Gypsum silente - Galleria Benappi

Transcript

Gypsum silente - Galleria Benappi
Gypsum silente
Gypsum silente
Via Andrea Doria 10, Torino
Antichità Sibona
Via Bernardino Galliari 37, Torino
35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino
La Bottega di San Luca - Benappi
35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino
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Gypsum silente
Gypsum silente
35 sculture dallo studio di Edoardo Rubino
catalogo della mostra
a cura di
ARMANDO AUDOLI
SANDRA BERRESFORD
MONICA TOMIATO
testi di
ARMANDO AUDOLI
SANDRA BERRESFORD
RAFFAELE MONDAZZI
MONICA TOMIATO
La Bottega di San Luca-Benappi
Antichità Sibona
Questo catalogo è stato ideato per la mostra Gypsum silente - 35 sculture dallo
studio di Edoardo Rubino, 25 settembre - 15 novembre 2008, ospitata dalla
Bottega di San Luca - Benappi, via Andrea Doria 10, Torino e realizzata in collaborazione con Antichità Sibona, Torino.
Il nucleo delle 35 sculture provenienti dallo studio di Edoardo Rubino è in via di
acquisizione da parte della Regione Piemonte.
La Bottega di San Luca s.a.s di M. Benappi & C., via Andrea Doria 10, 10123 Torino
Tel. +39 011 812 73 58 - e-mail: [email protected] - www.labottegadisanluca.it
Antichità Sibona & C. s.a.s., via Bernardino Galliari 37, 10125 Torino
Tel. +39 335 527 00 41
Si ringraziano per cortesia e disponibilità:
Marco Albera, Piero Bassani, Virginia Bertone, Andrea Bistolfi, Dimitri Brunetti, Caffè
Baratti & Milano, Walter Canavesio, Chiara Celli, Renato Columba, Laura Facchin,
Robert Freidus, Bruno Giordano, Maria Flora Giubilei, Maria Mimita Lamberti, Museo
dei Bozzetti (Pietrasanta), Alessandra La Terra, Clotilde e Lidia Luciano, fratelli Macrì,
Albina Malerba, Fausto Mosca, Paolo Pinamonti, Posteitaliane filiale di Torino, Mauro
Scienza.
Un affettuoso ringraziamento a Franca Dalmasso, sempre disponibile nei suoi preziosi
consigli e un sincero atto di gratitudine a Pino Mantovani.
Riprese fotografiche:
Studio Gaidano, Torino
Giorgio Olivero, Torino
Referenze fotografiche:
Archivio Eredi Rubino, Torino
Archivio fotografico Museo dei Bozzetti, Pietrasanta
Archivio fotografico di Edison S.p.A. Gestione Idroelettrica, Bolzano
Archivio Luciano, Torino
Armando Audoli, Torino
Sandra Berresford, Ameglia
Alessandro Caldana, Torino
Robert Freidus, Londra
Giorgio Stella, Torino
Traduzioni:
Sandra Berresford
Coordinamento grafico:
Santo Alligo
Allestimento:
Arch. Germano Tagliasacchi
Restauro dei gessi:
Gipsoteca, Torino
“Scuola per Artigiani e Restauratori Maria Luisa Rossi”, Torino
La Galleria è a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non
sia stato possibile rintracciare.
Sommario
Premessa
Preface
pag. 11
pag. 13
Frammenti di un patrimonio d’arte: i gessi di Edoardo Rubino
Fragments of Artistic Heritage: the Plaster Casts and Models of Edoardo Rubino
Monica Tomiato
pag. 15
pag. 21
L’enigma Rubino. Questioni aperte sulla fisionomia di uno scultore
europeo tra arte e letteratura
The Rubino Enigma. Reflections on the Physiognomy of a European
Sculptor in an Artistic and Literary Context
Armando Audoli
Edoardo Rubino e il Laboratorio Luciano: storia di una collaborazione
Edoardo Rubino and the Luciano Studio: the Story of a Partnership
Sandra Berresford
pag. 25
pag. 57
pag. 75
pag. 93
Catalogo delle opere
Monica Tomiato
pag. 103
Nota sul restauro delle opere
pag. 167
Procedimenti tecnici e modalità operative nella scultura italiana
tra Otto e Novecento
Raffaele Mondazzi
pag. 169
Cronologia della vita e delle opere di Edoardo Rubino
pag. 187
Bibliografia consultata
pag. 197
Premessa
Quando tempo fa l’amico Pierluigi ci prospettò l’ipotesi dell’acquisto dell’atelier di Edoardo Rubino, inutile nascondere che, nonostante si fosse pigramente in
vacanza, i sensi si risvegliarono, l’adrenalina salì e la risposta fu: checosaspettidattidafare.
Di fatto era Pierluigi che stava lavorando e la risposta che poteva apparire un
po’ brutale, con connotazione da basso profilo mercantile, nella realtà, fu quella
in ragione di quello stato d’ansia che si pone ogniqualvolta si teme che vari impedimenti possano alterare il buon esito di un’operazione. E, in tutta sincerità, l’operazione era certamente di tipo mercantile ma i pensieri che seguirono immediatamente la proposta erano rivolti al fatto che si stava smembrando uno degli ultimi studi torinesi di scultura di primo ’900 e che sarebbe stato veramente un peccato, una volta acquisitolo, disperdere le testimonianze rimaste, senza prima
almeno tentare una ricognizione di quel materiale. Si trattava delle testimonianze
delle opere in gesso rimaste fino ad allora nell’atelier torinese. Fu necessaria una
scelta delle sculture ma, fortunatamente, fu piuttosto generosa; meglio non si potè
fare, ma poco rimase ancora appeso. Ci trovammo di fronte a un cospicuo numero
di sculture che recavano i segni di anni e anni trascorsi nell’abbandono più totale, sporche, mute, alcune un po’ rotte e, soprattutto di gesso, mach ëd giss, solo di
gesso, come avrebbe detto qualche vecchio torinese non particolarmente illuminato.
A dispetto di ogni antiquato preconcetto si misero in moto tutti i meccanismi
necessari per poter far rivivere le sculture, ridare loro la dignità per la quale furono create e capire o, quantomeno tentare di scoprire qualcosa in più del loro artefice, la cui figura, a parte qualche indagine sporadica, non era mai emersa a tutto
tondo. L’idea di una mostra che si muovesse dallo spunto dell’idea d’atelier nacque all’unisono. In fondo si trattava di affrontare prima il restauro e poi lo studio
delle opere, unito all’indagine di un artista affatto estroverso.
Con un’intima scommessa demmo inizio all’avventura con le forze delle due
gallerie. E qui, senza falsi pudori o sbavature di autoincensamenti, vorremmo
veramente spezzare una lancia a favore di chi, come noi, piccole, anzi piccolissime istituzioni private, crede in un lavoro serio, dove il mercato può scrollarsi di
dosso quell’ormai obsoleto fardello di un’accezione negativa quanto controproducente che tanto ha condizionato il mondo dell’arte. E se è pur vero che talvolta le
ragioni ci sono state – i più vecchi e ahimè, bisogna dirlo, grandi antiquari o mercanti d’arte spesso non andavano certo per il sottile – ci auguriamo che i nostri
sforzi aiutino a creare una generazione sempre più attenta al rigore, alla qualità,
al confronto e, perché no alle emozioni. Certamente se i grandi antiquari di un
tempo non andavano per il sottile, oggi, il dilagante protagonismo dell’arte
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contemporanea ubriaca del marketing più spregiudicato non è da meno, compromettendo qualità e ricerca ma, evidentemente, “business is business”.
Si parlava di restauro, e il restauro è stato lungo, pensato, dibattuto; grazie
alle preziosa collaborazione di Raffaele Mondazzi da una parte e alla competenza
e sensibilità di Fausto Mosca che ha diretto in modo impeccabile i ragazzi della
“Scuola per Artigiani e Restauratori Maria Luisa Rossi” di Torino; si parlava di
indagine storico-artistica e l’indagine c’è stata, non certamente esaurita negli esiti
prodotti, come non era negli intenti, ma indubitabilmente condotta con molto
entusiasmo; all’inizio, spesso, un po’ perplessi e spaventati dall’incognita e poi,
via via, a mettere tasselli che, come per magia, affioravano dal cilindro degli autori dei testi. Che si trattasse di magia o di più semplice perseveranza, ma ci piace
credere a tutte e due, l’avventura è giunta al termine, grazie a tutti coloro che ci
hanno creduto; Edoardo Rubino, scultore italiano nato a Torino, non appare più
così enigmatico e anche le sue impronte impresse nel gesso ci hanno trasmesso
una sottile emozione. Altrimenti non ci avremmo creduto.
Nadia Benappi
Preface
When, some time ago, our friend Pierluigi proposed purchasing Edoardo
Rubino’s atelier, it would be useless to deny that, although we were lazing on the
beach at the time, our instincts were awakened, the adrenalin rushed and we
answered «what-are-you-waiting-for?get-on-with-it!».
In actual fact Pierluigi was already on the job and our reply, which may seem
a little abrupt, almost too mercenary, in fact depended on a state of anxiety that
always accompanies such transactions and the fear that something or other may go
wrong at the last moment. To be perfectly honest, it certainly was a commercial
transaction but we were also immediately struck by the fact that one of the very
last important early 20thC sculpture studios in Turin was being split up and that
it would have been a great pity, once the sale had gone through, to have dispersed
what testimony remained before having tried, at the very least, to first identify
exactly what there was. We were confronted with a collection of gessi (plaster models and casts) which had remained in Rubino’s Turin atelier. We had to choose
among these works but we were lucky enough to be able to take a good many and
just a few were left hanging. In the end we had a considerable number of Rubino’s
works which had lingered for years and years in total abandon, dirty, silent, some
a bit broken, and, above all, made of that “poor man’s” material gesso or plaster,
«mach ëd giss»/«nothing but plaster» as some old, and not particularly enlightened, resident of Turin might have said.
But we ignored antiquated preconceptions of this nature and forged on, setting into motion all measures necessary to bring the sculptures back to life, to
restore their dignity of purpose, and to understand their creator, or at least try to
discover something more about him, since he had been the subject of but sporadic
investigation and certainly had yet to emerge in all his depth. We all agreed that
it would be a great idea to put on an exhibition taking the sculptor’s atelier as our
starting point. Firstly, the works would have to be restored, of course, and then
studied alongside their creator, who was anything but extrovert.
The two galleries united their forces to take on this venture together. In this
context, though we should hate to be accused either of false modesty nor, indeed,
of “blowing our own trumpet”, we should like to say a word in favour of small, even
tiny, private galleries that are seriously committed to their work; it is high time that
such galleries cast off the obsolete burden of criticism, as negative as it is counterproductive, associated with their mercantile activities, which has so conditioned the world of art.
And though it must be admitted that sometimes such criticism was justified –
some of the greatest antique and art dealers were none too choosy – we hope that
our efforts will help to create a more rigorous younger generation, heedful of qual-
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ity, comparison and, why not, emotions? Certainly, if the great antique dealers of
the past were none too choosy, nowadays the stage has been taken by contemporary art, inebriated with the most ruthless marketing, which no less compromises
quality and research… but evidently “business is business”.
We mentioned restoration and this was, indeed, thought out, debated at length
and painstakingly drawn out; thanks to the precious contribution of Raffaele
Mondazzi, on the one hand, and, on the other, to the competence and sensibility
of Fausto Mosca who impeccably supervised the work of the students from the
“Maria Luisa Rossi School for Craftsmen and Restorers” in Turin. We also spoke
of art historical research and this, too, was undertaken, with great enthusiasm,
even if it is not, nor was it our intention that it should be, exhaustive. We started
out a bit perplexed, daunted by the unknown but then, step by step, the pieces of
the puzzle started to fall into place as if by magic, “pulled out of the hat” by the
authors of the texts. Whether it was magic or sheer perseverance we cannot say
but perhaps it was a bit of both, and now we have reached the end of our venture
thanks to all those who believed in it.
Edoardo Rubino, an Italian sculptor born in Turin, no longer seems quite so
enigmatic and the traces of his fingerprints in the gesso have squeezed their way
into our emotions.
Had we not been emotively as well as intellectually involved, we would never
have believed we could “bring it off”.
Nadia Benappi
Frammenti di un patrimonio d’arte:
i gessi di Edoardo Rubino
MONICA TOMIATO
«Gentile Signora,
Ho sentito in tutto il suo alto, commovente significato la prova di affettuosa
considerazione che il grande, caro Amico Rubino mi ha dimostrato consentendomi di scegliere, fra le opere del suo studio, quelle che ritenessi più convenienti e
significative per rappresentare al Museo Civico, da Lui tanto amato, la Sua scultura».
Così Vittorio Viale, Direttore dei Musei Civici torinesi, si rivolgeva alla nipote dello scultore, Lucia Bernardi Tua, in una lettera datata 3 maggio 1954.
Erano trascorsi pochi mesi appena dalla morte di Rubino e Viale, cui era toccato il compito di selezionare le opere che l’artista aveva voluto donare alle collezioni civiche, non nascondeva la difficoltà dell’operazione: «E mi vorrà perdonare se per la scelta che mi toccava fare ho impiegato un certo tempo: era in realtà
ben ardua per me una scelta fra tante opere importanti e, sotto questo o quel
riguardo, tutte di alta significazione per rappresentare l’arte di Rubino!».1
Un imbarazzo più che comprensibile se si pensa alla quantità di oggetti conservati nell’atelier dell’artista. L’elenco allora stilato da Viale registra la presenza
di 70 gessi di varie dimensioni nello studio di via Asti, a Torino, più altri 6 suddivisi tra il magazzino di via Cinzano e Villar Perosa.2
A fronte di tanto materiale il numero limitato delle opere che il Museo avrebbe potuto acquisire e consegnare alla fruizione pubblica imponeva una scelta davvero ponderata. A complicare le cose c’era poi la palese difficoltà di ingabbiare in
una definizione schematica la sfaccettata produzione di Rubino, e certo non sfuggivano a Viale i rischi di un frettoloso e penalizzante etichettamento critico; preoccupazione del resto condivisa da chi Rubino l’aveva conosciuto bene, come
Marziano Bernardi, che nell’acuto e partecipe ricordo dello scultore pubblicato
nello stesso 1954 sul “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle
Arti”, denunciava la pericolosità di letture preconcette.
«Nessun artista è immune dalle impronte del proprio tempo», scriveva
Bernardi contestando le accuse di accademismo e freddezza retorica rivolte a
Rubino, bersaglio come tanti altri colleghi scultori delle polemiche che nel teso
clima culturale e politico del dopoguerra avevano investito la statuaria monumentale, finendo con l’affossare in blocco la produzione plastica “ufficiale” dell’ultimo ventennio.
«Ma se di Rubino si esaminano le opere senza la pregiudiziale di determinate (ed oggi ben note…) posizioni critiche, vi si troveranno anche […] le
impronte di una forte individualità, di un narratore conciso di fatti drammatici,
di un modellatore che della realtà sapeva dare una sintesi vigorosamente e severamente espressiva. E l’ultimo ventennio poi di codesta sua produzione fu sorprendente […]».3
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Rubino rifinisce il gesso per il monumento ad Umberto I di Aosta, 1903 ca.
(foto archivio eredi Rubino)
Era chiaro a Bernardi che all’interno dell’attività dello scultore, protrattasi
per ben sei decenni, andavano fatti necessariamente dei distinguo, ma liquidare
sbrigativamente la produzione degli ultimi vent’anni definendola senile o involutiva doveva sembrargli una forzatura che le opere stesse contraddicevano con la
loro qualità. Una qualità anche (o innanzitutto) artigianale, «nobilmente, simbolicamente artigianale». Perché al di là dell’inevitabile modificarsi del linguaggio e
delle committenze, a contraddistinguere l’arte di Rubino era proprio la concretezza del mestiere, accompagnata da una rigorosa autocritica e dall’insofferenza
verso qualsiasi faciloneria o “furbizia”.
Affiorava in quel testo – come già nel necrologio apparso su “La Stampa”
all’indomani della morte dell’artista – il sospetto che le riserve della critica riflettessero anche un’imbarazzante carenza di lettura diretta sulle opere e che troppa
attenzione fosse stata prestata a quelle più appariscenti, inevitabilmente assoggettate ad esigenze commemorative o celebrative.4 Ma Rubino non era solo l’autore
del colossale Faro della Vittoria sul Colle della Maddalena o dei monumenti a De
Amicis e al Carabiniere Reale (peraltro presenze di spicco in una città ad alta densità di monumenti pubblici come Torino); era anche l’artefice di un cospicuo
numero di monumenti funerari e sculture a soggetto sacro, opere a carattere decorativo, medaglie, placchette e ritratti.
È perciò significativo che nell’elenco delle opere scelte da Viale per il Museo
civico torinese finiscano col predominare proprio gli aspetti meno noti e vistosi
della produzione figurativa rubiniana e che anche l’attività degli anni Trenta Quaranta sia rappresentata con il dovuto rilievo. Ed è degno di nota che ad eccezione del marmo raffigurante la «bimba Luciano» (non sfuggiva a Viale la corretta identificazione del soggetto) tutte le opere elencate – bozzetti e modelli di rilievi o sculture a tutto tondo – siano in gesso.5
Spesso trascurati in passato perché realizzati con un materiale povero e deperibile, considerato meno “nobile” del marmo o del bronzo, i gessi originali serbano non meno dei bozzetti in terracotta, cera o plastilina le tracce del lavoro autografo dell’artista, che se ne serve per mettere a punto l’idea iniziale e la definizione formale dell’opera.
È direttamente sul modello in gesso che si effettuano le correzioni e le rifiniture necessarie prima di procedere alla fusione in metallo o alla trasposizione in
marmo o altro materiale durevole.
La superficie dei gessi di Rubino reca abitualmente segni di interventi “a
secco”, inequivocabile indizio di quel riflessivo e cauto procedere che per lo scultore fu un’esigenza costante, particolarmente sentita, si direbbe, negli ultimi
decenni di attività. Si potrebbero citare a titolo d’esempio diverse opere, anche tra
quelle esposte in questa occasione, ma basterà osservare la bella figura femminile della Tomba Chiesa (scheda 24) per apprezzare la finissima qualità della lavorazione.
A pensarci bene è l’artista stesso che tramanda di sé, nelle foto che lo ritraggono, un certo tipo d’immagine: quella dell’artefice interamente dedito al suo lavoro, il più delle volte raffigurato proprio mentre è intento a rifinire i modelli in
gesso delle sue opere.
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Anno dopo anno i gessi si accumulano nello studio, testimoni silenti di una
vita di lavoro. Un materiale insostituibile per poter ricostruire il corpus dell’artista, ma anche fragile ed ingombrante, soggetto a deperimento nel corso delle trasmissioni ereditarie ed ancor prima, per le cause più svariate, solo in parte riconducibili alla volontà dell’autore di evitare il rischio di speculazioni commerciali.
Alcune lettere di Guido Luciano, assiduo collaboratore di Rubino, ci mettono
sull’avviso ricordandoci i danni arrecati dalla guerra ai gessi di «Cherù» (siamo
nel 1945) o la necessità di distruggere quelli dall’iconografia “compromettente”
eseguiti nel ventennio littorio.
Lo scarso interesse della critica non ha peraltro giocato a favore della conservazione del materiale dell’atelier rubiniano. C’è da rallegrarsi per la migliore sorte
toccata alle gipsoteche di altri scultori attivi fra Otto e Novecento nel contesto
torinese come Davide Calandra e Leonardo Bistolfi, ma se si pensa al numero e
alla vitalità degli studi di scultura e dei laboratori di fonderia artistica esistenti a
Torino ancora nei primi decenni del secolo scorso, il bilancio delle perdite resta
drammatico quanto ad oggetti e documentazione.
La mostra si propone di richiamare l’attenzione su un tassello significativo
ancorché minimo di questo patrimonio d’arte maltrattato, con la speranza di sollecitare nuovi recuperi e nuove iniziative di ricognizione e di studio che possano
contribuire ad evitare altre dispersioni.
Nelle schede che seguono (alle pagine 103 - 168) e nella biografia conclusiva si è cercato di precisare la cronologia dei gessi in esame e di fornire i dati utili
per un corretto inquadramento storico delle opere finite (che non sempre si è riusciti ad identificare e a localizzare). Grazie alla generosità delle persone – studiosi, funzionari, collezionisti e appassionati – che hanno messo a disposizione notizie e materiale fotografico o documentario spesso inedito è stato possibile colmare almeno parte delle carenze d’informazione sull’attività di Rubino, restituire al
catalogo dell’artista opere andate distrutte, come la statua equestre di Mussolini
realizzata per la centrale idroelettrica di Ponte Gardena (cat. n. 28) e correggere
varie imprecisioni per quanto riguarda date e titoli di altre. Ma il lavoro di ricerca sviluppatosi attorno al piccolo nucleo di gessi recuperati è tutt’altro che concluso. L’auspicio è che possa in futuro estendersi anche ai molti disegni e schizzi
autografi di Rubino che rappresentano il momento iniziale di progettazione delle
opere plastiche (di particolare interesse quelli relativi al bassorilievo della Tomba
Boido, in parte riprodotti alla scheda 8). E chissà che questo non possa contribuire a sgombrare il terreno da certi pregiudizi tenaci sulla qualità dell’opera grafica dello scultore…
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Il Genio del Fascismo, già presso la centrale idroelettrica “Claudio Castellani”
di Ponte Gardena, opera distrutta
(archivio fotografico di Edison S.p.A. Gestione Idroelettrica Bolzano)
Note
20
1
Archivio dei Musei Civici di Torino, CAA 830, Donazioni, Pratica Rubino. Viale ricoprì la carica di Direttore dei Musei Civici dal 1930 al 1965; Rubino fu membro del Consiglio direttivo – per
la sezione d’Arte Moderna – nel biennio 1911-12 e quindi nel 1914-21, 1925-27 e 1936-39.
2
Ibid., Opere dello scultore E. Rubino esistenti nello studio, dattiloscritto.
3
Marziano Bernardi, Edoardo Rubino. 1871-1954, in “Bollettino della Società Promotrice di
Archeologia e Belle Arti”, anni 5 e 6, 1952-53 (ma 1954), pp. 229-231.
4
5
Marziano Bernardi, La morte di Edoardo Rubino, in “La Stampa”, 17 gennaio 1954, p. 3.
Archivio dei Musei Civici di Torino, CAA 830, Donazioni, Pratica Rubino. Opere di Edoardo
Rubino che il dott. Viale sceglierebbe per il Museo. Un altro elenco riguarda le opere individuate per un’eventuale mostra sull’artista, destinata a rimanere allo stato di progetto nonostante le
buone intenzioni. La maggior parte delle opere di Rubino presenti nelle collezioni della Galleria
Civica d’Arte Moderna di Torino proviene dal legato dello scultore. Quasi tutte sono conservate
attualmente nei depositi del museo.
Fragments of Artistic Heritage: the Plaster Casts
and Models of Edoardo Rubino
by MONICA TOMIATO
«Dear Madam,
I am deeply conscious of the proof of my dear friend Rubino’s consideration towards me in
letting me choose for the Civic Museum, from among the works left in his studio, those which I
hold to be most appropriate and representative of his beloved Sculpture». Vittorio Viale, Director
of Turin’s Civic Museums thus addressed the sculptor’s niece, Lucia Bernardi Tua, in a letter dated
May 3rd 1954.
Only a few months had passed since Rubino’s death and Viale, who had the task of choosing
from among the works the sculptor had wished to donate to the city’s collections, could not hide
how arduous a task this was: «He would forgive me, I’m sure, for the time it took me to make this
selection: it was, indeed, difficult for me to choose among so many important works, all of them
extremely significant for one reason or another in representing Rubino’s art!»1
He was understandably faced with an embarrassingly wide choice if one considers the sheer
quantity of objects conserved in the artist’s atelier. The list that Viale drew up contains 70 pieces,
maquettes, models and casts of various sizes in the Via Asti studio in Turin, plus six other pieces
divided between a storeroom in Via Cinzano and Villar Perosa.2
Faced with so much material, the number and range of works that the Museum could afford
to purchase for the public did indeed seem meagre. The selection was made still harder by the fact
that it was clearly difficult and restrictive to pigeonhole Rubino’s multi-faceted production and
certainly Viale was well aware of the risks involved in hastily classifying the works under this or
that critical “label”; such concern was shared by those who had known Rubino well like Marziano
Bernardi who, in a perceptive and passionate commemoration of the sculptor, published in 1954
in the “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle Arti”, denounced how very risky
it would be to make preconceived judgements about the artist’s work.
«No artist is immune to the characteristics of his or her own times», wrote Bernardi, contesting the accusations of academicism and rhetorical coldness made against Rubino, targeted, like so
many of his fellow sculptors, by polemical attacks, in the tense cultural and political climate of the
Post Second World War period, which were waged against monumental sculpture, resulting in the
ditching, in its entirety, of the “official” sculpture of the previous two decades.
«But if Rubino’s works are examined without taking prejudicial (and by now “standard”…)
critical stances, then we will find the stamp of a strong individuality, a concise narrator of dramatic events, a man capable of modelling reality in a vigorous and severely expressive synthesis. And
the last twenty years of his production were surprising […]».3
It was obvious to Bernardi that some process of fine distinction needed to be applied to the
sculptor’s œuvre, prolonged as it was over no less than six decades, but to hastily liquidate the production of the last twenty years, defining it senile or involutional must have seemed to him a preconceived interpretation and one contradicted by the quality of the works themselves. A quality
which was also, (or rather, above all) craftsman like and «nobly and symbolically» so. Because,
however much his expressive language was inevitably modified, and however much it was determined by the kind of commission, Rubino’s art was distinguished by the expertise of craftsmanship, accompanied by rigorous self criticism and intolerance of anything that reeked of superficiality or “cunning”.
In the aforesaid text – and in the obituary that appeared in “La Stampa” the day after the
artist’s death – the suspicion arose that reservations on the part of critics was due to an embarrassing lack of direct contact with and interpretation of his works and that too much attention had been
paid to the more obvious ones such as those inevitably subject to commemorative or celebrative
specifications.4 But Rubino was not just the author of the colossal Victory Beacon on the Colle della
Maddalena, of the Monument to De Amicis or to the Carabiniere Reale (significant contributions,
21
22
moreover, in a city, like Turin, full of public monuments); he was also the author of a considerable
number of funeral monuments, of religious sculpture, decorative works and medals, plaques and
portraits.
It is indicative, therefore, that among the works chosen by Viale for the Turin Civic Museum,
it is just these lesser known, less “showy” aspects of Rubino’s figurative production that predominate, alongside his activity in the 1930s and 1940s which is also given its due.
It is remarkable, too, that with the exception of the marble portrait of the «little Luciano girl»
(as Viale correctly entitled the work) all of the chosen pieces – maquettes, models in relief and in
3-dimensions – were in plaster.5 Although often ignored in the past because they are made of a
poor and perishable material, considered less “noble” than bronze or marble, original gessi conserve traces of the hand of the artist no less than maquettes in terracotta, wax or plasticine in which
the artist determines his original idea and the formal definition of his work. And the sculptor would
intervene directly on the plaster model, correcting and finishing it, before proceeding to have it
cast in bronze or carved in marble or any other more durable material. The surfaces of Rubino’s
gessi are regularly marked with signs of intervention on the dry plaster, an unequivocal indication
of that cautious and reflective creative process that the sculptor constantly required and which
seems to have made itself particularly felt in the last decades of his work.
Many examples could be cited, including several on exhibition here, but one will suffice for
all: the lovely female figure of the Chiesa Tomb (cat. n. 24) where the extremely fine quality of
workmanship may be observed.
On reflection, it is the artist himself who has transmitted a certain type of image to us, in the
various photographs that portray him: that of a craftsman entirely devoted to his work, more often
than not portrayed when intent on finishing one of his plaster models. Year after year, the plaster
maquettes, models and casts accumulated in his studio, silent witnesses of the work of a lifetime.
Material that is absolutely irreplaceable in reconstructing the corpus of his œuvre but one which is
fragile and cumbersome, subject to damage and breakages during the inevitable transfer of property from one hand to the next, or for whatever reason, only in part ascribable to the author’s wish
to avoid commercial speculation.
Several letters written by Guido Luciano, Rubino’s assiduous collaborator, put us on the alert
when they recall the damage caused by the war to the gessi of «Cherù» (we’re talking about 1945
here) or the need to destroy those executed in the Fascist period that were “compromising” in subject.
The paucity of interest shown on the part of critics for Rubino’s works has certainly not played
in favour of the conservation of the gessi from his atelier. We can at least draw some comfort from
the fact that Fate has been kinder to the collections of other sculptors active in the Turin ambience at the end of the 19thC and the beginning of the 20thC, such as Davide Calandra or Leonardo
Bistolfi. If, however, we recall the number and vitality of the sculpture studios and artistic
foundries still active in the city in the early years of the last century then the scales – both in terms
of objects and of documentation – weigh heavily in favour of dramatic losses to the detriment of
our artistic heritage.
This exhibition aims at drawing attention to a small but significant piece of this heritage that
has suffered so much mistreatment in the past, in the hope that other pieces of the puzzle will come
to light, stimulating further research and avoiding any future occurrence of such lamentable dispersion.
The catalogue entries (that follow on pages 103 - 168) and the concluding biography, attempt
to collocate the gessi in question within a precise chronological and historical framework with reference to finished works, although it has not always proved possible to date and locate them.
Thanks to the generosity of many people – researchers, collectors and enthusiasts – who have
supplied data, photographs or often unpublished documentary information, it has been at least
partially possible to fill in some of the gaps in our knowledge of Rubino’s oeuvre, to rediscover
some, like the equestrian statue of Mussolini, executed for the Hydroelectric Power Station at Ponte
Gardena (see page 19), as well as to correct various inaccuracies with regard to title and date.
Nevertheless, the research undertaken on this small nucleus of restored gessi is far from being
complete. We hope to be able to extend it to the many original drawings and sketches by Rubino,
the first stage of his sculptural works, (those relating to the bas-relief for the Boido Tomb, partly
reproduced in Catalogue entry n. 8, are particularly interesting) which are waiting to be studied
and catalogued. Who knows… perhaps this would serve to definitively eradicate certain tenacious
prejudices with regard to the quality of the sculptor’s graphic work…
23
Studio di nudo
Studio di testa
Torino, archivio eredi Rubino
Notes
Archives of the Turin Civic Museums, CAA 830, Donations, Rubino File. Viale was Director of the Civic Museums from
1930 to 1965; Rubino was a Member of the Board of Directors – for the section on Modern Art – in the two-year period
1911-12 and then again in 1914 -21, 1925-27 and 1936-39.
1
2
Ibid., typescript of Works by the sculptor E. Rubino existing in his studio.
M. Bernardi, Edoardo Rubino. 1871-1954, in “Bollettino della Società Promotrice di Archeologia e Belle Arti”, Years 5
& 6, 1952-53 (but 1954), Pp. 229-231.
3
4
M. Bernardi, La morte di Edoardo Rubino, in “La Stampa”, 17th January 1954, p. 3.
Archives of the Turin Civic Museums, CAA 830, Donations, Rubino File. Opere di Edoardo Rubino che il dott. Viale sceglierebbe per il Museo. (Works chosen by Dr. Viale for the Museum). Another list concerns the works selected for a future
exhibition on the artist which, despite good intentions, was never to be. The majority of works in the Collection of the
Gallery of Modern Art in Turin were donated by the sculptor. Nearly all are now in the Museum’s deposits.
5
Giovanni Battista Carpanetto, Ritratto di Edoardo Rubino, 1896
(Pinerolo, collezione privata)
L’enigma Rubino
Questioni aperte sulla fisionomia di uno scultore europeo
tra arte e letteratura
ARMANDO AUDOLI
E davvero, quello di Rubino, rischiava di rimanere poco più che un nome, riverito sì, ma vacante nella
purtroppo assai lacunosa bibliografia intorno alla
scultura a cavallo tra Otto e Novecento, se si eccettuano alcune fascinosamente impolverate ricordanze
d’epoca e – avvicinandoci all’oggi – se si escludono la
diffusa panoramica di Daniele Pescarmona,1 un ottimo
approfondimento di Walter Canavesio,2 nonché un
paio di tesi di laurea e una manciata di note sparse, a
firme varie.
Edoardo Rubino. Poco più che un nome – dicevamo – e un esordio folgorante nella Torino in modern
style, che si stava aprendo all’Europa; la Torino della
strepitosa esposizione internazionale del 1902 e delle
pirotecnie floreali di Pietro Fenoglio: la Torino di
Bistolfi, Canonica e Calandra; dell’anglofilo Cesare
Ferro e del Carena ancora emulo di Carrière; di
Carpanetto, Grosso e Tavernier, ottocentisti “rinnovati”; di Oreste Pizio e Luigi Onetti; del pigro Reviglione, innamorato pazzo delle chimere di Khnopff; di
Anton Maria Mucchi e del suo fosco simbolismo gotico; la Torino di Domenico Buratti: pittore sociale,
sodale di villici e poeti; dello sventurato Gariazzo,
futuro profeta del “teatro muto”;3 di Cesare Maggi, divisionista dal pennello innevato; di Pastonchi giovane e di Gozzano giovanissimo dandy subalpino, dalla
bocca tesa di malinconia e sempre bagnata d’assenzio (la fata verdeamara, il dissolvente degli impressionisti, il fantasticante); la Torino mia di Nicola Galante e
del teutonico Curt Seidel, folle suicida sulle orme di Nietzsche; la città di
Mantovani e Thovez critici temuti, di Amalia Guglielminetti4 sirena.
Una Torino spasmodica, che si era già avvicinata alla temperie europea sull’onda degli intricati rapporti fra scapigliatura e arti figurative, indispensabili per
comprendere la nascita della scultura moderna in Piemonte,5 fondamentali per
capire il repentino spalancarsi di questa sugli orizzonti estetici d’oltralpe e per
spiegare il fermento creativo che ha travolto gli scultori torinesi a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento. Il nodo si trovava proprio lì, all’incrocio fra i linguaggi artistici in subbuglio contro l’impaludamento risorgimentale. Ma c’è dell’altro. Sicuramente la statura carismatica di alcune personalità d’eccezione (quali
25
Copertina di Mario
Reviglione per Le seduzioni
di Amalia Guglielminetti
1921
26
La Pittura e La Scultura
statue ornamentali per
l’Esposizione Internazionale
di Arte Decorativa di Torino
1902
furono proprio quelle dominanti di Bistolfi, di Rubino, di Canonica e di Davide
Calandra) era il motivo principale dell’afflusso a Torino di giovani pieni di talento, accorrenti dal resto d’Italia e dal mondo intero per frequentare gli studi degli
scultori o per iscriversi all’Accademia Albertina, dove fino al giorno prima aveva
imperato l’egemonia classicista di Vincenzo Vela e di Odoardo Tabacchi; altro
punto saliente nell’incoraggiare la fioritura plastica torinese fu la presenza, in
città, di importanti fonditori d’arte, figure sovente eccentriche e paradossali,
ossessionate dalle proprie smisurate ambizioni e dalla tenuta qualitativa del loro
lavoro (un nome su tutti: Emilio Sperati). Così la febbrile Torino fin de siècle si trovava sulla ribalta internazionale, pronta a contendere a Parigi il primato di capitale della scultura e delle arti decorative. Solo due episodi, per intenderci. Il
Grand Palais parigino fu messo in piedi, nel giro di un paio d’anni, per ospitare
l’Exposition Universelle del 1900, l’evento artistico che elettrizzò il mondo intero
e che battezzò, con clamore inaudito, il secolo neonato. Un fenomeno mediatico
globale, diremmo noi. Tanto che a coordinare i lavori di decorazione del palazzo
venne chiamata la star del momento, Auguste Rodin, il quale convocò – tra i giovani collaboratori – un solo scultore straniero. Era un torinese: si chiamava
Giovanni Battista Alloati e in patria si era già distinto nell’ideazione di curiosi
oggetti d’uso quotidiano, concepiti in un precoce stile liberty. Oltre a rappresentare una fulgida promessa del simbolismo di casa nostra, Alloati poteva considerarsi l’antenato di un odierno designer. Non a caso, l’Exposition del 1900 segnò un
punto d’arrivo proprio all’interno dell’acceso dibattito sulle arti decorative, inteso
a infrangere una volta per tutte la barriera fra arti “belle” e arti “applicate”; dibat-
tito estetico-sociale in cui non esitò a buttarsi a capofitto, immediatamente, anche
Rubino.6 Secondo episodio: in seguito all’Exposition Universelle, Rodin – per tramite dell’ormai parigino Alloati – entrò in contatto con il critico e poeta crepuscolare Giovanni Cena, che nel giro di un anno si fece in quattro, insieme all’attivissimo amico Rubino, per organizzare una festa e un banchetto7 in onore del genio
francese. La festa sabauda ebbe luogo al Circolo degli Artisti, il 25 ottobre 1901,
e in quell’occasione Auguste, in viaggio per Carrara, si recò ad ammirare Il Dolore
confortato dalle Memorie di Bistolfi, il supremo altorilievo per il monumento
sepolcrale della famiglia Durio: fu, in un colpo, la consacrazione di Torino quale
privilegiato centro italico di ricezione dell’opera e dello spirito rodiniani.8 Per di
più l’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa del 1902, che ebbe una gestazione a dir poco travagliata, era già in programma nel 1899 (quindi Torino avrebbe dovuto addirittura battere sul tempo Parigi e la sua fastosa esposizione universale): ipotizzata poi per il 1901, si tenne invece nel 1902, sia perché l’anno precedente ci fu il regicidio di Monza, sia perché per il ’02 era prevista anche
l’Esposizione di Belle Arti.
«Torino, la più terribile delle città italiane. Barocca, algebrica, liberty, lunatica, spettrale, luogo di suicidi e di catastrofi, Torino sfugge alla presa. Città amante più che città madre, chiara e seducente in apparenza, vertiginosa nell’intimo».9
Già, ma non è solo Torino – come dice magnificamente Milo De Angelis – a sfuggire alla presa. Spesso risultano sfuggenti, con le loro vertigini nascoste, pure i
personaggi che vi hanno recitato il proprio romanzo d’arte e di
vita. Personaggi straordinari, sebbene difficilmente decifrabili,
seppure catalogabili a stento. Così è per Edoardo Rubino.
L’enigmatico Rubino. Egli, a differenza di Bistolfi, non ha
inventato uno stile talmente riconoscibile, una cifra che balza
all’occhio con scattante e immediata evidenza; diversamente da
Bistolfi, non ha creato un intero mondo spirituale e visivo, ad
altissima densità letteraria e mai visto prima, quantunque parzialmente mutuato dalle visioni degli adorati confratelli preraffaelliti: un mondo estetico che, con i suoi sofisticati preziosismi
simbolisti, è stato capace di conquistare l’Europa e di varcare
addirittura gli oceani, per spingersi a colonizzare – per esempio
– teatri e cimiteri del continente latinoamericano. Tutto questo
Rubino non lo ha fatto, siamo d’accordo. Il suo modo di esprimersi, piuttosto in sordina, da vero torinese, non era però meno
ricco di stimoli e fermenti. Un modo meno gridato e tirato
rispetto a quello del grande casalese, ma dal mordente inabissato e dalla morbosità latente. Solo in apparenza più semplice e
piano, il linguaggio formale di Rubino si è subito dichiarato
autonomo da ogni retaggio unilateralmente verista o scapigliato,
traghettando a sprazzi questi due attributi ottocenteschi nel primo Novecento e
mantenendoli vivi solo per contaminare – qua e là – una maniera vibrante e lieve
27
Schizzo per lampada
matita su carta, 1900 ca.
Torino, archivio eredi Rubino
Lampada in bronzo
1900-902
28
Giovinetta di Nazareth
marmo, 1902
Gelosa, marmo, 1902 ca.
di lavorare la materia, materia che sotto le sue dita (come ai colpi del suo scalpello) si fa raffinata e sobria insieme, oggetto di un dire sottilmente poetico, di un
cantare per forme plastiche che si dispiega nell’alternanza continua di vertiginose elevazioni estetizzanti e di smorzamenti colloquiali: di picchi lirici e di abbassamenti di tono improvvisi, che somigliano al bisbigliare cose umanissime e tutte
terrene. Tale ultimo atteggiamento “parlato”
della lingua tridimensionale di Rubino, unito ai
retaggi veristi di cui accennavamo poc’anzi, si
sente chiaramente nella produzione ritrattistica
primonovecentesca, di committenza borghese e
non. Nella plastica di Rubino «il verismo borghese si sublima in chiave simbolica», stando
almeno a una formula di Rossana Bossaglia. Lo
stile dello scultore si basa su equilibri delicatissimi (anche quando gonfia le vene e si irrobustisce, come dagli anni Venti in poi), e per questo
sfugge alla presa. È uno stile che vive di raffinatezza d’esecuzione e che si esprime al meglio nel
particolare ricercato con artificiosa naturalità,
trovato con esattezza sbalorditiva (si pensi alla
mesta espressione della gressonara del 1899,
alle mani squisite della Giovinetta di Nazareth,10
allo sguardo obliquo dell’introversa Gelosa,11 alla
pepata giocondità trattenuta sotto i baffi da
Casimiro Teja, alle labbra tumide e alle borse
sotto gli occhi di Federico Sclopis, agli innumeri dettagli incantevoli che “istoriano” l’altorilievo del monumento a De Amicis). L’importanza
del particolare rispetto al tutto venne già sottolineata – nel 1902 – dalle giuste considerazioni di un critico francese: «Le figure12
dello scultore Rubino, che circondano la rotonda centrale dell’Esposizione
[Internazionale d’Arte Decorativa Moderna], non sono sole a rappresentare a
Torino l’arte italiana, e nemmeno l’arte architettonica e monumentale d’Italia.
Questo spirito italiano, se difetta un po’ troppo nelle costruzioni d’insieme, bisogna cercarlo in alcuni particolari; e dopo tutto non è là che è destinato ad apparire con maggior vantaggio: è prima di tutto uno spirito di finezza e di ingegnosità,
che si fa soprattutto apprezzare nelle raffinatezze d’esecuzione, nel senso della
composizione, alle volte anche troppo sottile, nella concezione qualche volta troppo guidata della ricerca sentimentale. Ma nelle opere in cui queste qualità sono
fermate a tempo e moderate, si gode di un’arte molto gustosa».13 Spirito di finezza
e di ingegnosità, ovvero l’anima di uno stile che sembrava incarnare in pieno la
«forma moderna», quella che Thovez aveva individuato come ideale superamento dei morbosi manierismi tardo preraffaelliti: una forma «agile, balzante, nervo-
sa, palpitante di gioventù», dalla quale sarebbe dovuta sorgere finalmente «l’arte
capace di riflettere la poesia del mondo moderno».14 L’anima di uno stile che, per
i tocchi delicatissimi delle dita di Edoardo, ora si ammorbidiva indicibilmente,
avvicinandosi al pittorico accarezzamento della pennellata (non all’agitato effetto
impressionistico di matrice scapigliata, si badi bene), ora si alleggeriva con impercettibile gradualità, appressandosi – di modulazione in modulazione – all’aerea
fluidità di un melodiare appena accennato. La musicalità del modellato rubiniano
venne avvertita, nel 1907, da un giovane critico e architetto genovese vicino a
Thovez, Mario Labò,15 che esclamava, commentando il piccolo ritratto a figura
intera di Viven Chartres: «Guardate quanto essa è, anche plasticamente, musicale!».16 Per inciso: Rubino eseguì il ritratto della violinista prodigio Vivien Chartres
su incarico del sindacato dei giornalisti torinesi; la statuetta, gettata in bronzo,
venne poi offerta alla concertista quattordicenne, in ricordo di Torino, città che –
per di più – l’aveva vista nascere, nel 1893. Vivien era figlia della scrittrice
cosmopolita Annie Vivanti e dell’irlandese John Chartres, un giornalista col vizio
degli affari, nonché attivista Sinn Féin per l’indipendenza d’Irlanda. Vivien, che
aveva studiato violino a Praga, nella maturità non riuscì a tenere il passo con le
luminose promesse del proprio talento infantile (cosa che capita con una certa frequenza a chi è lambito dalla pericolosa fiamma del talento precoce). Rimasta prematuramente vedova, finì i suoi giorni a Brighton, in un torvo clima di tregenda:
martoriata da un micidiale intreccio di nevrosi e depressione, Vivien si suicidò
insieme al secondo marito, Richard Young, il primo giorno di settembre del 1941.
John Chartres – uomo eccentrico e padre distante, che l’aneddotica vuole anche
impresario di Rudyard Kipling – era già morto in miseria a Dublino, nel 1927. Ad
Annie Vivanti fu inizialmente detto, e a lungo tutti (biografi compresi) vi hanno
creduto, che sua figlia e il genero fossero rimasti vittime dei bombardamenti tedeschi. Annie (di ceppo ebraico e cittadinanza britannica) si trovava allora
costretta, dalla svolta anglofoba del
regime fascista, a un domicilio coatto in
Arezzo; la ex musa-fanciulla di Carducci fece appena in tempo a tornare a
Torino, liberata per diretta intercessione di Mussolini: la notizia della morte
di Vivien non la lasciò più vivere e così
si spense, sfinita, il 20 febbraio 1942,
poco dopo essersi convertita al cattolicesimo. Fino a qualche anno fa, tra le
carte di Rubino, si potevano ammirare
diversi schizzi di quel piccolo ritratto di
Vivien Chartres, così delicatamente celebrativo e oggi fatalmente disperso.
Sempre in odore di musica,17 Rubino giunse fino a captare la suggestione delle più
sontuose sofisticazioni sonore mitteleuropee, ritraendo il celebre soprano Gemma
29
Orologio in bronzo
1902 ca.
Coppa in bronzo
per il Concorso Ippico
Internazionale di Torino
1902
30
La statuetta di Vivien Chartres
ancora in gesso, 1907
Salome, bronzo, 1907
La cantante
Gemma Bellincioni, storica
interprete di Salome
Bellincioni nel ruolo di Salome.18 La principessa dello scultore torinese, ben lontana dalle isterie iconografiche di Beardsley, è una femmina di Giudea in carne e
ossa, colta nel momento topico della danza dei sette veli: lo spunto creativo originò dalla prima discussa esecuzione italiana dell’omonima opera di Richard
Strauss, avvenuta al Teatro Regio di Torino, il 23 dicembre 1906.19 Dovette essere un evento memorabile: sul podio c’era lo stesso compositore bavarese, già allora considerato un genio del melodramma contemporaneo, e la Bellincioni eseguì
in prima persona la danza osé. Edoardo esibì la sua Salome20 – una statuetta mobile e sinuosa, dalle stemperate ascendenze secessioniste – alla settima biennale di
Venezia, la mitica rassegna del 1907, segnata dalla presenza di due ambienti
“mitteleuropei”: il salone centrale di Giulio Aristide Sartorio e la discussa “Sala
del Sogno”, oniricamente ornata dal quartetto Chini, Previati, Nomellini e De
Albertis.
Abbiamo divagato un po’, sopraffatti dalle inaspettate morbidezze del modellare pittorico e musicale di Rubino: un modellare che, in sostanza, conservava
ancora non poche tracce della composta nitidezza romantica del dettato di
Odoardo Tabacchi e Luigi Belli, ma le faceva convivere – attraverso una maestria
di genio – con i fermenti strani e gli accenti speciosi dell’Arte Nova, figlia bella
e viziosa del secolo nascente. Il secolo romantico, invece, Rubino se l’era lasciato alle spalle lavorando alla Fontana dei Mesi, progettata per
il parco torinese del Valentino dall’architetto Carlo Ceppi,
nel 1898, in occasione dell’esposizione generale italiana. A
Edoardo era stato affidato il gruppo in cemento de La Dora.21
Ma l’inatteso trionfo dell’opera gli fruttò la commissione, per
la stessa fontana, di altre tre allegorie: una Sirena, da porsi
al centro della vasca, oltre a La Pace e La Guerra, da collocarsi lateralmente; queste vennero ultimate, per i convulsi
tempi di consegna, con il soccorso di Cesare Biscarra.
Detto questo si può intuire, dunque, quale sia l’elemento chiave per farsi una ragione dell’oblio progressivo dell’opera di Rubino, nonché della conseguente distrazione critica in margine alla sua fisionomia artistica e umana: l’inclassificabilità della cifra stilistica, ossia l’impossibilità di
ridurre il linguaggio estetico a uno schemino semplificato e
immediatamente accessibile a tutti. Lo stile dello scultore e
la sua interiore fisionomia di essere umano (certo non esuberante, piuttosto serio e introverso), sono sfuggenti e di non
così agevole lettura. Sono un enigma. L’enigma Rubino,
appunto. A questo si aggiunga il fatto che, sia all’inizio del
secolo sia nell’intervallo tra la prima e la seconda guerra
mondiale, l’estetica di Rubino è sempre stata perfettamente al passo con i tempi.
Mai innovativa o in anticipo, però. E ciò, per il più ossessivo e ottuso dei dogmi
progressisti, è un limite tremendo. Ce lo ricordano le note di Alessandro
Marabottini: «Esiste una diffusa tendenza, figlia del pensiero positivo e dello storicismo, a giudicare l’arte secondo principi che sono indiscutibili solo quando si
tratta di scienza. Un artista appare importante solo se è un novatore rispetto al
passato e una fonte d’ispirazione per l’avvenire. Da questa posizione deriva la
sventura di certe personalità che concludono un’epoca e hanno vicino altri giova31
ni maestri capaci di aprirne una nuova».22 A quanto fin qui evidenziato si sommi,
ancora, lo sciagurato stato di abbandono progressivo in cui è caduta l’arte plastica italiana, dal secondo dopoguerra in poi. Rubino oltretutto, in un sessantennio
di continua attività, è artista che ha prodotto con relativa moderazione per il mercato (tiranno spietato che da troppo tempo tiene tutti in scacco: musei, storiografi
e collezionisti), sempre impegnato com’era nell’ideazione e nell’esecuzione di
grandi opere monumentali e funerarie; eccezion fatta – forse – per la sommersa
produzione giovanile: targhe, medaglie e oggetti vari di arte applicata, calorosamente sostenuti da Enrico Thovez23 e in gran parte ancora da scoprire e studiare.
In verità una scoperta significativa, in questo campo, la possiamo vantare: intendiamo il fortunato ritrovamento24 di un rilievo decorativo per camino (cm 45x90),
realizzato da Rubino nel 1906 su commissione dei conti Frigerio, di stirpe veneta, allora residenti in una delle più belle ville di corso Massimo D’Azeglio (scampata, per miracolo, alle bombe del ’43). Il bronzo, superbo per fusione e patina,
reca un crepitante monito pagano: Ignem in sinu abscondas. D’impatto sembrerebbe di avvertire – quasi fuochi nascosti in petto – i palpiti del neoquattrocentismo
bistolfiano, ma tendendo l’orecchio si riconoscerà subito la timbrica insolita di
Rubino, qui esemplificata con toni alti e chiarificatori: una timbrica estetizzante
e veritiera a un tempo, raffinatissima benché assolutamente non sdolcinata
(diremmo, anzi, che il virtuosismo dell’opera riemersa, culminante in un indicibile intreccio di mani e dita, tradisce vigorosi scatti di nervosismo plastico); un tim-
Ignem in sinu abscondas
rilievo in bronzo per camino
1906
Torino, collezione privata
(foto Alessandro Caldana)
32
Schizzo per Ignem in sinu
abscondas, matita su carta
1906 ca.
Torino, archivio eredi Rubino
Schizzo per la copertina
del libro Caricature di Teja
matita su carta, 1900 ca.
Torino, archivio eredi Rubino
bro intimo e suadente, quello rubiniano, sempre controllato per precisa volontà
e non certo per mancanza di estro. Anche la ritrattistica privata – vetta creativa e
vena feconda per il nostro scultore, destinata ciclicamente a riproporsi sul mercato – sarebbe adatta ad alimentare ed estendere un possibile collezionismo di
Rubino: ma ci duole constatare come la ritrattistica sia, oggi, la più negletta
espressione di un’arte negletta. Né, pensando proprio ai meravigliosi gessi provenienti dall’atelier dello scultore, ci conforta l’intelligenza di alcune osservazioni
di Luigi Carluccio, datate 1972: «La scultura ha una vita difficile. Ha un corpo,
un peso e un ingombro che paralizzano lo spettatore, così
vive stentatamente di museo; in Italia, almeno, dove però
gli acquisti ufficiali sono quasi sempre impegnati a ricuperare i ritardi storici ed a colmare i vuoti d’informazione. Il
rumore che pur si avverte intorno a certi nomi di scultori,
che hanno raggiunto fama internazionale, sembra un rumore artificioso ed ha scarso rapporto con la presenza effettiva dell’opera degli scultori nell’ambiente di vita».25
Ma torniamo a noi. «Libero da influenze precedenti –
recita una chiosa d’antan di Giuseppina Jona – Rubino
resterà però sempre l’artista-poeta e prediligerà l’episodio
gentile che saprà rintracciare financo in temi eroici; soffonderà di benevolenza i volti delle sue figure, animerà di
luminosi sorrisi i suoi ritratti. Il suo animo è semplice e
limpido; la sua sensibilità estatica e spiegata, quindi spontanea e senza bisogno di richiami esteriori per essere intesa. Sgorga anzi qua e là, come polla inattesa, impossibile a
trattenersi, tra episodi di valore, di eroismo e di forza».26 Rubino artista-poeta:
giustissimo, anche se con un po’ troppa enfasi, a insistere sulla semplicità sorgiva della sua corda lirica. La componente poetico-letteraria dell’arte plastica di
Rubino non è così intellettualizzata ed esibita, soprattutto se si pensa al cerebralismo macerato di un Bistolfi, al quale venne negata – nel dicembre 1905 – la cattedra all’Accademia Albertina,27 con l’assurda e retrograda motivazione di non
poter affidare l’insegnamento della scultura a un “poeta”28 (l’evidente osmosi con
il mondo letterario e musicale venne, forse, aggravata dai non pochi peccati di
33
penna).29 Non per nulla Sandra Berresford ha chiamato in causa le correspondances di Baudelaire per fare luce su quello che fu il credo bistolfiano per antonomasia: il riavvicinamento di tutte le arti.30 La sinestesia, in una parola.
