5. Il fenomeno ultras

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5. Il fenomeno ultras
Quaderni di sociologia – Calciopolitiche (2004)
Carlo Balestri e Gabriele Viganò
Il fenomeno ultras: origini, storia e sviluppi recenti di un mondo ribelle
Le origini
Il biennio 1968-69 porta con sé una spinta di radicale cambiamento e viene percepito, anche nel nostro
Paese, come autentico spartiacque dal quale i rapporti, le relazioni sociali nel loro complesso usciranno
mutate in modo sostanzialmente irreversibile.
Quanto accade in molte sfere del sociale e del politico si ripercuote anche nell’ambito del tifo sportivo. Sugli
spalti prende fisicamente corpo una rivolta dello stile, un rigetto degli standard comuni a vantaggio di modi e
forme di tifare anticonformiste e ribelli: nascono, così, proprio alla fine degli Anni Sessanta i primi gruppi
ultras1, dando inizio ad un processo che negli Anni Settanta si propaga rapidamente contagiando anche molte
città di provincia2.
Queste nuove forme aggregative si distinguono per alcune caratteristiche del tutto specifiche ed omogenee:
- il coinvolgimento di ragazzi molto giovani (mediamente dai 14 ai 18 anni e normalmente legati da un
preesistente rapporto amicale) che prendono possesso delle zone più popolari dello stadio (spesso si
tratta delle “curve”) e cominciano a seguire la propria squadra anche in trasferta in modo piuttosto
regolare;
- la ricerca di visibilità, protagonismo, identità che da un lato si esprime in un modello innovativo delle
pratiche del tifo, sia a livello collettivo (grandi striscioni con il nome del proprio gruppo, maxi-bandiere
e primi accenni di spettacoli coreografici, sostegno corale continuo con voce, tamburi, trombe, ecc.) sia a
livello individuale (look militante ed aggressivo con abbondante uso di gadgets della propria squadra,
quali sciarpe, cappelli, maglie, distintivi, ecc.), ma che dall’altro talvolta degenera in comportamenti
aggressivi o apertamente violenti;
- la contaminazione di tali idee con le esperienze politiche o pre-politiche del tempo per molti di questi
ragazzi, con due conseguenze principali:
1. la dimestichezza con i principi basilari dell’organizzazione ed il senso della militanza (talvolta anche
totalizzante) consentono al movimento di radicarsi prima e di crescere notevolmente poi, sia da un
punto di vista quantitativo sia qualitativo;
2. le etichette politico-ideologiche dei primi gruppi ultras spesso si rivelano decisive per determinare una
prima, complessa, rete di inimicizie e rivalità tra tifoserie che in pochi anni coinvolgerà l’intero
panorama nazionale del tifo.
Se è pur vero che la comparsa degli ultras nello scenario degli stadi italiani può essere intesa come una sorta
di evoluzione e rielaborazione di quella piccola-grande tradizione di tifo che si era affermata con i club
organizzati (nati, spesso su iniziativa delle stesse società calcistiche, nel corso degli Anni Sessanta), la stessa
radicalità del modello ultras alimentò e si alimentò sin dagli esordi di una continua ricerca di
differenziazione e di competizione:
- di differenziazione: anzitutto nei confronti del pubblico non ultras che, continuando a rivolgere
l’attenzione prevalentemente alla partita e non ai riti ed alle pratiche del tifo, spesso è considerato con
ostilità o estrema freddezza da parte di questi nuovi “supertifosi”;
- di competizione con i tifosi avversari: il tifo serve non solo per aiutare la propria squadra ad avere la
meglio sul campo (missione originaria), ma ben presto, quando la proliferazione dei gruppi ultras li
mette ripetutamente a confronto, diventa anche una perenne sfida tra opposte tifoserie, consumata non
solo sul piano dell’incitamento vocale o spettacolare ma talvolta anche su quello dell’intimidazione,
dell’aggressività e del confronto fisico tout court.
