dello scultore, ci conforta l’intelligenza di alcune osservazioni di Luigi Carluccio, datate 1972: «La scultura ha una vita difficile. Ha un corpo, un peso e un ingombro che paralizzano lo spettatore, così vive stentatamente di museo; in Italia, almeno, dove però gli acquisti ufficiali sono quasi sempre impegnati a ricuperare i ritardi storici ed a colmare i vuoti d’informazione. Il rumore che pur si avverte intorno a certi nomi di scultori, che hanno raggiunto fama internazionale, sembra un rumore artificioso ed ha scarso rapporto con la presenza effettiva dell’opera degli scultori nell’ambiente di vita».25 Ma torniamo a noi. «Libero da influenze precedenti – recita una chiosa d’antan di Giuseppina Jona – Rubino resterà però sempre l’artista-poeta e prediligerà l’episodio gentile che saprà rintracciare financo in temi eroici; soffonderà di benevolenza i volti delle sue figure, animerà di luminosi sorrisi i suoi ritratti. Il suo animo è semplice e limpido; la sua sensibilità estatica e spiegata, quindi spontanea e senza bisogno di richiami esteriori per essere intesa. Sgorga anzi qua e là, come polla inattesa, impossibile a trattenersi, tra episodi di valore, di eroismo e di forza».26 Rubino artista-poeta: giustissimo, anche se con un po’ troppa enfasi, a insistere sulla semplicità sorgiva della sua corda lirica. La componente poetico-letteraria dell’arte plastica di Rubino non è così intellettualizzata ed esibita, soprattutto se si pensa al cerebralismo macerato di un Bistolfi, al quale venne negata – nel dicembre 1905 – la cattedra all’Accademia Albertina,27 con l’assurda e retrograda motivazione di non poter affidare l’insegnamento della scultura a un “poeta”28 (l’evidente osmosi con il mondo letterario e musicale venne, forse, aggravata dai non pochi peccati di 33 penna).29 Non per nulla Sandra Berresford ha chiamato in causa le correspondances di Baudelaire per fare luce su quello che fu il credo bistolfiano per antonomasia: il riavvicinamento di tutte le arti.30 La sinestesia, in una parola. L’assimilazione dei linguaggi artistici, operata dai sensi in base alla percezione delle rispondenze intime dei diversi codici espressivi, era stata un’intuizione teorica della scapigliatura, trasmessa da Bistolfi – come un’iniziazione – anche ai suoi “affiliati”, fra i quali Rubino si era presto distinto per l’eccellenza del talento. Il timido Edoardo non si piccava di scrivere e, infatti, la sudata cattedra all’accademia se la tenne ben stretta: dal 1917, in principio come aggiunto all’insegnamento di Cesare Zocchi, poi come titolare, dal 1924 al 1936; ma una certa osmosi con le umane lettere la ebbe anche lui e, a nostro avviso, assolutamente nevralgica rispetto alla sua figurazione, almeno fino alla prima metà degli anni Dieci. Ci sentiamo di sostenere, cioè, una sensibile affinità estetica del giovane Rubino con le ibride malie del crepuscolarismo,31 che aveva in Torino il terzo polo di aggregazione e diffusione, dopo Roma e Genova. I poeti crepuscolari – pallidi letterati Copertina di Edoardo Rubino per L’amante ignoto di Amalia Guglielminetti 1911 Copertina di Leonardo Bistolfi per I colloqui di Guido Gozzano 1911 34 Giovanni Croce L’anima di Torino, 1911 Curt Seidel Torino mia, 1912 tipicamente nostrani – si possono considerare dei simbolisti di terza generazione, estremi e bizzarri epigoni del decadentismo europeo: si raggruppavano disorganicamente in cenacoli, che erano quasi delle confraternite (il cenacolo romano, per dire, faceva capo al moribondo Corazzini); essi erano devoti cantori della bellezza della morte e della noia domenicale, erano maniacali cultori della solitudine dei malati, estasiati contemplatori del silenzio dei chiostri o morbosi adoratori della virginale purezza di monacelle adolescenti, novizie di Nostra Signora la Luna; nutriti di gaie tristezze, erano esteti indefessi ma amici di tutti i mendicanti, di ogni reietto. Nel cenacolo crepuscolare torinese imperversava Guido Gozzano. «Mentisce in sillabe contate. La sua poesia si ciba con le golose da Baratti a brioche e confetti», sibilava Mario Giola nel 1911, l’anno in cui Treves dava alle stampe il volume de I colloqui: vestita da una copertina simbolista di Bistolfi, la silloge di versi era il vertice della precoce maturità del bel Guido. Ricordano i biografi che Gozzano, gelido sofista, amava passare ore e ore nei caffè conversando d’arte e «assaporando a fior di labbra, con gesto raffinato, un poco di assenzio, che diceva dargli qualche dolcezza». Un poco di assenzio o, magari, un dito di ratafià. «Ratafià, accento alla francese. È un liquore di vecchie bottiglierie, dal suono evocatore. Frutta, alcol, aromi amari. Pensiamo per analogia ad altri nomi. Arquebuse, ad esempio (è un’erba alpina). Liquori, bevande spiritose, tossici, veleni. C’è più di un contatto con le atmosfere gozzaniane, tramate su un tessuto che da un lato è misura e dall’altro nasconde turbamenti, veleni imprevisti».32 I poeti crepuscolari erano gli amici di Gozzano e con lui si ritrovavano a conversare, Francesco Pastonchi Sul limite dell’ombra, 1905 Giovanni Croce Sul limite della luce, 1908 guarda un po’, preferibilmente da Baratti. Baratti & Milano, per esteso: l’aristocratica confetteria a cui mise mano proprio Rubino, in un progetto di decorazione per la nuova ristrutturazione del locale, che venne commissionata nel 1909 al poliedrico architetto emiliano Giulio Casanova, assiduo collaboratore dello scultore.33 I committenti erano due canavesani: Ferdinando Baratti di Piverone ed Edoardo Milano di Bollengo, proprietari e soci fondatori della “premiata ditta” dolciaria, che si stava allora espandendo in due nuovi locali (destinati a bar e liquoreria), nel lato sud-est di piazza Castello. I lavori esornativi del negozio terminarono solo nel febbraio del 1911, pochi mesi prima dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro.34 Splendida la Danza bacchica35 di Rubino, a impreziosire il bancone della caffetteria, mentre la spiccata sensibilità per un certo ritmo compositivo dell’insieme – scandito dalle medesime cadenze dei pilastri del sottoportico – si manifestava in tutto il suo splendore con gli inserti plastici delle “tabelle” bronzee, realizzate sempre da Rubino, fuse dall’amico Corrado Betta e collocate “a guisa di placche” sulle lastre chiare di marmo giallo di Siena. Baratti & Milano, il palcoscenico prediletto dagli esteti sabaudi: vetrine e ingresso da Piazza Castello e sale interne a costeggiare la Galleria Subalpina. Un incrocio invero speciale, nell’armonia prestabilita di un doppio sipario: i portici della piazza, da un lato; il trasparente cielo vitreo dei soffitti della galleria, dall’altro. Suggerisce un poeta nostro contemporaneo: «Il corridoio centrale della galleria, recintato da un giardino d’inverno ornamentale, farebbe venire in mente titoli e atmosfere di un certo decadentismo nordico. Maeterlinck, Serre calde.»36 Un 35 36 Giovanni Cena In umbra, 1899 Massimo Bontempelli Egloghe, 1904 decadentismo di temperatura nordica era, di fatto, alla base delle migliori ricette prosodiche dei crepuscolari. E Maurice Maeterlinck, il poeta belga autore del celebre Pelléas et Mélisande, veniva proclamato all’unanimità il loro idolo intellettuale. I crepuscolari. Gli interlocutori abituali di Gozzano, chez Baratti. Eccoli: gli omoerotici Carlo Vallini e Giulio Gianelli; Sandro Camasio e Nino Oxilia (giovinezza, addio!); il Bontempelli prima maniera, sbocciato editorialmente per merito del fiuto infallibile di Renzo Streglio (Egloghe, 1904); Carlo Chiaves ed Enrico Thovez: trasognato l’uno, polemicissimo l’altro; Giovanni Cena umanitario e Francesco Pastonchi, già aulico, ma con moderazione; Cosimo Giorgieri Contri, toscano in adorazione ai piedi della Mole, che aveva giocato d’anticipo con Il convegno dei cipressi (una perla datata 1894); il dimenticato Emanuele Sella, biellese di Valle Mosso: occultato occultista, eternamente smarrito ne Il giardino delle stelle (1907); Biagio Chiara, biondo angelo piemontese esule a Napoli: nostro primo, audace traduttore (a proprie spese) di Oscar Wilde; e, ultimo, Giovanni Croce:37 il Corazzini pedemontano, delicato astro nascente della lirica crepuscolare, morto ventenne nel 1911, per uno scompenso cardiaco. Tra i poeti citati, Thovez,38 il “nordico” Thovez, ci sembra la figura più in debito di considerazione: vogliamo rammentare, almeno, l’apparizione de Il poema dell’adolescenza (Streglio, 1901), piccolo capolavoro d’inizio secolo, oltre alla misconosciuta attività di pittore e di illuminato direttore della Galleria d’Arte Moderna di Torino (carica ricoperta dal 1913 al 1923). A rinforzo della militanza in favore di quella che da noi si chiamava “Arte Nova” e per diffondere il verbo estetico-sociale degli eredi spirituali di Ruskin e Morris, Enrico aveva fondato il periodico “L’arte decorativa moderna”, sottotitolato “Rivista mensile illustrata di architettura e decorazione della casa e della via”. La testata – che si occupò sistematicamente del lavoro di Rubino – venne ideata e realizzata in collaborazione con Leonardo Bistolfi, Davide Calandra, Giovanni Angelo Reycend e Giorgio Ceragioli: essa uscì a intermittenza dal gennaio 1902 fino alla metà del 1908 (in realtà si pubblicarono solo due annate complete e cinque numeri della terza, con periodicità continua ma fortemente irregolare a partire dal secondo anno).39 Bizzarra, poi, l’ostentata insofferenza di Thovez verso una Torino “città ostile”, città della frustrazione del risentimento. Riportiamo, per curiosità, l’incipit di una sua acida tirata contro Torino (il Saggio encomiastico sulla città natale), dalla quale traluce un groviglio irrisolto di odio e amore, non privo di qualche affettazione snob: «La città che ebbe l’onore di darmi i natali […] non è celebre nella storia e nell’arte. […] La città porta dal battesimo romano il peccato d’origine della pianta a scacchiera, barbara e puerile concezione teorica e geometrica, cioè, priva di qualunque intelligenza di adattamento delle forme all’ambiente, e di qualunque sensibilità estetica […]». Verrebbe da ripensare a Milo De Angelis e alla sua Torino suicidaria, implacabile «maestra degli isolati».40 Ma quella Torino così fatale ai nervi scoperti degli artisti e degli intellettuali, la città reinventata da Thovez e D’Aronco, era allora – e già dall’ultimo lustro dell’Ottocento – il centro artistico più moderno della penisola, come ci teneva a puntualizzare Alberto Clementi41, specialista di architetture e arti decorative del ventesimo secolo. Ah, dimenticavamo: un autoritratto (toccante e consapevole di sé) Thovez ce lo ha consegnato proprio in un’inedita risposta epistolare all’amico Rubino, che gli aveva chiesto – in segreta confidenza – alcune informazioni di carattere personale, indispensabili per soddisfare una non ben precisata «gentile curiosità». Dopo aver rimesso le sorti di un profilo auspicabilmente lusinghiero alla benevolenza dello scultore, al quale riconosceva «nel modellare il dono della grazia», Enrico così si confessava: «Potrai dire, per esempio, che non sono, per mia disgrazia o fortuna, un gaudente dilettante a ore perse, che non sono, grazie al cielo, professore; che se ho fatto purtroppo il giornalista, o per lo meno il collaboratore letterario di giornali, fu mio malgrado, per tristizia dei tempi, e, per quanto possibile, sotto mentite spoglie. Potrai dire che manco evidentemente di senso comune, perché essendo la creatura più bisognosa di amicizia, vivo nella più inverosimile delle solitudini, e avendo la più viva propensione alla gioia, passo il mio tempo in malinconia profonda. Potrai aggiungere però che qualche attenuante a questo controsenso si troverà in quel capolavoro di psicologia che sarà quella Storia di un’anima e di un corpo a cui penso sempre come alla più cara delle mie opere e che non scriverò mai. […] Potrai spiegare che se non ho più pubblicato versi fu perché l’accoglienza della critica e del pubblico italiano ai miei primi fu tale da togliermi ogni velleità di darmi di nuovo in pasto al pubblico; ma che però non ho smesso di 37 Baccante, bronzo 1910 -15 ca. Genova, Raccolte Frugone Baccante, gesso 1925-30 ca. (foto archivio eredi Rubino) 38 Guido Gozzano, Lyda Borelli e Amalia Guglielminetti in una foto dei primi anni del ’900 farne per mio conto e che ne sto componendo alcuni in cui mi lusingo di aver raggiunto qualche mèta non troppo calpestata. Potrai terminare dicendo che l’unico mio conforto non è la poesia, ma la pittura, e che dipingere ritratti femminili sarebbe la mia maggior gioia se le belle signore avessero meno faccende e fossero più fedeli all’ora di posa. Io ti dico tutte queste cose alla buona: tu, da buon amico, le metterai in bella luce, con contorno di aggettivi lusinghieri: sono certo che dai nostri sforzi accomunati uscirà un ritratto perfettamente odioso».42 C’è tutto Thovez in queste poche righe e c’è anche tutto il senso implicito del suo affiatamento amicale con Rubino. Sarebbe utile e interessante avere qualche maggior documento diretto del rapporto, anche umano, fra i due: ma qui rimangono ostinatamente aperti i dubbi che, ad arte, intende insinuare il nostro ragionamento sulla fisionomia artistica e umana di un torinesissimo scultore europeo.43 Torinesi ed europei lo erano, d’altronde, anche i crepuscolari: con i loro cadaveri e i loro petali marci, sul limite dell’ombra. «Quando il simbolismo diventa veramente attivo in Italia – commenta Elio Gioanola –, all’inizio del secolo, ha già perduto le caratteristiche del forte agonismo nichilistico e ribelle dei Mallarmé e dei Rimbaud, e i poeti presi come modello sono i simbolisti della seconda generazione, quella che ha il suo padre nobile nel mendico Verlaine: sono i tardo simbolisti franco-belgi a influenzare direttamente i nostri poeti, da Samain a Tailhade, da Moréas a Verhaeren, da De Régnier a Rodenbach, da Maeterlinck a Jammes. Sono poeti che sembrano smentire la grande lezione mallarmeana perché la loro poesia nel complesso accoglie proprio quanto era stato proscritto dalla “poesia pura”, e cioè la realtà esterna e i sentimenti, nella forma dei celebri oggetti crepuscolari (il parco, l’organetto, le vie deserte, le beghine ecc.) e dalla malinconia che tutto pervade». E prosegue: «Nel tardo simbolismo l’estraneità radicale del poeta (e l’opera come rifondazione verbale del mondo) diventa propriamente “malattia”, col conseguente rifugio dentro un ambito selezionato di oggetti elettivi, omogenei alla generale caduta di tono della vitalità. È un’atmosfera poetica che accoglie gli aspetti più “decadenti” del simbolismo, con sviluppo dei toni floreali, liberty, esotici, mistici, decorativo-musicali».44 In Italia, questo repertorio caratteristico, passato pure attraverso le mediazioni dannunziane del Poema paradisiaco, venne assunto dai poeti nuovi come lo strumentario di una radicale operazione di separatezza, eseguita poi con le tonalità più diverse, grazie proprio alla qualità di repertorio della materia: così, ad esempio, Gozzano approdò all’invenzione quasi sarcastica di una serie celeberrima di personae oggettistiche e anima- li (buone cose di pessimo gusto, larve crisalidi e farfalle, fra macchie d’inchiostro putrefatto). Il riassorbimento tardivo degli stilemi simbolisti franco-fiamminghi, contaminato da screziature preraffaellite e da echi britannici dell’Aesthetic Movement, non è mai stato ben digerito dalla nostra critica accademica: esso, che riguarda da vicino anche il riflusso decadente dell’arte figurativa, era in atto (proprio in quello scalpitante debutto di secolo) non soltanto in tutta Europa, ma addirittura presso i più aggiornati letterati d’Asia e d’America, i quali diedero vita – senza intenti programmati “a tavolino”, ma attraverso la produzione di riviste oltremodo raffinate e promotrici di tutte le arti – a una vera rinascenza internazionale del gusto décadent. Un gusto che (ormai compiaciuto e complicato dalle più varie sofisticazioni), proclamando senza riserve l’inconciliabilità tra vita e arte, si traduceva in uno stile simbiotico d’arte e di vita meticcio, a mezzo tra l’atteggiata precarietà bohémien e la ricercata affettazione di un dandismo dalla posa modernamente scettica. Forte e influente (per i giovani della generazione di Rubino, classe 1871) fu poi la luce proiettata, all’interno delle non ancora luminosissime stanze dell’alta cultura torinese del tempo, da un ampio saggio di Arturo Graf, intitolato Preraffaelliti, simbolisti ed esteti e uscito in due parti sulla “Nuova Antologia”, fra il gennaio e il febbraio del 1897. L’affascinante professor Graf – docente di letteratura neolatina presso l’Ateneo di Torino e mentore indiscusso dei crepuscolari, che sgomitavano per frequentare le sue mondane lezioni umanistiche (le affollate “sabatine” pomeridiane) – valutava lucidamente l’estetismo spinto di quel tempo, ritenendolo una precisa e indirizzata tensione reattiva: «La reazione letteraria presente si esercita in più special modo contro il realismo, e più propriamente ancora contro il naturalismo, che fu come la caricatura di quello e l’errore e la colpa e l’eccesso cui quello doveva pervenir fatalmente. Essa si esercita con la scorta di due concetti principali (non oserei dir dottrine) e sotto due nomi principalmente: preraffaellismo e simbolismo; de’ quali, il secondo designa un moto di recentissima origine, e il primo un moto di origine notabilmente più antica, ma di novissima voga. E quello e questo hanno, insieme con qualità e tendenze proprie e diverse, qualità e tendenze somiglianti e comuni. Entrambi si oppongono al naturalismo, di cui l’uno schifa più la volgarità e la crudezza, l’altro più l’abuso del particolare e del concreto: entrambi ricusano il così detto plasticismo e l’arte marmorea dei parnassiani: entrambi menan vanto di uno sdegnoso e nobile individualismo: entrambi si dicono e sono idealisti, si separano dalla vita reale, vagheggiano, rimpiangono, 39 Jarno Jessen, Prerafaelismo prima edizione italiana del 1907, con aggiunte di Enrico Thovez 40 Fiamma, rilievo in bronzo per una fontana decorativa presentata nella sala del Piemonte, alla Biennale di Venezia del 1905 risuscitano come possono il medio evo, e più alta e perfetta stiman quell’arte che chiusa ai più, schiva d’ogni contatto, più partecipa della visione e del sogno […]». Thovez, ricettivo com’era, fece tesoro della lezione di Graf e, qualche anno dopo, stilò un notevole testo per integrare criticamente l’edizione italiana di un allora recente volume di Jarno Jessen, Praerafaelismus: la traduzione del libro di Jessen45 vide la luce nel 1907, per i tipi di un “rivale” di Streglio, il danese Carlo Clausen (successore del fornitore reale Hans Rinck e primo editore del ventenne Pirandello), che stampava a Torino e a Palermo. In realtà Thovez aveva addirittura preceduto il poeta di Medusa, chiarendo, in un articolo del 1895,46 la propria posizione sulla confraternita inglese: egli distingueva nettamente l’arcana poesia dei primi preraffaelliti (Madox Brown, Millais giovane, Holman Hunt) dalla convenzionalità “impacciata” degli esponenti più avanzati, capitanati da Burne Jones e latori di una tendenza aristocraticamente spiritualistica, vacua espressione di un senso estetico logoro e degenerato. D’altro canto il polemista torinese non condivideva neppure l’entusiasmo di Sartorio per Dante Gabriel Rossetti, allora osannato in modo programmatico sulle pagine dannunzianeggianti de “Il Convito” di Adolfo De Bosis. Enrico, in particolare, stravedeva per Ford Madox Brown, che considerava un vero “fratello intellettuale”, soprattutto da quando Guido Rey,47 di ritorno da Londra, gli aveva descritto l’inconfondibile “granitura” di un quadro (Work) visto a Manchester.48 Il dipingere granitico di Madox Brown aveva una qualche parentela, secondo Thovez, con la pittura colta e cerebrale di Andrea Tavernier. Siamo sempre lì, c’è poco da fare: in equilibrio sul filo rosso che apparenta le arti diverse, in bilico tra nostalgiche visioni neoquattrocentesche e irreali crepuscoli letterari. Ma il crepuscolarismo non chiuse del tutto i conti con il reale, come abbiamo visto. Rubino artista-poeta crepuscolare allora, in virtù dei suoi leggeri retaggi realisti, mescolati con misura ai venefici turbamenti della decadenza estetizzante? Potrebbe essere una buona approssimazione al vero. Tenendo sempre conto, però, che stiamo girando intorno a un enigma. Basterebbe osservare con la dovuta attenzione due assoluti capi d’opera del Rubino simbolista, concepiti per il cimitero monumentale di Torino, quali lo spettacolare bassorilievo Verso la pace per la tomba della famiglia Boido (1907) e il gruppo funerario inserito nell’edicola Porcheddu (1912), per rendersi conto della portata “letteraria” della sua maniera europea. Il pensiero corre subito a Böcklin e ai preraffaelliti, a Bistolfi e all’italo-belga Jules van Biesbroeck.49 Ma i riferimenti potrebbero essere mille. Un letto di rose sfatte sull’ondolìo della barca funebre, una macabra voluttà estetizzante che si tende fino alla squisitezza e lo splendore del cadavere di Amalia Dainesi che si trasfigura divinamente: il capo incoronato di fiori morti, vegliato da quattro mani sublimi. Non possiamo, a questo punto, non ripetere gli endecasillabi di un sonetto di Pastonchi, pensato per Bistolfi, ma assolutamente perfetto per i suddetti marmi di Rubino. Ascoltatelo, si intitola Sepolcro: «Due fanciulle, che l’estasi inabissa / In lor preghiera, cullano d’un ‘Ave’ / Quella che giace in casto atto soave / Nel gorgo della sua chioma prolissa. // O Leonardo, il tuo pensiero eclissa / Ogni forma; e al pensiero agili schiave / S’offron le mani, onde nel marmo grave / Tanta luce di sogni arde e si fissa. // Buona è la vita, nel pensar la morte / Come un inganno dolce che rinnova / Le forme solo in cui l’anima varca. // Sembra che dalla fronte delle assorte / Questo sereno ammonimento piova: / E intorno tutta ne risplenda l’arca».50 Una terza prodezza simbolista di Rubino (sarebbe stata la prima, in ordine cronologico), destinata al cimitero torinese, non ebbe la fortuna di vedere luce: alludiamo alla tomba del ministro della marina Benedetto Brin, per la quale l’artista fu costretto a cedere il passo a Cesare Reduzzi, vincitore del concorso nel 1902. A simboleggiare la virilità dell’ingegno creativo del defunto architetto navale, Edoardo concepì una figura nuda e meditativa, con lo sguardo simbolicamente fisso nell’infinità del mare; la figura si appoggiava a una rupe, contro cui andavano a frangersi i flutti crestati di spuma e su cui giacevano, spiegate, delle carte recanti diagrammi di navi. Siamo in grado di studiare la mirabile invenzione della 41 Maschera di Medusa bronzo, 1922 (foto archivio eredi Rubino) tomba Brin in virtù del modello illustrato in un numero coevo de “L’arte decorativa moderna”,51 a corredo dell’entusiasmo militante di Thovez: «Il pregio principale di questo bozzetto stava nella sua serenità veramente monumentale, nell’eleganza decorativa con cui era composto e nella delicatezza squisita colla quale era modellato. Raramente il Rubino modellò cose più complete, ed è da dolere che 42 Rubino davanti al gesso dell’altorilievo per il monumento a De Amicis, 1911 ca. (foto archivio eredi Rubino) questa bella idea non abbia potuto essere tradotta in atto». E che dire della tomba Remondini (1912, Cimitero Monumentale di Torino), estremo saluto alla vita dato da un braccio liricamente sospeso nel vuoto dell’eternità? O della coeva prodezza funeraria per la famiglia Girardi, tradotta in bronzo con cura ineccepibile dalla Fonderia Lippi di Pistoia? E come non soffermarsi sul solenne gruppo in estasi, riccamente orchestrato per la famiglia Gambaro (1916-20, Cimitero Monumentale di Torino)? Oppure come non rimanere stupiti alzando gli occhi verso l’allegoria decorativa Beneficenza e Credito, quasi sottratta allo sguardo dei passanti, troneggiante com’è sull’alta facciata dell’incompiuto palazzo della Cassa di Risparmio di Torino?52 Una delle più avanzate testimonianze plastiche di Rubino, ascrivibile a una pura ideologia simbolista, è la Maschera di Medusa del 1922, esposta alla Promotrice nel 1924, molto vicina alla Medusa del monumento a Umberto I in Roma. Quest’ultima fa parte del basamento dell’opera monumentale, che venne allogata a Davide Calandra da Vittorio Emanuele III, dopo il trionfo torinese dell’Amedeo d’Aosta (1902): il monumento equestre a Umberto I fu però interamente eseguito da Rubino e inaugurato postumo nel 1926, su un’altura circondata dai pini profumati di Villa Borghese. Il simbolismo rubiniano, infine, solo in apparenza disteso e non troppo complicato da eccessive tossine cerebrali, ci fa tornare alla memoria – per assonanza – alcune parole di Bistolfi, meditate a proposito del modern style scozzese e pronunciate il 4 giugno 1902, al Teatro Alfieri di Torino: «E questa sensazione è d’una grande e limpida e ingenua dolcezza: un indefinibile senso di ingenuità pensosa e penetrante, come il senso lasciato nell’anima dalla lettura di una pagina di Maeterlinck».53 Maeterlinck, ancora lui. E con lui concludiamo, idealmente, l’ampia digressione letteraria. Proveremo, ora, ad accostarci alla fisionomia umana di Edoardo Rubino. La Schizzo della placchetta per la 300ª edizione del libro Cuore matita su carta, 1904 ca. Torino, archivio eredi Rubino Placchetta in gesso per la 300ª edizione del libro Cuore, 1904 Pinerolo, collezione privata personalità dell’uomo e la sua psiche sono un mistero inavvicinabile: lo sapevano i tragici greci prima di Freud e dovremmo saperlo noi, oggi, meglio di tutti i nostri antenati. Ma spesso sembriamo dimenticarcene, arsi come siamo da un sacro fuoco razionalistico, che tende poi a spacciarsi per scientificità. Non si poneva troppi quesiti introspettivi, invece, il critico Paolo Cesare Rinaudo che, andando a intervistare Rubino per conto della rivista torinese “Il Prisma”,54 si vide venire incontro – ad accoglierlo nel grande studio di via Asti – prima un ciclopico operaio e poi lo scultore in carne e ossa: questi si manifestò in seconda battuta, come una misteriosa creatura dal passo leggero. Siamo nel 1912. Rubino era un quarantenne assolutamente giovanile. La scena è curiosa: «Che impressione strana nel vedere quell’artista, dal volto chiaro e sereno di un fanciullo, dopo l’apparizione del colosso! L’operaio m’era sembrato la figura di un ciclope, che m’avesse dischiuso le vie agli inferi pieni di mistero. Rubino mi colpisce per quel suo aspetto così femmineo. Parliamo dei suoi lavori […]. Osservo l’artista. Il viso delicato, tagliato con linea dolce, profila un volto che esprime una grande bontà, una squisita finezza di sentimento. Rubino è il poeta dello scalpello: egli, nei suoi marmi, scolpisce meno di quanto racconti. Le sue figure narrano tutto un pensiero, spiegano un sentimento, danno le fasi successive di un atto; tal che guardando i suoi lavori mi par di vedervi tutto il seguito di un movimento, il vario ritmo della vita colta attraverso lo svolgersi di un lungo pensiero». L’impressione dominante che 43 44 Il Faro della Vittoria appena collocato sul colle della Maddalena a Torino, 1928 ca. (foto archivio eredi Rubino) doveva dare la persona di Rubino, de visu, era un senso diffuso di delicatezza, quasi di dolcezza. Certo: l’artista posava la mano, «dolcemente», su una sua opera, e così via. Ma quell’impressione vaga di dolcezza era, pure, il giudizio più ripetuto in merito al suo lavoro. Quasi uno stereotipo convenzionale. Noi riteniamo che si tratti di una dolcezza “alla Maeterlinck”, ossia variegata da un amaro retrogusto di veleno. Poco oltre l’intervistatore si lasciava andare e definiva Rubino «il poeta del sentimento»: che vuole dire tutto e non vuol dire nulla. Il guizzo imprevisto, però, se lo inventò Edoardo. D’emblée. Le sue frasi, che avevano il suono contratto di una confessione, scossero l’interlocutore come un brivido improvviso: «Ma ora sono anche stanco di questo lavoro continuo, che non mi dà tregua. Vede, qualcuno mi giudica erroneamente, e dice che io sono un essere fortunato, che non ho mai avuto da lottare, che ho trovata la via perfettamente spianata dinnanzi a me. Non è vero, sa. Quand’ero allievo di Tabacchi all’Accademia, studiavo nei ritagli di tempo, perché, per potermi pagare il lusso degli studi, ero persino costretto a fabbricare e poi vendere i ferri del nostro mestiere. Quando entrai nello studio di Bistolfi, feci l’operajo per parecchio tempo. Altro che facilità! Ho dovuto combattere e furono giorni asprissimi». L’enigmatico Rubino spiazza anche noi, che nelle sue parole troviamo, comunque, conferma di una supposta e trattenuta inquietudine di fondo, quell’inquietudine che dovette affratellare la sua psiche e certa sua scultura alla sensibilità malata dei poeti crepuscolari. In assenza (speriamo momentanea) di un adeguato materiale documentario ed epistolare, l’intervista di Rinaudo resta una testimonianza di primaria importanza. Anche per consentirci di ipotizzare un approccio “filologico” con l’anima dello scultore, col suo carattere. Il recupero o la ricomposizione di un corpus epistolare adeguato sarebbe fondamentale, inoltre, per ricostruire precisamente i rapporti di amicizia di Rubino, che a oggi risultano poco più che ombre di fantasmi. Si parla di scambi profondi con i letterati: Edmondo De Amicis e Giovanni Cena, fra tanti; e con gli artisti: Grosso, Carpanetto,55 Lupo, Casanova, Calandra, Bistolfi, Biscarra, Contratti, Cometti, Cesare Reduzzi, Corrado Betta, Guido Rey e chissà con quanti altri ancora. Per non parlare degli allievi, bravi e prediletti: Abele Jacopi, Gaetano Orsolini, Luigi Aghemo, Umberto Baglioni, Arturo Arista, Emilio Musso, Antonio Zucconi, Nillo Beltrami, Claudia Formica, Pier Ugo Tirozzo, Aurelio Quaglino, Angelo Saglietti... Un altro aspetto caratteriale dello scultore, che possiamo dedurre dalle scarse fonti a nostra disposizione, è la modestia. Una modestia singolare, a volte decisamente eccessiva, quale traspare dalle parole pronunciate da Rubino stesso in Consiglio Comunale a Torino, nell’autunno del 1915, per commemorare l’appena defunto Calandra: «Invitato da Buenos Aires a concorrere per il monumento al Generale Mitre, Davide Calandra, per timore che gli impegni per altri lavori non gli permettessero di dedicarsi con la consueta coscienza alla nuova grande impresa, e d’altra parte sentendo che non doveva rinunciare, mi propose di associarmi a Lui nell’accettare l’invito e nel concepire e preparare il bozzetto. Erano per questo monumento chiamati in gara artisti di fama di diverse regioni. Io gli feci osservare che era opportuno che il suo nome comparisse da solo nel concorso e pel desiderio che un italiano ed artista pari suo non mancasse alla prova, lo incoraggiai ad accettare, offrendogli la mia collaborazione non palese. Non volle; preferì affrontare, con la dichiarata collaborazione, il pericolo che il mio nome oscuro poteva recare seco piuttosto che adattarsi ad una non sincera soluzione. E mi fece partecipare di una vittoria che avrebbe toccato da solo». Macché nome oscuro, nome addirittura pericoloso: il trentaseienne Rubino era già allora (stiamo parlando del 1906-07) una figura di spicco nel panorama artistico torinese e nazionale, sostenuto a suon di squilla da Thovez e compagni. Era un talento ancora emergente, ma già in vista: lo dimostra, per esempio, la sua non sporadica presenza – dal 1901 al 1910 – tra le prestigiose pagine romane di “Novissima”, albo di lettere e arti che segnò il culmine del gusto nouveau in Italia. Tant’è che di tale modestia si stupì perfino un cronista d’epoca, Giuseppe Deabate, in un articolo del 1927: «No, neanche allora, quasi un ventennio fa, Edoardo Rubino era più un nome oscuro. Egli era già chiaro fra i giovani scultori nostri, era già uno dei lavoratori più tenaci, più forti e più promettenti».56 Il Monumento a Bartolomé Mitre – maestoso, leggero ed elegante a un tempo – lanciò il nome di Rubino nel firmamento plastico d’oltreoceano57 e del mondo intero. «Non è che il lavoro sia fatto a quattro mani, osserva Rubino. Calandra ed io abbiamo studiato il bozzetto e ci siamo divisi il compito a seconda della nostra natura e delle nostre tendenze. 45 Rubino con il senatore Giovanni Agnelli a Prà Martino negli anni ’30 (foto archivio eredi Rubino) Calandra s’è addossata l’esecuzione del monumento equestre; io ho ideato i varii gruppi del basamento.»58 Quando il Monumento a Bartolomé Mitre venne definitivamente composto – con l’assemblaggio dei gruppi giunti dall’Italia via mare – e inaugurato, nel 1927, Rubino era all’apice della sua fama.59 L’interregno tra le due guerre fu un periodo fecondo e di crescita professiona46 Il risveglio, marmo, 1934 Genova, Raccolte Frugone le per Edoardo, che entrò, col consueto pudore, anche nelle grazie dalla famiglia Agnelli. Gozzano, larvato dalla tubercolosi, era morto giovane, nel 1916: il suo fiore all’occhiello e il suo corteggio di poeti crepuscolari erano ormai acqua passata.60 Attardati sentori simbolisti si respiravano solo più in certi suggestivi film di Febo Mari, prodotti dalla Ambrosio. Torino, in fatto di cultura artistica, era diventata la città di Lionello Venturi, di Riccardo Gualino, dell’egemone Casorati, di Fillia futurista di seconda generazione, di Edoardo Persico, del gruppo infranciosato dei sei pittori. La manifattura Lenci, intanto, con le sue stupefacenti prime ceramiche d’artista, si apprestava a far rimbombare l’accento piemontese nelle sale del Metropolitan di New York e all’interno della redazione londinese di “The Studio”. Lo scultore Giovanni Riva, con la Fontana Angelica di piazza Solferino, tirava in ballo, per la prima volta a Torino, il magistero di Maillol e il pugliese “ligustico” Baroni, dal canto suo, esalava l’ultimo respiro sulle geniali forzature del Monumento al Duca d’Aosta. Agnelli si rivelò dunque acceso sostenitore dell’arte di Rubino, al quale – oltre alle opere nelle due chiese, nel cimitero di Villar Perosa e nella chiesa parrocchiale di Sestriere – commissionò e finanziò la realizzazione dell’immensa Vittoria in bronzo, per il faro dedicato alla memoria dei caduti della prima guerra mondiale; eretto sul colle torinese della Maddalena (con la collaborazione dell’allievo Aurelio Quaglino), il monumento venne inaugurato nel 1928. Sempre per Agnelli, Rubino inventò la formidabile Pala marmorea con don Bosco e storie della sua missione di educatore svolta in mezzo ai giovani, pul- lulante di una miriade di figure scolpite in rilievo e destinata all’altare della chiesa salesiana dell’Istituto Internazionale Edoardo Agnelli.61 Da non trascurare, altresì, i rilevanti rapporti di lavoro intercorsi tra Rubino e Casanova con Giovanni Agnelli, rapporti approfonditisi in occasione del concorso d’appalto per l’arredo dei vagoni del Treno Reale. Abbiamo parlato della colossale Vittoria del faro della Maddalena e non ci tratteniamo dal dare cenno di quella che riteniamo una tra le più felici statue allegoriche della maturità dell’artista; si tratta sempre di una Vittoria, in gestazione tra il 1918 e il 1928: impeccabilmente fusa in bronzo (in onore dei dipendenti postelegrafonici caduti nel ’15’18), la moderna Nike è contemplabile nell’atrio del Palazzo delle Poste di Torino.62 Tutto questo per spiegare che lo stile rubiniano del ventennio littorio è cosa notevolissima, in particolare nell’ambito funerario:63 stanno lì, ad attestarlo, la disincarnata purità del monumento sepolcrale in memoria di Giuseppina Chiesa (1930, Cimitero Monumentale di Milano) o la tomba di Alice Schanzer, moglie di Tancredi Galimberti, per l’omonima cappella cuneese (1938-40).64 Ma non sono certo da meno l’intensa Madre, una figura carica di pathos proposta alla XXIII biennale di Venezia (1942),65 oppure due coeve attestazioni di regime, entrambe tradotte in alluminio: la prima, tramandata come Il genio del fascismo (un duce a cavallo di grandi dimensioni, futuristicamente geometrizzato, immortalato nudo e col braccio destro levato in saluto), si trovava all’esterno della centrale “Claudio Castellani” di Ponte Gardena e venne distrutta negli anni Sessanta;66 la seconda, un fulminante gruppo equestre intitolato L’Energia domata (1940-45 circa), tuttora scalpita e troneggia potente davanti alla centrale idroelettrica di Glorenza.67 Finanche il denigrato omaggio monumentale ai caduti di Novi Ligure o il macchinoso monumento nazionale al Carabiniere, mastodonticamente piantato nei giardini inferiori del Palazzo Reale di Torino e scoperto il 22 ottobre 1933 al cospetto di Vittorio Emanuele III, sarebbero adesso da riguardare con occhi liberi da condizionamenti ideologici. Lo scultore faceva, con accento un 47 Madre, opera esposta alla Biennale di Venezia del 1942 (foto archivio eredi Rubino) 48 Francesco Ruffini marmo, 1954 Torino, Palazzo dell’Università po’ nuovo, ciò che aveva sempre fatto: osservare il dato oggettivo privo di veli, per poi operare un processo di astrazione idealizzante, non negando mai, però, fino in fondo il vero e riuscendo a fermare ogni volta il racconto «nel momento esemplare».68 La mai sopita devozione al reale non mancò di essere rimarcata dall’attento Francesco Sapori: «Devoto alla verità e anelante bellezza, il Rubino ha un gusto suo proprio della composizione e ama le linee tracciate con docile incanto».69 Un docile incanto cullato «al di là delle limitazioni di tendenza e di scuola, al di sopra delle convenzionali e talvolta vacue demarcazioni di stile»:70 sono le frasi con cui un critico, nel 1940, accompagnava la presentazione di due nuove sculture a soggetto religioso del «senatore Rubino» (il Sacro Cuore e un Cristo crocifisso per la chiesa torinese della Gran Madre di Dio). Ma l’ingenuo commentatore non avrebbe mai potuto supporre che proprio quel linguaggio maturato oltre le tendenze e le scuole, che proprio quella poetica svincolata dalle convenzioni e dagli stili codificati, sarebbero stati i principali ostacoli per una corretta ricezione postuma dell’opera del nostro artista. Dopo il primo conflitto mondiale Edoardo riuscì a modernizzare il suo modo di plasticare e scolpire, senza seguire il trend delle correnti ufficiali e senza contraddire nell’intimo quella che era stata la sua poetica, fatta di invisibili tumulti sottostanti e di lievi, ultrasensibili vibrazioni di superficie. Il decorativismo si smorza, le forme divengono più essenziali e robuste, la voce del ventennio si fa sentire con qualche vigorosa cadenza neolatina, ma la lirica di fondo non cambia. Contrariamente a quanto, purtroppo, successe al più anziano Bistolfi (passato presto di moda e spietatamente messo in caricatura dai modernisti), la maturità diede onori pubblici71 e nuove energie creative a Rubino, che riuscì a superare in piena attività anche la seconda guerra e a morire in gloria, a ottantatre anni, stroncato da un’angina pectoris mentre stava licenziando la sua ultima creatura: una ieratica e purissima figura intera di Francesco Ruffini, fatta scolpire per l’Ateneo torinese di via Po. Ecco: giusto pensando alla disumana, astratta fissità del Francesco Ruffini e considerato il carattere aperto e dubitativo del nostro intervento, ci piacerebbe chiudere con un estremo interrogativo. Non sarebbe opportuno, forse, rimettere in discussione anche il pregiudizio manicheo che vede il Rubino tardo solo come un sopravvissuto a se stesso? Note 1 Daniele Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia, in Eclettismo e Liberty a Torino: Giulio Casanova e Edoardo Rubino (a cura di Franca Dalmasso), Torino, Il Quadrante, 1989, pp. 89-110. Si tratta del catalogo della mostra allestita all’Accademia Albertina di Belle Arti (18 gennaio-5 marzo 1989). Walter Canavesio, Edoardo Rubino e la Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone, La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 151-157. 2 Pietro Antonio Gariazzo (1879-1964), pittore e intellettuale torinese dalla sfortunata vicenda artistica, fu uno dei primi teorici italiani del cinema, che definì, appunto, “teatro muto” (cfr. P. A. Gariazzo, Il teatro muto, Torino, Lattes, 1919). 3 Fra i vari lavori d’illustrazione di Rubino, citiamo qui la copertina che lo scultore disegnò per L’amante ignoto, poema tragico di Amalia Guglielminetti (Milano, Treves, 1911). 4 È da ricordare, al riguardo, che nell’anno 1900 il critico Primo Levi pubblicò il pionieristico saggio dedicato a La scultura nova in Piemonte (Roma, Società Editrice Dante Alighieri), contenente precoci approfondimenti su Pietro Canonica, Davide Calandra e Leonardo Bistolfi. 5 6 Intorno al problema delle arti applicate il giovane Rubino raggiunse il suo momento più acutamente bistolfiano, contaminato da una sensibile predilezione per il decorativismo mitteleuropeo di Gustav Gurschner. Lo attestano: la coppa per il Concorso Ippico Internazionale di Torino (giugno 1902); l’orologio presentato alla V Biennale di Venezia del 1903, all’interno della sala espositiva della rappresentanza artistica piemontese ideata da Giacomo Grosso; una stupenda lampada elettrica e, soprattutto, la Fiamma, incandescente altorilievo simbolista sovrastante una fontana decorativa («per onoranze al professore d’igiene Icilio Guareschi»), sfoggiata alla Biennale di Venezia del 1905, anno in cui vinse la medaglia d’oro. La fontana fu pubblicata da Vittorio Pica ne L’Arte Mondiale alla VI Esposizione di Venezia (1905) e, come i succitati lavori di arte applicata, anche da Enrico Thovez ne “L’arte decorativa moderna” (si vedano i numeri conclusivi della prima annata, 1902, e quelli di tutta la seconda annata, uscita con la massima irregolarità, tra il gennaio 1903 e il dicembre 1906). Sempre per il professor Guareschi, Rubino creò la statua mitologica di Igea. Su “La Stampa”, che aveva preannunciato la visita di Rodin a Torino (Cronaca, 23 ottobre 1901), venne pubblicato il resoconto del banchetto, tenuto «in una aristocraticissima sala del Circolo degli Artisti, parata di verde pallido ed illuminata di grandi specchi», alla presenza dell’ambiente artistico torinese quasi al completo (tra gli artisti: Leonardo Bistolfi, Cesare Reduzzi, Pietro Canonica, Edoardo Rubino, Davide Calandra, Cesare Biscarra, Giacomo Cometti, Lorenzo Delleani, Carlo Pollonera, Giovanni Battista Carpanetto, Carlo Follini, Giovanni Guarlotti, mentre l’assenza di Giacomo Grosso era imputata a un viaggio sudamericano; tra gli intellettuali: Mucchi, Cena, Thovez, Reycend, Graf, Corradino, Camerana). Di Cena e Bistolfi furono i brindisi finali (Arti e Scienze. Ad Augusto Rodin, in “La Stampa”, 26 ottobre 1901). 7 Cfr. Flavio Fergonzi, Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 1, in “Prospettiva”, n. 8990, gennaio-aprile 1998 e Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 2, in “Prospettiva”, n. 95-96, luglio-ottobre 1999. 8 Milo De Angelis, Presentazione, in D. Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milano, Unicopli, 2003, p. 7. 9 10 La Giovinetta di Nazareth (1902, marmo, cm 30x48x32) è il risultato estremo di quel filone misti- 49 50 cheggiante tardo ottocentesco, a cavallo fra verismo e decadentismo, che a Torino vantava illustri precedenti plastici: Fior di chiostro (1884) di Davide Calandra e Dopo il voto (1889), Istinto materno (1894), Meditazione sulla morte (1900) e Le comunicanti (1901) di Pietro Canonica. La madonnina di Rubino però, segnata da un estetismo stremato e di ascendenza preraffaellita (si pensi a The girlhood of Mary Virgin, capolavoro del ventunenne Rossetti), è indiscutibilmente più “moderna”, frutto ambiguo e già contagiato dal nuovo secolo. L’esemplare che fu presentato all’Esposizione Quadriennale di Belle Arti del 1902, è oggi conservato presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, acquistato all’epoca insieme a un altro marmo della medesima esposizione: un Ritratto, meglio noto come La bimba Luciano. Un secondo esemplare della Giovinetta di Nazareth venne presentato al Glaspalast di Monaco di Baviera, nel 1913, mentre un’ulteriore traduzione in marmo si trova presso il Museo de Arte Italiano di Lima. Dell’opera si conoscono anche alcune fusioni in bronzo. La testina in marmo intitolata Gelosa (1902 ca.) fu esposta dal collezionista e mercante mantovano Ferruccio Stefani, che allora si appoggiava alla galleria Witcomb di Buenos Aires, nella sua seconda esposizione latinoamericana del 1903. Cfr. F. Stefani Exposiciones de Arte (BuenosAires, Montevideo, Valparaiso), Catálogo de la II Exposicion, Milano, Alfieri & Lacroix, 1903, p. 39. Se ne conosce un esemplare, appartenente a una collezione privata torinese. 11 In occasione dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa del 1902, evento cardine per il milieu artistico torinese e nazionale, la parte principale di scultura decorativa venne affidata a Rubino, associato all’architetto Raimondo D’Aronco. Edoardo fu incaricato di eseguire il gruppo de La Danza (alto circa cinque metri e da ripetersi sei volte attorno alla cupola del padiglione d’onore, leggermente variato nelle posizioni delle quattro figure) e di realizzare le statue allegoriche de La Pittura e La Scultura, destinate alla facciata principale della sede dell’Esposizione delle Belle Arti: l’azzardata doratura di queste ultime due sculture venne severamente bacchettata da Enrico Thovez e Alfredo Melani. I gruppi plastici dell’esposizione del ’02 valsero a Rubino un gran diploma e la medaglia d’oro. Vittorio Emanuele III, al trono da un paio d’anni, acquistò una riduzione in bronzo de La Danza, opera che godette di un notevole successo, come dimostra (ad esempio) un noto cache-pot realizzato in biscuit dalla Ginori, evidentemente ispirato alle cosiddette “quattro Grazie” di Rubino. I bozzetti in gesso de La Danza, La Pittura e La Scultura, sono conservati presso una collezione privata di Pinerolo. 12 Gustave Soulier, L’Esposizione di Torino. Il contributo italiano, in “L’art décoratif”, Septembre 1902, pp. 234-245. 13 14 Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della sera”, 16 ottobre 1895, e poi ne Il Vangelo della pittura ed altre prose d’arte, Torino, Lattes, 1921, pp. 119-127. Mario Labò (1884-1961) intensificò la sua collaborazione con “L’arte decorativa moderna” a partire dal quarto numero del terzo anno, affiancandosi a Thovez nel ruolo di redattore centrale; col rinnovato assetto redazionale, oltretutto, la rivista si prefiggeva illusoriamente di regolarizzare e rendere puntuale la cadenza mensile, come si evince dall’editoriale introduttivo di quella stessa quarta uscita del 1907. 15 Cfr. Mario Labò, La statuetta di Vivien Chartres di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 2, 1907, pp. 57-58. 16 Ancora in ambito musicale, non si dimentichi la placchetta realizzata da Rubino nel 1903, su commissione dell’Associazione della Stampa Subalpina. La targa, pienamente simbolista, venne fusa in argento dal gioielliere torinese Musy e dedicata a un socio benemerito d’eccezione: il tenore Francesco Tamagno. 