L’assimilazione dei linguaggi artistici, operata dai sensi in base alla percezione
delle rispondenze intime dei diversi codici espressivi, era stata un’intuizione teorica della scapigliatura, trasmessa da Bistolfi – come un’iniziazione – anche ai
suoi “affiliati”, fra i quali Rubino si era presto distinto per l’eccellenza del talento. Il timido Edoardo non si piccava di scrivere e, infatti, la sudata cattedra all’accademia se la tenne ben stretta: dal 1917, in principio come aggiunto all’insegnamento di Cesare Zocchi, poi come titolare, dal 1924 al 1936; ma una certa osmosi con le umane lettere la ebbe anche lui e, a nostro avviso, assolutamente nevralgica rispetto alla sua figurazione, almeno fino alla prima metà degli anni Dieci. Ci
sentiamo di sostenere, cioè, una sensibile affinità estetica del giovane Rubino con
le ibride malie del crepuscolarismo,31 che aveva in Torino il terzo polo di aggregazione e diffusione, dopo Roma e Genova. I poeti crepuscolari – pallidi letterati
Copertina
di Edoardo Rubino
per L’amante ignoto
di Amalia Guglielminetti
1911
Copertina
di Leonardo Bistolfi
per I colloqui
di Guido Gozzano
1911
34
Giovanni Croce
L’anima di Torino, 1911
Curt Seidel
Torino mia, 1912
tipicamente nostrani – si possono considerare dei simbolisti di terza generazione,
estremi e bizzarri epigoni del decadentismo europeo: si raggruppavano disorganicamente in cenacoli, che erano quasi delle confraternite (il cenacolo romano, per
dire, faceva capo al moribondo Corazzini); essi erano devoti cantori della bellezza della morte e della noia domenicale, erano maniacali cultori della solitudine
dei malati, estasiati contemplatori del silenzio dei chiostri o morbosi adoratori
della virginale purezza di monacelle adolescenti, novizie di Nostra Signora la
Luna; nutriti di gaie tristezze, erano esteti indefessi ma amici di tutti i mendicanti, di ogni reietto.
Nel cenacolo crepuscolare torinese imperversava Guido Gozzano. «Mentisce
in sillabe contate. La sua poesia si ciba con le golose da Baratti a brioche e confetti», sibilava Mario Giola nel 1911, l’anno in cui Treves dava alle stampe il volume de I colloqui: vestita da una copertina simbolista di Bistolfi, la silloge di versi
era il vertice della precoce maturità del bel Guido. Ricordano i biografi che
Gozzano, gelido sofista, amava passare ore e ore nei caffè conversando d’arte e
«assaporando a fior di labbra, con gesto raffinato, un poco di assenzio, che diceva dargli qualche dolcezza». Un poco di assenzio o, magari, un dito di ratafià.
«Ratafià, accento alla francese. È un liquore di vecchie bottiglierie, dal suono
evocatore. Frutta, alcol, aromi amari. Pensiamo per analogia ad altri nomi.
Arquebuse, ad esempio (è un’erba alpina). Liquori, bevande spiritose, tossici, veleni. C’è più di un contatto con le atmosfere gozzaniane, tramate su un tessuto che
da un lato è misura e dall’altro nasconde turbamenti, veleni imprevisti».32 I poeti
crepuscolari erano gli amici di Gozzano e con lui si ritrovavano a conversare,
Francesco Pastonchi
Sul limite dell’ombra, 1905
Giovanni Croce
Sul limite della luce, 1908
guarda un po’, preferibilmente da Baratti. Baratti & Milano, per esteso: l’aristocratica confetteria a cui mise mano proprio Rubino, in un progetto di decorazione
per la nuova ristrutturazione del locale, che venne commissionata nel 1909 al
poliedrico architetto emiliano Giulio Casanova, assiduo collaboratore dello scultore.33 I committenti erano due canavesani: Ferdinando Baratti di Piverone ed
Edoardo Milano di Bollengo, proprietari e soci fondatori della “premiata ditta”
dolciaria, che si stava allora espandendo in due nuovi locali (destinati a bar e
liquoreria), nel lato sud-est di piazza Castello. I lavori esornativi del negozio terminarono solo nel febbraio del 1911, pochi mesi prima dell’Esposizione
Internazionale delle Industrie e del Lavoro.34 Splendida la Danza bacchica35 di
Rubino, a impreziosire il bancone della caffetteria, mentre la spiccata sensibilità
per un certo ritmo compositivo dell’insieme – scandito dalle medesime cadenze
dei pilastri del sottoportico – si manifestava in tutto il suo splendore con gli inserti plastici delle “tabelle” bronzee, realizzate sempre da Rubino, fuse dall’amico
Corrado Betta e collocate “a guisa di placche” sulle lastre chiare di marmo giallo
di Siena.
Baratti & Milano, il palcoscenico prediletto dagli esteti sabaudi: vetrine e
ingresso da Piazza Castello e sale interne a costeggiare la Galleria Subalpina. Un
incrocio invero speciale, nell’armonia prestabilita di un doppio sipario: i portici
della piazza, da un lato; il trasparente cielo vitreo dei soffitti della galleria, dall’altro. Suggerisce un poeta nostro contemporaneo: «Il corridoio centrale della galleria, recintato da un giardino d’inverno ornamentale, farebbe venire in mente titoli e atmosfere di un certo decadentismo nordico. Maeterlinck, Serre calde.»36 Un
35
36
Giovanni Cena
In umbra, 1899
Massimo Bontempelli
Egloghe, 1904
decadentismo di temperatura nordica era, di fatto, alla base delle migliori ricette
prosodiche dei crepuscolari. E Maurice Maeterlinck, il poeta belga autore del
celebre Pelléas et Mélisande, veniva proclamato all’unanimità il loro idolo intellettuale. I crepuscolari. Gli interlocutori abituali di Gozzano, chez Baratti. Eccoli:
gli omoerotici Carlo Vallini e Giulio Gianelli; Sandro Camasio e Nino Oxilia (giovinezza, addio!); il Bontempelli prima maniera, sbocciato editorialmente per merito del fiuto infallibile di Renzo Streglio (Egloghe, 1904); Carlo Chiaves ed Enrico
Thovez: trasognato l’uno, polemicissimo l’altro; Giovanni Cena umanitario e
Francesco Pastonchi, già aulico, ma con moderazione; Cosimo Giorgieri Contri,
toscano in adorazione ai piedi della Mole, che aveva giocato d’anticipo con Il convegno dei cipressi (una perla datata 1894); il dimenticato Emanuele Sella, biellese di Valle Mosso: occultato occultista, eternamente smarrito ne Il giardino delle
stelle (1907); Biagio Chiara, biondo angelo piemontese esule a Napoli: nostro
primo, audace traduttore (a proprie spese) di Oscar Wilde; e, ultimo, Giovanni
Croce:37 il Corazzini pedemontano, delicato astro nascente della lirica crepuscolare, morto ventenne nel 1911, per uno scompenso cardiaco. Tra i poeti citati,
Thovez,38 il “nordico” Thovez, ci sembra la figura più in debito di considerazione:
vogliamo rammentare, almeno, l’apparizione de Il poema dell’adolescenza (Streglio, 1901), piccolo capolavoro d’inizio secolo, oltre alla misconosciuta attività di
pittore e di illuminato direttore della Galleria d’Arte Moderna di Torino (carica
ricoperta dal 1913 al 1923). A rinforzo della militanza in favore di quella che da
noi si chiamava “Arte Nova” e per diffondere il verbo estetico-sociale degli eredi
spirituali di Ruskin e Morris, Enrico aveva fondato il periodico “L’arte decorativa
moderna”, sottotitolato “Rivista mensile illustrata di architettura e decorazione
della casa e della via”. La testata – che si occupò sistematicamente del lavoro di
Rubino – venne ideata e realizzata in collaborazione con Leonardo Bistolfi,
Davide Calandra, Giovanni Angelo Reycend e Giorgio Ceragioli: essa uscì a intermittenza dal gennaio 1902 fino alla metà del 1908 (in realtà si pubblicarono solo
due annate complete e cinque numeri della terza, con periodicità continua ma fortemente irregolare a partire dal secondo anno).39 Bizzarra, poi, l’ostentata insofferenza di Thovez verso una Torino “città ostile”, città della frustrazione del risentimento. Riportiamo, per curiosità, l’incipit di una sua acida tirata contro Torino (il
Saggio encomiastico sulla città natale), dalla quale traluce un groviglio irrisolto di
odio e amore, non privo di qualche affettazione snob: «La città che ebbe l’onore
di darmi i natali […] non è celebre nella storia e nell’arte. […] La città porta dal
battesimo romano il peccato d’origine della pianta a scacchiera, barbara e puerile concezione teorica e geometrica, cioè, priva di qualunque intelligenza di adattamento delle forme all’ambiente, e di qualunque sensibilità estetica […]».
Verrebbe da ripensare a Milo De Angelis e alla sua Torino suicidaria, implacabile «maestra degli isolati».40 Ma quella Torino così fatale ai nervi scoperti degli
artisti e degli intellettuali, la città reinventata da Thovez e D’Aronco, era allora –
e già dall’ultimo lustro dell’Ottocento – il centro artistico più moderno
della penisola, come ci teneva a puntualizzare Alberto Clementi41, specialista di architetture e arti decorative del ventesimo secolo. Ah, dimenticavamo: un autoritratto (toccante e consapevole di sé) Thovez ce lo ha
consegnato proprio in un’inedita risposta epistolare all’amico Rubino,
che gli aveva chiesto – in segreta confidenza – alcune informazioni di
carattere personale, indispensabili per soddisfare una non ben precisata
«gentile curiosità». Dopo aver rimesso le sorti di un profilo auspicabilmente lusinghiero alla benevolenza dello scultore, al quale riconosceva
«nel modellare il dono della grazia», Enrico così si confessava: «Potrai
dire, per esempio, che non sono, per mia disgrazia o fortuna, un gaudente dilettante a ore perse, che non sono, grazie al cielo, professore; che se
ho fatto purtroppo il giornalista, o per lo meno il collaboratore letterario
di giornali, fu mio malgrado, per tristizia dei tempi, e, per quanto possibile, sotto mentite spoglie. Potrai dire che manco evidentemente di senso
comune, perché essendo la creatura più bisognosa di amicizia, vivo nella
più inverosimile delle solitudini, e avendo la più viva propensione alla
gioia, passo il mio tempo in malinconia profonda. Potrai aggiungere però
che qualche attenuante a questo controsenso si troverà in quel capolavoro di psicologia che sarà quella Storia di un’anima e di un corpo a cui
penso sempre come alla più cara delle mie opere e che non scriverò mai.
[…] Potrai spiegare che se non ho più pubblicato versi fu perché l’accoglienza della critica e del pubblico italiano ai miei primi fu tale da togliermi ogni
velleità di darmi di nuovo in pasto al pubblico; ma che però non ho smesso di
37
Baccante, bronzo
1910 -15 ca.
Genova, Raccolte Frugone
Baccante, gesso 1925-30 ca.
(foto archivio eredi Rubino)
38
Guido Gozzano, Lyda Borelli
e Amalia Guglielminetti
in una foto dei primi anni
del ’900
farne per mio conto e che ne sto componendo alcuni in cui mi lusingo di aver raggiunto qualche mèta non troppo calpestata. Potrai terminare dicendo che l’unico
mio conforto non è la poesia, ma la pittura, e che dipingere ritratti femminili
sarebbe la mia maggior gioia se le belle signore avessero meno faccende e fossero più fedeli all’ora di posa. Io ti dico tutte queste cose alla buona: tu, da buon
amico, le metterai in bella luce, con contorno di
aggettivi lusinghieri: sono certo che dai nostri sforzi
accomunati uscirà un ritratto perfettamente odioso».42 C’è tutto Thovez in queste poche righe e c’è
anche tutto il senso implicito del suo affiatamento
amicale con Rubino. Sarebbe utile e interessante
avere qualche maggior documento diretto del rapporto, anche umano, fra i due: ma qui rimangono ostinatamente aperti i dubbi che, ad arte, intende insinuare il nostro ragionamento sulla fisionomia artistica e
umana di un torinesissimo scultore europeo.43
Torinesi ed europei lo erano, d’altronde, anche i
crepuscolari: con i loro cadaveri e i loro petali marci,
sul limite dell’ombra. «Quando il simbolismo diventa veramente attivo in Italia – commenta Elio
Gioanola –, all’inizio del secolo, ha già perduto le
caratteristiche del forte agonismo nichilistico e ribelle dei Mallarmé e dei Rimbaud, e i poeti presi come
modello sono i simbolisti della seconda generazione,
quella che ha il suo padre nobile nel mendico Verlaine: sono i tardo simbolisti franco-belgi a influenzare direttamente i nostri poeti, da Samain a Tailhade, da Moréas a Verhaeren, da De Régnier a Rodenbach, da Maeterlinck a Jammes. Sono poeti che sembrano smentire la grande lezione mallarmeana perché la
loro poesia nel complesso accoglie proprio quanto era stato proscritto dalla “poesia pura”, e cioè la realtà esterna e i sentimenti, nella forma dei celebri oggetti
crepuscolari (il parco, l’organetto, le vie deserte, le beghine ecc.) e dalla malinconia che tutto pervade». E prosegue: «Nel tardo simbolismo l’estraneità radicale
del poeta (e l’opera come rifondazione verbale del mondo) diventa propriamente
“malattia”, col conseguente rifugio dentro un ambito selezionato di oggetti elettivi, omogenei alla generale caduta di tono della vitalità. È un’atmosfera poetica che
accoglie gli aspetti più “decadenti” del simbolismo, con sviluppo dei toni floreali, liberty, esotici, mistici, decorativo-musicali».44 In Italia, questo repertorio
caratteristico, passato pure attraverso le mediazioni dannunziane del Poema paradisiaco, venne assunto dai poeti nuovi come lo strumentario di una radicale operazione di separatezza, eseguita poi con le tonalità più diverse, grazie proprio alla
qualità di repertorio della materia: così, ad esempio, Gozzano approdò all’invenzione quasi sarcastica di una serie celeberrima di personae oggettistiche e anima-
li (buone cose di pessimo gusto, larve crisalidi e farfalle, fra macchie d’inchiostro
putrefatto).
Il riassorbimento tardivo degli stilemi simbolisti franco-fiamminghi, contaminato da screziature preraffaellite e da echi britannici dell’Aesthetic Movement, non
è mai stato ben digerito dalla nostra critica accademica: esso, che riguarda da
vicino anche il riflusso decadente dell’arte figurativa,
era in atto (proprio in quello scalpitante debutto di
secolo) non soltanto in tutta Europa, ma addirittura
presso i più aggiornati letterati d’Asia e d’America, i
quali diedero vita – senza intenti programmati “a tavolino”, ma attraverso la produzione di riviste oltremodo
raffinate e promotrici di tutte le arti – a una vera rinascenza internazionale del gusto décadent. Un gusto
che (ormai compiaciuto e complicato dalle più varie
sofisticazioni), proclamando senza riserve l’inconciliabilità tra vita e arte, si traduceva in uno stile simbiotico d’arte e di vita meticcio, a mezzo tra l’atteggiata
precarietà bohémien e la ricercata affettazione di un
dandismo dalla posa modernamente scettica.
Forte e influente (per i giovani della generazione
di Rubino, classe 1871) fu poi la luce proiettata,
all’interno delle non ancora luminosissime stanze dell’alta cultura torinese del tempo, da un ampio saggio di
Arturo Graf, intitolato Preraffaelliti, simbolisti ed esteti e uscito in due parti sulla “Nuova Antologia”, fra il
gennaio e il febbraio del 1897. L’affascinante professor Graf – docente di letteratura neolatina presso
l’Ateneo di Torino e mentore indiscusso dei crepuscolari, che sgomitavano per frequentare le sue mondane lezioni umanistiche (le affollate “sabatine” pomeridiane) – valutava lucidamente l’estetismo spinto di quel tempo, ritenendolo una precisa e indirizzata tensione reattiva: «La reazione letteraria presente si esercita in
più special modo contro il realismo, e più propriamente ancora contro il naturalismo, che fu come la caricatura di quello e l’errore e la colpa e l’eccesso cui quello doveva pervenir fatalmente. Essa si esercita con la scorta di due concetti principali (non oserei dir dottrine) e sotto due nomi principalmente: preraffaellismo e
simbolismo; de’ quali, il secondo designa un moto di recentissima origine, e il
primo un moto di origine notabilmente più antica, ma di novissima voga. E quello e questo hanno, insieme con qualità e tendenze proprie e diverse, qualità e tendenze somiglianti e comuni. Entrambi si oppongono al naturalismo, di cui l’uno
schifa più la volgarità e la crudezza, l’altro più l’abuso del particolare e del concreto: entrambi ricusano il così detto plasticismo e l’arte marmorea dei parnassiani: entrambi menan vanto di uno sdegnoso e nobile individualismo: entrambi si
dicono e sono idealisti, si separano dalla vita reale, vagheggiano, rimpiangono,
39
Jarno Jessen, Prerafaelismo
prima edizione italiana
del 1907, con aggiunte
di Enrico Thovez
40
Fiamma, rilievo in bronzo
per una fontana decorativa
presentata nella sala
del Piemonte, alla Biennale
di Venezia del 1905
risuscitano come possono il medio evo, e più alta e perfetta stiman quell’arte che
chiusa ai più, schiva d’ogni contatto, più partecipa della visione e del sogno […]».
Thovez, ricettivo com’era, fece tesoro della lezione di Graf e, qualche anno dopo,
stilò un notevole testo per integrare criticamente l’edizione italiana di un allora
recente volume di Jarno Jessen, Praerafaelismus: la traduzione del libro di
Jessen45 vide la luce
nel 1907, per i tipi di
un “rivale” di Streglio, il danese Carlo
Clausen (successore
del fornitore reale
Hans Rinck e primo
editore del ventenne
Pirandello), che stampava a Torino e a Palermo. In realtà Thovez aveva addirittura
preceduto il poeta di
Medusa, chiarendo,
in un articolo del
1895,46 la propria posizione sulla confraternita inglese: egli
distingueva nettamente l’arcana poesia dei
primi preraffaelliti
(Madox Brown, Millais giovane, Holman Hunt) dalla convenzionalità “impacciata”
degli esponenti più avanzati, capitanati da Burne Jones e latori di una tendenza
aristocraticamente spiritualistica, vacua espressione di un senso estetico logoro e
degenerato. D’altro canto il polemista torinese non condivideva neppure l’entusiasmo di Sartorio per Dante Gabriel Rossetti, allora osannato in modo programmatico sulle pagine dannunzianeggianti de “Il Convito” di Adolfo De Bosis. Enrico,
in particolare, stravedeva per Ford Madox Brown, che considerava un vero “fratello intellettuale”, soprattutto da quando Guido Rey,47 di ritorno da Londra, gli
aveva descritto l’inconfondibile “granitura” di un quadro (Work) visto a
Manchester.48 Il dipingere granitico di Madox Brown aveva una qualche parentela, secondo Thovez, con la pittura colta e cerebrale di Andrea Tavernier. Siamo
sempre lì, c’è poco da fare: in equilibrio sul filo rosso che apparenta le arti diverse, in bilico tra nostalgiche visioni neoquattrocentesche e irreali crepuscoli letterari. Ma il crepuscolarismo non chiuse del tutto i conti con il reale, come abbiamo visto.
Rubino artista-poeta crepuscolare allora, in virtù dei suoi leggeri retaggi realisti, mescolati con misura ai venefici turbamenti della decadenza estetizzante?
Potrebbe essere una buona approssimazione al vero. Tenendo sempre conto, però,
che stiamo girando intorno a un enigma. Basterebbe osservare con la dovuta attenzione due assoluti capi d’opera del Rubino simbolista, concepiti per il cimitero
monumentale di Torino, quali lo spettacolare bassorilievo Verso la pace per la
tomba della famiglia Boido (1907) e il gruppo funerario inserito nell’edicola
Porcheddu (1912), per rendersi conto
della portata “letteraria” della sua
maniera europea. Il pensiero corre subito a Böcklin e ai preraffaelliti, a Bistolfi
e all’italo-belga Jules van Biesbroeck.49
Ma i riferimenti potrebbero essere mille.
Un letto di rose sfatte sull’ondolìo della
barca funebre, una macabra voluttà
estetizzante che si tende fino alla squisitezza e lo splendore del cadavere di
Amalia Dainesi che si trasfigura divinamente: il capo incoronato di fiori morti,
vegliato da quattro mani sublimi. Non
possiamo, a questo punto, non ripetere
gli endecasillabi di un sonetto di
Pastonchi, pensato per Bistolfi, ma assolutamente perfetto per i suddetti marmi
di Rubino. Ascoltatelo, si intitola
Sepolcro: «Due fanciulle, che l’estasi
inabissa / In lor preghiera, cullano d’un
‘Ave’ / Quella che giace in casto atto
soave / Nel gorgo della sua chioma prolissa. // O Leonardo, il tuo pensiero
eclissa / Ogni forma; e al pensiero agili
schiave / S’offron le mani, onde nel
marmo grave / Tanta luce di sogni arde e
si fissa. // Buona è la vita, nel pensar la morte / Come un inganno dolce che rinnova / Le forme solo in cui l’anima varca. // Sembra che dalla fronte delle assorte
/ Questo sereno ammonimento piova: / E intorno tutta ne risplenda l’arca».50 Una
terza prodezza simbolista di Rubino (sarebbe stata la prima, in ordine cronologico), destinata al cimitero torinese, non ebbe la fortuna di vedere luce: alludiamo
alla tomba del ministro della marina Benedetto Brin, per la quale l’artista fu
costretto a cedere il passo a Cesare Reduzzi, vincitore del concorso nel 1902. A
simboleggiare la virilità dell’ingegno creativo del defunto architetto navale,
Edoardo concepì una figura nuda e meditativa, con lo sguardo simbolicamente
fisso nell’infinità del mare; la figura si appoggiava a una rupe, contro cui andavano a frangersi i flutti crestati di spuma e su cui giacevano, spiegate, delle carte
recanti diagrammi di navi. Siamo in grado di studiare la mirabile invenzione della
41
Maschera di Medusa
bronzo, 1922
(foto archivio eredi Rubino)
tomba Brin in virtù del modello illustrato in un numero coevo de “L’arte decorativa moderna”,51 a corredo dell’entusiasmo militante di Thovez: «Il pregio principale di questo bozzetto stava nella sua serenità veramente monumentale, nell’eleganza decorativa con cui era composto e nella delicatezza squisita colla quale era
modellato. Raramente il Rubino modellò cose più complete, ed è da dolere che
42
Rubino davanti al gesso
dell’altorilievo
per il monumento
a De Amicis, 1911 ca.
(foto archivio eredi Rubino)
questa bella idea non abbia potuto essere tradotta in atto». E che dire della tomba
Remondini (1912, Cimitero Monumentale di Torino), estremo saluto alla vita dato
da un braccio liricamente sospeso nel vuoto dell’eternità? O della coeva prodezza funeraria per la famiglia Girardi, tradotta in bronzo con cura ineccepibile dalla
Fonderia Lippi di Pistoia? E come non soffermarsi sul solenne gruppo in estasi,
riccamente orchestrato per la famiglia Gambaro (1916-20, Cimitero Monumentale
di Torino)? Oppure come non rimanere stupiti alzando gli occhi verso l’allegoria
decorativa Beneficenza e Credito, quasi sottratta allo sguardo dei passanti, troneggiante com’è sull’alta facciata dell’incompiuto palazzo della Cassa di Risparmio
di Torino?52 Una delle più avanzate testimonianze plastiche di Rubino, ascrivibile a una pura ideologia simbolista, è la Maschera di Medusa del 1922, esposta alla
Promotrice nel 1924, molto vicina alla Medusa del monumento a Umberto I in
Roma. Quest’ultima fa parte del basamento dell’opera monumentale, che venne
allogata a Davide Calandra da Vittorio Emanuele III, dopo il trionfo torinese
dell’Amedeo d’Aosta (1902): il monumento equestre a Umberto I fu però interamente eseguito da Rubino e inaugurato postumo nel 1926, su un’altura circondata dai pini profumati di Villa Borghese. Il simbolismo rubiniano, infine, solo in
apparenza disteso e non troppo complicato da eccessive tossine cerebrali, ci fa
tornare alla memoria – per assonanza – alcune parole di Bistolfi, meditate a proposito del modern style scozzese e pronunciate il 4 giugno 1902, al Teatro Alfieri
di Torino: «E questa sensazione è d’una grande e limpida e ingenua dolcezza: un
indefinibile senso di ingenuità pensosa e penetrante, come il senso lasciato nell’anima dalla lettura di una pagina di Maeterlinck».53 Maeterlinck, ancora lui. E
con lui concludiamo, idealmente, l’ampia digressione letteraria.
Proveremo, ora, ad accostarci alla fisionomia umana di Edoardo Rubino. La
Schizzo della placchetta
per la 300ª edizione
del libro Cuore
matita su carta, 1904 ca.
Torino, archivio eredi Rubino
Placchetta in gesso
per la 300ª edizione
del libro Cuore, 1904
Pinerolo, collezione privata
personalità dell’uomo e la sua psiche sono un mistero inavvicinabile: lo sapevano
i tragici greci prima di Freud e dovremmo saperlo noi, oggi, meglio di tutti i nostri
antenati. Ma spesso sembriamo dimenticarcene, arsi come siamo da un sacro
fuoco razionalistico, che tende poi a spacciarsi per scientificità. Non si poneva
troppi quesiti introspettivi, invece, il critico Paolo Cesare Rinaudo che, andando
a intervistare Rubino per conto della rivista torinese “Il Prisma”,54 si vide venire
incontro – ad accoglierlo nel grande studio di via Asti – prima un ciclopico operaio e poi lo scultore in carne e ossa: questi si manifestò in seconda battuta, come
una misteriosa creatura dal passo leggero. Siamo nel 1912. Rubino era un quarantenne assolutamente giovanile. La scena è curiosa: «Che impressione strana nel
vedere quell’artista, dal volto chiaro e sereno di un fanciullo, dopo l’apparizione
del colosso! L’operaio m’era sembrato la figura di un ciclope, che m’avesse
dischiuso le vie agli inferi pieni di mistero. Rubino mi colpisce per quel suo aspetto così femmineo. Parliamo dei suoi lavori […]. Osservo l’artista. Il viso delicato,
tagliato con linea dolce, profila un volto che esprime una grande bontà, una squisita finezza di sentimento. Rubino è il poeta dello scalpello: egli, nei suoi marmi,
scolpisce meno di quanto racconti. Le sue figure narrano tutto un pensiero, spiegano un sentimento, danno le fasi successive di un atto; tal che guardando i suoi
lavori mi par di vedervi tutto il seguito di un movimento, il vario ritmo della vita
colta attraverso lo svolgersi di un lungo pensiero». L’impressione dominante che
43
44
Il Faro della Vittoria appena
collocato sul colle della
Maddalena a Torino, 1928 ca.
(foto archivio eredi Rubino)
doveva dare la persona di Rubino, de visu, era un senso diffuso di delicatezza,
quasi di dolcezza. Certo: l’artista posava la mano, «dolcemente», su una sua
opera, e così via. Ma quell’impressione vaga di dolcezza era, pure, il giudizio più
ripetuto in merito al suo lavoro. Quasi uno stereotipo convenzionale. Noi riteniamo
che si tratti di una dolcezza “alla Maeterlinck”, ossia variegata da un amaro retrogusto di veleno. Poco oltre l’intervistatore si
lasciava andare e definiva Rubino «il poeta
del sentimento»: che vuole dire tutto e non
vuol dire nulla. Il guizzo imprevisto, però, se
lo inventò Edoardo. D’emblée. Le sue frasi,
che avevano il suono contratto di una confessione, scossero l’interlocutore come un brivido improvviso: «Ma ora sono anche stanco di
questo lavoro continuo, che non mi dà tregua.
Vede, qualcuno mi giudica erroneamente, e
dice che io sono un essere fortunato, che non
ho mai avuto da lottare, che ho trovata la via
perfettamente spianata dinnanzi a me. Non è
vero, sa. Quand’ero allievo di Tabacchi
all’Accademia, studiavo nei ritagli di tempo,
perché, per potermi pagare il lusso degli
studi, ero persino costretto a fabbricare e poi
vendere i ferri del nostro mestiere. Quando
entrai nello studio di Bistolfi, feci l’operajo
per parecchio tempo. Altro che facilità! Ho
dovuto combattere e furono giorni asprissimi». L’enigmatico Rubino spiazza anche noi,
che nelle sue parole troviamo, comunque,
conferma di una supposta e trattenuta
inquietudine di fondo, quell’inquietudine
che dovette affratellare la sua psiche e certa
sua scultura alla sensibilità malata dei poeti
crepuscolari.
In assenza (speriamo momentanea) di un adeguato materiale documentario ed
epistolare, l’intervista di Rinaudo resta una testimonianza di primaria importanza. Anche per consentirci di ipotizzare un approccio “filologico” con l’anima dello
scultore, col suo carattere. Il recupero o la ricomposizione di un corpus epistolare
adeguato sarebbe fondamentale, inoltre, per ricostruire precisamente i rapporti di
amicizia di Rubino, che a oggi risultano poco più che ombre di fantasmi. Si parla
di scambi profondi con i letterati: Edmondo De Amicis e Giovanni Cena, fra tanti;
e con gli artisti: Grosso, Carpanetto,55 Lupo, Casanova, Calandra, Bistolfi,
Biscarra, Contratti, Cometti, Cesare Reduzzi, Corrado Betta, Guido Rey e chissà
con quanti altri ancora. Per non parlare degli allievi, bravi e prediletti: Abele
Jacopi, Gaetano Orsolini, Luigi Aghemo, Umberto Baglioni, Arturo Arista, Emilio
Musso, Antonio Zucconi, Nillo Beltrami, Claudia Formica, Pier Ugo Tirozzo,
Aurelio Quaglino, Angelo Saglietti... Un altro aspetto caratteriale dello scultore,
che possiamo dedurre dalle scarse fonti a nostra disposizione, è la modestia. Una
modestia singolare, a volte decisamente eccessiva, quale traspare dalle parole
pronunciate da Rubino stesso in
Consiglio Comunale a Torino,
nell’autunno del 1915, per commemorare l’appena defunto Calandra: «Invitato da Buenos Aires
a concorrere per il monumento al
Generale Mitre, Davide Calandra,
per timore che gli impegni per
altri lavori non gli permettessero
di dedicarsi con la consueta coscienza alla nuova grande impresa, e d’altra parte sentendo che
non doveva rinunciare, mi propose di associarmi a Lui nell’accettare l’invito e nel concepire e preparare il bozzetto. Erano per questo monumento chiamati in gara
artisti di fama di diverse regioni.
Io gli feci osservare che era opportuno che il suo nome comparisse da solo nel concorso e pel desiderio che un italiano ed artista pari suo non mancasse alla prova,
lo incoraggiai ad accettare, offrendogli la mia collaborazione non palese. Non
volle; preferì affrontare, con la dichiarata collaborazione, il pericolo che il mio
nome oscuro poteva recare seco piuttosto che adattarsi ad una non sincera soluzione. E mi fece partecipare di una vittoria che avrebbe toccato da solo». Macché
nome oscuro, nome addirittura pericoloso: il trentaseienne Rubino era già allora
(stiamo parlando del 1906-07) una figura di spicco nel panorama artistico torinese e nazionale, sostenuto a suon di squilla da Thovez e compagni. Era un talento
ancora emergente, ma già in vista: lo dimostra, per esempio, la sua non sporadica
presenza – dal 1901 al 1910 – tra le prestigiose pagine romane di “Novissima”,
albo di lettere e arti che segnò il culmine del gusto nouveau in Italia. Tant’è che
di tale modestia si stupì perfino un cronista d’epoca, Giuseppe Deabate, in un articolo del 1927: «No, neanche allora, quasi un ventennio fa, Edoardo Rubino era
più un nome oscuro. Egli era già chiaro fra i giovani scultori nostri, era già uno dei
lavoratori più tenaci, più forti e più promettenti».56 Il Monumento a Bartolomé
Mitre – maestoso, leggero ed elegante a un tempo – lanciò il nome di Rubino nel
firmamento plastico d’oltreoceano57 e del mondo intero. «Non è che il lavoro sia
fatto a quattro mani, osserva Rubino. Calandra ed io abbiamo studiato il bozzetto
e ci siamo divisi il compito a seconda della nostra natura e delle nostre tendenze.
45
Rubino con il senatore
Giovanni Agnelli
a Prà Martino negli anni ’30
(foto archivio eredi Rubino)
Calandra s’è addossata l’esecuzione del monumento equestre; io ho ideato i varii
gruppi del basamento.»58 Quando il Monumento a Bartolomé Mitre venne definitivamente composto – con l’assemblaggio dei gruppi giunti dall’Italia via mare –
e inaugurato, nel 1927, Rubino era all’apice della sua fama.59
L’interregno tra le due guerre fu un periodo fecondo e di crescita professiona46
Il risveglio, marmo, 1934
Genova, Raccolte Frugone
le per Edoardo, che entrò, col consueto pudore, anche nelle grazie dalla famiglia
Agnelli. Gozzano, larvato dalla tubercolosi, era morto giovane, nel 1916: il suo
fiore all’occhiello e il suo corteggio di poeti crepuscolari erano ormai acqua passata.60 Attardati sentori simbolisti si respiravano solo più in certi suggestivi film
di Febo Mari, prodotti dalla Ambrosio. Torino, in fatto di cultura artistica, era
diventata la città di Lionello Venturi, di Riccardo Gualino, dell’egemone Casorati,
di Fillia futurista di seconda generazione, di Edoardo Persico, del gruppo infranciosato dei sei pittori. La manifattura Lenci, intanto, con le sue stupefacenti prime
ceramiche d’artista, si apprestava a far rimbombare l’accento piemontese nelle
sale del Metropolitan di New York e all’interno della redazione londinese di “The
Studio”. Lo scultore Giovanni Riva, con la Fontana Angelica di piazza Solferino,
tirava in ballo, per la prima volta a Torino, il magistero di Maillol e il pugliese
“ligustico” Baroni, dal canto suo, esalava l’ultimo respiro sulle geniali forzature
del Monumento al Duca d’Aosta. Agnelli si rivelò dunque acceso sostenitore dell’arte di Rubino, al quale – oltre alle opere nelle due chiese, nel cimitero di Villar
Perosa e nella chiesa parrocchiale di Sestriere – commissionò e finanziò la realizzazione dell’immensa Vittoria in bronzo, per il faro dedicato alla memoria dei
caduti della prima guerra mondiale; eretto sul colle torinese della Maddalena (con
la collaborazione dell’allievo Aurelio Quaglino), il monumento venne inaugurato
nel 1928. Sempre per Agnelli, Rubino inventò la formidabile Pala marmorea con
don Bosco e storie della sua missione di educatore svolta in mezzo ai giovani, pul-
lulante di una miriade di figure scolpite in rilievo e destinata all’altare della chiesa salesiana dell’Istituto Internazionale Edoardo Agnelli.61 Da non trascurare,
altresì, i rilevanti rapporti di lavoro intercorsi tra Rubino e Casanova con Giovanni
Agnelli, rapporti approfonditisi in occasione del concorso d’appalto per l’arredo
dei vagoni del Treno Reale. Abbiamo parlato della colossale Vittoria del faro della
Maddalena e non ci tratteniamo dal
dare cenno di quella che riteniamo
una tra le più felici statue allegoriche
della maturità dell’artista; si tratta
sempre di una Vittoria, in gestazione
tra il 1918 e il 1928: impeccabilmente fusa in bronzo (in onore dei dipendenti postelegrafonici caduti nel ’15’18), la moderna Nike è contemplabile nell’atrio del Palazzo delle Poste di
Torino.62
Tutto questo per spiegare che lo
stile rubiniano del ventennio littorio è
cosa notevolissima, in particolare nell’ambito funerario:63 stanno lì, ad attestarlo, la disincarnata purità del
monumento sepolcrale in memoria di
Giuseppina Chiesa (1930, Cimitero
Monumentale di Milano) o la tomba di
Alice Schanzer, moglie di Tancredi
Galimberti, per l’omonima cappella
cuneese (1938-40).64 Ma non sono
certo da meno l’intensa Madre, una
figura carica di pathos proposta alla
XXIII biennale di Venezia (1942),65
oppure due coeve attestazioni di regime, entrambe tradotte in alluminio: la
prima, tramandata come Il genio del
fascismo (un duce a cavallo di grandi dimensioni, futuristicamente geometrizzato,
immortalato nudo e col braccio destro levato in saluto), si trovava all’esterno della
centrale “Claudio Castellani” di Ponte Gardena e venne distrutta negli anni
Sessanta;66 la seconda, un fulminante gruppo equestre intitolato L’Energia domata (1940-45 circa), tuttora scalpita e troneggia potente davanti alla centrale idroelettrica di Glorenza.67 Finanche il denigrato omaggio monumentale ai caduti di
Novi Ligure o il macchinoso monumento nazionale al Carabiniere, mastodonticamente piantato nei giardini inferiori del Palazzo Reale di Torino e scoperto il 22
ottobre 1933 al cospetto di Vittorio Emanuele III, sarebbero adesso da riguardare
con occhi liberi da condizionamenti ideologici. Lo scultore faceva, con accento un
47
Madre, opera esposta
alla Biennale di Venezia
del 1942
(foto archivio eredi Rubino)
48
Francesco Ruffini
marmo, 1954
Torino, Palazzo dell’Università
po’ nuovo, ciò che aveva sempre fatto: osservare il dato oggettivo privo di veli, per
poi operare un processo di astrazione idealizzante, non negando mai, però, fino in
fondo il vero e riuscendo a fermare ogni volta il racconto «nel momento esemplare».68 La mai sopita devozione al reale non mancò di essere rimarcata dall’attento
Francesco Sapori: «Devoto alla verità e anelante bellezza, il Rubino ha un gusto
suo proprio della composizione e ama le linee tracciate con docile incanto».69 Un docile incanto cullato «al di là delle limitazioni di tendenza e di scuola,
al di sopra delle convenzionali e talvolta vacue
demarcazioni di stile»:70 sono le frasi con cui un critico, nel 1940, accompagnava la presentazione di
due nuove sculture a soggetto religioso del «senatore Rubino» (il Sacro Cuore e un Cristo crocifisso per
la chiesa torinese della Gran Madre di Dio). Ma l’ingenuo commentatore non avrebbe mai potuto supporre che proprio quel linguaggio maturato oltre le
tendenze e le scuole, che proprio quella poetica
svincolata dalle convenzioni e dagli stili codificati,
sarebbero stati i principali ostacoli per una corretta
ricezione postuma dell’opera del nostro artista. Dopo
il primo conflitto mondiale Edoardo riuscì a modernizzare il suo modo di plasticare e scolpire, senza
seguire il trend delle correnti ufficiali e senza contraddire nell’intimo quella che era stata la sua poetica, fatta di invisibili tumulti sottostanti e di lievi,
ultrasensibili vibrazioni di superficie. Il decorativismo si smorza, le forme divengono più essenziali e
robuste, la voce del ventennio si fa sentire con qualche vigorosa cadenza neolatina, ma la lirica di fondo
non cambia. Contrariamente a quanto, purtroppo,
successe al più anziano Bistolfi (passato presto di
moda e spietatamente messo in caricatura dai
modernisti), la maturità diede onori pubblici71 e
nuove energie creative a Rubino, che riuscì a superare in piena attività anche la seconda guerra e a morire in gloria, a ottantatre
anni, stroncato da un’angina pectoris mentre stava licenziando la sua ultima creatura: una ieratica e purissima figura intera di Francesco Ruffini, fatta scolpire per
l’Ateneo torinese di via Po.
Ecco: giusto pensando alla disumana, astratta fissità del Francesco Ruffini e
considerato il carattere aperto e dubitativo del nostro intervento, ci piacerebbe
chiudere con un estremo interrogativo. Non sarebbe opportuno, forse, rimettere in
discussione anche il pregiudizio manicheo che vede il Rubino tardo solo come un
sopravvissuto a se stesso?
Note
1
Daniele Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia, in
Eclettismo e Liberty a Torino: Giulio Casanova e Edoardo Rubino (a cura di Franca Dalmasso),
Torino, Il Quadrante, 1989, pp. 89-110. Si tratta del catalogo della mostra allestita all’Accademia
Albertina di Belle Arti (18 gennaio-5 marzo 1989).
Walter Canavesio, Edoardo Rubino e la Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G.
Galante Garrone, La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 151-157.
2
Pietro Antonio Gariazzo (1879-1964), pittore e intellettuale torinese dalla sfortunata vicenda artistica, fu uno dei primi teorici italiani del cinema, che definì, appunto, “teatro muto” (cfr. P. A.
Gariazzo, Il teatro muto, Torino, Lattes, 1919).
3
Fra i vari lavori d’illustrazione di Rubino, citiamo qui la copertina che lo scultore disegnò per
L’amante ignoto, poema tragico di Amalia Guglielminetti (Milano, Treves, 1911).
4
È da ricordare, al riguardo, che nell’anno 1900 il critico Primo Levi pubblicò il pionieristico saggio dedicato a La scultura nova in Piemonte (Roma, Società Editrice Dante Alighieri), contenente
precoci approfondimenti su Pietro Canonica, Davide Calandra e Leonardo Bistolfi.
5
6
Intorno al problema delle arti applicate il giovane Rubino raggiunse il suo momento più acutamente bistolfiano, contaminato da una sensibile predilezione per il decorativismo mitteleuropeo di
Gustav Gurschner. Lo attestano: la coppa per il Concorso Ippico Internazionale di Torino (giugno
1902); l’orologio presentato alla V Biennale di Venezia del 1903, all’interno della sala espositiva
della rappresentanza artistica piemontese ideata da Giacomo Grosso; una stupenda lampada elettrica e, soprattutto, la Fiamma, incandescente altorilievo simbolista sovrastante una fontana decorativa («per onoranze al professore d’igiene Icilio Guareschi»), sfoggiata alla Biennale di Venezia
del 1905, anno in cui vinse la medaglia d’oro. La fontana fu pubblicata da Vittorio Pica ne L’Arte
Mondiale alla VI Esposizione di Venezia (1905) e, come i succitati lavori di arte applicata, anche
da Enrico Thovez ne “L’arte decorativa moderna” (si vedano i numeri conclusivi della prima annata, 1902, e quelli di tutta la seconda annata, uscita con la massima irregolarità, tra il gennaio 1903
e il dicembre 1906). Sempre per il professor Guareschi, Rubino creò la statua mitologica di Igea.
Su “La Stampa”, che aveva preannunciato la visita di Rodin a Torino (Cronaca, 23 ottobre 1901),
venne pubblicato il resoconto del banchetto, tenuto «in una aristocraticissima sala del Circolo
degli Artisti, parata di verde pallido ed illuminata di grandi specchi», alla presenza dell’ambiente artistico torinese quasi al completo (tra gli artisti: Leonardo Bistolfi, Cesare Reduzzi, Pietro
Canonica, Edoardo Rubino, Davide Calandra, Cesare Biscarra, Giacomo Cometti, Lorenzo Delleani, Carlo Pollonera, Giovanni Battista Carpanetto, Carlo Follini, Giovanni Guarlotti, mentre
l’assenza di Giacomo Grosso era imputata a un viaggio sudamericano; tra gli intellettuali: Mucchi,
Cena, Thovez, Reycend, Graf, Corradino, Camerana). Di Cena e Bistolfi furono i brindisi finali
(Arti e Scienze. Ad Augusto Rodin, in “La Stampa”, 26 ottobre 1901).
7
Cfr. Flavio Fergonzi, Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 1, in “Prospettiva”, n. 8990, gennaio-aprile 1998 e Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 2, in “Prospettiva”,
n. 95-96, luglio-ottobre 1999.
8
Milo De Angelis, Presentazione, in D. Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milano, Unicopli,
2003, p. 7.
9
10
La Giovinetta di Nazareth (1902, marmo, cm 30x48x32) è il risultato estremo di quel filone misti-
49
50
cheggiante tardo ottocentesco, a cavallo fra verismo e decadentismo, che a Torino vantava illustri
precedenti plastici: Fior di chiostro (1884) di Davide Calandra e Dopo il voto (1889), Istinto materno (1894), Meditazione sulla morte (1900) e Le comunicanti (1901) di Pietro Canonica. La madonnina di Rubino però, segnata da un estetismo stremato e di ascendenza preraffaellita (si pensi a
The girlhood of Mary Virgin, capolavoro del ventunenne Rossetti), è indiscutibilmente più
“moderna”, frutto ambiguo e già contagiato dal nuovo secolo. L’esemplare che fu presentato
all’Esposizione Quadriennale di Belle Arti del 1902, è oggi conservato presso la Galleria d’Arte
Moderna e Contemporanea di Torino, acquistato all’epoca insieme a un altro marmo della medesima esposizione: un Ritratto, meglio noto come La bimba Luciano. Un secondo esemplare della
Giovinetta di Nazareth venne presentato al Glaspalast di Monaco di Baviera, nel 1913, mentre
un’ulteriore traduzione in marmo si trova presso il Museo de Arte Italiano di Lima. Dell’opera si
conoscono anche alcune fusioni in bronzo.
La testina in marmo intitolata Gelosa (1902 ca.) fu esposta dal collezionista e mercante mantovano Ferruccio Stefani, che allora si appoggiava alla galleria Witcomb di Buenos Aires, nella sua
seconda esposizione latinoamericana del 1903. Cfr. F. Stefani Exposiciones de Arte (BuenosAires, Montevideo, Valparaiso), Catálogo de la II Exposicion, Milano, Alfieri & Lacroix, 1903, p.
39. Se ne conosce un esemplare, appartenente a una collezione privata torinese.
11
In occasione dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa del 1902, evento cardine per il
milieu artistico torinese e nazionale, la parte principale di scultura decorativa venne affidata a
Rubino, associato all’architetto Raimondo D’Aronco. Edoardo fu incaricato di eseguire il gruppo
de La Danza (alto circa cinque metri e da ripetersi sei volte attorno alla cupola del padiglione
d’onore, leggermente variato nelle posizioni delle quattro figure) e di realizzare le statue allegoriche de La Pittura e La Scultura, destinate alla facciata principale della sede dell’Esposizione delle
Belle Arti: l’azzardata doratura di queste ultime due sculture venne severamente bacchettata da
Enrico Thovez e Alfredo Melani. I gruppi plastici dell’esposizione del ’02 valsero a Rubino un
gran diploma e la medaglia d’oro. Vittorio Emanuele III, al trono da un paio d’anni, acquistò una
riduzione in bronzo de La Danza, opera che godette di un notevole successo, come dimostra (ad
esempio) un noto cache-pot realizzato in biscuit dalla Ginori, evidentemente ispirato alle cosiddette “quattro Grazie” di Rubino. I bozzetti in gesso de La Danza, La Pittura e La Scultura, sono conservati presso una collezione privata di Pinerolo.
12
Gustave Soulier, L’Esposizione di Torino. Il contributo italiano, in “L’art décoratif”, Septembre
1902, pp. 234-245.
13
14
Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della sera”, 16 ottobre 1895, e poi ne Il Vangelo
della pittura ed altre prose d’arte, Torino, Lattes, 1921, pp. 119-127.
Mario Labò (1884-1961) intensificò la sua collaborazione con “L’arte decorativa moderna” a partire dal quarto numero del terzo anno, affiancandosi a Thovez nel ruolo di redattore centrale; col
rinnovato assetto redazionale, oltretutto, la rivista si prefiggeva illusoriamente di regolarizzare e
rendere puntuale la cadenza mensile, come si evince dall’editoriale introduttivo di quella stessa
quarta uscita del 1907.
15
Cfr. Mario Labò, La statuetta di Vivien Chartres di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 2, 1907, pp. 57-58.
16
Ancora in ambito musicale, non si dimentichi la placchetta realizzata da Rubino nel 1903, su
commissione dell’Associazione della Stampa Subalpina. La targa, pienamente simbolista, venne
fusa in argento dal gioielliere torinese Musy e dedicata a un socio benemerito d’eccezione: il tenore Francesco Tamagno.
17
18
Cfr. “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 3, 1907, p. 93.
È tuttora oggetto di discussione, presso gli storici della musica, se la “prima” italiana di Salome
debba considerarsi la rappresentazione diretta dallo stesso Strauss il 23 dicembre 1906 al Regio
di Torino, oppure la prova generale (aperta al pubblico) condotta da Toscanini alla Scala di Milano,
19
andata in scena nel pomeriggio del medesimo giorno. Quello fra Regio e Scala fu un vero e accanito testa a testa: proprio al furioso Toscanini, infatti, il compositore bavarese aveva promesso di
affidare il debutto nazionale del suo nuovo capolavoro. Cfr. Giorgio Gualerzi, Salome delle discordie, in “Torinosette”, venerdì 15 - giovedì 21 febbraio 2008, p. 25.
La Salome fu tradotta in bronzo dal fonditore torinese Menzio. Questo dato tecnico emerge da una
lettera inedita di tre facciate, inviata a Spirito Luciano (1866-1924), che allora si trovava a Città
del Messico per lavorare insieme allo scultore Enrico Alciati. Nella missiva, vergata a Torino in
data 14 aprile 1907, Rubino comunica all’amico e collaboratore Luciano che «[…] sabato 20,
andando a Venezia, porterò con me la Salomè in bronzo (ho mandato in questo momento la cera
ritoccata a Menzio, il quale mi ha promesso di potermela dare)».
20
I restanti fiumi piemontesi (Le tre Sture, Il Po e Il Sangone) vennero affidati rispettivamente a
Giacomo Cometti, Luigi Contratti e Cesare Reduzzi.
21
Alessandro Marabottini, Lionello Balestrieri. La vita e l’opera, in Lionello Balestrieri (Cetona
1872-1958), Firenze, Edizioni Pananti, 2000, p. 30.
22
Cfr. Enrico Thovez, Placchette, medaglie e monumenti di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa
moderna”, Anno II, n. 7, 1905, pp. 193-197.
23
Ringraziamo Pierina Trivero per la fondamentale collaborazione, grazie alla quale ci è stato possibile il ritrovamento dell’inedito rilievo di Rubino, e Bruno Giordano per la disponibilità che ci
ha dimostrato nel metterci a disposizione l’opera stessa.
24
Luigi Carluccio, Bruno Martinazzi, Torino, 1972, catalogo della mostra allestita alla galleria La
Parisina (marzo 1972), pagine non numerate.
25
26
Giuseppina Jona, Artisti contemporanei: Edoardo Rubino, in “Emporium”, Vol. LXVII, n. 398,
febbraio 1928, pp. 68-69.
Il posto fu vinto, invece, dal classicista fiorentino Cesare Zocchi (1851-1922), con 56 voti favorevoli, contro i 54 di Bistolfi: il solido ma convenzionale mestiere di Zocchi doveva sembrare certo
più “rassicurante” rispetto al genio visionario di Bistolfi, soprattutto in un’ottica pedestremente
scolastica.
27
Pare che l’esclusione di Bistolfi dall’insegnamento accademico fosse prestabilita e che la scandalosa motivazione ufficiale suonasse così: «Bistolfi è un poeta, non uno scultore!». Thovez e la
sua fronda si mostrarono immediatamente scandalizzati: «La nomina dello Zocchi a professore di
scultura nell’Accademia di questa nostra città che ospita da tanti anni e ormai considera come suo
cittadino Leonardo Bistolfi […] è tale enormità che desterà infinita sorpresa e profondo dolore non
solo a Torino, ma in tutta Italia» (cfr. La Cattedra di Scultura all’Accademia Albertina e la nomina
dello Zocchi, in “L’arte decorativa moderna”, Anno II, n. 7, 1905, pp. 211-214). Si vedano anche
le veementi proteste scritte degli artisti torinesi e degli allievi dell’accademia Albertina, pubblicate sempre da Thovez su “L’arte decorativa moderna” (Anno II, n. 8, 1906, p. 254).
28
29
Nel 1909, come osserva Sandra Berresford, Bistolfi «uscì in una delle pochissime autodifese a
noi note [R. Sacchetti, La nuova ebrezza artistica di Leonardo Bistolfi, in “Il Secolo”, 18 gennaio
1909], in cui contestò la critica che gli fu mossa di fare della “letteratura” e sostenne, all’opposto,
di ideare le sue sculture plasticamente, attraverso la forma e mai divise da essa». Cfr. S.
Berresford, Bistolfi e il “Bistolfismo”, in R. Bossaglia e S. Berresford, Bistolfi 1859-1933. Il percorso di uno scultore simbolista, Casale Monferrato, Piemme, 1984, p. 21.
30
Cfr. Sandra Berresford, Op.cit, p. 177.
Cfr. Roberto Rossi Percerutti (a cura di), Torino Art Nouveau e Crepuscolare. Poeti e luoghi della
poesia, Milano, Crocetti, 2006.
31
32
Dario Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milano, Unicopli, 2003, p. 21.
33
Segnaliamo altri frutti memorabili del prolungato sodalizio torinese tra Rubino e Casanova: il
51
Palazzo delle Poste e Telegrafi, realizzato tra l’ottobre 1905 e il marzo 1911; la cappella funeraria
della famiglia Porcheddu-Dainesi del 1912; il portico d’ingresso e le decorazioni plastiche esterne della rinnovata Società Promotrice delle Belle Arti (1914-16); la tomba di Carolina Invernizio
del 1916 e la scomparsa confetteria storica Romana-Bass, sita in piazza Castello e ristrutturata dal
1918 al 1920. Per quest’ultima Rubino ideò un magnifico rilievo bronzeo (considerato disperso,
ma in realtà conservato presso una collezione privata di Torino) e una statuetta, sempre in bronzo,
allora posta a decorazione del banco della liquoreria e oggi perduta.