Le ricadute si hanno quindi, nel volgere di poco tempo, anche sul piano dell’ordine pubblico: l’indole
radicale di questi gruppi e la sistematicità delle occasioni di incontro tra tifoserie determinarono il delinearsi
di una violenza calcistica assai diversa da quella “tradizionale”, affatto sporadica negli anni passati. Gli
incidenti che si verificano dentro e, in un secondo tempo, soprattutto fuori degli stadi sono sempre meno
1
Nel 1968 la “Fossa dei Leoni” del Milan, nel 1969 i “Boys” dell’Inter, gli “Ultras” Sampdoria e gli “Ultras” del Toro.
Nascono nel 1971 le “Brigate Gialloblù” del Verona, nel 1972 gli “Ultrà” Napoli ed i “Boys” della Roma, nel 1973 gli “Ultras” della
Fiorentina e la “Fossa dei Grifoni” del Genoa, nel 1974 gli “Ultras” del Bologna, nel 1975 i “Fighters” della Juve, nel 1976 le “Brigate
Neroazzurre” Atalanta, ecc.
2
1
legati alle sorti sportive delle rispettive squadre (dunque in larga parte alla casualità) bensì spesso scatenati
da rivalità che si formano sul piano esclusivo del tifo (quindi in larga parte coscientemente autoalimentate).
Piccoli ultras crescono
Agli anni della genesi seguono quelli dell’apprendistato, durante i quali i primi gruppi ultras da un lato
assumono sempre più le caratteristiche di organizzazione stabile, capace non solo di “sopravvivere” ma
anche di radicarsi e di crescere, dall’altro diventano un costante punto di riferimento ed emulazione più o
meno in tutta Italia.
Durante gli Anni Ottanta il fenomeno assume effettivamente una dimensione nazionale e di massa,
contagiando le tifoserie delle squadre di categorie inferiori e mostrandosi capace di coinvolgere ogni
domenica migliaia di persone. Anche in altre discipline sportive, come ad esempio il basket, il modello ultras
prende piede in modo significativo.
Il livello di organizzazione interna ai gruppi diventa tale da rendere possibile un deciso miglioramento
dell’estetica del tifo ed una crescita numerica dei partecipanti alle trasferte; un’accurata attività di
autofinanziamento (produzione di materiale da stadio personalizzato con il nome ed il simbolo dei gruppi
ultras) inoltre fa diventare le curve delle piccole-grandi potenze economiche.
E’ verso la fine degli anni Ottanta che il fenomeno raggiunge il proprio apice, anche se questa crescita
impetuosa lascia intravedere non poche ombre e contraddizioni.
Il ricambio generazionale, in particolare, si manifesta tutt’altro che semplice: mentre una parte degli ultrà di
lungo corso si fanno da parte, alle curve si avvicinano sì molti giovanissimi, ma spesso con motivazioni
decisamente superficiali. In particolare appare evidente una diversa e più effimera percezione dell’identità e
dei legami di gruppo, mentre si palesa la ricerca di gloria e protagonismo individuale, senz’altro fortemente
influenzati dall’attenzione che i mass-media dedicano sistematicamente al fenomeno, anche se solitamente
solo per evidenziarne gli aspetti più negativi. Insomma, in questa fase di transizione generazionale fanno da
catalizzatore gli aspetti esteriori e ludici del modello ultrà: “ultras da tre ore”3, “…masse mal educate a valori
e ideali (…) abituate al suono più che al significato delle parole”4.
Il verificarsi con regolarità di incidenti anche molto gravi tra tifosi (tra il 1978 ed il 1989 si contano ben 5
vittime ed altri episodi di estrema gravità5) è anche conseguenza di questo panorama in contraddittorio
mutamento: gli incidenti, che ormai si verificano quasi esclusivamente fuori degli stadi, spesso sono frutto
non più di scontri gruppo-contro-gruppo (quelli che nell’immaginario collettivo degli ultras sono ricordati
come i tempi delle “sane scazzottate”) ma dell’iniziativa di piccoli gruppi di “cani sciolti”6, non controllati
né controllabili dai nuclei storici del tifo.