17 18 Cfr. “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 3, 1907, p. 93. È tuttora oggetto di discussione, presso gli storici della musica, se la “prima” italiana di Salome debba considerarsi la rappresentazione diretta dallo stesso Strauss il 23 dicembre 1906 al Regio di Torino, oppure la prova generale (aperta al pubblico) condotta da Toscanini alla Scala di Milano, 19 andata in scena nel pomeriggio del medesimo giorno. Quello fra Regio e Scala fu un vero e accanito testa a testa: proprio al furioso Toscanini, infatti, il compositore bavarese aveva promesso di affidare il debutto nazionale del suo nuovo capolavoro. Cfr. Giorgio Gualerzi, Salome delle discordie, in “Torinosette”, venerdì 15 - giovedì 21 febbraio 2008, p. 25. La Salome fu tradotta in bronzo dal fonditore torinese Menzio. Questo dato tecnico emerge da una lettera inedita di tre facciate, inviata a Spirito Luciano (1866-1924), che allora si trovava a Città del Messico per lavorare insieme allo scultore Enrico Alciati. Nella missiva, vergata a Torino in data 14 aprile 1907, Rubino comunica all’amico e collaboratore Luciano che «[…] sabato 20, andando a Venezia, porterò con me la Salomè in bronzo (ho mandato in questo momento la cera ritoccata a Menzio, il quale mi ha promesso di potermela dare)». 20 I restanti fiumi piemontesi (Le tre Sture, Il Po e Il Sangone) vennero affidati rispettivamente a Giacomo Cometti, Luigi Contratti e Cesare Reduzzi. 21 Alessandro Marabottini, Lionello Balestrieri. La vita e l’opera, in Lionello Balestrieri (Cetona 1872-1958), Firenze, Edizioni Pananti, 2000, p. 30. 22 Cfr. Enrico Thovez, Placchette, medaglie e monumenti di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Anno II, n. 7, 1905, pp. 193-197. 23 Ringraziamo Pierina Trivero per la fondamentale collaborazione, grazie alla quale ci è stato possibile il ritrovamento dell’inedito rilievo di Rubino, e Bruno Giordano per la disponibilità che ci ha dimostrato nel metterci a disposizione l’opera stessa. 24 Luigi Carluccio, Bruno Martinazzi, Torino, 1972, catalogo della mostra allestita alla galleria La Parisina (marzo 1972), pagine non numerate. 25 26 Giuseppina Jona, Artisti contemporanei: Edoardo Rubino, in “Emporium”, Vol. LXVII, n. 398, febbraio 1928, pp. 68-69. Il posto fu vinto, invece, dal classicista fiorentino Cesare Zocchi (1851-1922), con 56 voti favorevoli, contro i 54 di Bistolfi: il solido ma convenzionale mestiere di Zocchi doveva sembrare certo più “rassicurante” rispetto al genio visionario di Bistolfi, soprattutto in un’ottica pedestremente scolastica. 27 Pare che l’esclusione di Bistolfi dall’insegnamento accademico fosse prestabilita e che la scandalosa motivazione ufficiale suonasse così: «Bistolfi è un poeta, non uno scultore!». Thovez e la sua fronda si mostrarono immediatamente scandalizzati: «La nomina dello Zocchi a professore di scultura nell’Accademia di questa nostra città che ospita da tanti anni e ormai considera come suo cittadino Leonardo Bistolfi […] è tale enormità che desterà infinita sorpresa e profondo dolore non solo a Torino, ma in tutta Italia» (cfr. La Cattedra di Scultura all’Accademia Albertina e la nomina dello Zocchi, in “L’arte decorativa moderna”, Anno II, n. 7, 1905, pp. 211-214). Si vedano anche le veementi proteste scritte degli artisti torinesi e degli allievi dell’accademia Albertina, pubblicate sempre da Thovez su “L’arte decorativa moderna” (Anno II, n. 8, 1906, p. 254). 28 29 Nel 1909, come osserva Sandra Berresford, Bistolfi «uscì in una delle pochissime autodifese a noi note [R. Sacchetti, La nuova ebrezza artistica di Leonardo Bistolfi, in “Il Secolo”, 18 gennaio 1909], in cui contestò la critica che gli fu mossa di fare della “letteratura” e sostenne, all’opposto, di ideare le sue sculture plasticamente, attraverso la forma e mai divise da essa». Cfr. S. Berresford, Bistolfi e il “Bistolfismo”, in R. Bossaglia e S. Berresford, Bistolfi 1859-1933. Il percorso di uno scultore simbolista, Casale Monferrato, Piemme, 1984, p. 21. 30 Cfr. Sandra Berresford, Op.cit, p. 177. Cfr. Roberto Rossi Percerutti (a cura di), Torino Art Nouveau e Crepuscolare. Poeti e luoghi della poesia, Milano, Crocetti, 2006. 31 32 Dario Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milano, Unicopli, 2003, p. 21. 33 Segnaliamo altri frutti memorabili del prolungato sodalizio torinese tra Rubino e Casanova: il 51 Palazzo delle Poste e Telegrafi, realizzato tra l’ottobre 1905 e il marzo 1911; la cappella funeraria della famiglia Porcheddu-Dainesi del 1912; il portico d’ingresso e le decorazioni plastiche esterne della rinnovata Società Promotrice delle Belle Arti (1914-16); la tomba di Carolina Invernizio del 1916 e la scomparsa confetteria storica Romana-Bass, sita in piazza Castello e ristrutturata dal 1918 al 1920. Per quest’ultima Rubino ideò un magnifico rilievo bronzeo (considerato disperso, ma in realtà conservato presso una collezione privata di Torino) e una statuetta, sempre in bronzo, allora posta a decorazione del banco della liquoreria e oggi perduta. 52 Per l’esposizione universale del 1911, evento che portò a Torino sette milioni e mezzo di visitatori, Rubino creò una splendida placca bronzea, fusa in diverse misure e usata come diploma d’onore oppure come gran premio. 34 A proposito di baccanali, vogliamo ricordare l’importantissima Baccante o L’offerta (cm 74x28x28), un bronzo del primo decennio del Novecento, proprietà delle Raccolte Frugone di Genova. La scultura, acquistata dall’imprenditore e collezionista Luigi Frugone presso il mercante Ferruccio Stefani, estimatore di Rubino già dagli esordi, riassume in modo emblematico l’inclinazione simbolista dello scultore, ancora e sempre pervasa da qualche accenno di verismo (parlano chiaro, al riguardo, i glutei e le cosce ben tornite dell’adepta di Dioniso). Altrettanto interessante e ancor più tornita l’altra Baccante (cm 82x22x29,5) della collezione Frugone, sempre in bronzo ma molto più tarda. 35 36 Dario Capello, Op. cit., p. 17. A conferma dei rapporti stretti fra le arti figurative torinesi del primo Novecento e il crepuscolarismo, ricordiamo il fatto che la tomba del poeta Giovanni Croce (1912, Cimitero Monumentale di Torino) fu la prima opera ufficiale del giovane Emilio Musso, appena diplomatosi all’Accademia Albertina e, allora, allievo-aiutante di Calandra e Rubino. 37 La personalità di Enrico Thovez (1869-1925) è una delle più complesse e contraddittorie nell’ambiente culturale subalpino del primo Novecento. Torinese di origine savoiarda, con ascendenze materne sardo-catalane, Enrico era laureato in lettere (con una tesi sul Medioevo dorico e lo stile del Dipylon, discussa il 15 luglio 1896 e poi pubblicata nel 1903). Collaborava inoltre regolarmente a quotidiani e riviste, con articoli di critica letteraria, arte e costume. Legato già dagli anni universitari all’élite culturale gravitante intorno ad Arturo Graf, si segnalò per le spiccate qualità di polemista, denunciando i plagi e gli aspetti deteriori dello stile di Gabriele D’Annunzio, nonché avversando l’egemonia carducciana e pascoliana (da ricordare, al riguardo: Il pastore, il gregge e la zampogna, Napoli, Ricciardi, 1910). Appassionato cultore del melodramma wagneriano e assai attivo come ritrattista, Thovez si dimostrò eccentrico anche nella veste di storico dell’arte, sia antica sia moderna: è nota, infatti, la sua insofferenza per il realismo francese (per Courbet, in primis), per gli impressionisti, per Van Gogh e Cézanne. Adorava invece i preraffaelliti della prima ora, ammirava Rodin e accolse a braccia aperte l’arrivo dell’Art Nouveau, che si impegnò freneticamente a diffondere nel nostro paese, partecipando alle complesse fasi organizzative dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa del 1902. 38 Ogni tanto qualcuno, errando, riporta la notizia che “L’arte decorativa moderna” rientrò in circolazione nel 1909, uscendo con il nuovo titolo “Per l’arte”. In realtà “Per l’arte”, una rassegna mensile torinese di arti applicate, era tutt’altra faccenda: diretta da Giovanni Battista Gianotti e stampata dalla Società Italiana di Edizioni Artistiche C. Crudo & C. (Torino), la rivista uscì dal 1909 al 1915, anch’essa con cadenza irregolare. 39 40 Insiste il poeta milanese: «Rinchiusa nel suo ottagono perfetto, attraversata dalle sue perpendicolari, urta di continuo l’intrico di segmenti che la costituiscono: città di spigoli e attriti, di segrete accensioni perimetrate» (M. De Angelis, Op. cit., pp. 8-9). Cfr. Alberto Clementi, Storia dell’arredamento, Milano, Società Editrice Libraria, 1952, pp. 124148. A onor del vero non bisogna trascurare altri due convinti assertori del peso europeo della Torino di Thovez: Italo Cremona e Albino Galvano. 41 Il passaggio è stralciato dalla brutta copia di una lettera inedita di Thovez, scritta a Rubino in data «Torino, 27 giugno 917». La minuta, vergata su due facciate e fitta di correzioni, fa parte del Fondo Enrico Thovez, custodito presso il Centro Studi Piemontesi di Torino. Ringraziamo Albina Malerba per la disponibilità con cui ci ha messo a disposizione il materiale del suddetto fondo, peraltro già studiato dall’italianista Paolo Luparia. 42 A sostegno di una lettura europea degli orizzonti intellettuali di Rubino, ci preme sottolineare la presenza, nel suo archivio di lavoro, di una fotografia del barone tedesco Wilhelm von Glöden (1856-1931), arrivatagli probabilmente per tramite dell’amico fotografo Guido Rey. Le foto di von Glöden (esteta omosessuale in odore di perversità: amico di Wilde e D’Annunzio, di Costantino Barbella e Matilde Serao) furono utilizzate e apprezzate da artisti del calibro di Lawrence AlmaTadema, Frederich Leighton, Maxfield Parrish, Alfred Stieglitz, ecc. 43 44 Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Milano, Librex, 1986, p. 13. Jarno Jessen, Prerafaelismo. Con aggiunte originali sul Prerafaelismo in Italia del dr. Enrico Thovez, Torino, Clausen, 1907. 45 Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della Sera”, 16 ottobre 1895; e poi ne Il Vangelo della pittura ed altre prose d’arte, Torino, Lattes, 1921, pp. 119-127. 46 Una testimonianza diretta, raccolta tra i familiari dell’artista, ci conferma che Rubino fu legato sentimentalmente al compagno di escursioni Guido Rey, per il quale illustrò il libro Il monte Cervino (Milano, Hoepli, 1904), introdotto da Edmondo De Amicis: i fogli originali dei ventitré disegni dello scultore sono oggi conservati presso il Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino. Guido Rey (1861-1935), nato da un’illustre famiglia di imprenditori (era nipote di Quintino Sella) e studente dell’Accademia Albertina, è ricordato come fotografo, intellettuale e alpinista di notevolissimo valore. Espose per la prima volta le proprie fotografie nel 1892 e ricevette riconoscimenti ufficiali, a Torino, dalla prima esposizione generale italiana del 1898. L’anno seguente le sue estetizzanti immagini di gusto fiammingo vennero premiate, a Firenze, con una medaglia d’oro. Nel 1902 Rey era presente all’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa di Torino con alcune fotografie pittoriche di intonazione “olandese”; grazie a queste foto riscosse un grande successo in campo internazionale, ottenendo una lusinghiera pubblicazione sulle pagine del periodico britannico “The Studio” (la prefazione era firmata da Enrico Thovez) e su quelle di “Camera Work”, la prestigiosa rivista newyorkese diretta da Alfred Stieglitz. 47 Cfr. Enrico Thovez, Diario e lettere inedite (1887-1901), a cura di Andrea Torasso, Milano, Garzanti, 1939, p. 992 (lo stralcio in questione è datato «29 maggio 1900»). 48 49 Jules Pierre van Biesbroeck (1873-1965) fu scultore e pittore assai considerato dai nostri artisti del primo Novecento. Figlio e allievo del belga Jules van Biesbroeck, professore all’Accademia di Gent, debuttò ufficialmente nel 1888, al Salon des Champs-Elysées di Parigi. Nato in Italia (a Portici, nei pressi di Napoli), durante un viaggio dei genitori, vi ritornò spesso, stringendovi relazioni e amicizie, e prendendo dimora prima a Bordighera, poi a Palermo, quando infuriava la Grande Guerra. Espose al Casinò di San Remo e al Kursaal di Palermo. Nel 1935 aprì un atelier in Algeri. È da ricordare l’ampia retrospettiva dedicata all’artista, tenutasi dal 15 al 23 giugno 1991 nel palazzo Muzzarelli-Crema di Ferrara, oltre al bel catalogo curato da Lucio Scardino e Arturo Malagù (Ferrara, Liberty House, 1991). 50 Francesco Pastonchi, Sepolcro, in Belfonte, Torino, Streglio, 1903, p. 131. Cfr. Enrico Thovez, Il concorso per una tomba-monumento a Benedetto Brin, in “L’arte decorativa moderna”, Anno I, n. 2, febbraio 1902, p. 56 (ill.) e pp. 60-61 (testo). 51 Il gruppo di Rubino è quello di destra, sulla facciata del palazzo di via Bertola. La progettazione e la costruzione del nuovo edificio della Cassa di Risparmio di Torino fu quanto mai travagliata: il cantiere si aprì, con non poche irregolarità amministrative, nell’ottobre del 1914. Nel 1923 (l’anno della morte dell’ingegnere Carlo Angelo Ceresa, il protagonista di questo incredibile epi52 53 sodio) i lavori non erano ancora ultimati. Così il palazzo, ancorché incompiuto, venne venduto alla Società Idroelettrica Piemontese, il 3 aprile 1925. Cfr. Aldo Castellano, Il palazzo incompiuto di via Bertola, in Banca CRT. Storia, patrimonio d’arte, comunicazione d’impresa, Torino, 2002, pp. 146-150. Leonardo Bistolfi, L’arte decorativa moderna, conferenza tenuta presso il Teatro Alfieri, per incarico dell’Università Popolare, il 4 giugno 1902, in “L’Arte decorativa moderna”, Anno I, n. 5, maggio 1902, pp. 129-152. 53 54 Cfr. Paolo Cesare Rinaudo, Pietro Canonica, Tancredi Pozzi, Edoardo Rubino. Interviste, Artisti e fatti contemporanei (serie I), Torino, Il Prisma, 1912. 54 Ad attestare il precoce rapporto fra Rubino e il più adulto pittore torinese Giovanni Battista Carpanetto (1863-1928) rimane un vivido pastello, datato 1896 e fino a oggi inedito, che ritrae lo scultore appena venticinquenne. Esattamente quarant’anni dopo, nel 1936, anche Giacomo Grosso avrebbe ritratto l’amico Edoardo, ormai carico di gloria e onori. 55 Cfr. Giuseppe Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre, in “Le Vie d’Italia e dell’America Latina”, luglio 1927, pp. 773-779. 56 Un altro lavoro monumentale d’oltreoceano, trascurato dalla critica, è il monumento realista al generale José Maria Cabal Barona, martire dell’indipendenza colombiana e membro della Expedición Botánica. Realizzato da Rubino per la Plaza de Cabal (o Parque Cabal) di Buga, il monumento è spesso erroneamente citato come opera di un improbabile “Fernando Rubinni”; esso venne con tutta probabilità scoperto il 6 agosto 1924, data dell’inaugurazione ufficiale della nuova sistemazione della piazza principale di Buga (Colombia). 57 58 Paolo Cesare Rinaudo, Op. cit., p. 8. Cfr. Franco Sborgi, Buenos Aires: il monumento a Bartolomé Mitre, in R. Belmondo e M. M. Lamberti (a cura di), Davide Calandra. L’opera, la gipsoteca, Savigliano, 2004, pp. 151-163. È probabile che proprio nello stesso anno (1906) Rubino abbia ricevuto anche la commissione per la tomba del generale Mitre, destinata al cimitero della Recoleta in Buenos Aires: l’opera funeraria, potente e vigorosa, è stata restaurata in tempi assai recenti. 59 La data estrema del crepuscolarismo è unanimemente ritenuta il 1916, l’anno in cui Marino Moretti diede alle stampe i versi de Il giardino dei frutti (Napoli, Ricciardi). Subito dopo la grande guerra le atmosfere crepuscolari divennero obsolete. Ma siamo d’accordo con Bianca Saletti, quando afferma: «Al di là degli attuali apprezzamenti e rivalutazioni di quegli artisti che, per analogia con il coevo movimento letterario, vengono definiti crepuscolari, è su alcuni di essi, in particolare Felice Carena, Evangelina Alciati, Cesare Ferro, che si innesterà il momento più interessante per la pittura torinese immediatamente successiva alla prima guerra mondiale» (cfr. Scritti d’arte di Enrico Thovez, a cura di B. Saletti, Treviso, Canova, 1980, p. XXXVIII). 60 Delle opere commissionate a Rubino dagli Agnelli, citiamo ancora: la figura seduta della signora Agnelli (prima opera realizzata per la famiglia torinese, esposta alla biennale di Venezia del 1907); il bel ritratto di Tina Nasi (1920 ca.); gli algidi busti tardi di Edoardo e Giovanni Agnelli; una curiosa statua di marmo, raffigurante Edoardo in tenuta da sci a Sestriere (h. 70 cm), conservata presso il Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino, e una medaglia in onore di Giovanni Agnelli (1924, diametro 28 mm). 61 Rubino presentò la scultura alla XVI Biennale di Venezia, nel 1928, «in una collocazione privilegiata», come sottolinea Monica Tomiato, e «curiosamente simile a quella attuale: nella rotonda dopo il vestibolo d’ingresso al Padiglione principale dell’esposizione». Per il catalogo della Biennale venne fotografato, con ogni probabilità, il modello in gesso della Vittoria, mentre in mostra la statua fu poi esposta in bronzo (almeno così risulta dalla didascalia della pubblicazione). 62 63 Scrive bene Canavesio: «Rimase intatto […] il potenziale di sensibilità dolente e partecipata nei confronti dei temi funebri, espressa in forma accentuatamente interiorizzata. Un orientamento che aveva bisogno di adeguate ambientazioni, dove uno spazio disteso e il silenzio accoglievano senza increspature i castoni e non disturbavano la contemplazione» (Cfr. W. Canavesio, Op. cit., p. 153). Cfr. Mario Cordero, La Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone, La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 95-103. 64 Madre, che era in realtà una delle due figure realizzate da Rubino per la tomba di Luigi Frugone e Giuseppina Ferrari (1942-44, Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova), venne esposta alla XXIII Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia insieme ad altre nove opere dello scultore, fra le quali spiccava una statua di Eva, subito acquistata dal Museo Civico di Torino. I recensori dell’epoca, però, non gradirono i «freddi saggi accademici» del senatore torinese. Rubino, purtroppo, appariva ormai fuori tempo: allora impressionava e piaceva la «vitale essenzialità plastica» di Arturo Martini e Marino Marini. 65 Dobbiamo alla caparbietà filologica di Monica Tomiato il merito di aver recuperato una rara immagine inedita de Il genio del fascismo di Rubino. 66 Sarebbe un peccato tralasciare, parlando del Rubino anni Trenta, la figura distesa intitolata Il risveglio (cm 220x54x86), un marmo levigatissimo e sognante, esposto alla Biennale di Venezia del 1934 e alla Promotrice di Torino nel 1938, ora custodito nella collezione delle Raccolte Frugone di Genova. Della scultura esiste anche un esemplare unico in bronzo (cm 90x34), di eccelsa fusione, che fu proprietà del critico torinese Marziano Bernardi, imparentato con Rubino. Il gesso preparatorio de Il risveglio, legato subito dopo la morte dell’autore, è conservato invece presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. 67 68 Cfr. Walter Canavesio, Op. cit., p. 152. 69 Cfr. Francesco Sapori, Scultura italiana moderna, Roma, La Libreria dello Stato, 1949, p. 471. 70 Cfr. Rodolfo Arata, Due nuove statue del senatore Rubino alla Gran Madre di Dio, in “Torino”, Anno XX , n 10, ottobre 1940, pp. 44-45. Nella scheda autobiografica consegnata all’Accademia Albertina (1930, circa), Rubino snocciola tutte le sue onorificenze e le sue cariche politiche: Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, Cavaliere Ufficiale dei SS. Maurizio e Lazzaro, Accademico di S. Luca e corrispondente dell’Accademia di Bologna, membro del Consiglio direttivo dell’Esposizione Internazionale di Venezia, consigliere comunale dal 1915 al 1923, assessore per l’istruzione Professionale e per le Belle Arti, membro del Consiglio direttivo della Civica Galleria d’Arte Moderna, membro della commissione edilizia dal 1912, insegnante di materie artistiche nella ex-scuola di Architettura del R. Politecnico (1919-20-21). 71 55 Giacomo Grosso, Ritratto di Edoardo Rubino, 1936 (Torino, collezione privata) The Rubino Enigma Reflections on the Physiognomy of a European Sculptor in an Artistic and Literary Context by ARMANDO AUDOLI It is undeniably true that Rubino ran the risk of being little more than an empty, albeit revered, name in the all too limited literature on sculpture that spans the period from the end of the 19thC to the beginning of the 20th century. With the exception, that is, of some fascinating but dated accounts, dug out from the artistic literature of that period and, coming nearer our own times, Daniele Pescarmona’s broad account;1 Walter Canevesio’s excellent study, focusing on Rubino;2 a couple of doctoral theses and a handful of mentions here and there. Edoardo Rubino: little more than a name but one whose career took off in style at a time when Turin was opening up to the European Modern Style with the fantastic Exhibition of Modern Decorative Art, which took place in 1902 and which witnessed the amazing Art Nouveau “pyrotechnics” of architect Pietro Fenoglio: the Turin of sculptors such as Bistolfi, Canonica and Calandra; of painters like Carpanetto and Giacomo Grosso who “renewed” the style of the previous century; of Oreste Pizio and Luigi Onetti, of the Anglophile Cesare Ferro and of Carena, the latter still under the spell of Carrière; of the “lazy” Reviglione, crazy over Khnopff’s chimeras; of Anton Maria Mucchi and his gloomy Gothic Symbolism; the Turin of Domenico Buratti with his socialist sympathies with peasants and poets; and Agostino Bosia; of the unlucky Gariazzo, the prophet of the future “silent theatre”;3 of Cesare Maggi, the Divisionist with his snow-tipped brush; of the young Pastonchi and Gozzano, the still younger piedmontese dandy that he was, lips tightly drawn in melancholy and eternally bathed in absinthe (that bitter green fairy, the Impressionists’ diluent, the liberator of fantasy); the Torino Mia of Nicola Galante and the Teutonic and insane Curt Seidel who committed suicide in the footsteps of Nietzsche; the city of the fearsome critics Mantovani and Thovez, of the muse Amalia Guglielminetti.4 A spasmodic Turin, one which sailed forth into the maelstrom of Europe on the wave of the intricate relations between the Scapigliatura and the figurative arts, making any understanding of the birth of modern sculpture in Piedmont5 dependent on a competent analysis of such ties. As indeed, is comprehension of the city’s sudden welcoming of aesthetic innovation from Northern Europe with open arms, or, again, the creative ferment which inspired Torinese sculptors from the last two decades of the 19thC onwards. The crux of the matter is back then, at the very moment that artistic expression was finally springing free from its late Risorgimental impasse. But there was more to it than that. Not least the charismatic stature of certain figures (led by Bistolfi, Rubino, Canonica and Davide Calandra): the main reason why many young talents came to Turin from all over Italy and the world, to enrol at the Accademia Albertina, where, until only recently, the classicist supremacy of Vincenzo Vela and Odoardo Tabacchi had reigned unchallenged. Another sure point in the city’s favour was the presence of numerous artistic foundries run by sometimes eccentric and paradoxical figures, obsessed by their own boundless ambition and by the high standard of their work (one name may stand for all: that of Emilio Sperati). Thus fin de siècle Turin, with its feverish artistic activity, was set to challenge Paris on the international stage for the leading role in modern sculpture. Two anecdotes may illustrate this point. The first concerns the Grand Palais, erected in Paris in a couple of years to host the Exposition Universelle of 1900, the artistic event which electrified the whole world and which, with unprecedented publicity, was to see in the new century. Nowadays, we would call it a global media phenomenon. So much so, that the leading star of the moment, Auguste Rodin, was called upon to supervise its decoration. It is noteworthy that the only foreigner he engaged to help him in the enterprise was a certain Giovanni Battista Alloati, 57 58 from Turin, where he had already made a name for himself in the creation of curious everyday objects in an unusually precocious Liberty style. More than a glowing promise of Italian Symbolism, Alloati may be considered a forerunner of the modern designer. It was by no means a coincidence that the 1900 Exposition marked a turning point in the heated debate on the decorative arts, which intended, once and for all, to overthrow the barrier dividing the “fine” and the “applied” arts. Rubino, too, showed no hesitation, at the first opportunity, in flinging himself into this aesthetic and social debate.6 The second episode again refers to Rodin, who, once again through the by-now “Parisian” Alloati, contacted the critic and “Crepuscolare” poet Giovanni Cena who, within the space of a year, had done his utmost, together with his dynamic friend Rubino, to organise e celebratory banquet in Turin for the great French sculptor.7 It was held on the 25th of October 1901 at the Circolo degli Artisti and, on that occasion, Rodin took the opportunity, before continuing his journey towards Carrara, of going to see Bistolfi’s Dolore confortato dalle Memorie (Love Comforted by Memories), that supreme relief for the Durio Monument, now in Turin’s Monumental Cemetery. The occasion solemnly consecrated Turin as the chosen centre for the reception of the Frenchman’s oeuvre and his spirit.8 What is more, the International Exhibition of Decorative Art of 1902, which had to say the least a “troubled” gestation, had already been planned by 1899 (so Turin should have beaten Paris to it); nevertheless, it had to follow on the splendid Universal Exhibition of 1900, not in 1901, as planned, since King Umberto I was assassinated at Monza, but in 1902 which coincided with the previously scheduled Exhibition of Fine Arts. «Turin, the most terrible of Italian cities. Baroque, algebraic, lunatic, spectral, scene of suicides and catastrophes, Turin slips through one’s fingers. The city that is more of a mistress than a mother, apparently bright and seductive but dizzy-making as soon as one explores its more intimate depths».9 This may be true but it was not only the city that «slipped through one’s fingers», as Milo De Angelis has pertinently remarked. Its artists are often equally elusive: extraordinary characters, hard to decipher and still harder to categorize… and Edoardo Rubino is a case in point. Unlike Bistolfi, he did not invent a style or cipher with which he could be immediately identified; unlike Bistolfi, he did not create a whole spiritual and visual world that was heavily impregnated with Literature, one which was previously unknown, though heavily influenced by his beloved Pre-Raphaelites: an aesthetic world, with its sophisticated Symbolist affectations, capable of conquering Europe and even of crossing Oceans to colonise, for example, the theatres and cemeteries of Central and South America. Rubino did not do all of this; there can be no doubt about it. His way of expressing himself was more typical of true Torinese’s understatement, but this does not mean his stimuli and creative turmoil were in any way inferior. Perhaps not so bold, not so essential as the artist from Casale Monferrato, but nonetheless full of submerged verve and latent morbidness. Rubino’s formal language is only apparently more simple and subdued, and it was immediately obvious that it was free from any unilateral legacy from the Realists or so-called Scapigliati, dragging these 19thC attributes into the 20th century and resorting to them, every now and again, only insofar as they served to bring life to the surface of his modelling. The clay beneath his fingers, just as the marble beneath his chisel, becomes both refined and sober, the subject of a subtly poetic way of expression, almost lyrical, by means of plastic forms which unfold in a continuous oscillation between giddy aesthetic peaks and sudden colloquial dives: of operatic high notes which may unexpectedly drop to low-keyed whispers about more earthly and human matters. The way that Rubino’s three-dimensional language has of “speaking” to us, combined with the vestiges of Realism to which we previously referred, is to be found, above all, in the portraiture of the early 20thC, whether commissioned by the middle-class or not. In Rubino’s sculpture, «bourgeois Realism is exalted in a Symbolist key», according to Rossana Bossaglia. The sculptor’s style relies on a series of delicate and hard-won equilibriums (even when he becomes bolder and more robust, as he does from the 1920s onwards), and is, for this very reason, evasive. His is a style that relies on a refinement of execution which is best expressed in artfully but naturally observed detail (take, for example, the melancholy expression of the Gressoney Girl of 1899 or the exquisite hands of the Young Girl from Nazareth,10 the slanted gaze of the Jealous Girl,11 the biting wit just barely concealed beneath Casimiro Teja’s moustache, the swollen lips and bags under the eyes of Federico Sclopis or the innumerable charming details that decorate the highrelief of the Monument to De Amicis); the importance of the detail with respect to the whole had already been stressed by a perspicacious French critic in 1902: «The figures12 by the sculptor Rubino that surround the central pavilion of the Exhibition [International Exhibition of Decorative Art] are not the only ones to represent Italian art at Turin, nor even architectural or monumental art in Italy. This Italian spirit, though a little too defective in the construction of the whole, is to be sought in the details; and after all, it here appears to its greatest advantage: over and above all, it is a spirit of refinement and geniality, sometimes a little too subtle in conception, sometimes a little too driven in the search for sentiment. But in the works where these elements are suitably restrained and moderated, the resulting art will be extremely pleasurable».13 His is indeed a spirit of refinement and geniality: in other words, the spirit of a style that seemed to perfectly incarnate the «modern form» that Thovez had singled out as the ideal way to overcome the morbose mannerisms of the late Pre-Raphaelites: a form that was «agile, springy, agitated, pulsing with youth», from which, at long last, a kind of art would emerge that would be «capable of reflecting the poetry of the whole world»;14 the synthesis of a style whereby material inexplicably yields to the touch of Edoardo’s delicate fingers to echo the way the brush caresses a canvas, (though not to be confused in any way with the agitated impressionistic effect that derived from the Scapigliati). Now it became gradually, almost imperceptibly soft, and with each modulation, step by step, came closer and closer to the ethereal fluidity of a barely hinted melody. The musicality that characterized Rubino’s modelling was noticed by Mario Labò, a young Genoese art critic and architect, close to Thovez,15 who exclaimed, on seeing the little portrait study of the standing Vivien Chartres: «Just look how musical she is, even in the manner of modelling!».16 By the way, Rubino had been commissioned by the Union of Turin Journalists to execute the portrait of the violinist Vivien Chartres; the statue, cast in bronze, was then offered to the fourteen year-old prodigy as a souvenir of the city where she had been born in 1893. Vivien was the daughter of the cosmopolitan writer Annie Vivanti and the Irishman John Chartres, a journalist who dabbled in business, as well as a Sinn Féin activist. Vivien, who studied the violin in Prague unfortunately, like so many others, did not live up to her precocious fame. Widowed young, she ended her days in Brighton where she lived in a chaos of neurosis and depression, tragically committing suicide with her second husband Richard Young, on the first of September 1941. As for her parents: John Chartres, an eccentric and distant father that some say was Rudyard Kipling’s impresario, had already died in poverty in Dublin in 1927; Annie Vivanti was originally told that her daughter and son-in-law had perished in the German bombing. During the Fascist Anglophobic clamp down (she was a British citizen of Jewish descent) she was placed under house arrest in Arezzo; Carducci’s former child-muse, barely made it back to Turin (freed directly on Mussolini’s orders) to hear of the demise of her daughter, news from which she never recovered. She converted to Catholicism and died shortly after on the 20th of February 1942. Until a few years ago, sketches for Vivien’s portrait could be admired among Rubino’s papers. Still in the realm of music,17 Rubino captured the most sumptuous and sophisticated Central European atmosphere when he portrayed the famous soprano Gemma Bellincioni in the role of Salome.18 Far from Beardsley’s iconographical hysteria, the Turin sculptor’s princess is a Judean in flesh and blood, captured at the height of her dance of the seven veils: the idea sprang from the first execution of Richard Strauss’s opera Salome, performed at the Teatro Regio in Turin on December 23rd 1906.19 It must have been a memorable event: the composer himself, already famed as the genius of modern melodrama, conducted from the podium. Edoardo exhibited his Salome20 – a sinuous statuette, 59 60 full of movement, with a certain Secessionist air, at the 7th Biennal Exhibition in Venice, an edition distinguished by two Central European salons: the central one decorated by Giulio Aristide Sartorio and the much discussed “Salon of Dreams” onyrically decorated by the quartet Chini, Previati, Nomellini and De Albertis. But we have digressed a little, perhaps, enthralled by the unexpected pliancy of Rubino’s pictorial and musical modelling: a way of modelling that still conserves quite a lot of the Romantic compositional sharpness of the dictates of Odoardo Tabacchi and Luigi Belli, though Rubino has them coexist in a masterly fashion alongside the strange ferment and the specious accents of Art Nouveau, that beautiful but perverted child of the approaching century. Rubino had, on the contrary, left Romanticism behind him when he began work on the Fountain of the Months, designed for the Valentino Park by the architect Carlo Ceppi in 1898 to celebrate the National Exhibition in Turin. Edoardo was given the figure of the Dora River to execute in cement.21 However, the unexpected triumph of the work caused him to be commissioned with three other allegories: a Mermaid, to be placed at the centre of the fountain basin, and a War and Peace, to be placed laterally; given the short space of time available, he was assisted in the latter by Cesare Biscarra. Having gone so far, we can perhaps now guess at the main reason behind the progressive oblivion of Rubino’s work and the consequential distraction on the part of critics regarding him as Man and Artist: the impossibility of stylistically classifying him or, in other words, of reducing his aesthetic language to a simplified schema that is immediately accessible to all. Both his style and his intimate character, far from exuberant, rather serious and introverted, are evasive and not easily read. In short, they are an enigma: the enigma Rubino. To this may be added the fact that, both at the beginning of the 20thC and in the interval between the two World Wars, Rubino’s art kept perfect pace with the times but was never innovative or ahead of them. And this, given the obsessive and obtuse legacy of the modern period, unfortunately constitutes a tremendous limitation as Alessandro Marabottini remarks: «There is a widespread tendency, born from Positivist thinking and historicism, to judge art according to principles which hold true only for science. An artist is considered important only insofar as he or she represents the innovative with respect to the past and a source of inspiration for the future. This way of thinking has influenced the fortunes of many artists who concluded an era, so to speak, and had a number of younger artists alongside capable of forging open a new epoch».22 In addition to all this, we cannot ignore the terrible state of abandonment into which Italian sculpture fell from the end of the Second World War onwards. Moreover, during the sixty years of his artistic activity, Rubino produced relatively little for the market, that ruthless tyrant (which for far too long has held back museums, historians and collectors); on the contrary, he was engaged in conceiving and executing important monumental and funerary works. We should probably make an exception, for the yet to be fully discovered production of his youth: plaques, medals and various objects of the applied arts, warmly sustained by Enrico Thovez,23 and still for the most part to come to light for study. Actually, we can point out one important recent discovery: a decorative plaque for a chimney piece, commissioned from Rubino in 1906 by the Frigerio family, then resident in one of the finest villas in Corso Massimo D’Azeglio (a miraculous survivor of the bombing of 1943). Both casting and patina are superb and the bronze is inscribed with a crackling pagan warning: Ignem in sinu abscondas. At first impression, one seems to sense – truly “fires hidden in the breast” – the palpitations of the Bistolfian neo-Renaissance style, but, if we lean a little closer to listen carefully, we can immediately distinguish Rubino’s unusual timbre, aestheticising and Realist at one and the same time, extremely refined but far from mawkish, (the virtuoso quality of the work reaches its climax in the indescribable interlacing of hands and fingers, and shows bursts of nervous modelling); Rubino’s is an intimate, persuasive timbre, one that is controlled on purpose and certainly not because the artist lacks inspiration. Private commissions for portraiture, a profitable artistic vein, permitted our artist to display some of his finest talents and his portraits are destined to appear on the market every now and again and so encourage private collectors to acquire his works. However, unfortunately portraiture remains a neglected branch of the already neglected art of Sculpture. Nor, when we think of the marvellous gessi or plaster models and casts that have come down to us from the Rubino atelier, can we derive any comfort from Luigi Carluccio’s words of 1972: «Sculpture has a difficult life. It has a body, a weight, and a bulk that paralyse the observer, so it is hard for it to come to life in a museum context; this is true in Italy, at least, where official money is nearly always allotted to try to catch up with the art of the past and to fill in missing pieces of information. The clamour surrounding the names of certain sculptors who have reached international fame, seems unnatural and bears little relation to the effective presence of the work of sculptors in real life environments».24 Let’s get back to unravelling the “enigma”. «Free from previous influences – or so an explicatory remark of yester years on the part of Giuseppina Jona goes – Rubino will always remain, however, the artist-poet and will prefer the gentle episode that he is capable of finding even in heroic themes; he will suffuse the faces of his figures with benevolence and his portraits will be animated by luminous smiles. His soul is simple and limpid; his sensibility is ecstatic and comprehensible, therefore spontaneous with no need for further reference to make its meaning clear. Here and there it bursts out, like water from an unexpected spring, unable to restrain itself, among episodes of bravery, heroism and strength».25 Rubino the artist-poet: quite right, too, although perhaps a little too much emphasis, too much insistence is placed on the simplicity with which his lyrical note emerges. The poetic and literary element of Rubino’s sculpture is never so intellectualised or deliberately obvious, especially when compared to that of Bistolfi, so steeped in cerebralism that, at the final count, he was refused the Sculpture Chair at the Accademia Albertina26 on the basis of the absurd and regressive motivation that it would have been impossible to entrust the teaching of sculpture to a “poet”27 (the osmosis between Bistolfi and the literary and musical circles of his times is obvious and the criticism was perhaps aggravated by his numerous commitments to writing articles, conferences, poems etc.).28 It is no coincidence that Sandra Berresford refers to Baudelaire’s correspondances when discussing the Bistolfian creed par excellence: the aspired union of all the arts.29 Sinesthesia in short. The assimilation of various languages of artistic expression, performed through the senses on the basis of the close correspondences among the different codes of expression, had been an intuitive conquest on the part of the Scapigliati, transmitted by Bistolfi – an initiation – to his “circle”, amongst whom Rubino soon stood out for his evident talent. Rubino, shy as he was, made no claims to writing and, in fact, hung on tightly to his hard-won role at the Academy: at first, from 1917, as Cesare Zocchi’s assistant and then, from 1924 to 1936 his successor to the Sculpture Chair. But Rubino also entertained a certain rapport with humanist literature and one which we believe to have been absolutely crucial in his formation, at least up to the first decade of the 20thC. In other words, we maintain that the young Edoardo enjoyed a sensitive affinity with the hybrid atmosphere of the “Twilight School”,30 which found in Turin a third pole of aggregation and diffusion after those of Rome and Genoa. The so-called Crepuscular Poets, our own “home-grown” pale letterati, may be considered third generation Symbolists, extreme and bizarre descendents of European Decadentism: they grouped together in disorganised cliques, at times, almost confraternities (the Roman coterie was headed by the dying Corazzini); they devotedly sang the praises of the Beauty of Death and of Sunday boredom; they cultivated the solitude of illness in a maniacal fashion; ecstatically contemplated the silence of cloisters or morosely adored the virginal purity of adolescent novices, the novices of Our Lady of the Moon; fed on gay sorrows, they were untiring aesthetes, friends of all beggars and every outcast. Guido Gozzano was all the rage in the Turin salon of the Crepuscolari. «He lies in counted syllables. His poetry feeds on the delicacies of Baratti, on brioches and sugared almonds», maliciously hissed Mario Giola in 1911, the year in which Treves published I Colloqui. With a jacket 61 62 designed by Bistolfi, the compilation of verses was the climax of the handsome young Guido’s precocious maturity. His biographers recall the hours that the cold sophist loved to spend in cafés talking about art and «with a refined gesture, wetting his lips from time to time with a little absinthe which he said gave him a little sweetness». Absinthe or perhaps a drop of ratafià: «Ratafià, pronounced evocatively the French way with the accent on the last syllable, is a liqueur produced in old-fashioned wine cellars. Fruit, alcohol and bitter herbs. Other names come similarly to mind. Arquebuse, for example (an alpine herb). Liqueurs, spirits, toxic and poisonous. There is more than one thing in common with the atmospheres created by Gozzano, woven into a poetical texture that, on the one hand, is measured and, on the other, hides perturbation and unforeseen poisons».31 The Crepuscular poets were Gozzano’s friends and they found themselves conversing, by no coincidence, preferably at Baratti’s café. Baratti & Milano, to give it its full name: the aristocratic confectioner’s restructured, from 1909, by the multi-talented Emilian architect Giulio Casanova and by our very own Rubino, one of several projects in which the two cooperated.32 Proprietors and founding partners of the “award-winning company” of confectionary were two men from Canavese, Ferdinando Baratti from Piverone and Edoardo Milano from Bollengo; at the time, it was expanding into two new rooms, (to serve as bar and off-licence), on the south-east side of Piazza Castello. The decorative work on the shop was only completed in February 1911, a few months prior to the great Exhibition of Industrial and Decorative Art.33 Rubino’s superb Bacchanal34 adorns the front of the café counter, while his strong sensitivity for a certain rhythmic overall composition – marked by the same cadences of the pilasters beneath the portico – was displayed in all its splendour with the relief inserts in bronze, also created by Rubino and placed, in the form of plaques, cast by his friend Corrado Betta, on pale slabs of Yellow Siena marble. Baratti & Milano, the favourite stage for Piedmontese aesthetes: shop windows and entrance from Piazza Castello and internal rooms running alongside the Subalpina Arcade. A very special meeting point, with not one, but two, pre-established and harmonious backdrops: on the one hand, the porticos of the Square; on the other, the transparent glass sky of the Arcade ceilings. One of our contemporary poets has suggested: «The central corridor of the Arcade, fenced in by an ornamental winter garden, would conjure up the titles and atmospheres of a certain Northern Decadentism such as Maeterlinck’s Hot Greenhouses».35 The cold winds of Northern Decadentism, in fact, lay behind the best prosodic concoctions of the Crepuscolari. And Maurice Maeterlinck, the Belgian author of the renowned Pelléas and Mélisande, was unanimously proclaimed their intellectual idol. The Crepuscolari: Gozzano’s habitual interlocutors chez Baratti. Lets run through them: the homoerotic Carlo Vallini and Giulio Gianelli; Sandro Camasio and Nino Oxilia (farewell Youth!); Bontempelli in his first manner, “talent-spotted” due to publisher Renzo Steglio’s infallible instinct (Eclogues, 1904); Carlo Chiaves and Enrico Thovez: dreamy the former, extremely polemical the latter; the humanitarian Giovanni Cena and already bombastic Francesco Pastonchi, though still moderately so; Cosimo Giorgieri Contri, a Tuscan paying homage at the foot of the Mole Antonelliana, who had anticipated his fellow poets with Il Convegno dei Cipressi (a bijoux dated 1894); the now forgotten Emanuele Sella, from Valle Mosso in the Biella region: the “occulted occultist”, eternally lost in his Giardino delle stelle (1907); Biagio Chiara, the fair piedmontese angel, exiled in Naples: our first bold translator of Oscar Wilde… at his own expense; and lastly, Giovanni Croce:36 Piedmont’s Corazzini, a