52
Per l’esposizione universale del 1911, evento che portò a Torino sette milioni e mezzo di visitatori, Rubino creò una splendida placca bronzea, fusa in diverse misure e usata come diploma
d’onore oppure come gran premio.
34
A proposito di baccanali, vogliamo ricordare l’importantissima Baccante o L’offerta (cm
74x28x28), un bronzo del primo decennio del Novecento, proprietà delle Raccolte Frugone di
Genova. La scultura, acquistata dall’imprenditore e collezionista Luigi Frugone presso il mercante Ferruccio Stefani, estimatore di Rubino già dagli esordi, riassume in modo emblematico l’inclinazione simbolista dello scultore, ancora e sempre pervasa da qualche accenno di verismo (parlano chiaro, al riguardo, i glutei e le cosce ben tornite dell’adepta di Dioniso). Altrettanto interessante e ancor più tornita l’altra Baccante (cm 82x22x29,5) della collezione Frugone, sempre in
bronzo ma molto più tarda.
35
36
Dario Capello, Op. cit., p. 17.
A conferma dei rapporti stretti fra le arti figurative torinesi del primo Novecento e il crepuscolarismo, ricordiamo il fatto che la tomba del poeta Giovanni Croce (1912, Cimitero Monumentale
di Torino) fu la prima opera ufficiale del giovane Emilio Musso, appena diplomatosi all’Accademia
Albertina e, allora, allievo-aiutante di Calandra e Rubino.
37
La personalità di Enrico Thovez (1869-1925) è una delle più complesse e contraddittorie nell’ambiente culturale subalpino del primo Novecento. Torinese di origine savoiarda, con ascendenze materne sardo-catalane, Enrico era laureato in lettere (con una tesi sul Medioevo dorico e lo stile
del Dipylon, discussa il 15 luglio 1896 e poi pubblicata nel 1903). Collaborava inoltre regolarmente a quotidiani e riviste, con articoli di critica letteraria, arte e costume. Legato già dagli anni universitari all’élite culturale gravitante intorno ad Arturo Graf, si segnalò per le spiccate qualità di
polemista, denunciando i plagi e gli aspetti deteriori dello stile di Gabriele D’Annunzio, nonché
avversando l’egemonia carducciana e pascoliana (da ricordare, al riguardo: Il pastore, il gregge e
la zampogna, Napoli, Ricciardi, 1910). Appassionato cultore del melodramma wagneriano e assai
attivo come ritrattista, Thovez si dimostrò eccentrico anche nella veste di storico dell’arte, sia antica sia moderna: è nota, infatti, la sua insofferenza per il realismo francese (per Courbet, in primis),
per gli impressionisti, per Van Gogh e Cézanne. Adorava invece i preraffaelliti della prima ora,
ammirava Rodin e accolse a braccia aperte l’arrivo dell’Art Nouveau, che si impegnò freneticamente a diffondere nel nostro paese, partecipando alle complesse fasi organizzative
dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa del 1902.
38
Ogni tanto qualcuno, errando, riporta la notizia che “L’arte decorativa moderna” rientrò in circolazione nel 1909, uscendo con il nuovo titolo “Per l’arte”. In realtà “Per l’arte”, una rassegna
mensile torinese di arti applicate, era tutt’altra faccenda: diretta da Giovanni Battista Gianotti e
stampata dalla Società Italiana di Edizioni Artistiche C. Crudo & C. (Torino), la rivista uscì dal
1909 al 1915, anch’essa con cadenza irregolare.
39
40
Insiste il poeta milanese: «Rinchiusa nel suo ottagono perfetto, attraversata dalle sue perpendicolari, urta di continuo l’intrico di segmenti che la costituiscono: città di spigoli e attriti, di segrete accensioni perimetrate» (M. De Angelis, Op. cit., pp. 8-9).
Cfr. Alberto Clementi, Storia dell’arredamento, Milano, Società Editrice Libraria, 1952, pp. 124148. A onor del vero non bisogna trascurare altri due convinti assertori del peso europeo della
Torino di Thovez: Italo Cremona e Albino Galvano.
41
Il passaggio è stralciato dalla brutta copia di una lettera inedita di Thovez, scritta a Rubino in
data «Torino, 27 giugno 917». La minuta, vergata su due facciate e fitta di correzioni, fa parte del
Fondo Enrico Thovez, custodito presso il Centro Studi Piemontesi di Torino. Ringraziamo Albina
Malerba per la disponibilità con cui ci ha messo a disposizione il materiale del suddetto fondo,
peraltro già studiato dall’italianista Paolo Luparia.
42
A sostegno di una lettura europea degli orizzonti intellettuali di Rubino, ci preme sottolineare la
presenza, nel suo archivio di lavoro, di una fotografia del barone tedesco Wilhelm von Glöden
(1856-1931), arrivatagli probabilmente per tramite dell’amico fotografo Guido Rey. Le foto di von
Glöden (esteta omosessuale in odore di perversità: amico di Wilde e D’Annunzio, di Costantino
Barbella e Matilde Serao) furono utilizzate e apprezzate da artisti del calibro di Lawrence AlmaTadema, Frederich Leighton, Maxfield Parrish, Alfred Stieglitz, ecc.
43
44
Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Milano, Librex, 1986, p. 13.
Jarno Jessen, Prerafaelismo. Con aggiunte originali sul Prerafaelismo in Italia del dr. Enrico
Thovez, Torino, Clausen, 1907.
45
Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della Sera”, 16 ottobre 1895; e poi ne Il Vangelo
della pittura ed altre prose d’arte, Torino, Lattes, 1921, pp. 119-127.
46
Una testimonianza diretta, raccolta tra i familiari dell’artista, ci conferma che Rubino fu legato
sentimentalmente al compagno di escursioni Guido Rey, per il quale illustrò il libro Il monte
Cervino (Milano, Hoepli, 1904), introdotto da Edmondo De Amicis: i fogli originali dei ventitré
disegni dello scultore sono oggi conservati presso il Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi”
di Torino. Guido Rey (1861-1935), nato da un’illustre famiglia di imprenditori (era nipote di
Quintino Sella) e studente dell’Accademia Albertina, è ricordato come fotografo, intellettuale e
alpinista di notevolissimo valore. Espose per la prima volta le proprie fotografie nel 1892 e ricevette riconoscimenti ufficiali, a Torino, dalla prima esposizione generale italiana del 1898. L’anno
seguente le sue estetizzanti immagini di gusto fiammingo vennero premiate, a Firenze, con una
medaglia d’oro. Nel 1902 Rey era presente all’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa di
Torino con alcune fotografie pittoriche di intonazione “olandese”; grazie a queste foto riscosse un
grande successo in campo internazionale, ottenendo una lusinghiera pubblicazione sulle pagine
del periodico britannico “The Studio” (la prefazione era firmata da Enrico Thovez) e su quelle di
“Camera Work”, la prestigiosa rivista newyorkese diretta da Alfred Stieglitz.
47
Cfr. Enrico Thovez, Diario e lettere inedite (1887-1901), a cura di Andrea Torasso, Milano,
Garzanti, 1939, p. 992 (lo stralcio in questione è datato «29 maggio 1900»).
48
49
Jules Pierre van Biesbroeck (1873-1965) fu scultore e pittore assai considerato dai nostri artisti
del primo Novecento. Figlio e allievo del belga Jules van Biesbroeck, professore all’Accademia di
Gent, debuttò ufficialmente nel 1888, al Salon des Champs-Elysées di Parigi. Nato in Italia (a
Portici, nei pressi di Napoli), durante un viaggio dei genitori, vi ritornò spesso, stringendovi relazioni e amicizie, e prendendo dimora prima a Bordighera, poi a Palermo, quando infuriava la
Grande Guerra. Espose al Casinò di San Remo e al Kursaal di Palermo. Nel 1935 aprì un atelier
in Algeri. È da ricordare l’ampia retrospettiva dedicata all’artista, tenutasi dal 15 al 23 giugno
1991 nel palazzo Muzzarelli-Crema di Ferrara, oltre al bel catalogo curato da Lucio Scardino e
Arturo Malagù (Ferrara, Liberty House, 1991).
50
Francesco Pastonchi, Sepolcro, in Belfonte, Torino, Streglio, 1903, p. 131.
Cfr. Enrico Thovez, Il concorso per una tomba-monumento a Benedetto Brin, in “L’arte decorativa moderna”, Anno I, n. 2, febbraio 1902, p. 56 (ill.) e pp. 60-61 (testo).
51
Il gruppo di Rubino è quello di destra, sulla facciata del palazzo di via Bertola. La progettazione e la costruzione del nuovo edificio della Cassa di Risparmio di Torino fu quanto mai travagliata: il cantiere si aprì, con non poche irregolarità amministrative, nell’ottobre del 1914. Nel 1923
(l’anno della morte dell’ingegnere Carlo Angelo Ceresa, il protagonista di questo incredibile epi52
53
sodio) i lavori non erano ancora ultimati. Così il palazzo, ancorché incompiuto, venne venduto alla
Società Idroelettrica Piemontese, il 3 aprile 1925. Cfr. Aldo Castellano, Il palazzo incompiuto di
via Bertola, in Banca CRT. Storia, patrimonio d’arte, comunicazione d’impresa, Torino, 2002, pp.
146-150.
Leonardo Bistolfi, L’arte decorativa moderna, conferenza tenuta presso il Teatro Alfieri, per incarico dell’Università Popolare, il 4 giugno 1902, in “L’Arte decorativa moderna”, Anno I, n. 5, maggio 1902, pp. 129-152.
53
54
Cfr. Paolo Cesare Rinaudo, Pietro Canonica, Tancredi Pozzi, Edoardo Rubino. Interviste, Artisti
e fatti contemporanei (serie I), Torino, Il Prisma, 1912.
54
Ad attestare il precoce rapporto fra Rubino e il più adulto pittore torinese Giovanni Battista
Carpanetto (1863-1928) rimane un vivido pastello, datato 1896 e fino a oggi inedito, che ritrae lo
scultore appena venticinquenne. Esattamente quarant’anni dopo, nel 1936, anche Giacomo
Grosso avrebbe ritratto l’amico Edoardo, ormai carico di gloria e onori.
55
Cfr. Giuseppe Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre, in “Le Vie d’Italia e
dell’America Latina”, luglio 1927, pp. 773-779.
56
Un altro lavoro monumentale d’oltreoceano, trascurato dalla critica, è il monumento realista al
generale José Maria Cabal Barona, martire dell’indipendenza colombiana e membro della
Expedición Botánica. Realizzato da Rubino per la Plaza de Cabal (o Parque Cabal) di Buga, il
monumento è spesso erroneamente citato come opera di un improbabile “Fernando Rubinni”; esso
venne con tutta probabilità scoperto il 6 agosto 1924, data dell’inaugurazione ufficiale della nuova
sistemazione della piazza principale di Buga (Colombia).
57
58
Paolo Cesare Rinaudo, Op. cit., p. 8.
Cfr. Franco Sborgi, Buenos Aires: il monumento a Bartolomé Mitre, in R. Belmondo e M. M.
Lamberti (a cura di), Davide Calandra. L’opera, la gipsoteca, Savigliano, 2004, pp. 151-163. È
probabile che proprio nello stesso anno (1906) Rubino abbia ricevuto anche la commissione per
la tomba del generale Mitre, destinata al cimitero della Recoleta in Buenos Aires: l’opera funeraria, potente e vigorosa, è stata restaurata in tempi assai recenti.
59
La data estrema del crepuscolarismo è unanimemente ritenuta il 1916, l’anno in cui Marino
Moretti diede alle stampe i versi de Il giardino dei frutti (Napoli, Ricciardi). Subito dopo la grande guerra le atmosfere crepuscolari divennero obsolete. Ma siamo d’accordo con Bianca Saletti,
quando afferma: «Al di là degli attuali apprezzamenti e rivalutazioni di quegli artisti che, per analogia con il coevo movimento letterario, vengono definiti crepuscolari, è su alcuni di essi, in particolare Felice Carena, Evangelina Alciati, Cesare Ferro, che si innesterà il momento più interessante per la pittura torinese immediatamente successiva alla prima guerra mondiale» (cfr. Scritti
d’arte di Enrico Thovez, a cura di B. Saletti, Treviso, Canova, 1980, p. XXXVIII).
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Delle opere commissionate a Rubino dagli Agnelli, citiamo ancora: la figura seduta della signora Agnelli (prima opera realizzata per la famiglia torinese, esposta alla biennale di Venezia del
1907); il bel ritratto di Tina Nasi (1920 ca.); gli algidi busti tardi di Edoardo e Giovanni Agnelli;
una curiosa statua di marmo, raffigurante Edoardo in tenuta da sci a Sestriere (h. 70 cm), conservata presso il Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino, e una medaglia in onore di
Giovanni Agnelli (1924, diametro 28 mm).
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Rubino presentò la scultura alla XVI Biennale di Venezia, nel 1928, «in una collocazione privilegiata», come sottolinea Monica Tomiato, e «curiosamente simile a quella attuale: nella rotonda
dopo il vestibolo d’ingresso al Padiglione principale dell’esposizione». Per il catalogo della
Biennale venne fotografato, con ogni probabilità, il modello in gesso della Vittoria, mentre in
mostra la statua fu poi esposta in bronzo (almeno così risulta dalla didascalia della pubblicazione).
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63
Scrive bene Canavesio: «Rimase intatto […] il potenziale di sensibilità dolente e partecipata nei
confronti dei temi funebri, espressa in forma accentuatamente interiorizzata. Un orientamento che
aveva bisogno di adeguate ambientazioni, dove uno spazio disteso e il silenzio accoglievano senza
increspature i castoni e non disturbavano la contemplazione» (Cfr. W. Canavesio, Op. cit., p. 153).
Cfr. Mario Cordero, La Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone,
La Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo,
Agami, 1998, pp. 95-103.
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Madre, che era in realtà una delle due figure realizzate da Rubino per la tomba di Luigi Frugone
e Giuseppina Ferrari (1942-44, Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova), venne esposta alla
XXIII Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia insieme ad altre nove opere dello
scultore, fra le quali spiccava una statua di Eva, subito acquistata dal Museo Civico di Torino. I
recensori dell’epoca, però, non gradirono i «freddi saggi accademici» del senatore torinese.
Rubino, purtroppo, appariva ormai fuori tempo: allora impressionava e piaceva la «vitale essenzialità plastica» di Arturo Martini e Marino Marini.
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Dobbiamo alla caparbietà filologica di Monica Tomiato il merito di aver recuperato una rara
immagine inedita de Il genio del fascismo di Rubino.
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Sarebbe un peccato tralasciare, parlando del Rubino anni Trenta, la figura distesa intitolata Il
risveglio (cm 220x54x86), un marmo levigatissimo e sognante, esposto alla Biennale di Venezia del
1934 e alla Promotrice di Torino nel 1938, ora custodito nella collezione delle Raccolte Frugone
di Genova. Della scultura esiste anche un esemplare unico in bronzo (cm 90x34), di eccelsa fusione, che fu proprietà del critico torinese Marziano Bernardi, imparentato con Rubino. Il gesso preparatorio de Il risveglio, legato subito dopo la morte dell’autore, è conservato invece presso la
Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino.
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68
Cfr. Walter Canavesio, Op. cit., p. 152.
69
Cfr. Francesco Sapori, Scultura italiana moderna, Roma, La Libreria dello Stato, 1949, p. 471.
70
Cfr. Rodolfo Arata, Due nuove statue del senatore Rubino alla Gran Madre di Dio, in “Torino”,
Anno XX , n 10, ottobre 1940, pp. 44-45.
Nella scheda autobiografica consegnata all’Accademia Albertina (1930, circa), Rubino snocciola tutte le sue onorificenze e le sue cariche politiche: Grand’Ufficiale della Corona d’Italia,
Cavaliere Ufficiale dei SS. Maurizio e Lazzaro, Accademico di S. Luca e corrispondente
dell’Accademia di Bologna, membro del Consiglio direttivo dell’Esposizione Internazionale di
Venezia, consigliere comunale dal 1915 al 1923, assessore per l’istruzione Professionale e per le
Belle Arti, membro del Consiglio direttivo della Civica Galleria d’Arte Moderna, membro della
commissione edilizia dal 1912, insegnante di materie artistiche nella ex-scuola di Architettura del
R. Politecnico (1919-20-21).
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Giacomo Grosso, Ritratto di Edoardo Rubino, 1936 (Torino, collezione privata)
The Rubino Enigma
Reflections on the Physiognomy of a European Sculptor
in an Artistic and Literary Context
by ARMANDO AUDOLI
It is undeniably true that Rubino ran the risk of being little more than an empty, albeit
revered, name in the all too limited literature on sculpture that spans the period from the end of
the 19thC to the beginning of the 20th century. With the exception, that is, of some fascinating but
dated accounts, dug out from the artistic literature of that period and, coming nearer our own times,
Daniele Pescarmona’s broad account;1 Walter Canevesio’s excellent study, focusing on Rubino;2 a
couple of doctoral theses and a handful of mentions here and there.
Edoardo Rubino: little more than a name but one whose career took off in style at a time when
Turin was opening up to the European Modern Style with the fantastic Exhibition of Modern
Decorative Art, which took place in 1902 and which witnessed the amazing Art Nouveau
“pyrotechnics” of architect Pietro Fenoglio: the Turin of sculptors such as Bistolfi, Canonica and
Calandra; of painters like Carpanetto and Giacomo Grosso who “renewed” the style of the previous century; of Oreste Pizio and Luigi Onetti, of the Anglophile Cesare Ferro and of Carena, the
latter still under the spell of Carrière; of the “lazy” Reviglione, crazy over Khnopff’s chimeras; of
Anton Maria Mucchi and his gloomy Gothic Symbolism; the Turin of Domenico Buratti with his
socialist sympathies with peasants and poets; and Agostino Bosia; of the unlucky Gariazzo, the
prophet of the future “silent theatre”;3 of Cesare Maggi, the Divisionist with his snow-tipped brush;
of the young Pastonchi and Gozzano, the still younger piedmontese dandy that he was, lips tightly
drawn in melancholy and eternally bathed in absinthe (that bitter green fairy, the Impressionists’
diluent, the liberator of fantasy); the Torino Mia of Nicola Galante and the Teutonic and insane
Curt Seidel who committed suicide in the footsteps of Nietzsche; the city of the fearsome critics
Mantovani and Thovez, of the muse Amalia Guglielminetti.4
A spasmodic Turin, one which sailed forth into the maelstrom of Europe on the wave of the
intricate relations between the Scapigliatura and the figurative arts, making any understanding of
the birth of modern sculpture in Piedmont5 dependent on a competent analysis of such ties. As
indeed, is comprehension of the city’s sudden welcoming of aesthetic innovation from Northern
Europe with open arms, or, again, the creative ferment which inspired Torinese sculptors from the
last two decades of the 19thC onwards. The crux of the matter is back then, at the very moment
that artistic expression was finally springing free from its late Risorgimental impasse. But there was
more to it than that. Not least the charismatic stature of certain figures (led by Bistolfi, Rubino,
Canonica and Davide Calandra): the main reason why many young talents came to Turin from all
over Italy and the world, to enrol at the Accademia Albertina, where, until only recently, the classicist supremacy of Vincenzo Vela and Odoardo Tabacchi had reigned unchallenged. Another sure
point in the city’s favour was the presence of numerous artistic foundries run by sometimes eccentric and paradoxical figures, obsessed by their own boundless ambition and by the high standard
of their work (one name may stand for all: that of Emilio Sperati). Thus fin de siècle Turin, with its
feverish artistic activity, was set to challenge Paris on the international stage for the leading role
in modern sculpture. Two anecdotes may illustrate this point. The first concerns the Grand Palais,
erected in Paris in a couple of years to host the Exposition Universelle of 1900, the artistic event
which electrified the whole world and which, with unprecedented publicity, was to see in the new
century. Nowadays, we would call it a global media phenomenon. So much so, that the leading star
of the moment, Auguste Rodin, was called upon to supervise its decoration. It is noteworthy that
the only foreigner he engaged to help him in the enterprise was a certain Giovanni Battista Alloati,
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from Turin, where he had already made a name for himself in the creation of curious everyday
objects in an unusually precocious Liberty style. More than a glowing promise of Italian
Symbolism, Alloati may be considered a forerunner of the modern designer. It was by no means
a coincidence that the 1900 Exposition marked a turning point in the heated debate on the decorative arts, which intended, once and for all, to overthrow the barrier dividing the “fine” and the
“applied” arts. Rubino, too, showed no hesitation, at the first opportunity, in flinging himself into
this aesthetic and social debate.6 The second episode again refers to Rodin, who, once again
through the by-now “Parisian” Alloati, contacted the critic and “Crepuscolare” poet Giovanni
Cena who, within the space of a year, had done his utmost, together with his dynamic friend
Rubino, to organise e celebratory banquet in Turin for the great French sculptor.7 It was held on
the 25th of October 1901 at the Circolo degli Artisti and, on that occasion, Rodin took the opportunity, before continuing his journey towards Carrara, of going to see Bistolfi’s Dolore confortato
dalle Memorie (Love Comforted by Memories), that supreme relief for the Durio Monument, now
in Turin’s Monumental Cemetery. The occasion solemnly consecrated Turin as the chosen centre
for the reception of the Frenchman’s oeuvre and his spirit.8 What is more, the International
Exhibition of Decorative Art of 1902, which had to say the least a “troubled” gestation, had
already been planned by 1899 (so Turin should have beaten Paris to it); nevertheless, it had to
follow on the splendid Universal Exhibition of 1900, not in 1901, as planned, since King
Umberto I was assassinated at Monza, but in 1902 which coincided with the previously scheduled Exhibition of Fine Arts.
«Turin, the most terrible of Italian cities. Baroque, algebraic, lunatic, spectral, scene of suicides and catastrophes, Turin slips through one’s fingers. The city that is more of a mistress than
a mother, apparently bright and seductive but dizzy-making as soon as one explores its more intimate depths».9 This may be true but it was not only the city that «slipped through one’s fingers»,
as Milo De Angelis has pertinently remarked. Its artists are often equally elusive: extraordinary
characters, hard to decipher and still harder to categorize… and Edoardo Rubino is a case in
point. Unlike Bistolfi, he did not invent a style or cipher with which he could be immediately identified; unlike Bistolfi, he did not create a whole spiritual and visual world that was heavily impregnated with Literature, one which was previously unknown, though heavily influenced by his
beloved Pre-Raphaelites: an aesthetic world, with its sophisticated Symbolist affectations, capable of conquering Europe and even of crossing Oceans to colonise, for example, the theatres and
cemeteries of Central and South America. Rubino did not do all of this; there can be no doubt
about it. His way of expressing himself was more typical of true Torinese’s understatement, but this
does not mean his stimuli and creative turmoil were in any way inferior. Perhaps not so bold, not
so essential as the artist from Casale Monferrato, but nonetheless full of submerged verve and
latent morbidness. Rubino’s formal language is only apparently more simple and subdued, and it
was immediately obvious that it was free from any unilateral legacy from the Realists or so-called
Scapigliati, dragging these 19thC attributes into the 20th century and resorting to them, every now
and again, only insofar as they served to bring life to the surface of his modelling. The clay beneath
his fingers, just as the marble beneath his chisel, becomes both refined and sober, the subject of
a subtly poetic way of expression, almost lyrical, by means of plastic forms which unfold in a continuous oscillation between giddy aesthetic peaks and sudden colloquial dives: of operatic high
notes which may unexpectedly drop to low-keyed whispers about more earthly and human matters.
The way that Rubino’s three-dimensional language has of “speaking” to us, combined with the vestiges of Realism to which we previously referred, is to be found, above all, in the portraiture of the
early 20thC, whether commissioned by the middle-class or not. In Rubino’s sculpture, «bourgeois
Realism is exalted in a Symbolist key», according to Rossana Bossaglia. The sculptor’s style relies
on a series of delicate and hard-won equilibriums (even when he becomes bolder and more robust,
as he does from the 1920s onwards), and is, for this very reason, evasive.
His is a style that relies on a refinement of execution which is best expressed in artfully but
naturally observed detail (take, for example, the melancholy expression of the Gressoney Girl of
1899 or the exquisite hands of the Young Girl from Nazareth,10 the slanted gaze of the Jealous Girl,11
the biting wit just barely concealed beneath Casimiro Teja’s moustache, the swollen lips and bags
under the eyes of Federico Sclopis or the innumerable charming details that decorate the highrelief of the Monument to De Amicis); the importance of the detail with respect to the whole had
already been stressed by a perspicacious French critic in 1902: «The figures12 by the sculptor
Rubino that surround the central pavilion of the Exhibition [International Exhibition of Decorative
Art] are not the only ones to represent Italian art at Turin, nor even architectural or monumental
art in Italy. This Italian spirit, though a little too defective in the construction of the whole, is to be
sought in the details; and after all, it here appears to its greatest advantage: over and above all, it
is a spirit of refinement and geniality, sometimes a little too subtle in conception, sometimes a little too driven in the search for sentiment. But in the works where these elements are suitably
restrained and moderated, the resulting art will be extremely pleasurable».13 His is indeed a spirit of refinement and geniality: in other words, the spirit of a style that seemed to perfectly incarnate the «modern form» that Thovez had singled out as the ideal way to overcome the morbose
mannerisms of the late Pre-Raphaelites: a form that was «agile, springy, agitated, pulsing with
youth», from which, at long last, a kind of art would emerge that would be «capable of reflecting
the poetry of the whole world»;14 the synthesis of a style whereby material inexplicably yields to
the touch of Edoardo’s delicate fingers to echo the way the brush caresses a canvas, (though not to
be confused in any way with the agitated impressionistic effect that derived from the Scapigliati).
Now it became gradually, almost imperceptibly soft, and with each modulation, step by step, came
closer and closer to the ethereal fluidity of a barely hinted melody.
The musicality that characterized Rubino’s modelling was noticed by Mario Labò, a young
Genoese art critic and architect, close to Thovez,15 who exclaimed, on seeing the little portrait
study of the standing Vivien Chartres: «Just look how musical she is, even in the manner of modelling!».16 By the way, Rubino had been commissioned by the Union of Turin Journalists to execute
the portrait of the violinist Vivien Chartres; the statue, cast in bronze, was then offered to the fourteen year-old prodigy as a souvenir of the city where she had been born in 1893. Vivien was the
daughter of the cosmopolitan writer Annie Vivanti and the Irishman John Chartres, a journalist
who dabbled in business, as well as a Sinn Féin activist. Vivien, who studied the violin in Prague
unfortunately, like so many others, did not live up to her precocious fame. Widowed young, she
ended her days in Brighton where she lived in a chaos of neurosis and depression, tragically committing suicide with her second husband Richard Young, on the first of September 1941. As for
her parents: John Chartres, an eccentric and distant father that some say was Rudyard Kipling’s
impresario, had already died in poverty in Dublin in 1927; Annie Vivanti was originally told that
her daughter and son-in-law had perished in the German bombing. During the Fascist
Anglophobic clamp down (she was a British citizen of Jewish descent) she was placed under house
arrest in Arezzo; Carducci’s former child-muse, barely made it back to Turin (freed directly on
Mussolini’s orders) to hear of the demise of her daughter, news from which she never recovered.
She converted to Catholicism and died shortly after on the 20th of February 1942. Until a few years
ago, sketches for Vivien’s portrait could be admired among Rubino’s papers. Still in the realm of
music,17 Rubino captured the most sumptuous and sophisticated Central European atmosphere
when he portrayed the famous soprano Gemma Bellincioni in the role of Salome.18 Far from
Beardsley’s iconographical hysteria, the Turin sculptor’s princess is a Judean in flesh and blood,
captured at the height of her dance of the seven veils: the idea sprang from the first execution of
Richard Strauss’s opera Salome, performed at the Teatro Regio in Turin on December 23rd 1906.19
It must have been a memorable event: the composer himself, already famed as the genius of modern melodrama, conducted from the podium. Edoardo exhibited his Salome20 – a sinuous statuette,
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full of movement, with a certain Secessionist air, at the 7th Biennal Exhibition in Venice, an edition distinguished by two Central European salons: the central one decorated by Giulio Aristide
Sartorio and the much discussed “Salon of Dreams” onyrically decorated by the quartet Chini,
Previati, Nomellini and De Albertis.
But we have digressed a little, perhaps, enthralled by the unexpected pliancy of Rubino’s pictorial and musical modelling: a way of modelling that still conserves quite a lot of the Romantic
compositional sharpness of the dictates of Odoardo Tabacchi and Luigi Belli, though Rubino has
them coexist in a masterly fashion alongside the strange ferment and the specious accents of Art
Nouveau, that beautiful but perverted child of the approaching century. Rubino had, on the contrary, left Romanticism behind him when he began work on the Fountain of the Months, designed
for the Valentino Park by the architect Carlo Ceppi in 1898 to celebrate the National Exhibition
in Turin. Edoardo was given the figure of the Dora River to execute in cement.21 However, the unexpected triumph of the work caused him to be commissioned with three other allegories: a Mermaid,
to be placed at the centre of the fountain basin, and a War and Peace, to be placed laterally; given
the short space of time available, he was assisted in the latter by Cesare Biscarra.
Having gone so far, we can perhaps now guess at the main reason behind the progressive
oblivion of Rubino’s work and the consequential distraction on the part of critics regarding him as
Man and Artist: the impossibility of stylistically classifying him or, in other words, of reducing his
aesthetic language to a simplified schema that is immediately accessible to all. Both his style and
his intimate character, far from exuberant, rather serious and introverted, are evasive and not easily read. In short, they are an enigma: the enigma Rubino. To this may be added the fact that, both
at the beginning of the 20thC and in the interval between the two World Wars, Rubino’s art kept
perfect pace with the times but was never innovative or ahead of them. And this, given the obsessive and obtuse legacy of the modern period, unfortunately constitutes a tremendous limitation as
Alessandro Marabottini remarks: «There is a widespread tendency, born from Positivist thinking
and historicism, to judge art according to principles which hold true only for science. An artist is
considered important only insofar as he or she represents the innovative with respect to the past
and a source of inspiration for the future. This way of thinking has influenced the fortunes of many
artists who concluded an era, so to speak, and had a number of younger artists alongside capable
of forging open a new epoch».22 In addition to all this, we cannot ignore the terrible state of abandonment into which Italian sculpture fell from the end of the Second World War onwards.
Moreover, during the sixty years of his artistic activity, Rubino produced relatively little for the
market, that ruthless tyrant (which for far too long has held back museums, historians and collectors); on the contrary, he was engaged in conceiving and executing important monumental and
funerary works. We should probably make an exception, for the yet to be fully discovered production of his youth: plaques, medals and various objects of the applied arts, warmly sustained by
Enrico Thovez,23 and still for the most part to come to light for study. Actually, we can point out
one important recent discovery: a decorative plaque for a chimney piece, commissioned from
Rubino in 1906 by the Frigerio family, then resident in one of the finest villas in Corso Massimo
D’Azeglio (a miraculous survivor of the bombing of 1943). Both casting and patina are superb and
the bronze is inscribed with a crackling pagan warning: Ignem in sinu abscondas. At first impression, one seems to sense – truly “fires hidden in the breast” – the palpitations of the Bistolfian
neo-Renaissance style, but, if we lean a little closer to listen carefully, we can immediately distinguish Rubino’s unusual timbre, aestheticising and Realist at one and the same time, extremely
refined but far from mawkish, (the virtuoso quality of the work reaches its climax in the indescribable interlacing of hands and fingers, and shows bursts of nervous modelling); Rubino’s is an intimate, persuasive timbre, one that is controlled on purpose and certainly not because the artist
lacks inspiration.
Private commissions for portraiture, a profitable artistic vein, permitted our artist to display
some of his finest talents and his portraits are destined to appear on the market every now and
again and so encourage private collectors to acquire his works. However, unfortunately portraiture
remains a neglected branch of the already neglected art of Sculpture. Nor, when we think of the
marvellous gessi or plaster models and casts that have come down to us from the Rubino atelier,
can we derive any comfort from Luigi Carluccio’s words of 1972: «Sculpture has a difficult life. It
has a body, a weight, and a bulk that paralyse the observer, so it is hard for it to come to life in a
museum context; this is true in Italy, at least, where official money is nearly always allotted to try
to catch up with the art of the past and to fill in missing pieces of information. The clamour surrounding the names of certain sculptors who have reached international fame, seems unnatural and
bears little relation to the effective presence of the work of sculptors in real life environments».24
Let’s get back to unravelling the “enigma”. «Free from previous influences – or so an explicatory remark of yester years on the part of Giuseppina Jona goes – Rubino will always remain,
however, the artist-poet and will prefer the gentle episode that he is capable of finding even in
heroic themes; he will suffuse the faces of his figures with benevolence and his portraits will be
animated by luminous smiles. His soul is simple and limpid; his sensibility is ecstatic and comprehensible, therefore spontaneous with no need for further reference to make its meaning clear.
Here and there it bursts out, like water from an unexpected spring, unable to restrain itself, among
episodes of bravery, heroism and strength».25 Rubino the artist-poet: quite right, too, although perhaps a little too much emphasis, too much insistence is placed on the simplicity with which his
lyrical note emerges. The poetic and literary element of Rubino’s sculpture is never so intellectualised or deliberately obvious, especially when compared to that of Bistolfi, so steeped in cerebralism that, at the final count, he was refused the Sculpture Chair at the Accademia Albertina26 on the
basis of the absurd and regressive motivation that it would have been impossible to entrust the
teaching of sculpture to a “poet”27 (the osmosis between Bistolfi and the literary and musical circles of his times is obvious and the criticism was perhaps aggravated by his numerous commitments to writing articles, conferences, poems etc.).28 It is no coincidence that Sandra Berresford
refers to Baudelaire’s correspondances when discussing the Bistolfian creed par excellence: the
aspired union of all the arts.29 Sinesthesia in short. The assimilation of various languages of artistic expression, performed through the senses on the basis of the close correspondences among the
different codes of expression, had been an intuitive conquest on the part of the Scapigliati, transmitted by Bistolfi – an initiation – to his “circle”, amongst whom Rubino soon stood out for his evident talent.
Rubino, shy as he was, made no claims to writing and, in fact, hung on tightly to his hard-won
role at the Academy: at first, from 1917, as Cesare Zocchi’s assistant and then, from 1924 to 1936
his successor to the Sculpture Chair. But Rubino also entertained a certain rapport with humanist
literature and one which we believe to have been absolutely crucial in his formation, at least up to
the first decade of the 20thC. In other words, we maintain that the young Edoardo enjoyed a sensitive affinity with the hybrid atmosphere of the “Twilight School”,30 which found in Turin a third
pole of aggregation and diffusion after those of Rome and Genoa. The so-called Crepuscular Poets,
our own “home-grown” pale letterati, may be considered third generation Symbolists, extreme and
bizarre descendents of European Decadentism: they grouped together in disorganised cliques, at
times, almost confraternities (the Roman coterie was headed by the dying Corazzini); they devotedly sang the praises of the Beauty of Death and of Sunday boredom; they cultivated the solitude
of illness in a maniacal fashion; ecstatically contemplated the silence of cloisters or morosely
adored the virginal purity of adolescent novices, the novices of Our Lady of the Moon; fed on gay
sorrows, they were untiring aesthetes, friends of all beggars and every outcast.
Guido Gozzano was all the rage in the Turin salon of the Crepuscolari. «He lies in counted
syllables. His poetry feeds on the delicacies of Baratti, on brioches and sugared almonds», maliciously hissed Mario Giola in 1911, the year in which Treves published I Colloqui. With a jacket
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designed by Bistolfi, the compilation of verses was the climax of the handsome young Guido’s precocious maturity. His biographers recall the hours that the cold sophist loved to spend in cafés
talking about art and «with a refined gesture, wetting his lips from time to time with a little
absinthe which he said gave him a little sweetness». Absinthe or perhaps a drop of ratafià:
«Ratafià, pronounced evocatively the French way with the accent on the last syllable, is a liqueur
produced in old-fashioned wine cellars. Fruit, alcohol and bitter herbs. Other names come similarly to mind. Arquebuse, for example (an alpine herb). Liqueurs, spirits, toxic and poisonous.
There is more than one thing in common with the atmospheres created by Gozzano, woven into a
poetical texture that, on the one hand, is measured and, on the other, hides perturbation and
unforeseen poisons».31 The Crepuscular poets were Gozzano’s friends and they found themselves
conversing, by no coincidence, preferably at Baratti’s café. Baratti & Milano, to give it its full
name: the aristocratic confectioner’s restructured, from 1909, by the multi-talented Emilian architect Giulio Casanova and by our very own Rubino, one of several projects in which the two cooperated.32 Proprietors and founding partners of the “award-winning company” of confectionary
were two men from Canavese, Ferdinando Baratti from Piverone and Edoardo Milano from
Bollengo; at the time, it was expanding into two new rooms, (to serve as bar and off-licence), on
the south-east side of Piazza Castello. The decorative work on the shop was only completed in
February 1911, a few months prior to the great Exhibition of Industrial and Decorative Art.33
Rubino’s superb Bacchanal34 adorns the front of the café counter, while his strong sensitivity for a
certain rhythmic overall composition – marked by the same cadences of the pilasters beneath the
portico – was displayed in all its splendour with the relief inserts in bronze, also created by Rubino
and placed, in the form of plaques, cast by his friend Corrado Betta, on pale slabs of Yellow Siena
marble. Baratti & Milano, the favourite stage for Piedmontese aesthetes: shop windows and
entrance from Piazza Castello and internal rooms running alongside the Subalpina Arcade. A very
special meeting point, with not one, but two, pre-established and harmonious backdrops: on the
one hand, the porticos of the Square; on the other, the transparent glass sky of the Arcade ceilings.
One of our contemporary poets has suggested: «The central corridor of the Arcade, fenced in by
an ornamental winter garden, would conjure up the titles and atmospheres of a certain Northern
Decadentism such as Maeterlinck’s Hot Greenhouses».35 The cold winds of Northern Decadentism,
in fact, lay behind the best prosodic concoctions of the Crepuscolari. And Maurice Maeterlinck,
the Belgian author of the renowned Pelléas and Mélisande, was unanimously proclaimed their
intellectual idol. The Crepuscolari: Gozzano’s habitual interlocutors chez Baratti. Lets run through
them: the homoerotic Carlo Vallini and Giulio Gianelli; Sandro Camasio and Nino Oxilia (farewell
Youth!); Bontempelli in his first manner, “talent-spotted” due to publisher Renzo Steglio’s infallible instinct (Eclogues, 1904); Carlo Chiaves and Enrico Thovez: dreamy the former, extremely
polemical the latter; the humanitarian Giovanni Cena and already bombastic Francesco Pastonchi,
though still moderately so; Cosimo Giorgieri Contri, a Tuscan paying homage at the foot of the Mole
Antonelliana, who had anticipated his fellow poets with Il Convegno dei Cipressi (a bijoux dated
1894); the now forgotten Emanuele Sella, from Valle Mosso in the Biella region: the “occulted
occultist”, eternally lost in his Giardino delle stelle (1907); Biagio Chiara, the fair piedmontese
angel, exiled in Naples: our first bold translator of Oscar Wilde… at his own expense; and lastly,
Giovanni Croce:36 Piedmont’s Corazzini, a delicate rising star of Crepuscular poetry, who died, in
his twenties, in 1911, from heart problems. Among these cited poets, the “Northern” figure of
Enrico Thovez37 would seem to merit most consideration: we should at least recall the appearance
of his Poema dell’adolescenza (Streglio, 1901), a little fin de siècle masterpiece but neither should
we ignore his little-known activity as a painter and as the enlightened Director of the Gallery of
Modern Art in Turin (from 1913 to 1923). In order to actively campaign for what we now call “Ars
Nova” and to spread the social and aesthetic Word of the spiritual heirs of Ruskin and Morris,
Enrico had founded the periodical “L’arte decorativa moderna”, subtitled “the monthly illustrated
magazine of architecture, decoration of the house and of the street”. The periodical, which systematically contained references to Rubino’s work – was conceived in collaboration with Leonardo
Bistolfi, Davide Calandra, Giovanni Angelo Reycend and Giorgio Ceragioli: it was issued, intermittently between January 1902 and mid 1908 (in fact only two complete years were published
with only three issues in the third year, such that it appeared continuously, but at irregular intervals from the second year onward).38
Nevertheless, we may find Thovez’s non-involvement in Turin itself, a city he proclaimed
“hostile”, full of frustration and resentment, rather bizarre. For curiosity’s sake, we here quote the
incipit of his bitter tirade against Turin (from his Farewell Speech to my Native City), from which
emerges an unresolved and confused tangle of love and hatred, not exempt from snobbish affectation: «The city that had the honour to be my birthplace […] is not famous in the history of art. […]
From its Roman foundation, it has borne the original sin of being designed like a chessboard, a
barbaric and puerile theoretical and geometric conception, in other words, absolutely free of any
intelligent attempt to adapt its layout to the surroundings, without any kind of aesthetic sensibility […]». Milo De Angelis’s remark on his Turin, described as «suicidal, implacable, specialised in
loners» comes to mind.39 But this very Turin, so fatal to the artists and intellectuals whose nerves
were so exposed, the Turin of Thovez and D’Aronco, was then – already in the last five years of the
19thC – the most modern city in Italy, as Alberto Clementi quite rightly insisted.40
Ah, we nearly forgot to mention the fact that Thovez did leave us a rather touching, self-aware
portrait of himself in an unpublished letter to Rubino. The latter ad asked him, in all confidence,
for some personal information that he needed to satisfy no more than a curiosity. After having
entrusted the sculptor, who was known to model «graciously», to describe him, hopefully, in an
equally gracious fashion, Enrico went on to confide: «I could say of myself, for example, that I’m
not, whether by chance or by ill-luck, a hedonistic dilettante in my spare time, and that I’m not,
Heaven forbid, a professor; that although I have unfortunately been a journalist, or rather a literary newspaper correspondent, I couldn’t help it, sadly, I was forced by the times, and I did it, whenever possible, under false pretences. You may say that I obviously lack common sense because,
although I am a creature most terribly in need of friendship, I live in the most incredible solitude.
And though I have a great propensity for joy, I spend my time in the deepest melancholy. You may
add, though, that there are some mitigating circumstances to this self-contradiction to be found in
that psychological masterpiece that the History of a Body and Soul will be, the work that I fondly
think of as the most precious of my works, but one that will never be written […]. You may explain
the fact that I no longer publish verse because the reception of my early works on the part of critics and the public was such to quash any foolish ambition I might have had to be fed to the lions
again; but add that I have never stopped writing poetry for myself and that I have written some in
which, I think it would not be pretencious to claim that I have broken some untrodden ground. You
may conclude by saying that my only comfort is not poetry but painting and that painting female
portraits would be my greatest joy if the lovely ladies only had less shopping to do and turned up
on time for their sittings. I’m telling you all this quite plainly: you, as a good friend, will describe
me in a better light, adding some complimentary adjectives here and there: I’m sure that our united forces will turn out a perfectly hateful portrait».41 Thovez is summed up in these few lines which
also explain the implicit friendly understanding with Rubino. It would be useful, and indeed most
satisfactory, if we could find some further evidence of a direct personal contact, let alone rapport
between Thovez and Rubino: but, unfortunately, many doubts obstinately persist and it is almost
too tempting to want to deliberately interpret the artistic and human physiognomy of a Torinese
sculptor par excellence in a European context.42
Just as the Crepuscular Poets were at one and the same time Torinese and European: with
their corpses and dying petals, on the border of darkness. «When Symbolism really got underway
in Italy – comments Elio Gioanola – at the beginning of the century, it had already lost the char-
63
64
acteristics of the strong nihilistic and rebellious competitiveness of poets like Mallarmé and
Rimbaud, and second generation Symbolist poets – those who borrowed from the noble Verlaine –
were preferred as their models: in other words, the late Franco-Belgian Symbolists directly influenced our poets, from Samain to Tailhade, from Moréas to Verhaeren, from De Régnier to
Rodenbach, from Maeterlinck to Jammes. Such poets seem to reject Mallarmé’s great lesson
because, overall, their poetry includes exactly what had been rejected from “Pure Poetry”, that is
external reality and feelings, which took the shape of familiar Crepusular elements (the park, the
barrel organ, deserted streets, beguines and so on) and all-pervasive melancholy». And he continues: «In late Symbolism, the Poet’s radical isolation (and his work as the verbal recreation of the
world) is transformed into real “malady”, with a consequential search for refuge within a selected
ambience of chosen objects, all contributing towards a drastic decrease in vitality. Such a poetic
atmosphere was well disposed towards the most Decadent aspects of Symbolism, where florid, Art
Nouveau, exotic, mystic, decorative and musical tones are those most highly evolved».43 In Italy,
this characteristic repertory, further mediated through D’Annunzio’s Poema paradisiaco, was chosen by the younger poets as an instrument of drastic separation, played in different keys thanks to
the very nature of the repertory itself: thus, for example, Gozzano came up with the almost sarcastic invention of a famous series of objects and animals that became his personae (good things in
bad taste, larvae, chrysalises and butterflies, between blotches of stinking ink).
The late reabsorption of Franco-Flemish Symbolist stylistic elements, tainted with the influence of the Pre-Raphaelites and echoes of the Aesthetic Movement in Great Britain, never went
down well with our academic critics: it was also present, (right at the dawn of the 20thC, so keen
to get underway) not only in most of Europe but even in the most up-to-date letterati of Asia and
America, who created a truly international renaissance of Decadent taste, not by sitting around a
table devising a programme, but, rather, by producing a series of extremely refined periodicals,
promoting all the arts. This was not limited to literature alone but obviously, reflected on the figurative arts. Decadent taste, (by now self-gratifying and complicated by the most varied adulterations), by declaring the absolute incompatibility of Art and Life, was transformed into a symbiotic style of art and half-bred life, halfway between the posed precariousness of the Bohémien and
the affected dandyism of the modern sceptic.
The illuminating influence on Turin cultural circles of a far-reaching essay by Arturo Graf
dedicated to the Pre-Raphaelites, Symbolists and Aesthetes, issued in two parts in the Nuova
Antologia between January and February 1897, was great on youths of Rubino’s generation (he was
born in 1871). The fascinating Arturo Graf – professor of Romance Literature at Turin University
and undisputed mentor of the Crepuscular Poets, who elbowed each other to attend his popular
humanistic lessons on a Saturday afternoon – gave a lucid evaluation of the extreme aestheticism
of the times which he held to be a precise and well-defined reaction: «The present literary reaction is especially directed against Realism, or rather, against Naturalism, which was its caricature,
and the error, fault and excess to which the former, of necessity, fatally led. It is practised accompanied by two main concepts (I wouldn’t dare to say doctrines): known respectively as PreRaphaelism and Symbolism; the former is older but has come back to the height of fashion; the
latter is more recent. They each have their own diverse tendencies but they also have much in
common. Both are opposed to Naturalism: the former is disgusted by its vulgarity and crudeness;
the latter hates the abuse of detail and the concrete; both challenge the so-called plasticism and
marmoreal art of the Parnassians: both boast a disdainful and noble individualism: both say they
are Idealists, they withdraw from real life, they lament and dream of reviving the medieval period,
and they esteem as the highest and most perfect art the kind which is shut off from a broad spectrum of Mankind, adverse to contact of any kind, and involved in visions and dream […]». Thovez,
receptive as he was, learnt much from Graf’s lessons and, some years later, wrote an interesting
introductory text to critically accompany the Italian edition of a then recent volume by Jarno
Jessen, Praerafaelismus: the translation of Jessen’s work44 was published in 1907 by one of
Streglio’s rivals, the Dane, Carlo Clausen (successor to the Royal supplier Hans Rinck and first
editor of the young Pirandello, then in his twenties), who published in Turin and Palermo. Actually,
Thovez had even preceeded the poet of Medusa, in clarifying his position, in an article of 1895,45
with respect to the English Brotherhood: he clearly distinguished between the arcane poetry of the
first Pre-Raphaelites (Madox Brown, the young Millais, Holman Hunt) from the “awkward” conventionality of its later exponents, led by Burne Jones and bearers of an aristocratically spiritualist tendency, the vacuous expression of a worn-out and degenerate aesthetic sense. On the other
hand, the Turin critic failed to share Sartorio’s enthusiasm for Dante Gabriel Rossetti, then systematically hailed in De Bosis’s periodical “Il Convito”, sustained by D’Annunzio. Enrico, in particular, was crazy about Ford Madox Brown, considered «an intellectual brother», especially since
Guido Rey,46 back from London, had described the unmistakeable «graining» of a painting (Work)
that he had seen in Manchester.47 Madox Brown’s grainy way of painting, according to Thovez, was
somewhat akin to that of the cultured, civilised painting of Andrea Tavernier. We are still at the
same point, and there’s nothing to be done about it: balancing on the thin red line that relates the
various arts, hovering between nostalgic neo-Early Renaissance visionaries and unreal literary
Crepusculari. But the Crepuscular Movement did not altogether exclude reality, as we have seen.
Should we then consider Rubino a Crepuscular artist-poet because of his slight Realist legacy, mixed with a dose of the venomous perturbation of aestheticising Decadence? It would not be
too far off the Truth. But we still have to bear in mind that we are dealing with an enigma. To grasp
the “literary” importance of Rubino’s European manner, it would suffice to examine two masterpieces from his Symbolist period, both created for the Monumental Cemetery in Turin: on the one
hand the spectacular bas-relief Towards Peace for the Boido Family Tomb (1907) and the
Porcheddu funerary group inserted there under a portico (1912). One thinks immediately of
Böcklin and the Pre-Raphaelites, of Bistolfi and the Italian-Belgian Jules van Biesbroeck.48 But a
thousand references are possible. A tousled bed of roses on the gently rocking funeral boat, a
macabre aestheticising, almost exquisite voluptuousness and the splendid, divinely transfigured
corpse of Amalia Dainesi: her head crowned with dead flowers, guarded by four sublime hands.
At this point, nothing could be more appropriate than to refer to Pastonchi’s hendecasyllables
of the Sepulchre, composed for Bistolfi, but absolutely perfect for the aforesaid marble compositions by Rubino: «Due fanciulle, che l’estasi inabissa / In lor preghiera, cullano d’un ‘Ave’ / Quella
che giace in casto atto soave / Nel gorgo della sua chioma prolissa. // O Leonardo, il tuo pensiero
eclissa / Ogni forma; e al pensiero agili schiave / S’offron le mani, onde nel marmo grave / Tanta
luce di sogni arde e si fissa. // Buona è la vita, nel pensar la morte / Come un inganno dolce che rinnova / Le forme solo in cui l’anima varca. // Sembra che dalla fronte delle assorte / Questo sereno
ammonimento piova: / E intorno tutta ne risplenda l’arca».49
A third Symbolist feat on the part of Rubino (actually the first in order of execution), destined
for the Monumental Cemetery in Turin, the Monument to the Minister for the Admiralty, Benedetto
Brin, unfortunately, never came to fruition since it was executed, instead, by the winner of the 1902
competition, Cesare Reduzzi. Edoardo had conceived a nude figure in meditation, gazing outwards
towards the infinity of the sea, to symbolise the virility and creative genius of the deceased naval
engineer; the figure leans on a rock, waves breaking at its foot, with naval charts containing
designs unrolled at his feet. Fortunately, the maquette is reproduced in a contemporary issue of
“L’arte decorativa moderna”,50 accompanied by an enthusiastic comment on the part of his supporter Thovez: «the principal merit of this maquette was in its truly monumental serenity, in the decorative elegance of its composition, and the exquisite delicacy of its modelling. Rubino rarely modelled anything so completely, and it is a great pity that this fine idea couldn’t be carried out». And
what should we say of the Remondini Tomb (1912, Monumental Cemetery, Turin), the final farewell
to life, expressed by an arm, poetically suspended in the void for all eternity? Or the funeral mon-
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ument of the same period for the Girardi Family, cast in bronze by the exemplary artistic foundry
of Lippi in Pistoia? And the sumptuous ecstatic group orchestrated for the Gambaro Family
(1916-1920), Monumental Cemetery Turin)? And why should we not be amazed when we raise our
eyes to see the decorative allegory of Charity and Credit, almost hidden from the passer-by’s view,
as it crowns, high up, the façade of the unfinished building for the savings bank, the Cassa di
Risparmio di Torino?51 One of Rubino’s latest sculptures is the decidedly Symbolist, Mask of
Medusa of 1922, very close to the Medusa of the Monument to Umberto I in Rome. This latter is
on the base of the monument that Vittorio Emanuele III commissioned in honour of his father, from
Davide Calandra, after the triumphal reception in Turin of his Monument to Amedeo d’Aosta
(1902): the equestrian Monument to Umberto I was, however, entirely executed by Rubino, after
Calandra’s death, and was unveiled in 1926, standing on high ground in the Villa Borghese gardens, surrounded by scented pines.
Rubino’s Symbolism, only apparently serene and untroubled by excessively cerebral toxins,
recalls, through assonance, some words by Bistolfi, with reference to the “Modern Scottish style”
(Glasgow School ndt.) pronounced at a conference on the 4th of June 1902 at the Alfieri Theatre
in Turin: «And this sensation is one of great, limpid and ingenuous sweetness: an indefinable
sense of pensive and penetrating ingenuity, like the sensation left in one’s soul after reading a page
by Maeterlinck».52 There: Maeterlinck it is again. And with him, this lengthy literary digression
draws to a close.
We shall move on to attempt to approach Edoardo Rubino the Man. Human personality and
psyche are unapproachable mysteries: the Greek tragedians were aware of it long before Freud and
we should know it even better than all our ancestors. But nowadays, we often seem to forget it,
driven as we are towards the sacred fire of Rationalism, which often merely simulates a scientific
nature. The critic Paolo Cesare Rinaudo, however, did not ask himself so many introspective questions when he went to interview Rubino for the Torinese magazine “Il Prisma”53 and he saw, first
of all, a Cyclopic worker and then the sculptor in body and soul, approach him, the latter appearing at a later stage, like some mysteriously light-footed creature. It was in 1912. Rubino was a
totally youthful forty year-old. The scene was a curious one: «What a strange impression to see the
artist, with the pale and serene face of a child, after the apparition of the colossus! It was as if the
worker, who resembled Cyclops, had revealed the path towards the Underworld, full of mysteries.