Proprio affrontando il tema del teppismo calcistico, il dibattito mediatico ha spesso equiparato l’ultras
nostrano all’hooligan inglese e nordeuropeo, con buona pace invece di una vasta letteratura scientifica che ne
sottolineava le profonde differenze7.
Un parallelismo tra i diversi fenomeni appare infatti profondamente problematico. In Inghilterra la passione
per questo spettacolo sportivo ha coinvolto, sino a tempi recenti, prevalentemente la working class8 e proprio
per queste origini e questo legame, come riferiscono gli studi condotti Inghilterra, il modello di football
hooliganism britannico si è manifestato come una sorta di estensione del tradizionale schema
comportamentale della rough working class.
3
A.Roversi, 1992 pag. 61.
Intervista ai “Viking” Juventus, Supertifo, Marzo 1991.
5
Nel 1978, prima del derby Roma-Lazio, muore Vincenzo Paparelli colpito da un razzo sparato dalla curva giallorossa; nel 1983 a
margine di scontri con la polizia dopo il derby Triestina-Udinese, muore Stefano Furlan; nel 1984 è accoltellato a morte Marco
Fonghessi nel dopo-partita di Milan-Cremonese; nel 1988 una rissa tra tifosi Interisti e Ascolani è fatale al marchigiano Nazareno
Filippini; nel 1989 muore Antonio De Falchi, romanista, colpito da una crisi cardiaca mentre veniva aggredito da ultras milanisti.
6
Questo è il nome, in gergo, dato ai giovani che non si riconoscono in nessuno dei gruppi presenti in curva e che, spesso senza
esperienza, si rendono protagonisti di azioni violente o atti vandalici gratuiti e pericolosi, senza considerare, né tantomeno conoscere,
la storia e le regole del movimento ultras.
4
7
Su questo argomento cfr. C. Balestri, A. Roversi, Gli ultras oggi. Declino o cambiamento?, in Polis (3/99), Bologna,
Il Mulino
8
Non a caso molte delle squadre inglesi rivelano una chiara origine operaia: ad esempio il West Ham (fondato da un gruppo di operai
del settore delle acciaierie), lo Sheffield United (nato per volere di alcuni artigiani che lavoravano i coltelli), il Manchester United
(costituitosi grazie alla volontà degli operai che costruivano la rete ferroviaria), ecc. Su questo argomento cfr, Taylor I.: ”Hooligans:
Soccer’s Resistance Movement”, New Society, 7 August 1969; pp. 204-6.
2
Il gruppo hooligan proviene solitamente dagli strati più bassi della società9, adotta quello che è stato definito
lo Stile Maschio Violento, aggregandosi per tifare durante la partita e per aggredire i tifosi avversari e rivela,
infine, mancanza di forme evolute e durevoli di coordinamento, di gestione e di promozione delle attività
legate al tifo.
In Italia, al contrario, il legame tra calcio e classe operaia è sin dalle origini molto più labile e la passione per
il calcio è sempre stata contraddistinta da una trasversalità socio-economica. Tale tendenza vale anche per il
gruppo ultrà che, pur rifacendosi sin dalle origini al modello/mito del tifo inglese sotto molti punti di vista, è,
nella sua composizione sociale, tendenzialmente interclassista con una rilevante presenza femminile al suo
interno.