delicate rising star of Crepuscular poetry, who died, in his twenties, in 1911, from heart problems. Among these cited poets, the “Northern” figure of Enrico Thovez37 would seem to merit most consideration: we should at least recall the appearance of his Poema dell’adolescenza (Streglio, 1901), a little fin de siècle masterpiece but neither should we ignore his little-known activity as a painter and as the enlightened Director of the Gallery of Modern Art in Turin (from 1913 to 1923). In order to actively campaign for what we now call “Ars Nova” and to spread the social and aesthetic Word of the spiritual heirs of Ruskin and Morris, Enrico had founded the periodical “L’arte decorativa moderna”, subtitled “the monthly illustrated magazine of architecture, decoration of the house and of the street”. The periodical, which systematically contained references to Rubino’s work – was conceived in collaboration with Leonardo Bistolfi, Davide Calandra, Giovanni Angelo Reycend and Giorgio Ceragioli: it was issued, intermittently between January 1902 and mid 1908 (in fact only two complete years were published with only three issues in the third year, such that it appeared continuously, but at irregular intervals from the second year onward).38 Nevertheless, we may find Thovez’s non-involvement in Turin itself, a city he proclaimed “hostile”, full of frustration and resentment, rather bizarre. For curiosity’s sake, we here quote the incipit of his bitter tirade against Turin (from his Farewell Speech to my Native City), from which emerges an unresolved and confused tangle of love and hatred, not exempt from snobbish affectation: «The city that had the honour to be my birthplace […] is not famous in the history of art. […] From its Roman foundation, it has borne the original sin of being designed like a chessboard, a barbaric and puerile theoretical and geometric conception, in other words, absolutely free of any intelligent attempt to adapt its layout to the surroundings, without any kind of aesthetic sensibility […]». Milo De Angelis’s remark on his Turin, described as «suicidal, implacable, specialised in loners» comes to mind.39 But this very Turin, so fatal to the artists and intellectuals whose nerves were so exposed, the Turin of Thovez and D’Aronco, was then – already in the last five years of the 19thC – the most modern city in Italy, as Alberto Clementi quite rightly insisted.40 Ah, we nearly forgot to mention the fact that Thovez did leave us a rather touching, self-aware portrait of himself in an unpublished letter to Rubino. The latter ad asked him, in all confidence, for some personal information that he needed to satisfy no more than a curiosity. After having entrusted the sculptor, who was known to model «graciously», to describe him, hopefully, in an equally gracious fashion, Enrico went on to confide: «I could say of myself, for example, that I’m not, whether by chance or by ill-luck, a hedonistic dilettante in my spare time, and that I’m not, Heaven forbid, a professor; that although I have unfortunately been a journalist, or rather a literary newspaper correspondent, I couldn’t help it, sadly, I was forced by the times, and I did it, whenever possible, under false pretences. You may say that I obviously lack common sense because, although I am a creature most terribly in need of friendship, I live in the most incredible solitude. And though I have a great propensity for joy, I spend my time in the deepest melancholy. You may add, though, that there are some mitigating circumstances to this self-contradiction to be found in that psychological masterpiece that the History of a Body and Soul will be, the work that I fondly think of as the most precious of my works, but one that will never be written […]. You may explain the fact that I no longer publish verse because the reception of my early works on the part of critics and the public was such to quash any foolish ambition I might have had to be fed to the lions again; but add that I have never stopped writing poetry for myself and that I have written some in which, I think it would not be pretencious to claim that I have broken some untrodden ground. You may conclude by saying that my only comfort is not poetry but painting and that painting female portraits would be my greatest joy if the lovely ladies only had less shopping to do and turned up on time for their sittings. I’m telling you all this quite plainly: you, as a good friend, will describe me in a better light, adding some complimentary adjectives here and there: I’m sure that our united forces will turn out a perfectly hateful portrait».41 Thovez is summed up in these few lines which also explain the implicit friendly understanding with Rubino. It would be useful, and indeed most satisfactory, if we could find some further evidence of a direct personal contact, let alone rapport between Thovez and Rubino: but, unfortunately, many doubts obstinately persist and it is almost too tempting to want to deliberately interpret the artistic and human physiognomy of a Torinese sculptor par excellence in a European context.42 Just as the Crepuscular Poets were at one and the same time Torinese and European: with their corpses and dying petals, on the border of darkness. «When Symbolism really got underway in Italy – comments Elio Gioanola – at the beginning of the century, it had already lost the char- 63 64 acteristics of the strong nihilistic and rebellious competitiveness of poets like Mallarmé and Rimbaud, and second generation Symbolist poets – those who borrowed from the noble Verlaine – were preferred as their models: in other words, the late Franco-Belgian Symbolists directly influenced our poets, from Samain to Tailhade, from Moréas to Verhaeren, from De Régnier to Rodenbach, from Maeterlinck to Jammes. Such poets seem to reject Mallarmé’s great lesson because, overall, their poetry includes exactly what had been rejected from “Pure Poetry”, that is external reality and feelings, which took the shape of familiar Crepusular elements (the park, the barrel organ, deserted streets, beguines and so on) and all-pervasive melancholy». And he continues: «In late Symbolism, the Poet’s radical isolation (and his work as the verbal recreation of the world) is transformed into real “malady”, with a consequential search for refuge within a selected ambience of chosen objects, all contributing towards a drastic decrease in vitality. Such a poetic atmosphere was well disposed towards the most Decadent aspects of Symbolism, where florid, Art Nouveau, exotic, mystic, decorative and musical tones are those most highly evolved».43 In Italy, this characteristic repertory, further mediated through D’Annunzio’s Poema paradisiaco, was chosen by the younger poets as an instrument of drastic separation, played in different keys thanks to the very nature of the repertory itself: thus, for example, Gozzano came up with the almost sarcastic invention of a famous series of objects and animals that became his personae (good things in bad taste, larvae, chrysalises and butterflies, between blotches of stinking ink). The late reabsorption of Franco-Flemish Symbolist stylistic elements, tainted with the influence of the Pre-Raphaelites and echoes of the Aesthetic Movement in Great Britain, never went down well with our academic critics: it was also present, (right at the dawn of the 20thC, so keen to get underway) not only in most of Europe but even in the most up-to-date letterati of Asia and America, who created a truly international renaissance of Decadent taste, not by sitting around a table devising a programme, but, rather, by producing a series of extremely refined periodicals, promoting all the arts. This was not limited to literature alone but obviously, reflected on the figurative arts. Decadent taste, (by now self-gratifying and complicated by the most varied adulterations), by declaring the absolute incompatibility of Art and Life, was transformed into a symbiotic style of art and half-bred life, halfway between the posed precariousness of the Bohémien and the affected dandyism of the modern sceptic. The illuminating influence on Turin cultural circles of a far-reaching essay by Arturo Graf dedicated to the Pre-Raphaelites, Symbolists and Aesthetes, issued in two parts in the Nuova Antologia between January and February 1897, was great on youths of Rubino’s generation (he was born in 1871). The fascinating Arturo Graf – professor of Romance Literature at Turin University and undisputed mentor of the Crepuscular Poets, who elbowed each other to attend his popular humanistic lessons on a Saturday afternoon – gave a lucid evaluation of the extreme aestheticism of the times which he held to be a precise and well-defined reaction: «The present literary reaction is especially directed against Realism, or rather, against Naturalism, which was its caricature, and the error, fault and excess to which the former, of necessity, fatally led. It is practised accompanied by two main concepts (I wouldn’t dare to say doctrines): known respectively as PreRaphaelism and Symbolism; the former is older but has come back to the height of fashion; the latter is more recent. They each have their own diverse tendencies but they also have much in common. Both are opposed to Naturalism: the former is disgusted by its vulgarity and crudeness; the latter hates the abuse of detail and the concrete; both challenge the so-called plasticism and marmoreal art of the Parnassians: both boast a disdainful and noble individualism: both say they are Idealists, they withdraw from real life, they lament and dream of reviving the medieval period, and they esteem as the highest and most perfect art the kind which is shut off from a broad spectrum of Mankind, adverse to contact of any kind, and involved in visions and dream […]». Thovez, receptive as he was, learnt much from Graf’s lessons and, some years later, wrote an interesting introductory text to critically accompany the Italian edition of a then recent volume by Jarno Jessen, Praerafaelismus: the translation of Jessen’s work44 was published in 1907 by one of Streglio’s rivals, the Dane, Carlo Clausen (successor to the Royal supplier Hans Rinck and first editor of the young Pirandello, then in his twenties), who published in Turin and Palermo. Actually, Thovez had even preceeded the poet of Medusa, in clarifying his position, in an article of 1895,45 with respect to the English Brotherhood: he clearly distinguished between the arcane poetry of the first Pre-Raphaelites (Madox Brown, the young Millais, Holman Hunt) from the “awkward” conventionality of its later exponents, led by Burne Jones and bearers of an aristocratically spiritualist tendency, the vacuous expression of a worn-out and degenerate aesthetic sense. On the other hand, the Turin critic failed to share Sartorio’s enthusiasm for Dante Gabriel Rossetti, then systematically hailed in De Bosis’s periodical “Il Convito”, sustained by D’Annunzio. Enrico, in particular, was crazy about Ford Madox Brown, considered «an intellectual brother», especially since Guido Rey,46 back from London, had described the unmistakeable «graining» of a painting (Work) that he had seen in Manchester.47 Madox Brown’s grainy way of painting, according to Thovez, was somewhat akin to that of the cultured, civilised painting of Andrea Tavernier. We are still at the same point, and there’s nothing to be done about it: balancing on the thin red line that relates the various arts, hovering between nostalgic neo-Early Renaissance visionaries and unreal literary Crepusculari. But the Crepuscular Movement did not altogether exclude reality, as we have seen. Should we then consider Rubino a Crepuscular artist-poet because of his slight Realist legacy, mixed with a dose of the venomous perturbation of aestheticising Decadence? It would not be too far off the Truth. But we still have to bear in mind that we are dealing with an enigma. To grasp the “literary” importance of Rubino’s European manner, it would suffice to examine two masterpieces from his Symbolist period, both created for the Monumental Cemetery in Turin: on the one hand the spectacular bas-relief Towards Peace for the Boido Family Tomb (1907) and the Porcheddu funerary group inserted there under a portico (1912). One thinks immediately of Böcklin and the Pre-Raphaelites, of Bistolfi and the Italian-Belgian Jules van Biesbroeck.48 But a thousand references are possible. A tousled bed of roses on the gently rocking funeral boat, a macabre aestheticising, almost exquisite voluptuousness and the splendid, divinely transfigured corpse of Amalia Dainesi: her head crowned with dead flowers, guarded by four sublime hands. At this point, nothing could be more appropriate than to refer to Pastonchi’s hendecasyllables of the Sepulchre, composed for Bistolfi, but absolutely perfect for the aforesaid marble compositions by Rubino: «Due fanciulle, che l’estasi inabissa / In lor preghiera, cullano d’un ‘Ave’ / Quella che giace in casto atto soave / Nel gorgo della sua chioma prolissa. // O Leonardo, il tuo pensiero eclissa / Ogni forma; e al pensiero agili schiave / S’offron le mani, onde nel marmo grave / Tanta luce di sogni arde e si fissa. // Buona è la vita, nel pensar la morte / Come un inganno dolce che rinnova / Le forme solo in cui l’anima varca. // Sembra che dalla fronte delle assorte / Questo sereno ammonimento piova: / E intorno tutta ne risplenda l’arca».49 A third Symbolist feat on the part of Rubino (actually the first in order of execution), destined for the Monumental Cemetery in Turin, the Monument to the Minister for the Admiralty, Benedetto Brin, unfortunately, never came to fruition since it was executed, instead, by the winner of the 1902 competition, Cesare Reduzzi. Edoardo had conceived a nude figure in meditation, gazing outwards towards the infinity of the sea, to symbolise the virility and creative genius of the deceased naval engineer; the figure leans on a rock, waves breaking at its foot, with naval charts containing designs unrolled at his feet. Fortunately, the maquette is reproduced in a contemporary issue of “L’arte decorativa moderna”,50 accompanied by an enthusiastic comment on the part of his supporter Thovez: «the principal merit of this maquette was in its truly monumental serenity, in the decorative elegance of its composition, and the exquisite delicacy of its modelling. Rubino rarely modelled anything so completely, and it is a great pity that this fine idea couldn’t be carried out». And what should we say of the Remondini Tomb (1912, Monumental Cemetery, Turin), the final farewell to life, expressed by an arm, poetically suspended in the void for all eternity? Or the funeral mon- 65 66 ument of the same period for the Girardi Family, cast in bronze by the exemplary artistic foundry of Lippi in Pistoia? And the sumptuous ecstatic group orchestrated for the Gambaro Family (1916-1920), Monumental Cemetery Turin)? And why should we not be amazed when we raise our eyes to see the decorative allegory of Charity and Credit, almost hidden from the passer-by’s view, as it crowns, high up, the façade of the unfinished building for the savings bank, the Cassa di Risparmio di Torino?51 One of Rubino’s latest sculptures is the decidedly Symbolist, Mask of Medusa of 1922, very close to the Medusa of the Monument to Umberto I in Rome. This latter is on the base of the monument that Vittorio Emanuele III commissioned in honour of his father, from Davide Calandra, after the triumphal reception in Turin of his Monument to Amedeo d’Aosta (1902): the equestrian Monument to Umberto I was, however, entirely executed by Rubino, after Calandra’s death, and was unveiled in 1926, standing on high ground in the Villa Borghese gardens, surrounded by scented pines. Rubino’s Symbolism, only apparently serene and untroubled by excessively cerebral toxins, recalls, through assonance, some words by Bistolfi, with reference to the “Modern Scottish style” (Glasgow School ndt.) pronounced at a conference on the 4th of June 1902 at the Alfieri Theatre in Turin: «And this sensation is one of great, limpid and ingenuous sweetness: an indefinable sense of pensive and penetrating ingenuity, like the sensation left in one’s soul after reading a page by Maeterlinck».52 There: Maeterlinck it is again. And with him, this lengthy literary digression draws to a close. We shall move on to attempt to approach Edoardo Rubino the Man. Human personality and psyche are unapproachable mysteries: the Greek tragedians were aware of it long before Freud and we should know it even better than all our ancestors. But nowadays, we often seem to forget it, driven as we are towards the sacred fire of Rationalism, which often merely simulates a scientific nature. The critic Paolo Cesare Rinaudo, however, did not ask himself so many introspective questions when he went to interview Rubino for the Torinese magazine “Il Prisma”53 and he saw, first of all, a Cyclopic worker and then the sculptor in body and soul, approach him, the latter appearing at a later stage, like some mysteriously light-footed creature. It was in 1912. Rubino was a totally youthful forty year-old. The scene was a curious one: «What a strange impression to see the artist, with the pale and serene face of a child, after the apparition of the colossus! It was as if the worker, who resembled Cyclops, had revealed the path towards the Underworld, full of mysteries. Rubino struck me with his so feminine aspect. Let us speak about his works […]. I observe the artist. His face is delicate, carved in gentle lines, outlining a countenance that expresses great goodness and exquisite refinement of feeling. Rubino is the poet of the chisel: in his marbles he narrates more than sculpts. His figures narrate a way of thinking, they reveal a feeling, they hint at the following phases of an action such that, on observing his works, I seem to see a whole series of movement, the varied rhythm of life captured over a long period of reflection». The impression that Rubino seems to have given, de visu, was one of a diffused sense of delicacy, almost of gentleness. Certainly: the artist placed his hand «gently» on his work, and so on. But that vague impression of “sweetness” or “gentleness” was the one most associated with his work such that it became almost a conventional stereotype. We believe that it was comparable to the type of “sweetness” associated with Maeterlinck, that is, one mixed with the bitter aftertaste of poison. Later on, the interviewer let himself go and defined Rubino «the poet of feeling» which means everything or nothing at all. It was Edoardo himself who had the epiphany. D’emblée. His words, like some extracted confession, must have struck his interlocutor and caused him to suddenly shiver: «But now I am tired of this continuous work which leaves me no respite. You see, some people judge me erroneously and say that I am lucky in that I have never had to struggle, that the way before me was already paved. It’s not at all true, you know. When I was a pupil under Tabacchi at the Academy, I studied in my spare time because, in order to afford my studies, I even had to forge and sell the tools of our profession. When I first entered Bistolfi’s studio, I was a simple worker for some time. Talk about easy! I had to struggle and the times were truly hard». The enigmatic Rubino takes us, too, by surprise and his words confirm our suspicion that, deep down, he was troubled by a fundamental, albeit suppressed, anxiety, an anxiety that brought his psyche and some of his sculpture in close proximity to the diseased sensibility of the Crepuscular Poets. Given the absence (we hope temporary) of suitable documentary and epistolary evidence, Rinaudo’s interview remains of exemplary importance. Also because it allows us to hypothesize a philological approach towards the sculptor’s spirit and his character. The discovery and study of a corpus of correspondence is essential if we are in any way to reconstruct his circle of friends, which, at the present state of affairs, is little more than a collection of shadowy ghosts. There must have been exchanges of opinion with a series of letterati: Edmondo De Amicis and Giovanni Cena, to name but two among many; and with artists: Grosso, Carpanetto,54 Casanova, Calandra, Bistolfi, Biscarra, Contratti, Cometti, Cesare Reduzzi, Corrado Betta and who knows how many more. Not to mention his talented favourite pupils: Abele Jacopi, Gaetano Orsolini, Luigi Aghemo, Umberto Baglioni, Arturo Arista, Emilio Musso, Antonio Zucconi, Nillo Beltrami, Claudia Formica, Pier Ugo Tirozzo, Aurelio Quaglino, Angelo Saglietti… Another characteristic that we can discern from the scarce amount of information at our disposal is Rubino’s modesty. Singular, perhaps even excessive, like that which transpires from his words during a commemoration speech in honour of the deceased Calandra, pronounced in the Turin Council in the Autumn of 1915: «When Davide Calandra was invited by the Buenos Aires authorities to compete in the competition for the Monument to General Mitre, he was afraid that his involvement in other works would not have allowed him to dedicate himself wholeheartedly and scrupulously to the great new enterprise, and, on the other hand, not wishing to renounce taking part, he proposed that I should help him accept the invitation and in the conception and preparation of the maquette. Artists from different regions were called upon to take part. I remarked to him that it would be better if his name alone appeared as competitor and, because I thought that an Italian artist of his standing should not fail to compete, I encouraged him to accept, offering to help him but not to officially appear as having done so. He would have none of it; he insisted on declaring my part and sincerely preferred to risk the danger that my obscure name might have brought, rather than adopt a “cover up”. And he had me participate in a victory that he could very well have achieved on his own». His name was far from obscure or even dangerous: the thirty-six year-old Rubino was already then (we refer to the period 1906-1907), a leading figure on the artistic stage in Turin and, indeed, in Italy, sustained, as he was, by Thovez and company. His talent was still emerging but had already been remarked: this is demonstrated by his assiduous contributions, from 1901 to 1910, to the most prestigious pages of the Roman periodical “Novissima”, an album of the arts and letters which marked the high point of Art Nouveau taste in Italy. Another journalist from the period, Giuseppe Deabate, was also surprised at such modesty and remarked on it in an article of 1927: «No, not even then, nearly twenty years ago, was Edoardo Rubino an obscure name. He was already renowned among our young sculptors as one of the strongest, most tenacious and promising».55 The Monument to Bartolomé Mitre – majestic but light and elegant at the same time – launched Rubino’s name in the firmament of sculpture overseas56 and throughout the world. «It isn’t as if the work was a four-handed piece», Rubino observed, «Calandra and I evolved the maquette and we divided the task according to our artistic natures. Calandra took on the execution of the equestrian monument; I conceived the various groups around the base».57 When the Monument to Bartolomé Mitre was definitively composed – and the groups shipped out from Italy assembled – and inaugurated in 1927, Rubino was at the height of his reputation.58 The period between the two Wars was one of great fecundity and professional growth for Edoardo. It was at this time, with his usual modesty, that he began to be patronised by the Agnelli family. Gozzano, consumed by tuberculosis, had died young in 1916: the Aesthetic flower in his buttonhole and his retinue of Crepuscular poets, were now long since gone.59 Wisps of late 67 68 Symbolism survived only in certain evocative films by Febo Mari, produced by Ambrosio. As far as art was concerned, Turin had become the city of Riccardo Gualino, where Casorati reigned supreme, of Fillia, the second-generation Futurist, of Edoardo Persico and the Francophile Group of the Six Painters. Meanwhile, the Lenci Works produced magnificent and innovative artistic ceramics, destined to bring fame to Piedmont whether in the halls of the Metropolitan Museum in New York or in the offices of “The Studio” in London. For the first time in Turin, echoes of Maillol were to be seen in Giovanni Riva’s figures for the Angelica Fountain in Piazza Solferino; Baroni, of Pugliese origin but Ligurian formation, for his part, exhaled his dying breath in completing the Monument to the Duca d’Aosta, his genius straining the by-now antiquated style to its extremes. Agnelli was to become a strong supporter of Rubino’s art: apart from works in two churches, one in the Cemetery of Villar Perosa and the other in the Parish Church of Sestriere, he commissioned and financed the execution of the enormous bronze Victory, the beacon dedicated to the memory of the fallen in the First World War; erected on one of the hills surrounding Turin, the Maddalena (with the assistance of his pupil Aurelio Quaglino), the monument was unveiled in 1928. Also for Senator Giovanni Agnelli Snr., Rubino designed and executed the impressive marble Altar-piece for Don Bosco illustrating his mission as educator amongst the young, swarming with a myriad of figures, carved in relief, and destined for the Salesian church of the International Institute dedicated to Edoardo Agnelli.60 Neither should we omit to mention the important working relationship between Rubino and Casanova, on the one hand, and Senator Agnelli on the other, when the work for furnishing and furbishing the Royal Train was contracted out. We have already mentioned the colossal Victory for the Maddalena beacon and we shall certainly not refrain from alluding to what we believe to be one of the best allegorical statues, dating from his maturity, another Victory, evolved between 1918 and 1928: faultlessly cast in bronze (in honour of the Post Office workers who fell in the First World War), the modern Nike, still on show in the atrium of the central Post Office building in Turin.61 On the basis of what we have observed so far, we feel we can assert that Rubino’s production during the Fascist period was extremely worthy of note, especially as far as his funerary pieces are concerned:62 this is amply sustained by works of the quality of the monument commemorating Giuseppina Chiesa (1930, Monumental Cemetery Milan) with its discarnate purity, or the Tomb of Alice Schanzer, Tancredi Galimberti’s wife, for the Chapel of the same name in Cuneo (1938-40).63 But of no lesser importance are the intense Mother, a figure full of pathos exhibited at the XXIII Biennale in Venice (1942),64 or two contemporary works done for the Regime, both cast in aluminium: the first, known as the Genius of Fascism (a grand equestrian statue of the Duce, geometric in a Futurist fashion, immortalised nude and with his right hand raised in salute), was to be found in the grounds of the “Claudio Castellani” power station at Ponte Gardena and was destroyed in the 1960s;65 the second, a stunning equestrian group entitled Energy Tamed (1940-45 circa), still paws the ground and powerfully dominates in front of the hydro-electric power station of Glorenza.66 Even the previously disparaged Monument to the Fallen of Novi Ligure or the complex national Monument to the Carabiniere, a colossal, set in the lower gardens of Palazzo Reale in Turin, unveiled on October 22nd 1933 in the presence of Vittorio Emanuele III, can now be viewed with eyes unconditioned by preconceived ideologies. In these works, the sculptor did what he always did, though with a slightly different approach: he observed objective data exactly as it was, then brought a process of idealised abstraction into play, without ever completely rejecting reality, though, thus managing, every time, to «freeze» his story at its «most exemplary moment».67 His never suppressed devotion to the Real did not go unnoticed by that attentive critic, Francesco Sapori: «Devoted to Truth and eager for Beauty, Rubino has his own taste in composition and adores lines traced with docile charm».68 A docile charm nurtured «beyond all limitations of trend or school, over and above conventional and, at times, meaningless demarcations of style»:69 or so said a critic in 1940 when presenting two new religious sculptures by «Senator Rubino» (the Sacred Heart and a Crucifixion for the Church of the Gran Madre di Dio in Turin). But the ingenuous commentator could not have imagined that this very language of expression, matured as it had beyond “trend” or “school”, that this very poesis, free from convention and codified styles, would have become the principal obstacles to a correct posthumous assessment of our artist’s work. After the First World War, Rubino succeeded in modernising his way of modelling and sculpting, neither obsequiously following the trends of official art currents, nor ever contradicting the peculiar and intimate poesis of his artistic conceptions, consisting of invisible underlying turmoil and light ultra-sensitive vibrations of surface. The decorative quality of his work is toned down, his forms become stronger and more essential; the zeitgeist of the Twenties is reflected a few vigorous cadences of the Renaissance latine or Neo-Latin, as it is also known in Italy, but the basic lyric remains unchanged. Unlike the older but ill-starred Bistolfi (who quickly fell out of favour to be mercilessly mocked by the Modernists), Rubino’s later period saw him covered in laurels while newfound creative energy allowed him to carry on working during and after the Second World War and to die in glory,70 at the age of eighty-three, stricken by angina pectoris when at work on his last creature: the solemn, essential figure of Francesco Ruffini, commissioned for the Athenaeum of Turin University in Via Po. And so, while considering the inhuman, abstract fixity of the statue of Francesco Ruffini and, bearing in mind the exploratory and inquiring nature of this study, we feel it appropriate to close with a final query. Might not the time have come to question the Manichean prejudice that sees the late Rubino as a survivor who outlived his artistic times? 69 Notes 70 1 Daniele Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia, in Eclettismo e Liberty a Torino: Giulio Casanova e Edoardo Rubino (edited by Franca Dalmasso), Turin, Il Quadrante, 1989, pp. 89-110. Catalogue of the Exhibition at the Accademia Albertina di Belle Arti (18 January-5 March 1989). 2 Walter Canavesio, Edoardo Rubino e la Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone, La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 151-157. 3 Pietro Antonio Gariazzo (1879-1964), Turin painter and intellectual, unsuccessful as far as his artistic career was concerned, was one of the first Italian theorists of the cinema which he defined as “silent theatre” (cfr. Pietro Antonio Gariazzo, Il teatro muto, Turin, Lattes, 1919). 4 Among the various illustrations by Rubino, we should recall the cover that the sculptor designed for Amalia Guglielminetti’s tragic poem, L’amante ignoto (The Unknown Lover) (Milan, Treves, 1911). 5 In 1900, critic Primo Levi published his pioneering essay entitled La scultura nova in Piemonte (Roma, Società Editrice Dante Alighieri), with a precocious analysis of the three sculptors Pietro Canonica, Davide Calandra and Leonardo Bistolfi. 6 It was with respect to the applied arts that Rubino came closest to imitating Bistolfi, (and hence to the phenomenon know as “Bistolfism”) contaminated by a decided predilection for the Central European decorativism of Gustav Gurschner. This may be witnessed in: the trophy for the International Horse-racing Competition held in Turin in June 1902; the pendulum clock presented at the Vth International Biennale in Venice in 1903, in the Piemontese Exhibition Room, co-ordinated by Giacomo Grosso, a wonderful electric light and, above all, in the incandescent Symbolist high-relief entitled Fiamma (Flame), placed above a decorative fountain, «in honour of the Professor of Hygiene Icilio Guareschi», presented at the Biennale of 1905, the year in which he won a gold medal. The fountain was published by Vittorio Pica in L’Arte Mondiale alla VI Esposizione di Venezia (1905) and, like the above works of applied art, also by Enrico Thovez in “L’arte decorativa moderna” (the last numbers of 1902 and those of the whole second year, issued irregularly between January 1903 and December 1906). 7 An account of the banquet is published in “La Stampa”, which had anticipated Rodin’s visit to Turin (Cronaca, 23 October 1901). It was held in «an extremely aristocratic room of the Circolo degli Artisti, decorated green and lit with great mirrors» in the presence of the crème of Turin artistic society (among the artists: Leonardo Bistolfi, Cesare Reduzzi, Pietro Canonica, Edoardo Rubino, Davide Calandra, Cesare Biscarra, Giacomo Cometti, Lorenzo Delleani, Carlo Pollonera, Giovanni Battista Carpanetto, Carlo Follini, Giovanni Guarlotti; Giacomo Grosso did not attend, being caught up in South America. Mucchi, Cena, Thovez, Reycend, Graf, Corradino and Camerana were there among the intellectuals). Cena and Bistolfi proposed the final toasts (Arti e Scienze. Ad Augusto Rodin, in “La Stampa”, 26 October 1901). 8 Cfr. Flavio Fergonzi, Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 1, in “Prospettiva”, n. 89-90, January-April 1998 and Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 2, in “Prospettiva”, n. 95-96, July-October 1999. 9 Milo De Angelis, Presentazione, in D. Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milan, Unicopli, 2003, p. 7 10 La Giovinetta di Nazareth (The Young girl of Nazareth 1902, marble, cm 30x48x32) is a late example of that mystic late 19thC trend, between Realism and Decadentism, which had prestigious antecedents in Turin in the field of sculpture: Fior di chiostro (Flower of the Cloister, 1884) by Davide Calandra and Dopo il voto (After the Vow, 1889), Istinto materno (Maternal Instinct, 1894), Meditazione sulla morte (Meditation on Death, 1900) and Le comunicanti (The communicants, 1901) by Pietro Canonica. Rubino’s little Madonna, though, is tainted by exhausted Aestheticism and descends from the Pre-Raphaelites (viz The girlhood of Mary Virgin, masterpiece of the 21 year-old Rossetti), and is indiscutably more “modern”, the ambiguous and already contaminated fruit of the new century. It was shown at the Quadrennial Exhibition of Fine Arts in Turin in 1902 and is now in the Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea in Turin, bought, at the time, with another marble, a Portrait, better known as the little Luciano girl. A second example of the Giovinetta di Nazareth was shown at the Glaspalast in Munich in 1913, while a further version in marble is to be found in the Museo de Arte Italiano in Lima, Peru. Several versions cast in bronze are also known to exist. 11 The little head entitled the Jealous Girl (1902 ca.) was exhibited by the collector-dealer from Mantova, Ferruccio Stefani, who was then associated with the Witcomb Gallery in Buenos Aires, in the second Latinamerican Exhibition of 1903. Cfr. F. Stefani Exposiciones de Arte (Buenos-Aires, Montevideo, Valparaiso), Catálogo de la II Exposicion, Milano, Alfieri & Lacroix, 1903, p. 39. Another example is in a private collection in Turin. 12 Rubino was charged with most of the sculptural decoration of the International Exhibition of Decorative Art in Turin (together with the architect Raimondo D’Aronco) and was commissioned to execute the group entitled Dance, five metres high, repeated six times, with slight variations in the positions of the four figures, around the cupola of the main pavillion, as well as the allegorical statues of Painting and Sculpture, for the façade of the Fine Art Exhibition building; the daring gilding of these latter two figures was sharply criticised by critics Enrico Thovez e Alfredo Melani. Rubino was awarded a grand diploma and gold medal for his sculptural groups for the 1902 Exhibition. Instead, King Vittorio Emanuele III, who had been on the throne a couple of years, bought a reduced version in bronze of Dance, which enjoyed considerable success, as is demonstrated, for example, by the existence of a well known cache-pot in biscuit by Ginori, evidently inspired by Rubino’s so-called “Four Graces”. The plaster maquettes of Dance, Painting and Sculpture are now in a private collection in Pinerolo. 13 Gustave Soulier, L’Esposizione di Torino, Il contributo italiano, in “L’art décoratif”, September 1902, pp. 234 -245. 14 Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della Sera”, 16 October 1895, republished in Il Vangelo della pittura ed altre prose d’arte, Turin, Lattes, 1921, pp. 119-127. 15 Mario Labò (1884-1961) intensified his collaboration with “L’arte decorativa moderna” from the fourth number of the third year onwards, working alongside Thovez as editor; having renewed the editorial staff, it was erroneously believed that the issue would become more regular, a hope expressed in the editorial to the same fourth issue of 1907. 16 Cfr. Mario Labò, La statuetta di Vivien Chartres di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 2, 1907, pp. 57-58. 17 While still in the field of music, let us not forget the plaque created in 1903, commissioned by the Associazione della Stampa Subalpina. Entirely Symbolist in its conception, it was cast in silver by the Turin jeweller Musy and dedicated to a deserving and exceptional member: the tenor Francesco Tamagno. 18 Cfr. “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 3, 1907, p. 93. 19 Historians of music are still arguing over exactly when the Italian début of Salome took place. Whether it was on the 23rd of December 1906 at the Teatro Regio in Turin, when Strauss himself took the stand, or whether it should be considered the final dress rehearsal, open to the public, conducted by Toscanini at the Scala in Milan, staged that same afternoon. It was a head-to-head race and Toscanini was extremely annoyed with the Bavarian composer who had promised him that he could conduct the first public performance of his new masterpiece. Cfr. Giorgio Gualerzi, Salome delle discordie, in “Torinosette”, Friday 15th - Thursday 21st February 2008, p. 25. 20 The Salome was in bronze by the Turin founder Menzio. This technical detail is to be found in an unpublished, threesided letter sent by Rubino to Spirito Lucinano, who was then at work in Mexico City with fellow-sculptor Enrico Alciati. In the letter, written in Turin on the 14th of April 1907, Rubino informed his friend and assistant that «[...] on Saturday 20th, on my way to Venice, I shall take the bronze Salomè with me (I have just sent the retouched wax off to Menzio, who has promised to be able to get it to me (in time)». 21 The remaining Piemontese rivers (the three Sture, Po and Sangone) were allotted in that order to Giacomo Cometti, Luigi Contratti and Cesare Reduzzi. 22 Alessandro Marabottini, Lionello Balestrieri. La vita e l’opera, in Lionello Balestrieri (Cetona 1872-1958), Florence, Edizioni Pananti, 2000, p. 30. 23 Cfr. Enrico Thovez, Placchette, medaglie e monumenti di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Year II, n. 7, 1905, pp. 193-197. 24 Luigi Carluccio, Bruno Martinazzi, Turin, 1972, Catalogue of the exhibition at the Gallery La Parisina (March 1972), pages not numbered. 25 Giuseppina Jona, Artisti contemporanei: Edoardo Rubino, in “Emporium”, Vol. LXVII, n. 398, february 1928, pp. 68-69. 26 The Chair was given, instead to the Florentine classicist Cesare Zocchi (1851-1922), with 56 votes in favour and 54 against: Zocchi’s solid and conventional style was certainly a more reassuring choice than the visionary genius of Bistolfi, especially from a dull scholastic and narrow-minded point of view. 27 It seems that Bistolfi’s exclusion was a foregone conclusion and the scandalous official verdict was as follows: «Bistolfi is a poet, not a sculptor!» Thovez and his band were immediately scandalised: «The nomination of Zocchi as Sculpture Professor in the Academy of our city which for so many years has given hospitality to Leonardo Bistolfi and which considers him one of its own citizens […] is so gross that it will evoke surprise and deep regret not only in Turin but throughout Italy». (cfr. La Cattedra di Scultura all’Accademia Albertina e la nomina dello Zocchi, in “L’arte decorativa moderna”, Year II, n. 7, 1905, pp. 211-214). See also the vehement protests written by Turin artists and pupils of the Albertina Academy, published again by Thovez in “L’arte decorativa moderna” (Year II, n. 8, 1906, p. 254). 28 In 1909, as Sandra Berresford has observed, Bistolfi «came out with one of the very few episodes of self-defence known to us, [R. Sacchetti, La nuova ebrezza artistica di Leonardo Bistolfi, in “Il Secolo”, 18 January 1909], in which he contested the accusation of creating “Literature” and, on the contrary, maintained that he created his sculture “plastically”, through form, never separately from it». Cfr. S. Berresford, Bistolfi e il “Bistolfismo”, in R. Bossaglia and S. Berresford, Bistolfi 1859-1933. Il percorso di uno scultore simbolista, Casale Monferrato, Piemme, 1984, p. 21. 29 Cfr. Sandra Berresford, Op.cit, p. 177. 30 Cfr. Roberto Rossi Percerutti (edited by), Torino Art Nouveau e Crepuscolare. Poeti e luoghi della poesia, Milan, Crocetti, 2006. 31 Dario Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milan, Unicopli, 2003, p. 21. 32 Other memorabile fruits of the long period of cooperation in Turin between Rubino e Casanova are: the Palazzo delle Poste e Telegrafi (Turin Post Office), on which they worked from October 1905 to March 1911; the funeral monument for the PorchedduDainesi Family of 1912; the entrance porch and the exterior sculptural decorations of the renewed Società Promotrice delle Belle Arti (1914-16); the tomb of Carolina Invernizio of 1916 and the confectioner’s store of Romana-Bass, situated in Piazza Castello and restructured between 1918 and 1920. For the latter, Rubino conceived a magnificent bronze relief (held to be lost but, in fact, in a private collection in Turin), and a bronze statuette, then placed on the counter of the liqueur store and now unfortunately lost. 33 For the Universal Exhibition of 1911, an event which brought seven and a half million visitors to Turin, Rubino created a splendid bronze plaque, cast in different sizes and awarded accordingly as diploma of merit or as grand prix. 34 With regard to Bacchanals, we should recall the important Baccante or Offering (cm 74x28x28), a bronze from the early years of the 20thC, belonging to the Frugone Collection in Genoa. Purchased by the entrepreneur collector from the dealer Ferruccio Stefani, one of Rubino’s earliest supporters, it is an excellent example of the sculptor’s approach towards Symbolism, never entirely free from Realist references: take, for example, the finely rounded buttocks and thighs of the follower of Dionysus. Equally interesting, and still more finely-shaped, is the other bronze Baccante in the Frugone Collection dating from a much later period. 71 35 Dario Capello, Op. cit., p. 17. 36 To corroborate our theory of the close relationship between the figurative arts in Turin at the start of the 20thC and the “Twilight School”, we should note that the tomb for the poet Giovanni Croce (1912, Monumental Cemetery, Turin) was the first official commission received by the young Emilio Musso, who had only just graduated from the Albertina Academy and who was working as pupil-assistant to both Calandra and Rubino at the time. 37 72 The personality of Enrico Thovez (1869-1925) is one of the most complex and contradictory in the Subalpine cultural ambience at the start of the 20thC. Torinese, of Savoy origin, with Sardinian and Catalan origins on his mother’s side, Enrico graduated in Literature and wrote regularly for newspapers and periodicals, contributing articles on society and literary and artistic criticism. He was involved in the circle of University élite that revolved around Arturo Graf where he stood out for his contentiousness, denouncing cases of plagiarism and inferior aspects of Gabriele D’Annunzio’s art, and opposing the literary supremacy of Carducci and Pascoli (see, for example, his Il pastore, il gregge e la zampogna, Naples, Ricciardi, 1910). A pasionate fan of Wagnerian melodrama and a portrait painter, Thovez was active in the field of art criticism, too, where he revealed himself as somewhat eccentric in both the sector of contemporary art and that of the past: he could not stand French Realism, for example (Courbet, in primis), or the Impressionists, especially Van Gogh and Cézanne. Instead, he adored the early Pre-Raphaelites, admired Rodin, and welcomed the coming of Art Nouveau with open arms, actually undertaking to spread the word in Italy by taking part in the complex organisation of the International Exhibition of Decorative Art of 1902. 38 Every now and again, we come across the erroneous note that “L’arte decorativa moderna” was reissued in 1909 under the new title “Per l’arte”. Actually, “Per l’arte”, a monthly Turin magazine dedicated to the applied arts, was quite another thing: edited by Giovanni Battista Gianotti and published by the Società Italiana di Edizioni Artistiche C. Crudo & C. (Turin), the magazine was issued – it, too at irregular intervals – between 1909 al 1915. 39 The Milanese poet continues: «Closed in its perfect octagon, crossed by its perpendicularities. It constantly clashes with the intricacy of the segments of which it consists:a city of corners and contrasts, of secret perimetric ascents», Op. cit., pp. 8-9). 40 Cfr. Alberto Clementi, Storia dell’arredamento, Milan, Società Editrice Libraria, 1952, pp. 124-148. To tell the truth, we should not overlook two other convinced supporters of the European importance of Thovez’s Turin, namely Italo Cremona and Albino Galvano. 41 The passage is taken from an unpublished letter written to Rubino dated «Torino, 27 giugno 1917». The note, densely written and full of corrections, is part of the Fondo Enrico Thovez, deposited in the Centro Studi Piemontesi in Turin. Our thanks to Albina Malerba for making the material available (previously researched by the Italian scholar Paolo Luparia). 