Rubino struck me with his so feminine aspect. Let us speak about his works […]. I observe the
artist. His face is delicate, carved in gentle lines, outlining a countenance that expresses great
goodness and exquisite refinement of feeling. Rubino is the poet of the chisel: in his marbles he
narrates more than sculpts. His figures narrate a way of thinking, they reveal a feeling, they hint
at the following phases of an action such that, on observing his works, I seem to see a whole series
of movement, the varied rhythm of life captured over a long period of reflection». The impression
that Rubino seems to have given, de visu, was one of a diffused sense of delicacy, almost of gentleness. Certainly: the artist placed his hand «gently» on his work, and so on. But that vague
impression of “sweetness” or “gentleness” was the one most associated with his work such that it
became almost a conventional stereotype. We believe that it was comparable to the type of “sweetness” associated with Maeterlinck, that is, one mixed with the bitter aftertaste of poison. Later on,
the interviewer let himself go and defined Rubino «the poet of feeling» which means everything
or nothing at all. It was Edoardo himself who had the epiphany. D’emblée. His words, like some
extracted confession, must have struck his interlocutor and caused him to suddenly shiver: «But
now I am tired of this continuous work which leaves me no respite. You see, some people judge
me erroneously and say that I am lucky in that I have never had to struggle, that the way before
me was already paved. It’s not at all true, you know. When I was a pupil under Tabacchi at the
Academy, I studied in my spare time because, in order to afford my studies, I even had to forge
and sell the tools of our profession. When I first entered Bistolfi’s studio, I was a simple worker for
some time. Talk about easy! I had to struggle and the times were truly hard». The enigmatic Rubino
takes us, too, by surprise and his words confirm our suspicion that, deep down, he was troubled by
a fundamental, albeit suppressed, anxiety, an anxiety that brought his psyche and some of his
sculpture in close proximity to the diseased sensibility of the Crepuscular Poets.
Given the absence (we hope temporary) of suitable documentary and epistolary evidence,
Rinaudo’s interview remains of exemplary importance. Also because it allows us to hypothesize a
philological approach towards the sculptor’s spirit and his character. The discovery and study of a
corpus of correspondence is essential if we are in any way to reconstruct his circle of friends,
which, at the present state of affairs, is little more than a collection of shadowy ghosts. There must
have been exchanges of opinion with a series of letterati: Edmondo De Amicis and Giovanni Cena,
to name but two among many; and with artists: Grosso, Carpanetto,54 Casanova, Calandra, Bistolfi,
Biscarra, Contratti, Cometti, Cesare Reduzzi, Corrado Betta and who knows how many more. Not
to mention his talented favourite pupils: Abele Jacopi, Gaetano Orsolini, Luigi Aghemo, Umberto
Baglioni, Arturo Arista, Emilio Musso, Antonio Zucconi, Nillo Beltrami, Claudia Formica, Pier
Ugo Tirozzo, Aurelio Quaglino, Angelo Saglietti… Another characteristic that we can discern from
the scarce amount of information at our disposal is Rubino’s modesty. Singular, perhaps even
excessive, like that which transpires from his words during a commemoration speech in honour of
the deceased Calandra, pronounced in the Turin Council in the Autumn of 1915: «When Davide
Calandra was invited by the Buenos Aires authorities to compete in the competition for the
Monument to General Mitre, he was afraid that his involvement in other works would not have
allowed him to dedicate himself wholeheartedly and scrupulously to the great new enterprise, and,
on the other hand, not wishing to renounce taking part, he proposed that I should help him accept
the invitation and in the conception and preparation of the maquette. Artists from different regions
were called upon to take part. I remarked to him that it would be better if his name alone appeared
as competitor and, because I thought that an Italian artist of his standing should not fail to compete, I encouraged him to accept, offering to help him but not to officially appear as having done
so. He would have none of it; he insisted on declaring my part and sincerely preferred to risk the
danger that my obscure name might have brought, rather than adopt a “cover up”. And he had me
participate in a victory that he could very well have achieved on his own».
His name was far from obscure or even dangerous: the thirty-six year-old Rubino was already
then (we refer to the period 1906-1907), a leading figure on the artistic stage in Turin and, indeed,
in Italy, sustained, as he was, by Thovez and company. His talent was still emerging but had
already been remarked: this is demonstrated by his assiduous contributions, from 1901 to 1910,
to the most prestigious pages of the Roman periodical “Novissima”, an album of the arts and letters which marked the high point of Art Nouveau taste in Italy. Another journalist from the period,
Giuseppe Deabate, was also surprised at such modesty and remarked on it in an article of 1927:
«No, not even then, nearly twenty years ago, was Edoardo Rubino an obscure name. He was
already renowned among our young sculptors as one of the strongest, most tenacious and promising».55 The Monument to Bartolomé Mitre – majestic but light and elegant at the same time –
launched Rubino’s name in the firmament of sculpture overseas56 and throughout the world. «It
isn’t as if the work was a four-handed piece», Rubino observed, «Calandra and I evolved the
maquette and we divided the task according to our artistic natures. Calandra took on the execution of the equestrian monument; I conceived the various groups around the base».57 When the
Monument to Bartolomé Mitre was definitively composed – and the groups shipped out from Italy
assembled – and inaugurated in 1927, Rubino was at the height of his reputation.58
The period between the two Wars was one of great fecundity and professional growth for
Edoardo. It was at this time, with his usual modesty, that he began to be patronised by the Agnelli
family. Gozzano, consumed by tuberculosis, had died young in 1916: the Aesthetic flower in his
buttonhole and his retinue of Crepuscular poets, were now long since gone.59 Wisps of late
67
68
Symbolism survived only in certain evocative films by Febo Mari, produced by Ambrosio. As far
as art was concerned, Turin had become the city of Riccardo Gualino, where Casorati reigned
supreme, of Fillia, the second-generation Futurist, of Edoardo Persico and the Francophile Group
of the Six Painters. Meanwhile, the Lenci Works produced magnificent and innovative artistic
ceramics, destined to bring fame to Piedmont whether in the halls of the Metropolitan Museum in
New York or in the offices of “The Studio” in London. For the first time in Turin, echoes of Maillol
were to be seen in Giovanni Riva’s figures for the Angelica Fountain in Piazza Solferino; Baroni,
of Pugliese origin but Ligurian formation, for his part, exhaled his dying breath in completing the
Monument to the Duca d’Aosta, his genius straining the by-now antiquated style to its extremes.
Agnelli was to become a strong supporter of Rubino’s art: apart from works in two churches,
one in the Cemetery of Villar Perosa and the other in the Parish Church of Sestriere, he commissioned and financed the execution of the enormous bronze Victory, the beacon dedicated to the
memory of the fallen in the First World War; erected on one of the hills surrounding Turin, the
Maddalena (with the assistance of his pupil Aurelio Quaglino), the monument was unveiled in
1928. Also for Senator Giovanni Agnelli Snr., Rubino designed and executed the impressive marble Altar-piece for Don Bosco illustrating his mission as educator amongst the young, swarming
with a myriad of figures, carved in relief, and destined for the Salesian church of the International
Institute dedicated to Edoardo Agnelli.60 Neither should we omit to mention the important working
relationship between Rubino and Casanova, on the one hand, and Senator Agnelli on the other,
when the work for furnishing and furbishing the Royal Train was contracted out. We have already
mentioned the colossal Victory for the Maddalena beacon and we shall certainly not refrain from
alluding to what we believe to be one of the best allegorical statues, dating from his maturity,
another Victory, evolved between 1918 and 1928: faultlessly cast in bronze (in honour of the Post
Office workers who fell in the First World War), the modern Nike, still on show in the atrium of the
central Post Office building in Turin.61
On the basis of what we have observed so far, we feel we can assert that Rubino’s production
during the Fascist period was extremely worthy of note, especially as far as his funerary pieces are
concerned:62 this is amply sustained by works of the quality of the monument commemorating
Giuseppina Chiesa (1930, Monumental Cemetery Milan) with its discarnate purity, or the Tomb of
Alice Schanzer, Tancredi Galimberti’s wife, for the Chapel of the same name in Cuneo (1938-40).63
But of no lesser importance are the intense Mother, a figure full of pathos exhibited at the XXIII
Biennale in Venice (1942),64 or two contemporary works done for the Regime, both cast in aluminium: the first, known as the Genius of Fascism (a grand equestrian statue of the Duce, geometric in
a Futurist fashion, immortalised nude and with his right hand raised in salute), was to be found in
the grounds of the “Claudio Castellani” power station at Ponte Gardena and was destroyed in the
1960s;65 the second, a stunning equestrian group entitled Energy Tamed (1940-45 circa), still paws
the ground and powerfully dominates in front of the hydro-electric power station of Glorenza.66
Even the previously disparaged Monument to the Fallen of Novi Ligure or the complex national
Monument to the Carabiniere, a colossal, set in the lower gardens of Palazzo Reale in Turin,
unveiled on October 22nd 1933 in the presence of Vittorio Emanuele III, can now be viewed with
eyes unconditioned by preconceived ideologies. In these works, the sculptor did what he always
did, though with a slightly different approach: he observed objective data exactly as it was, then
brought a process of idealised abstraction into play, without ever completely rejecting reality,
though, thus managing, every time, to «freeze» his story at its «most exemplary moment».67 His
never suppressed devotion to the Real did not go unnoticed by that attentive critic, Francesco
Sapori: «Devoted to Truth and eager for Beauty, Rubino has his own taste in composition and
adores lines traced with docile charm».68 A docile charm nurtured «beyond all limitations of trend
or school, over and above conventional and, at times, meaningless demarcations of style»:69 or so
said a critic in 1940 when presenting two new religious sculptures by «Senator Rubino» (the
Sacred Heart and a Crucifixion for the Church of the Gran Madre di Dio in Turin). But the ingenuous commentator could not have imagined that this very language of expression, matured as it had
beyond “trend” or “school”, that this very poesis, free from convention and codified styles, would
have become the principal obstacles to a correct posthumous assessment of our artist’s work.
After the First World War, Rubino succeeded in modernising his way of modelling and sculpting, neither obsequiously following the trends of official art currents, nor ever contradicting the
peculiar and intimate poesis of his artistic conceptions, consisting of invisible underlying turmoil
and light ultra-sensitive vibrations of surface. The decorative quality of his work is toned down, his
forms become stronger and more essential; the zeitgeist of the Twenties is reflected a few vigorous
cadences of the Renaissance latine or Neo-Latin, as it is also known in Italy, but the basic lyric
remains unchanged. Unlike the older but ill-starred Bistolfi (who quickly fell out of favour to be
mercilessly mocked by the Modernists), Rubino’s later period saw him covered in laurels while
newfound creative energy allowed him to carry on working during and after the Second World War
and to die in glory,70 at the age of eighty-three, stricken by angina pectoris when at work on his last
creature: the solemn, essential figure of Francesco Ruffini, commissioned for the Athenaeum of
Turin University in Via Po.
And so, while considering the inhuman, abstract fixity of the statue of Francesco Ruffini and,
bearing in mind the exploratory and inquiring nature of this study, we feel it appropriate to close
with a final query. Might not the time have come to question the Manichean prejudice that sees the
late Rubino as a survivor who outlived his artistic times?
69
Notes
70
1
Daniele Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia, in Eclettismo e Liberty a
Torino: Giulio Casanova e Edoardo Rubino (edited by Franca Dalmasso), Turin, Il Quadrante, 1989, pp. 89-110. Catalogue
of the Exhibition at the Accademia Albertina di Belle Arti (18 January-5 March 1989).
2
Walter Canavesio, Edoardo Rubino e la Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone, La
Madonna degli Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 151-157.
3
Pietro Antonio Gariazzo (1879-1964), Turin painter and intellectual, unsuccessful as far as his artistic career was concerned, was one of the first Italian theorists of the cinema which he defined as “silent theatre” (cfr. Pietro Antonio Gariazzo,
Il teatro muto, Turin, Lattes, 1919).
4
Among the various illustrations by Rubino, we should recall the cover that the sculptor designed for Amalia
Guglielminetti’s tragic poem, L’amante ignoto (The Unknown Lover) (Milan, Treves, 1911).
5
In 1900, critic Primo Levi published his pioneering essay entitled La scultura nova in Piemonte (Roma, Società Editrice
Dante Alighieri), with a precocious analysis of the three sculptors Pietro Canonica, Davide Calandra and Leonardo Bistolfi.
6
It was with respect to the applied arts that Rubino came closest to imitating Bistolfi, (and hence to the phenomenon know as
“Bistolfism”) contaminated by a decided predilection for the Central European decorativism of Gustav Gurschner. This may
be witnessed in: the trophy for the International Horse-racing Competition held in Turin in June 1902; the pendulum clock
presented at the Vth International Biennale in Venice in 1903, in the Piemontese Exhibition Room, co-ordinated by Giacomo
Grosso, a wonderful electric light and, above all, in the incandescent Symbolist high-relief entitled Fiamma (Flame), placed
above a decorative fountain, «in honour of the Professor of Hygiene Icilio Guareschi», presented at the Biennale of 1905, the
year in which he won a gold medal. The fountain was published by Vittorio Pica in L’Arte Mondiale alla VI Esposizione di
Venezia (1905) and, like the above works of applied art, also by Enrico Thovez in “L’arte decorativa moderna” (the last numbers of 1902 and those of the whole second year, issued irregularly between January 1903 and December 1906).
7
An account of the banquet is published in “La Stampa”, which had anticipated Rodin’s visit to Turin (Cronaca, 23 October
1901). It was held in «an extremely aristocratic room of the Circolo degli Artisti, decorated green and lit with great mirrors» in the presence of the crème of Turin artistic society (among the artists: Leonardo Bistolfi, Cesare Reduzzi, Pietro
Canonica, Edoardo Rubino, Davide Calandra, Cesare Biscarra, Giacomo Cometti, Lorenzo Delleani, Carlo Pollonera,
Giovanni Battista Carpanetto, Carlo Follini, Giovanni Guarlotti; Giacomo Grosso did not attend, being caught up in South
America. Mucchi, Cena, Thovez, Reycend, Graf, Corradino and Camerana were there among the intellectuals). Cena and
Bistolfi proposed the final toasts (Arti e Scienze. Ad Augusto Rodin, in “La Stampa”, 26 October 1901).
8
Cfr. Flavio Fergonzi, Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 1, in “Prospettiva”, n. 89-90, January-April 1998
and Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915). 2, in “Prospettiva”, n. 95-96, July-October 1999.
9
Milo De Angelis, Presentazione, in D. Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milan, Unicopli, 2003, p. 7
10
La Giovinetta di Nazareth (The Young girl of Nazareth 1902, marble, cm 30x48x32) is a late example of that mystic late 19thC
trend, between Realism and Decadentism, which had prestigious antecedents in Turin in the field of sculpture: Fior di chiostro
(Flower of the Cloister, 1884) by Davide Calandra and Dopo il voto (After the Vow, 1889), Istinto materno (Maternal Instinct, 1894),
Meditazione sulla morte (Meditation on Death, 1900) and Le comunicanti (The communicants, 1901) by Pietro Canonica. Rubino’s
little Madonna, though, is tainted by exhausted Aestheticism and descends from the Pre-Raphaelites (viz The girlhood of Mary
Virgin, masterpiece of the 21 year-old Rossetti), and is indiscutably more “modern”, the ambiguous and already contaminated
fruit of the new century. It was shown at the Quadrennial Exhibition of Fine Arts in Turin in 1902 and is now in the Galleria d’Arte
Moderna e Contemporanea in Turin, bought, at the time, with another marble, a Portrait, better known as the little Luciano girl.
A second example of the Giovinetta di Nazareth was shown at the Glaspalast in Munich in 1913, while a further version in marble is to be found in the Museo de Arte Italiano in Lima, Peru. Several versions cast in bronze are also known to exist.
11
The little head entitled the Jealous Girl (1902 ca.) was exhibited by the collector-dealer from Mantova, Ferruccio Stefani,
who was then associated with the Witcomb Gallery in Buenos Aires, in the second Latinamerican Exhibition of 1903. Cfr.
F. Stefani Exposiciones de Arte (Buenos-Aires, Montevideo, Valparaiso), Catálogo de la II Exposicion, Milano, Alfieri &
Lacroix, 1903, p. 39. Another example is in a private collection in Turin.
12
Rubino was charged with most of the sculptural decoration of the International Exhibition of Decorative Art in Turin (together with the architect Raimondo D’Aronco) and was commissioned to execute the group entitled Dance, five metres high,
repeated six times, with slight variations in the positions of the four figures, around the cupola of the main pavillion, as well
as the allegorical statues of Painting and Sculpture, for the façade of the Fine Art Exhibition building; the daring gilding of
these latter two figures was sharply criticised by critics Enrico Thovez e Alfredo Melani. Rubino was awarded a grand diploma and gold medal for his sculptural groups for the 1902 Exhibition. Instead, King Vittorio Emanuele III, who had been on
the throne a couple of years, bought a reduced version in bronze of Dance, which enjoyed considerable success, as is demonstrated, for example, by the existence of a well known cache-pot in biscuit by Ginori, evidently inspired by Rubino’s so-called
“Four Graces”. The plaster maquettes of Dance, Painting and Sculpture are now in a private collection in Pinerolo.
13
Gustave Soulier, L’Esposizione di Torino, Il contributo italiano, in “L’art décoratif”, September 1902, pp. 234 -245.
14
Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della Sera”, 16 October 1895, republished in Il Vangelo della pittura ed
altre prose d’arte, Turin, Lattes, 1921, pp. 119-127.
15
Mario Labò (1884-1961) intensified his collaboration with “L’arte decorativa moderna” from the fourth number of the
third year onwards, working alongside Thovez as editor; having renewed the editorial staff, it was erroneously believed that
the issue would become more regular, a hope expressed in the editorial to the same fourth issue of 1907.
16
Cfr. Mario Labò, La statuetta di Vivien Chartres di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 2, 1907, pp. 57-58.
17
While still in the field of music, let us not forget the plaque created in 1903, commissioned by the Associazione della
Stampa Subalpina. Entirely Symbolist in its conception, it was cast in silver by the Turin jeweller Musy and dedicated to
a deserving and exceptional member: the tenor Francesco Tamagno.
18
Cfr. “L’arte decorativa moderna”, Anno III, n. 3, 1907, p. 93.
19
Historians of music are still arguing over exactly when the Italian début of Salome took place. Whether it was on the 23rd
of December 1906 at the Teatro Regio in Turin, when Strauss himself took the stand, or whether it should be considered
the final dress rehearsal, open to the public, conducted by Toscanini at the Scala in Milan, staged that same afternoon. It
was a head-to-head race and Toscanini was extremely annoyed with the Bavarian composer who had promised him that he
could conduct the first public performance of his new masterpiece. Cfr. Giorgio Gualerzi, Salome delle discordie, in
“Torinosette”, Friday 15th - Thursday 21st February 2008, p. 25.
20
The Salome was in bronze by the Turin founder Menzio. This technical detail is to be found in an unpublished, threesided letter sent by Rubino to Spirito Lucinano, who was then at work in Mexico City with fellow-sculptor Enrico Alciati.
In the letter, written in Turin on the 14th of April 1907, Rubino informed his friend and assistant that «[...] on Saturday
20th, on my way to Venice, I shall take the bronze Salomè with me (I have just sent the retouched wax off to Menzio, who
has promised to be able to get it to me (in time)».
21
The remaining Piemontese rivers (the three Sture, Po and Sangone) were allotted in that order to Giacomo Cometti, Luigi
Contratti and Cesare Reduzzi.
22
Alessandro Marabottini, Lionello Balestrieri. La vita e l’opera, in Lionello Balestrieri (Cetona 1872-1958), Florence,
Edizioni Pananti, 2000, p. 30.
23
Cfr. Enrico Thovez, Placchette, medaglie e monumenti di Edoardo Rubino, in “L’arte decorativa moderna”, Year II, n. 7,
1905, pp. 193-197.
24
Luigi Carluccio, Bruno Martinazzi, Turin, 1972, Catalogue of the exhibition at the Gallery La Parisina (March 1972),
pages not numbered.
25
Giuseppina Jona, Artisti contemporanei: Edoardo Rubino, in “Emporium”, Vol. LXVII, n. 398, february 1928, pp. 68-69.
26
The Chair was given, instead to the Florentine classicist Cesare Zocchi (1851-1922), with 56 votes in favour and 54
against: Zocchi’s solid and conventional style was certainly a more reassuring choice than the visionary genius of Bistolfi,
especially from a dull scholastic and narrow-minded point of view.
27
It seems that Bistolfi’s exclusion was a foregone conclusion and the scandalous official verdict was as follows: «Bistolfi
is a poet, not a sculptor!» Thovez and his band were immediately scandalised: «The nomination of Zocchi as Sculpture
Professor in the Academy of our city which for so many years has given hospitality to Leonardo Bistolfi and which considers him one of its own citizens […] is so gross that it will evoke surprise and deep regret not only in Turin but throughout
Italy». (cfr. La Cattedra di Scultura all’Accademia Albertina e la nomina dello Zocchi, in “L’arte decorativa moderna”, Year
II, n. 7, 1905, pp. 211-214). See also the vehement protests written by Turin artists and pupils of the Albertina Academy,
published again by Thovez in “L’arte decorativa moderna” (Year II, n. 8, 1906, p. 254).
28
In 1909, as Sandra Berresford has observed, Bistolfi «came out with one of the very few episodes of self-defence known
to us, [R. Sacchetti, La nuova ebrezza artistica di Leonardo Bistolfi, in “Il Secolo”, 18 January 1909], in which he contested the accusation of creating “Literature” and, on the contrary, maintained that he created his sculture “plastically”,
through form, never separately from it». Cfr. S. Berresford, Bistolfi e il “Bistolfismo”, in R. Bossaglia and S. Berresford,
Bistolfi 1859-1933. Il percorso di uno scultore simbolista, Casale Monferrato, Piemme, 1984, p. 21.
29
Cfr. Sandra Berresford, Op.cit, p. 177.
30
Cfr. Roberto Rossi Percerutti (edited by), Torino Art Nouveau e Crepuscolare. Poeti e luoghi della poesia, Milan, Crocetti, 2006.
31
Dario Capello, Torino. Da Nietzsche a Gozzano, Milan, Unicopli, 2003, p. 21.
32
Other memorabile fruits of the long period of cooperation in Turin between Rubino e Casanova are: the Palazzo delle Poste e
Telegrafi (Turin Post Office), on which they worked from October 1905 to March 1911; the funeral monument for the PorchedduDainesi Family of 1912; the entrance porch and the exterior sculptural decorations of the renewed Società Promotrice delle Belle
Arti (1914-16); the tomb of Carolina Invernizio of 1916 and the confectioner’s store of Romana-Bass, situated in Piazza Castello
and restructured between 1918 and 1920. For the latter, Rubino conceived a magnificent bronze relief (held to be lost but, in fact,
in a private collection in Turin), and a bronze statuette, then placed on the counter of the liqueur store and now unfortunately lost.
33
For the Universal Exhibition of 1911, an event which brought seven and a half million visitors to Turin, Rubino created
a splendid bronze plaque, cast in different sizes and awarded accordingly as diploma of merit or as grand prix.
34
With regard to Bacchanals, we should recall the important Baccante or Offering (cm 74x28x28), a bronze from the early years
of the 20thC, belonging to the Frugone Collection in Genoa. Purchased by the entrepreneur collector from the dealer Ferruccio
Stefani, one of Rubino’s earliest supporters, it is an excellent example of the sculptor’s approach towards Symbolism, never entirely free from Realist references: take, for example, the finely rounded buttocks and thighs of the follower of Dionysus. Equally interesting, and still more finely-shaped, is the other bronze Baccante in the Frugone Collection dating from a much later period.
71
35
Dario Capello, Op. cit., p. 17.
36
To corroborate our theory of the close relationship between the figurative arts in Turin at the start of the 20thC and the
“Twilight School”, we should note that the tomb for the poet Giovanni Croce (1912, Monumental Cemetery, Turin) was the
first official commission received by the young Emilio Musso, who had only just graduated from the Albertina Academy
and who was working as pupil-assistant to both Calandra and Rubino at the time.
37
72
The personality of Enrico Thovez (1869-1925) is one of the most complex and contradictory in the Subalpine cultural ambience at the start of the 20thC. Torinese, of Savoy origin, with Sardinian and Catalan origins on his mother’s side, Enrico graduated in Literature and wrote regularly for newspapers and periodicals, contributing articles on society and literary and artistic criticism. He was involved in the circle of University élite that revolved around Arturo Graf where he stood out for his contentiousness, denouncing cases of plagiarism and inferior aspects of Gabriele D’Annunzio’s art, and opposing the literary
supremacy of Carducci and Pascoli (see, for example, his Il pastore, il gregge e la zampogna, Naples, Ricciardi, 1910). A
pasionate fan of Wagnerian melodrama and a portrait painter, Thovez was active in the field of art criticism, too, where he
revealed himself as somewhat eccentric in both the sector of contemporary art and that of the past: he could not stand French
Realism, for example (Courbet, in primis), or the Impressionists, especially Van Gogh and Cézanne. Instead, he adored the
early Pre-Raphaelites, admired Rodin, and welcomed the coming of Art Nouveau with open arms, actually undertaking to
spread the word in Italy by taking part in the complex organisation of the International Exhibition of Decorative Art of 1902.
38
Every now and again, we come across the erroneous note that “L’arte decorativa moderna” was reissued in 1909 under
the new title “Per l’arte”. Actually, “Per l’arte”, a monthly Turin magazine dedicated to the applied arts, was quite another thing: edited by Giovanni Battista Gianotti and published by the Società Italiana di Edizioni Artistiche C. Crudo & C.
(Turin), the magazine was issued – it, too at irregular intervals – between 1909 al 1915.
39
The Milanese poet continues: «Closed in its perfect octagon, crossed by its perpendicularities. It constantly clashes with the
intricacy of the segments of which it consists:a city of corners and contrasts, of secret perimetric ascents», Op. cit., pp. 8-9).
40
Cfr. Alberto Clementi, Storia dell’arredamento, Milan, Società Editrice Libraria, 1952, pp. 124-148. To tell the truth, we should not
overlook two other convinced supporters of the European importance of Thovez’s Turin, namely Italo Cremona and Albino Galvano.
41
The passage is taken from an unpublished letter written to Rubino dated «Torino, 27 giugno 1917». The note, densely
written and full of corrections, is part of the Fondo Enrico Thovez, deposited in the Centro Studi Piemontesi in Turin. Our
thanks to Albina Malerba for making the material available (previously researched by the Italian scholar Paolo Luparia).
42
In support of reading Rubino’s intellectual horizons in a wider European context we may cite the presence, in his studio
archives, of a photograph by the German Baron Wilhelm von Glöden. Photos by Von Glöden (a Decadent aesthete tainted
with “perversity”: friend of Wilde and D’Annunzio, of Costantino Barbella and Matilde Serao) were used and esteemed by
artists of the standing of LawrenceAlma-Tadema, Frederick Leighton, Maxfield Parrish, Alfred Stieglitz, etc.
43
Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Milan, Librex, 1986, p. 13.
44
Jarno Jessen, Prerafaelismo. Con aggiunte originali sul Prerafaelismo in Italia del dr. Enrico Thovez, Turin, Clausen, 1907.
45
Enrico Thovez, Il nuovo rachitismo, in “Corriere della Sera”, 16th October 1895; republished in Il Vangelo della pittura
ed altre prose d’arte, Turin, Lattes, 1921, pp. 119-127.
46
Rubino was friend and hiking companion of Rey, for whom he illustrated the book Il monte Cervino (Milan, Hoepli, 1904),
prefaced by Edmondo De Amicis: the original drawings are conserved on 23 sheets in the Museo della Montagna “Duca degli
Abruzzi” in Turin. Guido Rey (1861-1935), born in an illustrious family of entrepreneurs (he was the grandson of Quintino
Sella) and student at the Albertina Academy, is remembered as a photographer, intellectual and notable mountain climber.
He exhibited his photos for the first time in 1892 and received official recognition for his work at the first Esposizione generale italiana, held in Turin in 1898. The following year, his aestheticising images, Flemish in taste, received a gold medal in
Florence. In 1902, at the Esposizione Internazionale di Arte Decorativa in Turin, his “Dutch” inspired photos were shown with
great success; these also brought him international fame and they were published in the British periodical “The Studio” (prefaced by Enrico Thovez) and in “Camera Work”, the famous New York review, edited by Alfred Stieglitz.
47
Cfr. Enrico Thovez, Diario e lettere inedite (1887-1901), edited by Andrea Torasso, Milan, Garzanti, 1939, p. 992 (the
passage quoted is dated «29th May 1900»).
48
Jules Pierre van Biesbroeck (1873-1965) was a painter and sculptor held in high regard by our artists at the beginning
of the 20thC. Son and pupil of the Belgian Jules van Biesbroeck, Professor of Ghent Academy, he officially débued in 1888
at the Salon des Champs-Elysées in Paris. Born in Italy, (at Portici, near Naples), during his parents’ visit there, he was to
return to Italy many times to make contacts and friends and to reside, first at Bordighera, then at Palermo during the Great
War. He exhibited at the Casinò in San Remo and at the Kursaal in Palermo. In 1935, he opened an atelier in Algeri. An
important retrospective exhibition of his works was held in Ferrara at the Palazzo Muzzarelli-Crema from 15 at 23 June,
with a fine catalogue edited by Lucio Scardino and Arturo Malagù (Ferrara, Liberty House, 1991).
49
Francesco Pastonchi, Sepolcro, in Belfonte, Torino, Streglio, 1903, p. 131. «Two maidens, heads bowed in ecstatic prayer,
/ cradle with an “Ave Maria” a third maiden, lying sweetly and chastely composed amidst her whirling voluptuous hair / Oh,
Leonardo, your Idea eclipses all Form; and agile hands are proffered, slaves to your Thought, to carve the light of ardent
dreams in solemn marble // Life is good when Death is conceived of as a sweet deceit which renews forms only in the passing
soul / and from the minds of those absorbed in prayer, this serene admonishment appears to flow: and the tomb is lit up by it».
50
Cfr. Enrico Thovez, Il concorso per una tomba-monumento a Benedetto Brin, in “L’arte decorativa moderna”, Year I, n. 2,
February 1902, p. 56 (ill.) and pp. 60-61 (text).
51
Rubino’s group is the one on the right, on the façade of the building in via Bertola. The design and construction of the Cassa
di Risparmio’s new building was a troubled affair: the site opened, with a lot of administrative irregularities, in 1914. Work was
still underway in 1923 (the year that the protagonist of this incredibile episode, the engineer designer Carlo Angelo Ceresa,
died). So the unfinished building was sold to the Società Idroelettrica Piemontese on April 3rd 1925. Cfr. Aldo Castellano, Il
palazzo incompiuto di via Bertola, in Banca CRT. Storia, patrimonio d’arte, comunicazione d’impresa, Turin, 2002, pp. 146-150.
52
Leonardo Bistolfi, L’arte decorativa moderna, a conference held at the Teatro Alfieri, at the request of the Università
Popolare, on the 4th of June 1902, published in “L’arte decorativa moderna”, Anno I, n. 5, May 1902, pp. 129-152.
53
Cfr. Paolo Cesare Rinaudo, Pietro Canonica, Tancredi Pozzi, Edoardo Rubino. Interviste, Artisti e fatti contemporanei
(series I), Turin, Il Prisma, 1912.
54
A vivid pastel portrait, showing the sculptor aged 25, dated 1896 and previously uncited, is evidence of contact between
Rubino and the older Torinese painter Giovanni Battista Carpanetto (1863-1928). Exactly 40 years on, Giacomo Grosso
also painted his friend Edoardo, by now crowned with glory and honour.
55
Cfr. Giuseppe Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre, in “Le Vie d’Italia e dell’America Latina”,
July 1927, pp. 773 -779.
56
Another monument overseas, is that to General José Maria Cabal Barona, Martyr of Colombian independence and member of the Expedición Botánica. Created by Rubino for the Plaza de Cabal (or Parque Cabal) in Buga, the monument is
often attributed to an improbable “Fernando Rubinni”; it was probably inaugurated on the 6th of August 1924, when the
main square in Buga (Colombia) itself was inaugurated.
57
Paolo Cesare Rinaudo, Op. cit., p. 8.
58
Cfr. Franco Sborgi, Buenos Aires: il monumento a Bartolomé Mitre, in R. Belmondo and M. M. Lamberti (edited by),
Davide Calandra. L’opera, la gipsoteca, Savigliano, 2004, pp. 151-163. It seems likely that that same year (1906) Rubino
was commissioned to execute the Tomb for General Mitre, for the Recoleta Cemetery in Buenos Aires: this strong, vigorous piece of funeral sculture was fairly recently restored.
59
The terminus of the Crepuscular Movement is unanimously held to be 1916, the year in which Marino Moretti published
the verses of his Il giardino dei frutti (Naples, Ricciardi). The “Twilight” atmosphere became immediately obsolete after
the Great War. But we agree with Bianca Saletti, when she states: «Quite apart from the presentday appreciation and reevaluation of those artists who, by analogy with the contemporary literary movement, are also defined “Twilight” or
“Crepusclar” it is on some of them, particularly Felice Carena, Evangelina Alciati, Cesare Ferro, that the most interesting
moment in Turin painting, immediately after the First World War, will be grafted» (cfr. Scritti d’arte di Enrico Thovez, edited by B. Saletti, Treviso, Canova, 1980, p. XXXVIII).
60
Among the works commissioned by the Agnelli from Rubino, we can cite the seated figure of Signora Agnelli, the first
work executed for the Turin family, exhibited at the Venice Biennale in 1907; the fine portrait of Signora Tina Nasi Agnelli
(1920 ca.), the late, cold white marble busts of Edoardo and Giovanni Agnelli, as well as the graceful full-length marble
statue portraying Edoardo Agnelli in his skiing gear (at Sestrière 70 cm.), conserved in the Museo della Montagna “Duca
degli Abruzzi” in Turin and a medal coined in honour of Giovanni Agnelli (1924, diameter 28 mm).
61
Rubino presented the sculpture at the XVIth Venetian Biennale in 1928, «in a privileged position», as Monica Tomiato
underlines, and «curiously similar to its present location: in the rotonda beyond the entrance hall of the Exhibition main
pavilion». It seems most likely that the plaster model of the work was photographed for reproduction in the official catalogue while the work in bronze was actually shown there (or so one may deduce from the titles in the catalogue).
62
As Canavesio has aptly remarked: «His ability to feel grief and sensibility towards funeral themes, remained in tact […] and were
expressed in a strongly interiorised fashion. His particular inclination needed the right kind of surroundings, where distended space
and silence would calmly surround his chosen setting and encourage contemplation» (Cfr. Walter Canavesio, Op. cit., p. 153).
63
Cfr. Mario Cordero, La Cappella Galimberti, in W. Canavesio, M. Cordero and G. Galante Garrone, La Madonna degli
Angeli. Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze d’arte a Cuneo, Cuneo, Agami, 1998, pp. 95-103
64
Ten of Rubino’s works were shown at the XXIII Biennale Internazionale d’Arte in Venice, including the cited Mother and
a statue of Eve which was purchased by the Museo Civico of Turin. Critics, however, criticised the «cold academic essays»of
the Torinese senator. Rubino, unfortunately, has outlived his times: the «vital sculptural essentiality» of Arturo Martini and
Marino Marini was then all the rage.
65
We owe the rare image of Rubino’s Genius of Fascism to Monica Tomiato: a deserved reward for her filological persistence.
66
It would be a pity to leave out another work from the Thirties, Rubino’s Risveglio (Reawakening, cm 220x54x86), a marble of 1934, showing a highly polished lying down figure, absorbed in dreams, now in the Frugone Collection in Genoa. A
single example of the work was also excellently cast in bronze (cm 90x34), and once belonged to the Turin art critic
Marziano Bernardi, related to Rubino. The preparatory gesso was bequeathed, immediately after the writer’s death, to the
Gallery of Modern and Contemporry Art in Turin.
67
Cfr. Walter Canavesio, Op. cit., p. 152.
68
Cfr. Francesco Sapori, Scultura italiana moderna, Rome, La Libreria dello Stato, 1949, p. 471.
69
Cfr. Rodolfo Arata, Due nuove statue del senatore Rubino alla Gran Madre di Dio, in “Turin”, Anno XX, n. 10, October
1940, pp. 44-45.
70
In the C.V. presented to the Accademia Albertina (around 1930), Rubino listed all his honours and public titles:
Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, Cavaliere Ufficiale dei SS. Maurizio e Lazzaro, member of the Roman Accademia di
S. Luca and correspondent member of the Bologna Academy, member of the Directory Board of the Biennial International
Exhibition in Venice, City Councillor from 1915 to 1923, Councillor for Vocational Training and for the Fine Arts, Member
of the Governing Board of the Gallery of Modern Art in Turin, Member of the Building Committee from 1912, art teacher
at the former school of Architecture at the Royal Polytechnic (1919-20-21).
73
Edoardo Rubino in una foto dedicata a Clotilde Luciano e ai suoi figli
Edoardo Rubino e il Laboratorio Luciano:
storia di una collaborazione
SANDRA BERRESFORD
Chi studia la scultura italiana tra la
fine dell’Ottocento e i primi decenni del
Novecento, avrà occasione di imbattersi
in numerosi racconti (fra l’altro utilissimi
nella ricostruzione dell’oeuvre dei singoli
scultori e della rispettiva cronologia) sia
di semplici giornalisti, sia di critici d’arte, che descrivano una visita allo studio
di uno scultore affermato. In genere,
l’atelier è rappresentato più come santuario dell’Arte che operosa officina e raramente gli autori si soffermano sulle maestranze che erano ovviamente necessarie
al completamento delle grandi opere:
opere che divennero, con l’avanzare del
secolo XX, sempre più monumentali ed
impegnative in termine di mano d’opera. Non c’è nemmeno uno scrittore tra loro,
però, che non rimanga affascinato dal luogo “misterioso” dove venivano generati
tali capolavori, anche se sorvolavano sui processi che dovevano essere ancora,
almeno parzialmente, in evidenza ai loro occhi e cioè il disegno, la
modellatura in creta, la formazione dei gessi, il riporto dei punti
per la sbozzatura, la smodellatura e poi la lucidatura in
marmo…parzialmente perché la fusione in bronzo quasi sempre
avveniva in fonderie altrove come, d’altronde, sempre più la realizzazione in marmo nei laboratori di Carrara o altrove.
Se lo studio di uno scultore “officina” era, lo era nel senso
ideale, forse oggi diremmo “virtuale”, dove l’Idea veniva plasmata
nel Concreto dal Genio dell’Artista. Lungi da essere partenogenetiche però, le opere venivano celebrate appunto per l’Artefice,
spesso descritto come “sopraffatto” dal lavoro e troppo “gracile”
rispetto alle sue giganti creature, (è il caso, effettivamente vero,
degli esili scultori Rubino e Bistolfi), accanto alle quali veniva
fotografato, in posa fiera ed eroica, attrezzo in mano, vestendo il
tipico e pulitissimo camice da scultore. Così il pittore argentino
Antonio Alice1 ritrasse rispettivamente Rubino e Calandra, “dominatori” della loro materia: Calandra con un piccolo piccone in mano per rifinire la
testa in gesso del cavallo del Generale Mitre (il bozzetto del cavallo sullo sfondo
è invece quello per il Monumento ad Umberto I a Roma); [Fig. 2] mentre sullo
75
Fig. 1) Antonio Alice
Ritratto di Edoardo Rubino
da “Vita d’Arte”
gennaio 1916
Fig. 2) Antonio Alice
Ritratto di Davide Calandra
da “Vita d’Arte”
gennaio 1916
76
Fig. 3) Edoardo Rubino,
Spirito Luciano
ed uno sbozzatore al lavoro.
Sulla sinistra il Monumento
ad Umberto I ad Aosta
(foto archivio eredi Luciano)
sfondo del ritratto di Rubino, stecca in mano, spicca la testa della Vittoria alata e
il gruppo del Valore Civile del Monumento a Mitre. [Fig. 1]
I tempi sono cambiati e oggi, mentre riconosciamo allo Scultore il suo ruolo
di “compositore” o “solista”, lo vediamo sempre più “direttore d’orchestra” e la
nostra curiosità si è estesa a tutto il processo creativo e a tutti coloro in esso coinvolti. Diamo, quindi,
un’altra valutazione ai
gessi che ci sono stati
tramandati: non più
scarti di una banausica lavorazione ma testimoni preziosi del
processo artistico. I
bozzetti e modelli in
gesso, inoltre, sono
spesso più vicini
all’idea originale dell’Artefice, poiché si
usava cesellare e correggere direttamente
nel gesso prima di
passare o alla fusione
o alla realizzazione in
marmo. Rubino stesso
parla di intervenire
sul calco di una forma buona del suo nudo, esposto alla Biennale di Venezia nel
1907, portandolo «un po’ più a finimento con alcune modificazioni».2 Qui possiamo, a questo riguardo, osservare le movimentate superfici dello stupendo rilievo
Boido per capire che l’opera non era finita con i gessi ma ancora in corso [cat. n.
8]. Negli ultimi venti-cinque anni il patrimonio delle gipsoteche di scultori attivi
fra Otto e Novecento è stato radicalmente rivisitato e rivalutato in Italia. Mancava
certamente, fra i grandi, Rubino: una lacuna che è colmata in parte oggi dall’accurato restauro dei gessi, qui catalogati ed esposti, e in parte dalla collezione di
gessi lasciata al Museo dei Bozzetti di Pietrasanta dagli eredi di Spirito e Guido
Luciano, a lungo fedeli collaboratori di Rubino per la realizzazione delle sue
opere in marmo. Altri sono in collezioni pubbliche, e, tra questi, diversi furono
legati al Museo Civico di Torino per lascito testamentario del 1955;3 un discreto
numero di gessi ed opere appartiene ancora a privati.
Nel 1912, Paolo Cesare Rinaudo visitò lo studio di Rubino a Torino in Via
Asti [Fig. 3] dove lo fece accomodare «un colosso, vigoroso e tarchiato, dalla barbetta aguzza e vestito dalla maglia da scultore [...] l’operaio m’era sembrato la
figura di un ciclope, che m’avesse dischiuso le vie agli inferi pieni di mistero».4
Il nerboruto “operaio” è visibile in alcune fotografie provenienti dallo studio
Luciano a Querceta; con questi, lavorò anche Carlo Sergiampietri, sopranomina-
tio “Carrara” per le sue origini, ricordato più volte nella corrispondenza tra
Rubino e Spirito Luciano, e rammentato pure nello studio di Bistolfi in via
Bonsignore a Torino come esperto smodellatore del marmo. È Rubino, invece, che
fa da cicerone al “trepidante” giornalista, mostrandogli un primo studio, un «gran
salone, ridente di luce bianca e vivace [...] un’ampia sala, quadra, alta, anche eleFig. 4) Studio di Odoardo
Tabacchi a Torino
(Foto archivio eredi Rubino).
Sulla sinistra il gruppo
di Ugo Foscolo dopo
il trattato di Campoformio;
vicino alla porta i due
piangenti del Monumento
funebre per la Famiglia
Cuzzetti-Bonardi, Cimitero
Vantiniano, Brescia
gante. Tutto intorno statue». Lo scultore spiegò che era solito far sbozzare «dall’operaio» le sue statue nel marmo, lasciando magari le giunture spesse di modo
che potesse intervenire personalmente a far nascere la figura desiderata, godendosi, non la bassa manovalanza, ma il lavoro esperto di “ritocco”, “perfezionamento” e “finitura”.
Rubino illustrò un «bel corpo umano, modellato in gesso» e poi il piccolo
bozzetto in plastilina verdognola per una delle sue opere funerarie più riuscite,
allora in fusione (presso Lippi a Pistoia, ndr): L’Ultimo saluto per la Tomba
Remondini nel Cimitero Monumentale di Torino. Dopo, l’ospite venne condotto
nel “vero studio”: «[...] un grandissimo camerone, alto, quadro, con grandi
lucernari riparati da velari bianchi» con «statue dappertutto». Fra queste, il
bozzetto in gesso del Monumento al Generale Mitre da collocare a Buenos Aires,
opera in corso di esecuzione, non a quattro mani con Davide Calandra,5 come
Rubino tenne a sottolineare, ma dove ognuno, lavorando in perfetta armonia, si
era scelta la parte più geniale alla propria natura: così la figura equestre allo
scultore di Savigliano, le figure simboliche del basamento a Rubino. L’autore si
soffermò inoltre sul “bozzetto” per il monumento a De Amicis, «modellato e
finito» (anche se inaugurato soltanto undici anni più tardi) e su altre due
opere funerarie: una per la Famiglia Bidasio degli Imberti nel Camposanto di
77
78
Fig. 5) Rubino ca. 1902
con un bozzetto in gesso
della Danza
(foto archivio eredi Rubino)
Fig. 6) Rubino e Cesare
Biscarra davanti al modello
in creta della Pace
per la Fontana
al Parco Valentino 1898
(foto archivio eredi Rubino)
Fig. 7) Ritratto a matita
per Radicati, bassorilievo
del Monumento
a Federico Sclopis
(foto archivio eredi Rubino)
Ivrea,6 l’altra, La consolatrice, destinata al Cimitero Monumentale di Torino.
Lo scultore teneva a ricordare le proprie umili origini e quando si trovò, più
tardi, nella posizione di pagare i propri aiutanti, prediligeva «tra gli allievi, quelli che, come lui, hanno fatto lo scalpellino e l’intagliatore in legno».7 Anch’egli
aveva fatto l’operaio, fabbricando e vendendo i ferri del mestiere mentre studiava
col maestro Tabacchi all’Accademia Albertina [Fig. 4] e poi «operaio per parecchio tempo» (secondo Rinaudo) nello studio di Bistolfi. A quel periodo, infatti,
risale la sua incisione della Tomba Grandis, la Bellezza della Morte, pubblicata in
La Triennale del 10 novembre 1895. Altrove, questo tirocinio presso Bistolfi, nell’egregia compagnia di Cesare Reduzzi8 (cognato, dal 1893, di Spirito Luciano) e
Luigi Contratti, viene limitato a soli sei mesi.9 Guardando i primi anni della sua
carriera troviamo, comunque, un’artista aperto a varie correnti e stili con occhio
attento, inevitabilmente al “triumvirato”: Bistolfi, Canonica, Calandra. Rubino,
però, nasce dall’artigianato, avendo studiato plastica ornamentale con Luigi Belli
per tre anni prima di passare alla scultura. Non essendo benestante, dovette adattarsi, e non solo agli esordi, a tanti tipi di lavoro: dall’intaglio in legno alla scultura effimera (sei gruppi della Danza e le figure di Scultura e Pittura, per
l’Esposizione dell’Arte Decorativa Moderna del 1902) [Fig. 5], a fontane in
cemento (La Pace e la Dora al Valentino per la Mostra del 1898) [Fig. 6] a piccoli oggetti in bronzo, (come la Medusa per il porta biglietti della Ditta farmaceutica Wassermann o una lampada elettrica)10, poi targhe,11 tante e belle, coppe, medaglie, ritratti commissionati ed opere di genere,12 illustrazioni per libri e riviste...
tutto quel mondo, insomma, che dava da vivere allo scultore liberty. Era inoltre
straordinario ritrattista: basterà citare, in quest’occasione, i rapidi ritratti a cammeo dei primi senatori del regno, prima a matita, poi progettati in bronzo sul basamento del Monumento a Federico Sclopis a Torino (1904).13 [Fig. 7 ] La sua versatilità si presta alla scultura architettonica sia in scala ridotta come nei fregi per
la confetteria Baratti e Milano a
Torino, (cat. n. 9, 10) sia nei grandi
fregi come quelli che contornano il
Palazzetto della Promotrice al Valentino Torino, progettati in collaborazione con Bistolfi (1913 -1919).14
Rubino imparò, infatti, ben presto, a
collaborare con altri artisti e la sua
lunga carriera è cosparsa di esempi
molto proficui di divisione del lavoro:
col già menzionato Calandra, per il
quale finì diverse opere dopo la morte
nel 1915; con Cesare Biscarra per il
gruppo La Pace per la fontana dell’Esposizione torinese del 1898; con
l’architetto bolognese Giulio Casanova per le Tomba di Amalia Porcheddu
Dainesi (1912) (cat. n. 11) e della scrittrice Carolina Invernizio nel Cimitero
Monumentale di Torino. La prima è uno dei maggiori esempi di arte funeraria
liberty [Fig. 8], che mostra, è vero, l’influenza della Tomba Bauer di Bistolfi, e
soprattutto il suo concetto della Bellezza della Morte, ma rielaborato e stilisticamente vigoroso. C’è una grazia infinita in ciascun gesto misurato, una soavità nei
visi, una cadenza ritmica nella composizione che dimostrano quanto bene abbia assorbito il linguaggio bistolfiano (riflesso anche nei
numerosi schizzi del periodo, dove la traccia dell’artista elabora la
forma senza quasi mai staccarsi dal foglio). Come Bistolfi,
anch’egli abitava un gineceo, donde forse la particolare sensibilità
verso il mondo femminile. Tuttavia, la sua forte personalità e “il
mestiere” acquisito nei lunghi anni del tirocinio, fanno sì che
Rubino non sia numerato fra i numerosi “bistolfiani” che superficialmente imitavano il maestro, spesso cadendo nel pastiche.