Queste differenze non potevano che portare a due sistemi profondamente diversi, sia sul piano delle pratiche
del tifo, sia soprattutto nella definizione di un’identità/cultura specifica:
- il modello inglese, che contempla una serie di attività che esaltano il senso di gruppo ma che non implica
un particolare e durevole impegno extrapartita;
- il modello italiano, in cui il gruppo ultras è più proteso verso l'esterno ed è in grado di realizzare, grazie
ad articolate strutture organizzative, manifestazioni coreografiche di tifo che coinvolgono l'intera curva e
richiedono un forte impegno economico, di lavoro e di coordinamento.
Ne consegue che anche la stessa violenza si è rivelata avere un peso differente nei due modelli: se per gli
hooligans inglesi è il principale motivo di aggregazione ed unione, per gli ultras italiani, influenzati dalla
visione politica della violenza come strumento e non come fine, essa ha rappresentato solo una delle opzioni
del gruppo, come riconosciuto del resto anche dai più autorevoli studiosi italiani del fenomeno10.
Il gruppo ultrà italiano, dunque, affidava ed affida il proprio senso di comunità ed identità prioritariamente
ad altre attività, variamente in grado di assumere e trasmettere un proprio valore simbolico (quali, ad
esempio, l’organizzare coreografie e trasferte, l'autoproduzione di materiale da tifo e di propri strumenti di
comunicazione, il partecipare, da militante, alle riunioni organizzative infrasettimanali, ecc.).
Proprio in virtù di questa complessa natura associativa, il repertorio di norme non scritte che regolano e
controllano il comportamento dei membri del gruppo ultrà riguardo alla violenza non può esaurirsi in quanto
delineato da Marsh e colleghi nel libro The rules of disorder sui comportamenti degli hooligans inglesi.
Secondo un codice, non scritto ma conosciuto e riconosciuto11 nell’ambiente ultras, la violenza veniva
praticata non indistintamente, ma solo in determinati casi e contro gli omologhi gruppi di ultras considerati
nemici. Erano i componenti del direttivo (le persone che coordinavano e gestivano le attività del gruppo) che
decidevano se ed in che modo praticare violenza, mentre i più giovani potevano partecipare agli scontri solo
dopo aver fornito ampia prova di affidabilità, non solo nel campo militare ma anche in quello organizzativo.
Assolutamente proibito coinvolgere negli scontri persone estranee alla logica ultrà e compiere atti di
vandalismo gratuito (danneggiamenti a treni, autobus, auto, saccheggi di negozi ed autogrill, ecc.).
Allo stesso tempo, tuttavia, il meccanismo di autoriproduzione dei gruppi ultras italiani ha presentato alcuni
tratti comuni al modello hooligan. Anche per quanto riguarda gli ultras infatti lo stadio ha sempre
rappresentato la tappa conclusiva di un processo di socializzazione alla vita di gruppo che, seppur nato e
consolidato altrove – sede del club, ritrovi di quartiere, bar, compagnie di amici, centri giovanili, gruppi
politici – aveva innegabilmente ed inevitabilmente il suo punto culminante nello stadio. Anche in Italia,
quindi, la curva (ed ancor prima i football ends inglesi) diventava luogo e momento di apprendimento, da
parte del giovane, di quella "grammatica etico normativa"12 consistente nel mostrare doti di affidabilità,
coraggio, solidarietà e durezza, grazie alle quali il giovane alla fine era considerato uno del gruppo. Spesso,
anzi, questo passaggio era propedeutico ad arrivare a far parte, a pieno titolo, della vita di curva e del gruppo
ultras.
La cultura ultras dei gruppi storici, dunque, è stata per lungo tempo innegabilmente una cultura forte, capace
di trasformare la curva in un territorio in cui, al di là della provenienza sociale, delle motivazioni e degli
stimoli soggettivi, dei differenti stili di vita, valevano per tutti i giovani tifosi le medesime regole e norme.