42 In support of reading Rubino’s intellectual horizons in a wider European context we may cite the presence, in his studio archives, of a photograph by the German Baron Wilhelm von Glöden. Photos by Von Glöden (a Decadent aesthete tainted with “perversity”: friend of Wilde and D’Annunzio, of Costantino Barbella and Matilde Serao) were used and esteemed by artists of the standing of LawrenceAlma-Tadema, Frederick Leighton, Maxfield Parrish, Alfred Stieglitz, etc. 43 Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Milan, Librex, 1986, p. 13. 44 Jarno Jessen, Prerafaelismo. Con aggiunte originali sul Prerafaelismo in Italia del dr. Enrico Thovez, Turin, Clausen, 1907. 45 Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della Sera”, 16th October 1895; republished in Il Vangelo della pittura ed altre prose d’arte, Turin, Lattes, 1921, pp. 119-127. 46 Rubino was friend and hiking companion of Rey, for whom he illustrated the book Il monte Cervino (Milan, Hoepli, 1904), prefaced by Edmondo De Amicis: the original drawings are conserved on 23 sheets in the Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi” in Turin. Guido Rey (1861-1935), born in an illustrious family of entrepreneurs (he was the grandson of Quintino Sella) and student at the Albertina Academy, is remembered as a photographer, intellectual and notable mountain climber. He exhibited his photos for the first time in 1892 and received official recognition for his work at the first Esposizione generale italiana, held in Turin in 1898. The following year, his aestheticising images, Flemish in taste, received a gold medal in Florence. In 1902, at the Esposizione Internazionale di Arte Decorativa in Turin, his “Dutch” inspired photos were shown with great success; these also brought him international fame and they were published in the British periodical “The Studio” (prefaced by Enrico Thovez) and in “Camera Work”, the famous New York review, edited by Alfred Stieglitz. 47 Cfr. Enrico Thovez, Diario e lettere inedite (1887-1901), edited by Andrea Torasso, Milan, Garzanti, 1939, p. 992 (the passage quoted is dated «29th May 1900»). 48 Jules Pierre van Biesbroeck (1873-1965) was a painter and sculptor held in high regard by our artists at the beginning of the 20thC. Son and pupil of the Belgian Jules van Biesbroeck, Professor of Ghent Academy, he officially débued in 1888 at the Salon des Champs-Elysées in Paris. Born in Italy, (at Portici, near Naples), during his parents’ visit there, he was to return to Italy many times to make contacts and friends and to reside, first at Bordighera, then at Palermo during the Great War. He exhibited at the Casinò in San Remo and at the Kursaal in Palermo. In 1935, he opened an atelier in Algeri. An important retrospective exhibition of his works was held in Ferrara at the Palazzo Muzzarelli-Crema from 15 at 23 June, with a fine catalogue edited by Lucio Scardino and Arturo Malagù (Ferrara, Liberty House, 1991). 49 Francesco Pastonchi, Sepolcro, in Belfonte, Torino, Streglio, 1903, p. 131. «Two maidens, heads bowed in ecstatic prayer, / cradle with an “Ave Maria” a third maiden, lying sweetly and chastely composed amidst her whirling voluptuous hair / Oh, Leonardo, your Idea eclipses all Form; and agile hands are proffered, slaves to your Thought, to carve the light of ardent dreams in solemn marble // Life is good when Death is conceived of as a sweet deceit which renews forms only in the passing soul / and from the minds of those absorbed in prayer, this serene admonishment appears to flow: and the tomb is lit up by it». 50 Cfr. Enrico Thovez, Il concorso per una tomba-monumento a Benedetto Brin, in “L’arte decorativa moderna”, Year I, n. 2, February 1902, p. 56 (ill.) and pp. 60-61 (text). 51 Rubino’s group is the one on the right, on the façade of the building in via Bertola. The design and construction of the Cassa di Risparmio’s new building was a troubled affair: the site opened, with a lot of administrative irregularities, in 1914. Work was still underway in 1923 (the year that the protagonist of this incredibile episode, the engineer designer Carlo Angelo Ceresa, died). So the unfinished building was sold to the Società Idroelettrica Piemontese on April 3rd 1925. Cfr. Aldo Castellano, Il palazzo incompiuto di via Bertola, in Banca CRT. Storia, patrimonio d’arte, comunicazione d’impresa, Turin, 2002, pp. 146-150. 52 Leonardo Bistolfi, L’arte decorativa moderna, a conference held at the Teatro Alfieri, at the request of the Università Popolare, on the 4th of June 1902, published in “L’arte decorativa moderna”, Anno I, n. 5, May 1902, pp. 129-152. 53 Cfr. Paolo Cesare Rinaudo, Pietro Canonica, Tancredi Pozzi, Edoardo Rubino. Interviste, Artisti e fatti contemporanei (series I), Turin, Il Prisma, 1912. 54 A vivid pastel portrait, showing the sculptor aged 25, dated 1896 and previously uncited, is evidence of contact between Rubino and the older Torinese painter Giovanni Battista Carpanetto (1863-1928). Exactly 40 years on, Giacomo Grosso also painted his friend Edoardo, by now crowned with glory and honour. 55 Cfr. Giuseppe Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre, in “Le Vie d’Italia e dell’America Latina”, July 1927, pp. 773 -779. 56 Another monument overseas, is that to General José Maria Cabal Barona, Martyr of Colombian independence and member of the Expedición Botánica. Created by Rubino for the Plaza de Cabal (or Parque Cabal) in Buga, the monument is often attributed to an improbable “Fernando Rubinni”; it was probably inaugurated on the 6th of August 1924, when the main square in Buga (Colombia) itself was inaugurated. 57 Paolo Cesare Rinaudo, Op. cit., p. 8. 58 Cfr. Franco Sborgi, Buenos Aires: il monumento a Bartolomé Mitre, in R. Belmondo and M. M. Lamberti (edited by), Davide Calandra. L’opera, la gipsoteca, Savigliano, 2004, pp. 151-163. It seems likely that that same year (1906) Rubino was commissioned to execute the Tomb for General Mitre, for the Recoleta Cemetery in Buenos Aires: this strong, vigorous piece of funeral sculture was fairly recently restored. 59 The terminus of the Crepuscular Movement is unanimously held to be 1916, the year in which Marino Moretti published the verses of his Il giardino dei frutti (Naples, Ricciardi). The “Twilight” atmosphere became immediately obsolete after the Great War. But we agree with Bianca Saletti, when she states: «Quite apart from the presentday appreciation and reevaluation of those artists who, by analogy with the contemporary literary movement, are also defined “Twilight” or “Crepusclar” it is on some of them, particularly Felice Carena, Evangelina Alciati, Cesare Ferro, that the most interesting moment in Turin painting, immediately after the First World War, will be grafted» (cfr. Scritti d’arte di Enrico Thovez, edited by B. Saletti, Treviso, Canova, 1980, p. XXXVIII). 60 Among the works commissioned by the Agnelli from Rubino, we can cite the seated figure of Signora Agnelli, the first work executed for the Turin family, exhibited at the Venice Biennale in 1907; the fine portrait of Signora Tina Nasi Agnelli (1920 ca.), the late, cold white marble busts of Edoardo and Giovanni Agnelli, as well as the graceful full-length marble statue portraying Edoardo Agnelli in his skiing gear (at Sestrière 70 cm.), conserved in the Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi” in Turin and a medal coined in honour of Giovanni Agnelli (1924, diameter 28 mm). 61 Rubino presented the sculpture at the XVIth Venetian Biennale in 1928, «in a privileged position», as Monica Tomiato underlines, and «curiously similar to its present location: in the rotonda beyond the entrance hall of the Exhibition main pavilion». It seems most likely that the plaster model of the work was photographed for reproduction in the official catalogue while the work in bronze was actually shown there (or so one may deduce from the titles in the catalogue). 62 As Canavesio has aptly remarked: «His ability to feel grief and sensibility towards funeral themes, remained in tact […] and were expressed in a strongly interiorised fashion. His particular inclination needed the right kind of surroundings, where distended space and silence would calmly surround his chosen setting and encourage contemplation» (Cfr. Walter Canavesio, Op. cit., p. 153). 63 Cfr. Mario Cordero, La Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero and G. Galante Garrone, La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 95-103 64 Ten of Rubino’s works were shown at the XXIII Biennale Internazionale d’Arte in Venice, including the cited Mother and a statue of Eve which was purchased by the Museo Civico of Turin. Critics, however, criticised the «cold academic essays»of the Torinese senator. Rubino, unfortunately, has outlived his times: the «vital sculptural essentiality» of Arturo Martini and Marino Marini was then all the rage. 65 We owe the rare image of Rubino’s Genius of Fascism to Monica Tomiato: a deserved reward for her filological persistence. 66 It would be a pity to leave out another work from the Thirties, Rubino’s Risveglio (Reawakening, cm 220x54x86), a marble of 1934, showing a highly polished lying down figure, absorbed in dreams, now in the Frugone Collection in Genoa. A single example of the work was also excellently cast in bronze (cm 90x34), and once belonged to the Turin art critic Marziano Bernardi, related to Rubino. The preparatory gesso was bequeathed, immediately after the writer’s death, to the Gallery of Modern and Contemporry Art in Turin. 67 Cfr. Walter Canavesio, Op. cit., p. 152. 68 Cfr. Francesco Sapori, Scultura italiana moderna, Rome, La Libreria dello Stato, 1949, p. 471. 69 Cfr. Rodolfo Arata, Due nuove statue del senatore Rubino alla Gran Madre di Dio, in “Turin”, Anno XX, n. 10, October 1940, pp. 44-45. 70 In the C.V. presented to the Accademia Albertina (around 1930), Rubino listed all his honours and public titles: Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, Cavaliere Ufficiale dei SS. Maurizio e Lazzaro, member of the Roman Accademia di S. Luca and correspondent member of the Bologna Academy, member of the Directory Board of the Biennial International Exhibition in Venice, City Councillor from 1915 to 1923, Councillor for Vocational Training and for the Fine Arts, Member of the Governing Board of the Gallery of Modern Art in Turin, Member of the Building Committee from 1912, art teacher at the former school of Architecture at the Royal Polytechnic (1919-20-21). 73 Edoardo Rubino in una foto dedicata a Clotilde Luciano e ai suoi figli Edoardo Rubino e il Laboratorio Luciano: storia di una collaborazione SANDRA BERRESFORD Chi studia la scultura italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, avrà occasione di imbattersi in numerosi racconti (fra l’altro utilissimi nella ricostruzione dell’oeuvre dei singoli scultori e della rispettiva cronologia) sia di semplici giornalisti, sia di critici d’arte, che descrivano una visita allo studio di uno scultore affermato. In genere, l’atelier è rappresentato più come santuario dell’Arte che operosa officina e raramente gli autori si soffermano sulle maestranze che erano ovviamente necessarie al completamento delle grandi opere: opere che divennero, con l’avanzare del secolo XX, sempre più monumentali ed impegnative in termine di mano d’opera. Non c’è nemmeno uno scrittore tra loro, però, che non rimanga affascinato dal luogo “misterioso” dove venivano generati tali capolavori, anche se sorvolavano sui processi che dovevano essere ancora, almeno parzialmente, in evidenza ai loro occhi e cioè il disegno, la modellatura in creta, la formazione dei gessi, il riporto dei punti per la sbozzatura, la smodellatura e poi la lucidatura in marmo…parzialmente perché la fusione in bronzo quasi sempre avveniva in fonderie altrove come, d’altronde, sempre più la realizzazione in marmo nei laboratori di Carrara o altrove. Se lo studio di uno scultore “officina” era, lo era nel senso ideale, forse oggi diremmo “virtuale”, dove l’Idea veniva plasmata nel Concreto dal Genio dell’Artista. Lungi da essere partenogenetiche però, le opere venivano celebrate appunto per l’Artefice, spesso descritto come “sopraffatto” dal lavoro e troppo “gracile” rispetto alle sue giganti creature, (è il caso, effettivamente vero, degli esili scultori Rubino e Bistolfi), accanto alle quali veniva fotografato, in posa fiera ed eroica, attrezzo in mano, vestendo il tipico e pulitissimo camice da scultore. Così il pittore argentino Antonio Alice1 ritrasse rispettivamente Rubino e Calandra, “dominatori” della loro materia: Calandra con un piccolo piccone in mano per rifinire la testa in gesso del cavallo del Generale Mitre (il bozzetto del cavallo sullo sfondo è invece quello per il Monumento ad Umberto I a Roma); [Fig. 2] mentre sullo 75 Fig. 1) Antonio Alice Ritratto di Edoardo Rubino da “Vita d’Arte” gennaio 1916 Fig. 2) Antonio Alice Ritratto di Davide Calandra da “Vita d’Arte” gennaio 1916 76 Fig. 3) Edoardo Rubino, Spirito Luciano ed uno sbozzatore al lavoro. Sulla sinistra il Monumento ad Umberto I ad Aosta (foto archivio eredi Luciano) sfondo del ritratto di Rubino, stecca in mano, spicca la testa della Vittoria alata e il gruppo del Valore Civile del Monumento a Mitre. [Fig. 1] I tempi sono cambiati e oggi, mentre riconosciamo allo Scultore il suo ruolo di “compositore” o “solista”, lo vediamo sempre più “direttore d’orchestra” e la nostra curiosità si è estesa a tutto il processo creativo e a tutti coloro in esso coinvolti. Diamo, quindi, un’altra valutazione ai gessi che ci sono stati tramandati: non più scarti di una banausica lavorazione ma testimoni preziosi del processo artistico. I bozzetti e modelli in gesso, inoltre, sono spesso più vicini all’idea originale dell’Artefice, poiché si usava cesellare e correggere direttamente nel gesso prima di passare o alla fusione o alla realizzazione in marmo. Rubino stesso parla di intervenire sul calco di una forma buona del suo nudo, esposto alla Biennale di Venezia nel 1907, portandolo «un po’ più a finimento con alcune modificazioni».2 Qui possiamo, a questo riguardo, osservare le movimentate superfici dello stupendo rilievo Boido per capire che l’opera non era finita con i gessi ma ancora in corso [cat. n. 8]. Negli ultimi venti-cinque anni il patrimonio delle gipsoteche di scultori attivi fra Otto e Novecento è stato radicalmente rivisitato e rivalutato in Italia. Mancava certamente, fra i grandi, Rubino: una lacuna che è colmata in parte oggi dall’accurato restauro dei gessi, qui catalogati ed esposti, e in parte dalla collezione di gessi lasciata al Museo dei Bozzetti di Pietrasanta dagli eredi di Spirito e Guido Luciano, a lungo fedeli collaboratori di Rubino per la realizzazione delle sue opere in marmo. Altri sono in collezioni pubbliche, e, tra questi, diversi furono legati al Museo Civico di Torino per lascito testamentario del 1955;3 un discreto numero di gessi ed opere appartiene ancora a privati. Nel 1912, Paolo Cesare Rinaudo visitò lo studio di Rubino a Torino in Via Asti [Fig. 3] dove lo fece accomodare «un colosso, vigoroso e tarchiato, dalla barbetta aguzza e vestito dalla maglia da scultore [...] l’operaio m’era sembrato la figura di un ciclope, che m’avesse dischiuso le vie agli inferi pieni di mistero».4 Il nerboruto “operaio” è visibile in alcune fotografie provenienti dallo studio Luciano a Querceta; con questi, lavorò anche Carlo Sergiampietri, sopranomina- tio “Carrara” per le sue origini, ricordato più volte nella corrispondenza tra Rubino e Spirito Luciano, e rammentato pure nello studio di Bistolfi in via Bonsignore a Torino come esperto smodellatore del marmo. È Rubino, invece, che fa da cicerone al “trepidante” giornalista, mostrandogli un primo studio, un «gran salone, ridente di luce bianca e vivace [...] un’ampia sala, quadra, alta, anche eleFig. 4) Studio di Odoardo Tabacchi a Torino (Foto archivio eredi Rubino). Sulla sinistra il gruppo di Ugo Foscolo dopo il trattato di Campoformio; vicino alla porta i due piangenti del Monumento funebre per la Famiglia Cuzzetti-Bonardi, Cimitero Vantiniano, Brescia gante. Tutto intorno statue». Lo scultore spiegò che era solito far sbozzare «dall’operaio» le sue statue nel marmo, lasciando magari le giunture spesse di modo che potesse intervenire personalmente a far nascere la figura desiderata, godendosi, non la bassa manovalanza, ma il lavoro esperto di “ritocco”, “perfezionamento” e “finitura”. Rubino illustrò un «bel corpo umano, modellato in gesso» e poi il piccolo bozzetto in plastilina verdognola per una delle sue opere funerarie più riuscite, allora in fusione (presso Lippi a Pistoia, ndr): L’Ultimo saluto per la Tomba Remondini nel Cimitero Monumentale di Torino. Dopo, l’ospite venne condotto nel “vero studio”: «[...] un grandissimo camerone, alto, quadro, con grandi lucernari riparati da velari bianchi» con «statue dappertutto». Fra queste, il bozzetto in gesso del Monumento al Generale Mitre da collocare a Buenos Aires, opera in corso di esecuzione, non a quattro mani con Davide Calandra,5 come Rubino tenne a sottolineare, ma dove ognuno, lavorando in perfetta armonia, si era scelta la parte più geniale alla propria natura: così la figura equestre allo scultore di Savigliano, le figure simboliche del basamento a Rubino. L’autore si soffermò inoltre sul “bozzetto” per il monumento a De Amicis, «modellato e finito» (anche se inaugurato soltanto undici anni più tardi) e su altre due opere funerarie: una per la Famiglia Bidasio degli Imberti nel Camposanto di 77 78 Fig. 5) Rubino ca. 1902 con un bozzetto in gesso della Danza (foto archivio eredi Rubino) Fig. 6) Rubino e Cesare Biscarra davanti al modello in creta della Pace per la Fontana al Parco Valentino 1898 (foto archivio eredi Rubino) Fig. 7) Ritratto a matita per Radicati, bassorilievo del Monumento a Federico Sclopis (foto archivio eredi Rubino) Ivrea,6 l’altra, La consolatrice, destinata al Cimitero Monumentale di Torino. Lo scultore teneva a ricordare le proprie umili origini e quando si trovò, più tardi, nella posizione di pagare i propri aiutanti, prediligeva «tra gli allievi, quelli che, come lui, hanno fatto lo scalpellino e l’intagliatore in legno».7 Anch’egli aveva fatto l’operaio, fabbricando e vendendo i ferri del mestiere mentre studiava col maestro Tabacchi all’Accademia Albertina [Fig. 4] e poi «operaio per parecchio tempo» (secondo Rinaudo) nello studio di Bistolfi. A quel periodo, infatti, risale la sua incisione della Tomba Grandis, la Bellezza della Morte, pubblicata in La Triennale del 10 novembre 1895. Altrove, questo tirocinio presso Bistolfi, nell’egregia compagnia di Cesare Reduzzi8 (cognato, dal 1893, di Spirito Luciano) e Luigi Contratti, viene limitato a soli sei mesi.9 Guardando i primi anni della sua carriera troviamo, comunque, un’artista aperto a varie correnti e stili con occhio attento, inevitabilmente al “triumvirato”: Bistolfi, Canonica, Calandra. Rubino, però, nasce dall’artigianato, avendo studiato plastica ornamentale con Luigi Belli per tre anni prima di passare alla scultura. Non essendo benestante, dovette adattarsi, e non solo agli esordi, a tanti tipi di lavoro: dall’intaglio in legno alla scultura effimera (sei gruppi della Danza e le figure di Scultura e Pittura, per l’Esposizione dell’Arte Decorativa Moderna del 1902) [Fig. 5], a fontane in cemento (La Pace e la Dora al Valentino per la Mostra del 1898) [Fig. 6] a piccoli oggetti in bronzo, (come la Medusa per il porta biglietti della Ditta farmaceutica Wassermann o una lampada elettrica)10, poi targhe,11 tante e belle, coppe, medaglie, ritratti commissionati ed opere di genere,12 illustrazioni per libri e riviste... tutto quel mondo, insomma, che dava da vivere allo scultore liberty. Era inoltre straordinario ritrattista: basterà citare, in quest’occasione, i rapidi ritratti a cammeo dei primi senatori del regno, prima a matita, poi progettati in bronzo sul basamento del Monumento a Federico Sclopis a Torino (1904).13 [Fig. 7 ] La sua versatilità si presta alla scultura architettonica sia in scala ridotta come nei fregi per la confetteria Baratti e Milano a Torino, (cat. n. 9, 10) sia nei grandi fregi come quelli che contornano il Palazzetto della Promotrice al Valentino Torino, progettati in collaborazione con Bistolfi (1913 -1919).14 Rubino imparò, infatti, ben presto, a collaborare con altri artisti e la sua lunga carriera è cosparsa di esempi molto proficui di divisione del lavoro: col già menzionato Calandra, per il quale finì diverse opere dopo la morte nel 1915; con Cesare Biscarra per il gruppo La Pace per la fontana dell’Esposizione torinese del 1898; con l’architetto bolognese Giulio Casanova per le Tomba di Amalia Porcheddu Dainesi (1912) (cat. n. 11) e della scrittrice Carolina Invernizio nel Cimitero Monumentale di Torino. La prima è uno dei maggiori esempi di arte funeraria liberty [Fig. 8], che mostra, è vero, l’influenza della Tomba Bauer di Bistolfi, e soprattutto il suo concetto della Bellezza della Morte, ma rielaborato e stilisticamente vigoroso. C’è una grazia infinita in ciascun gesto misurato, una soavità nei visi, una cadenza ritmica nella composizione che dimostrano quanto bene abbia assorbito il linguaggio bistolfiano (riflesso anche nei numerosi schizzi del periodo, dove la traccia dell’artista elabora la forma senza quasi mai staccarsi dal foglio). Come Bistolfi, anch’egli abitava un gineceo, donde forse la particolare sensibilità verso il mondo femminile. Tuttavia, la sua forte personalità e “il mestiere” acquisito nei lunghi anni del tirocinio, fanno sì che Rubino non sia numerato fra i numerosi “bistolfiani” che superficialmente imitavano il maestro, spesso cadendo nel pastiche. La carriera di Rubino cominciò a “decollare”, come quella di tanti altri in questo periodo, più per le opere funerarie che per commissioni pubbliche prestigiose che tardarono ad arrivare. Nel 1907 completò il rilievo marmoreo per la Famigla Boido, Verso la Pace, che collocò nel Cimitero cittadino, insoddisfatto però per l’effetto appiattito della luce che tentò di correggere, forse con la pittura.15 È un vero tour de force dello scalpello, dall’altorilievo sino allo stiacciato più sottile. L’iconografia è insolita: se l’idea del trasbordo nell’al di là risale ai lontani tempi egizi, la composizione riflette, come abbiamo osservato altrove,16 direttamente la Boat of Love di Dante Gabriel Rossetti (Birmingham City Museum and Art Gallery), il quale, ispirandosi a sua volta ad alcuni versi di Dante, raffigurò il Poeta che invita i poeti Guido 79 Fig. 8) Particolare del Monumento ad Amalia Porcheddu Dainesi, 1912 Cimitero Monumentale di Torino Fig. 9) Studio a china del rilievo funebre Verso la Pace, 1907 (foto archivio eredi Rubino) 80 Fig. 10) Bassorilievo per il portale di un sepolcro Museo dei Bozzetti Pietrasanta Fig. 10a) Rubino dinanzi al portale (foto archivio eredi Luciano) Fig. 11) Daniel Chester French, Monumento funerario ad un giovane sculture Tomba Milmore, 1891 Forest Hills Cemetery, Mass (foto archivio eredi Rubino) Cavalcanti e Lapo degli Uberti a fare una gita in barca con le loro tre rispettive damigelle: Beatrice, Monna Vanna e Monna Lagia; mentre Dante aiuta Beatrice a salire sulla barca, anche qui con un angelo al timone, tre figure scendono le scale, osservate da altre appoggiate ad un balcone. Scelta la fonte d’ispirazione, la composizione fu tuttavia soggetta a lunga elaborazione da parte dello scultore, come vediamo in alcuni squisiti schizzi in possesso degli eredi [Fig. 9]. Un’altra opera funeraria di questo periodo, conosciuta solo nel gesso presso il Museo dei Bozzetti a Pietrasanta, è affine agli stilemi preraffaelliti e la loro comune matrice quattrocentesca [Fig.10]. Il Preraffaellismo era “nell’aria”, rafforzato, ulteriormente, dalle presenze britanniche all’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa a Torino nel 1902, e Rubino era sempre pronto ad accogliere degli spunti: sicuramente come fece anche nel caso del suddetto Ultimo Saluto, affine nella sua drammaticità al Monumento funerario per un giovane scultore, conosciuto in riproduzione, dello scultore americano Daniel Chester French.17 [Fig. 11] Già con il Monumento al Generale Bartolomé Mitre, però, Rubino sembra aver pienamente adottato il nuovo linguaggio della Renaissance Latine anche se la sua interpretazione sarà sempre moderata da un forte elemento euritmico e decorativo che lo salverà dalla retorica e vuoto michelangiolismo di alcuni suoi contemporanei. Non che il grande scultore toscano sia del tutto trascurato: l’imponente angelo del Monumento sepolcrale alla Famiglia Gambara (1919 Cimitero Monumentale Torino) deve molto ai suoi prototipi manieristi [Fig 12.], come anche la bella dolente del Monumento all’Ing. Andrea Maggia ad Oropa.18 I primi decenni del Ventesimo secolo videro l’impegno da parte di molti scultori italiani (in concorrenza con scultori francesi e spagnoli, spesso con esito positivo) nel processo – alquanto redditizio – della “monumentalizzazione” delle americhe. Molto ancora rimane da scrivere sulla storia degli artisti piemontesi attivi in Centro e Sud America nei primi decenni del secolo.19 Il Concorso internazionale per il Monumento a Mitre, da erigersi in Buenos Aires, fu vinto nel 1907 da Davide Calandra che volle, generosamente accludere il nome del giovane e meno famoso amico al bozzetto.20 [Fig. 13, 13a] Il bozzetto, opera congiunta quindi, ci mostra una composizione ben equilibrata, dove i gruppi sono esuberanti rispetto al corpo centrale ma rimangono, allo stesso tempo, sobriamente circoscritti a sé, ben lontani dalle vere e proprie fiumane dello spagnolo Querol del Monumento all’Indipendenza argentina.21 In quel periodo Calandra era davvero oberato dal lavoro, avendo vinto l’anno precedente la commissione del Monumento ad Umberto I a Villa Borghese Roma (terminato nel 1926 da Rubino) e il Monumento per Zanardelli a Brescia (1906-1909). A richiesta del Comitato Mitre a Buenos Aires, poi, l’opera era diventata ancor più impegnativa, praticamente raddoppiandosi in volume, altezza e costo rispetto al primo bozzetto. In cima al monumento la statua equestre del Generale in bronzo, eseguita da Calandra, s’innalza sino a sedici metri. Intorno alla base in granito di Baveno, si spiegano, secondo il tema 81 Fig. 12) Particolare del Monumento funerario alla Famiglia Gambaro 1916-1920. Cimitero Monumentale di Torino (foto archivio eredi Rubino) Fig. 13) Davide Calandra e Edoardo Rubino Monumento al Generale Bartolomé Mitre Buenos Aires (foto archivio eredi Rubino) Fig. 13a) Edoardo Rubino, particolare della Vittoria (foto R. Freidus) 82 Fig. 14) Il Valore militare che veglia sulla sorte della famiglia Monumento Mitre Buenos Aires (foto R. Freidus) dettato dal concorso, le virtù del “Garibaldi” – o per altri – il “Mazzini” argentino, in una serie di gruppi simbolici marmorei, opera di Rubino: «il Valore militare che veglia sulle sorte della famiglia, fondamento della Patria: un atletico soldato che protegge una florida sposa e un poppante bambino; [Fig.14] il Valore civile che protegge la Giustizia dall’assalto dell’Iniquità e il debole dall’assalto del violento; [...] un atleta, dai muscoli vibranti in lotta con un leone che tenta di assalire un’inerme fanciulla svenuta»; «mentre il Genio della Patria con la palma s’aderge dalla prora come la Vittoria di Samotracia, e la Storia legge le gesta dell’eroe salutante di sul cavallo dall’andatura solenne»; al centro, nella parte posteriore una statua della Legge le fa da pendant con ai lati, due gruppi: a destra Lo Studio («il vecchio patriarca, calvo e barbuto, protegge e ammonisce il bellissimo giovinetto dal volto quasi di santo e di ispirazione donatelliana») e l’Armonia («inginocchiata sui veli, soave e casta, [...] verso la quale guarda, trascinato dalla bellezza, un grazioso putto»); a sinistra della Legge, il Lavoro e l’Agricoltura (il Fabbro, una coppia di contadini ai quali Cerere/Pomona offre una fronda d’alloro).22 Uno dei primi artisti torinesi ad emigrare in Sud America, verso la fine del XIX secolo, fu probabilmente il ritrattista Augusto Reduzzi, fratello minore dello scultore Cesare, che si stabilì prima del 1900 a Buenos Aires. Qualche anno dopo, a varcare l’oceano fu lo scultore Enrico Alciati, amico di Rubino, Cesare Reduzzi e Spirito Luciano, e fu proprio Alciati a fungere da tramite per coinvolgere altri scultori piemontesi nelle realizzazione di grandi opere in Messico. Dal 1902 al 1910, Alciati realizzò in Città di Messico la Colonna per commemorare il centena- rio dell’Indipendenza del Messico, con la statua di Miguel Hidalgo e quattro figure allegoriche alla base (la Legge, la Pace, la Guerra e la Giustizia), tutti in marmo, coronata da una Vittoria alata, (fusa a Firenze). Nel 1905, dalla sua residenza in Città del Messico, Alciati stipulò un contratto con Spirito Luciano per la realizzazione in «marmo bianco chiaro Ravaccione» (di Carrara quindi) di tre statue (Hidalgo, la Storia e la Patria).23 Spirito Luciano, (1866-1924) che andò in Messico nel 1906 appunto per collaborare con Alciati, fu per Rubino, nell’arco di una vita, il fidato realizzatore in marmo, ruolo ereditato poi dal figlio Guido (1902-1946). Purtroppo poca della corrispondenza fra Rubino ed i Luciano è sopravissuta ma già molte informazioni si possono ricavare da alcune lettere, indirizzate da Rubino ad Alciati in Messico, tra il 1906 e il 1907, giunte sino a noi:24 una delle prime, datata 30 gennaio 1907, esprime i suoi dubbi sulla probabilità di vincere il concorso (per il Monumento a Mitre) in Buenos Aires, dove il concorrente francese era «conosciutissimo per aver fatto parecchi lavori e per le relazioni che conta fra le persone influenti».25 “Carrara” era a lavorare sulla «nuda» per Venezia, intento a sbozzare il marmo, ma non fece in tempo a finirlo e Rubino espose solo il gesso alla Biennale, (un calco leggero, uno dei due calchi che lo scultore fece eseguire dalla forma buona)26 proponendo a Spirito Luciano di farne una statua in marmo insieme al suo ritorno. “Carrara” aveva sbozzato, inoltre, una testa in marmo di una bimba di cui già Luciano aveva fatto una replica. Reduzzi, invece, aveva vinto il concorso per i gruppi allegorici del ponte” (Umberto I a Torino, ndr)27 assicurandosi, felicemente, del lavoro per qualche anno. Rubino, per conto suo, annunciò di essere in attesa di disegni (altrove di «bozzetti architettonici») dall’ingegnere Boari e saluta Alciati. I disegni dall’architetto ferrarese Adamo Boari (1863-1928), servirono presumibilmente per l’ambientazione di una delle due fontane progettate per il Piazzale d’ingresso davanti al Teatro dell’Opera della capitale messicana ma mai realizzate.28 [Fig. 15] Inizialmente la progettazione delle fontane era stata affidata al noto scultore francese Antoine Merciè: la Tragedia e la Commedia, da collocarsi ai lati della facciata principale per le quali vennero preventivati $ 80.000 nel 1909, a $ 90.000 nel preventivo di giugno del 1912.29 Successivamente le tematiche delle fontane cambiarono in Amor e la Gloria, rispettivamente affidate ad Edoardo Rubino e allo spagnolo Agustin Querol. Furono eseguite e spedite in Messico 83 Fig. 15) Studi preparatori per le fontane monumentali della Gloria (Querol) e dell’Amor (Rubino) progettate per il piazzale davanti al Teatro dell’Opera di Città del Messico e mai realizzate delle maquettes in gesso, e di Rubino un modello dell’Amor mai eseguito. A Venezia nel 1907, oltre al nudo, Rubino mandò anche una statua seduta dalla Signora Agnelli (la prima opera per la potente famiglia che era destinata ad essere il suo maggiore committente privato), e il piccolo bronzo Salome, fusa in bronzo dall’amico Menzio, statua raffigurante la cantante lirica Gemma 84 Fig.16) Monumento funebre Mitre, Cimitero di Recoleta Buenos Aires (foto R. Freidus) Bellincioni, «nel momento della danza in una posa molto sensuale».30 Annuncia che “Fiorentino” era sul punto di partire per il Messico e, in effetti, a “Fiorentino” (Fiorenzo Giannetti, 1877-1939),31 scultore torinese del circolo bistolfiano, era stata commissionata una serie, molto riuscita ed originale, di rappresentazioni stilizzate della flora e della fauna messicane, insieme a numerose maschere (le emozioni umane: l’Ira, l’Allegria, la Tristezza ecc.) per ornare le facciate esterne del Teatro dell’Opera, nonché a quelle raffigurante il cavaliere aquila e il cavaliere tigre per i balconi laterali. Lo scultore si trattenne in Messico tra il 1906 e il 1911.32 È noto che anche Bistolfi eseguì delle opere importanti per la facciata dello stesso Teatro (ora Palazzo delle Belle Arti): l’Armonia della lunetta centrale e due gruppi laterali l’Ispirazione e la Musica sulla facciata principale (ca. 1908-1911). Il 29 maggio1907, Rubino informò Luciano che aveva vinto il Concorso per il Monumento allo scultore Alessandro Vittoria a Trento, opera né di grande mole né di grandi compensi (Lire 15.000) che rappresentò, comunque, un passo avanti nella sua carriera.33 Sino a quella data, infatti, le commissioni pubbliche erano 17) Laboratorio Luciano a Querceta: gruppi in marmo per il Monumento Mitre Buenos Aires (Archivio Museo dei Bozzetti, Pietrasanta) limitate a Torino per monumenti di modeste dimensioni (Casimiro Teja ca. 18971904; Federico Sclopis 1904). Nel luglio del 1908, Calandra e Rubino s’imbarcarono per Buenos Aires per definire le condizioni del contratto con il Comitato committente del Monumento Mitre e per ispezionare il sito, un vasto parco nel quartiere della Recoleta. Furono stanziati ben 800.000 lire italiane per il compimento del lavoro che si trascinò negli anni, comunque, sino all’inaugurazione officiale nel 1927, presenziata da Rubino e la nipote. È probabile che durante la prima visita a Buenos Aires, gli venne commissionata la tomba di Mitre (1906) nel Cimitero di Recoleta raffigurante in altorilievo marmoreo le belle e solenne statue della Libertà, del Dovere e della Giustizia, coronate da due angeli speculari in bassorilievo che rendono omaggio al semplice nome “Mitre”. [Fig. 16] Fotografie d’epoca ci illustrano i marmi per il Monumento a Mitre presso lo Studio dei Luciano a Querceta in Versilia. [Fig. 17 e 18] Del Monumento Mitre, solo due delle figure simboliche, la Vittoria e la Storia, e la testa del Fabbro sono giunte a noi tra il loro lascito. È probabile che, al rientro in Italia da Città del Messico nel 1908, e in conseguenza alla vincita del concorso per Mitre da parte di Calandra e Rubino, Spirito Luciano decise di trasferirsi in Versilia per essere vicino alle cave del marmo. All’inizio si servì di laboratori altrui ma, intorno al 1915 ne aprì uno grande in proprio a Querceta condotto, dopo la sua precoce morte nel 1924, dal figlio Guido.34 Spirito lavorò anche per Calandra, di cui realizzò in marmo una statua 18) Rubino nel Laboratorio Luciano a Querceta, davanti ad una figura per il Monumento Mitre (Archivio Museo dei Bozzetti, Pietrasanta) 85 86 Fig. 19) Laboratorio Luciano Querceta: realizzazione del Monumento funerario Rosetti, Milano. Sulla parete il rilievo di Calandra per il Monumento a Zanardelli e sullo sfondo a sinistra il modello per la Vittoria del Monumento Mitre (foto archivio eredi Luciano) della Madonna35 e il fregio del Monumento a Zanardelli a Brescia, inaugurato nel 1909, e il suddetto Monumento equestre ad Umberto I. Seguirono tutte le principali opere di Rubino, fra le quali spicca il Monumento Funerario Rosetti ossia La Famiglia (Milano, Cimitero Monumentale 1912, purtroppo danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale e volutamente non restaurato) ideato originariamente in un imponente ed unico blocco di marmo; integro nel gesso, si può apprezzare il perfetto “tempismo” del gesto che unisce le due figure, altrimenti completamente assorbite nei propri mondi interiori: la donna nella Maternità, l’uomo, alla Rodin, nel Pensiero [Fig. 19 e 21]. Luciano realizzò in marmo il delizioso altorilievo per il Monumento a Edmondo De Amicis, con gruppi di ragazzi che riassumano i valori che il grande scrittore dell’infanzia voleva trasmettere alle future generazioni: l’Amore materno, l’Amicizia, la Carità, il Lavoro e l’Amore di Patria. Ben si addice a tali tematiche lo Stile Liberty perché così ancora può definirsi, dato che l’opera fu concepita nel 1909, anche se l’inaugurazione ufficiale in Piazza Carlo Felice a Torino avvenne solamente nel 1923 [Fig. 20]. La bella Seminatrice (che semina, appunto, il pensiero sociale di De Amicis fra i giovani), in bronzo, antestante l’esedra, viene avanti con impeto, remore della contadina-madre del famoso Quarto Stato di Pellizza, (ma la comune matrice è naturalmente Jean-François Millet), immagine tanta sfruttata dalla pubblicistica di sinistra. [cat. n. 13] Successivamente, il Laboratorio Luciano collaborò alle molte opere che rientrano nella sfera delle commissioni per la Famiglia Agnelli, e tra queste le due più impegnative: la Pala d’Altare per Don Bosco e storie della sua missione di educatore svolta in mezzo ai giovani (di cui il Museo di Pietrasanta conserva dei bozzet- ti, dei rilievi e la testa del religioso): una serie di movimentate “Scene” affini, per certi versi, alla tradizione scultorea narrativa del secondo Ottocento; ed il colossale Faro della Vittoria, voluto da Gianni Agnelli Snr. nel Parco della Rimembranza al Colle della Maddalena a Torino, inaugurato nel 1928, culmine di una serie di nike, compresa la Vittoria per il Monumento a Vittorio Emanuele II a Roma e un Monumento ai Caduti di Carignano del 1922. Per eseguire la Vittoria del Faro, allora la più grande statua in bronzo nel mondo, il giovane Guido Luciano e le sue maestranze si trasferirono a lungo a Torino dove l’enorme modello in gesso è stato eseguito.36 La Vittoria è molto simile a quella del Monumento Mitre ma più solida, meno dinamica a causa dei problemi di stabilità. Il modello della testa in gesso, tutto ciò che ne rimane, fa parte del lascito Luciano a Pietrasanta [Fig. 22]. Il Museo conserva inoltre, i bozzetti per il fregio del Monumento al carabiniere a Torino, assegnato a Rubino per chiara fama ed inaugurato nel 1933.37 Più di quaranta figure raccontano «la carica, la trincea, l’inondazione, il terremoto, il brigantaggio, l’abigeato, il gesto sublime di Scapacino, l’epidemia e via dicendo pur aderendo in ogni atto e in ogni espressione a una realtà umana e vivacissima. Non indugiano mai nella minuzia, non s’allentano mai in compiacimenti di sola maestria tecnica. La verità storica e le circostanze sono scrupolosamente rispettate nei particolari, il pittoresco ha la sua parte, il dinamismo scatta e trionfa; ma tutto ciò in funzione epica, a larghe pennellate: siamo sempre in presenza della Storia, mai della cronaca».38 Se la lingua aulica ed eroica della scultura ufficiale di quel periodo non ci è più congegnale, proponiamo che l’espressività dell’uomo schiacciato dal cavallo a Pastrengo, la ritmica ripetizione di tre carabinieri reggenti un muro durante il terremoto, il realismo della scena “in trincea”, per citare solo alcuni esempi, meritano più di un secondo sguardo. Come vorrebbe la logica, il Laboratorio Luciano ebbe a conservare i gessi per opere da loro realizzate [Fig.21]; il nucleo di gessi, invece, conservato a Torino dagli eredi e qui esposto, è , per la maggior parte, riconducibile ad opere eseguite e collocate a Torino. Ci sono, comunque, alcune importanti eccezioni come il 87 Fig. 20) Rubino, modello in gesso per il rilievo del Monumento a De Amicis di Torino Museo dei Bozzetti Pietrasanta 88 Fig. 21) Il Laboratorio Luciano a Querceta dimesso. Opere di Rubino (da sinistra a destra): Deposizione a rilievo; il modello in gesso per il Monumento funerario Rosetti, Milano; rilievi dell’Altare per Don Gnocchi (Archivio Museo dei Bozzetti Pietrasanta) Fig. 22) Maestranze dello studio Luciano con un particolare del modello in gesso per il Faro della Vittoria (foto archivio eredi Luciano) bozzetto per il bassorilievo del Monumento equestre ad Umberto I, opera di Calandra e Rubino, (cat. n. 15) che sappiamo eseguito con il Luciano. Oppure il modello per il Monumento funerario di Giuseppina Chiesa (1930, Cimitero Monumentale Milano), dove la bella figura, di una semplicità quasi austera, realizzata in marmo, veramente esalta le qualità della candida pietra (cat. n. 24). Mentre alcune opere sono state identificate e/o trovate durante il corso della preparazione della mostra, alcune continuano a sfuggire una precisa identificazione o collocazione. Conosciamo, ad esempio, due straordinarie Deposizioni: un gesso nel Museo dei Bozzetti (vedi fig. 21), sulla sinistra; una seconda fotografia mostra Spirito Luciano intento a scolpire il marmo) e un altra, memore della famosa Deposizione di Dupré nel Camposanto della Misericordia a Siena, pubblicata nel 1928.38 L’identificazione del bellissimo portale per un’edicola funebre, conosciuto solamente nel modello in gesso a Pietrasanta [Fig. 10], per ora ha eluso gli studiosi, ma siamo fiduciosi che, ricordando Rubino e la sua opera, l’interesse suscitato porterà dei buoni frutti e tante nuove scoperte... Note 1 Antonio Alice (1886-1943) studiò all’Accademia di Buenos Aires; nel 1904, vinse il Premio Roma che gli permise di venire a studiare in Italia con Grosso, Tavernier e Gilardi presso l’Accademia Albertina dove, nel 1905, vinse la medaglia d’oro per la pittura. 2 Edoardo Rubino a Spirito Luciano, lettera datata 12 aprile 1907, conservata dagli eredi Luciano che cortesemente ringraziamo per averci concesso la consultazione di quest’interessante corrispondenza tra Rubino e il loro nonno, purtroppo limitata agli anni 1906-1907, quando questi fu a lavorare in Messico. 3 Daniele Pescarmona, nel suo saggio ancora fondamentale su Rubino, elenca fra le opere lasciate, i bozzetti in gesso per il Monumento al Carabiniere reale in Torino; i gessi per Mitre; per il Faro della Vittoria; il rilievo della Navicella degli Apostoli (Palazzo delle Congregazioni, Roma); l’Altare di Don Bosco; i grandi modelli per il suddetto Monumento al Carabiniere, invece, furono donati al Museo Storico dell’Arma a Roma. Cfr. D. Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia in Eclettismo a Torino Guido Casanova Edoardo Rubino, a cura di Franca Dalmasso, Il Quadrante, Torino, 1989, p. 106. Il Museo (ora Galleria Civica d’Arte Moderna) possiede, inoltre, ritratti in gesso della Signora Sciamengo Remmert, della Signora Ostorero, e della Signora Mattioli (in marmo e gesso), nonché il Ritratto della Bimba Luciana (sic), ossia di Rosa, la figlia maggiore di Spirito Luciano. Rubino lamentò la morte dell’avvocato Mattirolo, «un grande amico e un padre», in una lettera del 30 gennaio 1907, indirizzata a Spirito Luciano. 4 P. C. Rinaudo pubblicò tre interviste a scultori, Pietro Canonica, Tancredi Pozzi e Rubino in un fascicolo dedicato “A Sua Maestà la Regina Margherita di Savoia”, pubblicato a Torino a cura della rivista d’arte “Il Prisma”. Le interviste sono riportate integralmente in Pigmalione e Galatea. Note di Scultura a Torino 1880 -1945, Torino, Weber & Weber, 2006, a cura di Armando Audoli, pp. 152-154. 5 Cfr. Davide Calandra L’Opera, la Gipsoteca a cura di R. Belmondo e M. M. Lamberti, Comune di Savigliano Museo Civico Antonino Olmo, 2004, pp. 151-163. 6 Riprodotto in G. Jona, Artisti Contemporanei, Edoardo Rubino in “Emporium”, Vol. LXVII, febbraio 1928, n. 398, p. 76. La figura femminile, sul solco della tomba, alza il velo con la mano sinistra, un gesto spesso ripetuto nel repertorio funerario rubiniano e rivelatore della bellezza femminile. 7 E. Zanzi, Scultori nostri. Esposizione Sindacato Regionale fascista delle Belle Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 16 luglio 1929. 8 Anche Cesare Reduzzi (1857-1911) ebbe rapporti con la Versilia per quanto riguarda la realizzazione delle sue opere in marmo servendosi del Laboratorio Antonio Bacci. 9 G. Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre, in “Le Vie dell’Italia e dell’America Latina”, p. 774. 10 Lampada riprodotta in Scultura Monumentale e Plastica decorativa, I Serie (fascicolo senza data a cura della Biblioteca de “L’Artista Moderno” Torino), tav. XV, insieme con la nota Placchetta per la Società Fotografica Subalpina, tav. X, e la bella medaglia del 1901 per commemorare Vincenzo Gioberti (Aprir l’Animo stanco a lieta e generosa speranza), tav. X, e una lampada elettrica, tav. XV. 11 Placchetta per lo scultore Davide Calandra riprodotta in “L’Arte Decorativa Moderna”, Anno II, 1903, n. 7, p. 195. Placchetta offerta dall’Associazione della stampa subalpina a Francesco Tamagno, 1903, ibidem, p. 198. La sopracitata Placchetta per la Società fotografica Subalpina, Ibid., p. 199; Placchetta offerta ad Alfonso Badini Gonfalonieri, 1903 id., p. 205. Da non dimen- 89 ticare, inoltre, l’attività di medaglista condotta sino in tarda età: Massimiliano Fiorio ci ha ricordato la bella medaglia del 1931 per celebrare le nozze di Umberto II e Maria José di Savoia con la Mole Antonelliana e tre angeli con l’ostentazione della Sacra Sindone sul verso. 12 90 Segnaliamo un bel busto di bambina, fuso presso la Fonderia Artistica Sperati Emilio a Torino, databile intorno al 1890 che passò per la casa d’aste Sotheby’s di Londra, 11 giugno 1987, n. 291 e un busto femminile idealizzato Heroina riprodotto nel catalogo dell’Esposizione Nazionale a Torino del 1898. Queste, ed altre teste note, come quella del Monumento Frugone a Staglieno, sono più vicine a Calandra che a Bistolfi. 13 Esistono numerosi schizzi per i personaggi ritratti nei due bassorilievi, alcuni con nomi (Roberto D’Azeglio, Luigi Des Ambrois, Thaon de Revel, Filippo di Castellengo, Radicati ecc.) che dovrebbero rappresentare il ruolo svolto da loro e da Sclopis nella concessione dello Statuto nel 1848, e/o la sua Presidenza del primo Senato subalpino nel 1863-64. I quattro bassorilievi per il Monumento a Sclopis sono riprodotti in Scultura Monumentale e Plastica Decorativa, cit., tav. XXI. 14 Riprodotti in Cronache. L’Esposizione Nazionale di Torino, in “Emporium”, vol. L, n. 298, ottobre 1919, pp. 213-214. 15 Edoardo Rubino a Spirito Luciano, in data 4 ottobre 1907. 16 S. Berresford (a cura di), Italian Memorial Sculpture 1870-1940. A Legacy of Love, Frances Lincoln, Londra, 2004, p. 179. 17 Tra le carte di Rubino la riproduzione, con la dedica manoscritta, «La Reconnaissance d’un touriste americane (sic) en avril 1901». Daniel Chester French (1850-1931), uno dei maggiori scultori americani dell’epoca, visse a Firenze tra il 1873 e il 1875 e dal 1886 fece diversi viaggi a Roma e altrove in Italia. 