La carriera di Rubino cominciò a “decollare”, come quella di
tanti altri in questo periodo, più per le opere funerarie che per
commissioni pubbliche prestigiose che tardarono ad arrivare. Nel
1907 completò il rilievo marmoreo per la Famigla Boido, Verso la
Pace, che collocò nel Cimitero cittadino, insoddisfatto però per
l’effetto appiattito della luce che tentò di correggere, forse con la
pittura.15 È un vero tour de force dello scalpello, dall’altorilievo sino
allo stiacciato più sottile. L’iconografia è insolita: se l’idea del trasbordo nell’al di là risale ai lontani tempi egizi, la composizione
riflette, come abbiamo osservato altrove,16 direttamente la Boat of Love di Dante
Gabriel Rossetti (Birmingham City Museum and Art Gallery), il quale, ispirandosi a sua volta ad alcuni versi di Dante, raffigurò il Poeta che invita i poeti Guido
79
Fig. 8) Particolare
del Monumento ad Amalia
Porcheddu Dainesi, 1912
Cimitero Monumentale
di Torino
Fig. 9) Studio a china del
rilievo funebre
Verso la Pace, 1907
(foto archivio eredi Rubino)
80
Fig. 10) Bassorilievo
per il portale di un sepolcro
Museo dei Bozzetti
Pietrasanta
Fig. 10a) Rubino dinanzi
al portale
(foto archivio eredi Luciano)
Fig. 11) Daniel Chester
French, Monumento funerario ad un giovane sculture
Tomba Milmore, 1891
Forest Hills Cemetery, Mass
(foto archivio eredi Rubino)
Cavalcanti e Lapo degli Uberti a fare una gita in barca con le loro tre rispettive
damigelle: Beatrice, Monna Vanna e Monna Lagia; mentre Dante aiuta Beatrice a
salire sulla barca, anche qui con un angelo al timone, tre figure scendono le scale,
osservate da altre appoggiate ad un balcone. Scelta la fonte d’ispirazione, la composizione fu tuttavia soggetta a lunga elaborazione da parte dello scultore, come
vediamo in alcuni squisiti schizzi in possesso
degli eredi [Fig. 9]. Un’altra opera funeraria di
questo periodo, conosciuta solo nel gesso presso
il Museo dei Bozzetti a Pietrasanta, è affine agli
stilemi preraffaelliti e la loro comune matrice
quattrocentesca [Fig.10]. Il Preraffaellismo era
“nell’aria”, rafforzato, ulteriormente, dalle presenze britanniche all’Esposizione Internazionale
di Arte Decorativa a Torino nel 1902, e Rubino
era sempre pronto ad accogliere degli spunti:
sicuramente come fece anche nel caso del suddetto Ultimo Saluto, affine nella sua drammaticità al Monumento funerario per un giovane scultore, conosciuto in riproduzione, dello scultore
americano Daniel Chester French.17 [Fig. 11]
Già con il Monumento al Generale Bartolomé
Mitre, però, Rubino sembra aver pienamente adottato il nuovo linguaggio della
Renaissance Latine anche se la sua interpretazione sarà sempre moderata da un
forte elemento euritmico e decorativo che lo salverà dalla retorica e vuoto michelangiolismo di alcuni suoi contemporanei. Non che il grande scultore toscano sia
del tutto trascurato: l’imponente angelo del Monumento sepolcrale alla Famiglia
Gambara (1919 Cimitero Monumentale Torino) deve molto ai suoi prototipi manieristi [Fig 12.], come anche la bella dolente del Monumento all’Ing. Andrea Maggia
ad Oropa.18
I primi decenni del Ventesimo secolo videro l’impegno da parte di molti scultori italiani (in concorrenza con scultori francesi e spagnoli, spesso
con esito positivo) nel processo – alquanto redditizio – della
“monumentalizzazione” delle americhe. Molto ancora rimane da
scrivere sulla storia degli artisti piemontesi attivi in Centro e Sud
America nei primi decenni del secolo.19 Il Concorso internazionale
per il Monumento a Mitre, da erigersi in Buenos Aires, fu vinto nel
1907 da Davide Calandra che volle, generosamente accludere il
nome del giovane e meno famoso amico al bozzetto.20 [Fig. 13, 13a]
Il bozzetto, opera congiunta quindi, ci mostra una composizione
ben equilibrata, dove i gruppi sono esuberanti rispetto al corpo centrale ma rimangono, allo stesso tempo, sobriamente circoscritti a sé,
ben lontani dalle vere e proprie fiumane dello spagnolo Querol del
Monumento all’Indipendenza argentina.21 In quel periodo Calandra
era davvero oberato dal lavoro, avendo vinto l’anno precedente la
commissione del Monumento ad Umberto I a Villa Borghese Roma
(terminato nel 1926 da Rubino) e il Monumento per Zanardelli a
Brescia (1906-1909). A richiesta del Comitato Mitre a Buenos
Aires, poi, l’opera era diventata ancor più impegnativa, praticamente raddoppiandosi in volume, altezza e costo rispetto al primo bozzetto. In cima al monumento
la statua equestre del Generale in bronzo, eseguita da Calandra, s’innalza sino a
sedici metri. Intorno alla base in granito di Baveno, si spiegano, secondo il tema
81
Fig. 12) Particolare
del Monumento funerario
alla Famiglia Gambaro
1916-1920. Cimitero
Monumentale di Torino
(foto archivio eredi Rubino)
Fig. 13) Davide Calandra
e Edoardo Rubino
Monumento al Generale
Bartolomé Mitre
Buenos Aires
(foto archivio eredi Rubino)
Fig. 13a) Edoardo Rubino,
particolare della Vittoria
(foto R. Freidus)
82
Fig. 14) Il Valore
militare che veglia sulla
sorte della famiglia
Monumento Mitre
Buenos Aires
(foto R. Freidus)
dettato dal concorso, le virtù del “Garibaldi” – o per altri – il “Mazzini” argentino, in una serie di gruppi simbolici marmorei, opera di Rubino: «il Valore militare che veglia sulle sorte della famiglia, fondamento della Patria: un atletico soldato che protegge una florida sposa e un poppante bambino; [Fig.14] il Valore civile
che protegge la Giustizia dall’assalto dell’Iniquità e il debole dall’assalto del violento; [...] un atleta, dai muscoli vibranti in lotta con un leone che tenta di assalire un’inerme fanciulla svenuta»; «mentre il Genio della Patria con la palma
s’aderge dalla prora come la Vittoria di Samotracia, e la Storia legge le gesta dell’eroe salutante di sul cavallo dall’andatura solenne»; al centro, nella parte posteriore una statua della Legge le fa da pendant con ai lati, due gruppi: a destra Lo
Studio («il vecchio patriarca, calvo e barbuto, protegge e ammonisce il bellissimo
giovinetto dal volto quasi di santo e di ispirazione donatelliana») e l’Armonia
(«inginocchiata sui veli, soave e casta, [...] verso la quale guarda, trascinato dalla
bellezza, un grazioso putto»); a sinistra della Legge, il Lavoro e l’Agricoltura (il
Fabbro, una coppia di contadini ai quali Cerere/Pomona offre una fronda d’alloro).22
Uno dei primi artisti torinesi ad emigrare in Sud America, verso la fine del
XIX secolo, fu probabilmente il ritrattista Augusto Reduzzi, fratello minore dello
scultore Cesare, che si stabilì prima del 1900 a Buenos Aires. Qualche anno dopo,
a varcare l’oceano fu lo scultore Enrico Alciati, amico di Rubino, Cesare Reduzzi
e Spirito Luciano, e fu proprio Alciati a fungere da tramite per coinvolgere altri
scultori piemontesi nelle realizzazione di grandi opere in Messico. Dal 1902 al
1910, Alciati realizzò in Città di Messico la Colonna per commemorare il centena-
rio dell’Indipendenza del Messico, con la statua di Miguel Hidalgo e quattro figure
allegoriche alla base (la Legge, la Pace, la Guerra e la Giustizia), tutti in marmo,
coronata da una Vittoria alata, (fusa a Firenze). Nel 1905, dalla sua residenza in
Città del Messico, Alciati stipulò un contratto con Spirito Luciano per la realizzazione in «marmo bianco chiaro Ravaccione» (di Carrara quindi) di tre statue
(Hidalgo, la Storia e la Patria).23 Spirito Luciano,
(1866-1924) che andò in Messico nel 1906
appunto per collaborare con Alciati, fu per
Rubino, nell’arco di una vita, il fidato realizzatore in marmo, ruolo ereditato poi dal figlio Guido
(1902-1946). Purtroppo poca della corrispondenza fra Rubino ed i Luciano è sopravissuta ma
già molte informazioni si possono ricavare da
alcune lettere, indirizzate da Rubino ad Alciati
in Messico, tra il 1906 e il 1907, giunte sino a
noi:24 una delle prime, datata 30 gennaio 1907,
esprime i suoi dubbi sulla probabilità di vincere
il concorso (per il Monumento a Mitre) in Buenos
Aires, dove il concorrente francese era «conosciutissimo per aver fatto parecchi lavori e per le
relazioni che conta fra le persone influenti».25
“Carrara” era a lavorare sulla «nuda» per
Venezia, intento a sbozzare il marmo, ma non
fece in tempo a finirlo e Rubino espose solo il
gesso alla Biennale, (un calco leggero, uno dei
due calchi che lo scultore fece eseguire dalla
forma buona)26 proponendo a Spirito Luciano di
farne una statua in marmo insieme al suo ritorno.
“Carrara” aveva sbozzato, inoltre, una testa in
marmo di una bimba di cui già Luciano aveva
fatto una replica. Reduzzi, invece, aveva vinto il concorso per i gruppi allegorici
del ponte” (Umberto I a Torino, ndr)27 assicurandosi, felicemente, del lavoro per
qualche anno.
Rubino, per conto suo, annunciò di essere in attesa di disegni (altrove di
«bozzetti architettonici») dall’ingegnere Boari e saluta Alciati. I disegni dall’architetto ferrarese Adamo Boari (1863-1928), servirono presumibilmente per l’ambientazione di una delle due fontane progettate per il Piazzale d’ingresso davanti
al Teatro dell’Opera della capitale messicana ma mai realizzate.28 [Fig. 15]
Inizialmente la progettazione delle fontane era stata affidata al noto scultore
francese Antoine Merciè: la Tragedia e la Commedia, da collocarsi ai lati della
facciata principale per le quali vennero preventivati $ 80.000 nel 1909, a $
90.000 nel preventivo di giugno del 1912.29 Successivamente le tematiche delle
fontane cambiarono in Amor e la Gloria, rispettivamente affidate ad Edoardo
Rubino e allo spagnolo Agustin Querol. Furono eseguite e spedite in Messico
83
Fig. 15) Studi preparatori
per le fontane monumentali
della Gloria (Querol)
e dell’Amor (Rubino)
progettate per il piazzale
davanti al Teatro dell’Opera
di Città del Messico
e mai realizzate
delle maquettes in gesso, e di Rubino un modello dell’Amor mai eseguito.
A Venezia nel 1907, oltre al nudo, Rubino mandò anche una statua seduta
dalla Signora Agnelli (la prima opera per la potente famiglia che era destinata ad
essere il suo maggiore committente privato), e il piccolo bronzo Salome, fusa in
bronzo dall’amico Menzio, statua raffigurante la cantante lirica Gemma
84
Fig.16) Monumento funebre
Mitre, Cimitero di Recoleta
Buenos Aires
(foto R. Freidus)
Bellincioni, «nel momento della danza in una posa molto sensuale».30 Annuncia
che “Fiorentino” era sul punto di partire per il Messico e, in effetti, a “Fiorentino”
(Fiorenzo Giannetti, 1877-1939),31 scultore torinese del circolo bistolfiano, era
stata commissionata una serie, molto riuscita ed originale, di rappresentazioni stilizzate della flora e della fauna messicane, insieme a numerose maschere (le emozioni umane: l’Ira, l’Allegria, la Tristezza ecc.) per ornare le facciate esterne del
Teatro dell’Opera, nonché a quelle raffigurante il cavaliere aquila e il cavaliere
tigre per i balconi laterali. Lo scultore si trattenne in Messico tra il 1906 e il
1911.32 È noto che anche Bistolfi eseguì delle opere importanti per la facciata dello
stesso Teatro (ora Palazzo delle Belle Arti): l’Armonia della lunetta centrale e due
gruppi laterali l’Ispirazione e la Musica sulla facciata principale (ca. 1908-1911).
Il 29 maggio1907, Rubino informò Luciano che aveva vinto il Concorso per il
Monumento allo scultore Alessandro Vittoria a Trento, opera né di grande mole né
di grandi compensi (Lire 15.000) che rappresentò, comunque, un passo avanti
nella sua carriera.33 Sino a quella data, infatti, le commissioni pubbliche erano
17) Laboratorio Luciano a
Querceta: gruppi in marmo
per il Monumento Mitre
Buenos Aires
(Archivio Museo dei
Bozzetti, Pietrasanta)
limitate a Torino per monumenti di modeste dimensioni (Casimiro Teja ca. 18971904; Federico Sclopis 1904).
Nel luglio del 1908, Calandra e Rubino s’imbarcarono per Buenos Aires per
definire le condizioni del contratto con il Comitato
committente del Monumento Mitre e per ispezionare il
sito, un vasto parco nel quartiere della Recoleta.
Furono stanziati ben 800.000 lire italiane per il compimento del lavoro che si trascinò negli anni, comunque, sino all’inaugurazione officiale nel 1927, presenziata da Rubino e la nipote. È probabile che durante la
prima visita a Buenos Aires, gli venne commissionata
la tomba di Mitre (1906) nel Cimitero di Recoleta raffigurante in altorilievo marmoreo le belle e solenne
statue della Libertà, del Dovere e della Giustizia, coronate da due angeli speculari in bassorilievo che rendono omaggio al semplice nome “Mitre”. [Fig. 16]
Fotografie d’epoca ci illustrano i marmi per il
Monumento a Mitre presso lo Studio dei Luciano a
Querceta in Versilia. [Fig. 17 e 18] Del Monumento
Mitre, solo due delle figure simboliche, la Vittoria e la
Storia, e la testa del Fabbro sono giunte a noi tra il loro
lascito. È probabile che, al rientro in Italia da Città del
Messico nel 1908, e in conseguenza alla vincita del
concorso per Mitre da parte di Calandra e Rubino,
Spirito Luciano decise di trasferirsi in Versilia per essere vicino alle cave del
marmo. All’inizio si servì di laboratori altrui ma, intorno al 1915 ne aprì uno grande in proprio a Querceta condotto, dopo la sua precoce morte nel 1924, dal figlio
Guido.34 Spirito lavorò anche per Calandra, di cui realizzò in marmo una statua
18) Rubino nel Laboratorio
Luciano a Querceta,
davanti ad una figura
per il Monumento Mitre
(Archivio Museo dei
Bozzetti, Pietrasanta)
85
86
Fig. 19) Laboratorio Luciano
Querceta: realizzazione
del Monumento funerario
Rosetti, Milano.
Sulla parete il rilievo di
Calandra per il Monumento
a Zanardelli e sullo sfondo
a sinistra il modello
per la Vittoria
del Monumento Mitre
(foto archivio eredi Luciano)
della Madonna35 e il fregio del Monumento a Zanardelli a Brescia, inaugurato nel
1909, e il suddetto Monumento equestre ad Umberto I. Seguirono tutte le principali opere di Rubino, fra le quali spicca il Monumento Funerario Rosetti ossia La
Famiglia (Milano, Cimitero Monumentale 1912, purtroppo danneggiato durante
la Seconda Guerra Mondiale e volutamente non restaurato) ideato originariamente in un imponente ed unico blocco di marmo; integro nel gesso, si può apprezzare il perfetto “tempismo” del gesto che unisce le due figure, altrimenti completamente assorbite nei propri mondi interiori: la donna nella Maternità, l’uomo, alla
Rodin, nel Pensiero [Fig. 19 e 21].
Luciano realizzò in marmo il delizioso altorilievo per il Monumento a
Edmondo De Amicis, con gruppi di ragazzi che riassumano i valori che il grande
scrittore dell’infanzia voleva trasmettere alle future generazioni: l’Amore materno,
l’Amicizia, la Carità, il Lavoro e l’Amore di Patria. Ben si addice a tali tematiche
lo Stile Liberty perché così ancora può definirsi, dato che l’opera fu concepita nel
1909, anche se l’inaugurazione ufficiale in Piazza Carlo Felice a Torino avvenne
solamente nel 1923 [Fig. 20]. La bella Seminatrice (che semina, appunto, il pensiero sociale di De Amicis fra i giovani), in bronzo, antestante l’esedra, viene
avanti con impeto, remore della contadina-madre del famoso Quarto Stato di Pellizza, (ma la comune matrice è naturalmente Jean-François Millet), immagine
tanta sfruttata dalla pubblicistica di sinistra. [cat. n. 13]
Successivamente, il Laboratorio Luciano collaborò alle molte opere che rientrano nella sfera delle commissioni per la Famiglia Agnelli, e tra queste le due più
impegnative: la Pala d’Altare per Don Bosco e storie della sua missione di educatore svolta in mezzo ai giovani (di cui il Museo di Pietrasanta conserva dei bozzet-
ti, dei rilievi e la testa del religioso): una serie di movimentate “Scene” affini, per
certi versi, alla tradizione scultorea narrativa del secondo Ottocento; ed il colossale Faro della Vittoria, voluto da Gianni Agnelli Snr. nel Parco della Rimembranza al Colle della Maddalena a Torino, inaugurato nel 1928, culmine di una
serie di nike, compresa la Vittoria per il Monumento a Vittorio Emanuele II a Roma
e un Monumento ai Caduti di Carignano
del 1922. Per eseguire la Vittoria del
Faro, allora la più grande statua in bronzo nel mondo, il giovane Guido Luciano
e le sue maestranze si trasferirono a
lungo a Torino dove l’enorme modello in
gesso è stato eseguito.36 La Vittoria è
molto simile a quella del Monumento
Mitre ma più solida, meno dinamica a
causa dei problemi di stabilità. Il modello della testa in gesso, tutto ciò che ne
rimane, fa parte del lascito Luciano a
Pietrasanta [Fig. 22]. Il Museo conserva
inoltre, i bozzetti per il fregio del
Monumento al carabiniere a Torino,
assegnato a Rubino per chiara fama ed
inaugurato nel 1933.37 Più di quaranta
figure raccontano «la carica, la trincea,
l’inondazione, il terremoto, il brigantaggio, l’abigeato, il gesto sublime di Scapacino, l’epidemia e via dicendo pur
aderendo in ogni atto e in ogni espressione a una realtà umana e vivacissima.
Non indugiano mai nella minuzia, non
s’allentano mai in compiacimenti di sola
maestria tecnica. La verità storica e le
circostanze sono scrupolosamente rispettate nei particolari, il pittoresco ha
la sua parte, il dinamismo scatta e trionfa; ma tutto ciò in funzione epica, a larghe
pennellate: siamo sempre in presenza della Storia, mai della cronaca».38 Se la lingua aulica ed eroica della scultura ufficiale di quel periodo non ci è più congegnale, proponiamo che l’espressività dell’uomo schiacciato dal cavallo a
Pastrengo, la ritmica ripetizione di tre carabinieri reggenti un muro durante il terremoto, il realismo della scena “in trincea”, per citare solo alcuni esempi, meritano più di un secondo sguardo.
Come vorrebbe la logica, il Laboratorio Luciano ebbe a conservare i gessi per
opere da loro realizzate [Fig.21]; il nucleo di gessi, invece, conservato a Torino
dagli eredi e qui esposto, è , per la maggior parte, riconducibile ad opere eseguite e collocate a Torino. Ci sono, comunque, alcune importanti eccezioni come il
87
Fig. 20) Rubino, modello
in gesso per il rilievo
del Monumento
a De Amicis di Torino
Museo dei Bozzetti
Pietrasanta
88
Fig. 21) Il Laboratorio
Luciano a Querceta dimesso.
Opere di Rubino (da sinistra
a destra): Deposizione a rilievo; il modello in gesso per il
Monumento funerario Rosetti,
Milano; rilievi dell’Altare per
Don Gnocchi
(Archivio Museo dei Bozzetti
Pietrasanta)
Fig. 22) Maestranze dello
studio Luciano con un particolare del modello in gesso
per il Faro della Vittoria
(foto archivio eredi Luciano)
bozzetto per il bassorilievo del Monumento equestre ad Umberto I, opera di
Calandra e Rubino, (cat. n. 15) che sappiamo eseguito con il Luciano. Oppure il
modello per il Monumento funerario di Giuseppina Chiesa (1930, Cimitero
Monumentale Milano), dove la bella figura, di una semplicità quasi austera, realizzata in marmo, veramente esalta le qualità della candida pietra (cat. n. 24).
Mentre alcune opere sono state identificate e/o trovate durante il corso della
preparazione della mostra, alcune continuano a sfuggire una precisa identificazione o collocazione. Conosciamo, ad
esempio, due straordinarie Deposizioni:
un gesso nel Museo dei Bozzetti (vedi
fig. 21), sulla sinistra; una seconda fotografia mostra Spirito Luciano intento a
scolpire il marmo) e un altra, memore
della famosa Deposizione di Dupré nel
Camposanto della Misericordia a Siena,
pubblicata nel 1928.38 L’identificazione
del bellissimo portale per un’edicola
funebre, conosciuto solamente nel
modello in gesso a Pietrasanta [Fig. 10],
per ora ha eluso gli studiosi, ma siamo
fiduciosi che, ricordando Rubino e la sua opera, l’interesse suscitato porterà dei
buoni frutti e tante nuove scoperte...
Note
1
Antonio Alice (1886-1943) studiò all’Accademia di Buenos Aires; nel 1904, vinse il Premio
Roma che gli permise di venire a studiare in Italia con Grosso, Tavernier e Gilardi presso
l’Accademia Albertina dove, nel 1905, vinse la medaglia d’oro per la pittura.
2
Edoardo Rubino a Spirito Luciano, lettera datata 12 aprile 1907, conservata dagli eredi Luciano
che cortesemente ringraziamo per averci concesso la consultazione di quest’interessante corrispondenza tra Rubino e il loro nonno, purtroppo limitata agli anni 1906-1907, quando questi fu a
lavorare in Messico.
3
Daniele Pescarmona, nel suo saggio ancora fondamentale su Rubino, elenca fra le opere lasciate, i bozzetti in gesso per il Monumento al Carabiniere reale in Torino; i gessi per Mitre; per il Faro
della Vittoria; il rilievo della Navicella degli Apostoli (Palazzo delle Congregazioni, Roma); l’Altare
di Don Bosco; i grandi modelli per il suddetto Monumento al Carabiniere, invece, furono donati al
Museo Storico dell’Arma a Roma. Cfr. D. Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty
al successo dell’Accademia in Eclettismo a Torino Guido Casanova Edoardo Rubino, a cura di
Franca Dalmasso, Il Quadrante, Torino, 1989, p. 106. Il Museo (ora Galleria Civica d’Arte
Moderna) possiede, inoltre, ritratti in gesso della Signora Sciamengo Remmert, della Signora
Ostorero, e della Signora Mattioli (in marmo e gesso), nonché il Ritratto della Bimba Luciana (sic),
ossia di Rosa, la figlia maggiore di Spirito Luciano. Rubino lamentò la morte dell’avvocato
Mattirolo, «un grande amico e un padre», in una lettera del 30 gennaio 1907, indirizzata a Spirito
Luciano.
4
P. C. Rinaudo pubblicò tre interviste a scultori, Pietro Canonica, Tancredi Pozzi e Rubino in un
fascicolo dedicato “A Sua Maestà la Regina Margherita di Savoia”, pubblicato a Torino a cura della
rivista d’arte “Il Prisma”. Le interviste sono riportate integralmente in Pigmalione e Galatea. Note di
Scultura a Torino 1880 -1945, Torino, Weber & Weber, 2006, a cura di Armando Audoli, pp. 152-154.
5
Cfr. Davide Calandra L’Opera, la Gipsoteca a cura di R. Belmondo e M. M. Lamberti, Comune di
Savigliano Museo Civico Antonino Olmo, 2004, pp. 151-163.
6
Riprodotto in G. Jona, Artisti Contemporanei, Edoardo Rubino in “Emporium”, Vol. LXVII, febbraio 1928, n. 398, p. 76. La figura femminile, sul solco della tomba, alza il velo con la mano sinistra,
un gesto spesso ripetuto nel repertorio funerario rubiniano e rivelatore della bellezza femminile.
7
E. Zanzi, Scultori nostri. Esposizione Sindacato Regionale fascista delle Belle Arti, in “Gazzetta
del Popolo”, 16 luglio 1929.
8
Anche Cesare Reduzzi (1857-1911) ebbe rapporti con la Versilia per quanto riguarda la realizzazione delle sue opere in marmo servendosi del Laboratorio Antonio Bacci.
9
G. Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre, in “Le Vie dell’Italia e
dell’America Latina”, p. 774.
10
Lampada riprodotta in Scultura Monumentale e Plastica decorativa, I Serie (fascicolo senza data a
cura della Biblioteca de “L’Artista Moderno” Torino), tav. XV, insieme con la nota Placchetta per la
Società Fotografica Subalpina, tav. X, e la bella medaglia del 1901 per commemorare Vincenzo Gioberti (Aprir l’Animo stanco a lieta e generosa speranza), tav. X, e una lampada elettrica, tav. XV.
11
Placchetta per lo scultore Davide Calandra riprodotta in “L’Arte Decorativa Moderna”, Anno II,
1903, n. 7, p. 195. Placchetta offerta dall’Associazione della stampa subalpina a Francesco
Tamagno, 1903, ibidem, p. 198. La sopracitata Placchetta per la Società fotografica Subalpina,
Ibid., p. 199; Placchetta offerta ad Alfonso Badini Gonfalonieri, 1903 id., p. 205. Da non dimen-
89
ticare, inoltre, l’attività di medaglista condotta sino in tarda età: Massimiliano Fiorio ci ha ricordato la bella medaglia del 1931 per celebrare le nozze di Umberto II e Maria José di Savoia con
la Mole Antonelliana e tre angeli con l’ostentazione della Sacra Sindone sul verso.
12
90
Segnaliamo un bel busto di bambina, fuso presso la Fonderia Artistica Sperati Emilio a Torino,
databile intorno al 1890 che passò per la casa d’aste Sotheby’s di Londra, 11 giugno 1987, n. 291
e un busto femminile idealizzato Heroina riprodotto nel catalogo dell’Esposizione Nazionale a
Torino del 1898. Queste, ed altre teste note, come quella del Monumento Frugone a Staglieno,
sono più vicine a Calandra che a Bistolfi.
13
Esistono numerosi schizzi per i personaggi ritratti nei due bassorilievi, alcuni con nomi (Roberto
D’Azeglio, Luigi Des Ambrois, Thaon de Revel, Filippo di Castellengo, Radicati ecc.) che dovrebbero rappresentare il ruolo svolto da loro e da Sclopis nella concessione dello Statuto nel 1848,
e/o la sua Presidenza del primo Senato subalpino nel 1863-64. I quattro bassorilievi per il Monumento
a Sclopis sono riprodotti in Scultura Monumentale e Plastica Decorativa, cit., tav. XXI.
14
Riprodotti in Cronache. L’Esposizione Nazionale di Torino, in “Emporium”, vol. L, n. 298, ottobre 1919, pp. 213-214.
15
Edoardo Rubino a Spirito Luciano, in data 4 ottobre 1907.
16
S. Berresford (a cura di), Italian Memorial Sculpture 1870-1940. A Legacy of Love, Frances
Lincoln, Londra, 2004, p. 179.
17
Tra le carte di Rubino la riproduzione, con la dedica manoscritta, «La Reconnaissance d’un touriste americane (sic) en avril 1901». Daniel Chester French (1850-1931), uno dei maggiori scultori americani dell’epoca, visse a Firenze tra il 1873 e il 1875 e dal 1886 fece diversi viaggi a Roma
e altrove in Italia.
18
Ripr. G. Deabate, Una caratteristica Necropoli Alpina, “Le Vie d’Italia”, luglio 1925, p. 769.
Vedi anche il sito www.santuariodioropa.it/santuario/it-cimitero-monumentale.htm/p.42
19
L’argomento è stato affrontato all’interno di uno studio sul marmo di Carrara ed i suoi rapporti
commerciali nel mondo in Carrara e il Mercato della Scultura 1870-1935, vol. II, a cura di Sandra
Berresford, 24 Ore Motta Editore (Strenna della Cassa di Risparmio di Carrara, 2007). Di Rubino,
Thieme-Becker segnala anche un Monumento al Generale Cabal a Santa Fé de Bogotà in Colombia
che risulta, invece, il monumento allo scienziato, militare e patriota colombiano, José Maria Cabal
(1769-1816) nella piazza a lui intitolata nel suo paese nativo, Guadalajara de Buga [cat. n. 21].
Uno scrittore autorevole riporta che Rubino declinò l’invito di elaborare il programma plastico del
nuovo Palazzo Legislativo di Montevideo dell’architetto Gaetano Moretti, eseguito egregiamente,
in sua vece, da Giannino Castiglioni. Rodrigo Gutiérrez Viñuales, Monumento conmemorativo y
espacio público en Iberoamérica, Madrid, Càtedra, 2004, p. 331.
20
Un dettaglio che Rubino ricordò nella sua commemorazione dell’amico nel Consiglio Comunale
a Torino, citato in G. Deabate, Op. cit., 1927, p. 773.
21
Ibid. Il bozzetto originale è riprodotto a pagina 777.
22
Ibid.
23
Le statue, collocate alla base della Colonna dell’Indipendenza a Città del Messico, sono riprodotte in R. Gutiérrez Viñuales, Op. cit., p.643.
24
Purtroppo, tutta la documentazione burocratico-amministrativa dell’attività del laboratorio di
scultura “Spirito Luciano” (fino al 1924) e “Guido Luciano fu Spirito” (dal 1924 al 1946) è andata distrutta nel corso della Seconda Guerra Mondiale. L’attività continuò dopo la morte di Guido
con un laboratorio a lui intitolato sino ad esaurirsi verso la fine degli anni 1950.
25
Forse Emile-Edmond Peynot (1850 -1932), autore dell’imponente Monumento di Francia
all’Argentina a Buenos Aires.
26
Edoardo Rubino a Spirito Luciano, 12 aprile 1907.
27
Ibid. Il ponte, eseguito in collaborazione con Luigi Contratti, fu inaugurato nel 1911.
28
Sia il contratto che la lettera da Rubino a Spirito Luciano (Torino, 20 gennaio 1907) sono conservati negli Archivi della Biblioteca “G. Carducci” di Pietrasanta. Ringrazio l’arch. Chiara Celli
e lo staff della Biblioteca e del Museo per la loro disponibilità. Gessi di Rubino, provenienti dal
Laboratorio Luciano a Querceta sono esposti nel Museo dei Bozzetti 2, Pietrasanta. Alla morte del
padre, il Laboratorio proseguì sotto il figlio, Guido (1902-1946), che continuò la proficua collaborazione con Rubino. I bozzetti per le fontane sono riprodotti in La Costruzione di un Teatro,
Architetto Adamo Boari (Roma, Danesi, 1918), opera che riccamente illustra le meraviglie del
Teatro dell’Opera di Città del Messico.
29
I preventivi sono riportati in R. Tovar, V. Jimenez et al., La Costrucción del Palacio de Bellas
Artes, Madrid, 1995, pp. 339-341.
30
Rubino a Spirito Luciano, 27 febbraio 1907. La Bellincioni (1864-1950) interpretò Salome nella
prima rappresentazione in Italia dell’opera di Richard Strauss alla Scala di Milano il 23 dicembre
1906, con Toscanini sul podio, e quasi in contemporanea al Teatro Regio di Torino, condotta da
Strauss in persona. La stessa lettera fa riferimento alla realizzazione da parte di Rubino «a tutto
vapore» ma «imbroccata» della figura di Carducci per una commemorazione.
31
Cfr. A. Audoli, Pigmalione e Galatea. Note di Scultura a Torino 1880-1945, Torino, Weber &
Weber, 2006, pp. 76-77.
32
W. Canavesio, L’atelier di Leonardo Bistolfi. Allievi e collaboratori, in “Percorsi. Rivista della
Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte ‘Giuseppe Grosso’”, anno IV, n. 7, 2004, pp. 57-58.
33
Il monumento è riprodotto in “Rassegna d’Arte”, luglio 1909 e in “Emporium”, luglio 1909, p. 79
34
L’attività del Laboratorio Luciano fu continuata da Emilio Buratti di cui Rubino si avvalse, sino
alla morte (avvenuta nel 1954), servendosi anche del giovane Abele Jacopi. Egli realizzò, fra le
ultime opere dello scultore, il Monumento a Pio XI, 1941, Palazzo delle Congregazioni a Roma, e
l’ultimo, Il Monumento alla Linea Gotica in piazza Europa a Ripa, inaugurato nel 1958 (tre statue
in cemento, un uomo affiancato da due donne, su base in travertino). Nel 1922, il Laboratorio
Luciano diede lavoro a circa 25 operai.
35
I termini del contratto fra Calandra e Spirito Luciano sono precisati in una lettera del primo,
datata 19 giugno 1906, conservata nel Museo dei Bozzetti a Pietrasanta; la statua dovrebbe identificarsi con quella per la Chiesa del S. Cuore di Maria a Torino.
36
Il bozzetto in gesso è conservato presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Per una
descrizione delle fatiche e difficoltà nella sua esecuzione, vedi La più grande statua del mondo
fusa in bronzo in “La Stampa”, 11 marzo 1928.
37
M. Bernardi et al., nell’opuscolo Il Carabiniere: Inaugurazione del Monumento Nazionale al
Carabiniere Reale, 1933.
38
M. Bernardi, Ibid.
39
G. Jona, Artisti contemporanei. Edoardo Rubino, cit., 1928, p. 78.
91
Edoardo Rubino and the Luciano Studio:
the Story of a Partnership
by SANDRA BERRESFORD
Anyone who has had the opportunity of studying Italian sculpture from the end of the 19th
and the early decades of the 20th centuries will certainly have come across numerous accounts,
whether written by straightforward journalists or by art critics, which describe a visit to the studio
of a successful sculptor. Such accounts are, of course, extremely useful in reconstructing the
artist’s oeuvre and his career. In general, however, the studio is portrayed as some kind of sanctuary of art rather than as a busy workshop and only on rare occasions do the writers take time to
remark on the skilled workers who were so obviously involved in the various stages of the execution of often large and complicated works; works which, indeed, became ever larger and more complex as the 20th C went on, requiring greater and more time-consuming labour. Not one writer, however, failed to be impressed by the “mysterious” place where such masterpieces were created,
although they may well have chosen to ignore the processes which, at least in part, must have been
very visible all around them: drawings, clay or plasticine models, positive and negative moulds,
plaster models and casts, instruments for pointing up and enlarging maquettes, tools for chiselling
and polishing marble.
We say “in part” because, it is true, that bronze casting nearly always took place in external
specialised foundries, while the first stages of marble carving may well have been contracted out,
perhaps to one of the many studios in Carrara or elsewhere.
If the atelier of an artist was a workshop, then, for such writers, it was only in the ideal…or
what today we might call the “virtual” sense: a place where the original Idea was fashioned into concrete form by the Genius of the Artist. Far from parthenogenetic, however, the works were celebrated on account of their Creators, often described as fragile and worn out, crushed almost by their
enormous creations, next to which they appeared in photographs, heroically posed, proudly displaying a chisel or some other tool, dressed in the immaculate smock of their profession. Contemporary
images of the lightly built Bistolfi and Rubino do, indeed, strike us with their frailty. This was how
the Argentinian painter Antonio Alice1 portrayed both Rubino and Calandra, as “conquerors” of
their material: Calandra with a small pick in hand to work on finishing the plaster model of the head
of the horse of the equestrian monument to General Mitre (the maquette of the horse in the background is, instead, that for the Monument to Umberto I in Rome) [Fig. 2]; while Rubino is shown
with a modelling stick in hand, with the head of the winged Victory and the allegorical group of Civil
Merit for the Mitre Monument emerging from the shadowy background [Fig. 1].
Times have changed since then and we now tend to consider the sculptor, not just as composer or soloist, but rather more as the conductor of an orchestra and our curiosity is fired by the entire
creative process, extending to everyone involved therein. For this very reason, the plaster models
and casts, the so-called “gessi”, that have been passed down to us from a sculptor’s studio, are
nowadays held in much greater esteem: no longer the “waste products” of slavish imitation but,
rather, precious evidence of the creative process. What is more, it should be realised that these
very gessi are quite often closer to the original Idea of the artist since the latter very often continued to chisel and refine the surfaces of the plaster before giving final approval for casting in bronze
or carving in marble. Rubino himself spoke of intervening on the cast taken from the model of a
nude that he exhibited at the Venice Biennale of 1907, «finishing it off a little better with some
changes».2 One glance at the lively surfaces of the stupendous Boido relief suffices to demonstrate
that the work was not finished with the gessi, but was still very much “in progress”. [Cat. n. 8]
Over the past twenty-five years, the heritage of the collections of gessi, or “Gipsoteche”, dat-
93
Pagina a fianco
Foto Giorgio Stella
94
ing from the late 19th and early 20th centuries, has been radically re-examined and re-evaluated
in Italy. Certainly, among the great sculptors of the period, Rubino was missing… a lacuna partially filled here with the scrupulous restoration, cataloguing and exhibition of part of the gessi
coming, directly by descent, from the sculptor’s atelier; partly by the collection generously left to
the Museo dei Bozzetti 2 in Pietrasanta by the heirs of the Luciano studio, for many years faithful
executors of his works in marble. Others, like by the works bequeathed in 1955 by Rubino to the
Museo Civico in Turin,3 are in public collections while several others are still in private hands.
In 1912, Paolo Cesare Rinaudo visited Rubino’s atelier in Turin, in via Asti [Fig. 3], where
he was welcomed by «a sort of vigorous stockily-built colossus with a pointed beard, dressed in a
sculptor’s sweater» [...] «It was as if the worker, who resembled Cyclops, had revealed the path
towards the Underworld, full of mysteries».4 The sinewy “worker” is to be seen in some photos
belonging to the Luciano heirs of Rubino’s Turin studio and may be identifiable with a certain
Carlo Sergiampietri, nicknamed “Carrara” after his native town, who is mentioned several times
in correspondence between Rubino and Spirito Luciano; he is also known to have expertly roughed
out marble blocks for Bistolfi in his Turin atelier in via Buonsignore. Rubino then acted as guide
to the “awed” journalist, introducing him to a first studio, «a fine big room, lively and full of bright
light [...] a spacious room, square and elegant with a high ceiling. Statues were all around». The
sculptor explained that it was his custom to have the sbozzatore, or marble-cutter “rough out” the
marble block, leaving the stone thicker at the joints so that he could personally intervene in creating the desired figure, and, thus, rather than demean himself in unskilled labour, delight in the
expert job of “retouching”, “perfecting” and “refining”. Rubino showed his visitor «a fine nude,
modelled in plaster» and then a small maquette, in greenish plasticine, for one of his finest works,
then being cast (at the Lippi Foundry in Pistoia): The Last Farewell for the Remondini Tomb in the
Monumental Cemetery in Turin. The journalist was then shown into the real studio, a huge square
room with high skylights, shaded by white drapes, with statues all around. Among these, the plaster maquette for the Monument to General Mitre for Buenos Aires, a work underway not, as the
sculptor took pains to point out, a “four-handed duet” with Davide Calandra5 but, rather, a composition executed in perfect harmony where each artist had chosen to execute the part more consonant to his nature: so the equestrian figure was the work of the sculptor from Savigliano whereas the allegorical figures around the base were conceived and executed by Rubino. The author also
stopped to admire the maquette for the Monument to Edmondo De Amicis, «modelled and finished» (though inaugurated only some eleven years later), and two other funerary pieces: one for
the Bidasio Family to be erected in the Camposanto at Ivrea6, the other, the statue of a woman
representing Consolation, destined for the Monumental Cemetery in Turin.
The sculptor was proud to recall his own humble origins as an artisan and, stated that, when
in a position to pay his own workers, he always preferred to hire, «among (his) pupils, those who,
like himself, had trained as stonecutters or wood carvers».7 He, too, had begun his artistic career
that way and had even, at one stage, while still studying under Tabacchi at the Albertina Academy,
had to fashion and sell tools of the sculptor’s profession to support himself [Fig. 4]. He then worked
“for some time”, to quote Rinaudo, in the studio of Leonardo Bistolfi. His etching of the latter’s
Beauty of Death for the Grandis Tomb, published in La Triennale on the 10th of November 1895,
dates to the period he spent there. Elsewhere, Rubino’s apprenticeship in Bistolfi’s atelier, in the
worthy company of Cesare Reduzzi8 (Spirito Luciano’s brother-in-law after 1893) and Luigi
Contratti, is said to have lasted only six months.9
When considering his early period, we can find an artist open to various influences and one
who inevitably cast a careful glance in the direction of the “triumvirate”: Bistolfi, Calandra,
Canonica. Rubino’s creativity, though, was firmly rooted in the craft tradition, having studied ornamental modelling under Luigi Belli at the Academy before moving on to study Sculpture with a
capital “S”. Since he had had to make his own way in life and earn his bread and butter from an
early age, Rubino was continually obliged to adapt his talent to many different kinds of work: from
wood carving to the execution of ephimeral sculpture like the six groups of Dance and the allegorical figures of Sculpture and Painting which crowned the main pavilion of the International
Exhibition of Decorative Arts in Turin) [Fig. 5]; to fountains in cement (the allegorical figures of
the Pace and the Dora, tributaries of the Po River, in the Valentino Park in Turin, executed for the
National Art Exhibition of 1898) [Fig. 6]; small objects in bronze like the leaflet-holder, with the
head of a Medusa, designed for the pharmaceutical company Wassermann, or an electric lamp;10
and then many fine plaques,11 trophies, medals, commissioned portraits and various genre pieces;12
covers and illustrations for books and periodicals, advertisements… that whole sphere, in other
words, in which an Art Nouveau (or “Liberty”) artist could earn a living. Rubino was an extraordinarily gifted portraitist, suffice it to cite here the rapid, vibrant pencil sketches he made of the
first Italians appointed Senators for the bronze reliefs that were planned to figure on the Sclopis
monument in Turin of 1905.13 [Fig. 7] His versatility lent itself to architectural sculpture, whether
on a small or large scale: from the decorative friezes of the Baratti and Milano Café in Turin [Cat.
n. 9 - 10] to those, designed and executed with Bistolfi from 1913 to 1919, crowning the new Fine
Arts Exhibition Building, in the Valentino Park.14 Rubino, in effect, learnt very early in life to cooperate with other artists and his long career is dotted with many episodes of highly successful
division of labour: with the aforesaid Calandra for whom he finished several works after the latter’s
death in 1915; with Cesar Biscarra on the 1898 fountain for the Valentino Park; with the Bolognese
architect Giulio Casanova on the Tomb of Amalia Dainesi (1912) [Cat. n. 11 ] and of the writer
Carolina Invernizio in Turin Cemetery. The first is one of the highest examples of Liberty funeral
sculpture which, though it may indeed have been influenced by Bistolfi’s Bauer Monument (Genoa,
Staglieno) and, above all, by his concept of the Beauty of Death, has been stylistically re-elaborated in a vigorous fashion. There is an infinite grace each measured gesture, a softness and delicacy in the expressions, a rhythmic cadence to the composition which denote just how well Rubino
had absorbed the Bistolfian style, reflected, too, in the numerous sketches from the period where
the artist’s pencil is unceasingly dynamic, creating forms without ever seeming to leave the paper.
Like the artist from Casale Monferrato, Rubino grew up in a household of women and this may have
made him particularly sensitive towards the female world. Nevertheless, with such strength of
character and knowledge of his craft, we can hardly include Rubino among the many “Bistolfians”
who superficially imitated the master, often producing little more than pastiches.
Our artist’s career began to take off, as did those of many other sculptors at the turn of the
century, more because of the success of his funeral pieces rather than through prestigious public
commissions, which tarried in coming. In 1907, he completed the marble relief of the Boido
Family Tomb, entitled Towards Peace, after working on bringing out the forms, perhaps applying
paint, because he discovered that the light flattened it under the arcades of Turin Cemetery.15 It is
a veritable tour de force of the chisel: from the high relief to low relief and, still further, down to a
minimal stiacciato. The iconography is fairly unusual: while the idea of being conveyed by boat to
the Afterlife harks back to Egyptian times, as we have remarked elsewhere,16 the composition
directly reflects the Boat of Love by Dante Gabriel Rossetti (Birmingham City Museum and Art
Gallery), in turn inspired by some verses of Dante which recount his invitation to fellow-poets
Guido Cavalcanti and Lapo degli Uberti to go for a boat ride accompanied by their three respective damsels: Beatrice, Monna Vanna and Monna Lagia; while Dante helps Beatrice get onto the
boat, here, too, with an angel at the helm, three figures descend the stairs, observed by others higher up leaning over a balcony.
Once having chosen his theme and his source of inspiration, the composition was subject to
a long drawn-out process of elaboration on the part of the sculptor as a series of fine drawings,
belonging to his heirs, demonstrate. Another funeral piece from this period, known only in the
plaster reliefs at the Museo del Bozzetto in Pietrasanta, is similar to the Boido in its Pre-Raphaelite
95
96
style, with a common matrix in the art of the Italian Quattrocento [Fig. 10]. Pre-Raphaelism was
“in the air” and had been further reinforced by the British exhibits at the International Exhibition
of Decorative Arts in Turin in 1902 and Rubino was always ready to absorb new stimuli: as he certainly did in the aforecited Last Farewell, strikingly similar in its dramatic posing to the Monument
for a young Sculptor by the American sculptor Daniel Chester French, known through a reproduction17 [Fig. 11].
In his Monument to General Bartolomé Mitre, though, Rubino seems to have already completely absorbed the language of the Renaissance Latine, although his own interpretation of it will
always be modified by a strong eurhythmic and decorative element that will save him from rhetoric and the vacuous imitation of Michelangelo so common to many of his contemporaries. Not that
Rubino ignored the great Tuscan sculptor altogether: the imposing angel of the Gambara
Monument (1919, Monumental Cemetery, Turin) owes more than a little to his Mannerist prototypes [Fig. 12], as does the beautiful mourner of the Monument to Andrea Maggia at Oropa.18
The first decades of the 20thC saw many Italian sculptors, rivalled by their French and
Spanish counterparts, successfully attempting to take part in the often highly lucrative, “monumentalisation” of the Americas. A great deal remains to be written on the role of Piedmontese
sculptors active in Central and South America in the early decades of the 20thC.19
The International Competition held to erect an equestrian statue to Mitre in Buenos Aires was
won in 1907 by Davide Calandra who generously insisted on including the name of his younger,
less renowned friend when he presented the winning maquette20 [Fig. 13 e13a]. As noted, it was a
joint effort, its composition perfectly balanced and, though the figures do swell up and beyond the
contours of the base, they remain sober, self-contained groups, quite unlike the stream of
Humanity that exudes from the Spaniard Querol’s Monument to Argentinian Independence, also in
the Argentinian capital.21 At the time, Calandra was heavily burdened with commissions, having
won, the previous year, the commission for the Monument to Umberto I in the gardens of the Villa
Borghese in Rome (completed in 1926 by Rubino) and the Monument to Zanardelli in Brescia
(1906-1909). The Monument to Mitre was to become still more onerous because the
Commissioning Committee ordered it to be almost double in size, volume and cost. The bronze
statue of Mitre on horseback dominates the monument, standing 16 metres high above the base in
Baveno granite. The competition required the monument to express the virtues of the “Argentinian
Garibaldi” (others saw him rather as the “Argentinian Mazzini”) and so Rubino created a series of
marble allegorical groups on this theme: «Military Courage watching over the Family, on which
the Nation is founded»: an athletic soldier protecting a buxom bride with a baby at her breast [Fig.
14]; «Civil Courage, protecting Justice from the assault of Iniquity and the Weak from the Strong»,
«an athlete, muscles vibrant as he struggles with a lion that is trying to attack a defenceless young
girl who has fainted»; «while the Genius of the Nation, holding a palm, leaning out from the prow,
like the winged Victory of Samothrace, and History interprets the hero’s solemn gesture from his
stately horse»; at the centre of the rear of the monument, we have a statue of Law with two lateral
groups: to the right Learning («the elderly patriarch, bald and bearded, protects and advises the
handsome young man with his almost saintly face, reminiscent of figures by Donatello») and
Harmony («kneeling on her veils, sweet and virginal, gazed upon by a charming putto, fascinated
by her beauty»); to the left of Law, we have allegorical figures of Work, Agriculture (the Blacksmith
and a couple of peasants to whom Ceres/Pomona offers a frond of laurel).22
The first of a group of Piedmontese artists to emigrate to South America in our period was
probably the portraitist Augusto Reduzzi, younger brother of the sculptor Cesare, who moved there
prior to 1900. A few years later it was the turn of the sculptor Enrico Alciati, a friend of Rubino,
Cesare Reduzzi and Spirito Luciano, to sail the Ocean and, once established in Mexico, he may
have encouraged other Piedmontese artists to participate in the creation of works there. Alciati, in
fact, worked in Mexico City between 1902 and 1910, on the Column to celebrate the Centenary of
Mexican Independence, with four allegorical figures at the base (Law, Peace, War and Justice),
crowned by a bronze winged Victory that was cast in Florence. In 1905, from his home in the
Mexican capital, Alciati drew up a contract with Spirito Luciano to carve three statues (Hidalgo,
History and Patria23 in “white light Ravaccione marble” (therefore from Carrara). Spirito Luciano
(1866-1924), who did indeed go to Mexico in 1906 in order to assist Alciati, was Rubino’s faithful
marble carver for a lifetime, a role inherited by his son Guido (1902-1946). Unfortunately, only a
small part of the correspondence between Rubino and Luciano has survived but we can glean quite
a lot of information from a few letters, dating between 1906 and 1908, addressed to Spirito Luciano
in Mexico, that are extant.24 In one of the first, dated 30th January 1907, Rubino expressed his
doubts as to the possibility of winning the Mitre Competition, given that a French rival competitor
was «very well known because he has done several works and because of his influential connections».25
“Carrara” was at work on “the nude for Venice” (i.e. the Biennale Exhibition), intent on
roughing out the marble block, but he didn’t finish it in time so Rubino was forced to show only
the plaster cast, (a light cast, one of two which the sculptor had taken from the model),26 proposing
that Spirito Luciano should make a marble statue from it when it (and he) came back.
“Carrara” had also shaped the head of a young girl in marble from which Luciano had made
a copy. Reduzzi, meanwhile, had won the competition to execute “allegorical groups for the bridge”
(named after Umberto I in Turin)27 and so was happily set up with work for a few years to come.
For his part, Rubino announced that he was waiting for the drawings (elsewhere “architectural
sketches”), which had been sent to him by Adamo Boari, and he said to say hello to Alciati. The
drawings, by the architect Boari (Ferrara 1863-1928), presumably would have served to illustrate
the architectural setting of one of the two fountains originally designed, though never actually
erected, to stand in the square in front of the main entrance to the National Opera Theatre of
Mexico.28 Initially, the French sculptor Antonin Merciè had been charged with their execution:
they were to have represented Tragedy and Comedy and to have stood at the edges of the main
façade; for their completion, $ 80,000 had been set aside in 1909, rising to $ 90,000 in the budget of 1912.29 Later, their iconography changed to Love and Glory, respectively entrusted to Edoardo
Rubino and the Spaniard Agustin Querol. Maquettes were designed and sent to Mexico, as was
Rubino’s model of Love, though never executed [Fig. 15].
Apart from the aforementioned Nude, Rubino also sent to Venice a seated statue of Signora
Agnelli (presumably his first work for the powerful family, destined to become his principal private
patron), and a small bronze of Salome, cast in bronze by his friend Menzio, portraying the popular
opera singer Gemma Bellincioni, «at the moment she dances, in a most sensual pose».30 Rubino
informed Luciano that “Fiorentino” was shortly to leave for Mexico and Fiorenzo Gianetti (18771939),31 a Turinese sculptor in the Bistolfian circle known by that nickname, did indeed join
Alciati and Luciano in Mexico City where he had been commissioned to execute a series of ornamental decoration for the Opera Theatre. These consisted of very fine and original stylised representations of the flora and fauna of Mexico, and numerous masks representing the Human
Emotions (Wrath, Joy, Sadness, etc.) to ornate the exterior façades of the Opera Theatre, now the
Palace of Fine Arts, as well as the “masks” of the Eagle Knight and the Tiger Knight for the side
balconies. “Fiorentino” was to stay in Mexico from 1906 to 1911.32 It is well known that Bistolfi
also executed important works in marble for the façade of the Theatre: Harmony for the lunette
over the main entrance, with two groups, Inspiration and Music, one to each side, above (ca. 19081911).
On May 29th1907, Rubino informed his friend Luciano that he had won the Competition to
execute the Monument to the sculptor Alessandro Vittoria in Trento, a public commission that was
neither particularly imposing nor lucrative (Lire 15.000) but which, nevertheless, marked a step
forward in his career.33 Up until this time, in fact, Rubino’s public works had been limited to Turin
97
98
and to relatively small works (Casimiro Teja, ca. 1897-1904; Federico Sclopis, 1905).
In July 1908, Calandra and Rubino embarked for Buenos Aires to define the contractual
terms for the execution of the Mitre Monument and to inspect the site, in a vast park in the
Recoleta district. A huge sum, 800.000 lire, was allotted for its execution, which dragged on over
the years, and the monument was only officially unveiled in 1927; Rubino and his favourite niece
were there for the occasion.
It was probably during his first visit to Buenos Aires that he was commissioned to execute the
Monumental Tomb to Mitre (died 1906) in the Cemetery of Recoleta, figuring three allegories,
carved in marble high relief, the splendidly solemn statues of Liberty, Duty and Justice, crowned
by two symmetrical angels in bas-relief who pay homage to the great General’s name [Fig. 16].
Photographs from the period show the marbles for the Mitre Monument in the Studio and in
the yard of the Luciano Studio at Querceta in Versilia, [Fig.17 e 18]. Of these, only two of the allegorical figures, namely the Victory and History, as well as the head of the Blacksmith, are among
the works left to the Museo del Bozzetto in Pietrasanta. It seems likely that, after returning to Italy
from Mexico City in 1908, and because of the fact that Rubino and Calandra had been commissioned the huge Mitre Monument, Spirito Luciano decided to move to Versilia in order to be close
to the marble quarries. At first he used other studios but, in 1915, he set up a large Studio in
Querceta which was carried on, after his precocious death in 1924, by his son Guido.34 He also
worked for Calandra for whom he carved a marble Madonna35 and the frieze of the Monument to
Zanardelli in Brescia, inaugurated in 1909, and the aforesaid equestrian Monument to Umberto I
in Rome. The Luciani then executed all of Rubino’s main monuments in marble, among which the
Funeral Monument for the Rosetti, also known as The Family, (Milan, Monumental Cemetery),
1912, unfortunately damaged by bombing in the Second World War and deliberately not restored),
which was originally conceived in a huge single block of marble. The plaster model, however, is
complete and one can, therefore, better appreciate the magnificent sense of “timing” in the creation of the eloquent gesture as man and woman join hands for eternity; they are otherwise completely isolated and absorbed in their own interior worlds: the woman in Motherhood, the man, à
la Rodin, in Thought [Fig. 19 e 21].
Luciano also carved in marble the marvellous high-relief for the Monument to Edmondo De
Amicis, with groups of children representing the message the great author for children wished to
transmit to future generations: Maternal Love, Friendship, Charity, Work, Love of Patria. The
Liberty Style is well suited to such themes and Liberty it is, given that it was begun in 1909, even
though it was solemnly unveiled in piazza Carlo Felice in Turin only in 1923 [Fig. 20]. The fine
Sower (of De Amicis’s social ideas among the Young), in bronze, standing before the exedra, surges
forth like Pellizza’s familiar peasant-mother in the famous Fourth Estate (though the common matrix
is, of course, Jean-François Millet), an image much exploited by the left-wing press [Cat. n. 13]. The
Luciani also worked on many of the commissions ordered from Rubino by the Agnelli family,
among which the two most important: the Altarpiece for Don Bosco and scenes from his mission work
among the young (the plaster models for the reliefs and the priest’s head are conserved at
Pietrasanta [Fig. 22] ): a series of action-packed scenes, quite similar, in some ways, to the narrative sculpture popular in Italy in the second half of the 19thC; and the Colossal Victory Beacon,
conceived by Giovanni Agnelli, in the Remembrance Park of the Colle della Maddalena in the
hills outside Turin, inaugurated in 1928, the high-point of a series of nike, including the Victory
for the Monument to Vittorio Emanuele II in Rome. In order to cast the impressive statue of the
colossal Victory, the young Guido Luciano and his team of skilled workers moved to Turin to first
execute the huge model in plaster.36 The model of the head in gesso, all that remains, is part of the
Luciano legacy to Pietrasanta. The Museum also conserves the maquettes for the frieze of the
Monument to the Carabiniere in Turin, commissioned directly from the artist and inaugurated in
1933.37 Over forty figures represent «the charge, the trench, floods, earthquake, banditry, rustling,
the heroic sacrifice of Scapacino, epidemic and so on, while every gesture and every expression
complies with lively human reality. They never dwell on trifles nor is the execution “clever”,
designed to show off mastery of technique. Historical truth and the circumstances are scrupulously reflected in the detail, the picturesque plays its part, dynamism is triggered and triumphs; but
all of this is subject to generous telling of an epic: we are always in the presence of History, never
merely descriptive commentary».38 If the bombastic and heroic language of the “official” sculpture
of those times is no longer congenial to us, we still do not hesitate to suggest that the expression
of the man crushed under his horse at Pastrengo; the rhythmic repetition of three figures of carabinieri, holding up a wall after an earthquake; the realism of the scene in the trenches, are all worthy of a second glance.
As one might expect, the Luciano Studio kept the plaster casts and models of works on which
they worked [Fig. 21]; the nucleus of gessi on show here were preserved, instead, by Rubino’s heirs
and, for the most part, refers to works executed and located in and around Turin. There are, however, some important exceptions, like the model for the bas-relief for the equestrian Monument to
Umberto I, a work by Calandra and Rubino (Cat. n. 15) on which we know Luciano worked. Or,
again, the model for the Funeral Monument to Giuseppina Chiesa (1930, Monumental Cemetery
Milan), where the beautiful marble figure, almost austere in its simplicity, truly exalts the intrinsic qualities of the candid stone (Cat. n. 24). Some works have been newly traced or identified during the preparation of this catalogue; others remain to be positively identified or placed. We know,
for example, of two marvellous Depositions: one, a plaster relief in the Museo dei Bozzetti (see Fig.
21, on the left and we have another photograph of Spirito Luciano intent on carving it); the other,
published in 1928, finely executed, is reminiscent of Giovanni Dupré’s famous work in the
Camposanto della Misericordia in Siena.39 The plaster figures of two angels, now in the Pietrasanta
Museum [Fig. 10] but which must have been executed to flank the entrance portal to a funerary
aedicule, are still elusive but we trust that, in remembering Rubino and his work, the interest
which will undoubtedly be aroused will soon yield fruit and bring many expected, and perhaps
some unexpected, discoveries…
99
Notes
100
Antonio Alice (1886 -1943) studied at the Buenos Aires Academy; in 1904 he won the Premio Roma which permitted him
to come to Italy to study with Grosso, Tavernier e Gilardi at the Accademia Albertina where, in 1905, he was awarded the
Gold Medal for Painting.
1
Edoardo Rubino to Spirito Luciano, letter dated 12th April 1907, in the collection of the Luciano heirs who have graciously permitted us to consult correspondence between Rubino and their grandfather, dating from 1906 to 1907 when the
latter was in Mexico.
2
Daniele Pescarmona, in his ground-breaking essay on Rubino, lists among the works left to the Museum: the plaster
maquettes for the Monument to the Carabiniere in Turin; the gessi for Mitre; for the Victory beacon; the relief of the Navicella
degli Apostoli ( Palazzo delle Congregazioni, Rome); the Altar dedicated to Don Bosco; the full-size models for the aforesaid Monument to the Carabiniere, however, were donated to the Museum of the Carabinieri in Rome. D.Pescarmona,
“Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo dell’Accademia” in Eclettismo a Torino Guido Casanova Edoardo
Rubino, edited by Franca Dalmasso, Il Quadrante, Turin 1989, pp. 89 -110, p. 106. The Museum (now Galleria Civica
d’Arte Moderna) also has portraits in plaster of Signora Sciamengo Remmert, Signora Ostorero and Signora Mattioli (in
marble and gesso), as well as the “Portrait of the Little Girl, Luciana” (sic), or, rather, the portrait of the oldest Luciano sister, Rosa. Rubino lamented the death of Mattioli, a lawyer and “his great friend and father”, in a letter to Spirito Luciano,
dated 30th January 1907.
3
4
P. C. Rinaudo published three interviews with the sculptors Pietro Canonica, Tancredo Pozzi and Rubino in a booklet
dedicated to «Her Majesty Queen Margherita of Savoy», published in Turin under the auspices of the art periodical “Il
Prisma”. The interviews are published in their entirety in Pigmaleone e Galatea Note di Scultura a Torino 1880-1945,
Weber & Weber 2006 edited by Armando Audoli, pp. 152-154.
Cfr. Davide Calandra. L’Opera, la Gipsoteca edited by R. Belmondo M. M. Lamberti, Comune di Savigliano, Museo Civico
Antonino Olmo, 2004, pp. 151-163.
5
6
Reproduced in G. Jona, Artisti Contemporanei, Edoardo Rubino in “Emporium”, vol. LXVII, February 1928, n. 398 p. 76.
The female figure, on the threshold of the tomb, raises her veil with her left hand to reveal her beauty, an often repeated
gesture in Rubino’s funeral repertory.
E. Zanzi, Scultori nostri. Esposizione Sindacato Regionale fascista delle Belle Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 16 July 1929.
7
Cesare Reduzzi (1857-1911) also mantained working relations with the Versilia area, making use of Antonio Bacci’s workshop for the execution of his works in marble.
8
G. Deabate, Edoardo Rubino e il Monumento al Generale Mitre in “Le Vie dell’Italia e dell’America Latina”, July 1927,
p.774.
9
Lamp reproduced in Scultura Monumentale e Plastica decorativa, I Serie, Biblioteca de “L’Artista Moderno”, Turin, n.d.,
Plate XV together with the well known plaque for the Società Fotografica Subalpina, Plate X.
10
Plaque for the sculptor Davide Calandra reproduced in “L’arte decorativa moderna”, Year II, 1903, n. 7, p. 195. Plaque
offered by the Associazione della stampa subalpina to Francesco Tamagno, 1903, Ibidem, p. 198. The aforesaid plaque for
the Società fotografica Subalpina, Ibid., p. 199; Plaque offered to Alfonso Badini Gonfalonieri, 1903, Id. p. 205. Nor should
we forget his career as medallist. A splendid late example, brought to our attention by Massimiliano Fiorio, is the medal
coined in 1931 for the Wedding of Umberto II e Maria José di Savoia with the Mole Antonelliana and three angels displaying the Holy Sindone on the verso.
11
12
Of note a fine bust of a little girl, cast at the renowned “Fonderia Artistica Sperati Emilio” in Turin, datable to around
1890, which was auctioned at Sotheby’s London on June 11th 1987, n. 291 and an idealised female bust, entitled Heroine,
reproduced in the official catalogue of the National Exhibition in Turin in 1898. These, and other heads, like that of the
Frugone Monument in Staglieno Cemetery, Genoa, are closer to Calandra than Bistolfi.
Numerous sketches have survived of the famous people portrayed in the two bas-reliefs, some of whom are named
(Roberto D’Azeglio, Luigi Des Ambrois, Thaon de Revel, Filippo di Castellengo, Radicati etc.); they are represented,
alongside Sclopis, because of their role in the granting of the Statute in 1848 and/or the first Subalpine Senate during
Sclopis’s Presidency 1863/4. The four bas-reliefs for the Monument to Sclopis are reproduced in Scultura Monumentale e
Plastica Decorativa Ia Serie (an undated booklet edited by the periodical “L’Artista Moderno”) Plate XXI, together with the
Placchetta per la Società Fotografica Subalpina and the fine medal of 1901 commemorating Vincenzo Gioberti “Aprir
l’Animo stanco a lieta e generosa speranza” (Plate X) and an electric lamp (Plate XV).
13
14
Reproduced in Cronache. L’Esposizione Nazionale di Torino in “Emporium”, Vol. L, n. 298, October 1919, pp. 213, 214.
15
Edoardo Rubino to Spirito Luciano, 4th October 1907.
S. Berresford, (edited by), Italian Memorial Sculpture 1870-1940. A Legacy of Love, Frances Lincoln, London 2004, p. 179.
16
Among Rubino’s papers, there is a photograph reproducing the work with a handwritten dedication expressing, «La
17
Reconnaissance d’un touriste americaine en avril 1901» (sic). Daniel Chester French, (1850-1931), a leading American
sculptor of the period, lived in Florence between 1873 and 1875 and, from 1886, made several trips to Rome and Italy.
Repr. G. Deabate, Una caratteristica necropoli alpina, in “Le Vie d’Italia”, July 1925, p. 769, see also:
www.santuariodioropa.it/santuario/it-cimitero-monumentale.htm/p.42
18
The subject has been studied in depth in a recent volume dealing with the relations between Carrara marble and the art
market in Carrara e il Mercato della Scultura 1870-1935, Vol. II, edited by Sandra Berresford, 24 Ore Motta Editore (for
the Cassa di Risparmio di Carrara, 2007). Thieme-Becker also erroneously notes a Monumento a Generale Cabal at Santa
Fé de Bogotà in Colombia. This is, in fact, the monument to the scientist, soldier and patriot José Maria Cabal (1769-1816)
placed in the square named after him in via XX settembre, in the town of his birth Guadalajara de Buga. Cat. n. 21. A leading authority on sculpture in Central and South America has noted that Rubino declined the offer to evolve the architectural/sculptural programme for the new Legislative Palace in Montevideo, designed by the Italian architect, Gaetano
Moretti, and eventually executed by Giannino Castiglioni. Rodrigo Gutiérrez Viñuales, Monumento conmemorativo y espacio público en Iberoamérica, Madrid, Càtedra, 2004 p. 331.
19
A detail that Rubino recalled in his commemoration of his friend given at the Turin City Council, cited by G. Deabate,
Op. cit., 1927, p. 773.
20
21
Ibid. The original maquette is reproduced on page 777.
22
Ibid.
The statues, placed at the base of the Column of Independence in Mexico City, are reproduced in R. Gutiérrez Viñuales,
Op. cit. p. 643.
23
Unfortunately, all of the bureaucratic and administrative documentation regarding the sculpture workshop “Spirito
Luciano” (up to 1924) and Guido and Spirito Luciano” (up to 1940) was destroyed in the Second World War. The workshop
continued to function after Guido’s death, still in his name, and finally closed down towards the end of the 1950s.
24
Perhaps identifiable in Emile-Edmond Peynot (1850-1932), author of the imposing Monument on the part of the French
for Argentina in Buenos Aires.
25
26
Rubino to Spirito Luciano, 12 April 1907.
27
Ibid. The Bridge, executed with sculptor Luigi Contratti, was opened in 1911.
Both the contract and the letter sent by Rubino to Spirito Luciano (Turin, 20th January 1907) are preserved in the
archives of the Biblioteca “G. Carducci” in Pietrasanta. My thanks to Chiara Celli and the staff for their kind assistance.
Gessi by Rubino, coming from the Luciano workshop at Querceta are exhibited in the Museo dei Bozzetti 2, at Pietrasanta.
On his father’s death, Guido (1902-1946) continued to work with Rubino. Maquettes for the fountains are reproduced in
La Costruzione di un Teatro, Architetto Adamo Boari, Rome Danesi 1918, a volume which richly illustrates the many artistic marvels of Mexico City’s Teatro dell’Opera.
28
Estimated budgets are printed in R. Tovar, V. Jimenez et al., La Costrucción del Palacio de Bellas Artes, Madrid 1995,
pp. 339 -341
29
30
Rubino to Spirito Luciano, 27th February 1907. Bellincioni (1864-1950) played Salome; the opera was first performed
at the Scala in Milan on the 23rd of June 1906, with Toscanini conducting. Very soon after, it was staged at the Teatro Regio
in Turin, with Strauss, himself, conducting. The same letter refers to Rubino’s “speedy” but “successful” execution of the
figure of Carducci for a commemoration,
31
Cfr. A. Audoli, Pigmalione e Galatea. Note di Scultura a Torino 1880-1945, Turin, Weber & Weber, 2006, pp. 76-77.
W. Canavesio, L’atelier di Leonardo Bistolfi. Allievi e collaboratori, in “Percorsi. Rivista della Biblioteca di Storia e
Cultura del Piemonte ‘Giuseppe Grosso’”, Year IV, n. 7, 2004, pp. 57-58.
32
33
The Monument is reproduced in “Rassegna d’Arte”, July 1909 and “Emporium”, July 1909, p. 79.
The Luciano workshop was continued by Emilio Buratti who worked with Rubino up to his death in 1954, aided by the
young Abele Jacopi. Among the last works by the sculptor, Buratti collaborated on the Monument to Pio XI, 1941, Palazzo
delle Congregazioni, Rome, and his very last, the Monument to the Gothic Line in Piazza Europa at Ripa, (a man with a
woman, one on each side, in cement on a travertine base) inaugurated in 1958. In 1922, the Luciano workshop employed
some 25 skilled marble workers.
34
35
The terms of contract between Calandra and Spirito Luciano are recorded in a letter in the former’s hand, dated 19 giugno 1906, conserved in the Museo dei Bozzetti at Pietrasanta; the Madonna referred to is probably that for the Chiesa del
S. Cuore di Maria in Turin.
36
The plaster maquette is conserved in the Galleria Civica d’Arte Moderna in Turin. For a description of the laborious and
difficult execution, see: La più grande statua del mondo fuso in bronzo, in “La Stampa”, 11 marzo1928.
37
M. Bernardi et al., in the booklet published for the unveiling, Il Carabiniere: Inaugurazione del Monumento Nazionale al
Carabiniere Reale, 1933.
38
M. Bernardi, Ibid.
39
G. Jona, Artisti contemporanei. Edoardo Rubino, cit., 1928, p. 78.
101
Catalogo delle opere
a cura di
MONICA TOMIATO
1- Figura femminile della tomba Golzio
104
Materiale: gesso
Il gesso è il modello originale per la
simo rilevo e le pieghe della veste – da
Misure: cm. 59,3 x 73 x 8,5
cui spunta un piedino delicato – dileparte superiore del bassorilievo al cenCronologia: 1900
tro della tomba della famiglia Golzio nel
guano nella superficie di fondo.
Cimitero Monumentale di Torino (prima
Questa bella figura femminile è il fulcro
ampliazione, sepoltura 101 b). L’opera finita, firmata e
della memoria funeraria e nessun dettaglio accessorio
distoglie l’attenzione dalla sua fisionomia gentile, resa
datata «Rubino/1900», è costituita da tre lapidi di
marmo bianco erette su uno zoccolo dello stesso mateattraverso un modellato dalle caratteristiche squisitamente “pittoriche” la cui qualità si può apprezzare oggi
riale; sulle due laterali sono scolpiti a rilievo un ritratassai meglio nel gesso che non nell’opera in marmo,
to maschile ed uno femminile entro medaglioni incortroppo a lungo esposta all’azione di degrado degli agenniciati da stilizzati rami d’oleandro, mentre la stele
centrale mostra una giovane donna di profilo avvolta in
ti atmosferici.
Analoghe caratteristiche tecniche e di stile si riscontraun fluente panneggio. Un ampio drappo, trattenuto sul
no in altri rilievi a destinazione funeraria eseguiti da
petto con la mano sinistra, copre parte della capigliatura incorniciando l’armoniosa curva delle spalle ed il
Rubino nei primi anni del Novecento e in particolare
nella lapide per la famiglia Lenti, databile al 1904 (cat.
volto reclinato. La destra è abbandonata sulle ginocchia. La parte inferiore del corpo è abbozzata a bassisn. 4).
2 - Corona floreale
106
Materiale: gesso
È il modello originale per una targa
mi con la scuola di Tabacchi e i modelli
Misure: cm. 78 x 78 x 13
commemorativa racchiusa in una lussudi ornato diffusi nell’ambito dell’AcCronologia:
reggiante corona di fronde d’alloro
cademia.
1900
1905
circa
intrecciate con fiori apparentemente
Alquanto più asciutta e stilizzata appad’oleandro. La ricchezza degli spunti
re, a confronto, la corona bronzea deponaturalistici, resi con modellato robusto e nervoso, e lo
sta ai piedi del monumento funerario a Carolina
spiccato gusto decorativo della composizione suggeriInvernizio nel Cimitero Monumentale di Torino (1917).
scono per l’opera una datazione intorno ai primi anni
La tabula ansata al centro del gesso reca un’iscrizione
del Novecento.
a lettere capitali debolmente incisa e pressoché illeggiLa rigogliosa ornamentazione vegetale risente ancora
bile: «I TUOI CAVALLEGGERI [AL]LA TUA FAMIl’influenza del verismo ottocentesco e denuncia i legaGLIA [...]».
3 - Ritratto di Casimiro Teja
108
Materiale: gesso
del Pasquino (la celebre scultura antica
È il modello originale per l’altorilievo
addossata ad un lato di Palazzo Braschi,
bronzeo incastonato nella base del
Misure: cm 51 x 140 x 23,5
a Roma, utilizzata per esporre satire
monumento a Casimiro Teja, ora in piazCronologia: 1903
anonime fin dall’epoca del suo rinveniza IV marzo a Torino ma in origine sito
mento a inizio Cinquecento) e dal volto femminile con
in corso Cairoli, presso il Lungo Po. Il monumento fu
uno stiletto tra i denti scolpito sul retro della base, alluinaugurato il 3 gennaio 1904. La decisione di spostarsivo alla pungente arguzia di Teja. Proprio l’immagine
lo in una nuova sede fu presa nel 1923 in seguito ad atti
del Pasquino era stata utilizzata da Rubino per illustravandalici e al trafugamento della placca con il ritratto
re la copertina del volume Caricature di Teja annotate
che lo stesso Rubino provvide a rimpiazzare con una
da Augusto Ferrero, pubblicato a Torino nel 1900.
replica.1
L’effige «somigliantissima e bonaria» del giornalista e
Presso gli eredi dell’artista sono conservati alcuni
caricaturista che per un trentennio era stato l’animatoschizzi preparatori relativi ad una prima idea per il
re della popolare testata umoristica “Il Pasquino” e
monumento diversa da quella definitiva. La soluzione
collaboratore del “Fischietto” piacque subito ai critici.
poi adottata, con la placca bronzea applicata contro la
“La Stampa” del 4 gennaio 1904 elogiava il lavoro del
parte anteriore della base, è invece perfettamente ricogiovane scultore e soprattutto la «squisita figurazione
noscibile in un disegno dell’Archivio Storico della Città
del Teja, per giudizio concorde della folla di amici riedi Torino pubblicato da Daniele Pescarmona.3
2
vocato con singolare rassomiglianza». Ad essere partiL’impostazione dell’opera è molto simile a quella del
colarmente apprezzati erano, quindi, l’espressività del
monumento a Umberto I per la città di Aosta (1903),
ritratto e il carattere veristico dell’opera in cui Rubino
dove ritroviamo l’associazione fra una figura simbolica
metteva a frutto gli insegnamenti di Tabacchi, suo maeposta in alto e il ritratto vigoroso del personaggio che
stro in Accademia. Nella concezione del monumento
emerge dal basamento.
aveva però un peso non indifferente anche la compoNel nostro gesso è assente l’iscrizione che compare in
nente simbolica rappresentata dal torso a tutto tondo
basso nell’opera finita.
Un monumento che cambia posto, in “Gazzetta del Popolo” 29/11/1923.
L’Archivio Storico della Città di Torino conserva una consistente documentazione sull’opera finita e su questa vicenda (Lavori Pubblici cart. 251, fasc. 12).
1
2
L’inaugurazione del monumento a Casimiro Teja, in “La Stampa” 3/01/1904
Daniele Pescarmona, in Eclettismo e Liberty a Torino. Giulio Casanova,
Edoardo Rubino, catalogo della mostra a cura di F. Dalmasso, Torino, Il
Quadrante, 1989, p. 188.
3
4 - Figura femminile della tomba Lenti
110
Materiale: gesso
mani giunte assume particolare risalto
È il modello originale per il rilievo che
Misure: cm. 60,5 x 60,4 x 5
divenendo fonte di una sottile suggestioorna la lapide funeraria in ricordo di
Cronologia: 1904
Domenico Lenti, morto nel gennaio
ne emotiva e religiosa.
1904. Sul gesso sono visibili i chiodi
Le successive opere di carattere funerario confermeranno l’abilità dello scultore nel trasformametallici – i cosiddetti “capi punti” – che costituiscore temi d’afflizione in immagini di pacata e squisita
no un sicuro indizio del suo impiego per la realizzazione dell’opera finita in marmo, collocata nel Cimitero
bellezza.
L’apprezzamento della critica nei confronti di questo
Monumentale di Torino (seconda ampliazione, sepoltufecondo settore dell’attività giovanile di Rubino traspara 541). Le mediocri condizioni di conservazione della
re dagli interventi di Emilio Ferrettini sui bassorilievi
scultura (la superficie marmorea si presenta dilavata e
per le tombe Boido e Del Mastro. Le considerazioni di
annerita dal deposito di inquinante atmosferico) hanno
Ferrettini sul primo di questi costituiscono a mio avvipurtroppo compromesso il livello di leggibilità del rafso un commento pertinente all’opera in esame. Non
finatissimo modellato “pittorico” riscontrabile nel
passano infatti inosservate al critico le qualità stilistigesso.
che che connotano anche questa figura di serena comLa memoria funeraria non reca altra raffigurazione che
postezza, prime fra tutte la «ricerca delicata del chiaroquesta delicata effige femminile i cui tratti idealizzati
scuro» e la raffinatezza dei particolari.1
richiamano da vicino quelli della figura muliebre di
La stessa immagine femminile è riproposta da Rubino
profilo della tomba Golzio (cat. n. 1). In questo caso
– con minime varianti – in una placchetta riprodotta in
Rubino focalizza l’attenzione sul solo busto della giovafotografia su “L’arte decorativa moderna” come illustrane donna assorta nella preghiera, indugiando maggiorzione fuori testo dell’articolo di Enrico Thovez intitolamente nella definizione dei piani del volto e dell’acconto Placchette medaglie e monumenti di Edoardo
ciatura impreziosita da una coroncina di fiori. In tanta
Rubino.2
semplicità compositiva il particolare espressivo delle
Emilio Ferrettini, Nel giorno dei morti al Camposanto di Torino, in
“Gazzetta del Popolo”, 1/11/1907, p. 4.
1
Il numero della rivista è il settimo dell’anno II° e l’articolo di Thovez è solitamente riferito al 1903, ma i fascicoli de “L’arte decorativa moderna”, pubblicata a Torino a partire dal 1902, non uscirono con regolarità; i riscontri
sul contenuto dei singoli numeri delle prime annate portano a credere che
quello in questione sia in realtà l’ultimo del 1905 (ringrazio Armando
Audoli per la precisazione). La fotografia della placchetta è a p. 208.
2
5 - Bozzetto di monumento funerario
con figura femminile
112
Materiale: gesso
Il bellissimo bozzetto presenta una figuuna statua marmorea e senza ombra di
Misure: cm. 67,6 x 61,8 x 28,5
dubbio la stessa del gesso – compare
ra femminile seduta su uno scranno un
Cronologia:
po’rialzato da terra che poggia contro un
all’interno di una cornice centinata, fra
1903-1905
circa
piano squadrato.
due cascate di fiori scarlatti contro uno
La donna è raffigurata col capo reclinasfondo di colore azzurro cielo.
L’opera finita non è stata al momento rintracciata e non
to rivolto a destra e lo sguardo intenso sprofondato in
distanze insondabili, nell’atto di liberarsi dal pesante
si può escludere che il bozzetto sia pertinente ad un
monumento mai realizzato da Rubino, come lascerebbe
panneggio che l’avvolge. Il gesto delicato ma deciso
supporre l’assenza dei “capi punti” che costituiscono il
delle mani che allontanano dal corpo i lembi del sudariferimento per ingrandire il modello in gesso.
rio adombra un significato di speranza e resurrezione
consono alla presumibile destinazione funeraria dell’oL’esecuzione del bozzetto si può far risalire con certezza ai primi anni del Novecento, in quanto “L’arte decopera.
rativa moderna” ne pubblicava una fotografia nell’ultiLe caratteristiche formali del bozzetto fanno pensare ad
un sepolcro collocato in uno spazio aperto, come suggemo numero del 1905, come illustrazione fuori testo dell’articolo di Enrico Thovez intitolato Placchette medarisce anche il confronto con un disegno a pastello di
Rubino nel quale una figura femminile – bianca come
glie e monumenti di Edoardo Rubino.1
1
“L’arte decorativa moderna”, n. 7, Anno II, p. 201; per la datazione del
fascicolo cfr. scheda n. 4.
6 - Ritratto di Federico Sclopis
114
Materiale: gesso
striale. Morì nel 1878 manifestando la
È il modello originale per la testa della
Misure: cm. 59,3 x 73 x 8,5
volontà di donare tutti i suoi scritti e la
statua in bronzo del monumento a
Cronologia: 1904
Federico Sclopis, sito nei giardini della
sua ricca biblioteca all’Accademia delle
Cittadella a Torino.
Scienze.
Subito dopo la sua scomparsa si costituì un comitato
Federico Sclopis, conte di Salerano (Torino 1798-1878),
per raccogliere i fondi destinati all’erezione di un
a partire dal 1822 ebbe una brillante carriera nella
magistratura sabauda. Nel 1831 il re Carlo Alberto lo
monumento commemorativo, ma il concorso pubblico
per assegnarne l’esecuzione fu bandito solo nel 1903.
chiamò a far parte della ristretta commissione incaricaAi primi di gennaio dell’anno successivo i 17 bozzetti
ta della redazione del Codice civile. Nel 1848 Sclopis si
eseguiti dai partecipanti (tra cui i torinesi Cesare
adoperò per la concessione dello Statuto Albertino da
Biscarra, Luigi Contratti e Tancredi Pozzi) vennero
parte del sovrano e dettò il proclama per la prima Gueresposti in due sale della Società Promotrice delle Belle
ra d’indipendenza. L’anno successivo fu nominato memArti. Rubino presentò due progetti: uno per una statua
bro del Senato, assumendo in seguito la carica di presia figura intera posta su un alto basamento ornato da
dente, dalla quale si dimise nel 1864, anno della
quattro bassorilievi, l’altro composto da un’erma appogConvenzione di settembre con cui l’Italia si impegnava
giata ad un basamento «su cui si drizza un’impetuosa
a trasferire la propria capitale da Torino a Firenze.
figura di giovane combattente ignudo, che ha la spada
Sclopis fu anche membro – e per molti anni presidente
nella mano sinistra e regge un’ampia bandiera nell’al– di prestigiose istituzioni culturali quali l’Accademia
tra».1 Le preferenze della commissione giudicatrice
delle Scienze di Torino e la Regia Deputazione di Storia
andarono al primo progetto. Rubino si mise subito al
Patria. Nel 1840 uscì il primo volume della sua opera
lavoro e il monumento all’insigne statista e giurista fu
più nota, Storia della legislazione italiana, tradotta in
inaugurato nel 1905. Il modello in gesso dovette perfrancese, inglese e tedesco.
tanto essere eseguito già nel 1904.
Nel 1872, in qualità di presidente del Collegio
L’opera è significativa per l’affermazione pubblica del
Internazionale di Ginevra per la soluzione della controgiovane scultore, che dopo la delusione per la mancata
versia anglo-americana detta “Arbitrato dell’Alabavittoria nel concorso per la tomba Brin, abbandonava la
ma”, Sclopis agì da abile mediatore risolvendo la grave
strada della sperimentazione simbolista per fare ritorno
questione internazionale senza ricorrere alle armi.
«ai canoni collaudati della tradizione del naturalismo
Negli ultimi anni di vita prese parte al dibattito cultuottocentesco».2
rale e politico sull’identità del Regio Museo Indu-
1
I bozzetti pel monumento a Federigo Sclopis, in “La Stampa”, 2/1/1904.
Daniele Pescarmona, Edoardo Rubino: dalla fortuna del Liberty al successo
dell’Accademia, in Eclettismo e Liberty a Torino. Giulio Casanova, Edoardo
Rubino, catalogo della mostra a cura di F. Dalmasso, Torino, Il Quadrante,
1989, p. 106.
2
7 - “In Justitia Pax”
(particolare del monumento a Federico Sclopis)
116
Materiale: gesso
È il modello originale per uno dei quatLe quattro targhe bronzee, leggermente
Misure: cm. 86 x 54 x 7
tro bassorilievi bronzei con soggetti stocentinate nella parte superiore, costituiCronologia: 1904
rici e figure allegoriche che ornano la
scono un elemento tutt’altro che accesbase del monumento a Federico Sclopis,
sorio nella concezione d’insieme del
eretto nel 1905 nei giardini della Cittadella a Torino
monumento. Rubino riservò loro una particolare atten(cat. n. 6). Vi è rappresentata la Giustizia, simboleggiazione, documentata da una serie di disegni attualmenta da una figura femminile a mezzo busto, di tre quarti,
te conservati presso gli eredi.
che tiene tra le braccia una spada cinta da rami d’ulivo
L’idea del rilievo con la Giustizia è sviluppata con pice d’alloro. L’immagine è accompagnata dall’iscrizione a
cole varianti in alcuni disegni a penna o a matita
rilievo “IN JUSTITIA PAX”.
abbozzati su foglietti di piccole dimensioni, mentre
Una seconda figura allegorica compare nella targa conaltri schizzi fissano la fisionomia dei personaggi raffitrassegnata dall’iscrizione “ITALIAM QUAERO”.
gurati nelle scene storiche.
L’eleganza aristocratica delle figure femminili modellate da Rubino nei primi lustri del secolo impronta le
forme e l’attitudine della bella Giustizia che delicatamente emerge dal piano di fondo del rilievo. Le leggere variazioni cromatiche che si osservano sulla superficie del gesso sono dovute a ritocchi dell’artista.
8 - Verso la Pace
(bassorilievo della tomba Boido)
118
Materiale: gesso
È il modello originale in scala al vero
squisitamente pittorici a tal punto da
Misure: cm. 206 x 292 x 17,4
del bassorilievo per la tomba della
indurre Rubino a cercare degli “aggiu(telaio escluso)
Famiglia Boido al Cimitero Monumentastamenti”.
Cronologia:
1906-1907
le di Torino (quinta ampliazione, arco 26).
Le precedenti lettere di Rubino conserIl progetto per l’edicola funeraria della
vate dalle eredi Luciano non contengono
Famiglia Boido venne presentato nel marzo 1907.1 Il
alcun riferimento al grande bassorilievo per la tomba
Boido. Dato che Rubino era solito dare a Spirito notizia
bassorilievo è datato sul marmo «1907».
Il 4 ottobre 1907 Rubino scriveva all’amico e collabodei nuovi lavori a cui si stava dedicando, soprattutto se
particolarmente impegnativi, possiamo presumere che
ratore Spirito Luciano: «In questi giorni sono quasi
l’ideazione dell’opera e probabilmente anche l’esecusempre al Cimitero, siccome abbiamo collocato il
zione del modello in gesso debba essere anteriore al 3
monumento Boido. L’insieme è buono ma il bassorilievo è un disastro. In quella luce non si vede. Ho cercadicembre 1906, data della prima lettera. Alcuni diseto di tirarlo fuori con qualche tinta, e mi sembra di ottegni di Rubino riconducibili all’opera (studi d’insieme
della composizione, abbozzi di figure isolate e disegni
nere qualche effetto». La cattiva illuminazione dell’opera finale, collocata nella penombra del porticato,
anche piuttosto dettagliati di panneggio) documentano
la progressiva messa a punto dell’insolita iconografia.
comprometteva la leggibilità di un rilievo dai caratteri
120
fotografia sulle pagine della “Gazzetta del Popolo”,
Emilio Ferrettini affrontava la delicata questione del rapporto, non del tutto risolto, con la poetica e le opere di
Bistolfi: «L’artista […] si lasciò trascinare dal fascino di
quell’arte bistolfiana così suggestiva [in specie dal Dolore
confortato dalle memorie della tomba Durio]. Eppure l’opera rivela un desiderio di trovare nuove forme di espressione, e una volontà energica di ricerca e squisitezza di
sentimento e di esecuzione. Quella distesa di mare su cui
passano bioccoli di nuvole, come incalzate anch’essa e
dal soffio del destino; quella macchia di cipressi disegnantisi sull’alto della rupe; quell’acre desiderio, così
notevole nel Bistolfi, di dare alla scoltura un carattere pittorico; l’innestarsi del sentimento pagano nel cristiano
colla raffigurazione della barca, recante le anime verso le
rive eternamente fiorite; la plastica e squisita bellezza
dell’angelo che siede al timone; la delicatezza di vari particolari, quell’ondata di sentimento solenne che pervade
la scena sono elementi tali di espressione e di bellezza da
fare di questo bassorilievo […] un sogno d’arte spirituale,
che trovò qualche volta la materia e la mano ribelli a renderne tutta la vaporosa bellezza; un tentativo ardito,
anche se discutibile ed incompleto.
E l’ardimento è dei forti».3
Come fa notare Sandra Berresford, «se l’idea del trasbordo nell’al di là risale ai lontani tempi egizi, la
composizione riflette […] direttamente il Boat of Love
di Dante Gabriel Rossetti (Birmingham City Museum
and Art Gallery), il quale, ispirandosi a sua volta ad
alcuni versi di Dante, raffigurò il Poeta che invita i
poeti Guido Cavalcanti e Lapo degli Uberti a fare una
gita in barca con le loro tre rispettive damigelle:
Beatrice, Monna Vanna e Monna Lagia; mentre Dante
aiuta Beatrice a salire sulla barca, anche qui con un
angelo al timone, tre figure scendono le scale, osservate da altre appoggiate ad un balcone».2
Nell’ispirazione dell’opera si coglie nondimeno una precisa suggestione böckliniana (l’Isola dei morti con la scalinata che solca la rupe a precipizio sul mare).
Rubino rappresenta la defunta velata allontanarsi dal
gruppo delle donne dolenti in cima alla scala, per salire
sulla barca cosparsa di fiori dove l’attendono due soavi
figure angeliche dalle sembianze femminili: l’angelo consolatore, in ginocchio, che l’accoglie protendendo verso
di lei le braccia e l’altro, alato, al timone dell’imbarcazione che la condurrà nel mondo dei trapassati, ovvero
“verso la pace”, come recita il titolo del bassorilievo.
Commentando l’opera appena terminata, riprodotta in
Archivio Storico della Città di Torino, Cimitero Monumentale, 1907, vol.
LVI, permessi 414 e 553.
1
La citazione è tratta dal saggio pubblicato in questo volume. Cfr. anche
Sandra Berresford, Italian Memorial Sculpture 1870-1940. A Legacy of Love,
Londra 2004.
2
Emilio Ferrettini, Nel giorno dei morti al Camposanto di Torino, in
“Gazzetta del Popolo”, 1/11/1907, p. 4.
3
9 - Altorilievi con putti intenti alla vendemmia
(Confetteria Baratti & Milano)
122
Materiale: gesso
ca sobria ma d’effetto, con quattro scuri
Per la facciata della Confetteria Baratti
Misure: cm. 62 x 143 x 38;
inserti bronzei collocati contro il marmo
& Milano, sotto i portici di piazza Ca63,5 x 142 x 50
giallo di Siena dei pilastri tra le vetrine.
stello a Torino, Rubino realizzò quattro
Cronologia:
1909
1910
Le figure delle tabelle bronzee, leggere e
altorilievi fusi in bronzo con figure di
stilizzate nel progetto esecutivo conser«puttini ridenti fra canestri di frutta,
vato all’Albertina, si trasformeranno nelle mani di
fiori, tralci di vite e grappoli d’uva, rappresentazioni
1
Rubino in immagini infantili di prorompente vitalità
allegoriche delle quattro stagioni». I gessi in mostra
modellate quasi a tutto tondo.
sono i modelli originali per i due gruppi più esterni
I lavori di decorazione del negozio terminarono all’inizio
della serie.
del 1911 e alla metà di febbraio i quotidiani torinesi
La ristrutturazione dei nuovi locali del negozio fu comdavano notizia dell’inaugurazione. Enrico Thovez su “La
missionata nel 1909 al decoratore-architetto Giulio
Stampa” ed Emilio Ferrettini sulla “Gazzetta del PopoCasanova, trasferitosi da Bologna a Torino nel 1904 e
lo” commentarono favorevolmente il lavoro di Rubino.
incaricato nel 1907 dei lavori di decorazione e di ornaSecondo Ferrettini, la facciata era notevolmente ravvivato del Palazzo delle Poste, cui prese parte anche
ta dalla grazia dei quattro altorilievi «a guisa di cariatiRubino. I due artisti – poi colleghi all’Accademia Aldi» modellati da Rubino e fusi in bronzo nella fonderia
bertina – collaborarono in seguito a diverse imprese
Betta: «[…] E sono figure di putti […] ove la freschezza
d’arte decorativa (ricordiamo, tra i lavori più impegnadell’impressione, la vivacità del segno, l’eleganza delicativi e di felice riuscita, la tomba Porcheddu al Cimitero
ta, il senso decorativo e lo studio della realtà si fondono
Monumentale e l’ammodernamento della Confetteria
in un insieme armonico e gustosissimo […]».2
Romana-Bass). Fu Rubino a consigliare ai proprietari
della Confetteria Baratti di affidare interamente a
La decorazione della Confetteria Baratti ricevette elogi
Casanova la progettazione dell’interno dei locali affacanche sulle riviste “L’Architettura italiana” (settembre
ciati sulla piazza e della nuova devanture del negozio.
1911, n. 12) e “Arte italiana decorativa e industriale”
Per questa Casanova immaginò una decorazione plasti(settembre 1911, n. 9).
Giorgio Auneddu, Progetto di facciata per la Confetteria Baratti & Milano,
scheda in Eclettismo e Liberty a Torino. Giulio Casanova, Edoardo Rubino, catalogo della mostra a cura di F. Dalmasso, Torino, Il Quadrante, 1989, p. 144.
1
Emilio Ferrettini, Una squisita opera d’arte decorativa, in “Gazzetta del
Popolo”, 18/2/1911, p. 5.
2
10 - Tondi con figure femminili allegoriche
(Confetteria Baratti & Milano)
124
Materiale: gesso
Sono i modelli originali in gesso dei due
bar della rinomata confetteria torinese.
Misure: diametro cm. 68,5;
medaglioni sopraspecchiera simbolegLa composizione di entrambi i tondi,
profondità cm. 10
gianti la Primavera e l’Autunno realizzamolto semplice ed equilibrata, ha come
Cronologia: 1909 – 1910
ti da Rubino per le eleganti sale interne
fulcro una figura femminile ignuda
della Confetteria Baratti & Milano,
modellata con brio e sensibilità per gli
ristrutturate su progetto di Giulio Casanova fra il 1909
effetti chiaroscurali nonostante il rilievo a stiacciato.
e l’inizio del 1911 (vedi cat. n. 9).
Due abbozzi a matita riconducibili all’ideazione di queI due bassorilievi, che raffigurano prosperose figure
ste immagini muliebri sono attualmente conservati in
femminili e vivaci puttini fra serti di fiori e grappoli
collezione privata torinese.1
Di uno dei medaglioni è stato rintracciato anche il
d’uva, furono concepiti per essere racchiusi in cornicalco; due repliche in marmo di eguali dimensioni si
ci circolari finemente intagliate e dorate come la
trovano presso la sede dell’Unione Industriale di Tomaggior parte delle preziose decorazioni lignee e a
rino.
stucco disegnate da Casanova per i locali adattati a
I disegni sono riprodotti da Juri Molinaroli, Edoardo Rubino, tesi di
Laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002,
pp. 167 e 211.
1
11 - Bozzetto di testa femminile
126
Materiale: gesso
Il viso delicato e carico di sottile sensuagesso rimane un po’ indefinito. L’opera
Misure: cm. 53,5 x 51,4 x 21
lità, con le palpebre chiuse in un sonno
ha del resto l’aspetto – e il fascino – delCronologia: 1911 circa
che probabilmente è quello della Morte,
l’abbozzo e non è da escludere che l’arpresenta una spiccata somiglianza con il
tista stesso abbia formato il calco diretvolto della figura distesa di Amalia Dainesi, nella
tamente sul modello plasmato in creta.
tomba Porcheddu al Cimitero Monumentale di Torino.
La freschissima superficie del gesso conserva, sopratAnche in quest’opera di Rubino, portata a termine nel
tutto nella cascata dei capelli che incorniciano il viso
1912, compare il motivo di squisito gusto liberty delle
senza alcuna pesantezza descrittiva, tutta la vibrante
rose sparse tra i capelli della defunta, che nel nostro
qualità coloristica del modellato.
12 - Rilievo con il simbolo della nazione Argentina
(Monumento Mitre)
128
Materiale: gesso
La presenza della placca decorativa qui
È il modello originale per i due rilievi
Misure: cm. 115,5 x 139 x 29
in esame fra i gessi provenienti dallo
bronzei inseriti nel fregio decorativo
Cronologia:
continuo che orna il basamento del
studio dello scultore conferma il diretto
1908
circa
ante
1927
Monumento al Generale Mitre a Buenos
apporto rubiniano alla realizzazione
anche del fregio che corre tutt’intorno
Aires, realizzato da Rubino in collaboraalla parte superiore della base. Il rilievo ne costituisce
zione con lo scultore Davide Calandra.
Il concorso internazionale per assegnare l’esecuzione
l’elemento principale ed è riprodotto simmetricamente
sui due lati maggiori.
dell’opera si chiuse nel 1907 con la vittoria del progetAl centro, entro un campo ovale, è rappresentato l’emto di Calandra e Rubino.
blema nazionale dell’Argentina: due mani che si strinNel luglio 1908 i due artisti si recarono a Buenos Aires
gono, associate al berretto frigio e all’immagine del sole
per prendere accordi relativi all’esecuzione del monuradiante e antropomorfo. Ai lati di questo sono raffigumento ed è probabile che in questa fase fossero precirate una spada con la lama rivolta verso il basso ed una
sati gli aspetti riguardanti le parti decorative. Quello
fiaccola – simboli tradizionali di vittoria, di libertà e
che è certo è che per soddisfare le richieste del
verità – legate a fronde di quercia che dovrebbero indiComitato Mitre l’opera diventò più imponente, elaboracare concordia o forza. In basso si vedono altri rami di
ta ed impegnativa rispetto al primo bozzetto presentato
quercia dal robusto rilievo e un corposo festone di frutdagli artisti.
ti, probabile allusione al lavoro fecondo.
L’otto settembre 1915 Calandra morì, lasciando a
L’opera finita presenta, rispetto al modello, una
Rubino il compito di portare a termine sia il
variante nella forma della due tabelle laterali incorniMonumento Mitre, sia il Monumento a Umberto I per la
ciate da elementi vegetali. La presenza sulla superficittà di Roma (cat. n. 14).
cie del gesso dei grossi chiodi per la “messa a punti”,
La statua equestre di Mitre, realizzata da Calandra e
che non avrebbero motivo di essere in un’opera esclufusa in bronzo, si erge su un alto basamento di granito
sivamente destinata alla fusione in bronzo, fa pensare
attorniato da una serie di simbolici gruppi marmorei,
ad un riuso del modello.
opera di Rubino, alludenti alle virtù del personaggio.
13 - La Seminatrice
(particolare del monumento a Edmondo De Amicis)
130
Materiale: gesso
Nel 1909 Rubino fu incaricato dal
da Rubino con «commozione d’amico e
Misure: cm. 80 x 115,5 x 61
Comune di Torino di realizzare il monudevozione d’ammiratore».2
Cronologia: 1911
mento commemorativo ad Edmondo De
L’influenza di esperienze figurative franAmicis (Oneglia 1846 – Bordighera
cesi sulla produzione plastica di Rubino
1908) destinato ad essere collocato nei giardini di piazè stata richiamata in anni più recenti da Walter
za Carlo Felice, dove verrà inaugurato il 21 ottobre 1923.
Canavesio3 e – in questo catalogo – da Sandra BerreIl monumento, realizzato in marmo bianco, si compone
sford, che indica nell’opera di Jean-François Millet un
di due distinti elementi: la statua della Seminatrice,
modello di riferimento per la figura allegorica del
poggiante su un alto piedestallo ornato sulla fronte da
Monumento a De Amicis, segnalando anche la forte
un medaglione scolpito con il ritratto di De Amicis, e
affinità fra la statua rubiniana e la contadina-madre del
l’esedra che le fa da sfondo, interamente decorata ad
Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.
altorilievo da una serie di figure fanciullesche, ispirate
Rubino realizzò una riduzione in argento della statua4 e
ne ripropose l’immagine nella medaglia commemoratial popolarissimo libro Cuore e simboleggianti i valori
va coniata nel 1927 per il primo centenario della Cassa
familiari e civili che lo scrittore voleva trasmettere alle
di Risparmio di Torino (una riproduzione fotografica
future generazioni, ovvero l’Amore materno, l’Amicizia,
della Seminatrice venne scelta per illustrare il calendala Carità, il Lavoro e l’Amor di Patria.
rio pubblicitario della Cassa per l’anno 1927).
Già nei primi mesi del 1910 Rubino aveva approntato il
Il gesso esposto è un calco parziale della statua, tratto
bozzetto complessivo dell’opera attualmente conservato
dal modello originale e ampiamente ritoccato dall’artinelle collezioni d’arte della Provincia di Torino. Nel
sta. Tracce consistenti di lavorazione “a secco” si
marzo 1911 anche il modello in gesso della Seminatrice
riscontrano del resto sulla superficie di molti gessi proera terminato, ed Emilio Ferrettini poteva pubblicarne
venienti dallo studio di Rubino. Una conferma docula fotografia sulla “Gazzetta del Popolo”, con parole di
mentaria dell’abitudine a intervenire sui modelli prima
apprezzamento per la figura muliebre «piena di serenità
di passare alla trasposizione in marmo ci viene da una
e dal volto soffuso di classica bellezza» intenta a spargelettera in cui lo scultore, riferendosi ad una delle opere
re fra i giovani «quella semente delle buone parole che
che intende presentare alla Biennale di Venezia nel
darà raccolto di buone opere».1
1907 (la Nuda), afferma di voler «riprendere il calco
Giuseppina Jona, in un articolo del 1928 sulla rivista
che ho tenuto e portarlo un po’ più a finimento con
“Emporium”, ricordava senza troppo entusiasmo la statua
alcune modificazioni…» prima di iniziarne la riprodudella Seminatrice, individuandovi una «reminescenza di
zione in marmo (lettera di Edoardo Rubino a Spirito
scoltura francese» e giudicandola inferiore per riuscita
Luciano, 14 aprile 1907, Collezione privata, Torino).
alla «vibrante e delicata effigie di De Amicis» modellata
Emilio Ferrettini, Nel terzo anniversario della morte di De Amicis, in
“Gazzetta del Popolo”, 11/3 1911, p. 3.
1
2
Giuseppina Jona, Artisti contemporanei: Edoardo Rubino, in “Emporium”,
n. 398, febbraio 1928, p. 72.
3
Walter Canavesio, Edoardo Rubino e la Cappella Galimberti, in W.
Canavesio, M. Cordero e G. Galante Garrone, La Madonna degli Angeli.
Defendente Ferrari, Juvarra e altre testimonianze di arte a Cuneo, Agami,
1998, p. 152.
Edoardo Rubino, tesi di laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e
filosofia, riprodotta da Juri Molinaroli, a. a. 2001-2002.
4
14 - “Il Valore”
(bozzetto per il Monumento a Umberto I)
132
Materiale: gesso
scala al vero del gruppo equestre. CaÈ il bozzetto originale per uno dei due
Misure: cm. 34 x 38,5 x 8
landra, come riferisce G. Tonolli, «crearilievi istoriati realizzati in marmo barCronologia:
diglio inseriti nel basamento del Monuto il bozzetto, aveva modellata anche nei
post 1915 - ante 1926
mento a Umberto I a Roma.
particolari la base del monumento e la
figura del Dolore; mentre i bassorilievi e
L’imponente monumento fu commissiola parte statuaria più temibile, costituita dal sovrano a
nato a Davide Calandra, ma ad eseguirlo quasi interamente fu il solo Rubino, incaricato nel 1915 dal re
cavallo, erano ricordati in pochi e fuggevoli tratti».1 I
due bassorilievi destinati ad ornare il basamento doveVittorio Emanuele III di portare a termine l’opera rimavano rappresentare le virtù sovrane del “Valore” e della
sta incompiuta in seguito alla morte di Calandra.
“Pietà regale”. È presumibile che Rubino abbia
All’epoca Rubino attendeva al completamento di un’alapprontato i relativi bozzetti non molto tempo dopo aver
tra opera grandiosa opera celebrativa concepita e iniziaricevuto l’incarico.
ta in collaborazione con Calandra, il Monumento a
Quello esposto, identificabile con il “Valore”, presenta
Bartolomé Mitre per la città di Buenos Aires che lo
una scena molto animata che ha come fulcro l’immagiavrebbe tenuto impegnato fino al 1927. Per il monune del cavaliere in armatura completa di cimiero, che
mento al “Re buono” furono necessari nove anni di
con un colpo di spada atterra il nemico.
lavoro prima che l’opera venisse inaugurata, il 14 marzo
Sulla superficie del gesso, freschissima e vibrante,
1926, nei Giardini di Villa Borghese. Esiste una fotosono visibili impronte lasciate dall’artista e tracce di
grafia, non datata ma riferibile ad una fase abbastanza
interventi a secco, oltre ai “capi punti” metallici che
avanzata del lavoro, in cui Rubino è ritratto all’interno
attestano l’ingrandimento del bozzetto.
dello studio, intento a rifinire il modello in gesso in
Giulio Cesare Tonolli, Il Monumento ad Umberto I a Villa Borghese, in
“Gazzetta del Popolo”, 6/8/1925. Per la realizzazione dell’opera cfr. Cristina
Maiocchi, Roma: il monumento a Umberto I a Villa Borghese, in Davide
Calandra. L’opera, la Gipsoteca, a cura di R. Belmondo e M. Lamberti,
Savigliano 2004, pp. 141-149.
1
15 - Bassorilievo con figura femminile e putti
(Confetteria Romana-Bass)
134
Materiale: gesso
sola grande tabella bronzea, animata da
È il modello originale per la parte supeMisure: cm. 107 x 75,5 x 26
un forte senso plastico, con la raffigurariore del rilievo bronzeo eseguito da RuCronologia: 1918 -1920
bino per la facciata esterna della Conzione di una florida figura femminile
fetteria Romana-Bass, a Torino. Lo storirivestita da un leggero panneggio increspato che lascia scoperto uno dei seni. La donna è
co negozio, oggi non più esistente, era situato sotto i
affiancata da due puttini sorridenti che si librano fra
portici di piazza Castello, non lontano dai locali della
Confetteria Baratti & Milano ristrutturati fra il 1909 e
una cascata di pampini e grappoli d’uva. Un terzo
bimbo è rappresentato in basso accanto a un canestro
il 1911 su progetto di Giulio Casanova (cat. n. 9 e 10).
colmo di frutti. La composizione dell’opera, ora non più
Sull’esempio della concorrenza (Baratti e il vicino Bar
in loco (ma conservata in collezione privata torinese) è
Mulassano), nel 1918 i nuovi proprietari dell’antica
documentata da foto d’archivio.
bottega del confetturiere Bass, fondata un secolo prima
Il gesso in esame è il modello originale per la parte supe(nel 1810), decisero di rimodernare le due sale interne
riore del rilievo, quella più mossa e ricca di giochi di
e la facciata del negozio, affidando a Casanova la proluce e di vivaci effetti chiaroscurali prodotti dalla congettazione della nuova decorazione architettonica. I
trapposizione fra elementi modellati a delicato bassorilavori si conclusero nei primi mesi del 1920.
lievo ed altri che emergono con vigore dal piano d’appogCome nella Confetteria Baratti, l’ornamentazione delgio, fino a sfociare nel tutto tondo (il braccio sinistro
l’esterno prevedeva la presenza di inserti scultorei fra
della donna e il piedino del bimbo in alto sulla destra).
le vetrine, ma in quest’occasione Rubino realizzò una
16 - Coppia di figure maschili
136
Materiale: gesso
Questi due gessi originali sono accomutarsi degli elementi di un fregio, forse
Misure: cm. 40,7 x 104 x 23
ideato per un esercizio commerciale conati dallo stesso soggetto: una muscolo(la figura rivolta a destra);
sa figura maschile seminuda che sorregme gli altorilievi per le devantures delle
cm.
34
x
104
x
18
ge sulla spalla destra un canestro o un
confetterie Baratti & Milano e Romana(la figura rivolta a sinistra)
vaso. I rilievi presentano una leggera
Bass, realizzati nel secondo decennio
Cronologia:
del Novecento. Le opere in esame predifferenza nelle dimensioni (larghezza
1910 - 1920 circa
della base ed aggetto) e alcune significasentano del resto significative analogie
di stile con i rilievi modellati da Rubino nell’immediative varianti nella postura delle figure e nei dettagli icoto primo dopoguerra per la facciata della nuova
nografici (la presenza di elementi di vestiario quali il
Palazzina della Società Promotrice delle Belle Arti,
manto o il copricapo, il motivo floreale abbozzato sulla
superficie di fondo).
inaugurata nel 1919.
L’impostazione decorativa di entrambi, ancora legata a
L’assenza di punti metallici sulla superficie fa pensare
che i modelli non siano stati ingranditi o realizzati in
cadenze di tardo gusto liberty, ma con una plasticità
delle figure tipica di Rubino, suggerisce che possa tratmarmo.
17 - Testa della Vittoria (particolare della statua
in memoria dei Caduti nella prima guerra mondiale)
138
Materiale: gesso
E’ il modello originale per la testa della
L’opera venne esposta alla Biennale di
Misure: cm. 27x28x27
statua bronzea della Vittoria destinata a
Venezia del 1928 in una collocazione
Cronologia:
commemorare i dipendenti postelegrafoprivilegiata e curiosamente simile a
1918 - ante 1928
nici caduti nella guerra del 1915-18.
quella attuale: nella rotonda dopo il
Alcuni schizzi a matita tracciati rapidavestibolo d’ingresso al Padiglione prinmente su un foglio di carta a quadretti fissano alcune
cipale dell’esposizione. Nel catalogo della mostra è
1
possibili soluzioni per la statua. Rubino opterà per la
citata come «Vittoria (bronzo)» e riprodotta alla tavola
rappresentazione di una figura stante in atto di impun. 2. La presenza della statua all’esposizione consente
gnare un grande scudo rotondo recante i nomi dei cadudi stabilire un sicuro termine ante quem per la datazioti e una corta spada con la lama poggiata sull’avamne del gesso in esame.
braccio destro in segno di pace.
In collezione privata torinese si conserva una testa di
La statua, alquanto più solida e austera della precedendonna in gesso dorato alta circa 50 cm.
te Vittoria Alata realizzata per l’Altare della Patria a
descritta da Carlotta Margarone come una «splendida
Roma, si erge su un alto parallelepipedo di marmo
opera della quale è difficile dare una collocazione temverde al centro dell’atrio del Palazzo delle Poste di via
porale…»2 e riferita ad un busto di soggetto ignoto, ma
Alfieri, a Torino, la cui decorazione plastica era stata
a mio avviso in rapporto con la Vittoria del Palazzo
realizzata entro il 1911 dallo stesso Rubino.
delle Poste.
1
Torino, collezione privata. Il foglio (cm. 280 x 215) è riprodotto in Juri
Molinaroli, Edoardo Rubino, tesi di Laurea, Università di Torino, Facoltà di
Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002, p. 213.