18 Ripr. G. Deabate, Una caratteristica Necropoli Alpina, “Le Vie d’Italia”, luglio 1925, p. 769. Vedi anche il sito www.santuariodioropa.it/santuario/it-cimitero-monumentale.htm/p.42 19 L’argomento è stato affrontato all’interno di uno studio sul marmo di Carrara ed i suoi rapporti commerciali nel mondo in Carrara e il Mercato della Scultura 1870-1935, vol. II, a cura di Sandra Berresford, 24 Ore Motta Editore (Strenna della Cassa di Risparmio di Carrara, 2007). Di Rubino, Thieme-Becker segnala anche un Monumento al Generale Cabal a Santa Fé de Bogotà in Colombia che risulta, invece, il monumento allo scienziato, militare e patriota colombiano, José Maria Cabal (1769-1816) nella piazza a lui intitolata nel suo paese nativo, Guadalajara de Buga [cat. n. 21]. Uno scrittore autorevole riporta che Rubino declinò l’invito di elaborare il programma plastico del nuovo Palazzo Legislativo di Montevideo dell’architetto Gaetano Moretti, eseguito egregiamente, in sua vece, da Giannino Castiglioni. Rodrigo Gutiérrez Viñuales, Monumento conmemorativo y espacio público en Iberoamérica, Madrid, Càtedra, 2004, p. 331. 20 Un dettaglio che Rubino ricordò nella sua commemorazione dell’amico nel Consiglio Comunale a Torino, citato in G. Deabate, Op. cit., 1927, p. 773. 21 Ibid. Il bozzetto originale è riprodotto a pagina 777. 22 Ibid. 23 Le statue, collocate alla base della Colonna dell’Indipendenza a Città del Messico, sono riprodotte in R. Gutiérrez Viñuales, Op. cit., p.643. 24 Purtroppo, tutta la documentazione burocratico-amministrativa dell’attività del laboratorio di scultura “Spirito Luciano” (fino al 1924) e “Guido Luciano fu Spirito” (dal 1924 al 1946) è andata distrutta nel corso della Seconda Guerra Mondiale. L’attività continuò dopo la morte di Guido con un laboratorio a lui intitolato sino ad esaurirsi verso la fine degli anni 1950. 25 Forse Emile-Edmond Peynot (1850 -1932), autore dell’imponente Monumento di Francia all’Argentina a Buenos Aires. 26 Edoardo Rubino a Spirito Luciano, 12 aprile 1907. 27 Ibid. Il ponte, eseguito in collaborazione con Luigi Contratti, fu inaugurato nel 1911. 28 Sia il contratto che la lettera da Rubino a Spirito Luciano (Torino, 20 gennaio 1907) sono conservati negli Archivi della Biblioteca “G. Carducci” di Pietrasanta. Ringrazio l’arch. Chiara Celli e lo staff della Biblioteca e del Museo per la loro disponibilità. Gessi di Rubino, provenienti dal Laboratorio Luciano a Querceta sono esposti nel Museo dei Bozzetti 2, Pietrasanta. Alla morte del padre, il Laboratorio proseguì sotto il figlio, Guido (1902-1946), che continuò la proficua collaborazione con Rubino. I bozzetti per le fontane sono riprodotti in La Costruzione di un Teatro, Architetto Adamo Boari (Roma, Danesi, 1918), opera che riccamente illustra le meraviglie del Teatro dell’Opera di Città del Messico. 29 I preventivi sono riportati in R. Tovar, V. Jimenez et al., La Costrucción del Palacio de Bellas Artes, Madrid, 1995, pp. 339-341. 30 Rubino a Spirito Luciano, 27 febbraio 1907. La Bellincioni (1864-1950) interpretò Salome nella prima rappresentazione in Italia dell’opera di Richard Strauss alla Scala di Milano il 23 dicembre 1906, con Toscanini sul podio, e quasi in contemporanea al Teatro Regio di Torino, condotta da Strauss in persona. La stessa lettera fa riferimento alla realizzazione da parte di Rubino «a tutto vapore» ma «imbroccata» della figura di Carducci per una commemorazione. 31 Cfr. A. Audoli, Pigmalione e Galatea. Note di Scultura a Torino 1880-1945, Torino, Weber & Weber, 2006, pp. 76-77. 32 W. Canavesio, L’atelier di Leonardo Bistolfi. Allievi e collaboratori, in “Percorsi. Rivista della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte ‘Giuseppe Grosso’”, anno IV, n. 7, 2004, pp. 57-58. 33 Il monumento è riprodotto in “Rassegna d’Arte”, luglio 1909 e in “Emporium”, luglio 1909, p. 79 34 L’attività del Laboratorio Luciano fu continuata da Emilio Buratti di cui Rubino si avvalse, sino alla morte (avvenuta nel 1954), servendosi anche del giovane Abele Jacopi. Egli realizzò, fra le ultime opere dello scultore, il Monumento a Pio XI, 1941, Palazzo delle Congregazioni a Roma, e l’ultimo, Il Monumento alla Linea Gotica in piazza Europa a Ripa, inaugurato nel 1958 (tre statue in cemento, un uomo affiancato da due donne, su base in travertino). Nel 1922, il Laboratorio Luciano diede lavoro a circa 25 operai. 35 I termini del contratto fra Calandra e Spirito Luciano sono precisati in una lettera del primo, datata 19 giugno 1906, conservata nel Museo dei Bozzetti a Pietrasanta; la statua dovrebbe identificarsi con quella per la Chiesa del S. Cuore di Maria a Torino. 36 Il bozzetto in gesso è conservato presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Per una descrizione delle fatiche e difficoltà nella sua esecuzione, vedi La più grande statua del mondo fusa in bronzo in “La Stampa”, 11 marzo 1928. 37 M. Bernardi et al., nell’opuscolo Il Carabiniere: Inaugurazione del Monumento Nazionale al Carabiniere Reale, 1933. 38 M. Bernardi, Ibid. 39 G. Jona, Artisti contemporanei. Edoardo Rubino, cit., 1928, p. 78. 91 Edoardo Rubino and the Luciano Studio: the Story of a Partnership by SANDRA BERRESFORD Anyone who has had the opportunity of studying Italian sculpture from the end of the 19th and the early decades of the 20th centuries will certainly have come across numerous accounts, whether written by straightforward journalists or by art critics, which describe a visit to the studio of a successful sculptor. Such accounts are, of course, extremely useful in reconstructing the artist’s oeuvre and his career. In general, however, the studio is portrayed as some kind of sanctuary of art rather than as a busy workshop and only on rare occasions do the writers take time to remark on the skilled workers who were so obviously involved in the various stages of the execution of often large and complicated works; works which, indeed, became ever larger and more complex as the 20th C went on, requiring greater and more time-consuming labour. Not one writer, however, failed to be impressed by the “mysterious” place where such masterpieces were created, although they may well have chosen to ignore the processes which, at least in part, must have been very visible all around them: drawings, clay or plasticine models, positive and negative moulds, plaster models and casts, instruments for pointing up and enlarging maquettes, tools for chiselling and polishing marble. We say “in part” because, it is true, that bronze casting nearly always took place in external specialised foundries, while the first stages of marble carving may well have been contracted out, perhaps to one of the many studios in Carrara or elsewhere. If the atelier of an artist was a workshop, then, for such writers, it was only in the ideal…or what today we might call the “virtual” sense: a place where the original Idea was fashioned into concrete form by the Genius of the Artist. Far from parthenogenetic, however, the works were celebrated on account of their Creators, often described as fragile and worn out, crushed almost by their enormous creations, next to which they appeared in photographs, heroically posed, proudly displaying a chisel or some other tool, dressed in the immaculate smock of their profession. Contemporary images of the lightly built Bistolfi and Rubino do, indeed, strike us with their frailty. This was how the Argentinian painter Antonio Alice1 portrayed both Rubino and Calandra, as “conquerors” of their material: Calandra with a small pick in hand to work on finishing the plaster model of the head of the horse of the equestrian monument to General Mitre (the maquette of the horse in the background is, instead, that for the Monument to Umberto I in Rome) [Fig. 2]; while Rubino is shown with a modelling stick in hand, with the head of the winged Victory and the allegorical group of Civil Merit for the Mitre Monument emerging from the shadowy background [Fig. 1]. Times have changed since then and we now tend to consider the sculptor, not just as composer or soloist, but rather more as the conductor of an orchestra and our curiosity is fired by the entire creative process, extending to everyone involved therein. For this very reason, the plaster models and casts, the so-called “gessi”, that have been passed down to us from a sculptor’s studio, are nowadays held in much greater esteem: no longer the “waste products” of slavish imitation but, rather, precious evidence of the creative process. What is more, it should be realised that these very gessi are quite often closer to the original Idea of the artist since the latter very often continued to chisel and refine the surfaces of the plaster before giving final approval for casting in bronze or carving in marble. Rubino himself spoke of intervening on the cast taken from the model of a nude that he exhibited at the Venice Biennale of 1907, «finishing it off a little better with some changes».2 One glance at the lively surfaces of the stupendous Boido relief suffices to demonstrate that the work was not finished with the gessi, but was still very much “in progress”. [Cat. n. 8] Over the past twenty-five years, the heritage of the collections of gessi, or “Gipsoteche”, dat- 93 Pagina a fianco Foto Giorgio Stella 94 ing from the late 19th and early 20th centuries, has been radically re-examined and re-evaluated in Italy. Certainly, among the great sculptors of the period, Rubino was missing… a lacuna partially filled here with the scrupulous restoration, cataloguing and exhibition of part of the gessi coming, directly by descent, from the sculptor’s atelier; partly by the collection generously left to the Museo dei Bozzetti 2 in Pietrasanta by the heirs of the Luciano studio, for many years faithful executors of his works in marble. Others, like by the works bequeathed in 1955 by Rubino to the Museo Civico in Turin,3 are in public collections while several others are still in private hands. In 1912, Paolo Cesare Rinaudo visited Rubino’s atelier in Turin, in via Asti [Fig. 3], where he was welcomed by «a sort of vigorous stockily-built colossus with a pointed beard, dressed in a sculptor’s sweater» [...] «It was as if the worker, who resembled Cyclops, had revealed the path towards the Underworld, full of mysteries».4 The sinewy “worker” is to be seen in some photos belonging to the Luciano heirs of Rubino’s Turin studio and may be identifiable with a certain Carlo Sergiampietri, nicknamed “Carrara” after his native town, who is mentioned several times in correspondence between Rubino and Spirito Luciano; he is also known to have expertly roughed out marble blocks for Bistolfi in his Turin atelier in via Buonsignore. Rubino then acted as guide to the “awed” journalist, introducing him to a first studio, «a fine big room, lively and full of bright light [...] a spacious room, square and elegant with a high ceiling. Statues were all around». The sculptor explained that it was his custom to have the sbozzatore, or marble-cutter “rough out” the marble block, leaving the stone thicker at the joints so that he could personally intervene in creating the desired figure, and, thus, rather than demean himself in unskilled labour, delight in the expert job of “retouching”, “perfecting” and “refining”. Rubino showed his visitor «a fine nude, modelled in plaster» and then a small maquette, in greenish plasticine, for one of his finest works, then being cast (at the Lippi Foundry in Pistoia): The Last Farewell for the Remondini Tomb in the Monumental Cemetery in Turin. The journalist was then shown into the real studio, a huge square room with high skylights, shaded by white drapes, with statues all around. Among these, the plaster maquette for the Monument to General Mitre for Buenos Aires, a work underway not, as the sculptor took pains to point out, a “four-handed duet” with Davide Calandra5 but, rather, a composition executed in perfect harmony where each artist had chosen to execute the part more consonant to his nature: so the equestrian figure was the work of the sculptor from Savigliano whereas the allegorical figures around the base were conceived and executed by Rubino. The author also stopped to admire the maquette for the Monument to Edmondo De Amicis, «modelled and finished» (though inaugurated only some eleven years later), and two other funerary pieces: one for the Bidasio Family to be erected in the Camposanto at Ivrea6, the other, the statue of a woman representing Consolation, destined for the Monumental Cemetery in Turin. The sculptor was proud to recall his own humble origins as an artisan and, stated that, when in a position to pay his own workers, he always preferred to hire, «among (his) pupils, those who, like himself, had trained as stonecutters or wood carvers».7 He, too, had begun his artistic career that way and had even, at one stage, while still studying under Tabacchi at the Albertina Academy, had to fashion and sell tools of the sculptor’s profession to support himself [Fig. 4]. He then worked “for some time”, to quote Rinaudo, in the studio of Leonardo Bistolfi. His etching of the latter’s Beauty of Death for the Grandis Tomb, published in La Triennale on the 10th of November 1895, dates to the period he spent there. Elsewhere, Rubino’s apprenticeship in Bistolfi’s atelier, in the worthy company of Cesare Reduzzi8 (Spirito Luciano’s brother-in-law after 1893) and Luigi Contratti, is said to have lasted only six months.9 When considering his early period, we can find an artist open to various influences and one who inevitably cast a careful glance in the direction of the “triumvirate”: Bistolfi, Calandra, Canonica. Rubino’s creativity, though, was firmly rooted in the craft tradition, having studied ornamental modelling under Luigi Belli at the Academy before moving on to study Sculpture with a capital “S”. Since he had had to make his own way in life and earn his bread and butter from an early age, Rubino was continually obliged to adapt his talent to many different kinds of work: from wood carving to the execution of ephimeral sculpture like the six groups of Dance and the allegorical figures of Sculpture and Painting which crowned the main pavilion of the International Exhibition of Decorative Arts in Turin) [Fig. 5]; to fountains in cement (the allegorical figures of the Pace and the Dora, tributaries of the Po River, in the Valentino Park in Turin, executed for the National Art Exhibition of 1898) [Fig. 6]; small objects in bronze like the leaflet-holder, with the head of a Medusa, designed for the pharmaceutical company Wassermann, or an electric lamp;10 and then many fine plaques,11 trophies, medals, commissioned portraits and various genre pieces;12 covers and illustrations for books and periodicals, advertisements… that whole sphere, in other words, in which an Art Nouveau (or “Liberty”) artist could earn a living. Rubino was an extraordinarily gifted portraitist, suffice it to cite here the rapid, vibrant pencil sketches he made of the first Italians appointed Senators for the bronze reliefs that were planned to figure on the Sclopis monument in Turin of 1905.13 [Fig. 7] His versatility lent itself to architectural sculpture, whether on a small or large scale: from the decorative friezes of the Baratti and Milano Café in Turin [Cat. n. 9 - 10] to those, designed and executed with Bistolfi from 1913 to 1919, crowning the new Fine Arts Exhibition Building, in the Valentino Park.14 Rubino, in effect, learnt very early in life to cooperate with other artists and his long career is dotted with many episodes of highly successful division of labour: with the aforesaid Calandra for whom he finished several works after the latter’s death in 1915; with Cesar Biscarra on the 1898 fountain for the Valentino Park; with the Bolognese architect Giulio Casanova on the Tomb of Amalia Dainesi (1912) [Cat. n. 11 ] and of the writer Carolina Invernizio in Turin Cemetery. The first is one of the highest examples of Liberty funeral sculpture which, though it may indeed have been influenced by Bistolfi’s Bauer Monument (Genoa, Staglieno) and, above all, by his concept of the Beauty of Death, has been stylistically re-elaborated in a vigorous fashion. There is an infinite grace each measured gesture, a softness and delicacy in the expressions, a rhythmic cadence to the composition which denote just how well Rubino had absorbed the Bistolfian style, reflected, too, in the numerous sketches from the period where the artist’s pencil is unceasingly dynamic, creating forms without ever seeming to leave the paper. Like the artist from Casale Monferrato, Rubino grew up in a household of women and this may have made him particularly sensitive towards the female world. Nevertheless, with such strength of character and knowledge of his craft, we can hardly include Rubino among the many “Bistolfians” who superficially imitated the master, often producing little more than pastiches. Our artist’s career began to take off, as did those of many other sculptors at the turn of the century, more because of the success of his funeral pieces rather than through prestigious public commissions, which tarried in coming. In 1907, he completed the marble relief of the Boido Family Tomb, entitled Towards Peace, after working on bringing out the forms, perhaps applying paint, because he discovered that the light flattened it under the arcades of Turin Cemetery.15 It is a veritable tour de force of the chisel: from the high relief to low relief and, still further, down to a minimal stiacciato. The iconography is fairly unusual: while the idea of being conveyed by boat to the Afterlife harks back to Egyptian times, as we have remarked elsewhere,16 the composition directly reflects the Boat of Love by Dante Gabriel Rossetti (Birmingham City Museum and Art Gallery), in turn inspired by some verses of Dante which recount his invitation to fellow-poets Guido Cavalcanti and Lapo degli Uberti to go for a boat ride accompanied by their three respective damsels: Beatrice, Monna Vanna and Monna Lagia; while Dante helps Beatrice get onto the boat, here, too, with an angel at the helm, three figures descend the stairs, observed by others higher up leaning over a balcony. Once having chosen his theme and his source of inspiration, the composition was subject to a long drawn-out process of elaboration on the part of the sculptor as a series of fine drawings, belonging to his heirs, demonstrate. Another funeral piece from this period, known only in the plaster reliefs at the Museo del Bozzetto in Pietrasanta, is similar to the Boido in its Pre-Raphaelite 95 96 style, with a common matrix in the art of the Italian Quattrocento [Fig. 10]. Pre-Raphaelism was “in the air” and had been further reinforced by the British exhibits at the International Exhibition of Decorative Arts in Turin in 1902 and Rubino was always ready to absorb new stimuli: as he certainly did in the aforecited Last Farewell, strikingly similar in its dramatic posing to the Monument for a young Sculptor by the American sculptor Daniel Chester French, known through a reproduction17 [Fig. 11]. In his Monument to General Bartolomé Mitre, though, Rubino seems to have already completely absorbed the language of the Renaissance Latine, although his own interpretation of it will always be modified by a strong eurhythmic and decorative element that will save him from rhetoric and the vacuous imitation of Michelangelo so common to many of his contemporaries. Not that Rubino ignored the great Tuscan sculptor altogether: the imposing angel of the Gambara Monument (1919, Monumental Cemetery, Turin) owes more than a little to his Mannerist prototypes [Fig. 12], as does the beautiful mourner of the Monument to Andrea Maggia at Oropa.18 The first decades of the 20thC saw many Italian sculptors, rivalled by their French and Spanish counterparts, successfully attempting to take part in the often highly lucrative, “monumentalisation” of the Americas. A great deal remains to be written on the role of Piedmontese sculptors active in Central and South America in the early decades of the 20thC.19 The International Competition held to erect an equestrian statue to Mitre in Buenos Aires was won in 1907 by Davide Calandra who generously insisted on including the name of his younger, less renowned friend when he presented the winning maquette20 [Fig. 13 e13a]. As noted, it was a joint effort, its composition perfectly balanced and, though the figures do swell up and beyond the contours of the base, they remain sober, self-contained groups, quite unlike the stream of Humanity that exudes from the Spaniard Querol’s Monument to Argentinian Independence, also in the Argentinian capital.21 At the time, Calandra was heavily burdened with commissions, having won, the previous year, the commission for the Monument to Umberto I in the gardens of the Villa Borghese in Rome (completed in 1926 by Rubino) and the Monument to Zanardelli in Brescia (1906-1909). The Monument to Mitre was to become still more onerous because the Commissioning Committee ordered it to be almost double in size, volume and cost. The bronze statue of Mitre on horseback dominates the monument, standing 16 metres high above the base in Baveno granite. The competition required the monument to express the virtues of the “Argentinian Garibaldi” (others saw him rather as the “Argentinian Mazzini”) and so Rubino created a series of marble allegorical groups on this theme: «Military Courage watching over the Family, on which the Nation is founded»: an athletic soldier protecting a buxom bride with a baby at her breast [Fig. 14]; «Civil Courage, protecting Justice from the assault of Iniquity and the Weak from the Strong», «an athlete, muscles vibrant as he struggles with a lion that is trying to attack a defenceless young girl who has fainted»; «while the Genius of the Nation, holding a palm, leaning out from the prow, like the winged Victory of Samothrace, and History interprets the hero’s solemn gesture from his stately horse»; at the centre of the rear of the monument, we have a statue of Law with two lateral groups: to the right Learning («the elderly patriarch, bald and bearded, protects and advises the handsome young man with his almost saintly face, reminiscent of figures by Donatello») and Harmony («kneeling on her veils, sweet and virginal, gazed upon by a charming putto, fascinated by her beauty»); to the left of Law, we have allegorical figures of Work, Agriculture (the Blacksmith and a couple of peasants to whom Ceres/Pomona offers a frond of laurel).22 The first of a group of Piedmontese artists to emigrate to South America in our period was probably the portraitist Augusto Reduzzi, younger brother of the sculptor Cesare, who moved there prior to 1900. A few years later it was the turn of the sculptor Enrico Alciati, a friend of Rubino, Cesare Reduzzi and Spirito Luciano, to sail the Ocean and, once established in Mexico, he may have encouraged other Piedmontese artists to participate in the creation of works there. Alciati, in fact, worked in Mexico City between 1902 and 1910, on the Column to celebrate the Centenary of Mexican Independence, with four allegorical figures at the base (Law, Peace, War and Justice), crowned by a bronze winged Victory that was cast in Florence. In 1905, from his home in the Mexican capital, Alciati drew up a contract with Spirito Luciano to carve three statues (Hidalgo, History and Patria23 in “white light Ravaccione marble” (therefore from Carrara). Spirito Luciano (1866-1924), who did indeed go to Mexico in 1906 in order to assist Alciati, was Rubino’s faithful marble carver for a lifetime, a role inherited by his son Guido (1902-1946). Unfortunately, only a small part of the correspondence between Rubino and Luciano has survived but we can glean quite a lot of information from a few letters, dating between 1906 and 1908, addressed to Spirito Luciano in Mexico, that are extant.24 In one of the first, dated 30th January 1907, Rubino expressed his doubts as to the possibility of winning the Mitre Competition, given that a French rival competitor was «very well known because he has done several works and because of his influential connections».25 “Carrara” was at work on “the nude for Venice” (i.e. the Biennale Exhibition), intent on roughing out the marble block, but he didn’t finish it in time so Rubino was forced to show only the plaster cast, (a light cast, one of two which the sculptor had taken from the model),26 proposing that Spirito Luciano should make a marble statue from it when it (and he) came back. “Carrara” had also shaped the head of a young girl in marble from which Luciano had made a copy. Reduzzi, meanwhile, had won the competition to execute “allegorical groups for the bridge” (named after Umberto I in Turin)27 and so was happily set up with work for a few years to come. For his part, Rubino announced that he was waiting for the drawings (elsewhere “architectural sketches”), which had been sent to him by Adamo Boari, and he said to say hello to Alciati. The drawings, by the architect Boari (Ferrara 1863-1928), presumably would have served to illustrate the architectural setting of one of the two fountains originally designed, though never actually erected, to stand in the square in front of the main entrance to the National Opera Theatre of Mexico.28 Initially, the French sculptor Antonin Merciè had been charged with their execution: they were to have represented Tragedy and Comedy and to have stood at the edges of the main façade; for their completion, $ 80,000 had been set aside in 1909, rising to $ 90,000 in the budget of 1912.29 Later, their iconography changed to Love and Glory, respectively entrusted to Edoardo Rubino and the Spaniard Agustin Querol. Maquettes were designed and sent to Mexico, as was Rubino’s model of Love, though never executed [Fig. 15]. Apart from the aforementioned Nude, Rubino also sent to Venice a seated statue of Signora Agnelli (presumably his first work for the powerful family, destined to become his principal private patron), and a small bronze of Salome, cast in bronze by his friend Menzio, portraying the popular opera singer Gemma Bellincioni, «at the moment she dances, in a most sensual pose».30 Rubino informed Luciano that “Fiorentino” was shortly to leave for Mexico and Fiorenzo Gianetti (18771939),31 a Turinese sculptor in the Bistolfian circle known by that nickname, did indeed join Alciati and Luciano in Mexico City where he had been commissioned to execute a series of ornamental decoration for the Opera Theatre. These consisted of very fine and original stylised representations of the flora and fauna of Mexico, and numerous masks representing the Human Emotions (Wrath, Joy, Sadness, etc.) to ornate the exterior façades of the Opera Theatre, now the Palace of Fine Arts, as well as the “masks” of the Eagle Knight and the Tiger Knight for the side balconies. “Fiorentino” was to stay in Mexico from 1906 to 1911.32 It is well known that Bistolfi also executed important works in marble for the façade of the Theatre: Harmony for the lunette over the main entrance, with two groups, Inspiration and Music, one to each side, above (ca. 19081911). On May 29th1907, Rubino informed his friend Luciano that he had won the Competition to execute the Monument to the sculptor Alessandro Vittoria in Trento, a public commission that was neither particularly imposing nor lucrative (Lire 15.000) but which, nevertheless, marked a step forward in his career.33 Up until this time, in fact, Rubino’s public works had been limited to Turin 97 98 and to relatively small works (Casimiro Teja, ca. 1897-1904; Federico Sclopis, 1905). In July 1908, Calandra and Rubino embarked for Buenos Aires to define the contractual terms for the execution of the Mitre Monument and to inspect the site, in a vast park in the Recoleta district. A huge sum, 800.000 lire, was allotted for its execution, which dragged on over the years, and the monument was only officially unveiled in 1927; Rubino and his favourite niece were there for the occasion. It was probably during his first visit to Buenos Aires that he was commissioned to execute the Monumental Tomb to Mitre (died 1906) in the Cemetery of Recoleta, figuring three allegories, carved in marble high relief, the splendidly solemn statues of Liberty, Duty and Justice, crowned by two symmetrical angels in bas-relief who pay homage to the great General’s name [Fig. 16]. Photographs from the period show the marbles for the Mitre Monument in the Studio and in the yard of the Luciano Studio at Querceta in Versilia, [Fig.17 e 18]. Of these, only two of the allegorical figures, namely the Victory and History, as well as the head of the Blacksmith, are among the works left to the Museo del Bozzetto in Pietrasanta. It seems likely that, after returning to Italy from Mexico City in 1908, and because of the fact that Rubino and Calandra had been commissioned the huge Mitre Monument, Spirito Luciano decided to move to Versilia in order to be close to the marble quarries. At first he used other studios but, in 1915, he set up a large Studio in Querceta which was carried on, after his precocious death in 1924, by his son Guido.34 He also worked for Calandra for whom he carved a marble Madonna35 and the frieze of the Monument to Zanardelli in Brescia, inaugurated in 1909, and the aforesaid equestrian Monument to Umberto I in Rome. The Luciani then executed all of Rubino’s main monuments in marble, among which the Funeral Monument for the Rosetti, also known as The Family, (Milan, Monumental Cemetery), 1912, unfortunately damaged by bombing in the Second World War and deliberately not restored), which was originally conceived in a huge single block of marble. The plaster model, however, is complete and one can, therefore, better appreciate the magnificent sense of “timing” in the creation of the eloquent gesture as man and woman join hands for eternity; they are otherwise completely isolated and absorbed in their own interior worlds: the woman in Motherhood, the man, à la Rodin, in Thought [Fig. 19 e 21]. Luciano also carved in marble the marvellous high-relief for the Monument to Edmondo De Amicis, with groups of children representing the message the great author for children wished to transmit to future generations: Maternal Love, Friendship, Charity, Work, Love of Patria. The Liberty Style is well suited to such themes and Liberty it is, given that it was begun in 1909, even though it was solemnly unveiled in piazza Carlo Felice in Turin only in 1923 [Fig. 20]. The fine Sower (of De Amicis’s social ideas among the Young), in bronze, standing before the exedra, surges forth like Pellizza’s familiar peasant-mother in the famous Fourth Estate (though the common matrix is, of course, Jean-François Millet), an image much exploited by the left-wing press [Cat. n. 13]. The Luciani also worked on many of the commissions ordered from Rubino by the Agnelli family, among which the two most important: the Altarpiece for Don Bosco and scenes from his mission work among the young (the plaster models for the reliefs and the priest’s head are conserved at Pietrasanta [Fig. 22] ): a series of action-packed scenes, quite similar, in some ways, to the narrative sculpture popular in Italy in the second half of the 19thC; and the Colossal Victory Beacon, conceived by Giovanni Agnelli, in the Remembrance Park of the Colle della Maddalena in the hills outside Turin, inaugurated in 1928, the high-point of a series of nike, including the Victory for the Monument to Vittorio Emanuele II in Rome. In order to cast the impressive statue of the colossal Victory, the young Guido Luciano and his team of skilled workers moved to Turin to first execute the huge model in plaster.36 The model of the head in gesso, all that remains, is part of the Luciano legacy to Pietrasanta. The Museum also conserves the maquettes for the frieze of the Monument to the Carabiniere in Turin, commissioned directly from the artist and inaugurated in 1933.37 Over forty figures represent «the charge, the trench, floods, earthquake, banditry, rustling, the heroic sacrifice of Scapacino, epidemic and so on, while every gesture and every expression complies with lively human reality. They never dwell on trifles nor is the execution “clever”, designed to show off mastery of technique. Historical truth and the circumstances are scrupulously reflected in the detail, the picturesque plays its part, dynamism is triggered and triumphs; but all of this is subject to generous telling of an epic: we are always in the presence of History, never merely descriptive commentary».38 If the bombastic and heroic language of the “official” sculpture of those times is no longer congenial to us, we still do not hesitate to suggest that the expression of the man crushed under his horse at Pastrengo; the rhythmic repetition of three figures of carabinieri, holding up a wall after an earthquake; the realism of the scene in the trenches, are all worthy of a second glance. As one might expect, the Luciano Studio kept the plaster casts and models of works on which they worked [Fig. 21]; the nucleus of gessi on show here were preserved, instead, by Rubino’s heirs and, for the most part, refers to works executed and located in and around Turin. There are, however, some important exceptions, like the model for the bas-relief for the equestrian Monument to Umberto I, a work by Calandra and Rubino (Cat. n. 15) on which we know Luciano worked. Or, again, the model for the Funeral Monument to Giuseppina Chiesa (1930, Monumental Cemetery Milan), where the beautiful marble figure, almost austere in its simplicity, truly exalts the intrinsic qualities of the candid stone (Cat. n. 24). Some works have been newly traced or identified during the preparation of this catalogue; others remain to be positively identified or placed. We know, for example, of two marvellous Depositions: one, a plaster relief in the Museo dei Bozzetti (see Fig. 21, on the left and we have another photograph of Spirito Luciano intent on carving it); the other, published in 1928, finely executed, is reminiscent of Giovanni Dupré’s famous work in the Camposanto della Misericordia in Siena.39 The plaster figures of two angels, now in the Pietrasanta Museum [Fig. 10] but which must have been executed to flank the entrance portal to a funerary aedicule, are still elusive but we trust that, in remembering Rubino and his work, the interest which will undoubtedly be aroused will soon yield fruit and bring many expected, and perhaps some unexpected, discoveries… 99 Notes 100 Antonio Alice (1886 -1943) studied at the Buenos Aires Academy; in 1904 he won the Premio Roma which permitted him to come to Italy to study with Grosso, Tavernier e Gilardi at the Accademia Albertina where, in 1905, he was awarded the Gold Medal for Painting. 1 Edoardo Rubino to Spirito Luciano, letter dated 12th April 1907, in the collection of the Luciano heirs who have graciously permitted us to consult correspondence between Rubino and their grandfather, dating from 1906 to 1907 when the latter was in Mexico. 2 Daniele Pescarmona, in his ground-breaking essay on Rubino, lists among the works left to the Museum: the plaster maquettes for the Monument to the Carabiniere in Turin; the gessi for Mitre; for the Victory beacon; the relief of the Navicella degli Apostoli ( Palazzo delle Congregazioni, Rome); the Altar dedicated to Don Bosco; the full-size models for the aforesaid Monument to the Carabiniere, however, were donated to the Museum of the Carabinieri in Rome. D.Pescarmona, “Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia” in Eclettismo a Torino Guido Casanova Edoardo Rubino, edited by Franca Dalmasso, Il Quadrante, Turin 1989, pp. 89 -110, p. 106. The Museum (now Galleria Civica d’Arte Moderna) also has portraits in plaster of Signora Sciamengo Remmert, Signora Ostorero and Signora Mattioli (in marble and gesso), as well as the “Portrait of the Little Girl, Luciana” (sic), or, rather, the portrait of the oldest Luciano sister, Rosa. Rubino lamented the death of Mattioli, a lawyer and “his great friend and father”, in a letter to Spirito Luciano, dated 30th January 1907. 3 4 P. C. Rinaudo published three interviews with the sculptors Pietro Canonica, Tancredo Pozzi and Rubino in a booklet dedicated to «Her Majesty Queen Margherita of Savoy», published in Turin under the auspices of the art periodical “Il Prisma”. The interviews are published in their entirety in Pigmaleone e Galatea Note di Scultura a Torino 1880-1945, Weber & Weber 2006 edited by Armando Audoli, pp. 152-154. Cfr. Davide Calandra. L’Opera, la Gipsoteca edited by R. Belmondo M. M. Lamberti, Comune di Savigliano, Museo Civico Antonino Olmo, 2004, pp. 151-163. 5 6 Reproduced in G. Jona, Artisti Contemporanei, Edoardo Rubino in “Emporium”, vol. LXVII, February 1928, n. 398 p. 76. The female figure, on the threshold of the tomb, raises her veil with her left hand to reveal her beauty, an often repeated gesture in Rubino’s funeral repertory. E. Zanzi, Scultori nostri. Esposizione Sindacato Regionale fascista delle Belle Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 16 July 1929. 7 Cesare Reduzzi (1857-1911) also mantained working relations with the Versilia area, making use of Antonio Bacci’s workshop for the execution of his works in marble. 8 G. Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre in “Le Vie dell’Italia e dell’America Latina”, July 1927, p.774. 9 Lamp reproduced in Scultura Monumentale e Plastica decorativa, I Serie, Biblioteca de “L’Artista Moderno”, Turin, n.d., Plate XV together with the well known plaque for the Società Fotografica Subalpina, Plate X. 10 Plaque for the sculptor Davide Calandra reproduced in “L’arte decorativa moderna”, Year II, 1903, n. 7, p. 195. Plaque offered by the Associazione della stampa subalpina to Francesco Tamagno, 1903, Ibidem, p. 198. The aforesaid plaque for the Società fotografica Subalpina, Ibid., p. 199; Plaque offered to Alfonso Badini Gonfalonieri, 1903, Id. p. 205. Nor should we forget his career as medallist. A splendid late example, brought to our attention by Massimiliano Fiorio, is the medal coined in 1931 for the Wedding of Umberto II e Maria José di Savoia with the Mole Antonelliana and three angels displaying the Holy Sindone on the verso. 11 12 Of note a fine bust of a little girl, cast at the renowned “Fonderia Artistica Sperati Emilio” in Turin, datable to around 1890, which was auctioned at Sotheby’s London on June 11th 1987, n. 291 and an idealised female bust, entitled Heroine, reproduced in the official catalogue of the National Exhibition in Turin in 1898. These, and other heads, like that of the Frugone Monument in Staglieno Cemetery, Genoa, are closer to Calandra than Bistolfi. Numerous sketches have survived of the famous people portrayed in the two bas-reliefs, some of whom are named (Roberto D’Azeglio, Luigi Des Ambrois, Thaon de Revel, Filippo di Castellengo, Radicati etc.); they are represented, alongside Sclopis, because of their role in the granting of the Statute in 1848 and/or the first Subalpine Senate during Sclopis’s Presidency 1863/4. The four bas-reliefs for the Monument to Sclopis are reproduced in Scultura Monumentale e Plastica Decorativa Ia Serie (an undated booklet edited by the periodical “L’Artista Moderno”) Plate XXI, together with the Placchetta per la Società Fotografica Subalpina and the fine medal of 1901 commemorating Vincenzo Gioberti “Aprir l’Animo stanco a lieta e generosa speranza” (Plate X) and an electric lamp (Plate XV). 13 14 Reproduced in Cronache. L’Esposizione Nazionale di Torino in “Emporium”, Vol. L, n. 298, October 1919, pp. 213, 214. 15 Edoardo Rubino to Spirito Luciano, 4th October 1907. S. Berresford, (edited by), Italian Memorial Sculpture 1870-1940. A Legacy of Love, Frances Lincoln, London 2004, p. 179. 16 Among Rubino’s papers, there is a photograph reproducing the work with a handwritten dedication expressing, «La 17 Reconnaissance d’un touriste americaine en avril 1901» (sic). Daniel Chester French, (1850-1931), a leading American sculptor of the period, lived in Florence between 1873 and 1875 and, from 1886, made several trips to Rome and Italy. Repr. G. Deabate, Una caratteristica necropoli alpina, in “Le Vie d’Italia”, July 1925, p. 769, see also: www.santuariodioropa.it/santuario/it-cimitero-monumentale.htm/p.42 18 The subject has been studied in depth in a recent volume dealing with the relations between Carrara marble and the art market in Carrara e il Mercato della Scultura 1870-1935, Vol. II, edited by Sandra Berresford, 24 Ore Motta Editore (for the Cassa di Risparmio di Carrara, 2007). Thieme-Becker also erroneously notes a Monumento a Generale Cabal at Santa Fé de Bogotà in Colombia. This is, in fact, the monument to the scientist, soldier and patriot José Maria Cabal (1769-1816) placed in the square named after him in via XX settembre, in the town of his birth Guadalajara de Buga. Cat. n. 21. A leading authority on sculpture in Central and South America has noted that Rubino declined the offer to evolve the architectural/sculptural programme for the new Legislative Palace in Montevideo, designed by the Italian architect, Gaetano Moretti, and eventually executed by Giannino Castiglioni. Rodrigo Gutiérrez Viñuales, Monumento conmemorativo y espacio público en Iberoamérica, Madrid, Càtedra, 2004 p. 331. 19 A detail that Rubino recalled in his commemoration of his friend given at the Turin City Council, cited by G. Deabate, Op. cit., 1927, p. 773. 20 21 Ibid. The original maquette is reproduced on page 777. 22 Ibid. The statues, placed at the base of the Column of Independence in Mexico City, are reproduced in R. Gutiérrez Viñuales, Op. cit. p. 643. 23 Unfortunately, all of the bureaucratic and administrative documentation regarding the sculpture workshop “Spirito Luciano” (up to 1924) and Guido and Spirito Luciano” (up to 1940) was destroyed in the Second World War. The workshop continued to function after Guido’s death, still in his name, and finally closed down towards the end of the 1950s. 24 Perhaps identifiable in Emile-Edmond Peynot (1850-1932), author of the imposing Monument on the part of the French for Argentina in Buenos Aires. 25 26 Rubino to Spirito Luciano, 12 April 1907. 27 Ibid. The Bridge, executed with sculptor Luigi Contratti, was opened in 1911. Both the contract and the letter sent by Rubino to Spirito Luciano (Turin, 20th January 1907) are preserved in the archives of the Biblioteca “G. Carducci” in Pietrasanta. My thanks to Chiara Celli and the staff for their kind assistance. Gessi by Rubino, coming from the Luciano workshop at Querceta are exhibited in the Museo dei Bozzetti 2, at Pietrasanta. On his father’s death, Guido (1902-1946) continued to work with Rubino. Maquettes for the fountains are reproduced in La Costruzione di un Teatro, Architetto Adamo Boari, Rome Danesi 1918, a volume which richly illustrates the many artistic marvels of Mexico City’s Teatro dell’Opera. 28 Estimated budgets are printed in R. Tovar, V. Jimenez et al., La Costrucción del Palacio de Bellas Artes, Madrid 1995, pp. 339 -341 29 30 Rubino to Spirito Luciano, 27th February 1907. Bellincioni (1864-1950) played Salome; the opera was first performed at the Scala in Milan on the 23rd of June 1906, with Toscanini conducting. Very soon after, it was staged at the Teatro Regio in Turin, with Strauss, himself, conducting. The same letter refers to Rubino’s “speedy” but “successful” execution of the figure of Carducci for a commemoration, 31 Cfr. A. Audoli, Pigmalione e Galatea. Note di Scultura a Torino 1880-1945, Turin, Weber & Weber, 2006, pp. 76-77. W. Canavesio, L’atelier di Leonardo Bistolfi. Allievi e collaboratori, in “Percorsi. Rivista della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte ‘Giuseppe Grosso’”, Year IV, n. 7, 2004, pp. 57-58. 32 33 The Monument is reproduced in “Rassegna d’Arte”, July 1909 and “Emporium”, July 1909, p. 79. The Luciano workshop was continued by Emilio Buratti who worked with Rubino up to his death in 1954, aided by the young Abele Jacopi. Among the last works by the sculptor, Buratti collaborated on the Monument to Pio XI, 1941, Palazzo delle Congregazioni, Rome, and his very last, the Monument to the Gothic Line in Piazza Europa at Ripa, (a man with a woman, one on each side, in cement on a travertine base) inaugurated in 1958. In 1922, the Luciano workshop employed some 25 skilled marble workers. 34 35 The terms of contract between Calandra and Spirito Luciano are recorded in a letter in the former’s hand, dated 19 giugno 1906, conserved in the Museo dei Bozzetti at Pietrasanta; the Madonna referred to is probably that for the Chiesa del S. Cuore di Maria in Turin. 36 The plaster maquette is conserved in the Galleria Civica d’Arte Moderna in Turin. For a description of the laborious and difficult execution, see: La più grande statua del mondo fuso in bronzo, in “La Stampa”, 11 marzo1928. 37 M. Bernardi et al., in the booklet published for the unveiling, Il Carabiniere: Inaugurazione del Monumento Nazionale al Carabiniere Reale, 1933. 38 M. Bernardi, Ibid. 39 G. Jona, Artisti contemporanei. Edoardo Rubino, cit., 1928, p. 78. 101 Catalogo delle opere a cura di MONICA TOMIATO 1- Figura femminile della tomba Golzio 104 Materiale: gesso Il gesso è il modello originale per la simo rilevo e le pieghe della veste – da Misure: cm. 59,3 x 73 x 8,5 cui spunta un piedino delicato – dileparte superiore del bassorilievo al cenCronologia: 1900 tro della tomba della famiglia Golzio nel guano nella superficie di fondo. Cimitero Monumentale di Torino (prima Questa bella figura femminile è il fulcro ampliazione, sepoltura 101 b). L’opera finita, firmata e della memoria funeraria e nessun dettaglio accessorio distoglie l’attenzione dalla sua fisionomia gentile, resa datata «Rubino/1900», è costituita da tre lapidi di marmo bianco erette su uno zoccolo dello stesso mateattraverso un modellato dalle caratteristiche squisitamente “pittoriche” la cui qualità si può apprezzare oggi riale; sulle due laterali sono scolpiti a rilievo un ritratassai meglio nel gesso che non nell’opera in marmo, to maschile ed uno femminile entro medaglioni incortroppo a lungo esposta all’azione di degrado degli agenniciati da stilizzati rami d’oleandro, mentre la stele centrale mostra una giovane donna di profilo avvolta in ti atmosferici. Analoghe caratteristiche tecniche e di stile si riscontraun fluente panneggio. Un ampio drappo, trattenuto sul no in altri rilievi a destinazione funeraria eseguiti da petto con la mano sinistra, copre parte della capigliatura incorniciando l’armoniosa curva delle spalle ed il Rubino nei primi anni del Novecento e in particolare nella lapide per la famiglia Lenti, databile al 1904 (cat. volto reclinato. La destra è abbandonata sulle ginocchia. La parte inferiore del corpo è abbozzata a bassisn. 4). 2 - Corona floreale 106 Materiale: gesso È il modello originale per una targa mi con la scuola di Tabacchi e i modelli Misure: cm. 78 x 78 x 13 commemorativa racchiusa in una lussudi ornato diffusi nell’ambito dell’AcCronologia: reggiante corona di fronde d’alloro cademia. 1900 1905 circa intrecciate con fiori apparentemente Alquanto più asciutta e stilizzata appad’oleandro. La ricchezza degli spunti re, a confronto, la corona bronzea deponaturalistici, resi con modellato robusto e nervoso, e lo sta ai piedi del monumento funerario a Carolina spiccato gusto decorativo della composizione suggeriInvernizio nel Cimitero Monumentale di Torino (1917). scono per l’opera una datazione intorno ai primi anni La tabula ansata al centro del gesso reca un’iscrizione del Novecento. a lettere capitali debolmente incisa e pressoché illeggiLa rigogliosa ornamentazione vegetale risente ancora bile: «I TUOI CAVALLEGGERI [AL]LA TUA FAMIl’influenza del verismo ottocentesco e denuncia i legaGLIA [...]». 3 - Ritratto di Casimiro Teja 108 Materiale: gesso del Pasquino (la celebre scultura antica È il modello originale per l’altorilievo addossata ad un lato di Palazzo Braschi, bronzeo incastonato nella base del Misure: cm 51 x 140 x 23,5 a Roma, utilizzata per esporre satire monumento a Casimiro Teja, ora in piazCronologia: 1903 anonime fin dall’epoca del suo rinveniza IV marzo a Torino ma in origine sito mento a inizio Cinquecento) e dal volto femminile con in corso Cairoli, presso il Lungo Po. Il monumento fu uno stiletto tra i denti scolpito sul retro della base, alluinaugurato il 3 gennaio 1904. La decisione di spostarsivo alla pungente arguzia di Teja. Proprio l’immagine lo in una nuova sede fu presa nel 1923 in seguito ad atti del Pasquino era stata utilizzata da Rubino per illustravandalici e al trafugamento della placca con il ritratto re la copertina del volume Caricature di Teja annotate che lo stesso Rubino provvide a rimpiazzare con una da Augusto Ferrero, pubblicato a Torino nel 1900. replica.1 L’effige «somigliantissima e bonaria» del giornalista e Presso gli eredi dell’artista sono conservati alcuni caricaturista che per un trentennio era stato l’animatoschizzi preparatori relativi ad una prima idea per il re della popolare testata umoristica “Il Pasquino” e monumento diversa da quella definitiva. La soluzione collaboratore del “Fischietto” piacque subito ai critici. poi adottata, con la placca bronzea applicata contro la “La Stampa” del 4 gennaio 1904 elogiava il lavoro del parte anteriore della base, è invece perfettamente ricogiovane scultore e soprattutto la «squisita figurazione noscibile in un disegno dell’Archivio Storico della Città del Teja, per giudizio concorde della folla di amici riedi Torino pubblicato da Daniele Pescarmona.3 2 vocato con singolare rassomiglianza». Ad essere partiL’impostazione dell’opera è molto simile a quella del colarmente apprezzati erano, quindi, l’espressività del monumento a Umberto I per la città di Aosta (1903), ritratto e il carattere veristico dell’opera in cui Rubino dove ritroviamo l’associazione fra una figura simbolica metteva a frutto gli insegnamenti di Tabacchi, suo maeposta in alto e il ritratto vigoroso del personaggio che stro in Accademia. Nella concezione del monumento emerge dal basamento. aveva però un peso non indifferente anche la compoNel nostro gesso è assente l’iscrizione che compare in nente simbolica rappresentata dal torso a tutto tondo basso nell’opera finita. Un monumento che cambia posto, in “Gazzetta del Popolo” 29/11/1923. L’Archivio Storico della Città di Torino conserva una consistente documentazione sull’opera finita e su questa vicenda (Lavori Pubblici cart. 251, fasc. 12). 1 2 L’inaugurazione del monumento a Casimiro Teja, in “La Stampa” 3/01/1904 Daniele Pescarmona, in Eclettismo e Liberty a Torino. Giulio Casanova, Edoardo Rubino, catalogo della mostra a cura di F. Dalmasso, Torino, Il Quadrante, 1989, p. 188. 3 4 - Figura femminile della tomba Lenti 110 Materiale: gesso mani giunte assume particolare risalto È il modello originale per il rilievo che Misure: cm. 60,5 x 60,4 x 5 divenendo fonte di una sottile suggestioorna la lapide funeraria in ricordo di Cronologia: 1904 Domenico Lenti, morto nel gennaio ne emotiva e religiosa. 1904. Sul gesso sono visibili i chiodi Le successive opere di carattere funerario confermeranno l’abilità dello scultore nel trasformametallici – i cosiddetti “capi punti” – che costituiscore temi d’afflizione in immagini di pacata e squisita no un sicuro indizio del suo impiego per la realizzazione dell’opera finita in marmo, collocata nel Cimitero bellezza. L’apprezzamento della critica nei confronti di questo Monumentale di Torino (seconda ampliazione, sepoltufecondo settore dell’attività giovanile di Rubino traspara 541). Le mediocri condizioni di conservazione della re dagli interventi di Emilio Ferrettini sui bassorilievi scultura (la superficie marmorea si presenta dilavata e per le tombe Boido e Del Mastro. Le considerazioni di annerita dal deposito di inquinante atmosferico) hanno Ferrettini sul primo di questi costituiscono a mio avvipurtroppo compromesso il livello di leggibilità del rafso un commento pertinente all’opera in esame. Non finatissimo modellato “pittorico” riscontrabile nel passano infatti inosservate al critico le qualità stilistigesso. che che connotano anche questa figura di serena comLa memoria funeraria non reca altra raffigurazione che postezza, prime fra tutte la «ricerca delicata del chiaroquesta delicata effige femminile i cui tratti idealizzati scuro» e la raffinatezza dei particolari.1 richiamano da vicino quelli della figura muliebre di La stessa immagine femminile è riproposta da Rubino profilo della tomba Golzio (cat. n. 1). In questo caso – con minime varianti – in una placchetta riprodotta in Rubino focalizza l’attenzione sul solo busto della giovafotografia su “L’arte decorativa moderna” come illustrane donna assorta nella preghiera, indugiando maggiorzione fuori testo dell’articolo di Enrico Thovez intitolamente nella definizione dei piani del volto e dell’acconto Placchette medaglie e monumenti di Edoardo ciatura impreziosita da una coroncina di fiori. In tanta Rubino.2 semplicità compositiva il particolare espressivo delle Emilio Ferrettini, Nel giorno dei morti al Camposanto di Torino, in “Gazzetta del Popolo”, 1/11/1907, p. 4. 1 Il numero della rivista è il settimo dell’anno II° e l’articolo di Thovez è solitamente riferito al 1903, ma i fascicoli de “L’arte decorativa moderna”, pubblicata a Torino a partire dal 1902, non uscirono con regolarità; i riscontri sul contenuto dei singoli numeri delle prime annate portano a credere che quello in questione sia in realtà l’ultimo del 1905 (ringrazio Armando Audoli per la precisazione). La fotografia della placchetta è a p. 208. 2 5 - Bozzetto di monumento funerario con figura femminile 112 Materiale: gesso Il bellissimo bozzetto presenta una figuuna statua marmorea e senza ombra di Misure: cm. 67,6 x 61,8 x 28,5 dubbio la stessa del gesso – compare ra femminile seduta su uno scranno un Cronologia: po’rialzato da terra che poggia contro un all’interno di una cornice centinata, fra 1903-1905 circa piano squadrato. due cascate di fiori scarlatti contro uno La donna è raffigurata col capo reclinasfondo di colore azzurro cielo. L’opera finita non è stata al momento rintracciata e non to rivolto a destra e lo sguardo intenso sprofondato in distanze insondabili, nell’atto di liberarsi dal pesante si può escludere che il bozzetto sia pertinente ad un monumento mai realizzato da Rubino, come lascerebbe panneggio che l’avvolge. Il gesto delicato ma deciso supporre l’assenza dei “capi punti” che costituiscono il delle mani che allontanano dal corpo i lembi del sudariferimento per ingrandire il modello in gesso. rio adombra un significato di speranza e resurrezione consono alla presumibile destinazione funeraria dell’oL’esecuzione del bozzetto si può far risalire con certezza ai primi anni del Novecento, in quanto “L’arte decopera. rativa moderna” ne pubblicava una fotografia nell’ultiLe caratteristiche formali del bozzetto fanno pensare ad un sepolcro collocato in uno spazio aperto, come suggemo numero del 1905, come illustrazione fuori testo dell’articolo di Enrico Thovez intitolato Placchette medarisce anche il confronto con un disegno a pastello di Rubino nel quale una figura femminile – bianca come glie e monumenti di Edoardo Rubino.1 1 “L’arte decorativa moderna”, n. 7, Anno II, p. 201; per la datazione del fascicolo cfr. scheda n. 4. 6 - Ritratto di Federico Sclopis 114 Materiale: gesso striale. Morì nel 1878 manifestando la È il modello originale per la testa della Misure: cm. 59,3 x 73 x 8,5 volontà di donare tutti i suoi scritti e la statua in bronzo del monumento a Cronologia: 1904 Federico Sclopis, sito nei giardini della sua ricca biblioteca all’Accademia delle Cittadella a Torino. Scienze. Subito dopo la sua scomparsa si costituì un comitato Federico Sclopis, conte di Salerano (Torino 1798-1878), per raccogliere i fondi destinati all’erezione di un a partire dal 1822 ebbe una brillante carriera nella magistratura sabauda. Nel 1831 il re Carlo Alberto lo monumento commemorativo, ma il concorso pubblico per assegnarne l’esecuzione fu bandito solo nel 1903. chiamò a far parte della ristretta commissione incaricaAi primi di gennaio dell’anno successivo i 17 bozzetti ta della redazione del Codice civile. Nel 1848 Sclopis si eseguiti dai partecipanti (tra cui i torinesi Cesare adoperò per la concessione dello Statuto Albertino da Biscarra, Luigi Contratti e Tancredi Pozzi) vennero parte del sovrano e dettò il proclama per la prima Gueresposti in due sale della Società Promotrice delle Belle ra d’indipendenza. L’anno successivo fu nominato memArti. Rubino presentò due progetti: uno per una statua bro del Senato, assumendo in seguito la carica di presia figura intera posta su un alto basamento ornato da dente, dalla quale si dimise nel 1864, anno della quattro bassorilievi, l’altro composto da un’erma appogConvenzione di settembre con cui l’Italia si impegnava giata ad un basamento «su cui si drizza un’impetuosa a trasferire la propria capitale da Torino a Firenze. figura di giovane combattente ignudo, che ha la spada Sclopis fu anche membro – e per molti anni presidente nella mano sinistra e regge un’ampia bandiera nell’al– di prestigiose istituzioni culturali quali l’Accademia tra».1 Le preferenze della commissione giudicatrice delle Scienze di Torino e la Regia Deputazione di Storia andarono al primo progetto. Rubino si mise subito al Patria. Nel 1840 uscì il primo volume della sua opera lavoro e il monumento all’insigne statista e giurista fu più nota, Storia della legislazione italiana, tradotta in inaugurato nel 1905. Il modello in gesso dovette perfrancese, inglese e tedesco. tanto essere eseguito già nel 1904. Nel 1872, in qualità di presidente del Collegio L’opera è significativa per l’affermazione pubblica del Internazionale di Ginevra per la soluzione della controgiovane scultore, che dopo la delusione per la mancata versia anglo-americana detta “Arbitrato dell’Alabavittoria nel concorso per la tomba Brin, abbandonava la ma”, Sclopis agì da abile mediatore risolvendo la grave strada della sperimentazione simbolista per fare ritorno questione internazionale senza ricorrere alle armi. «ai canoni collaudati della tradizione del naturalismo Negli ultimi anni di vita prese parte al dibattito cultuottocentesco».2 rale e politico sull’identità del Regio Museo Indu- 1 I bozzetti pel monumento a Federigo Sclopis, in “La Stampa”, 2/1/1904. Daniele Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia, in Eclettismo e Liberty a Torino. Giulio Casanova, Edoardo Rubino, catalogo della mostra a cura di F. Dalmasso, Torino, Il Quadrante, 1989, p. 106. 2 7 - “In Justitia Pax” (particolare del monumento a Federico Sclopis) 116 Materiale: gesso È il modello originale per uno dei quatLe quattro targhe bronzee, leggermente Misure: cm. 86 x 54 x 7 tro bassorilievi bronzei con soggetti stocentinate nella parte superiore, costituiCronologia: 1904 rici e figure allegoriche che ornano la scono un elemento tutt’altro che accesbase del monumento a Federico Sclopis, sorio nella concezione d’insieme del eretto nel 1905 nei giardini della Cittadella a Torino monumento. Rubino riservò loro una particolare atten(cat. n. 6). Vi è rappresentata la Giustizia, simboleggiazione, documentata da una serie di disegni attualmenta da una figura femminile a mezzo busto, di tre quarti, te conservati presso gli eredi. che tiene tra le braccia una spada cinta da rami d’ulivo L’idea del rilievo con la Giustizia è sviluppata con pice d’alloro. L’immagine è accompagnata dall’iscrizione a cole varianti in alcuni disegni a penna o a matita rilievo “IN JUSTITIA PAX”. abbozzati su foglietti di piccole dimensioni, mentre Una seconda figura allegorica compare nella targa conaltri schizzi fissano la fisionomia dei personaggi raffitrassegnata dall’iscrizione “ITALIAM QUAERO”. gurati nelle scene storiche. L’eleganza aristocratica delle figure femminili modellate da Rubino nei primi lustri del secolo impronta le forme e l’attitudine della bella Giustizia che delicatamente emerge dal piano di fondo del rilievo. Le leggere variazioni cromatiche che si osservano sulla superficie del gesso sono dovute a ritocchi dell’artista. 8 - Verso la Pace (bassorilievo della tomba Boido) 118 Materiale: gesso È il modello originale in scala al vero squisitamente pittorici a tal punto da Misure: cm. 206 x 292 x 17,4 del bassorilievo per la tomba della indurre Rubino a cercare degli “aggiu(telaio escluso) Famiglia Boido al Cimitero Monumentastamenti”. Cronologia: 1906-1907 le di Torino (quinta ampliazione, arco 26). Le precedenti lettere di Rubino conserIl progetto per l’edicola funeraria della vate dalle eredi Luciano non contengono Famiglia Boido venne presentato nel marzo 1907.1 Il alcun riferimento al grande bassorilievo per la tomba Boido. Dato che Rubino era solito dare a Spirito notizia bassorilievo è datato sul marmo «1907». Il 4 ottobre 1907 Rubino scriveva all’amico e collabodei nuovi lavori a cui si stava dedicando, soprattutto se particolarmente impegnativi, possiamo presumere che ratore Spirito Luciano: «In questi giorni sono quasi l’ideazione dell’opera e probabilmente anche l’esecusempre al Cimitero, siccome abbiamo collocato il zione del modello in gesso debba essere anteriore al 3 monumento Boido. L’insieme è buono ma il bassorilievo è un disastro. In quella luce non si vede. Ho cercadicembre 1906, data della prima lettera. Alcuni diseto di tirarlo fuori con qualche tinta, e mi sembra di ottegni di Rubino riconducibili all’opera (studi d’insieme della composizione, abbozzi di figure isolate e disegni nere qualche effetto». La cattiva illuminazione dell’opera finale, collocata nella penombra del porticato, anche piuttosto dettagliati di panneggio) documentano la progressiva messa a punto dell’insolita iconografia. comprometteva la leggibilità di un rilievo dai caratteri 120 fotografia sulle pagine della “Gazzetta del Popolo”, Emilio Ferrettini affrontava la delicata questione del rapporto, non del tutto risolto, con la poetica e le opere di Bistolfi: «L’artista […] si lasciò trascinare dal fascino di quell’arte bistolfiana così suggestiva [in specie dal Dolore confortato dalle memorie della tomba Durio]. Eppure l’opera rivela un desiderio di trovare nuove forme di espressione, e una volontà energica di ricerca e squisitezza di sentimento e di esecuzione. Quella distesa di mare su cui passano bioccoli di nuvole, come incalzate anch’essa e dal soffio del destino; quella macchia di cipressi disegnantisi sull’alto della rupe; quell’acre desiderio, così notevole nel Bistolfi, di dare alla scoltura un carattere pittorico; l’innestarsi del sentimento pagano nel cristiano colla raffigurazione della barca, recante le anime verso le rive eternamente fiorite; la plastica e squisita bellezza dell’angelo che siede al timone; la delicatezza di vari particolari, quell’ondata di sentimento solenne che pervade la scena sono elementi tali di espressione e di bellezza da fare di questo bassorilievo […] un sogno d’arte spirituale, che trovò qualche volta la materia e la mano ribelli a renderne tutta la vaporosa bellezza; un tentativo ardito, anche se discutibile ed incompleto. E l’ardimento è dei forti».3 Come fa notare Sandra Berresford, «se l’idea del trasbordo nell’al di là risale ai lontani tempi egizi, la composizione riflette […] direttamente il Boat of Love di Dante Gabriel Rossetti (Birmingham City Museum and Art Gallery), il quale, ispirandosi a sua volta ad alcuni versi di Dante, raffigurò il Poeta che invita i poeti Guido Cavalcanti e Lapo degli Uberti a fare una gita in barca con le loro tre rispettive damigelle: Beatrice, Monna Vanna e Monna Lagia; mentre Dante aiuta Beatrice a salire sulla barca, anche qui con un angelo al timone, tre figure scendono le scale, osservate da altre appoggiate ad un balcone».2 Nell’ispirazione dell’opera si coglie nondimeno una precisa suggestione böckliniana (l’Isola dei morti con la scalinata che solca la rupe a precipizio sul mare). Rubino rappresenta la defunta velata allontanarsi dal gruppo delle donne dolenti in cima alla scala, per salire sulla barca cosparsa di fiori dove l’attendono due soavi figure angeliche dalle sembianze femminili: l’angelo consolatore, in ginocchio, che l’accoglie protendendo verso di lei le braccia e l’altro, alato, al timone dell’imbarcazione che la condurrà nel mondo dei trapassati, ovvero “verso la pace”, come recita il titolo del bassorilievo. Commentando l’opera appena terminata, riprodotta in Archivio Storico della Città di Torino, Cimitero Monumentale, 1907, vol. LVI, permessi 414 e 553. 1 La citazione è tratta dal saggio pubblicato in questo volume. Cfr. anche Sandra Berresford, Italian Memorial Sculpture 1870-1940. A Legacy of Love, Londra 2004. 2 Emilio Ferrettini, Nel giorno dei morti al Camposanto di Torino, in “Gazzetta del Popolo”, 1/11/1907, p. 4. 3 9 - Altorilievi con putti intenti alla vendemmia (Confetteria Baratti & Milano) 122 Materiale: gesso ca sobria ma d’effetto, con quattro scuri Per la facciata della Confetteria Baratti Misure: cm. 62 x 143 x 38; inserti bronzei collocati contro il marmo & Milano, sotto i portici di piazza Ca63,5 x 142 x 50 giallo di Siena dei pilastri tra le vetrine. stello a Torino, Rubino realizzò quattro Cronologia: 1909 1910 Le figure delle tabelle bronzee, leggere e altorilievi fusi in bronzo con figure di stilizzate nel progetto esecutivo conser«puttini ridenti fra canestri di frutta, vato all’Albertina, si trasformeranno nelle mani di fiori, tralci di vite e grappoli d’uva, rappresentazioni 1 Rubino in immagini infantili di prorompente vitalità allegoriche delle quattro stagioni». I gessi in mostra modellate quasi a tutto tondo. sono i modelli originali per i due gruppi più esterni I lavori di decorazione del negozio terminarono all’inizio della serie. del 1911 e alla metà di febbraio i quotidiani torinesi La ristrutturazione dei nuovi locali del negozio fu comdavano notizia dell’inaugurazione. Enrico Thovez su “La missionata nel 1909 al decoratore-architetto Giulio Stampa” ed Emilio Ferrettini sulla “Gazzetta del PopoCasanova, trasferitosi da Bologna a Torino nel 1904 e lo” commentarono favorevolmente il lavoro di Rubino. incaricato nel 1907 dei lavori di decorazione e di ornaSecondo Ferrettini, la facciata era notevolmente ravvivato del Palazzo delle Poste, cui prese parte anche ta dalla grazia dei quattro altorilievi «a guisa di cariatiRubino. I due artisti – poi colleghi all’Accademia Aldi» modellati da Rubino e fusi in bronzo nella fonderia bertina – collaborarono in seguito a diverse imprese Betta: «[…] E sono figure di putti […] ove la freschezza d’arte decorativa (ricordiamo, tra i lavori più impegnadell’impressione, la vivacità del segno, l’eleganza delicativi e di felice riuscita, la tomba Porcheddu al Cimitero ta, il senso decorativo e lo studio della realtà si fondono Monumentale e l’ammodernamento della Confetteria in un insieme armonico e gustosissimo […]».2 Romana-Bass). Fu Rubino a consigliare ai proprietari della Confetteria Baratti di affidare interamente a La decorazione della Confetteria Baratti ricevette elogi Casanova la progettazione dell’interno dei locali affacanche sulle riviste “L’Architettura italiana” (settembre ciati sulla piazza e della nuova devanture del negozio. 1911, n. 12) e “Arte italiana decorativa e industriale” Per questa Casanova immaginò una decorazione plasti(settembre 1911, n. 9). Giorgio Auneddu, Progetto di facciata per la Confetteria Baratti & Milano, scheda in Eclettismo e Liberty a Torino. Giulio Casanova, Edoardo Rubino, catalogo della mostra a cura di F. Dalmasso, Torino, Il Quadrante, 1989, p. 144. 1 Emilio Ferrettini, Una squisita opera d’arte decorativa, in “Gazzetta del Popolo”, 18/2/1911, p. 5. 2 10 - Tondi con figure femminili allegoriche (Confetteria Baratti & Milano) 124 Materiale: gesso Sono i modelli originali in gesso dei due bar della rinomata confetteria torinese. Misure: diametro cm. 68,5; medaglioni sopraspecchiera simbolegLa composizione di entrambi i tondi, profondità cm. 10 gianti la Primavera e l’Autunno realizzamolto semplice ed equilibrata, ha come Cronologia: 1909 – 1910 ti da Rubino per le eleganti sale interne fulcro una figura femminile ignuda della Confetteria Baratti & Milano, modellata con brio e sensibilità per gli ristrutturate su progetto di Giulio Casanova fra il 1909 effetti chiaroscurali nonostante il rilievo a stiacciato. e l’inizio del 1911 (vedi cat. n. 9). Due abbozzi a matita riconducibili all’ideazione di queI due bassorilievi, che raffigurano prosperose figure ste immagini muliebri sono attualmente conservati in femminili e vivaci puttini fra serti di fiori e grappoli collezione privata torinese.1 Di uno dei medaglioni è stato rintracciato anche il d’uva, furono concepiti per essere racchiusi in cornicalco; due repliche in marmo di eguali dimensioni si ci circolari finemente intagliate e dorate come la trovano presso la sede dell’Unione Industriale di Tomaggior parte delle preziose decorazioni lignee e a rino. stucco disegnate da Casanova per i locali adattati a I disegni sono riprodotti da Juri Molinaroli, Edoardo Rubino, tesi di Laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002, pp. 167 e 211. 1 11 - Bozzetto di testa femminile 126 Materiale: gesso Il viso delicato e carico di sottile sensuagesso rimane un po’ indefinito. L’opera Misure: cm. 53,5 x 51,4 x 21 lità, con le palpebre chiuse in un sonno ha del resto l’aspetto – e il fascino – delCronologia: 1911 circa che probabilmente è quello della Morte, l’abbozzo e non è da escludere che l’arpresenta una spiccata somiglianza con il tista stesso abbia formato il calco diretvolto della figura distesa di Amalia Dainesi, nella tamente sul modello plasmato in creta. tomba Porcheddu al Cimitero Monumentale di Torino. La freschissima superficie del gesso conserva, sopratAnche in quest’opera di Rubino, portata a termine nel tutto nella cascata dei capelli che incorniciano il viso 1912, compare il motivo di squisito gusto liberty delle senza alcuna pesantezza descrittiva, tutta la vibrante rose sparse tra i capelli della defunta, che nel nostro qualità coloristica del modellato. 12 - Rilievo con il simbolo della nazione Argentina (Monumento Mitre) 128 Materiale: gesso La presenza della placca decorativa qui È il modello originale per i due rilievi Misure: cm. 115,5 x 139 x 29 in esame fra i gessi provenienti dallo bronzei inseriti nel fregio decorativo Cronologia: continuo che orna il basamento del studio dello scultore conferma il diretto 1908 circa ante 1927 Monumento al Generale Mitre a Buenos apporto rubiniano alla realizzazione anche del fregio che corre tutt’intorno Aires, realizzato da Rubino in collaboraalla parte superiore della base. Il rilievo ne costituisce zione con lo scultore Davide Calandra. Il concorso internazionale per assegnare l’esecuzione l’elemento principale ed è riprodotto simmetricamente sui due lati maggiori. dell’opera si chiuse nel 1907 con la vittoria del progetAl centro, entro un campo ovale, è rappresentato l’emto di Calandra e Rubino. blema nazionale dell’Argentina: due mani che si strinNel luglio 1908 i due artisti si recarono a Buenos Aires gono, associate al berretto frigio e all’immagine del sole per prendere accordi relativi all’esecuzione del monuradiante e antropomorfo. Ai lati di questo sono raffigumento ed è probabile che in questa fase fossero precirate una spada con la lama rivolta verso il basso ed una sati gli aspetti riguardanti le parti decorative. Quello fiaccola – simboli tradizionali di vittoria, di libertà e che è certo è che per soddisfare le richieste del verità – legate a fronde di quercia che dovrebbero indiComitato Mitre l’opera diventò più imponente, elaboracare concordia o forza. In basso si vedono altri rami di ta ed impegnativa rispetto al primo bozzetto presentato quercia dal robusto rilievo e un corposo festone di frutdagli artisti. ti, probabile allusione al lavoro fecondo. L’otto settembre 1915 Calandra morì, lasciando a L’opera finita presenta, rispetto al modello, una Rubino il compito di portare a termine sia il variante nella forma della due tabelle laterali incorniMonumento Mitre, sia il Monumento a Umberto I per la ciate da elementi vegetali. La presenza sulla superficittà di Roma (cat. n. 14). cie del gesso dei grossi chiodi per la “messa a punti”, La statua equestre di Mitre, realizzata da Calandra e che non avrebbero motivo di essere in un’opera esclufusa in bronzo, si erge su un alto basamento di granito sivamente destinata alla fusione in bronzo, fa pensare attorniato da una serie di simbolici gruppi marmorei, ad un riuso del modello. opera di Rubino, alludenti alle virtù del personaggio. 13 - La Seminatrice (particolare del monumento a Edmondo De Amicis) 130 Materiale: gesso Nel 1909 Rubino fu incaricato dal da Rubino con «commozione d’amico e Misure: cm. 80 x 115,5 x 61 Comune di Torino di realizzare il monudevozione d’ammiratore».2 Cronologia: 1911 mento commemorativo ad Edmondo De L’influenza di esperienze figurative franAmicis (Oneglia 1846 – Bordighera cesi sulla produzione plastica di Rubino 1908) destinato ad essere collocato nei giardini di piazè stata richiamata in anni più recenti da Walter za Carlo Felice, dove verrà inaugurato il 21 ottobre 1923. Canavesio3 e – in questo catalogo – da Sandra BerreIl monumento, realizzato in marmo bianco, si compone sford, che indica nell’opera di Jean-François Millet un di due distinti elementi: la statua della Seminatrice, modello di riferimento per la figura allegorica del poggiante su un alto piedestallo ornato sulla fronte da Monumento a De Amicis, segnalando anche la forte un medaglione scolpito con il ritratto di De Amicis, e affinità fra la statua rubiniana e la contadina-madre del l’esedra che le fa da sfondo, interamente decorata ad Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. altorilievo da una serie di figure fanciullesche, ispirate Rubino realizzò una riduzione in argento della statua4 e ne ripropose l’immagine nella medaglia commemoratial popolarissimo libro Cuore e simboleggianti i valori va coniata nel 1927 per il primo centenario della Cassa familiari e civili che lo scrittore voleva trasmettere alle di Risparmio di Torino (una riproduzione fotografica future generazioni, ovvero l’Amore materno, l’Amicizia, della Seminatrice venne scelta per illustrare il calendala Carità, il Lavoro e l’Amor di Patria. rio pubblicitario della Cassa per l’anno 1927). Già nei primi mesi del 1910 Rubino aveva approntato il Il gesso esposto è un calco parziale della statua, tratto bozzetto complessivo dell’opera attualmente conservato dal modello originale e ampiamente ritoccato dall’artinelle collezioni d’arte della Provincia di Torino. Nel sta. Tracce consistenti di lavorazione “a secco” si marzo 1911 anche il modello in gesso della Seminatrice riscontrano del resto sulla superficie di molti gessi proera terminato, ed Emilio Ferrettini poteva pubblicarne venienti dallo studio di Rubino. Una conferma docula fotografia sulla “Gazzetta del Popolo”, con parole di mentaria dell’abitudine a intervenire sui modelli prima apprezzamento per la figura muliebre «piena di serenità di passare alla trasposizione in marmo ci viene da una e dal volto soffuso di classica bellezza» intenta a spargelettera in cui lo scultore, riferendosi ad una delle opere re fra i giovani «quella semente delle buone parole che che intende presentare alla Biennale di Venezia nel darà raccolto di buone opere».1 1907 (la Nuda), afferma di voler «riprendere il calco Giuseppina Jona, in un articolo del 1928 sulla rivista che ho tenuto e portarlo un po’ più a finimento con “Emporium”, ricordava senza troppo entusiasmo la statua alcune modificazioni…» prima di iniziarne la riprodudella Seminatrice, individuandovi una «reminescenza di zione in marmo (lettera di Edoardo Rubino a Spirito scoltura francese» e giudicandola inferiore per riuscita Luciano, 14 aprile 1907, Collezione privata, Torino). alla «vibrante e delicata effigie di De Amicis» modellata Emilio Ferrettini, Nel terzo anniversario della morte di De Amicis, in “Gazzetta del Popolo”, 11/3 1911, p. 3. 1 2 Giuseppina Jona, Artisti contemporanei: Edoardo Rubino, in “Emporium”, n. 398, febbraio 1928, p. 72. 3 Walter Canavesio, Edoardo Rubino e la Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone, La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze di arte a Cuneo, Agami, 1998, p. 152. Edoardo Rubino, tesi di laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e filosofia, riprodotta da Juri Molinaroli, a. a. 2001-2002. 4 14 - “Il Valore” (bozzetto per il Monumento a Umberto I) 132 Materiale: gesso scala al vero del gruppo equestre. CaÈ il bozzetto originale per uno dei due Misure: cm. 34 x 38,5 x 8 landra, come riferisce G. Tonolli, «crearilievi istoriati realizzati in marmo barCronologia: diglio inseriti nel basamento del Monuto il bozzetto, aveva modellata anche nei post 1915 - ante 1926 mento a Umberto I a Roma. particolari la base del monumento e la figura del Dolore; mentre i bassorilievi e L’imponente monumento fu commissiola parte statuaria più temibile, costituita dal sovrano a nato a Davide Calandra, ma ad eseguirlo quasi interamente fu il solo Rubino, incaricato nel 1915 dal re cavallo, erano ricordati in pochi e fuggevoli tratti».1 I due bassorilievi destinati ad ornare il basamento doveVittorio Emanuele III di portare a termine l’opera rimavano rappresentare le virtù sovrane del “Valore” e della sta incompiuta in seguito alla morte di Calandra. “Pietà regale”. È presumibile che Rubino abbia All’epoca Rubino attendeva al completamento di un’alapprontato i relativi bozzetti non molto tempo dopo aver tra opera grandiosa opera celebrativa concepita e iniziaricevuto l’incarico. ta in collaborazione con Calandra, il Monumento a Quello esposto, identificabile con il “Valore”, presenta Bartolomé Mitre per la città di Buenos Aires che lo una scena molto animata che ha come fulcro l’immagiavrebbe tenuto impegnato fino al 1927. Per il monune del cavaliere in armatura completa di cimiero, che mento al “Re buono” furono necessari nove anni di con un colpo di spada atterra il nemico. lavoro prima che l’opera venisse inaugurata, il 14 marzo Sulla superficie del gesso, freschissima e vibrante, 1926, nei Giardini di Villa Borghese. Esiste una fotosono visibili impronte lasciate dall’artista e tracce di grafia, non datata ma riferibile ad una fase abbastanza interventi a secco, oltre ai “capi punti” metallici che avanzata del lavoro, in cui Rubino è ritratto all’interno attestano l’ingrandimento del bozzetto. dello studio, intento a rifinire il modello in gesso in Giulio Cesare Tonolli, Il Monumento ad Umberto I a Villa Borghese, in “Gazzetta del Popolo”, 6/8/1925. Per la realizzazione dell’opera cfr. Cristina Maiocchi, Roma: il monumento a Umberto I a Villa Borghese, in Davide Calandra. L’opera, la Gipsoteca, a cura di R. Belmondo e M. Lamberti, Savigliano 2004, pp. 141-149. 1 15 - Bassorilievo con figura femminile e putti (Confetteria Romana-Bass) 134 Materiale: gesso sola grande tabella bronzea, animata da È il modello originale per la parte supeMisure: cm. 107 x 75,5 x 26 un forte senso plastico, con la raffigurariore del rilievo bronzeo eseguito da RuCronologia: 1918 -1920 bino per la facciata esterna della Conzione di una florida figura femminile fetteria Romana-Bass, a Torino. Lo storirivestita da un leggero panneggio increspato che lascia scoperto uno dei seni. La donna è co negozio, oggi non più esistente, era situato sotto i affiancata da due puttini sorridenti che si librano fra portici di piazza Castello, non lontano dai locali della Confetteria Baratti & Milano ristrutturati fra il 1909 e una cascata di pampini e grappoli d’uva. Un terzo bimbo è rappresentato in basso accanto a un canestro il 1911 su progetto di Giulio Casanova (cat. n. 9 e 10). colmo di frutti. La composizione dell’opera, ora non più Sull’esempio della concorrenza (Baratti e il vicino Bar in loco (ma conservata in collezione privata torinese) è Mulassano), nel 1918 i nuovi proprietari dell’antica documentata da foto d’archivio. bottega del confetturiere Bass, fondata un secolo prima Il gesso in esame è il modello originale per la parte supe(nel 1810), decisero di rimodernare le due sale interne riore del rilievo, quella più mossa e ricca di giochi di e la facciata del negozio, affidando a Casanova la proluce e di vivaci effetti chiaroscurali prodotti dalla congettazione della nuova decorazione architettonica. I trapposizione fra elementi modellati a delicato bassorilavori si conclusero nei primi mesi del 1920. lievo ed altri che emergono con vigore dal piano d’appogCome nella Confetteria Baratti, l’ornamentazione delgio, fino a sfociare nel tutto tondo (il braccio sinistro l’esterno prevedeva la presenza di inserti scultorei fra della donna e il piedino del bimbo in alto sulla destra). le vetrine, ma in quest’occasione Rubino realizzò una 16 - Coppia di figure maschili 136 Materiale: gesso Questi due gessi originali sono accomutarsi degli elementi di un fregio, forse Misure: cm. 40,7 x 104 x 23 ideato per un esercizio commerciale conati dallo stesso soggetto: una muscolo(la figura rivolta a destra); sa figura maschile seminuda che sorregme gli altorilievi per le devantures delle cm. 34 x 104 x 18 ge sulla spalla destra un canestro o un confetterie Baratti & Milano e Romana(la figura rivolta a sinistra) vaso. I rilievi presentano una leggera Bass, realizzati nel secondo decennio Cronologia: del Novecento. Le opere in esame predifferenza nelle dimensioni (larghezza 1910 - 1920 circa della base ed aggetto) e alcune significasentano del resto significative analogie di stile con i rilievi modellati da Rubino nell’immediative varianti nella postura delle figure e nei dettagli icoto primo dopoguerra per la facciata della nuova nografici (la presenza di elementi di vestiario quali il Palazzina della Società Promotrice delle Belle Arti, manto o il copricapo, il motivo floreale abbozzato sulla superficie di fondo). inaugurata nel 1919. L’impostazione decorativa di entrambi, ancora legata a L’assenza di punti metallici sulla superficie fa pensare che i modelli non siano stati ingranditi o realizzati in cadenze di tardo gusto liberty, ma con una plasticità delle figure tipica di Rubino, suggerisce che possa tratmarmo. 17 - Testa della Vittoria (particolare della statua in memoria dei Caduti nella prima guerra mondiale) 138 Materiale: gesso E’ il modello originale per la testa della L’opera venne esposta alla Biennale di Misure: cm. 27x28x27 statua bronzea della Vittoria destinata a Venezia del 1928 in una collocazione Cronologia: commemorare i dipendenti postelegrafoprivilegiata e curiosamente simile a 1918 - ante 1928 nici caduti nella guerra del 1915-18. quella attuale: nella rotonda dopo il Alcuni schizzi a matita tracciati rapidavestibolo d’ingresso al Padiglione prinmente su un foglio di carta a quadretti fissano alcune cipale dell’esposizione. Nel catalogo della mostra è 1 possibili soluzioni per la statua. Rubino opterà per la citata come «Vittoria (bronzo)» e riprodotta alla tavola rappresentazione di una figura stante in atto di impun. 2. La presenza della statua all’esposizione consente gnare un grande scudo rotondo recante i nomi dei cadudi stabilire un sicuro termine ante quem per la datazioti e una corta spada con la lama poggiata sull’avamne del gesso in esame. braccio destro in segno di pace. In collezione privata torinese si conserva una testa di La statua, alquanto più solida e austera della precedendonna in gesso dorato alta circa 50 cm. te Vittoria Alata realizzata per l’Altare della Patria a descritta da Carlotta Margarone come una «splendida Roma, si erge su un alto parallelepipedo di marmo opera della quale è difficile dare una collocazione temverde al centro dell’atrio del Palazzo delle Poste di via porale…»2 e riferita ad un busto di soggetto ignoto, ma Alfieri, a Torino, la cui decorazione plastica era stata a mio avviso in rapporto con la Vittoria del Palazzo realizzata entro il 1911 dallo stesso Rubino. delle Poste. 1 Torino, collezione privata. Il foglio (cm. 280 x 215) è riprodotto in Juri Molinaroli, Edoardo Rubino, tesi di Laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002, p. 213. 2 Carlotta Margarone, Un artista ritrovato: Edoardo Rubino scultore (18711954), tesi di laurea, Università di Torino, a. a. 2000-2001 18 - Ritratto di signora 140 Materiale: gesso L’opera raffigura una giovane donna sta sul medesimo collo sottile e la deliMisure: cm. 51 x 50,4 x 28 vestita con un elegante abito dall’ampio cata curva delle spalle appare identica. Cronologia: 1920 circa décolleté ingentilito da un mazzetto di Simili sono anche l’ossatura del volto, il fiori appuntato sopra il seno sinistro. I sorriso gentile e lo sguardo assorto. dettagli dell’abbigliamento, resi in modo sintetico, non L’effigiata dovrebbe essere la moglie di Oreste distolgono l’attenzione dall’espressività del viso e sottoMattirolo (1856-1947), medico e naturalista, professolineano anzi il fascino garbato e distinto della figura re di botanica nelle Università di Bologna, Firenze e femminile. Torino, studioso della flora pedemontana e autore di Rubino lavorò a numerosi ritratti destinati ad una comimportanti lavori di micologia nonché del prezioso mittenza privata e l’identificazione degli effigiati preregesto delle opere di Davide Calandra accluso alla senta spesso, come in questo caso, non poche difficoltà. monografia sullo scultore pubblicata da Corrado Ricci Il raffronto con le due diverse redazioni del Ritratto nel 1916. della signora Mattirolo eseguite da Rubino e conservaI rapporti amicali di Rubino con la famiglia Mattirolo, 1 te presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino evidenancora in attesa d’essere ricostruiti, sono attestati oltre zia forti somiglianze con il busto in esame. La donna che dai ritratti noti, da una lettera indirizzata a Spirito presenta un’acconciatura diversa, più composta che nel Luciano il 30 gennaio 1907, in cui l’artista si rammarinostro ritratto (in cui la fronte è ombreggiata da una ca per la morte dell’avvocato Luigi Mattirolo, giurista ciocca della capigliatura corta e mossa); la leggera ruga insigne ed ex rettore dell’Università di Torino, ricordaverticale che solca la fronte e le piccole rughe d’espresto come «un grande amico e un padre». Rubino trascorsione agli angoli della bocca stanno ad indicare un’età rerà parte dell’estate successiva ospite in casa più matura, ma la testa dal volume ben definito s’inneMattirolo a Groscavallo. Una delle opere (inv. S/232) è realizzata in gesso; la versione definitiva è in marmo (inv. S/231). Entrambe sono pervenute al museo nel 1955 per legato testamentario dell’autore. 1 19 - Ritratto di signora (Ritratto della signora Tina Nasi Agnelli) 142 Materiale: gesso ne verso il 1920 appare plausibile L’opera è firmata in basso a sinistra «Ed. Misure: cm. 36,4 x 49,8 x 24,6 anche dal punto di vista stilistico. Rubino» ed è contraddistinta da un Cronologia: 1920 circa Proprio nella prima metà degli anni taglio ad erma di ispirazione classica Venti l’artista si dedica intensamente abbastanza inconsueto per la ritrattistica alla ritrattistica, ottenendo lusinghieri riscontri; nel rubiniana, in genere orientata verso soluzioni formali 1924 consegue la medaglia d’oro alla Mostra del ritratmeno convenzionali e “bloccate”. to femminile contemporaneo, tenuta presso la Villa Sulla superficie del gesso si notano, anche se abilmenReale di Monza.2 te dissimulate, le creste che si formano tra i tasselli Questo busto dai volumi torniti conferma le sue indubdurante l’operazione di formatura; si tratta dunque di bie qualità di ritrattista, assai apprezzate dalla borgheun calco, forse realizzato dall’artista stesso. sia del tempo ed elogiate ancora da Marziano Bernardi Il busto raffigura una donna dal volto sereno con le labnel partecipe ricordo dell’artista pubblicato sul bra piene e ben disegnate distese in un sorriso garbato “Bollettino della Società Promotrice delle Belle Arti”: e folti capelli ondulati che ricadono morbidamente «Edoardo Rubino aveva sempre concepito l’arte – la sulla fronte. L’abito aperto sul petto in una sobria scolsua arte, fatta di pesi e di volumi, di concretezza e di latura è appena accennato per non distogliere l’attensolidità – anche con la probità dell’esperto coscienziozione dall’espressività della modella, mentre il viso è so artigiano, che ama il lavoro bene eseguito, che non ben caratterizzato. ammette incertezze, trascuratezze, o, peggio, espedienL’effigiata è con ogni probabilità la signora Tina Nasi ti da furbo […] Chi voleva un ritratto schietto, formalAgnelli, come suggerisce il confronto con un intenso mente impeccabile, psicologicamente rivelatore, saperitratto pittorico di collezione privata eseguito nel 1919 va che, fra i pochi scultori italiani ancora adatti a simida Giacomo Grosso.1 le impresa non di orgoglio individualistico, ma di abneLe stringenti analogie nella fisionomia e nell’accongazione e quasi d’umiltà verso l’arte, doveva rivolgersi ciatura inducono a pensare che l’opera di Rubino sia ad Edoardo Rubino».3 stata realizzata a poca distanza di tempo; una datazio- Olio su tela, ovale, cm 56 x 48, collezione privata. Il dipinto è stato pubblicato in Giacomo Grosso. Il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra di Torino a cura di G. L. Marini, Milano 1990 (cat. n. 48). 1 Si veda la testimonianza di Ernesto Quadrone, Nello studio di Edoardo Rubino, in “Gazzetta del Popolo” 15/3/1923: «Edoardo Rubino – ce lo ha detto lui – lavora dieci ore al giorno e in letizia […]»; interrogato sulle opere che intende inviare alla Quadriennale, accenna ai ritratti fatti negli «ultimi tempi ». 2 Marziano Bernardi, Edoardo Rubino, in “Bollettino S.P.A.B.A”, nuova serie, a. 5-6, 1952-53 (ma 1954), pp. 229 - 231. 3 20 - Testa femminile ideale 144 Materiale: gesso La testa è probabilmente pertinente alla Il “Messaggero di Novi” del 17 novemMisure: cm. 30,4 x 38 x 35 bre 1928 riportava un dettagliato resofigura della Gloria nel monumento ai Cronologia: 1924 circa Caduti della Grande Guerra di Novi conto sulla cerimonia d’inaugurazione e Ligure, pur presentando piccole varianti forniva un ragguaglio sul concetto ispinell’acconciatura rispetto all’opera finita. ratore dell’opera: «La Gloria che sorge e si stacca dall’Ara del Sacrificio nell’atto di prendere dal Soldato Una fisionomia assai simile caratterizza peraltro la statua bronzea della Vittoria Alata realizzata da Rubino Morente la Fiamma della vita sacrificata alla Patria il simbolo puro della Fede nel suo più alto destino, porper l’Altare della Patria a Roma e poi replicata per il tandola con gesto trionfale verso il mondo».1 monumento ai Caduti eretto nel 1922 al centro della Una bella foto di Giancarlo Dall’Armi con la maestosa piazza Liberazione di Carmagnola. figura della Gloria che sovrasta il caduto riverso fu Rubino ricevette l’incarico per l’esecuzione del monuriprodotta sul numero unico della rivista “Italia Nova” mento di Novi Ligure nel 1923; il bozzetto in gesso era interamente dedicato al monumento.2 pronto già nel 1924 e l’opera, consistente in un gruppo L’opera fu realizzata gratuitamente da Rubino, che il 28 di due figure in bronzo, fu inaugurata con grandi cerisettembre 1930 veniva insignito della cittadinanza onomonie l’11 novembre 1928, nel decennale della raria di Novi. Significativa è la motivazione riportata Vittoria. nella deliberazione firmata dal Podestà, in cui il monumento viene citato come «una vera gioia di arte, oggetto di unanime appassionata ammirazione» nonché del «vivissimo plauso e compiacimento di S.A.R. il Duca di Pistoia».3 A questa lusinghiera accoglienza non corrispose negli anni successivi altrettanta fortuna critica, sorte del resto condivisa da gran parte dei numerosi monumenti ai caduti eretti nel primo dopoguerra.4 1 “Messaggero di Novi”, anno 63°, 17 novembre 1928, n. 46. 2 “Italia Nova”, numero unico, 11 novembre 1928. Archivio Storico del Comune di Novi Ligure, Deliberazioni 1930, n. 292. Sono grata a Dimitri Brunetti per la segnalazione del materiale archivistico e bibliografico. 3 Unica eccezione lo studio di Laura Rinaldi, Il Monumento ai Caduti della Grande Guerra dello scultore Edoardo Rubino, in “Novinostra”, anno XXIX, n. 4, dicembre 1989, pp. 84-90. Sulla sfortuna critica dei monumenti ai caduti cfr. Walter Canavesio, Giovanni Riva. Uno scultore nella «più “monumentata” città d’Italia», in Torino 1863-1963. Architettura, arte, urbanistica, a cura di B. Signorelli e P. Uscello, Torino 2002, p. 161. 4 21 - Bozzetto per il monumento a José María Cabal 146 Materiale: gesso Il bozzetto raffigura il generale José gesso fresco gettato sopra l’armatura Misure: cm. 28 x 85 x 31 María Cabal (1769 - 1816) che ai primi interna; estese colature di materiale si Cronologia: 1924 dell’Ottocento combatté per l’indipennotano soprattutto nella parte inferiore denza della colonia sudamericana della dell’opera, mentre su tutta la superficie Nueva Granada dalla Spagna. Nel 1909 Tulio Enrique (che non ha mai sofferto riprese o puliture prima dell’atTascon pubblicava a Bogotà un’accurata biografia del tuale intervento conservativo) sono visibili le impronte patriota colombiano, effigiato da Rubino alcuni anni più lasciate dalle dita dello scultore e i grossi chiodi metaltardi, a figura intera, in atteggiamento saldo e risoluto lici utilizzati per l’ingrandimento. Da questo gesso con indosso l’uniforme militare e un lungo mantello. Le venne tratto il modello a grandezza naturale utilizzato caratteristiche del modellato inducono a pensare che per realizzare il monumento lapideo eretto nel 1924 Rubino abbia plasmato il bozzetto direttamente nel nella città di Buga, in Colombia. 