2
Carlotta Margarone, Un artista ritrovato: Edoardo Rubino scultore (18711954), tesi di laurea, Università di Torino, a. a. 2000-2001
18 - Ritratto di signora
140
Materiale: gesso
L’opera raffigura una giovane donna
sta sul medesimo collo sottile e la deliMisure: cm. 51 x 50,4 x 28
vestita con un elegante abito dall’ampio
cata curva delle spalle appare identica.
Cronologia: 1920 circa
décolleté ingentilito da un mazzetto di
Simili sono anche l’ossatura del volto, il
fiori appuntato sopra il seno sinistro. I
sorriso gentile e lo sguardo assorto.
dettagli dell’abbigliamento, resi in modo sintetico, non
L’effigiata dovrebbe essere la moglie di Oreste
distolgono l’attenzione dall’espressività del viso e sottoMattirolo (1856-1947), medico e naturalista, professolineano anzi il fascino garbato e distinto della figura
re di botanica nelle Università di Bologna, Firenze e
femminile.
Torino, studioso della flora pedemontana e autore di
Rubino lavorò a numerosi ritratti destinati ad una comimportanti lavori di micologia nonché del prezioso
mittenza privata e l’identificazione degli effigiati preregesto delle opere di Davide Calandra accluso alla
senta spesso, come in questo caso, non poche difficoltà.
monografia sullo scultore pubblicata da Corrado Ricci
Il raffronto con le due diverse redazioni del Ritratto
nel 1916.
della signora Mattirolo eseguite da Rubino e conservaI rapporti amicali di Rubino con la famiglia Mattirolo,
1
te presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino evidenancora in attesa d’essere ricostruiti, sono attestati oltre
zia forti somiglianze con il busto in esame. La donna
che dai ritratti noti, da una lettera indirizzata a Spirito
presenta un’acconciatura diversa, più composta che nel
Luciano il 30 gennaio 1907, in cui l’artista si rammarinostro ritratto (in cui la fronte è ombreggiata da una
ca per la morte dell’avvocato Luigi Mattirolo, giurista
ciocca della capigliatura corta e mossa); la leggera ruga
insigne ed ex rettore dell’Università di Torino, ricordaverticale che solca la fronte e le piccole rughe d’espresto come «un grande amico e un padre». Rubino trascorsione agli angoli della bocca stanno ad indicare un’età
rerà parte dell’estate successiva ospite in casa
più matura, ma la testa dal volume ben definito s’inneMattirolo a Groscavallo.
Una delle opere (inv. S/232) è realizzata in gesso; la versione definitiva è in
marmo (inv. S/231). Entrambe sono pervenute al museo nel 1955 per legato
testamentario dell’autore.
1
19 - Ritratto di signora
(Ritratto della signora Tina Nasi Agnelli)
142
Materiale: gesso
ne verso il 1920 appare plausibile
L’opera è firmata in basso a sinistra «Ed.
Misure: cm. 36,4 x 49,8 x 24,6
anche dal punto di vista stilistico.
Rubino» ed è contraddistinta da un
Cronologia: 1920 circa
Proprio nella prima metà degli anni
taglio ad erma di ispirazione classica
Venti l’artista si dedica intensamente
abbastanza inconsueto per la ritrattistica
alla ritrattistica, ottenendo lusinghieri riscontri; nel
rubiniana, in genere orientata verso soluzioni formali
1924 consegue la medaglia d’oro alla Mostra del ritratmeno convenzionali e “bloccate”.
to femminile contemporaneo, tenuta presso la Villa
Sulla superficie del gesso si notano, anche se abilmenReale di Monza.2
te dissimulate, le creste che si formano tra i tasselli
Questo busto dai volumi torniti conferma le sue indubdurante l’operazione di formatura; si tratta dunque di
bie qualità di ritrattista, assai apprezzate dalla borgheun calco, forse realizzato dall’artista stesso.
sia del tempo ed elogiate ancora da Marziano Bernardi
Il busto raffigura una donna dal volto sereno con le labnel partecipe ricordo dell’artista pubblicato sul
bra piene e ben disegnate distese in un sorriso garbato
“Bollettino della Società Promotrice delle Belle Arti”:
e folti capelli ondulati che ricadono morbidamente
«Edoardo Rubino aveva sempre concepito l’arte – la
sulla fronte. L’abito aperto sul petto in una sobria scolsua arte, fatta di pesi e di volumi, di concretezza e di
latura è appena accennato per non distogliere l’attensolidità – anche con la probità dell’esperto coscienziozione dall’espressività della modella, mentre il viso è
so artigiano, che ama il lavoro bene eseguito, che non
ben caratterizzato.
ammette incertezze, trascuratezze, o, peggio, espedienL’effigiata è con ogni probabilità la signora Tina Nasi
ti da furbo […] Chi voleva un ritratto schietto, formalAgnelli, come suggerisce il confronto con un intenso
mente impeccabile, psicologicamente rivelatore, saperitratto pittorico di collezione privata eseguito nel 1919
va che, fra i pochi scultori italiani ancora adatti a simida Giacomo Grosso.1
le impresa non di orgoglio individualistico, ma di abneLe stringenti analogie nella fisionomia e nell’accongazione e quasi d’umiltà verso l’arte, doveva rivolgersi
ciatura inducono a pensare che l’opera di Rubino sia
ad Edoardo Rubino».3
stata realizzata a poca distanza di tempo; una datazio-
Olio su tela, ovale, cm 56 x 48, collezione privata. Il dipinto è stato pubblicato in Giacomo Grosso. Il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra di Torino a cura di G. L. Marini, Milano 1990 (cat. n. 48).
1
Si veda la testimonianza di Ernesto Quadrone, Nello studio di Edoardo
Rubino, in “Gazzetta del Popolo” 15/3/1923: «Edoardo Rubino – ce lo ha
detto lui – lavora dieci ore al giorno e in letizia […]»; interrogato sulle opere
che intende inviare alla Quadriennale, accenna ai ritratti fatti negli «ultimi
tempi ».
2
Marziano Bernardi, Edoardo Rubino, in “Bollettino S.P.A.B.A”, nuova
serie, a. 5-6, 1952-53 (ma 1954), pp. 229 - 231.
3
20 - Testa femminile ideale
144
Materiale: gesso
La testa è probabilmente pertinente alla
Il “Messaggero di Novi” del 17 novemMisure: cm. 30,4 x 38 x 35
bre 1928 riportava un dettagliato resofigura della Gloria nel monumento ai
Cronologia: 1924 circa
Caduti della Grande Guerra di Novi
conto sulla cerimonia d’inaugurazione e
Ligure, pur presentando piccole varianti
forniva un ragguaglio sul concetto ispinell’acconciatura rispetto all’opera finita.
ratore dell’opera: «La Gloria che sorge e si stacca
dall’Ara del Sacrificio nell’atto di prendere dal Soldato
Una fisionomia assai simile caratterizza peraltro la statua bronzea della Vittoria Alata realizzata da Rubino
Morente la Fiamma della vita sacrificata alla Patria il
simbolo puro della Fede nel suo più alto destino, porper l’Altare della Patria a Roma e poi replicata per il
tandola con gesto trionfale verso il mondo».1
monumento ai Caduti eretto nel 1922 al centro della
Una bella foto di Giancarlo Dall’Armi con la maestosa
piazza Liberazione di Carmagnola.
figura della Gloria che sovrasta il caduto riverso fu
Rubino ricevette l’incarico per l’esecuzione del monuriprodotta sul numero unico della rivista “Italia Nova”
mento di Novi Ligure nel 1923; il bozzetto in gesso era
interamente dedicato al monumento.2
pronto già nel 1924 e l’opera, consistente in un gruppo
L’opera fu realizzata gratuitamente da Rubino, che il 28
di due figure in bronzo, fu inaugurata con grandi cerisettembre 1930 veniva insignito della cittadinanza onomonie l’11 novembre 1928, nel decennale della
raria di Novi. Significativa è la motivazione riportata
Vittoria.
nella deliberazione firmata dal Podestà, in cui il monumento viene citato come «una vera gioia di arte, oggetto di unanime appassionata ammirazione» nonché del
«vivissimo plauso e compiacimento di S.A.R. il Duca
di Pistoia».3
A questa lusinghiera accoglienza non corrispose negli
anni successivi altrettanta fortuna critica, sorte del
resto condivisa da gran parte dei numerosi monumenti
ai caduti eretti nel primo dopoguerra.4
1
“Messaggero di Novi”, anno 63°, 17 novembre 1928, n. 46.
2
“Italia Nova”, numero unico, 11 novembre 1928.
Archivio Storico del Comune di Novi Ligure, Deliberazioni 1930, n. 292.
Sono grata a Dimitri Brunetti per la segnalazione del materiale archivistico e
bibliografico.
3
Unica eccezione lo studio di Laura Rinaldi, Il Monumento ai Caduti della
Grande Guerra dello scultore Edoardo Rubino, in “Novinostra”, anno XXIX,
n. 4, dicembre 1989, pp. 84-90. Sulla sfortuna critica dei monumenti ai
caduti cfr. Walter Canavesio, Giovanni Riva. Uno scultore nella «più “monumentata” città d’Italia», in Torino 1863-1963. Architettura, arte, urbanistica,
a cura di B. Signorelli e P. Uscello, Torino 2002, p. 161.
4
21 - Bozzetto per il monumento a José María Cabal
146
Materiale: gesso
Il bozzetto raffigura il generale José
gesso fresco gettato sopra l’armatura
Misure: cm. 28 x 85 x 31
María Cabal (1769 - 1816) che ai primi
interna; estese colature di materiale si
Cronologia: 1924
dell’Ottocento combatté per l’indipennotano soprattutto nella parte inferiore
denza della colonia sudamericana della
dell’opera, mentre su tutta la superficie
Nueva Granada dalla Spagna. Nel 1909 Tulio Enrique
(che non ha mai sofferto riprese o puliture prima dell’atTascon pubblicava a Bogotà un’accurata biografia del
tuale intervento conservativo) sono visibili le impronte
patriota colombiano, effigiato da Rubino alcuni anni più
lasciate dalle dita dello scultore e i grossi chiodi metaltardi, a figura intera, in atteggiamento saldo e risoluto
lici utilizzati per l’ingrandimento. Da questo gesso
con indosso l’uniforme militare e un lungo mantello. Le
venne tratto il modello a grandezza naturale utilizzato
caratteristiche del modellato inducono a pensare che
per realizzare il monumento lapideo eretto nel 1924
Rubino abbia plasmato il bozzetto direttamente nel
nella città di Buga, in Colombia.
22 - Targa ad Umberto di Savoia
Principe di Piemonte
148
Materiale: gesso
corso di allievo ufficiale di complemento
Come si evince dall’iscrizione in caratMisure: cm. 74 x 132 x 10
per l’arma di fanteria. L’anno successivo
teri capitali posta sotto il ritratto a medaCronologia: 1926
glione il gesso dovette servire da modelentra a far parte del reggimento Granatieri
lo per la targa bronzea destinata a comdi Sardegna e prende servizio a Roma. Nel
1925 è assegnato con il grado di tenente al 91°
memorare l’ingresso del principe Umberto di Savoia
Reggimento fanteria della Brigata “Basilicata” e si trasfenel 91° Reggimento Fanteria della Brigata “Basilicata”
il cui stemma compare in basso nel rilievo, al centro
risce a Torino, dove rimane fino alla vigilia della guerra.
Tra il 1944 e il 1946 ricopre la carica di Luogotenente del
della fascia ornamentale a fogliami con le insegne delle
Regno e dal 9 maggio al 2 giugno 1946 sarà Re d’Italia, di
città di Matera, Potenza, Melfi e Lagonegro:
Sardegna, di Cipro e Gerusalemme ed Armenia. Dopo la
«AD INSIGNE VANTO – DELLA BRIGATA/ CUI LA
proclamazione della Repubblica si reca in esilio in
FORTE BASILICATA DA NOME – QUESTO BRONPortogallo. Muore a Ginevra il 18 marzo 1983.
ZO/ RAMMENTA – CHE IL 15 SETTEMBRE 1925/
Il rilievo di Rubino, datato 14 luglio 1926, traduce con
UMBERTO DI SAVOIA PRINCIPE DI PIEMONTE/
fedeltà e finezza un ritratto fotografico in cui il giovane
COMPIENDO IL VENTUNESIMO ANNO DI ETA’/
principe compare di profilo con l’alta uniforme fregiata
VENNE A PROSEGUIRE FERVENTEMENTE NEL/
di decorazioni militari tra cui il Gran collare
91° REGGIMENTO DI FANTERIA LA VITA DELLA/
dell’Annunziata conferitogli dal re nel 1922. L’effige
MILIZIA – AUGUSTO ANIMATORE DI TRADIZIOvenne elaborata dall’artista anche in versione ridotta: in
NI/ GLORIOSE – ESEMPIO PER OGNI TEMPO/
una medaglia coniata entro il 19271, e nella medaglia
DELLE GAGLIARDE FERME VIRTU’ – DEVOTE/
realizzata nel 1931 per le nozze di Umberto e Maria José.
AL RE – ALL’ITALIA».
Un ritratto di «S.A.R. il Principe di Piemonte» figurava
Umberto nasce a Racconigi il 15 settembre 1904, primo
– unica opera di Rubino – alla prima Esposizione sindafiglio maschio del re Vittorio Emanuele III di Savoia e di
cale fascista di Torino (87° mostra della Società
Elena del Montenegro e pertanto erede al trono d’Italia
Promotrice delle Belle Arti), tenutasi nel 1929 e posta
con il titolo di principe di Piemonte. Studia presso il
sotto l’alto patronato del principe Umberto.
Collegio Militare di Roma e nell’autunno 1921 inizia il
Pubblicata da Giuseppe Deabate, Edoardo Rubino e il monumento al generale Mitre, in Le vie d’Italia e dell’America Latina, 1927, p. 779.
1
23 - Rilievo con due Angeli che reggono un candelabro
150
Materiale: gesso
Il soggetto è ripreso varie volte da
Madonna degli Angeli a Cuneo (1947), e
Misure: cm.72,5 x125,5 x 22,5
le due statue delicate e solenni ai lati
Rubino nell’arco della sua lunga attività
Cronologia:
e ricorre forse con maggiore frequenza
dell’altare del beato Cafasso nella chie1920
1940
circa
nel quarto e quinto decennio del Novesa torinese della Consolata. Tutte queste
cento, quando l’artista attende a diverse
opere appaiono accomunate dalla bellezza gentile ed aristocratica che anima le immagini dei
commissioni di carattere religioso. Possiamo ricordare
ed assumere quali termini di confronto per il gesso in
due angeli del nostro rilievo. Anche in questo caso
Rubino mette in pratica alcuni accorgimenti per evitaesame, oltre ai rilievi eseguiti all’inizio degli anni
re di incorrere nella ripetitività: gli angeli, affiancati e
Trenta per la Stazione ferroviaria vaticana (La Navicella
volti verso destra, sono simili nell’aspetto, nell’abbidi San Pietro e l’episodio biblico del profeta Elia rapito sul carro di fuoco), le figure di angeli modellate per
gliamento e nei gesti, ma la monotonia derivante dall’il’altare maggiore della Chiesa di S. Edoardo a Sèterazione di una stessa figura è rotta dalla diversa posizione delle dita sul fusto del candelabro e dalle sottili
strieres (1936), quelle del bassorilievo sulla tomba di
Duccio Galimberti nella cappella di famiglia alla
variazioni nel disegno delle pieghe di manti e vesti.
24 - Figura femminile giacente
della tomba Chiesa
Materiale: gesso
In entrambe queste opere la rappreÈ il modello originale in scala al vero
Misure: cm. 187 x 46,5 x 61
sentazione del personaggio è però stretper la statua del monumento sepolcraCronologia: 1930
le in memoria di Giuseppina Chiesa,
tamente legata al tema del compianto,
realizzato da Rubino in collaborazione
del tutto assente nel monumento Chiesa, contraddistinto da un’intensa ed efficace semplificon l’architetto A. Mazzucotelli, nel Cimitero Monucazione formale. Il corpo disteso della donna è copermentale di Milano (Riparto B - Giardino 5).
Il progetto originale per il monumento, datato 2 ottoto da un lenzuolo funebre a grandi pieghe che lascia
scoperte solo spalle e braccia. Nella mano destra è
bre 1930, mostra nei dettagli l’austero impianto composata una lucerna (frammentata nel gesso), mentre
positivo dell’opera finita, consistente in una statua
la sinistra è abbandonata sul grembo. Il capo è reclifemminile in marmo bianco di Carrara distesa su un
nato sul guanciale e i delicati lineamenti del volto sono
sarcofago squadrato che sovrasta un basso basamenresi senza alcuna sorta di compiacimento descrittivo.
to di diorite nera.
Particolarmente estesi ed insistiti sono i ritocchi eseIl motivo della figura femminile abbandonata sul
guiti con raspa e martellina dentata sul gesso secco,
sepolcro nel sonno della Morte, derivato dalla tradinonostante la formatura sia di un’ottima qualità. È
zione medioevale e rinascimentale, era stato trattato
evidente che non si tratta di un intervento volto a corprecedentemente da Rubino nella tomba Porcheddu
reggere i difetti di un gesso un po’ “spento”, ma di un
al Cimitero Monumentale di Torino (1912) e sarà poi
modo per variare la tessitura delle superfici ed accreripreso dall’artista nella tomba di Alice Schanzer per
scere l’intensità dei contrasti chiaroscurali.
la cappella Galimberti a Cuneo (1938-40).
25 - Testa maschile ideale
154
Materiale: gesso
memoria delle opere già create.
Questa massiccia testa dai tratti pronunMisure: cm. 40 x 40,5 x 32,5
L’esecuzione del grandioso monumento al
ciati, segnata nella chioma dalle vigoroCronologia:
se ombreggiature prodotte dalla martelCarabiniere, inaugurato nel 1933, venne
1928
circa
1933
lina dentata, è con ogni probabilità peraffidata a Rubino nel 1925. La realizzazione dell’opera cade dunque, almeno
tinente ad una delle statue virili che
nella sua fase iniziale, in un momento di intensissima
fanno corona alla maestosa figura della Giustizia nel
gruppo bronzeo sulla sommità del Monumento al
attività dell’artista, intento a portare a termine l’impegnativo Monumento al Generale Mitre per Buenos Aires
Carabiniere Reale a Torino.
(1927), ma soprattutto assorbito nell’impresa del colossaGli zigomi pronunciati, la mascella robusta, i muscoli
le Faro della Vittoria, eretto nel 1928 sul Colle della
possenti ed in tensione del collo e la capigliatura sono
Maddalena a Torino.
pressoché identici nella figura che imbraccia lo scudo
Alcuni bozzetti in gesso per il bassorilievo dell’esedra
sulla sinistra del gruppo del Giuramento. Il nostro
che forma la base del monumento al Carabiniere sono
gesso ne costituisce verosimilmente il modello originapervenuti per legato dell’autore alla Galleria d’Arte
le. Tuttavia, non possiamo dimenticare che Rubino era
Moderna e Contemporanea di Torino; i modelli sono
solito utilizzare più volte un modello precedentemente
invece conservati al Museo Storico dell’Arma dei
approntato, apportandovi le varianti richieste dalla cirCarabinieri a Roma. Una copia a grandezza naturale
costanza per cui l’opera veniva eseguita. Di fatto, i
della figura del Carabiniere Reale si trova presso la
gessi conservati nell’atelier costituirono per lo scultore
Caserma “Cernaia” di Torino.
un patrimonio di lavoro insostituibile, oltre a serbare la
26 - Testa femminile
156
Materiale: gesso
La ricerca di essenzialità, la compatcon opere eseguite a cavallo tra quarto
Misure: cm. 23,5 x 28,5 x 28,5
tezza volumetrica e il sensibile modele quinto decennio del Novecento, come
Cronologia:
lato che contraddistinguono questa teLa Speranza e il Ritratto di Eva, espo1935
-1940
circa
sta – probabilmente frammento di una
ste nella personale dell’artista alla
statua – sono caratteristici della produBiennale di Venezia del 1942, cui
zione matura di Rubino. I raffronti più pertinenti sono
rimanda anche la fisionomia della modella.
27 - L’Offerta
(Donna con cesto di fiori)
Materiale: gesso
busto nel modello originale della staFra tutte le opere descritte in questa
Misure: cm. 50 x 175 x 80
tua, sulla cui superficie si notano
scheda esiste uno stretto rapporto. Il
(la statua);
peraltro i segni di commessura dei
comune denominatore è una statua
cm. 23,5 x 25,4 x 22,5
vari pezzi, formati separatamente, e
femminile che non ha mai goduto di
(la testa);
alcune leggere incisioni (come il taglio
attenzione critica, ma di cui si concm. 47,3 x 43,5 x 37
obliquo sul petto) dovute ad una
serva un esemplare in gesso nell’atrio
(il busto)
disattenzione del formatore. Sono
del Centro di produzione RAI di
Cronologia:
presenti inoltre tracce evidenti di un
Torino, in via Verdi 14. Negli archivi
1930 circa - 1941
intervento dell’artista sul gesso
RAI non è stato ritrovato alcun docuormai secco, graffiato e scolpito fino
mento riguardante l’acquisto della
ad ottenere l’effetto desiderato.
statua, nota come L’Offerta o Donna con
La presenza di una stuccatura con gesso frecesto di fiori.1
sco all’altezza del collo lascia credere che la
Dallo studio di Rubino provengono sia il
testa ora applicata alla statua non sia quella
gesso preparatorio in scala al vero della
originale. Fortunatamente, anche questa
statua, sia il calco della medesima, oltre
ci è pervenuta. Il modellato della testa
al modello originale della testa e al
ora conservata a parte è infatti tanto
busto femminile con il manto annodafresco e vibrante da non lasciare
to sul petto. Quest’ultimo è un calco
dubbi sul fatto che sia questo il
tratto dalla parte superiore della
modello originale. La frattura nel
Donna con cesto di fiori, ma con
naso, occultata alla perfezione da
una variante nell’acconciatura.
un vecchio restauro, potrebbe
Una netta linea di giunzione, abilessere stata il motivo della sostimente dissimulata, si riscontra
tuzione della testa nella statua.
proprio in corrispondenza del
Il calco, ora privo degli avambracci, è stato ottenuto col procedimento “a tasselli” direttamente
sul modello originale o sull’opera finita.
Il termine ante quem per la datazione dell’opera è
il 1941, anno in cui Rubino presenta una riproduzione in bronzo del busto (con l’acconciatura
identica a quella della statua) alla XCIX mostra
della Promotrice delle Belle Arti di Torino.
Anche le caratteristiche stilistiche suggeriscono una datazione tra la fine degli
anni Trenta e l’inizio del successivo decennio, quando l’attività dell’artista ottiene
pieno riconoscimento pub-
blico con la mostra personale alla Biennale di
Venezia (1942). Il busto presentato alla
Promotrice è riprodotto nel catalogo dell’esposizione e in una foto a piena pagina sul numero di
maggio 1941 della rivista mensile “Torino”, dove
viene elogiata la «serena immagine di bellezza»
creata dallo scultore.2 L’elevata capacità di sintesi formale e la sensibilità nel trattamento delle
superfici che caratterizzano la produzione
matura di Rubino sono del resto splendidamente esemplificate da questa solida e armoniosa figura di donna dai
gesti misurati ed il volto illuminato da un enigmatico sorriso.
1
Sono grata ad Alessandra La Terra per questa informazione.
L’opera fu acquistata nello stesso anno dall’Amministrazione provinciale del Piemonte al prezzo di 5.000 lire. Attualmente è conservata
presso la sede della Provincia di Torino in Palazzo Dal Pozzo della
Cisterna. Cfr. la scheda di Laura Facchin in M. Cassetti, B. Signorelli,
Il Palazzo Dal Pozzo Della Cisterna nell’Isola dell’Assunta in Torino,
Torino 2004, p. 170.
2
28 - Modello e testa di cavallo
(dal gruppo L’energia domata)
162
Materiale: gesso
Entrambi i gessi sono in rapporto con il
mente poggiate sulla base, mentre gli
Misure: cm. 119 x 127,5 x 57
monumentale gruppo scultoreo simbozoccoli anteriori, sollevati, fendono ner(il cavallo);
leggiante L’Energia domata, realizzato
vosamente l’aria. Un robusto sostegno
cm. 135,5 x 117 x 61
da Rubino per la centrale idroelettrica
metallico lo sorregge sotto il ventre.
(la testa)
di Glorenza, in Trentino. L’opera finita,
Sulla parte anteriore della base, in basCronologia:
1940 circa - 1948 circa
fusa in lega d’alluminio, si trova tuttora
so, è riportata l’iscrizione «cm. 96 2
2».
davanti alla centrale “Guido Donegani” e
Il modello originale della testa, in scala al
raffigura una possente figura maschile, eroicamente nuda,
vero, è in rapporto con il cavallo a destra nel guppo. A
in atto di trattenere una coppia di cavalli impennati.
parte la mancanza della mascella e dell’orecchio sinistro,
Il modellino a figura intera è in relazione con il cavalle condizioni di conservazione sono buone, e gli intervenlo alla sinistra dell’uomo.
ti sul gesso, lavorato a secco con gli attrezzi da scultore,
L’animale è raffigurato con le zampe posteriori saldarisultano perfettamente leggibili.
164
I lavori per la costruzione degli impianti idroelettrici
sui laghi di Resia furono avviati dal Gruppo
Montecatini nel 1939 e completati solo nell’autunno
del 1948, dopo aver subito un rallentamento a causa
della guerra. La centrale di Glorenza fu inaugurata il
28 agosto 1949. La realizzazione della scultura di
Rubino dovrebbe quindi collocarsi entro questo lasso
di tempo, come lascia intendere anche un gruppo di
fotografie con annotazioni dell’artista risalenti con
verosimiglianza al momento dell’inaugurazione.1
Verso la fine degli anni Trenta, Rubino ricevette dal
Gruppo Montecatini la commissione di un’altra opera
di grandi dimensioni destinata alla centrale “Claudio
Castellani” di Ponte Gardena. Anche questa statua,
conosciuta come Il genio del fascismo e distrutta negli
anni Sessanta, venne realizzata in alluminio.2 L’elenco
dei gessi rimasti nello studio di via Asti dopo la morte
dello scultore registra la presenza di un «Modello (piccolo) per uno dei cavalli del lago di Resia» e segnala
l’esistenza di altri «Due cavalli di Resia» a Villar
Perosa, senza però specificarne le dimensioni.3
Nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e
Contemporanea di Torino è conservato il modello in
gesso di grandezza inferiore al vero (103 x 128 x 37 cm)
per il cavallo di destra dell’Energia domata, identificato nelle schede di catalogo del museo come imprecisato «modello di cavallo impennato di una quadriglia»
(inv. S/253).
1
Archivio eredi Rubino, Torino.
L’opera rappresentava Mussolini a cavallo ed è riprodotta in alcune foto
d’archivio, gentilmente segnalatemi da Paolo Pinamonti e Mauro Scienza,
che ringrazio. Una fotografia è pubblicata in questo catalogo, a p. 19.
2
3
Archivio dei Musei Civici di Torino, Carte Amministrative Annuali 830,
Donazioni-1954, Pratica Rubino.
166
Nota sul restauro delle opere
Il restauro dei gessi è stato eseguito dal laboratorio di restauro stucchi e formatura artistica
della “Scuola per Artigiani e Restauratori Maria Luisa Rossi” in Torino
Le opere, sostanzialmente in buono stato di conservazione, sono state eseguite con diverse tecniche di
formatura artistica:
- a “forma persa” ricavate direttamente dal modello in creta o in plastilina creato dal maestro;
- con getti ricavati da una “forma a tasselli” atta a
riprodurre le opere sulla cui superficie sono evidenti i segni di divisione dei tasselli;
- con “messa a punti”, tecnica per riprodurre le
opere in diverse dimensioni.
Su alcune sculture sono visibili molteplici punti di
matita ed inserimenti di chiodi metallici, segni inequivocabili di una riproduzione in gesso o in
marmo di uguali o pari dimensioni. Le opere recano segni di raspe romane, martelline, gradine per
gesso, spatolate di materiale, ditate con impronte
impresse sul gesso morbido dall’artista, testimonianze che evidenziano ripensamenti con interventi successivi alla formatura o alla messa a punti.
Su alcuni pezzi sono evidenti tracce di materiali
usati per la fusione in bronzo a cera persa come
stuccature in sego, sapone e oli vegetali.
Le sculture presentavano molteplici strati di polveri
nere causate da particelle di idrocarburi; erano inoltre evidenti macchie grasse, oli e plastilina, macchie
di polvere di mattoni e colature di cemento.
Alcuni particolari erano parzialmente o totalmente
staccati dal modello; in alcuni modelli erano leggibili crepe, causate da dilatazioni o danni meccanici; minime parti di modellato erano mancanti.
Le armature in legno coese con tela juta e scagliola hanno necessitato di rinforzi e consolidamento.
Le parti di armatura metallica erano ossidate.
Le operazioni di restauro conservativo comprendono sostanzialmente i seguenti interventi:
- Pulitura a secco con asporto delle polveri.
- Verifica delle armature in legno e dei perni metallici.
- Consolidamento delle strutture lignee con paraloid e permetar (trattamento per insetti xilofagi).
- Innesto ulteriori strutture in legno ancorate alle
opere con l’impiego di viti, tela juta e gesso.
- Trattamento antiossidante dei perni metallici con
inibitore di corrosione fertan.
- Consolidamento con inserimento di primal nelle
fessure con l’impiego di siringhe.
- Ricostruzione sotto livello dei particolari mancanti con l’uso di scagliola.
- Esecuzione di microstuccature con stucco reversibile polyfilla.
- Asporto di macchie e polveri con l’impiego di
acetone, acetilacetone, alcool puro, white spirit.
- Le parti staccate sono state ricompattate con scagliola e perni in alluminio o ferro trattato con
antiossidanti.
- Asporto con bisturi e specilli di colature in
cemento e gesso, precedentemente ammorbidite
con microimpacchi.
La pulitura risulta soddisfacente, in quanto lo stato
polveroso non particolarmente aggressivo, è stato
assorbito solo in parte dai modelli in gesso.
167
Maestranze nel laboratorio Luciano (foto archivio Luciano)
Procedimenti tecnici e modalità operative
nella scultura italiana tra Otto e Novecento
RAFFAELE MONDAZZI
Alla fine del XIX secolo la produzione della scultura raggiunse in Italia i vertici
della raffinatezza tecnica, della specializzazione e della suddivisione del lavoro.
Questo era ripartito tra l’artista, che aveva il compito di ideare e progettare l’opera ed uno stuolo di artigiani addetti esclusivamente all’esecuzione: formatori, fonditori, marmisti di ogni livello, sino agli stuccatori, doratori, bronzisti e mosaicisti
che tanta (anonima) parte ebbero nella costruzione dell’aspetto monumentale
delle città, dei vivi e dei morti, nell’Italia unificata.
Alla fine del Rinascimento, con l’affermarsi delle figure carismatiche dei grandi Distinzione tra
artisti che, come scrive Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, trattavano alla il ruolo progettuale e
pari con papi, re ed imperatori, iniziò la diversificazione dei ruoli nel lavoro degli tecnico dello scultore
artisti.
Assurti finalmente al rango di intellettuali, godendo della collaborazione di stuoli
di artigiani sempre più specializzati, oberati da incarichi colossali che costituivano l’immagine del potere committente, gli scultori si riservarono sempre più, e sempre più esclusivamente, il ruolo di progettisti. Questo processo, che culminò tra
Otto e Novecento, prese a modello ciò che avevano compiuto i grandi architetti
umanisti del Quattrocento quando avevano separato, con la riscoperta della classicità, il ruolo dell’intellettuale ideatore da quello del costruttore materiale dell’edificio, ruoli che per tutto il Medioevo erano rimasti strettamente intrecciati.
Michelangelo, col suo furore creativo e l’ansia di liberare lo spirito dalla materia,
poteva avere qualche difficoltà a cedere il maneggio degli scalpelli a pur abili
mestieranti; non così Bernini, il quale si avvalse sempre di una schiera di tecnici
ai quali non disdegnò di affidare l’esecuzione materiale, ed in parte anche con
aspetti “artistici”, di opere di grande prestigio: è nota la collaborazione del Borromini al Baldacchino di S. Pietro, come quella di Jacopo Fancelli, Claude Adam,
Antonio Raggi e Francesco Baratta alla Fontana dei Fiumi di Piazza Navona o di
Ercole Ferrata all’Elefante della Minerva. I collaboratori del Bernini, italiani e
stranieri, formarono il corpo scelto degli artisti sei e settecenteschi e portarono il
verbo dell’arte barocca in tutta Europa.
L’artista che portò a compimento questo processo fu senza dubbio Antonio
Canova. Anche dei suoi seguaci e collaboratori è possibile dire che costituirono il
nucleo degli artisti neoclassici europei: si avvalsero della straordinaria preparazione tecnica e culturale che il lavorare col grande veneto implicava e, per un paio
di generazioni successive alla morte del maestro, si diedero a riempire le piazze,
le chiese, i cimiteri e le accademie di tutto l’Occidente e delle sue colonie di candidi marmi ed aulici bronzi squisitamente eseguiti.
Arriviamo all’epoca del nostro Rubino: il Romanticismo approfondì ulteriormente
il solco tra la figura dell’artista un po’ bohémien un po’ maledetto e quella dell’a-
169
bile e probo artigiano che, coperto di polvere, esegue fedelmente ciò che il creativo ha intuito ed, eventualmente, buttato giù in forma di schizzo o di modellino.
Fu infatti questa l’epoca in cui vennero valutati come “opere d’arte” quasi esclusivamente i bozzetti in creta di grandi artisti, a partire dallo stesso Canova: si
vedeva in essi il soffio dello spirito creatore mentre nella esecuzione in grande si
apprezzava meno la presenza della professionalità dei collaboratori. Questo non
toglie che sempre l’artista ideatore seguisse da vicino l’evolversi delle fasi costruttive dell’opera e che moltissime volte intervenisse di persona nelle parti più significative o d’effetto con il suo tocco personale. Alle volte è possibile distinguere la
traccia dell’intervento dell’artista in mezzo alle tracce del lavoro dei tecnici che
collaboravano professionalmente alla creazione di una scultura: soprattutto nelle
fasi di formatura, rifinitura dei gessi originali (forse perchè queste parti del lavoro avvenivano fisicamente nello studio dello scultore) ed in generale attorno a
tutto ciò che riguardava il presentarsi dell’opera allo sguardo del committente o,
semplicemente, di chi ne doveva godere, l’artista riservava a se stesso “l’ultima
mano”, come avrebbe detto Antonio Canova.
170
Ruolo dei
collaboratori
Non è da credere che, nonostante il non altissimo riconoscimento culturale, il creativo fosse minimamente tentato di non avvalersi dell’aiuto dei bravi tecnici: la natura
stessa delle committenze (in genere per opere di grandi dimensioni, da conservare in
luoghi pubblici ed in materiali durevoli) obbligava ad una suddivisione di tipo artigianale dei compiti esecutivi e ad una stretta osservanza dei ruoli.
La grande demarcazione era tra opere di natura lapidea (marmi, pietre e graniti)
e lavori in metallo fuso: prevalentemente bronzo, ma non sono infrequenti getti in
ghisa o addirittura alluminio (per esempio la cancellata di Piazzetta Reale e sculture di arredo di Villa Genero a Torino in ghisa, la fontana di Eros a Piccadilly
Circus in lega di alluminio; l’elenco dei bronzi monumentali potrebbe riempire
alcuni volumi).
Era compito fondamentale dell’artista avere l’idea, decidere il materiale definitivo, produrre una serie di disegni ed almeno un modellino tridimensionale (in
gesso o terracotta) in minima scala: al resto potevano pensare i laboratori specializzati. Vedremo come.
Produzione del
modello della
scultura: dal bozzetto
al gesso originale.
Creta e plastilina,
formatura, ingrandimento, scultura
diretta in gesso
Dopo aver fatto una serie di disegni che permettono all’artista di definire nella sua
mente l’immagine dell’opera, è indispensabile che questo inizi a operare in tre
dimensioni.
L’equivalente dello schizzo disegnato è il bozzetto in creta: normalmente in piccole dimensioni non abbisogna di armature metalliche di sostegno, è facilmente
modificabile e conserva fedelmente la traccia che il dito o la stecca imprimono per
definire la forma.
È possibile usare diversi tipi di creta: in genere quella toscana di Empoli o
Montelupo, a grana finissima e di colore grigio si presta ad una puntigliosa definizione dei particolari; sono comunque molto usate anche le argille giallastre,
contenenti molto ossido di ferro, di Castellamonte a grana grossa o di Bassano,
bianche.
La creta, umida e morbida, lasciata all’aria si asciuga indurendo un poco e ridu-
cendo il suo volume dell’otto o nove per cento e può essere cotta in un forno a
novecento gradi. Si ottiene in questo modo un bozzetto in terracotta.
Quando le dimensioni del bozzetto sono tali da richiedere, per evitare fenomeni di
schiacciamento sotto il proprio peso, l’utilizzo di un’armatura di ferro si pone il
problema della conservazione immediata e di quella a lungo termine del bozzetto
medesimo.
Per evitare il verificarsi di essiccazione
rapida, con conseguente riduzione di volume e formazione di crepe di ritiro venne
inventata, alla fine dell’Ottocento, la plastilina: si tratta di polvere di creta secca e
molto fine, mescolata con lanolina anziché
con acqua. La lanolina, derivante dalla
lavatura del vello ovino, non essicca, mantenendo per un tempo praticamente illimitato le caratteristiche di modellabilità che
caratterizzano la creta umida.
Esistono tutt’oggi, a ben oltre un secolo di
distanza dalla produzione, quantitativi
ingenti di plastilina perfettamente in grado
di essere utilizzati. Naturalmente la plastilina, come pure la creta quando contiene
armature in ferro o legno, non può essere
cotta: per una fedele e duratura conservazione della immagine del modello su cui
sia possibile lavorare (per ingrandimenti,
fusioni o altro) è necessaria l’operazione di
formatura in gesso che darà origine al
“modello originale” o al bozzetto da ingrandire, avvalendosi dell’opera del formatore.
A questo artigiano, che usualmente era
specializzato in modo esclusivo nel suo
lavoro, era affidata la traduzione da un
materiale estremamente suscettibile di variazioni, quale la creta fresca o la plastilina, ad un altro, quale il gesso, che poteva essere maneggiato con una certa disinvoltura, ed eventualmente ancora ritoccato dall’artista oltre che misurato, capovolto, copiato, formato ulteriormente, seminato di punti di riferimento: maltrattato, in
una parola, per poter dare origine alla versione definitiva in un altro materiale
considerato, in vista delle qualità intrinseche di bellezza, costo e durabilità nel
tempo, nobile e perenne.
La tecnologia era, ed è, relativamente semplice, pur richiedendo doti di precisione e capacità operative piuttosto raffinate.
Si tratta di mescolare gesso da presa (solfato di calcio anidro) con acqua sino ad
ottenere una pasta fluida che, spalmata sul modello in creta, indurisca nel giro di
171
Modello originale
del gruppo Il Giuramento
per il Monumento
al Carabiniere Reale
(foto archivio eredi Rubino)
qualche minuto prendendo fedelmente l’impronta della creta: tale negativo sarà
svuotato dall’argilla o dalla plastilina, lavato, insaponato e nuovamente riempito
con gesso fresco.
Una volta che questa seconda gettata abbia fatto presa si scalpella il negativo, che
non sarà appiccicato al getto in virtù del sapone pennellato in precedenza, ottenendo il gesso originale.
Se il lavoro è fatto bene la fedeltà con il modello in creta o plastilina è assoluta:
la presenza delle impronte digitali dello scultore testimonia in numerosi casi l’accuratezza del lavoro del formatore.
A questo punto, con il modello originale realizzato nelle misure della versione
definitiva, si pone l’alternativa tra la fusione in metallo o la traduzione in materiale lapideo. Se invece lo scultore, per varie ragioni, si è limitato a modellare un
bozzetto in scala ridotta, bisognerà procedere all’ingrandimento per ottenere il
gesso dal quale trarre il bronzo o il marmo.
Anche questa operazione può essere fatta da tecnici specializzati, non scultori.
In genere, alla fine dell’Ottocento ed ancora oggi, essa viene espletata da chi,
all’interno della fonderia artistica, si occupa della formatura a tasselli o in gomma,
naturalmente in accordo e sotto la supervisione dell’artista.
172
Il Laboratorio Luciano
a Querceta. Si rapportano
nel marmo con i compassi
le misure del modello
in scala ridotta
di un elemento decorativo
del Monumento a Mitre
a Buenos Aires
(Archivio Museo
dei Bozzetti, Pietrasanta)
Per l’ingrandimento ci si serve di un grande pantografo, dotato di due punte, o
spine (una delle quali prende le misure segnate da punti sul modello piccolo e l’altra le restituisce ingrandite), montato su un alto treppiede girevole. L’opera in
grande è costruita all’interno dei punti segnati dalla seconda spina, direttamente
in gesso, servendosi di armatura in ferro e legno, ricoperta da lastre e blocchetti
murati a guisa di un piccolo edificio. Gli interstizi vengono riempiti con gesso
della giusta consistenza e le eccedenze sono asportate scolpendo il gesso induri-
to come una pietra tenera (per esempio: cavalli di Rubino, modellino e gesso originale ingrandito).
Per questo lavoro esistono attrezzi costruiti appositamente, che hanno caratteristiche comuni agli attrezzi da muratore, da intagliatore in legno e da scultore in pietra, sapientemente mescolate sino ad ottenere utensili che rendano plasticamente
le qualità dei tessuti, del nudo, dei capelli, del pelame degli animali eccetera. E’
evidente che in questa fase la qualità del risultato sarà direttamente proporzionale all’abilità del tecnico ed al controllo che l’artista avrà avuto sullo svolgersi delle
operazioni. Si hanno numerosi esempi, nei gessi originali che hanno avuto la fortuna di sopravvivere sino a noi, di interventi praticati direttamente dagli scultori
che non si limitavano ad una semplice supervisione: rimangono tracce, nei gessi
dell’Ottocento e del Novecento che è possibile analizzare da vicino, di correzioni
e pentimenti, di lavorazione a volte meno “tecnica” ma sicuramente più fresca,
incisiva e diretta. Si possono vedere, ad esempio nell’opera di Rubino, tracce di
quella creatività che, sorretta dal mestiere, permette all’artista e alla sua opera un
avvicinamento all’idea di perfezione formale nella quale tutta la cultura e la
società del tempo si identificano. Che l’opera sia poi destinata ad un cimitero o
alla decorazione di un giardino o di una piazza, a celebrare le patrie glorie o i
meriti imprenditoriali di un capitano d’industria poco importa. La forma, studiata,
corretta e modificata in fasi successive sino al limite del sublime (sempre per dirla
con Canova) diviene specchio del pensiero dell’artista, del committente e di tutta
la cultura che la società nel suo insieme possa esprimere.
Una variante dell’ingrandimento in gesso è la scultura diretta, senza l’ausilio del
pantografo, in gesso: il procedimento è strettamente analogo a quello usato per
ingrandire, con la differenza che il lavoro del pantografo è sostenuto dall’occhio
dell’artista e dal suo senso delle proporzioni. In questo caso il tecnico aveva un
compito simile a quello di un muratore: preparava un’armatura, gettava lastre e
blocchi di gesso e li montava seguendo le indicazioni dello scultore. Molte volte
la figura del tecnico formatore era coincidente con quella di uno o più allievi:
poteva così essere permesso anche un intervento che definiremmo “artistico”. Lo
sfruttamento di qualità e capacità esulanti dallo stretto campo artigianale era visto
come un farsi le ossa direttamente su grandi opere ed era considerato un onore dal
discepolo ed una benevola concessione dal maestro.
Bisogna notare che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando
Rubino operò, sia la preparazione accademica degli scultori, ancorché in giovane
età, sia l’esperienza sul campo degli artigiani raggiunsero vertici assoluti. La stretta collaborazione tra il progettista-artista e gli esecutori-artigiani, con cospicue
interferenze gli uni nel lavoro degli altri e scambi frequenti di ruolo, portarono la
produzione delle opere d’arte ad un livello di qualità intrinseca delle opere e di
tutti i documenti delle fasi di passaggio da un materiale all’altro, per esempio
gessi, paragonabile a quello dei periodi di più grande fioritura artistica.
Si è ora giunti al bivio fondamentale: marmo o bronzo. Riassumendo, abbiamo visto
le fasi di progettazione riservate esclusivamente all’artista: disegni e piccoli bozzetti. L’intervento di un tecnico avviene solo nella fase di cottura in forno da ceramica o di formatura in gesso del modellino. L’ingrandimento di quest’ultimo prevede
una collaborazione tra l’artista ed il formatore. Ottenuto il modello originale in
173
grande si dovrà scegliere tra la fusione e la traduzione in marmo. In tale scelta raramente l’artista è completamente autonomo: dato che vi sono notevoli implicazioni
economiche chi commissiona l’opera ha la tendenza ad influenzare le scelte.
174
Produzione dell’opera
in bronzo. Forme
buone in gelatina e a
tasselli: getto in cera
nella forma buona,
taglio e finitura delle
cere, posizione di
colatoi e arie,
copertura, deceratura,
interramento, fusione,
leghe, finitura del
bronzo e riparazione
dei difetti di fusione,
assemblaggio
dei pezzi, patine,
posa in opera;
fusione a staffa;
procedimento per
elettrolisi.
Metalli diversi
La produzione di una scultura in bronzo segue procedimenti tecnici che nella
sostanza non sono mutati dalla fine del Neolitico: il bronzetto figurato più antico
che si conosca è la Danzatrice di Mohenjo-Daro, proveniente dalla valle dell’Indo
e risalente all’ottavo millennio A. C.
Questo bronzetto, alto dodici centimetri, è fuso in cera persa, esattamente come i
monumenti che troneggiano al centro delle nostre piazze.
Il procedimento è il seguente: bisogna ottenere un modello in cera delle dimensioni e dello spessore di cui si desidera il bronzo, lo si copre dentro e fuori di
materiale refrattario, lo si pone in un forno di deceratura che fonde la cera
lasciando un’intercapedine nella quale si getta il bronzo fuso. Una volta che questo sia raffreddato si rompe l’esterno della forma, si svuota l’interno della scultura e si rifinisce e patina la superficie. Detto così sembra facile ma anche in questa serie di operazioni deve avere spazio quel patrimonio di conoscenze e di
sapienza fabbrile senza cui anche la più semplice delle tecniche non produce
risultati.
Abbiamo dato per acquisito che il modello in cera fosse esistente nelle dimensioni del successivo getto in bronzo ed in realtà molte sculture antiche furono prodotte in questo modo: l’esempio più famoso è, in grazia della vivace, commovente narrazione che ne ha lasciato l’autore, il Perseo del Cellini: statua costruita in
argilla, cimatura di panno e sterco equino mescolati in misteriose proporzioni,
condotta un poco più magretta del bronzo definitivo, ricoperta di uno strato di cera
d’api che sarebbe stato poi sostituito dal bronzo, modellata anzi cesellata la cera
sino a conferirle l’aspetto definitivo, coperta di un negativo dello stesso materiale
dell’interno, decerata e tra vampe di fuoco urla strepiti e preghiere, fusa in un solo
colossale pezzo.
Questo modo di procedere si presta ad un rischio: se va male la fusione anche il
lavoro di scultura va irrimediabilmente perso. È per questo che dalla fine del
Rinascimento, nell’atelier fiorentino del Giambologna, venne messo a punto il
sistema ancora oggi usato: costruzione di un modello in gesso, di un negativo riutilizzabile dove poter gettare eventualmente più di una cera, e procedimento normale una volta ottenuta quest’ultima. In caso di necessità il getto di una nuova
cera comportava il rifacimento di tutte le operazioni di fonderia ma non il rimodellare la statua. Non era nemmeno esclusa la possibilità di avere più di un esemplare in bronzo della stessa scultura o di dettagli della medesima: bastava gettare in tutto o in parte altre copie in cera che, col solo lavoro di fonderia, moltiplicavano presenza ed introiti.
La forma in cui gettare le cere veniva chiamata, forse per questi motivi, forma
buona.
Tale negativo poteva essere realizzato in due modi: a tasselli o in gelatina.
Entrambi hanno la caratteristica di restituire perfettamente l’immagine dell’opera
(cosa che peraltro fa anche la forma persa) e soprattutto essere riutilizzabili. La
gelatina, sostanzialmente una colla animale molto densa, veniva utilizzata soprat-
tutto per oggetti di non grandissima dimensione o che presentassero superfici scabre e di particolare sensibilità di modellato. Per lavori di grande dimensione si
ricorreva alla formatura a tasselli: un blocchetto di gesso per ogni sottosquadro
ovvero rientranza del modellato che potesse trattenere o lacerare il getto in cera.
Il numero impressionante di tasselli poteva dare motivo di qualche confusione:
per tenerli insieme a costruire la forma generale della scultura venivano legati ad
una struttura che li comprendesse tutti e li mantenesse nella giusta reciproca relazione: la madreforma.
Storicamente si ha la certezza che le forme buone fossero usate già nell’antichità:
all’interno dei Cavalli di S. Marco sono chiaramente visibili le impronte delle dita
di coloro che hanno spalmato la cera morbida nella forma ancora aperta, segno
evidente che il modello è stato formato. Per i quattro Cavalli, che costituiscono un
gruppo decisamente fuori dell’ordinario nella scultura antica, sembra appurato
che i modelli originali fossero solo due: uno alza la zampa anteriore destra volgendo la testa a destra e l’altro la zampa sinistra volgendo la testa a sinistra.
Fondendone due esemplari per ciascuno e scambiando due teste si ottiene una
quadriga in cui le possibili combinazioni tra gesti delle zampe e volgersi della
testa sono differenti per ogni cavallo. La tecnica della formatura buona fu poi
dimenticata durante il Medioevo e conobbe grande diffusione dalla fine del
Cinquecento.
Abbiamo esempi anche più vicini a noi di copie plurime, con qualche variante, di
fusioni in bronzo: per esempio, il monumento al Cavaliere d’Italia di Pietro
Canonica a Torino usufruisce del cavallo dello zar Nicola II dello stesso Canonica
a Pietroburgo, con variazione della figura umana. Distrutta anche l’immagine dell’ultimo Romanov durante la Rivoluzione d’Ottobre (vengono alla mente immagini da film di Ejzenstejn) resta il mite equino subalpino a documentare glorie guerresche, virtuosismi accademici e abilità d’artigiani.
Naturalmente, se il progredire della tecnica non mutò la sostanza del lavoro dello
scultore e del fonditore, permise di apportare qualche variazione al modus operandi di costoro: non fu più necessario, ad esempio, cercare di fondere i pezzi in
bronzo quanto più grandi possibile: la saldatura ad ossigeno permise di suddividere le cere, e quindi i bronzi, in pezzi relativamente maneggevoli e poi di assemblarli con facilità, riducendo il rischio di difetti di fusione e semplificando il compito di chi poneva i colatoi e le uscite dell’aria. Il bronzo fuso, infatti, per quanto
pericoloso e spettacolare, si comporta come tutti i liquidi, riempiendo i vasi comunicanti allo stesso livello e lasciando zone vuote se l’aria, spinta dal bronzo, non
riesce a sfuggire dalla forma. Consegue da ciò che ogni sottosquadro accuratamente conservato in cera dalla formatura a tasselli o dalla gelatina deve, per essere
rivisto in bronzo, essere collegato ad un canale di entrata del bronzo e ad uno sfiato dell’aria che raggiunga l’esterno della forma refrattaria. Ne risulterà una gabbia
di tondini in bronzo che per essere rimossa darà non poco lavoro al cesellatore.
Questa nuova figura professionale ha molti punti in comune con lo scultore: si
occupa di restituire al bronzo grezzo di fonderia l’aspetto del modello originale in
gesso, che a questo scopo è conservato in officina. Lime, ceselli, scalpelli e punzoni delle più varie forme sono gli attrezzi utilizzati in questa fase. Non di rado per
un particolare lavoro viene costruito un particolare utensile.
175
176
Il Faro della Vittoria
Parco della Rimembranza
Torino
(foto Giorgio Stella)
Anche la riparazione di possibili difetti di fusione è compito del cesellatore.
Capita, infatti, che malgrado la sapienza tecnica e l’accuratezza nel lavoro, qualche bolla di gas rimanga imprigionata tra forma ed anima dando origine a lacune
nel modellato. Se la lacuna è di grandi dimensioni si rifonde il dettaglio mancante ripartendo dalla cera (ecco un’altra utilizzazione della forma buona), altrimenti si utilizza una lastretta di bronzo sagomata come il
buco ed incastrata nello stesso a ricostituire la continuità della superficie. Fino ai tempi della prima
guerra mondiale l’incastro era ottenuto limando i
bordi interni ed esterni della lacuna, facendo un
piano ribassato che potesse accogliere esattamente il
riempimento e fissando questo al resto della scultura
con perni ribattuti. L’avvento generalizzato della saldatura autogena ha enormemente semplificato le
cose, sino all’uso, risalente a qualche decennio fa,
della saldatura ad argon, che permette la ricostruzione diretta di grandi tratti di superficie.
Il passaggio dal rattoppo “alla romana”, coi bordi frastagliati per renderli meno visibili anche con incidenze di luce sfavorevoli, alla saldatura può essere
analizzato in Torino in due esempi di grandi dimensioni: i gruppi ai capi del ponte Umberto I, di
Reduzzi e Contratti, inaugurati nel 1911, presentano
riparazioni (poco) visibili eseguite col primo sistema,
mentre l’immensa statua della Vittoria di Rubino al
Parco della Rimembranza, inaugurata nel 1928, è
tenuta insieme dalle perfette saldature eseguite per
la prima volta su di una scultura (la quale, peraltro,
detiene il primato mondiale della grandezza tra quelle fuse in bronzo essendo alta m. 18,5). Un’altra particolarità di questa statua è il
tipo di lega: è memoria tramandata per tradizione tra i fonditori torinesi che essa
sia di una lega particolarmente tenera, ottenuta con l’aggiunta ai classici rame
(90%) e stagno (9%) di un poco di piombo ed escludendo totalmente lo zinco che,
indurendo il metallo lo renderebbe assai difficile da saldare e da rifinire.
A questo proposito occorre dire che lo zinco, assai meno costoso dello stagno,
entra sovente a far parte delle leghe metalliche utilizzate nella scultura: la purezza delle intenzioni non ne gode ma il metallo, diventato un po’ parente dell’ottone, corre meglio nella forma, non ingloba tanto gas dando origine a meno difetti
di fusione e, anche se da nudo ha un aspetto un po’ giallastro invece del bel rosa
carnicino del bronzo, costa decisamente meno.
La patina si incaricherà di coprire il colorito pallido.
Patine: argomento sterminato, che ha dato occasione a storici dell’arte e a critici
di versare fiumi d’inchiostro schierandosi a favore o contro l’uso di conferire alla
scultura, ormai finita per ciò che riguarda la tridimensionalità, anche un colore.
E’ pur vero che anche il metallo ha un suo colore, ma la possibilità di scegliere
tra rossi, bruni, verdi, blu, neri o bianchi o addirittura di mescolarli, o di conferi-
re un aspetto antico ad un oggetto di nuova produzione può ingenerare in chi deve
decidere o in chi deve comperare una qualche confusione.
Limitandosi all’aspetto tecnico si può dire che le patine si dividono in due grandi famiglie: quelle ottenute mediante reazione chimica di acidi o alcali sulla
superficie del bronzo riscaldato e le laccature, anche esse applicate a caldo ma
che sostanzialmente non alterano la struttura chimica della superficie del bronzo.
Appartengono alla prima famiglia tutte le patine verdi, brune e nerastre date su
statue conservate all’aperto: ossido di rame e solfuri di potassio o dello stesso
rame ne sono i componenti, ottenuti in officina nel giro di qualche giorno, ma che
comunque si presenterebbero come prodotto dell’azione degli agenti atmosferici.
Per i bronzi da conservare in ambiente riparato la scelta cromatica è pressoché
illimitata: oltre all’azione di acidi e sali metallici (ad esempio il nitrato di ferro
produce un magnifico rosso mattone, l’acido fosforico un blu piuttosto intenso, tra
gli alcali la soda caustica rende bianco il metallo ecc.) nel corso del tempo furono utilizzate le più svariate tecniche per dare al metallo pastosità e morbidezza,
per dirla col Vasari. La patina fiorentina ne è un esempio molto diffuso: il nero
trasparente che ricopre tanti bronzetti del Rinascimento era ottenuto dalla combustione dell’olio di lino pennellato direttamente sul metallo reso quasi incandescente. L’intensità del nero era direttamente proporzionale alla quantità di olio
bruciato incrostata sulla superficie. Governando sapientemente temperatura del
metallo e pennellature di olio di lino sono stati possibili i miracoli di vita e di freschezza creati nel periodo che va da Donatello a Giambologna, passando per il
Verrocchio e non dimenticando il buon Bertoldo. Credo comunque che, oltre alla
patina, anche le qualità degli scultori contribuissero un poco alla riuscita dell’insieme.
Un breve accenno al problema della posa in opera della scultura in bronzo: è un
argomento del quale si occupano oggi le ditte di trasporti, camionisti, gruisti o,
al limite, elicotteristi: non così sino a non molto tempo fa quando l’artista, nella
sua veste di uomo d’ingegno, doveva occuparsi di tutti gli aspetti concernenti il
suo lavoro, anche di quelli apparentemente più umili e di sola fatica. Non dimentichiamo che in epoche in cui il solo motore era la forza muscolare umana o animale anche il semplice spostamento o innalzamento di un peso richiedevano doti
non comuni di inventiva e di organizzazione. Era normale l’uso di grandi ponteggi in legno, imbracature di canapi e l’uso di demoltiplicatori del tipo dei bozzelli usati in marina. Sono rimasti famosi come esempi di applicazione d’intelligenza e creatività i ponteggi per la costruzione della cupola di S. Maria del Fiore del
Brunelleschi o utilizzati dall’amico-nemico Ghiberti quando quest’ultimo dovette issare, dopo avervi saldato la croce, il grande globo di rame sulla sommità
della lanterna.
Altre impalcature che hanno fatto storia: quella che portò David di Michelangelo
dal cantiere del Duomo alla Piazza della Signoria, facendo un giro lungo, per le
strade di Firenze trainata a braccia dai fiorentini esaltati dal simbolo della loro
libertà (tra le sassate di qualche oppositore); quella che lo stesso Michelangelo
progettò per affrescare la volta della Sistina senza interferire con le funzioni religiose (le antiche buche pontarie, per inciso, furono riutilizzate per i recenti
177
restauri) e, leggendaria, quella utilizzata da Domenico Fontana per trasportare ed
erigere l’obelisco di S. Pietro.
178
Esistono altri modi, oltre alla fusione in cera persa, per conferire una forma predeterminata al metallo: il più semplice consiste nel lasciare un’impronta del
modello in un tipo particolare di argilla, la bentonite, e di riempirla di metallo
fuso: è la fusione in staffa, che prende il nome dalle strutture in metallo che circoscrivono le forme in bentonite. Questo sistema non presenta una grande fedeltà
al modello perché rimane visibile l’impronta della grana del negativo, inoltre non
permette l’uscita dei sottosquadri: viene infatti usato solo per produrre bassorilievi che non abbiano pretese di grande qualità.
Nella seconda metà del XIX secolo venne messa a punto la possibilità di produrre statue col procedimento elettrolitico: si immergeva , dopo averlo saturato di
acqua per renderlo buon conduttore di elettricità, un negativo in gesso in una
vasca contenente metallo sciolto in acido e se ne collegavano le estremità a elettrodi positivo e negativo. Con una certa velocità le particelle di metallo si depositavano sulla superficie del gesso dando origine a pezzi totalmente esenti da difetti, di spessore assolutamente uniforme ed assai ridotto. Furono eseguiti in questo
modo i grandi gruppi che decorano la facciata e la cupola del Grand Palais di
Parigi. Attualmente questa tecnica è in disuso perché troppo costosa: richiede
infatti l’uso di quantità enormi di energia, oltre all’applicazione di una sapienza
tecnica fuori dell’ordinario.
Una tecnica recente che, al contrario, si sta affermando è la fusione a cera persa
in negativo ceramico. Fu messa a punto per la fusione delle turbine in acciaio
inossidabile dei motori a reazione, e sino alla preparazione delle cere è analoga al
vecchio sistema. La cera viene poi immersa in impasti ceramici di grana via via
più grossolana sciolti in alcol: l’alcol evapora rapidamente permettendo una cottura della forma e deceratura simultanee alla temperatura di 1000 gradi, dopodiché la forma stessa, senza essere interrata e priva di uscite dell’aria, viene riempita di metallo fuso. L’aria fuoriesce attraverso la porosità della forma, che non
supera il centimetro di spessore. Una volta raffreddato il bronzo il negativo è frantumato lasciando un getto che richiede assai poco lavoro di finitura.
Un breve cenno sull’uso di metalli diversi dal bronzo nella scultura: sino alla metà
dell’Ottocento la difficoltà di reperimento di materiali particolari o la impossibilità di raggiungere temperature atte alla fusione limitarono l’uso, per la statuaria
o per la produzione di oggetti artistici fusi quali ad esempio porte o fonti battesimali al rame e alle sue leghe.
Quando si verificò la possibilità di fondere negli altiforni il ferro composto col carbonio ci si rese conto che era possibile ottenere delle sculture a costi assai inferiori a quelli che il bronzo comporta.
Si ebbe così la presenza di cancellate, colonnati, vasi decorativi, fontanelle e anche
di vere e proprie statue in ghisa, ad arredare le città europee ed americane che proprio in quest’epoca conobbero una straordinaria espansione. Tutti questi arredi
venivano fusi in staffa e per riuscire a produrre sculture dotate di sottosquadri il
lavoro del fonditore raggiunse punte di perfezione e creatività inimmaginabili.
Altro materiale strano: l’alluminio. Rarissimo in natura nel suo aspetto metallico,
sino alla metà dell’Ottocento era più costoso dell’oro: Napoleone III se ne fece fare
un servizio da tavola e vi servì il banchetto con cui accolse Ismail, Kedivè
d’Egitto, in visita a Parigi per stipulare l’accordo per l’escavazione del canale di
Suez. Poi fu inventato il procedimento per estrarre il metallo dalla bauxite: il costo
dell’alluminio si abbassò e subito Alfred Gilbert, scultore vittoriano, si cimentò
con fontana e figura di Eros, nel centro di Londra. La fusione è stata condotta in
cera persa, avendo cura di non dover fare saldature che coi mezzi tecnici della fine
del XIX secolo erano impossibili.
L’altra scelta comune, oltre al bronzo, era il marmo. Si intende, col termine generico di marmo, quello bianco di Carrara, usatissimo senza interruzione sin dall’antichità per la realizzazione di opere di scultura, di architettura e di decorazione
architettonica. La qualità preferita per la scultura fu sempre quella che prese,
appunto, il nome di “statuario”: carbonato di calcio idrato, cristallino per metamorfismo, con aspetto saccariforme, candido al momento della cava ma recante
tracce di quarzite e di ossido di ferro che, con l’azione del tempo e dell’umidità
dell’aria conferiscono all’insieme dell’opera un aspetto ambrato, morbido e caldo.
Caratteristiche simili sono comuni ai marmi greci da scultura: pario, nassio e pentelico, con granulometria dei cristalli assai maggiore ed effetti di semitrasparenza
anche più marcati.
Il bacino marmifero delle Apuane, che viene genericamente indicato come “di
Carrara”, è in realtà un complesso di vallate e montagne che interessa anche il territorio di Massa, Querceta, Seravezza, Arni in Garfagnana e Pietrasanta. Le cave
situate nelle varie località offrono materiali con caratteristiche assai differenti per
ciò che concerne il colore, la durezza e quindi la lavorabilità, la purezza geologica con vistosi effetti sulla resistenza all’azione degli agenti atmosferici, la presenza di venature e difetti eccetera. Sino alla fine dell’Ottocento la produzione di
blocchi di misure superiori ai due o tre metri cubi fu da considerare del tutto eccezionale. Considerando poi che il peso specifico del marmo è di ventotto quintali il
metro cubo si comprende facilmente come siano divenuti leggendari blocchi di
“nove braccia” (cinque metri e trenta centimetri di altezza per un peso che si
stima superasse le settanta tonnellate) come quello da cui fu scolpito il David di
Michelangelo e che nel secolo precedente aveva provocato la morte per scoramento del buon Simone da Fiesole.
Per arrivare al lavoro di passaggio dal gesso originale al marmo, che avveniva in
laboratori attrezzati, molte volte siti tra Carrara e Pietrasanta ma che spesso coincidevano con gli atelier dei grandi artisti, era necessario un lungo e laborioso iter
che comprendeva il lavoro di molte figure professionali. La prima, in ordine di
tempo, era ed è tuttora quella del cavatore. Togliere dal ventre della montagna, a
forza di scalpelli e leve il sasso alpestro e duro fu sempre considerato un lavoro
durissimo e pericoloso ma ricco di fascino e di soddisfazione.
Quando ancora la figura del mercante di marmi non era completamente affermata
era compito dell’artista contrattare la fornitura del materiale da cui ricavare l’opera. Su diverse case di Pietrasanta esistono lapidi che ricordano la stipula di contratti colà avvenuta coi cavatori che avrebbero fornito il materiale per la esecuzio-
179
Produzione dell’opera
in marmo.
Punti “a repere”,
divisione del lavoro
(cava, trasporto,
scandaglio,
sgrossatura, scultura,
finitura, lucidatura,
posa in opera)
nella scultura lapidea
ne di opere che avrebbero segnato la storia dell’arte: i marmi per la tomba di
Giulio II e la Sagrestia Nuova di Michelangelo sono entrati, oltre che negli incubi notturni dell’autore, anche nell’arredo urbano della cittadina apuana.
Dopo essere stati estratti i blocchi erano riquadrati o sgrossati, secondo le esigenze, nei pressi della cava: gli sfridi di queste operazioni e della pulitura delle cave
180
Laboratorio Luciano a
Querceta
(Archivio Museo
dei Bozzetti, Pietrasanta)
hanno dato origine nei secoli a quei ravaneti che conferiscono un aspetto così particolare alle Alpi Apuane. Alleggeriti del superfluo erano lizzati, cioè varati su
rulli o slitte mentre erano trattenuti da grosse corde assicurate a pali conficcati
nella roccia, sino al piano. Qui, caricati su enormi carri di legno formati dai soli
assi e ruote, i marmi potevano fermarsi nei laboratori della Versilia o raggiungere
il luogo di destinazione per via d’acqua o trainati da buoi o bufali.
In laboratorio finalmente cominciavano le operazioni per la esecuzione dell’opera
d’arte: si era in presenza del modello originale in gesso, che il più delle volte era
nelle proporzioni definitive, e si poteva iniziare a ragionare in termini di scultura.
La prima operazione era, ed è, quella di scandaglio: si tratta di far stare tutta la
scultura dentro il blocco. E’ vero che per i Neoplatonici del Rinascimento le idee
erano già in nuce nella materia e, con Michelangelo, si trattava esclusivamente di
levare il soverchio per liberarle: sembra un’operazione di puro concetto ma l’uso di
compassi, fili a piombo, archipendoli, squadre e (oggi) puntatori laser ci assicura
che la vile materia obbliga alla fatica che per dar frutto unisce gli sforzi del braccio e della mente.
Dopo aver deciso come il gesso doveva situarsi in relazione al marmo si iniziava
a sgrossare: il lavoro era condotto da uomini (molto robusti) che con mazzette da
almeno due chili e subbie gigantesche, misurando continuamente con i compassi, toglievano il materiale sino ad una distanza di cinque - dieci centimetri
dalla superficie definitiva. Gli sgrossatori non si occupano di sottosquadri.
Una volta che l’abbozzo della scultura è giunto ad avere la stessa forma del modello aumentata di qualche centimetro entrano in scena gli scultori. La figura artigianale dello scultore non coincide, evidentemente, con lo scultore artista: quest’ultimo vede il suo compito esaurirsi al momento del progetto, mentre il primo si
Particolare della Tomba Lenti
(cat. n. 4)
occupa di “scolpire” (un tempo a mano, oggi servendosi di utensileria pneumatica) ciò che l’artista ha modellato in argilla ed è stato successivamente formato in
gesso. Per avere la certezza assoluta di essere fedeli al modello si usa il sistema
detto dei punti a repere. La sostanza è questa: si definisce una serie di punti sul
modello in gesso e si scava nel marmo sino al livello di profondità indicato per
ogni punto. Esiste per questo una macchinetta, costruita per la prima volta come
noi oggi la conosciamo da Antonio Canova, dotata di un braccio snodato e di una
spina scorrevole che indica con precisione assoluta la posizione dei punti scelti
sul modello in gesso all’interno del blocco di marmo. Il lavoro dell’artigiano scultore, alla fine, si limita a trovare dentro il blocco quanti più punti possibile e a
congiungerli con piani. Per questo sui modelli originali esiste una traccia a matita dei punti trovati nel marmo, oltre ai capi punti, costituiti da capocchie di chiodi, sui quali si è appoggiato il sostegno della macchinetta. Tutto ciò è perfettamente visibile, ad esempio, nei gessi conservati alla Gipsoteca Canoviana di Possagno,
ed in qualsiasi altro gesso originale che sia stato trasferito in marmo.
Un breve cenno sull’uso di acidi nella scultura in marmo: Schadow, lo scultore neoclassico autore, tra l’altro, della quadriga bronzea sulla Porta di Brandeburgo a
Berlino, si disse convinto che gli scultori antichi, per realizzare nel marmo certi arditi sottosquadri in posizioni particolarmente difficili, si servissero dell’azione corrosiva
delle sostanze acide, e descrive un esperimento da lui stesso compiuto. Protetta con
cera la superficie da non intaccare, messa la scultura in modo da poter ottenere una
181
pozza di acido nitrico, si opera una vera e propria morsura, del tipo di quelle praticate dagli incisori sulle lastre di metallo. Il marmo è sensibilissimo all’azione dell’acido
perciò questo in poco tempo raggiunge la profondità voluta. Per i sottosquadri è sufficiente ruotare nel senso desiderato il blocco e l’acido continuerà a corrodere parti che
in altro modo sarebbero difficilmente raggiungibili. Per bloccare l’azione basta lavare
accuratamente il tutto. Non so se la cosa sia del tutto praticabile ma il buon prussiano afferma di aver personalmente eseguito l’esperimento sul doppio ritratto delle principesse Luisa e Amalia, attualmente conservato al Museo di Berlino.
Dopo che gli scultori hanno finito di maltrattare il modello originale e di scolpire
il marmo entrano in funzione i finitori. Anche qui il plurale è d’obbligo, perché
ogni individuo ha (o aveva) una sua specializzazione particolare. Si tratta di togliere, mediante raspe ed abrasivi in polvere sempre più fini, meno di un millimetro
di marmo per conferire l’aspetto definitivo alla scultura. Pelle (maschile, femminile, di vecchio, di bambino), capelli, tessuti, fogliame, pelame e poi teste, mani,
piedi, occhi, orecchi, ogni possibile dettaglio poteva prevedere un artigiano che,
specializzato esclusivamente in quello, passava di laboratorio in laboratorio, di
studio in studio a tritare carbonato di calcio definendo particolari, qualificando
superfici, mimetizzando il materiale secondo i dettami della più rigida accademia.
Abbiamo le prove di tutto ciò nei nostri cimiteri monumentali, al centro delle
nostre piazze, nei proclami delle avanguardie storiche i cui esponenti non erano
precisamente innamorati di questo modo di lavorare e, sopravvissute, in qualche
laboratorio superstite collocato tra Carrara e Pietrasanta. Dopo la finitura solamente la lucidatura e la patina attendono il povero marmo prima della collocazione definitiva: dopo tutto quello che ha subito sinora un po’ di polvere di pomice,
di acido ossalico e, al limite, di urina di cavallo e cera non lo spaventeranno di
certo. Queste operazioni non di rado erano eseguite alla presenza dell’artista, il
quale in questo modo si metteva in pace la coscienza (professionale) e, con questa ultima mano determinava l’aspetto epidermico che la scultura avrebbe avuto.
182
Materiali accessori:
marmi colorati,
graniti - porfidi.
cemento - litocemento,
mosaici (in marmo o
vetro), dorature (a
foglia o a mercurio)
Di fianco al materiale principe per la scultura, il marmo bianco, da sempre fu utilizzata la grande famiglia dei marmi colorati. Presenti in quantità e qualità sostanzialmente illimitate nel bacino del Mediterraneo, furono usati da tutte le civiltà che
su tale mare si affacciarono sino dalla più remota antichità. In maggior parte per
decorazione architettonica ma anche per la realizzazione di sculture tout court vennero impiegate brecce, cipollini, calcefiri, marmi propriamente detti, alabastri ed
onici (provenienti in maggioranza dalla Grecia e dall’Asia Minore), calciti dure a
frattura concoide oltre a porfidi rossi e verdi, graniti, sieniti, dioriti, serpentini e
grovacche (dall’Egitto), arenarie, tufi, piroclastiti, lave, trachiti e basalti (da Italia
Francia e Spagna). La Roma imperiale, ed in seguito quella dei Papi, costituisce
un interessante, oltrechè estremamente sfarzoso, campionario geologico di tutto ciò
che di scolpibile, duro o tenero non importa, si poteva reperire tra Europa, Nord
Africa e Asia occidentale. Il campionario dei colori è ugualmente illimitato: fanno
fede i mosaici a tessere marmoree che coprirono i pavimenti delle residenze più
fastose della metà orientale del Mediterraneo, da Roma ad Antiochia di Siria, da
Nora in Sardegna ad Alessandria d’Egitto, da Aquileia ad Efeso.
Con la Rivoluzione Industriale anche le tecniche di produzione artistica, apparen-
temente legate alla tradizione in modo irreversibile, subirono delle innovazioni di
non poco conto. Per ciò che riguarda i materiali lapidei le principali furono: l’introduzione del filo elicoidale (un trefolo in acciaio, fatto girare da motori elettrici,
che mediante l’abrasione di sabbia silicea e acqua tagliava rapidamente grandi
superfici di roccia), del martello pneumatico (usato per la prima volta nel traforo
del Frejus, ma rapidamente adottato in tutte le cave e i laboratori del mondo) e,
più in generale, della meccanizzazione dei trasporti.
Fu così che, con l’affinarsi delle tecniche estrattive, le piazze d’Italia tornarono a
adornarsi di materiali che, per le loro caratteristiche di durezza, univano alla grande bellezza un costo piuttosto elevato otre ad una potente carica simbolica.
I graniti e i porfidi: sarcofaghi e simulacri di faraoni e imperatori, scavati con fatiche improbe e con attrezzature misteriose per durare in eterno furono il modello
archetipico al quale le dinastie (ed in seguito le dittature) europee si ispirarono.
Abbiamo così, in Italia, i monumenti destinati a perpetuare l’epopea risorgimentale che utilizzano materiali che per loro intrinseca qualità sono perpetui: i graniti rosati o bianchi dell’Ossola si ricollegano simbolicamente al rosso di Assuan,
(di cui sono fatti gli obelischi portati a Roma) e al grigio del Foro, proveniente
anch’esso dall’Egitto. Il porfido della Val Camonica, anche se non gode del bel
colore rosso porpora dal quale trae il nome, ma vira un poco al fegato o al bruno,
si apparenta metaforicamente alla porpora nella quale nascevano, vivevano ed
erano sepolti gli imperatori bizantini.
Istruite dallo sfarzo minerale delle dinastie regnanti sulle nazioni anche le dinastie borghesi che nell’Ottocento iniziarono a regnare sui sistemi produttivi pretesero che fossero loro costruite dimore, per questa e per l’altra vita, all’altezza del
censo che avevano raggiunto. I cimiteri monumentali delle città europee e americane ripetono in grande, ricco, eterogeneo e anche un po’ kitsch il campionario
che abbiamo già visto a Tebe, Costantinopoli e Roma. Sul piano tecnico, nonostante la motorizzazione e l’uso del filo elicoidale nei tagli, l’esecuzione di simili opere
era estremamente complessa e costosa: le operazioni di cava, in un materiale
molto più duro del marmo, comportavano fatiche e tempi enormemente dilatati.
L’applicazione in quantità commercialmente rilevanti di utensileria in carburo di
tungsteno (il widia: wie diamant) risale alla metà degli anni sessanta del
Novecento. Prima tutta la lavorazione delle pietre da taglio dure veniva eseguita
con la medesima attrezzatura che si usava per il marmo: l’acciaio temprato. Il consumo degli attrezzi era spaventoso. Ancora oggi i vecchi scalpellini raccontano
che per ogni due di loro che lavoravano il granito era operante un fabbro che continuamente rifaceva e temprava sulla forgia gli attrezzi che i due rompevano.
Simile è il discorso relativo alla finitura e lucidatura dei medesimi materiali: i
colonnati dei portici otto - novecenteschi delle nostre città, come le tombe monumentali o i saloni di rappresentanza di banche, poste o società idroelettriche, con
tutto il loro apparato iconografico non di rado pesante e macchinoso, sono il risultato di uno sforzo tecnico oggi quasi inconcepibile.
Una invenzione venne, verso la fine del secolo XIX, a facilitare la vita e a rendere più veloce il lavoro di chi doveva decorare in tre dimensioni architetture e
monumenti: il cemento.
183
184
Palazzina della Società
Promotrice delle Belle Arti
Torino
(foto Giorgio Stella)
Il cemento è un legante al quale vanno mescolati inerti in proporzioni variabili e
possiede la caratteristica di poter sopportare grandi compressioni e di non essere
solubile all’acqua. Queste caratteristiche gli hanno permesso di divenire il materiale da costruzione principale, dimenticando un poco che alle origini, tra la fine
del ‘700 e la prima metà dell’800 il suo uso era praticamente limitato alla produzione di opere d’arte. Esso partecipa,
infatti, delle caratteristiche migliori della pietra (resistenza
meccanica) e del gesso (si impasta e si
getta con relativa facilità) permettendo
di evitare il lungo
processo della scultura “per via di levare” il quale, benché
ricco di fascino e di
raffinatezza tecnica
e culturale, impone
dei costi incomparabilmente più elevati.
Della produzione cementizia tardo ottocentesca in campo
artistico abbiamo notevoli esempi in Torino: tra i tanti, le sculture di arredo della Villa Genero, la Fontana dei Mesi ed i
rilievi della palazzina della Promotrice al Valentino dello stesso Rubino. Queste
opere sono state eseguite come dei modelli originali: prima in creta, poi formati
“a forma persa”, quindi riempiti della mistura di cemento, polvere di marmo o
sabbia e graniglia di marmo o ghiaia di fiume a seconda del risultato voluto. Per
le parti che vanno ripetute, ad esempio le cornici, si esegue una forma buona su
un pezzo e si ripetono i getti ad libitum. Una volta sformato il modello è possibile una lavorazione ulteriore, come se si trattasse di rifinire una pietra tenera.
L’architetto torinese Cimbro Gelati mise a punto sul finire del secolo XIX una
serie di vere e proprie ricette per ottenere partiture decorative di grande effetto e
di costi contenuti. Tali materiali avevano in comune il legante e si differenziavano per la qualità, il colore e la granulometria degli inerti.
L’architetto Gelati li battezzò Litocemento: Ne abbiamo numerosi esempi nella
architettura torinese realizzata dall’Unità d’Italia in poi.
Quando il progetto del monumento prevedeva la presenza di colore non di rado si
ricorreva all’impiego del mosaico: assistiamo di nuovo all’uso simbolico dei materiali, per ricollegarsi all’idea di eterno e di imperituro dei mosaici romani e bizan-
tini. Il mosaico che possiamo vedere come integrazione cromatica nei monumenti
tra XIX e XX secolo è tecnicamente parente di questi ultimi: è infatti realizzato
generalmente in pasta vitrea. L’ottenimento di tali paste colorate prevede l’utilizzo di ossidi metallici, analoghi a quelli usati per verniciare le ceramiche, da
mescolare alla silice fusa per ottenere delle lastre colorate. Tali lastre sono poi
tagliate a piccoli dadi che costituiscono le tessere del mosaico. Per le
tessere dorate si utilizza un vetro
grezzo sul quale si stende una foglia
d’oro. Mentre lastra e foglia sono a
temperatura di fusione, sopra di esse
va applicata un’altra lastra sottilissima di vetro che, fondendo insieme al
resto, forma un corpo unico. Anche
questa lastra viene ridotta in tessere,
pronte per essere utilizzate.
Le tessere si incollano sul cartone
preparatorio con una colla leggera e
solubile in acqua. Sull’immagine
così ottenuta va incollata una tela di
sacco di dimensioni facilmente trasportabili, si leva il cartone e la
superficie libera che ne risulta si
applica all’intonaco fresco facendo
attenzione che le tessere penetrino
bene nella malta. Quando questa si
è indurita, con acqua calda si stacca
la tela di sacco, poi si stuccano gli
interstizi tra le tessere e il mosaico
inizia a risplendere.
Dorature: da sempre l’oro fu segno
di ricchezza e di potere. Dai tempi
della regina Hatshepsut si pensò
che fosse più economico ed ugualmente significante ricoprire d’oro un
oggetto di un altro materiale: fu così che il re assiro Asharaddon, che conquistò
l’Egitto una dozzina di secoli dopo l’epoca della buona regina, si arrabbiò non
poco, quando si accorse che gli obelischi di Karnak non erano altro che grossi
blocchi di granito ricoperti di una lamina di elettro (lega di oro e d’argento) e non
lingottoni massicci. Dal diciottesimo secolo a. C. ad oggi le tecniche di doratura
hanno subito pochi reali mutamenti. Il metodo più diffuso consiste nel produrre
una lamina d’oro quanto possibile sottile, martellando il nobile metallo tra due
fogli di cuoio, e poi applicarla sulla superficie da dorare cambiando la colla secondo il materiale sottostante.
La tecnica veramente rivoluzionaria, per quanto riservata alla doratura dei metal-
185
Modello originale in creta
de La Dora per la Fontana
dei Mesi
(foto archivio eredi Rubino)
186
li, fu inventata ai tempi dell’Impero Romano, ed è la doratura a mercurio. Questo
metallo ha la viva tendenza ad amalgamarsi con l’oro, che è sufficiente scaldare
ed avvicinare. Ottenuta l’amalgama, che è una pasta relativamente tenera, si scalda leggermente il metallo da dorare e si spalma il composto. In seguito un nuovo
riscaldamento farà evaporare il mercurio e rimanere l’oro sulla superficie. Sono
tutti i ripetuti riscaldamenti ad escludere da questo tipo di doratura i materiali
organici e lapidei. Bisogna poi segnalare che i vapori di mercurio sono tra i prodotti più velenosi che si possano ottenere così rapidamente e con relativa facilità:
se ne deduce che il sistema sanitario dell’antica Roma, la prevenzione degli infortuni e, forse, il sistema pensionistico non erano all’altezza di ciò che si produceva. Il monumento equestre di Marco Aurelio e la già citata quadriga di S. Marco
sono esempi di dorature miste: oro in foglia e spalmato a mercurio convivono per
conferire ai monumenti lo splendore che li caratterizza.
Nota generale sulla tecnica della scultura, scrita – con Giambologna – a la escoultorescho mal pratica nel escrivere, da Raffaele Mondazzi, 2005.*
* Giambologna: chiusa della lettera ad Antonio Serguidi segretario del Granduca di Toscana Francesco I de’
Medici, Firenze 1585 in Giambologna: gli dei, gli eroi, a cura di B. Paolozzi Strozzi e D. Zikos, Firenze,
Giunti, 2006.
Cronologia della vita e delle opere
di Edoardo Rubino
a cura di
ARMANDO AUDOLI e MONICA TOMIATO
187
1871
Nasce a Torino l’8 dicembre dal vercellese Eusebio Rubino e da Lucia Flogna. La
famiglia è di modesta condizione economica.
1886 -1889
Frequenta, presso l’Accademia Albertina, i corsi serali di Plastica ornamentale
tenuti da Luigi Belli.
1888 -1891
È ammesso al corso superiore di Scultura dell’Accademia, dove è allievo di
Odoardo Tabacchi. Segue con profitto i corsi, conseguendo già nel 1888 menzioni
per la Plastica ornamentale dalla fotografia e per il Disegno di figura; nel 1889 è
premiato nei concorsi interni di Scultura e di Plastica ornamentale e nel 1891
vince il concorso triennale istituito dalla fondazione Agodino per allievi intagliatori di legno.
1892
Espone un Gruppetto in bronzo e una Testina all’esposizione cinquantenaria di arte
moderna della Società Promotrice delle Belle Arti (aprile-luglio). Dichiara la propria residenza in via Accademia Albertina 4.
1894
Presenta Sera (terracotta), una Testina in bronzo e un Ritratto in gesso alla LIII
esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti.
1895
Espone una Testina in terracotta alla mostra annuale della Società Promotrice
delle Belle Arti di Torino.
1896
Si tiene a Torino la Prima Esposizione Triennale di Belle Arti. Rubino riproduce
ad acquaforte due delle opere in mostra: il dipinto Il Re Sole di Gaetano Previati
e il modello del Monumento sepolcrale a Sebastiano Grandis di Leonardo Bistolfi.
La rivista “La Triennale” pubblica entrambe le incisioni. La Promotrice acquista
la mezza figura in bronzo della Biondina.
1898
L’architetto Carlo Ceppi gli affida l’esecuzione del gruppo allegorico della Dora
per la Fontana dei mesi costruita al Valentino in occasione dell’Esposizione
189
Nazionale di Torino. In collaborazione con Cesare Biscarra modella anche la
Sirena al centro della vasca e i gruppi della Pace e della Guerra (non più in loco).
Entra a far parte della Società Amici dell’Arte ed è membro del comitato della
Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti. Realizza la lapide per Jeanne PoggioDien (1878-1898). All’Esposizione Nazionale di Torino presenta il busto femminile idealizzato Heroina.
190
1899
Trasferisce il suo studio dai prati di via Catania a via Montebello 21. Espone alla
Promotrice il busto in bronzo Costume di Gressoney, acquistato dal Museo Civico
torinese e partecipa all’Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia.
Realizza la cartolina ufficiale e la medaglia commemorativa dell’inaugurazione
del monumento a Vittorio Emanuele II a Torino. Esegue la medaglia offerta ad
Alberto Gamba per i quarantaquattro anni di insegnamento all’Accademia
Albertina.
1900
Realizza la copertina del volume Caricature di Teja, curato da Augusto Ferrero, e
inizia a lavorare alle illustrazioni del testo di Guido Rey intitolato Il monte Cervino
e pubblicato da Ulrico Hoepli nel 1904. Scolpisce il bassorilievo per la Tomba
Golzio al Cimitero Monumentale di Torino. Entra nel comitato direttivo del Circolo
degli Artisti di Torino, dove espone una Figurina in bronzo ed argento con orologio alla XLII esposizione della Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti. Esegue
un grande busto di Vittorio Emanuele III (appena salito al trono), gettato in bronzo dall’amico Corrado Betta.
1901
Ottiene l’incarico per l’esecuzione del Monumento a Casimiro Teja a Torino, inaugurato nel gennaio 1904. Conosce Auguste Rodin in visita a Torino. Inizia la collaborazione con la rivista romana “Novissima”, diretta da Edoardo De Fonseca.
Esegue la medaglia commemorativa del centenario della nascita di Vincenzo
Gioberti.
1902
Realizza i sei colossali gruppi decorativi della Danza per la Rotonda d’onore
dell’Esposizione Universale che si tiene a Torino nel 1902; modella anche due
statue raffiguranti La Pittura e La Scultura poste all’ingresso dell’Esposizione.
Benché fuori concorso le opere sono premiate con la medaglia d’oro. Alla mostra
Quadriennale della Promotrice presenta La giovinetta di Nazareth (Madonnina),
acquistata dal Museo Civico, e un Ritratto di Bambina (riprodotto sulla rivista
“Emporium”). È probabilmente in quest’anno che sposta lo studio in via Napione
41, dove rimarrà per una decina d’anni. Vince intanto il concorso per il monumento ad Umberto I ad Aosta. Esegue la placchetta per la Società Fotografica
Subalpina, «a ricordo de l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica». La
rivista “L’arte decorativa moderna” pubblica il bozzetto per il Monumento funebre
a Benedetto Brin (non realizzato). Esegue la placchetta commemorativa per l’ingegnere Leone Mariani e quella per lo scultore Davide Calandra.
1903
Presenta il bozzetto per il Monumento a Federico Sclopis; porta a termine il
Monumento a Umberto I per Aosta e la Tomba Bidasio nel Cimitero di Ivrea.
Espone alcune opere nella seconda mostra latinoamericana (Buenos-Aires,
Montevideo, Valparaiso) del collezionista e mercante mantovano Ferruccio Stefani:
la testina in marmo Gelosa, la coppa per il Concorso Ippico Internazionale (bronzo,
giugno 1902), Preghiera (bronzo), un reliquiario in bronzo argentato e quattro placchette in gesso. Su commissione dell’Associazione della Stampa Subalpina crea
una targa dedicata al tenore Francesco Tamagno, fusa in argento dal gioielliere torinese Musy. Esegue la placchetta offerta ad Alfonso Badini-Confalonieri. Sulle pagine del primo numero della seconda annata de “L’arte decorativa moderna” (p. 27)
Rubino è presente con un magnifico orologio in bronzo.
1904
Riceve la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia. Per il Cimitero Monumentale
scolpisce la lapide della Tomba Lenti. Realizza la placchette per la 300ª edizione del
libro Cuore di Edmondo De Amicis e per il giubileo scolastico di Camillo Bozzolo,
nonché la medaglia commemorativa del 5º centenario dell’Università di Torino.
Esegue il bassorilievo per un quadro fotografico dei laureandi ingegneri e dei laureandi in chimica. Nella quarta uscita della seconda annata de “L’arte decorativa
moderna” (p. 127) viene pubblicata una lampada elettrica in bronzo di Rubino.
1905
È inaugurato il Monumento Sclopis. All’Esposizione Biennale d’Arte di Venezia presenta il bassorilievo decorativo Fiamma, il modello della coppa per il Concorso
Ippico Internazionale di Torino (giugno 1902), la targhetta in argento Preghiera, la
medaglia in argento Ricordo e il modello di un’altra medaglia. Vittorio Pica ha parole di apprezzamento per Fiamma nel testo su L’arte mondiale alla VI Esposizione di
Venezia, mentre Enrico Thovez pubblica sul settimo numero della seconda annata de
“L’Arte decorativa moderna” un articolo dal titolo Placchette medaglie e monumenti di Edoardo Rubino. Sempre sullo stesso numero de “L’arte decorativa moderna”
viene riprodotta la statua mitologica di Igea, dedicata al professore d’igiene Icilio
Guareschi. Nel corso dell’anno si reca a Londra. Risalgono a quest’anno, inoltre, le
prime testimonianze epistolari superstiti del rapporto con Spirito Luciano, titolare (a
Querceta, in Versilia) dell’omonimo laboratorio, dove verranno tradotte in marmo le
più impegnative opere monumentali di Rubino. Il lungo sodalizio amicale e lavorativo con Luciano si suppone iniziato, con buona probabilità, già intorno al 1900.
1906
È membro del comitato per la commemorazione bicentenaria di Pietro Micca e del-
191
l’assedio di Torino del 1706. Per un salone della villa torinese dei conti Frigerio (di
origine veneta) realizza il rilievo per camino Ignem in sinu abscondas, fuso in bronzo. Esegue una medaglia in onore di Carlo Cipolla, coniata in occasione del trasferimento dello stesso, già da venticinque anni professore ordinario di storia moderna presso l’ateneo torinese, alla facoltà di lettere dell’Università di Firenze.
192
1907
Vince il concorso per il Monumento ad Alessandro Vittoria a Trento e termina il
bassorilievo Verso la Pace per la Tomba Boido al Cimitero Monumentale di Torino,
lodato da Emilio Ferrettini sulla “Gazzetta del Popolo” (1/11/1907, p. 4). Alla
Biennale di Venezia espone Driade, il bronzo Salome (fuso da Menzio) e il ritratto in bronzo della Signora C.A.B. Si reca per la prima volta a Roma assieme a
Davide Calandra, con il quale partecipa al concorso internazionale per l’esecuzione del Monumento al Generale Bartolomé Mitre. Esegue, su incarico del sindacato dei giornalisti torinesi, il piccolo ritratto a figura intera della violinista prodigio
Vivien Chartres. In una lettera del 30 gennaio, indirizzata a Spirito Luciano,
lamenta la morte dell’avvocato Mattirolo (definito «un grande amico e un padre»).
1908
Vince il concorso per il Monumento Mitre e a luglio si reca a Buenos Aires con
Calandra per definire i particolari dell’opera. Il 4 settembre riceve la nomina a
membro onorario dell’Academia de Bellas Artes di Buenos Aires. E. Ferrettini
scrive sulla “Gazzetta del Popolo” (1/11/1908, p. 4) che Rubino va compiendo
«continui progressi… che si riverberano anche nell’originalità della concezione»
delle nuove sculture eseguite per il Cimitero Monumentale di Torino (effigi di
Teresa Curione e Ida Alfieri).
1909
Comincia a lavorare al Monumento a Edmondo De Amicis e ai rilievi per la
Confetteria Baratti & Milano; il progetto di ristrutturazione dei locali è dell’architetto Giulio Casanova, collaboratore di Rubino anche in altre imprese decorative
portate a termine negli anni successivi, a partire dal nuovo Palazzo delle Poste di
Torino. A Trento si inaugura il Monumento ad Alessandro Vittoria.
1910
Espone alla Promotrice il calco della Vittoria alata per il Vittoriano di Roma.
Termina il bassorilievo per la Tomba Del Mastro al Cimitero Monumentale di
Torino e l’altorilievo bronzeo della Tomba Maggia nel Cimitero di Oropa.
1911
Ad aprile è inaugurato il Palazzo delle Poste: sono di Rubino le due statue femminili ai lati dell’ingresso principale e i sei bassorilievi con figure alate nell’atrio.
Per il Cimitero Monumentale realizza il gruppo bronzeo posto sulla Tomba
Girardi. Disegna la copertina per l’Amante ignoto di Amalia Guglielminetti. Per
l’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro crea una placca bronzea,
fusa in diverse misure e usata come diploma d’onore oppure come gran premio. È
membro del Consiglio direttivo del Museo Civico di Torino per la sezione d’Arte
Moderna nel biennio 1911-12.
1912
È membro della Commissione edilizia di Torino. Invia La consolatrice alla X
Esposizione Biennale d’Arte di Venezia. Per il Cimitero Monumentale di Torino
realizza le sculture delle tombe Remondini e Porcheddu; ad attirare l’attenzione
della critica è soprattutto quest’ultima. Sulla “Gazzetta del Popolo” (31/10/1912,
p. 5) Ferrettini loda la qualità dell’esecuzione e la delicata gestualità delle figure
che circondano la defunta. Paolo Cesare Rinaudo lo intervista per conto della rivista torinese “Il Prisma”. Realizza la lapide per il piccolo Alberto Treves De Bonfili
(25 giugno 1912 - 12 luglio 1912)
1913
È membro del Comitato Esecutivo della II Esposizione Internazionale Femminile
di Belle Arti. Presenta un bozzetto al concorso per il Monumento a don Bosco,
vinto da Gaetano Cellini. Realizza la medaglia commemorativa del 50° anniversario del Club Alpino Italiano e La Deposizione a bassorilievo per la Tomba Cridis.
Termina il monumento sepolcrale Rosetti (La famiglia) per il Cimitero
Monumentale di Milano, eseguito in collaborazione col Laboratorio Luciano; i
bombardamenti del 1943 hanno colpito gravemente la tomba, che non è stata
restaurata a nostra e futura memoria.
1914
Realizza la placchetta per la sezione torinese del Club Alpino Italiano. È eletto
Consigliere comunale nelle liste del partito liberale e torna a ricoprire, fino al 1921, la
carica di membro del Consiglio direttivo del Museo Civico di Torino per la sezione
d’Arte Moderna (nomina rinnovata negli anni 1925-27 e 1936-39). Comincia a lavorare alla decorazione plastica della facciata della nuova palazzina della Promotrice
delle Belle Arti di Torino, terminata nel 1916 e inaugurata il 1° ottobre del 1919.
1915
Termina il gruppo Credito e Beneficenza per il Palazzo dell’Energia elettrica di via
Bertola, a Torino, inaugurato nel 1928. Vittorio Emanuele III lo incarica di terminare il Monumento a Umberto I per Roma, rimasto incompiuto in seguito alla
morte di Davide Calandra (inaugurato nel 1926). Il 18 ottobre commemora la figura di Calandra in Consiglio comunale.
1916
Acquista la casa di via Asti 15-17, dove stabilisce definitivamente residenza e
studio. Entra a far parte dell’Associazione Pro Torino e del Consiglio del Comitato
Italo Americano. È nominato Presidente della Scuola Serale di Commercio.
193
1917
È professore aggiunto al corso di scultura di Cesare Zocchi all’Accademia
Albertina. Realizza, insieme a Giulio Casanova, il monumento funebre per
Carolina Invernizio al Cimitero Monumentale di Torino.
194
1919
È membro della commissione del concorso per la Fontana Angelica di Torino, vinto
da Giovanni Riva. Termina il gruppo marmoreo per la Tomba Gambaro al Cimitero
di Torino. Espone alla Promotrice il bronzo Ritratto di adolescente, un gesso preparatorio per la Tomba Rosetti di Milano e - nella sezione Arte cristiana - La pietà,
targa in bronzo, e un disegno raffigurante Cristo morto. È insegnante di Materie artistiche nella ex scuola di Architettura del Regio Politecnico (fino al 1921). Il 19
luglio riceve la nomina a membro della Reale Accademia di San Luca in Roma.
1920
È nominato Preside dell’Istituto Professionale Operaio, Vice presidente della Regia
Scuola Industriale e membro della Giunta di Vigilanza dell’Istituto tecnico
Sommeiller. Il 22 gennaio è nominato Accademico di merito per la classe di Scultura
dell’Accademia Ligustica di Belle Arti. Per la Confetteria Romana-Bass di Torino
realizza il bassorilievo bronzeo della facciata e una statuetta nello stesso materiale
per il banco interno.
1921
Espone tre ritratti femminili, tra cui quello di Maria Sciamengo Remmert, alla
prima Biennale d’Arte di Roma. È membro della commissione giudicatrice del
concorso per il monumento nel Piazzale della Vittoria sul monte Berico a Vicenza.
1923
Viene inaugurato il Monumento a De Amicis (terminato probabilmente già nel
1914). Ernesto Quadrone visita lo studio e accenna ai molti ritratti fatti «negli
ultimi tempi» da Rubino, che lavora «dieci ore al giorno e in letizia» dedicandosi alle figure del Monumento Mitre. Riceve la commissione per il Monumento ai
Caduti di Novi Ligure, inaugurato nel 1928.
1924
Il 20 marzo è nominato - senza concorso - titolare della cattedra di scultura e plastica della figura all’Accademia Albertina, incarico che ricoprirà fino al 1936. È
premiato con la medaglia d’oro alla Mostra del ritratto femminile di Monza. Alla
Promotrice di Torino espone Maschera di Medusa. È membro del Collegio dei
Probiviri della Promotrice. Termina il Monumento al generale José Maria Cabal per
la città di Buga, in Colombia. Esegue una medaglia in onore di Giovanni Agnelli.
1925
È incaricato dell’esecuzione del Monumento al Carabiniere a Torino. Fa parte del
Consiglio Direttivo della XV Biennale di Venezia e del comitato permanente per
l’organizzazione del Salone Internazionale di Arte fotografica di Torino.
1927
Si reca a Buenos Aires per l’inaugurazione del Monumento Mitre. Realizza la
medaglia commemorativa del 1° centenario della Cassa di Risparmio di Torino.
195
1928
Il 24 maggio viene inaugurato il Faro della Vittoria sul Colle della Maddalena a
Torino; un particolare in gesso è esposto alla Promotrice. Alla Biennale di Venezia
presenta la statua di Vittoria realizzata nel dopoguerra per il Palazzo delle Poste
di Torino. Termina il busto di Teofilo Rossi di Montelera collocato nei Giardini
Reali di Torino. Viene eletto Presidente del Circolo degli Artisti, ma mantiene la
carica per pochi mesi a causa dei numerosi impegni di lavoro. Il re Vittorio
Emanuele III visita il suo studio.
1929
Espone alla Promotrice un’effige del Principe di Piemonte.
1930
Realizza la figura della Tomba Chiesa al Cimitero Monumentale di Milano e la
lapide in memoria del Cardinale Gamba nel Duomo di Torino. Il Comune di Novi
Ligure lo insignisce della cittadinanza onoraria.
1931
Il 31 agosto sono inaugurati i due medaglioni marmorei con le effigi del Re Umberto
I e della Regina Margherita, posti nell’atrio dell’Ospedale Mauriziano di Torino.
Realizza la medaglia ufficiale delle nozze del Principe Umberto e Maria José.
1933
Il 9 dicembre è nominato Senatore; presta giuramento il 20 dicembre. Il 17 febbraio è nominato Accademico di merito corrispondente della “Pontificia insigne
Accademia dei virtuosi al Pantheon”. È chiamato a far parte della giuria del concorso per il Monumento al Duca d’Aosta. Termina i bassorilievi raffiguranti La
navicella degli Apostoli ed Elia rapito al cielo sul carro di fuoco per la nuova stazione ferroviaria della Città del Vaticano. Viene inaugurato il Monumento al
Carabiniere: Rubino realizza la medaglia commemorativa.
1934
Espone Il risveglio alla Biennale di Venezia. È membro della giuria del concorso
per il Monumento al Duca d’Aosta.
1937
Per la chiesa di S. Edoardo a Sèstrieres realizza su commissione della famiglia
Agnelli una Madonna Addolorata in marmo rosa di Gandolia e l’altare sormontato da un Cristo Crocifisso marmoreo. Sempre nel marmo esegue altre due grandi
statue di Cristo Crocifisso per le chiese di S. Pietro in Vincoli e di S. Aniceta a
Villar Perosa. È chiamato a far parte della commissione giudicatrice del concorso per le statue del Po e della Dora per via Roma, a Torino.
196
1938
Il marmo Il risveglio è esposto alla Promotrice. Comincia a lavorare alla Tomba di
Alice Schanzer per la cappella Galimberti a Cuneo (terminata nel 1940). Dovrebbe
risalire alla fine degli anni Trenta la commissione della statua equestre di
Mussolini (Il genio del fascismo) per la centrale idroelettrica di Ponte Gardena in
Trentino (distrutta). Lo scultore Rodolfo Castellana gli succede nella carica di
segretario interprovinciale per le Belle Arti del Piemonte.
1939
Il 17 aprile è nominato membro della Commissione dell’educazione nazionale e
della cultura popolare (fino al 5 agosto 1943) e della Commissione dei lavori pubblici e delle comunicazioni (fino al 28 gennaio 1940).
1940
Realizza per il cortile del Palazzo del Senato a Roma un’opera in marmo, La proclamazione dell’Impero, probabilmente distrutta nel dopoguerra. Il Toro in pietra
che simboleggia Torino è donato alla città di Tokio in occasione della visita della
Missione Giapponese. Vengono inaugurate due sculture per la chiesa torinese
della Gran Madre di Dio: il Sacro Cuore e il Cristo crocifisso.
1941
La Provincia di Torino acquista il busto femminile in bronzo esposto alla
Promotrice. Concepisce il Monumento a Pio XI (per il Palazzo delle Congregazioni
a Roma), realizzato in marmo da Emilio Buratti, continuatore, a Querceta, dell’attività del Laboratorio Luciano.
1942
La XXIII Esposizione Biennale di Venezia gli dedica una sala personale. Espone La
madre, Speranza, Ritratto di Eva, Ritratto di N.R.R., Ritratto d’uomo, Ritratto di B.A.,
Ritratto di C.R.M., Cavallo (bozzetto) e lo studio per il Toro. Realizza, in marmo, la statua di Edoardo Agnelli in costume da sciatore, ora presso il Museo Nazionale della
Montagna, a Torino. In una lettera, datata 10 novembre, accenna all’idea di un busto da
offrire in dono all’amico Luigi Frugone, collezionista e imprenditore genovese.
Rimandata a «momenti meno agitati», l’idea verrà ripresa dallo scultore a guerra finita.
1944
Il 15 ottobre, in via Carlo Alberto (quasi all’angolo della piazza omonima), viene
posta la lapide in ricordo del soggiorno torinese di Friedrich Nietzsche: all’inter-
no di essa figura un testo dettato dal critico teatrale de “La Stampa” Francesco
Bernardelli e un medaglione in bronzo con il ritratto del filosofo, eseguito da
Rubino. Termina la tomba di Luigi Frugone e Giuseppina Ferrari per il Cimitero
Monumentale di Staglieno, a Genova.
1945
Porta a termine il modello in gesso dell’Altare di San Giovanni Bosco.
1946
Il collezionista genovese Luigi Frugone esprime a Rubino «sentimenti di gratitudine e di lusinga» riguardo al «noto busto», riservandosi di ragionarci sopra in
occasione della prossima visita a Torino, per la quale prova «vero desiderio perché il nostro incontro mi ha sempre procurato piacere e soddisfazione».
1947
Termina il ritratto di Luigi Frugone. Esegue il rilievo della Tomba di Duccio
Galimberti nella cappella Galimberti alla Madonna degli Angeli di Cuneo e il
grande busto in marmo di Giovanni Agnelli per il palazzo di Torino Esposizioni.
1949
Entro l’anno termina il gruppo L’Energia domata per la centrale idroelettrica di
Glorenza in Trentino. In ottobre si reca a Rovereto per ammirare La Preda
(marmo) di Carlo Fait, opera che giudica «di grande interesse per l’energia di
espressione manifesta in tutte le sue parti, per i caratteri che la distinguono, per
lo studio anatomico che lo scultore ha saputo con tanta evidenza rendere, superando le moltissime difficoltà con una magistrale lavorazione».
1953
Realizza la decorazione plastica della Tomba Casari al Cimitero Monumentale di
Torino.
1954
Il 26 gennaio muore a Torino, stroncato da un’angina pectoris, mentre sta lavorando alla statua di Francesco Ruffini per il Palazzo dell’Università. Lascia incompiuto l’Altare del Sacro Cuore per il Duomo di Milano, tradotto in marmo dal bozzetto autografo dopo la sua morte. Vittorio Viale sceglie le opere legate al Museo
Civico torinese.
1958
A Ripa di Seravezza (in piazza Europa) si inaugura, postumo, il Monumento alla
Linea Gotica (tre statue in cemento: un uomo affiancato da due donne, su base in
travertino), realizzato in collaborazione con l’architetto Lorenzo Jacopi e con lo
scultore Abele Jacopi.
197
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L. Bocchietto, M. Coda e C. Gavazzi, L’altra Oropa. Guida al Cimitero Monumentale del Santuario, Oropa, Amministrazione Santuario di Oropa, 2006.
S. Berresford (a cura di), Carrara e il mercato della scultura 1870 -1935, 24 Ore
Motta Editore (strenna della Cassa di Risparmio di Carrara), 2007.
M. F. Giubilei e C. Olcese Spingardi (a cura di), Da Rodin a D’Annunzio: un
monumento ai Mille per Quarto, catalogo della mostra (Galleria d’Arte
Moderna, Genova), Firenze, Giunti, 2007.
A. Audoli (a cura di), Chimere. Miti, allegorie e simbolismi plastici da Bistolfi a
Martinazzi, catalogo della mostra (associazione culturale Weber & Weber),
Torino, Weber & Weber, 2008.
Finito di stampare
nel mese di luglio 2008
da SATE Industria Grafica
Ferrara