22 - Targa ad Umberto di Savoia Principe di Piemonte 148 Materiale: gesso corso di allievo ufficiale di complemento Come si evince dall’iscrizione in caratMisure: cm. 74 x 132 x 10 per l’arma di fanteria. L’anno successivo teri capitali posta sotto il ritratto a medaCronologia: 1926 glione il gesso dovette servire da modelentra a far parte del reggimento Granatieri lo per la targa bronzea destinata a comdi Sardegna e prende servizio a Roma. Nel 1925 è assegnato con il grado di tenente al 91° memorare l’ingresso del principe Umberto di Savoia Reggimento fanteria della Brigata “Basilicata” e si trasfenel 91° Reggimento Fanteria della Brigata “Basilicata” il cui stemma compare in basso nel rilievo, al centro risce a Torino, dove rimane fino alla vigilia della guerra. Tra il 1944 e il 1946 ricopre la carica di Luogotenente del della fascia ornamentale a fogliami con le insegne delle Regno e dal 9 maggio al 2 giugno 1946 sarà Re d’Italia, di città di Matera, Potenza, Melfi e Lagonegro: Sardegna, di Cipro e Gerusalemme ed Armenia. Dopo la «AD INSIGNE VANTO – DELLA BRIGATA/ CUI LA proclamazione della Repubblica si reca in esilio in FORTE BASILICATA DA NOME – QUESTO BRONPortogallo. Muore a Ginevra il 18 marzo 1983. ZO/ RAMMENTA – CHE IL 15 SETTEMBRE 1925/ Il rilievo di Rubino, datato 14 luglio 1926, traduce con UMBERTO DI SAVOIA PRINCIPE DI PIEMONTE/ fedeltà e finezza un ritratto fotografico in cui il giovane COMPIENDO IL VENTUNESIMO ANNO DI ETA’/ principe compare di profilo con l’alta uniforme fregiata VENNE A PROSEGUIRE FERVENTEMENTE NEL/ di decorazioni militari tra cui il Gran collare 91° REGGIMENTO DI FANTERIA LA VITA DELLA/ dell’Annunziata conferitogli dal re nel 1922. L’effige MILIZIA – AUGUSTO ANIMATORE DI TRADIZIOvenne elaborata dall’artista anche in versione ridotta: in NI/ GLORIOSE – ESEMPIO PER OGNI TEMPO/ una medaglia coniata entro il 19271, e nella medaglia DELLE GAGLIARDE FERME VIRTU’ – DEVOTE/ realizzata nel 1931 per le nozze di Umberto e Maria José. AL RE – ALL’ITALIA». Un ritratto di «S.A.R. il Principe di Piemonte» figurava Umberto nasce a Racconigi il 15 settembre 1904, primo – unica opera di Rubino – alla prima Esposizione sindafiglio maschio del re Vittorio Emanuele III di Savoia e di cale fascista di Torino (87° mostra della Società Elena del Montenegro e pertanto erede al trono d’Italia Promotrice delle Belle Arti), tenutasi nel 1929 e posta con il titolo di principe di Piemonte. Studia presso il sotto l’alto patronato del principe Umberto. Collegio Militare di Roma e nell’autunno 1921 inizia il Pubblicata da Giuseppe Deabate, Edoardo Rubino e il monumento al generale Mitre, in Le vie d’Italia e dell’America Latina, 1927, p. 779. 1 23 - Rilievo con due Angeli che reggono un candelabro 150 Materiale: gesso Il soggetto è ripreso varie volte da Madonna degli Angeli a Cuneo (1947), e Misure: cm.72,5 x125,5 x 22,5 le due statue delicate e solenni ai lati Rubino nell’arco della sua lunga attività Cronologia: e ricorre forse con maggiore frequenza dell’altare del beato Cafasso nella chie1920 1940 circa nel quarto e quinto decennio del Novesa torinese della Consolata. Tutte queste cento, quando l’artista attende a diverse opere appaiono accomunate dalla bellezza gentile ed aristocratica che anima le immagini dei commissioni di carattere religioso. Possiamo ricordare ed assumere quali termini di confronto per il gesso in due angeli del nostro rilievo. Anche in questo caso Rubino mette in pratica alcuni accorgimenti per evitaesame, oltre ai rilievi eseguiti all’inizio degli anni re di incorrere nella ripetitività: gli angeli, affiancati e Trenta per la Stazione ferroviaria vaticana (La Navicella volti verso destra, sono simili nell’aspetto, nell’abbidi San Pietro e l’episodio biblico del profeta Elia rapito sul carro di fuoco), le figure di angeli modellate per gliamento e nei gesti, ma la monotonia derivante dall’il’altare maggiore della Chiesa di S. Edoardo a Sèterazione di una stessa figura è rotta dalla diversa posizione delle dita sul fusto del candelabro e dalle sottili strieres (1936), quelle del bassorilievo sulla tomba di Duccio Galimberti nella cappella di famiglia alla variazioni nel disegno delle pieghe di manti e vesti. 24 - Figura femminile giacente della tomba Chiesa Materiale: gesso In entrambe queste opere la rappreÈ il modello originale in scala al vero Misure: cm. 187 x 46,5 x 61 sentazione del personaggio è però stretper la statua del monumento sepolcraCronologia: 1930 le in memoria di Giuseppina Chiesa, tamente legata al tema del compianto, realizzato da Rubino in collaborazione del tutto assente nel monumento Chiesa, contraddistinto da un’intensa ed efficace semplificon l’architetto A. Mazzucotelli, nel Cimitero Monucazione formale. Il corpo disteso della donna è copermentale di Milano (Riparto B - Giardino 5). Il progetto originale per il monumento, datato 2 ottoto da un lenzuolo funebre a grandi pieghe che lascia scoperte solo spalle e braccia. Nella mano destra è bre 1930, mostra nei dettagli l’austero impianto composata una lucerna (frammentata nel gesso), mentre positivo dell’opera finita, consistente in una statua la sinistra è abbandonata sul grembo. Il capo è reclifemminile in marmo bianco di Carrara distesa su un nato sul guanciale e i delicati lineamenti del volto sono sarcofago squadrato che sovrasta un basso basamenresi senza alcuna sorta di compiacimento descrittivo. to di diorite nera. Particolarmente estesi ed insistiti sono i ritocchi eseIl motivo della figura femminile abbandonata sul guiti con raspa e martellina dentata sul gesso secco, sepolcro nel sonno della Morte, derivato dalla tradinonostante la formatura sia di un’ottima qualità. È zione medioevale e rinascimentale, era stato trattato evidente che non si tratta di un intervento volto a corprecedentemente da Rubino nella tomba Porcheddu reggere i difetti di un gesso un po’ “spento”, ma di un al Cimitero Monumentale di Torino (1912) e sarà poi modo per variare la tessitura delle superfici ed accreripreso dall’artista nella tomba di Alice Schanzer per scere l’intensità dei contrasti chiaroscurali. la cappella Galimberti a Cuneo (1938-40). 25 - Testa maschile ideale 154 Materiale: gesso memoria delle opere già create. Questa massiccia testa dai tratti pronunMisure: cm. 40 x 40,5 x 32,5 L’esecuzione del grandioso monumento al ciati, segnata nella chioma dalle vigoroCronologia: se ombreggiature prodotte dalla martelCarabiniere, inaugurato nel 1933, venne 1928 circa 1933 lina dentata, è con ogni probabilità peraffidata a Rubino nel 1925. La realizzazione dell’opera cade dunque, almeno tinente ad una delle statue virili che nella sua fase iniziale, in un momento di intensissima fanno corona alla maestosa figura della Giustizia nel gruppo bronzeo sulla sommità del Monumento al attività dell’artista, intento a portare a termine l’impegnativo Monumento al Generale Mitre per Buenos Aires Carabiniere Reale a Torino. (1927), ma soprattutto assorbito nell’impresa del colossaGli zigomi pronunciati, la mascella robusta, i muscoli le Faro della Vittoria, eretto nel 1928 sul Colle della possenti ed in tensione del collo e la capigliatura sono Maddalena a Torino. pressoché identici nella figura che imbraccia lo scudo Alcuni bozzetti in gesso per il bassorilievo dell’esedra sulla sinistra del gruppo del Giuramento. Il nostro che forma la base del monumento al Carabiniere sono gesso ne costituisce verosimilmente il modello originapervenuti per legato dell’autore alla Galleria d’Arte le. Tuttavia, non possiamo dimenticare che Rubino era Moderna e Contemporanea di Torino; i modelli sono solito utilizzare più volte un modello precedentemente invece conservati al Museo Storico dell’Arma dei approntato, apportandovi le varianti richieste dalla cirCarabinieri a Roma. Una copia a grandezza naturale costanza per cui l’opera veniva eseguita. Di fatto, i della figura del Carabiniere Reale si trova presso la gessi conservati nell’atelier costituirono per lo scultore Caserma “Cernaia” di Torino. un patrimonio di lavoro insostituibile, oltre a serbare la 26 - Testa femminile 156 Materiale: gesso La ricerca di essenzialità, la compatcon opere eseguite a cavallo tra quarto Misure: cm. 23,5 x 28,5 x 28,5 tezza volumetrica e il sensibile modele quinto decennio del Novecento, come Cronologia: lato che contraddistinguono questa teLa Speranza e il Ritratto di Eva, espo1935 -1940 circa sta – probabilmente frammento di una ste nella personale dell’artista alla statua – sono caratteristici della produBiennale di Venezia del 1942, cui zione matura di Rubino. I raffronti più pertinenti sono rimanda anche la fisionomia della modella. 27 - L’Offerta (Donna con cesto di fiori) Materiale: gesso busto nel modello originale della staFra tutte le opere descritte in questa Misure: cm. 50 x 175 x 80 tua, sulla cui superficie si notano scheda esiste uno stretto rapporto. Il (la statua); peraltro i segni di commessura dei comune denominatore è una statua cm. 23,5 x 25,4 x 22,5 vari pezzi, formati separatamente, e femminile che non ha mai goduto di (la testa); alcune leggere incisioni (come il taglio attenzione critica, ma di cui si concm. 47,3 x 43,5 x 37 obliquo sul petto) dovute ad una serva un esemplare in gesso nell’atrio (il busto) disattenzione del formatore. Sono del Centro di produzione RAI di Cronologia: presenti inoltre tracce evidenti di un Torino, in via Verdi 14. Negli archivi 1930 circa - 1941 intervento dell’artista sul gesso RAI non è stato ritrovato alcun docuormai secco, graffiato e scolpito fino mento riguardante l’acquisto della ad ottenere l’effetto desiderato. statua, nota come L’Offerta o Donna con La presenza di una stuccatura con gesso frecesto di fiori.1 sco all’altezza del collo lascia credere che la Dallo studio di Rubino provengono sia il testa ora applicata alla statua non sia quella gesso preparatorio in scala al vero della originale. Fortunatamente, anche questa statua, sia il calco della medesima, oltre ci è pervenuta. Il modellato della testa al modello originale della testa e al ora conservata a parte è infatti tanto busto femminile con il manto annodafresco e vibrante da non lasciare to sul petto. Quest’ultimo è un calco dubbi sul fatto che sia questo il tratto dalla parte superiore della modello originale. La frattura nel Donna con cesto di fiori, ma con naso, occultata alla perfezione da una variante nell’acconciatura. un vecchio restauro, potrebbe Una netta linea di giunzione, abilessere stata il motivo della sostimente dissimulata, si riscontra tuzione della testa nella statua. proprio in corrispondenza del Il calco, ora privo degli avambracci, è stato ottenuto col procedimento “a tasselli” direttamente sul modello originale o sull’opera finita. Il termine ante quem per la datazione dell’opera è il 1941, anno in cui Rubino presenta una riproduzione in bronzo del busto (con l’acconciatura identica a quella della statua) alla XCIX mostra della Promotrice delle Belle Arti di Torino. Anche le caratteristiche stilistiche suggeriscono una datazione tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del successivo decennio, quando l’attività dell’artista ottiene pieno riconoscimento pub- blico con la mostra personale alla Biennale di Venezia (1942). Il busto presentato alla Promotrice è riprodotto nel catalogo dell’esposizione e in una foto a piena pagina sul numero di maggio 1941 della rivista mensile “Torino”, dove viene elogiata la «serena immagine di bellezza» creata dallo scultore.2 L’elevata capacità di sintesi formale e la sensibilità nel trattamento delle superfici che caratterizzano la produzione matura di Rubino sono del resto splendidamente esemplificate da questa solida e armoniosa figura di donna dai gesti misurati ed il volto illuminato da un enigmatico sorriso. 1 Sono grata ad Alessandra La Terra per questa informazione. L’opera fu acquistata nello stesso anno dall’Amministrazione provinciale del Piemonte al prezzo di 5.000 lire. Attualmente è conservata presso la sede della Provincia di Torino in Palazzo Dal Pozzo della Cisterna. Cfr. la scheda di Laura Facchin in M. Cassetti, B. Signorelli, Il Palazzo Dal Pozzo Della Cisterna nell’Isola dell’Assunta in Torino, Torino 2004, p. 170. 2 28 - Modello e testa di cavallo (dal gruppo L’energia domata) 162 Materiale: gesso Entrambi i gessi sono in rapporto con il mente poggiate sulla base, mentre gli Misure: cm. 119 x 127,5 x 57 monumentale gruppo scultoreo simbozoccoli anteriori, sollevati, fendono ner(il cavallo); leggiante L’Energia domata, realizzato vosamente l’aria. Un robusto sostegno cm. 135,5 x 117 x 61 da Rubino per la centrale idroelettrica metallico lo sorregge sotto il ventre. (la testa) di Glorenza, in Trentino. L’opera finita, Sulla parte anteriore della base, in basCronologia: 1940 circa - 1948 circa fusa in lega d’alluminio, si trova tuttora so, è riportata l’iscrizione «cm. 96 2 2». davanti alla centrale “Guido Donegani” e Il modello originale della testa, in scala al raffigura una possente figura maschile, eroicamente nuda, vero, è in rapporto con il cavallo a destra nel guppo. A in atto di trattenere una coppia di cavalli impennati. parte la mancanza della mascella e dell’orecchio sinistro, Il modellino a figura intera è in relazione con il cavalle condizioni di conservazione sono buone, e gli intervenlo alla sinistra dell’uomo. ti sul gesso, lavorato a secco con gli attrezzi da scultore, L’animale è raffigurato con le zampe posteriori saldarisultano perfettamente leggibili. 164 I lavori per la costruzione degli impianti idroelettrici sui laghi di Resia furono avviati dal Gruppo Montecatini nel 1939 e completati solo nell’autunno del 1948, dopo aver subito un rallentamento a causa della guerra. La centrale di Glorenza fu inaugurata il 28 agosto 1949. La realizzazione della scultura di Rubino dovrebbe quindi collocarsi entro questo lasso di tempo, come lascia intendere anche un gruppo di fotografie con annotazioni dell’artista risalenti con verosimiglianza al momento dell’inaugurazione.1 Verso la fine degli anni Trenta, Rubino ricevette dal Gruppo Montecatini la commissione di un’altra opera di grandi dimensioni destinata alla centrale “Claudio Castellani” di Ponte Gardena. Anche questa statua, conosciuta come Il genio del fascismo e distrutta negli anni Sessanta, venne realizzata in alluminio.2 L’elenco dei gessi rimasti nello studio di via Asti dopo la morte dello scultore registra la presenza di un «Modello (piccolo) per uno dei cavalli del lago di Resia» e segnala l’esistenza di altri «Due cavalli di Resia» a Villar Perosa, senza però specificarne le dimensioni.3 Nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino è conservato il modello in gesso di grandezza inferiore al vero (103 x 128 x 37 cm) per il cavallo di destra dell’Energia domata, identificato nelle schede di catalogo del museo come imprecisato «modello di cavallo impennato di una quadriglia» (inv. S/253). 1 Archivio eredi Rubino, Torino. L’opera rappresentava Mussolini a cavallo ed è riprodotta in alcune foto d’archivio, gentilmente segnalatemi da Paolo Pinamonti e Mauro Scienza, che ringrazio. Una fotografia è pubblicata in questo catalogo, a p. 19. 2 3 Archivio dei Musei Civici di Torino, Carte Amministrative Annuali 830, Donazioni-1954, Pratica Rubino. 166 Nota sul restauro delle opere Il restauro dei gessi è stato eseguito dal laboratorio di restauro stucchi e formatura artistica della “Scuola per Artigiani e Restauratori Maria Luisa Rossi” in Torino Le opere, sostanzialmente in buono stato di conservazione, sono state eseguite con diverse tecniche di formatura artistica: - a “forma persa” ricavate direttamente dal modello in creta o in plastilina creato dal maestro; - con getti ricavati da una “forma a tasselli” atta a riprodurre le opere sulla cui superficie sono evidenti i segni di divisione dei tasselli; - con “messa a punti”, tecnica per riprodurre le opere in diverse dimensioni. Su alcune sculture sono visibili molteplici punti di matita ed inserimenti di chiodi metallici, segni inequivocabili di una riproduzione in gesso o in marmo di uguali o pari dimensioni. Le opere recano segni di raspe romane, martelline, gradine per gesso, spatolate di materiale, ditate con impronte impresse sul gesso morbido dall’artista, testimonianze che evidenziano ripensamenti con interventi successivi alla formatura o alla messa a punti. Su alcuni pezzi sono evidenti tracce di materiali usati per la fusione in bronzo a cera persa come stuccature in sego, sapone e oli vegetali. Le sculture presentavano molteplici strati di polveri nere causate da particelle di idrocarburi; erano inoltre evidenti macchie grasse, oli e plastilina, macchie di polvere di mattoni e colature di cemento. Alcuni particolari erano parzialmente o totalmente staccati dal modello; in alcuni modelli erano leggibili crepe, causate da dilatazioni o danni meccanici; minime parti di modellato erano mancanti. Le armature in legno coese con tela juta e scagliola hanno necessitato di rinforzi e consolidamento. Le parti di armatura metallica erano ossidate. Le operazioni di restauro conservativo comprendono sostanzialmente i seguenti interventi: - Pulitura a secco con asporto delle polveri. - Verifica delle armature in legno e dei perni metallici. - Consolidamento delle strutture lignee con paraloid e permetar (trattamento per insetti xilofagi). - Innesto ulteriori strutture in legno ancorate alle opere con l’impiego di viti, tela juta e gesso. - Trattamento antiossidante dei perni metallici con inibitore di corrosione fertan. - Consolidamento con inserimento di primal nelle fessure con l’impiego di siringhe. - Ricostruzione sotto livello dei particolari mancanti con l’uso di scagliola. - Esecuzione di microstuccature con stucco reversibile polyfilla. - Asporto di macchie e polveri con l’impiego di acetone, acetilacetone, alcool puro, white spirit. - Le parti staccate sono state ricompattate con scagliola e perni in alluminio o ferro trattato con antiossidanti. - Asporto con bisturi e specilli di colature in cemento e gesso, precedentemente ammorbidite con microimpacchi. La pulitura risulta soddisfacente, in quanto lo stato polveroso non particolarmente aggressivo, è stato assorbito solo in parte dai modelli in gesso. 167 Maestranze nel laboratorio Luciano (foto archivio Luciano) Procedimenti tecnici e modalità operative nella scultura italiana tra Otto e Novecento RAFFAELE MONDAZZI Alla fine del XIX secolo la produzione della scultura raggiunse in Italia i vertici della raffinatezza tecnica, della specializzazione e della suddivisione del lavoro. Questo era ripartito tra l’artista, che aveva il compito di ideare e progettare l’opera ed uno stuolo di artigiani addetti esclusivamente all’esecuzione: formatori, fonditori, marmisti di ogni livello, sino agli stuccatori, doratori, bronzisti e mosaicisti che tanta (anonima) parte ebbero nella costruzione dell’aspetto monumentale delle città, dei vivi e dei morti, nell’Italia unificata. Alla fine del Rinascimento, con l’affermarsi delle figure carismatiche dei grandi Distinzione tra artisti che, come scrive Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, trattavano alla il ruolo progettuale e pari con papi, re ed imperatori, iniziò la diversificazione dei ruoli nel lavoro degli tecnico dello scultore artisti. Assurti finalmente al rango di intellettuali, godendo della collaborazione di stuoli di artigiani sempre più specializzati, oberati da incarichi colossali che costituivano l’immagine del potere committente, gli scultori si riservarono sempre più, e sempre più esclusivamente, il ruolo di progettisti. Questo processo, che culminò tra Otto e Novecento, prese a modello ciò che avevano compiuto i grandi architetti umanisti del Quattrocento quando avevano separato, con la riscoperta della classicità, il ruolo dell’intellettuale ideatore da quello del costruttore materiale dell’edificio, ruoli che per tutto il Medioevo erano rimasti strettamente intrecciati. Michelangelo, col suo furore creativo e l’ansia di liberare lo spirito dalla materia, poteva avere qualche difficoltà a cedere il maneggio degli scalpelli a pur abili mestieranti; non così Bernini, il quale si avvalse sempre di una schiera di tecnici ai quali non disdegnò di affidare l’esecuzione materiale, ed in parte anche con aspetti “artistici”, di opere di grande prestigio: è nota la collaborazione del Borromini al Baldacchino di S. Pietro, come quella di Jacopo Fancelli, Claude Adam, Antonio Raggi e Francesco Baratta alla Fontana dei Fiumi di Piazza Navona o di Ercole Ferrata all’Elefante della Minerva. I collaboratori del Bernini, italiani e stranieri, formarono il corpo scelto degli artisti sei e settecenteschi e portarono il verbo dell’arte barocca in tutta Europa. L’artista che portò a compimento questo processo fu senza dubbio Antonio Canova. Anche dei suoi seguaci e collaboratori è possibile dire che costituirono il nucleo degli artisti neoclassici europei: si avvalsero della straordinaria preparazione tecnica e culturale che il lavorare col grande veneto implicava e, per un paio di generazioni successive alla morte del maestro, si diedero a riempire le piazze, le chiese, i cimiteri e le accademie di tutto l’Occidente e delle sue colonie di candidi marmi ed aulici bronzi squisitamente eseguiti. Arriviamo all’epoca del nostro Rubino: il Romanticismo approfondì ulteriormente il solco tra la figura dell’artista un po’ bohémien un po’ maledetto e quella dell’a- 169 bile e probo artigiano che, coperto di polvere, esegue fedelmente ciò che il creativo ha intuito ed, eventualmente, buttato giù in forma di schizzo o di modellino. Fu infatti questa l’epoca in cui vennero valutati come “opere d’arte” quasi esclusivamente i bozzetti in creta di grandi artisti, a partire dallo stesso Canova: si vedeva in essi il soffio dello spirito creatore mentre nella esecuzione in grande si apprezzava meno la presenza della professionalità dei collaboratori. Questo non toglie che sempre l’artista ideatore seguisse da vicino l’evolversi delle fasi costruttive dell’opera e che moltissime volte intervenisse di persona nelle parti più significative o d’effetto con il suo tocco personale. Alle volte è possibile distinguere la traccia dell’intervento dell’artista in mezzo alle tracce del lavoro dei tecnici che collaboravano professionalmente alla creazione di una scultura: soprattutto nelle fasi di formatura, rifinitura dei gessi originali (forse perchè queste parti del lavoro avvenivano fisicamente nello studio dello scultore) ed in generale attorno a tutto ciò che riguardava il presentarsi dell’opera allo sguardo del committente o, semplicemente, di chi ne doveva godere, l’artista riservava a se stesso “l’ultima mano”, come avrebbe detto Antonio Canova. 170 Ruolo dei collaboratori Non è da credere che, nonostante il non altissimo riconoscimento culturale, il creativo fosse minimamente tentato di non avvalersi dell’aiuto dei bravi tecnici: la natura stessa delle committenze (in genere per opere di grandi dimensioni, da conservare in luoghi pubblici ed in materiali durevoli) obbligava ad una suddivisione di tipo artigianale dei compiti esecutivi e ad una stretta osservanza dei ruoli. La grande demarcazione era tra opere di natura lapidea (marmi, pietre e graniti) e lavori in metallo fuso: prevalentemente bronzo, ma non sono infrequenti getti in ghisa o addirittura alluminio (per esempio la cancellata di Piazzetta Reale e sculture di arredo di Villa Genero a Torino in ghisa, la fontana di Eros a Piccadilly Circus in lega di alluminio; l’elenco dei bronzi monumentali potrebbe riempire alcuni volumi). Era compito fondamentale dell’artista avere l’idea, decidere il materiale definitivo, produrre una serie di disegni ed almeno un modellino tridimensionale (in gesso o terracotta) in minima scala: al resto potevano pensare i laboratori specializzati. Vedremo come. Produzione del modello della scultura: dal bozzetto al gesso originale. Creta e plastilina, formatura, ingrandimento, scultura diretta in gesso Dopo aver fatto una serie di disegni che permettono all’artista di definire nella sua mente l’immagine dell’opera, è indispensabile che questo inizi a operare in tre dimensioni. L’equivalente dello schizzo disegnato è il bozzetto in creta: normalmente in piccole dimensioni non abbisogna di armature metalliche di sostegno, è facilmente modificabile e conserva fedelmente la traccia che il dito o la stecca imprimono per definire la forma. È possibile usare diversi tipi di creta: in genere quella toscana di Empoli o Montelupo, a grana finissima e di colore grigio si presta ad una puntigliosa definizione dei particolari; sono comunque molto usate anche le argille giallastre, contenenti molto ossido di ferro, di Castellamonte a grana grossa o di Bassano, bianche. La creta, umida e morbida, lasciata all’aria si asciuga indurendo un poco e ridu- cendo il suo volume dell’otto o nove per cento e può essere cotta in un forno a novecento gradi. Si ottiene in questo modo un bozzetto in terracotta. Quando le dimensioni del bozzetto sono tali da richiedere, per evitare fenomeni di schiacciamento sotto il proprio peso, l’utilizzo di un’armatura di ferro si pone il problema della conservazione immediata e di quella a lungo termine del bozzetto medesimo. Per evitare il verificarsi di essiccazione rapida, con conseguente riduzione di volume e formazione di crepe di ritiro venne inventata, alla fine dell’Ottocento, la plastilina: si tratta di polvere di creta secca e molto fine, mescolata con lanolina anziché con acqua. La lanolina, derivante dalla lavatura del vello ovino, non essicca, mantenendo per un tempo praticamente illimitato le caratteristiche di modellabilità che caratterizzano la creta umida. Esistono tutt’oggi, a ben oltre un secolo di distanza dalla produzione, quantitativi ingenti di plastilina perfettamente in grado di essere utilizzati. Naturalmente la plastilina, come pure la creta quando contiene armature in ferro o legno, non può essere cotta: per una fedele e duratura conservazione della immagine del modello su cui sia possibile lavorare (per ingrandimenti, fusioni o altro) è necessaria l’operazione di formatura in gesso che darà origine al “modello originale” o al bozzetto da ingrandire, avvalendosi dell’opera del formatore. A questo artigiano, che usualmente era specializzato in modo esclusivo nel suo lavoro, era affidata la traduzione da un materiale estremamente suscettibile di variazioni, quale la creta fresca o la plastilina, ad un altro, quale il gesso, che poteva essere maneggiato con una certa disinvoltura, ed eventualmente ancora ritoccato dall’artista oltre che misurato, capovolto, copiato, formato ulteriormente, seminato di punti di riferimento: maltrattato, in una parola, per poter dare origine alla versione definitiva in un altro materiale considerato, in vista delle qualità intrinseche di bellezza, costo e durabilità nel tempo, nobile e perenne. La tecnologia era, ed è, relativamente semplice, pur richiedendo doti di precisione e capacità operative piuttosto raffinate. Si tratta di mescolare gesso da presa (solfato di calcio anidro) con acqua sino ad ottenere una pasta fluida che, spalmata sul modello in creta, indurisca nel giro di 171 Modello originale del gruppo Il Giuramento per il Monumento al Carabiniere Reale (foto archivio eredi Rubino) qualche minuto prendendo fedelmente l’impronta della creta: tale negativo sarà svuotato dall’argilla o dalla plastilina, lavato, insaponato e nuovamente riempito con gesso fresco. Una volta che questa seconda gettata abbia fatto presa si scalpella il negativo, che non sarà appiccicato al getto in virtù del sapone pennellato in precedenza, ottenendo il gesso originale. Se il lavoro è fatto bene la fedeltà con il modello in creta o plastilina è assoluta: la presenza delle impronte digitali dello scultore testimonia in numerosi casi l’accuratezza del lavoro del formatore. A questo punto, con il modello originale realizzato nelle misure della versione definitiva, si pone l’alternativa tra la fusione in metallo o la traduzione in materiale lapideo. Se invece lo scultore, per varie ragioni, si è limitato a modellare un bozzetto in scala ridotta, bisognerà procedere all’ingrandimento per ottenere il gesso dal quale trarre il bronzo o il marmo. Anche questa operazione può essere fatta da tecnici specializzati, non scultori. In genere, alla fine dell’Ottocento ed ancora oggi, essa viene espletata da chi, all’interno della fonderia artistica, si occupa della formatura a tasselli o in gomma, naturalmente in accordo e sotto la supervisione dell’artista. 172 Il Laboratorio Luciano a Querceta. Si rapportano nel marmo con i compassi le misure del modello in scala ridotta di un elemento decorativo del Monumento a Mitre a Buenos Aires (Archivio Museo dei Bozzetti, Pietrasanta) Per l’ingrandimento ci si serve di un grande pantografo, dotato di due punte, o spine (una delle quali prende le misure segnate da punti sul modello piccolo e l’altra le restituisce ingrandite), montato su un alto treppiede girevole. L’opera in grande è costruita all’interno dei punti segnati dalla seconda spina, direttamente in gesso, servendosi di armatura in ferro e legno, ricoperta da lastre e blocchetti murati a guisa di un piccolo edificio. Gli interstizi vengono riempiti con gesso della giusta consistenza e le eccedenze sono asportate scolpendo il gesso induri- to come una pietra tenera (per esempio: cavalli di Rubino, modellino e gesso originale ingrandito). Per questo lavoro esistono attrezzi costruiti appositamente, che hanno caratteristiche comuni agli attrezzi da muratore, da intagliatore in legno e da scultore in pietra, sapientemente mescolate sino ad ottenere utensili che rendano plasticamente le qualità dei tessuti, del nudo, dei capelli, del pelame degli animali eccetera. E’ evidente che in questa fase la qualità del risultato sarà direttamente proporzionale all’abilità del tecnico ed al controllo che l’artista avrà avuto sullo svolgersi delle operazioni. Si hanno numerosi esempi, nei gessi originali che hanno avuto la fortuna di sopravvivere sino a noi, di interventi praticati direttamente dagli scultori che non si limitavano ad una semplice supervisione: rimangono tracce, nei gessi dell’Ottocento e del Novecento che è possibile analizzare da vicino, di correzioni e pentimenti, di lavorazione a volte meno “tecnica” ma sicuramente più fresca, incisiva e diretta. Si possono vedere, ad esempio nell’opera di Rubino, tracce di quella creatività che, sorretta dal mestiere, permette all’artista e alla sua opera un avvicinamento all’idea di perfezione formale nella quale tutta la cultura e la società del tempo si identificano. Che l’opera sia poi destinata ad un cimitero o alla decorazione di un giardino o di una piazza, a celebrare le patrie glorie o i meriti imprenditoriali di un capitano d’industria poco importa. La forma, studiata, corretta e modificata in fasi successive sino al limite del sublime (sempre per dirla con Canova) diviene specchio del pensiero dell’artista, del committente e di tutta la cultura che la società nel suo insieme possa esprimere. Una variante dell’ingrandimento in gesso è la scultura diretta, senza l’ausilio del pantografo, in gesso: il procedimento è strettamente analogo a quello usato per ingrandire, con la differenza che il lavoro del pantografo è sostenuto dall’occhio dell’artista e dal suo senso delle proporzioni. In questo caso il tecnico aveva un compito simile a quello di un muratore: preparava un’armatura, gettava lastre e blocchi di gesso e li montava seguendo le indicazioni dello scultore. Molte volte la figura del tecnico formatore era coincidente con quella di uno o più allievi: poteva così essere permesso anche un intervento che definiremmo “artistico”. Lo sfruttamento di qualità e capacità esulanti dallo stretto campo artigianale era visto come un farsi le ossa direttamente su grandi opere ed era considerato un onore dal discepolo ed una benevola concessione dal maestro. Bisogna notare che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando Rubino operò, sia la preparazione accademica degli scultori, ancorché in giovane età, sia l’esperienza sul campo degli artigiani raggiunsero vertici assoluti. La stretta collaborazione tra il progettista-artista e gli esecutori-artigiani, con cospicue interferenze gli uni nel lavoro degli altri e scambi frequenti di ruolo, portarono la produzione delle opere d’arte ad un livello di qualità intrinseca delle opere e di tutti i documenti delle fasi di passaggio da un materiale all’altro, per esempio gessi, paragonabile a quello dei periodi di più grande fioritura artistica. Si è ora giunti al bivio fondamentale: marmo o bronzo. Riassumendo, abbiamo visto le fasi di progettazione riservate esclusivamente all’artista: disegni e piccoli bozzetti. L’intervento di un tecnico avviene solo nella fase di cottura in forno da ceramica o di formatura in gesso del modellino. L’ingrandimento di quest’ultimo prevede una collaborazione tra l’artista ed il formatore. Ottenuto il modello originale in 173 grande si dovrà scegliere tra la fusione e la traduzione in marmo. In tale scelta raramente l’artista è completamente autonomo: dato che vi sono notevoli implicazioni economiche chi commissiona l’opera ha la tendenza ad influenzare le scelte. 174 Produzione dell’opera in bronzo. Forme buone in gelatina e a tasselli: getto in cera nella forma buona, taglio e finitura delle cere, posizione di colatoi e arie, copertura, deceratura, interramento, fusione, leghe, finitura del bronzo e riparazione dei difetti di fusione, assemblaggio dei pezzi, patine, posa in opera; fusione a staffa; procedimento per elettrolisi. Metalli diversi La produzione di una scultura in bronzo segue procedimenti tecnici che nella sostanza non sono mutati dalla fine del Neolitico: il bronzetto figurato più antico che si conosca è la Danzatrice di Mohenjo-Daro, proveniente dalla valle dell’Indo e risalente all’ottavo millennio A. C. Questo bronzetto, alto dodici centimetri, è fuso in cera persa, esattamente come i monumenti che troneggiano al centro delle nostre piazze. Il procedimento è il seguente: bisogna ottenere un modello in cera delle dimensioni e dello spessore di cui si desidera il bronzo, lo si copre dentro e fuori di materiale refrattario, lo si pone in un forno di deceratura che fonde la cera lasciando un’intercapedine nella quale si getta il bronzo fuso. Una volta che questo sia raffreddato si rompe l’esterno della forma, si svuota l’interno della scultura e si rifinisce e patina la superficie. Detto così sembra facile ma anche in questa serie di operazioni deve avere spazio quel patrimonio di conoscenze e di sapienza fabbrile senza cui anche la più semplice delle tecniche non produce risultati. Abbiamo dato per acquisito che il modello in cera fosse esistente nelle dimensioni del successivo getto in bronzo ed in realtà molte sculture antiche furono prodotte in questo modo: l’esempio più famoso è, in grazia della vivace, commovente narrazione che ne ha lasciato l’autore, il Perseo del Cellini: statua costruita in argilla, cimatura di panno e sterco equino mescolati in misteriose proporzioni, condotta un poco più magretta del bronzo definitivo, ricoperta di uno strato di cera d’api che sarebbe stato poi sostituito dal bronzo, modellata anzi cesellata la cera sino a conferirle l’aspetto definitivo, coperta di un negativo dello stesso materiale dell’interno, decerata e tra vampe di fuoco urla strepiti e preghiere, fusa in un solo colossale pezzo. Questo modo di procedere si presta ad un rischio: se va male la fusione anche il lavoro di scultura va irrimediabilmente perso. È per questo che dalla fine del Rinascimento, nell’atelier fiorentino del Giambologna, venne messo a punto il sistema ancora oggi usato: costruzione di un modello in gesso, di un negativo riutilizzabile dove poter gettare eventualmente più di una cera, e procedimento normale una volta ottenuta quest’ultima. In caso di necessità il getto di una nuova cera comportava il rifacimento di tutte le operazioni di fonderia ma non il rimodellare la statua. Non era nemmeno esclusa la possibilità di avere più di un esemplare in bronzo della stessa scultura o di dettagli della medesima: bastava gettare in tutto o in parte altre copie in cera che, col solo lavoro di fonderia, moltiplicavano presenza ed introiti. La forma in cui gettare le cere veniva chiamata, forse per questi motivi, forma buona. Tale negativo poteva essere realizzato in due modi: a tasselli o in gelatina. Entrambi hanno la caratteristica di restituire perfettamente l’immagine dell’opera (cosa che peraltro fa anche la forma persa) e soprattutto essere riutilizzabili. La gelatina, sostanzialmente una colla animale molto densa, veniva utilizzata soprat- tutto per oggetti di non grandissima dimensione o che presentassero superfici scabre e di particolare sensibilità di modellato. Per lavori di grande dimensione si ricorreva alla formatura a tasselli: un blocchetto di gesso per ogni sottosquadro ovvero rientranza del modellato che potesse trattenere o lacerare il getto in cera. Il numero impressionante di tasselli poteva dare motivo di qualche confusione: per tenerli insieme a costruire la forma generale della scultura venivano legati ad una struttura che li comprendesse tutti e li mantenesse nella giusta reciproca relazione: la madreforma. Storicamente si ha la certezza che le forme buone fossero usate già nell’antichità: all’interno dei Cavalli di S. Marco sono chiaramente visibili le impronte delle dita di coloro che hanno spalmato la cera morbida nella forma ancora aperta, segno evidente che il modello è stato formato. Per i quattro Cavalli, che costituiscono un gruppo decisamente fuori dell’ordinario nella scultura antica, sembra appurato che i modelli originali fossero solo due: uno alza la zampa anteriore destra volgendo la testa a destra e l’altro la zampa sinistra volgendo la testa a sinistra. Fondendone due esemplari per ciascuno e scambiando due teste si ottiene una quadriga in cui le possibili combinazioni tra gesti delle zampe e volgersi della testa sono differenti per ogni cavallo. La tecnica della formatura buona fu poi dimenticata durante il Medioevo e conobbe grande diffusione dalla fine del Cinquecento. Abbiamo esempi anche più vicini a noi di copie plurime, con qualche variante, di fusioni in bronzo: per esempio, il monumento al Cavaliere d’Italia di Pietro Canonica a Torino usufruisce del cavallo dello zar Nicola II dello stesso Canonica a Pietroburgo, con variazione della figura umana. Distrutta anche l’immagine dell’ultimo Romanov durante la Rivoluzione d’Ottobre (vengono alla mente immagini da film di Ejzenstejn) resta il mite equino subalpino a documentare glorie guerresche, virtuosismi accademici e abilità d’artigiani. Naturalmente, se il progredire della tecnica non mutò la sostanza del lavoro dello scultore e del fonditore, permise di apportare qualche variazione al modus operandi di costoro: non fu più necessario, ad esempio, cercare di fondere i pezzi in bronzo quanto più grandi possibile: la saldatura ad ossigeno permise di suddividere le cere, e quindi i bronzi, in pezzi relativamente maneggevoli e poi di assemblarli con facilità, riducendo il rischio di difetti di fusione e semplificando il compito di chi poneva i colatoi e le uscite dell’aria. Il bronzo fuso, infatti, per quanto pericoloso e spettacolare, si comporta come tutti i liquidi, riempiendo i vasi comunicanti allo stesso livello e lasciando zone vuote se l’aria, spinta dal bronzo, non riesce a sfuggire dalla forma. Consegue da ciò che ogni sottosquadro accuratamente conservato in cera dalla formatura a tasselli o dalla gelatina deve, per essere rivisto in bronzo, essere collegato ad un canale di entrata del bronzo e ad uno sfiato dell’aria che raggiunga l’esterno della forma refrattaria. Ne risulterà una gabbia di tondini in bronzo che per essere rimossa darà non poco lavoro al cesellatore. Questa nuova figura professionale ha molti punti in comune con lo scultore: si occupa di restituire al bronzo grezzo di fonderia l’aspetto del modello originale in gesso, che a questo scopo è conservato in officina. Lime, ceselli, scalpelli e punzoni delle più varie forme sono gli attrezzi utilizzati in questa fase. Non di rado per un particolare lavoro viene costruito un particolare utensile. 175 176 Il Faro della Vittoria Parco della Rimembranza Torino (foto Giorgio Stella) Anche la riparazione di possibili difetti di fusione è compito del cesellatore. Capita, infatti, che malgrado la sapienza tecnica e l’accuratezza nel lavoro, qualche bolla di gas rimanga imprigionata tra forma ed anima dando origine a lacune nel modellato. Se la lacuna è di grandi dimensioni si rifonde il dettaglio mancante ripartendo dalla cera (ecco un’altra utilizzazione della forma buona), altrimenti si utilizza una lastretta di bronzo sagomata come il buco ed incastrata nello stesso a ricostituire la continuità della superficie. Fino ai tempi della prima guerra mondiale l’incastro era ottenuto limando i bordi interni ed esterni della lacuna, facendo un piano ribassato che potesse accogliere esattamente il riempimento e fissando questo al resto della scultura con perni ribattuti. L’avvento generalizzato della saldatura autogena ha enormemente semplificato le cose, sino all’uso, risalente a qualche decennio fa, della saldatura ad argon, che permette la ricostruzione diretta di grandi tratti di superficie. Il passaggio dal rattoppo “alla romana”, coi bordi frastagliati per renderli meno visibili anche con incidenze di luce sfavorevoli, alla saldatura può essere analizzato in Torino in due esempi di grandi dimensioni: i gruppi ai capi del ponte Umberto I, di Reduzzi e Contratti, inaugurati nel 1911, presentano riparazioni (poco) visibili eseguite col primo sistema, mentre l’immensa statua della Vittoria di Rubino al Parco della Rimembranza, inaugurata nel 1928, è tenuta insieme dalle perfette saldature eseguite per la prima volta su di una scultura (la quale, peraltro, detiene il primato mondiale della grandezza tra quelle fuse in bronzo essendo alta m. 18,5). Un’altra particolarità di questa statua è il tipo di lega: è memoria tramandata per tradizione tra i fonditori torinesi che essa sia di una lega particolarmente tenera, ottenuta con l’aggiunta ai classici rame (90%) e stagno (9%) di un poco di piombo ed escludendo totalmente lo zinco che, indurendo il metallo lo renderebbe assai difficile da saldare e da rifinire. A questo proposito occorre dire che lo zinco, assai meno costoso dello stagno, entra sovente a far parte delle leghe metalliche utilizzate nella scultura: la purezza delle intenzioni non ne gode ma il metallo, diventato un po’ parente dell’ottone, corre meglio nella forma, non ingloba tanto gas dando origine a meno difetti di fusione e, anche se da nudo ha un aspetto un po’ giallastro invece del bel rosa carnicino del bronzo, costa decisamente meno. La patina si incaricherà di coprire il colorito pallido. Patine: argomento sterminato, che ha dato occasione a storici dell’arte e a critici di versare fiumi d’inchiostro schierandosi a favore o contro l’uso di conferire alla scultura, ormai finita per ciò che riguarda la tridimensionalità, anche un colore. E’ pur vero che anche il metallo ha un suo colore, ma la possibilità di scegliere tra rossi, bruni, verdi, blu, neri o bianchi o addirittura di mescolarli, o di conferi- re un aspetto antico ad un oggetto di nuova produzione può ingenerare in chi deve decidere o in chi deve comperare una qualche confusione. Limitandosi all’aspetto tecnico si può dire che le patine si dividono in due grandi famiglie: quelle ottenute mediante reazione chimica di acidi o alcali sulla superficie del bronzo riscaldato e le laccature, anche esse applicate a caldo ma che sostanzialmente non alterano la struttura chimica della superficie del bronzo. Appartengono alla prima famiglia tutte le patine verdi, brune e nerastre date su statue conservate all’aperto: ossido di rame e solfuri di potassio o dello stesso rame ne sono i componenti, ottenuti in officina nel giro di qualche giorno, ma che comunque si presenterebbero come prodotto dell’azione degli agenti atmosferici. Per i bronzi da conservare in ambiente riparato la scelta cromatica è pressoché illimitata: oltre all’azione di acidi e sali metallici (ad esempio il nitrato di ferro produce un magnifico rosso mattone, l’acido fosforico un blu piuttosto intenso, tra gli alcali la soda caustica rende bianco il metallo ecc.) nel corso del tempo furono utilizzate le più svariate tecniche per dare al metallo pastosità e morbidezza, per dirla col Vasari. La patina fiorentina ne è un esempio molto diffuso: il nero trasparente che ricopre tanti bronzetti del Rinascimento era ottenuto dalla combustione dell’olio di lino pennellato direttamente sul metallo reso quasi incandescente. L’intensità del nero era direttamente proporzionale alla quantità di olio bruciato incrostata sulla superficie. Governando sapientemente temperatura del metallo e pennellature di olio di lino sono stati possibili i miracoli di vita e di freschezza creati nel periodo che va da Donatello a Giambologna, passando per il Verrocchio e non dimenticando il buon Bertoldo. Credo comunque che, oltre alla patina, anche le qualità degli scultori contribuissero un poco alla riuscita dell’insieme. Un breve accenno al problema della posa in opera della scultura in bronzo: è un argomento del quale si occupano oggi le ditte di trasporti, camionisti, gruisti o, al limite, elicotteristi: non così sino a non molto tempo fa quando l’artista, nella sua veste di uomo d’ingegno, doveva occuparsi di tutti gli aspetti concernenti il suo lavoro, anche di quelli apparentemente più umili e di sola fatica. Non dimentichiamo che in epoche in cui il solo motore era la forza muscolare umana o animale anche il semplice spostamento o innalzamento di un peso richiedevano doti non comuni di inventiva e di organizzazione. Era normale l’uso di grandi ponteggi in legno, imbracature di canapi e l’uso di demoltiplicatori del tipo dei bozzelli usati in marina. Sono rimasti famosi come esempi di applicazione d’intelligenza e creatività i ponteggi per la costruzione della cupola di S. Maria del Fiore del Brunelleschi o utilizzati dall’amico-nemico Ghiberti quando quest’ultimo dovette issare, dopo avervi saldato la croce, il grande globo di rame sulla sommità della lanterna. Altre impalcature che hanno fatto storia: quella che portò David di Michelangelo dal cantiere del Duomo alla Piazza della Signoria, facendo un giro lungo, per le strade di Firenze trainata a braccia dai fiorentini esaltati dal simbolo della loro libertà (tra le sassate di qualche oppositore); quella che lo stesso Michelangelo progettò per affrescare la volta della Sistina senza interferire con le funzioni religiose (le antiche buche pontarie, per inciso, furono riutilizzate per i recenti 177 restauri) e, leggendaria, quella utilizzata da Domenico Fontana per trasportare ed erigere l’obelisco di S. Pietro. 178 Esistono altri modi, oltre alla fusione in cera persa, per conferire una forma predeterminata al metallo: il più semplice consiste nel lasciare un’impronta del modello in un tipo particolare di argilla, la bentonite, e di riempirla di metallo fuso: è la fusione in staffa, che prende il nome dalle strutture in metallo che circoscrivono le forme in bentonite. Questo sistema non presenta una grande fedeltà al modello perché rimane visibile l’impronta della grana del negativo, inoltre non permette l’uscita dei sottosquadri: viene infatti usato solo per produrre bassorilievi che non abbiano pretese di grande qualità. Nella seconda metà del XIX secolo venne messa a punto la possibilità di produrre statue col procedimento elettrolitico: si immergeva , dopo averlo saturato di acqua per renderlo buon conduttore di elettricità, un negativo in gesso in una vasca contenente metallo sciolto in acido e se ne collegavano le estremità a elettrodi positivo e negativo. Con una certa velocità le particelle di metallo si depositavano sulla superficie del gesso dando origine a pezzi totalmente esenti da difetti, di spessore assolutamente uniforme ed assai ridotto. Furono eseguiti in questo modo i grandi gruppi che decorano la facciata e la cupola del Grand Palais di Parigi. Attualmente questa tecnica è in disuso perché troppo costosa: richiede infatti l’uso di quantità enormi di energia, oltre all’applicazione di una sapienza tecnica fuori dell’ordinario. Una tecnica recente che, al contrario, si sta affermando è la fusione a cera persa in negativo ceramico. Fu messa a punto per la fusione delle turbine in acciaio inossidabile dei motori a reazione, e sino alla preparazione delle cere è analoga al vecchio sistema. La cera viene poi immersa in impasti ceramici di grana via via più grossolana sciolti in alcol: l’alcol evapora rapidamente permettendo una cottura della forma e deceratura simultanee alla temperatura di 1000 gradi, dopodiché la forma stessa, senza essere interrata e priva di uscite dell’aria, viene riempita di metallo fuso. L’aria fuoriesce attraverso la porosità della forma, che non supera il centimetro di spessore. Una volta raffreddato il bronzo il negativo è frantumato lasciando un getto che richiede assai poco lavoro di finitura. Un breve cenno sull’uso di metalli diversi dal bronzo nella scultura: sino alla metà dell’Ottocento la difficoltà di reperimento di materiali particolari o la impossibilità di raggiungere temperature atte alla fusione limitarono l’uso, per la statuaria o per la produzione di oggetti artistici fusi quali ad esempio porte o fonti battesimali al rame e alle sue leghe. Quando si verificò la possibilità di fondere negli altiforni il ferro composto col carbonio ci si rese conto che era possibile ottenere delle sculture a costi assai inferiori a quelli che il bronzo comporta. Si ebbe così la presenza di cancellate, colonnati, vasi decorativi, fontanelle e anche di vere e proprie statue in ghisa, ad arredare le città europee ed americane che proprio in quest’epoca conobbero una straordinaria espansione. Tutti questi arredi venivano fusi in staffa e per riuscire a produrre sculture dotate di sottosquadri il lavoro del fonditore raggiunse punte di perfezione e creatività inimmaginabili. Altro materiale strano: l’alluminio. Rarissimo in natura nel suo aspetto metallico, sino alla metà dell’Ottocento era più costoso dell’oro: Napoleone III se ne fece fare un servizio da tavola e vi servì il banchetto con cui accolse Ismail, Kedivè d’Egitto, in visita a Parigi per stipulare l’accordo per l’escavazione del canale di Suez. Poi fu inventato il procedimento per estrarre il metallo dalla bauxite: il costo dell’alluminio si abbassò e subito Alfred Gilbert, scultore vittoriano, si cimentò con fontana e figura di Eros, nel centro di Londra. La fusione è stata condotta in cera persa, avendo cura di non dover fare saldature che coi mezzi tecnici della fine del XIX secolo erano impossibili. L’altra scelta comune, oltre al bronzo, era il marmo. Si intende, col termine generico di marmo, quello bianco di Carrara, usatissimo senza interruzione sin dall’antichità per la realizzazione di opere di scultura, di architettura e di decorazione architettonica. La qualità preferita per la scultura fu sempre quella che prese, appunto, il nome di “statuario”: carbonato di calcio idrato, cristallino per metamorfismo, con aspetto saccariforme, candido al momento della cava ma recante tracce di quarzite e di ossido di ferro che, con l’azione del tempo e dell’umidità dell’aria conferiscono all’insieme dell’opera un aspetto ambrato, morbido e caldo. Caratteristiche simili sono comuni ai marmi greci da scultura: pario, nassio e pentelico, con granulometria dei cristalli assai maggiore ed effetti di semitrasparenza anche più marcati. Il bacino marmifero delle Apuane, che viene genericamente indicato come “di Carrara”, è in realtà un complesso di vallate e montagne che interessa anche il territorio di Massa, Querceta, Seravezza, Arni in Garfagnana e Pietrasanta. Le cave situate nelle varie località offrono materiali con caratteristiche assai differenti per ciò che concerne il colore, la durezza e quindi la lavorabilità, la purezza geologica con vistosi effetti sulla resistenza all’azione degli agenti atmosferici, la presenza di venature e difetti eccetera. Sino alla fine dell’Ottocento la produzione di blocchi di misure superiori ai due o tre metri cubi fu da considerare del tutto eccezionale. Considerando poi che il peso specifico del marmo è di ventotto quintali il metro cubo si comprende facilmente come siano divenuti leggendari blocchi di “nove braccia” (cinque metri e trenta centimetri di altezza per un peso che si stima superasse le settanta tonnellate) come quello da cui fu scolpito il David di Michelangelo e che nel secolo precedente aveva provocato la morte per scoramento del buon Simone da Fiesole. Per arrivare al lavoro di passaggio dal gesso originale al marmo, che avveniva in laboratori attrezzati, molte volte siti tra Carrara e Pietrasanta ma che spesso coincidevano con gli atelier dei grandi artisti, era necessario un lungo e laborioso iter che comprendeva il lavoro di molte figure professionali. La prima, in ordine di tempo, era ed è tuttora quella del cavatore. Togliere dal ventre della montagna, a forza di scalpelli e leve il sasso alpestro e duro fu sempre considerato un lavoro durissimo e pericoloso ma ricco di fascino e di soddisfazione. Quando ancora la figura del mercante di marmi non era completamente affermata era compito dell’artista contrattare la fornitura del materiale da cui ricavare l’opera. Su diverse case di Pietrasanta esistono lapidi che ricordano la stipula di contratti colà avvenuta coi cavatori che avrebbero fornito il materiale per la esecuzio- 179 Produzione dell’opera in marmo. Punti “a repere”, divisione del lavoro (cava, trasporto, scandaglio, sgrossatura, scultura, finitura, lucidatura, posa in opera) nella scultura lapidea ne di opere che avrebbero segnato la storia dell’arte: i marmi per la tomba di Giulio II e la Sagrestia Nuova di Michelangelo sono entrati, oltre che negli incubi notturni dell’autore, anche nell’arredo urbano della cittadina apuana. Dopo essere stati estratti i blocchi erano riquadrati o sgrossati, secondo le esigenze, nei pressi della cava: gli sfridi di queste operazioni e della pulitura delle cave 180 Laboratorio Luciano a Querceta (Archivio Museo dei Bozzetti, Pietrasanta) hanno dato origine nei secoli a quei ravaneti che conferiscono un aspetto così particolare alle Alpi Apuane. Alleggeriti del superfluo erano lizzati, cioè varati su rulli o slitte mentre erano trattenuti da grosse corde assicurate a pali conficcati nella roccia, sino al piano. Qui, caricati su enormi carri di legno formati dai soli assi e ruote, i marmi potevano fermarsi nei laboratori della Versilia o raggiungere il luogo di destinazione per via d’acqua o trainati da buoi o bufali. In laboratorio finalmente cominciavano le operazioni per la esecuzione dell’opera d’arte: si era in presenza del modello originale in gesso, che il più delle volte era nelle proporzioni definitive, e si poteva iniziare a ragionare in termini di scultura. La prima operazione era, ed è, quella di scandaglio: si tratta di far stare tutta la scultura dentro il blocco. E’ vero che per i Neoplatonici del Rinascimento le idee erano già in nuce nella materia e, con Michelangelo, si trattava esclusivamente di levare il soverchio per liberarle: sembra un’operazione di puro concetto ma l’uso di compassi, fili a piombo, archipendoli, squadre e (oggi) puntatori laser ci assicura che la vile materia obbliga alla fatica che per dar frutto unisce gli sforzi del braccio e della mente. Dopo aver deciso come il gesso doveva situarsi in relazione al marmo si iniziava a sgrossare: il lavoro era condotto da uomini (molto robusti) che con mazzette da almeno due chili e subbie gigantesche, misurando continuamente con i compassi, toglievano il materiale sino ad una distanza di cinque - dieci centimetri dalla superficie definitiva. Gli sgrossatori non si occupano di sottosquadri. Una volta che l’abbozzo della scultura è giunto ad avere la stessa forma del modello aumentata di qualche centimetro entrano in scena gli scultori. La figura artigianale dello scultore non coincide, evidentemente, con lo scultore artista: quest’ultimo vede il suo compito esaurirsi al momento del progetto, mentre il primo si Particolare della Tomba Lenti (cat. n. 4) occupa di “scolpire” (un tempo a mano, oggi servendosi di utensileria pneumatica) ciò che l’artista ha modellato in argilla ed è stato successivamente formato in gesso. Per avere la certezza assoluta di essere fedeli al modello si usa il sistema detto dei punti a repere. La sostanza è questa: si definisce una serie di punti sul modello in gesso e si scava nel marmo sino al livello di profondità indicato per ogni punto. Esiste per questo una macchinetta, costruita per la prima volta come noi oggi la conosciamo da Antonio Canova, dotata di un braccio snodato e di una spina scorrevole che indica con precisione assoluta la posizione dei punti scelti sul modello in gesso all’interno del blocco di marmo. Il lavoro dell’artigiano scultore, alla fine, si limita a trovare dentro il blocco quanti più punti possibile e a congiungerli con piani. Per questo sui modelli originali esiste una traccia a matita dei punti trovati nel marmo, oltre ai capi punti, costituiti da capocchie di chiodi, sui quali si è appoggiato il sostegno della macchinetta. Tutto ciò è perfettamente visibile, ad esempio, nei gessi conservati alla Gipsoteca Canoviana di Possagno, ed in qualsiasi altro gesso originale che sia stato trasferito in marmo. Un breve cenno sull’uso di acidi nella scultura in marmo: Schadow, lo scultore neoclassico autore, tra l’altro, della quadriga bronzea sulla Porta di Brandeburgo a Berlino, si disse convinto che gli scultori antichi, per realizzare nel marmo certi arditi sottosquadri in posizioni particolarmente difficili, si servissero dell’azione corrosiva delle sostanze acide, e descrive un esperimento da lui stesso compiuto. Protetta con cera la superficie da non intaccare, messa la scultura in modo da poter ottenere una 181 pozza di acido nitrico, si opera una vera e propria morsura, del tipo di quelle praticate dagli incisori sulle lastre di metallo. Il marmo è sensibilissimo all’azione dell’acido perciò questo in poco tempo raggiunge la profondità voluta. Per i sottosquadri è sufficiente ruotare nel senso desiderato il blocco e l’acido continuerà a corrodere parti che in altro modo sarebbero difficilmente raggiungibili. Per bloccare l’azione basta lavare accuratamente il tutto. Non so se la cosa sia del tutto praticabile ma il buon prussiano afferma di aver personalmente eseguito l’esperimento sul doppio ritratto delle principesse Luisa e Amalia, attualmente conservato al Museo di Berlino. Dopo che gli scultori hanno finito di maltrattare il modello originale e di scolpire il marmo entrano in funzione i finitori. Anche qui il plurale è d’obbligo, perché ogni individuo ha (o aveva) una sua specializzazione particolare. Si tratta di togliere, mediante raspe ed abrasivi in polvere sempre più fini, meno di un millimetro di marmo per conferire l’aspetto definitivo alla scultura. Pelle (maschile, femminile, di vecchio, di bambino), capelli, tessuti, fogliame, pelame e poi teste, mani, piedi, occhi, orecchi, ogni possibile dettaglio poteva prevedere un artigiano che, specializzato esclusivamente in quello, passava di laboratorio in laboratorio, di studio in studio a tritare carbonato di calcio definendo particolari, qualificando superfici, mimetizzando il materiale secondo i dettami della più rigida accademia. Abbiamo le prove di tutto ciò nei nostri cimiteri monumentali, al centro delle nostre piazze, nei proclami delle avanguardie storiche i cui esponenti non erano precisamente innamorati di questo modo di lavorare e, sopravvissute, in qualche laboratorio superstite collocato tra Carrara e Pietrasanta. Dopo la finitura solamente la lucidatura e la patina attendono il povero marmo prima della collocazione definitiva: dopo tutto quello che ha subito sinora un po’ di polvere di pomice, di acido ossalico e, al limite, di urina di cavallo e cera non lo spaventeranno di certo. Queste operazioni non di rado erano eseguite alla presenza dell’artista, il quale in questo modo si metteva in pace la coscienza (professionale) e, con questa ultima mano determinava l’aspetto epidermico che la scultura avrebbe avuto. 182 Materiali accessori: marmi colorati, graniti - porfidi. cemento - litocemento, mosaici (in marmo o vetro), dorature (a foglia o a mercurio) Di fianco al materiale principe per la scultura, il marmo bianco, da sempre fu utilizzata la grande famiglia dei marmi colorati. Presenti in quantità e qualità sostanzialmente illimitate nel bacino del Mediterraneo, furono usati da tutte le civiltà che su tale mare si affacciarono sino dalla più remota antichità. In maggior parte per decorazione architettonica ma anche per la realizzazione di sculture tout court vennero impiegate brecce, cipollini, calcefiri, marmi propriamente detti, alabastri ed onici (provenienti in maggioranza dalla Grecia e dall’Asia Minore), calciti dure a frattura concoide oltre a porfidi rossi e verdi, graniti, sieniti, dioriti, serpentini e grovacche (dall’Egitto), arenarie, tufi, piroclastiti, lave, trachiti e basalti (da Italia Francia e Spagna). La Roma imperiale, ed in seguito quella dei Papi, costituisce un interessante, oltrechè estremamente sfarzoso, campionario geologico di tutto ciò che di scolpibile, duro o tenero non importa, si poteva reperire tra Europa, Nord Africa e Asia occidentale. Il campionario dei colori è ugualmente illimitato: fanno fede i mosaici a tessere marmoree che coprirono i pavimenti delle residenze più fastose della metà orientale del Mediterraneo, da Roma ad Antiochia di Siria, da Nora in Sardegna ad Alessandria d’Egitto, da Aquileia ad Efeso. Con la Rivoluzione Industriale anche le tecniche di produzione artistica, apparen- temente legate alla tradizione in modo irreversibile, subirono delle innovazioni di non poco conto. Per ciò che riguarda i materiali lapidei le principali furono: l’introduzione del filo elicoidale (un trefolo in acciaio, fatto girare da motori elettrici, che mediante l’abrasione di sabbia silicea e acqua tagliava rapidamente grandi superfici di roccia), del martello pneumatico (usato per la prima volta nel traforo del Frejus, ma rapidamente adottato in tutte le cave e i laboratori del mondo) e, più in generale, della meccanizzazione dei trasporti. Fu così che, con l’affinarsi delle tecniche estrattive, le piazze d’Italia tornarono a adornarsi di materiali che, per le loro caratteristiche di durezza, univano alla grande bellezza un costo piuttosto elevato otre ad una potente carica simbolica. I graniti e i porfidi: sarcofaghi e simulacri di faraoni e imperatori, scavati con fatiche improbe e con attrezzature misteriose per durare in eterno furono il modello archetipico al quale le dinastie (ed in seguito le dittature) europee si ispirarono. Abbiamo così, in Italia, i monumenti destinati a perpetuare l’epopea risorgimentale che utilizzano materiali che per loro intrinseca qualità sono perpetui: i graniti rosati o bianchi dell’Ossola si ricollegano simbolicamente al rosso di Assuan, (di cui sono fatti gli obelischi portati a Roma) e al grigio del Foro, proveniente anch’esso dall’Egitto. Il porfido della Val Camonica, anche se non gode del bel colore rosso porpora dal quale trae il nome, ma vira un poco al fegato o al bruno, si apparenta metaforicamente alla porpora nella quale nascevano, vivevano ed erano sepolti gli imperatori bizantini. Istruite dallo sfarzo minerale delle dinastie regnanti sulle nazioni anche le dinastie borghesi che nell’Ottocento iniziarono a regnare sui sistemi produttivi pretesero che fossero loro costruite dimore, per questa e per l’altra vita, all’altezza del censo che avevano raggiunto. I cimiteri monumentali delle città europee e americane ripetono in grande, ricco, eterogeneo e anche un po’ kitsch il campionario che abbiamo già visto a Tebe, Costantinopoli e Roma. Sul piano tecnico, nonostante la motorizzazione e l’uso del filo elicoidale nei tagli, l’esecuzione di simili opere era estremamente complessa e costosa: le operazioni di cava, in un materiale molto più duro del marmo, comportavano fatiche e tempi enormemente dilatati. L’applicazione in quantità commercialmente rilevanti di utensileria in carburo di tungsteno (il widia: wie diamant) risale alla metà degli anni sessanta del Novecento. Prima tutta la lavorazione delle pietre da taglio dure veniva eseguita con la medesima attrezzatura che si usava per il marmo: l’acciaio temprato. Il consumo degli attrezzi era spaventoso. Ancora oggi i vecchi scalpellini raccontano che per ogni due di loro che lavoravano il granito era operante un fabbro che continuamente rifaceva e temprava sulla forgia gli attrezzi che i due rompevano. Simile è il discorso relativo alla finitura e lucidatura dei medesimi materiali: i colonnati dei portici otto - novecenteschi delle nostre città, come le tombe monumentali o i saloni di rappresentanza di banche, poste o società idroelettriche, con tutto il loro apparato iconografico non di rado pesante e macchinoso, sono il risultato di uno sforzo tecnico oggi quasi inconcepibile. Una invenzione venne, verso la fine del secolo XIX, a facilitare la vita e a rendere più veloce il lavoro di chi doveva decorare in tre dimensioni architetture e monumenti: il cemento. 183 184 Palazzina della Società Promotrice delle Belle Arti Torino (foto Giorgio Stella) Il cemento è un legante al quale vanno mescolati inerti in proporzioni variabili e possiede la caratteristica di poter sopportare grandi compressioni e di non essere solubile all’acqua. Queste caratteristiche gli hanno permesso di divenire il materiale da costruzione principale, dimenticando un poco che alle origini, tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800 il suo uso era praticamente limitato alla produzione di opere d’arte. Esso partecipa, infatti, delle caratteristiche migliori della pietra (resistenza meccanica) e del gesso (si impasta e si getta con relativa facilità) permettendo di evitare il lungo processo della scultura “per via di levare” il quale, benché ricco di fascino e di raffinatezza tecnica e culturale, impone dei costi incomparabilmente più elevati. Della produzione cementizia tardo ottocentesca in campo artistico abbiamo notevoli esempi in Torino: tra i tanti, le sculture di arredo della Villa Genero, la Fontana dei Mesi ed i rilievi della palazzina della Promotrice al Valentino dello stesso Rubino. Queste opere sono state eseguite come dei modelli originali: prima in creta, poi formati “a forma persa”, quindi riempiti della mistura di cemento, polvere di marmo o sabbia e graniglia di marmo o ghiaia di fiume a seconda del risultato voluto. Per le parti che vanno ripetute, ad esempio le cornici, si esegue una forma buona su un pezzo e si ripetono i getti ad libitum. Una volta sformato il modello è possibile una lavorazione ulteriore, come se si trattasse di rifinire una pietra tenera. L’architetto torinese Cimbro Gelati mise a punto sul finire del secolo XIX una serie di vere e proprie ricette per ottenere partiture decorative di grande effetto e di costi contenuti. Tali materiali avevano in comune il legante e si differenziavano per la qualità, il colore e la granulometria degli inerti. L’architetto Gelati li battezzò Litocemento: Ne abbiamo numerosi esempi nella architettura torinese realizzata dall’Unità d’Italia in poi. Quando il progetto del monumento prevedeva la presenza di colore non di rado si ricorreva all’impiego del mosaico: assistiamo di nuovo all’uso simbolico dei materiali, per ricollegarsi all’idea di eterno e di imperituro dei mosaici romani e bizan- tini. Il mosaico che possiamo vedere come integrazione cromatica nei monumenti tra XIX e XX secolo è tecnicamente parente di questi ultimi: è infatti realizzato generalmente in pasta vitrea. L’ottenimento di tali paste colorate prevede l’utilizzo di ossidi metallici, analoghi a quelli usati per verniciare le ceramiche, da mescolare alla silice fusa per ottenere delle lastre colorate. Tali lastre sono poi tagliate a piccoli dadi che costituiscono le tessere del mosaico. Per le tessere dorate si utilizza un vetro grezzo sul quale si stende una foglia d’oro. Mentre lastra e foglia sono a temperatura di fusione, sopra di esse va applicata un’altra lastra sottilissima di vetro che, fondendo insieme al resto, forma un corpo unico. Anche questa lastra viene ridotta in tessere, pronte per essere utilizzate. Le tessere si incollano sul cartone preparatorio con una colla leggera e solubile in acqua. Sull’immagine così ottenuta va incollata una tela di sacco di dimensioni facilmente trasportabili, si leva il cartone e la superficie libera che ne risulta si applica all’intonaco fresco facendo attenzione che le tessere penetrino bene nella malta. Quando questa si è indurita, con acqua calda si stacca la tela di sacco, poi si stuccano gli interstizi tra le tessere e il mosaico inizia a risplendere. Dorature: da sempre l’oro fu segno di ricchezza e di potere. Dai tempi della regina Hatshepsut si pensò che fosse più economico ed ugualmente significante ricoprire d’oro un oggetto di un altro materiale: fu così che il re assiro Asharaddon, che conquistò l’Egitto una dozzina di secoli dopo l’epoca della buona regina, si arrabbiò non poco, quando si accorse che gli obelischi di Karnak non erano altro che grossi blocchi di granito ricoperti di una lamina di elettro (lega di oro e d’argento) e non lingottoni massicci. Dal diciottesimo secolo a. C. ad oggi le tecniche di doratura hanno subito pochi reali mutamenti. Il metodo più diffuso consiste nel produrre una lamina d’oro quanto possibile sottile, martellando il nobile metallo tra due fogli di cuoio, e poi applicarla sulla superficie da dorare cambiando la colla secondo il materiale sottostante. La tecnica veramente rivoluzionaria, per quanto riservata alla doratura dei metal- 185 Modello originale in creta de La Dora per la Fontana dei Mesi (foto archivio eredi Rubino) 186 li, fu inventata ai tempi dell’Impero Romano, ed è la doratura a mercurio. Questo metallo ha la viva tendenza ad amalgamarsi con l’oro, che è sufficiente scaldare ed avvicinare. Ottenuta l’amalgama, che è una pasta relativamente tenera, si scalda leggermente il metallo da dorare e si spalma il composto. In seguito un nuovo riscaldamento farà evaporare il mercurio e rimanere l’oro sulla superficie. Sono tutti i ripetuti riscaldamenti ad escludere da questo tipo di doratura i materiali organici e lapidei. Bisogna poi segnalare che i vapori di mercurio sono tra i prodotti più velenosi che si possano ottenere così rapidamente e con relativa facilità: se ne deduce che il sistema sanitario dell’antica Roma, la prevenzione degli infortuni e, forse, il sistema pensionistico non erano all’altezza di ciò che si produceva. Il monumento equestre di Marco Aurelio e la già citata quadriga di S. Marco sono esempi di dorature miste: oro in foglia e spalmato a mercurio convivono per conferire ai monumenti lo splendore che li caratterizza. Nota generale sulla tecnica della scultura, scrita – con Giambologna – a la escoultorescho mal pratica nel escrivere, da Raffaele Mondazzi, 2005.* * Giambologna: chiusa della lettera ad Antonio Serguidi segretario del Granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, Firenze 1585 in Giambologna: gli dei, gli eroi, a cura di B. Paolozzi Strozzi e D. Zikos, Firenze, Giunti, 2006. Cronologia della vita e delle opere di Edoardo Rubino a cura di ARMANDO AUDOLI e MONICA TOMIATO 187 1871 Nasce a Torino l’8 dicembre dal vercellese Eusebio Rubino e da Lucia Flogna. La famiglia è di modesta condizione economica. 1886 -1889 Frequenta, presso l’Accademia Albertina, i corsi serali di Plastica ornamentale tenuti da Luigi Belli. 1888 -1891 È ammesso al corso superiore di Scultura dell’Accademia, dove è allievo di Odoardo Tabacchi. Segue con profitto i corsi, conseguendo già nel 1888 menzioni per la Plastica ornamentale dalla fotografia e per il Disegno di figura; nel 1889 è premiato nei concorsi interni di Scultura e di Plastica ornamentale e nel 1891 vince il concorso triennale istituito dalla fondazione Agodino per allievi intagliatori di legno. 1892 Espone un Gruppetto in bronzo e una Testina all’esposizione cinquantenaria di arte moderna della Società Promotrice delle Belle Arti (aprile-luglio). Dichiara la propria residenza in via Accademia Albertina 4. 1894 Presenta Sera (terracotta), una Testina in bronzo e un Ritratto in gesso alla LIII esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti. 1895 Espone una Testina in terracotta alla mostra annuale della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino. 1896 Si tiene a Torino la Prima Esposizione Triennale di Belle Arti. Rubino riproduce ad acquaforte due delle opere in mostra: il dipinto Il Re Sole di Gaetano Previati e il modello del Monumento sepolcrale a Sebastiano Grandis di Leonardo Bistolfi. La rivista “La Triennale” pubblica entrambe le incisioni. La Promotrice acquista la mezza figura in bronzo della Biondina. 1898 L’architetto Carlo Ceppi gli affida l’esecuzione del gruppo allegorico della Dora per la Fontana dei mesi costruita al Valentino in occasione dell’Esposizione 189 Nazionale di Torino. In collaborazione con Cesare Biscarra modella anche la Sirena al centro della vasca e i gruppi della Pace e della Guerra (non più in loco). Entra a far parte della Società Amici dell’Arte ed è membro del comitato della Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti. Realizza la lapide per Jeanne PoggioDien (1878-1898). All’Esposizione Nazionale di Torino presenta il busto femminile idealizzato Heroina. 190 1899 Trasferisce il suo studio dai prati di via Catania a via Montebello 21. Espone alla Promotrice il busto in bronzo Costume di Gressoney, acquistato dal Museo Civico torinese e partecipa all’Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Realizza la cartolina ufficiale e la medaglia commemorativa dell’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II a Torino. Esegue la medaglia offerta ad Alberto Gamba per i quarantaquattro anni di insegnamento all’Accademia Albertina. 1900 Realizza la copertina del volume Caricature di Teja, curato da Augusto Ferrero, e inizia a lavorare alle illustrazioni del testo di Guido Rey intitolato Il monte Cervino e pubblicato da Ulrico Hoepli nel 1904. Scolpisce il bassorilievo per la Tomba Golzio al Cimitero Monumentale di Torino. Entra nel comitato direttivo del Circolo degli Artisti di Torino, dove espone una Figurina in bronzo ed argento con orologio alla XLII esposizione della Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti. Esegue un grande busto di Vittorio Emanuele III (appena salito al trono), gettato in bronzo dall’amico Corrado Betta. 1901 Ottiene l’incarico per l’esecuzione del Monumento a Casimiro Teja a Torino, inaugurato nel gennaio 1904. Conosce Auguste Rodin in visita a Torino. Inizia la collaborazione con la rivista romana “Novissima”, diretta da Edoardo De Fonseca. Esegue la medaglia commemorativa del centenario della nascita di Vincenzo Gioberti. 1902 Realizza i sei colossali gruppi decorativi della Danza per la Rotonda d’onore dell’Esposizione Universale che si tiene a Torino nel 1902; modella anche due statue raffiguranti La Pittura e La Scultura poste all’ingresso dell’Esposizione. Benché fuori concorso le opere sono premiate con la medaglia d’oro. Alla mostra Quadriennale della Promotrice presenta La giovinetta di Nazareth (Madonnina), acquistata dal Museo Civico, e un Ritratto di Bambina (riprodotto sulla rivista “Emporium”). È probabilmente in quest’anno che sposta lo studio in via Napione 41, dove rimarrà per una decina d’anni. Vince intanto il concorso per il monumento ad Umberto I ad Aosta. Esegue la placchetta per la Società Fotografica Subalpina, «a ricordo de l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica». La rivista “L’arte decorativa moderna” pubblica il bozzetto per il Monumento funebre a Benedetto Brin (non realizzato). Esegue la placchetta commemorativa per l’ingegnere Leone Mariani e quella per lo scultore Davide Calandra. 1903 Presenta il bozzetto per il Monumento a Federico Sclopis; porta a termine il Monumento a Umberto I per Aosta e la Tomba Bidasio nel Cimitero di Ivrea. Espone alcune opere nella seconda mostra latinoamericana (Buenos-Aires, Montevideo, Valparaiso) del collezionista e mercante mantovano Ferruccio Stefani: la testina in marmo Gelosa, la coppa per il Concorso Ippico Internazionale (bronzo, giugno 1902), Preghiera (bronzo), un reliquiario in bronzo argentato e quattro placchette in gesso. Su commissione dell’Associazione della Stampa Subalpina crea una targa dedicata al tenore Francesco Tamagno, fusa in argento dal gioielliere torinese Musy. Esegue la placchetta offerta ad Alfonso Badini-Confalonieri. Sulle pagine del primo numero della seconda annata de “L’arte decorativa moderna” (p. 27) Rubino è presente con un magnifico orologio in bronzo. 1904 Riceve la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia. Per il Cimitero Monumentale scolpisce la lapide della Tomba Lenti. Realizza la placchette per la 300ª edizione del libro Cuore di Edmondo De Amicis e per il giubileo scolastico di Camillo Bozzolo, nonché la medaglia commemorativa del 5º centenario dell’Università di Torino. Esegue il bassorilievo per un quadro fotografico dei laureandi ingegneri e dei laureandi in chimica. Nella quarta uscita della seconda annata de “L’arte decorativa moderna” (p. 127) viene pubblicata una lampada elettrica in bronzo di Rubino. 1905 È inaugurato il Monumento Sclopis. All’Esposizione Biennale d’Arte di Venezia presenta il bassorilievo decorativo Fiamma, il modello della coppa per il Concorso Ippico Internazionale di Torino (giugno 1902), la targhetta in argento Preghiera, la medaglia in argento Ricordo e il modello di un’altra medaglia. Vittorio Pica ha parole di apprezzamento per Fiamma nel testo su L’arte mondiale alla VI Esposizione di Venezia, mentre Enrico Thovez pubblica sul settimo numero della seconda annata de “L’Arte decorativa moderna” un articolo dal titolo Placchette medaglie e monumenti di Edoardo Rubino. Sempre sullo stesso numero de “L’arte decorativa moderna” viene riprodotta la statua mitologica di Igea, dedicata al professore d’igiene Icilio Guareschi. Nel corso dell’anno si reca a Londra. Risalgono a quest’anno, inoltre, le prime testimonianze epistolari superstiti del rapporto con Spirito Luciano, titolare (a Querceta, in Versilia) dell’omonimo laboratorio, dove verranno tradotte in marmo le più impegnative opere monumentali di Rubino. Il lungo sodalizio amicale e lavorativo con Luciano si suppone iniziato, con buona probabilità, già intorno al 1900. 1906 È membro del comitato per la commemorazione bicentenaria di Pietro Micca e del- 191 l’assedio di Torino del 1706. Per un salone della villa torinese dei conti Frigerio (di origine veneta) realizza il rilievo per camino Ignem in sinu abscondas, fuso in bronzo. Esegue una medaglia in onore di Carlo Cipolla, coniata in occasione del trasferimento dello stesso, già da venticinque anni professore ordinario di storia moderna presso l’ateneo torinese, alla facoltà di lettere dell’Università di Firenze. 192 1907 Vince il concorso per il Monumento ad Alessandro Vittoria a Trento e termina il bassorilievo Verso la Pace per la Tomba Boido al Cimitero Monumentale di Torino, lodato da Emilio Ferrettini sulla “Gazzetta del Popolo” (1/11/1907, p. 4). Alla Biennale di Venezia espone Driade, il bronzo Salome (fuso da Menzio) e il ritratto in bronzo della Signora C.A.B. Si reca per la prima volta a Roma assieme a Davide Calandra, con il quale partecipa al concorso internazionale per l’esecuzione del Monumento al Generale Bartolomé Mitre. Esegue, su incarico del sindacato dei giornalisti torinesi, il piccolo ritratto a figura intera della violinista prodigio Vivien Chartres. In una lettera del 30 gennaio, indirizzata a Spirito Luciano, lamenta la morte dell’avvocato Mattirolo (definito «un grande amico e un padre»). 1908 Vince il concorso per il Monumento Mitre e a luglio si reca a Buenos Aires con Calandra per definire i particolari dell’opera. Il 4 settembre riceve la nomina a membro onorario dell’Academia de Bellas Artes di Buenos Aires. E. Ferrettini scrive sulla “Gazzetta del Popolo” (1/11/1908, p. 4) che Rubino va compiendo «continui progressi… che si riverberano anche nell’originalità della concezione» delle nuove sculture eseguite per il Cimitero Monumentale di Torino (effigi di Teresa Curione e Ida Alfieri). 1909 Comincia a lavorare al Monumento a Edmondo De Amicis e ai rilievi per la Confetteria Baratti & Milano; il progetto di ristrutturazione dei locali è dell’architetto Giulio Casanova, collaboratore di Rubino anche in altre imprese decorative portate a termine negli anni successivi, a partire dal nuovo Palazzo delle Poste di Torino. A Trento si inaugura il Monumento ad Alessandro Vittoria. 1910 Espone alla Promotrice il calco della Vittoria alata per il Vittoriano di Roma. Termina il bassorilievo per la Tomba Del Mastro al Cimitero Monumentale di Torino e l’altorilievo bronzeo della Tomba Maggia nel Cimitero di Oropa. 1911 Ad aprile è inaugurato il Palazzo delle Poste: sono di Rubino le due statue femminili ai lati dell’ingresso principale e i sei bassorilievi con figure alate nell’atrio. Per il Cimitero Monumentale realizza il gruppo bronzeo posto sulla Tomba Girardi. Disegna la copertina per l’Amante ignoto di Amalia Guglielminetti. Per l’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro crea una placca bronzea, fusa in diverse misure e usata come diploma d’onore oppure come gran premio. È membro del Consiglio direttivo del Museo Civico di Torino per la sezione d’Arte Moderna nel biennio 1911-12. 1912 È membro della Commissione edilizia di Torino. Invia La consolatrice alla X Esposizione Biennale d’Arte di Venezia. Per il Cimitero Monumentale di Torino realizza le sculture delle tombe Remondini e Porcheddu; ad attirare l’attenzione della critica è soprattutto quest’ultima. Sulla “Gazzetta del Popolo” (31/10/1912, p. 5) Ferrettini loda la qualità dell’esecuzione e la delicata gestualità delle figure che circondano la defunta. Paolo Cesare Rinaudo lo intervista per conto della rivista torinese “Il Prisma”. Realizza la lapide per il piccolo Alberto Treves De Bonfili (25 giugno 1912 - 12 luglio 1912) 1913 È membro del Comitato Esecutivo della II Esposizione Internazionale Femminile di Belle Arti. Presenta un bozzetto al concorso per il Monumento a don Bosco, vinto da Gaetano Cellini. Realizza la medaglia commemorativa del 50° anniversario del Club Alpino Italiano e La Deposizione a bassorilievo per la Tomba Cridis. Termina il monumento sepolcrale Rosetti (La famiglia) per il Cimitero Monumentale di Milano, eseguito in collaborazione col Laboratorio Luciano; i bombardamenti del 1943 hanno colpito gravemente la tomba, che non è stata restaurata a nostra e futura memoria. 1914 Realizza la placchetta per la sezione torinese del Club Alpino Italiano. È eletto Consigliere comunale nelle liste del partito liberale e torna a ricoprire, fino al 1921, la carica di membro del Consiglio direttivo del Museo Civico di Torino per la sezione d’Arte Moderna (nomina rinnovata negli anni 1925-27 e 1936-39). Comincia a lavorare alla decorazione plastica della facciata della nuova palazzina della Promotrice delle Belle Arti di Torino, terminata nel 1916 e inaugurata il 1° ottobre del 1919. 1915 Termina il gruppo Credito e Beneficenza per il Palazzo dell’Energia elettrica di via Bertola, a Torino, inaugurato nel 1928. Vittorio Emanuele III lo incarica di terminare il Monumento a Umberto I per Roma, rimasto incompiuto in seguito alla morte di Davide Calandra (inaugurato nel 1926). Il 18 ottobre commemora la figura di Calandra in Consiglio comunale. 1916 Acquista la casa di via Asti 15-17, dove stabilisce definitivamente residenza e studio. Entra a far parte dell’Associazione Pro Torino e del Consiglio del Comitato Italo Americano. È nominato Presidente della Scuola Serale di Commercio. 193 1917 È professore aggiunto al corso di scultura di Cesare Zocchi all’Accademia Albertina. Realizza, insieme a Giulio Casanova, il monumento funebre per Carolina Invernizio al Cimitero Monumentale di Torino. 194 1919 È membro della commissione del concorso per la Fontana Angelica di Torino, vinto da Giovanni Riva. Termina il gruppo marmoreo per la Tomba Gambaro al Cimitero di Torino. Espone alla Promotrice il bronzo Ritratto di adolescente, un gesso preparatorio per la Tomba Rosetti di Milano e - nella sezione Arte cristiana - La pietà, targa in bronzo, e un disegno raffigurante Cristo morto. È insegnante di Materie artistiche nella ex scuola di Architettura del Regio Politecnico (fino al 1921). Il 19 luglio riceve la nomina a membro della Reale Accademia di San Luca in Roma. 1920 È nominato Preside dell’Istituto Professionale Operaio, Vice presidente della Regia Scuola Industriale e membro della Giunta di Vigilanza dell’Istituto tecnico Sommeiller. Il 22 gennaio è nominato Accademico di merito per la classe di Scultura dell’Accademia Ligustica di Belle Arti. Per la Confetteria Romana-Bass di Torino realizza il bassorilievo bronzeo della facciata e una statuetta nello stesso materiale per il banco interno. 1921 Espone tre ritratti femminili, tra cui quello di Maria Sciamengo Remmert, alla prima Biennale d’Arte di Roma. È membro della commissione giudicatrice del concorso per il monumento nel Piazzale della Vittoria sul monte Berico a Vicenza. 1923 Viene inaugurato il Monumento a De Amicis (terminato probabilmente già nel 1914). Ernesto Quadrone visita lo studio e accenna ai molti ritratti fatti «negli ultimi tempi» da Rubino, che lavora «dieci ore al giorno e in letizia» dedicandosi alle figure del Monumento Mitre. Riceve la commissione per il Monumento ai Caduti di Novi Ligure, inaugurato nel 1928. 1924 Il 20 marzo è nominato - senza concorso - titolare della cattedra di scultura e plastica della figura all’Accademia Albertina, incarico che ricoprirà fino al 1936. È premiato con la medaglia d’oro alla Mostra del ritratto femminile di Monza. Alla Promotrice di Torino espone Maschera di Medusa. È membro del Collegio dei Probiviri della Promotrice. Termina il Monumento al generale José Maria Cabal per la città di Buga, in Colombia. Esegue una medaglia in onore di Giovanni Agnelli. 1925 È incaricato dell’esecuzione del Monumento al Carabiniere a Torino. Fa parte del Consiglio Direttivo della XV Biennale di Venezia e del comitato permanente per l’organizzazione del Salone Internazionale di Arte fotografica di Torino. 1927 Si reca a Buenos Aires per l’inaugurazione del Monumento Mitre. Realizza la medaglia commemorativa del 1° centenario della Cassa di Risparmio di Torino. 195 1928 Il 24 maggio viene inaugurato il Faro della Vittoria sul Colle della Maddalena a Torino; un particolare in gesso è esposto alla Promotrice. Alla Biennale di Venezia presenta la statua di Vittoria realizzata nel dopoguerra per il Palazzo delle Poste di Torino. Termina il busto di Teofilo Rossi di Montelera collocato nei Giardini Reali di Torino. Viene eletto Presidente del Circolo degli Artisti, ma mantiene la carica per pochi mesi a causa dei numerosi impegni di lavoro. Il re Vittorio Emanuele III visita il suo studio. 1929 Espone alla Promotrice un’effige del Principe di Piemonte. 1930 Realizza la figura della Tomba Chiesa al Cimitero Monumentale di Milano e la lapide in memoria del Cardinale Gamba nel Duomo di Torino. Il Comune di Novi Ligure lo insignisce della cittadinanza onoraria. 1931 Il 31 agosto sono inaugurati i due medaglioni marmorei con le effigi del Re Umberto I e della Regina Margherita, posti nell’atrio dell’Ospedale Mauriziano di Torino. Realizza la medaglia ufficiale delle nozze del Principe Umberto e Maria José. 1933 Il 9 dicembre è nominato Senatore; presta giuramento il 20 dicembre. Il 17 febbraio è nominato Accademico di merito corrispondente della “Pontificia insigne Accademia dei virtuosi al Pantheon”. È chiamato a far parte della giuria del concorso per il Monumento al Duca d’Aosta. Termina i bassorilievi raffiguranti La navicella degli Apostoli ed Elia rapito al cielo sul carro di fuoco per la nuova stazione ferroviaria della Città del Vaticano. Viene inaugurato il Monumento al Carabiniere: Rubino realizza la medaglia commemorativa. 1934 Espone Il risveglio alla Biennale di Venezia. È membro della giuria del concorso per il Monumento al Duca d’Aosta. 1937 Per la chiesa di S. Edoardo a Sèstrieres realizza su commissione della famiglia Agnelli una Madonna Addolorata in marmo rosa di Gandolia e l’altare sormontato da un Cristo Crocifisso marmoreo. Sempre nel marmo esegue altre due grandi statue di Cristo Crocifisso per le chiese di S. Pietro in Vincoli e di S. Aniceta a Villar Perosa. È chiamato a far parte della commissione giudicatrice del concorso per le statue del Po e della Dora per via Roma, a Torino. 196 1938 Il marmo Il risveglio è esposto alla Promotrice. Comincia a lavorare alla Tomba di Alice Schanzer per la cappella Galimberti a Cuneo (terminata nel 1940). Dovrebbe risalire alla fine degli anni Trenta la commissione della statua equestre di Mussolini (Il genio del fascismo) per la centrale idroelettrica di Ponte Gardena in Trentino (distrutta). Lo scultore Rodolfo Castellana gli succede nella carica di segretario interprovinciale per le Belle Arti del Piemonte. 1939 Il 17 aprile è nominato membro della Commissione dell’educazione nazionale e della cultura popolare (fino al 5 agosto 1943) e della Commissione dei lavori pubblici e delle comunicazioni (fino al 28 gennaio 1940). 1940 Realizza per il cortile del Palazzo del Senato a Roma un’opera in marmo, La proclamazione dell’Impero, probabilmente distrutta nel dopoguerra. Il Toro in pietra che simboleggia Torino è donato alla città di Tokio in occasione della visita della Missione Giapponese. Vengono inaugurate due sculture per la chiesa torinese della Gran Madre di Dio: il Sacro Cuore e il Cristo crocifisso. 1941 La Provincia di Torino acquista il busto femminile in bronzo esposto alla Promotrice. Concepisce il Monumento a Pio XI (per il Palazzo delle Congregazioni a Roma), realizzato in marmo da Emilio Buratti, continuatore, a Querceta, dell’attività del Laboratorio Luciano. 1942 La XXIII Esposizione Biennale di Venezia gli dedica una sala personale. Espone La madre, Speranza, Ritratto di Eva, Ritratto di N.R.R., Ritratto d’uomo, Ritratto di B.A., Ritratto di C.R.M., Cavallo (bozzetto) e lo studio per il Toro. Realizza, in marmo, la statua di Edoardo Agnelli in costume da sciatore, ora presso il Museo Nazionale della Montagna, a Torino. In una lettera, datata 10 novembre, accenna all’idea di un busto da offrire in dono all’amico Luigi Frugone, collezionista e imprenditore genovese. Rimandata a «momenti meno agitati», l’idea verrà ripresa dallo scultore a guerra finita. 1944 Il 15 ottobre, in via Carlo Alberto (quasi all’angolo della piazza omonima), viene posta la lapide in ricordo del soggiorno torinese di Friedrich Nietzsche: all’inter- no di essa figura un testo dettato dal critico teatrale de “La Stampa” Francesco Bernardelli e un medaglione in bronzo con il ritratto del filosofo, eseguito da Rubino. Termina la tomba di Luigi Frugone e Giuseppina Ferrari per il Cimitero Monumentale di Staglieno, a Genova. 1945 Porta a termine il modello in gesso dell’Altare di San Giovanni Bosco. 1946 Il collezionista genovese Luigi Frugone esprime a Rubino «sentimenti di gratitudine e di lusinga» riguardo al «noto busto», riservandosi di ragionarci sopra in occasione della prossima visita a Torino, per la quale prova «vero desiderio perché il nostro incontro mi ha sempre procurato piacere e soddisfazione». 1947 Termina il ritratto di Luigi Frugone. Esegue il rilievo della Tomba di Duccio Galimberti nella cappella Galimberti alla Madonna degli Angeli di Cuneo e il grande busto in marmo di Giovanni Agnelli per il palazzo di Torino Esposizioni. 1949 Entro l’anno termina il gruppo L’Energia domata per la centrale idroelettrica di Glorenza in Trentino. In ottobre si reca a Rovereto per ammirare La Preda (marmo) di Carlo Fait, opera che giudica «di grande interesse per l’energia di espressione manifesta in tutte le sue parti, per i caratteri che la distinguono, per lo studio anatomico che lo scultore ha saputo con tanta evidenza rendere, superando le moltissime difficoltà con una magistrale lavorazione». 1953 Realizza la decorazione plastica della Tomba Casari al Cimitero Monumentale di Torino. 1954 Il 26 gennaio muore a Torino, stroncato da un’angina pectoris, mentre sta lavorando alla statua di Francesco Ruffini per il Palazzo dell’Università. Lascia incompiuto l’Altare del Sacro Cuore per il Duomo di Milano, tradotto in marmo dal bozzetto autografo dopo la sua morte. Vittorio Viale sceglie le opere legate al Museo Civico torinese. 1958 A Ripa di Seravezza (in piazza Europa) si inaugura, postumo, il Monumento alla Linea Gotica (tre statue in cemento: un uomo affiancato da due donne, su base in travertino), realizzato in collaborazione con l’architetto Lorenzo Jacopi e con lo scultore Abele Jacopi. 197 Bibliografia consultata Scultura monumentale e plastica decorativa, Torino, s.l., s.d. E. Thovez, Il concorso per una tomba-monumento a Benedetto Brin, in “L’arte decorativa moderna”, Anno I, n. 2, febbraio 1902. F. Stefani Exposiciones de Arte (Buenos-Aires, Montevideo, Valparaiso), Catálogo de la II Exposicion, Milano, Alfieri & Lacroix, 1903 E. Thovez, Placchette, medaglie e monumenti di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Anno II, n. 7, 1905. M. 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