Ed è stata una cultura che da un lato ha dato al movimento ultras italiano tutte le caratteristiche di un
microcosmo autosufficiente e totalizzante - capace di integrare emotivamente ogni membro nel proprio
9
Studi recenti hanno comunque dato dei risultati diversi, dai quali emerge un allargamento della base sociale degli hooligans. Cfr
Kerr J.H., Understanding Soccer Hooliganism; Open Univerity Press, Buckingham, 1994 e Armstrong G., Football Hooligans; Berg,
Oxford, 1998.
10
“L’attività degli ultrà italiani […] è deviante solo in modo marginale” (Dal Lago - Moscati, 1992: 82).
11
“L’etica del combattente” (Dal Lago - Moscati, 1992: 92).
12
A. Salvini: Il rito aggressivo, Giunti, Firenze, 1988; pag.141.
3
ruolo, nei propri doveri e nel senso di appartenenza ad una dimensione collettiva – e dall’altro ha imposto per
diversi anni una sorta di monopolio all'uso ed alle pratiche della violenza.
E’ sul finire degli Anni Ottanta che, come si è visto, questo scenario entra in profonda crisi e le stesse
dinamiche violente assumono forme e significati diversi.
Nonostante la crescente militarizzazione degli stadi ed i primi interventi legislativi speciali13, a cavallo tra gli
anni Ottanta e Novanta si assiste in Italia ad una escalation degli episodi di violenza, quasi ovunque molto
cruenti anche a causa della dilagante abitudine ad usare armi di vario genere (bastoni, catene, razzi, armi da
taglio, ecc.). Gli episodi più frequenti e più gravi evidenziano i tratti di una violenza per certi versi anomica,
fine a se’ stessa, praticata spesso individualmente o in piccoli gruppi e talvolta anteposta alle stesse pratiche
del tifo: insomma una violenza completamente diversa da quella tradizionalmente teorizzata e praticata dai
Gruppi Storici14. Questi ultimi, anzi, dovettero talvolta fare i conti con un’applicazione delle “leggi
speciali”tesa soprattutto a decapitare i loro vertici, uscendone ancor più indeboliti ed incapaci di essere
efficaci nella loro azione di gestione di quel “disordine regolamentato” che da sempre aveva contraddistinto
l’agire ultras.
I sintomi della crisi del modello ultras prima maniera possono essere colti anche nel fatto che, pur con
accenti diversi, alcuni importanti gruppi optano proprio in questo periodo per lo scioglimento: è il caso ad
esempio delle Brigate Gialloblù Verona nel 1991, della Fossa Lariana Como nel 1992 e soprattutto della
Fossa dei Grifoni Genoa nel 1993, pur dopo un’esaltante stagione negli stadi di mezza Europa.
Anche senza arrivare ad esiti così clamorosi, comunque, non era raro che le difficoltà del momento venissero
esternate a più riprese dagli ultras stessi: al di là del buono o cattivo stato di salute dei singoli gruppi,
emergeva una riflessione complessiva sul movimento, sulle contraddizioni e sulle prospettive future15.
Gli ultimi anni
E’ nel 1995 che arriva una potente scossa, a risvegliare un po’ tutti da una sorta di inerzia o rassegnazione
collettiva: il 29 gennaio 1995, infatti, prima della partita Genoa-Milan viene accoltellato a morte un giovane
tifoso rossoblù, Vincenzo “Claudio” Spagnolo detto “Spagna”.
Colpisce non solo il tragico gesto in se’, ma le modalità che hanno condotto ad esiti tanto gravi. L’omicida è
un ragazzo di soli 18 anni, Simone Barbaglia, che da qualche mese frequenta la curva rossonera e che si è
recato a Genova insieme a circa altre 70 persone delle cosiddette “Brigate 2”. Gli esponenti di questo nuovo
gruppo, frutto di una scissione interna alle “Brigate Rossonere”, uno dei gruppi storici della curva milanista,
pianificano un’azione spettacolare per farsi conoscere e rispettare sia all'interno della curva milanista che
fuori, coinvolgendo anche i ragazzi più giovani (quelli che, come Barbaglia, erano conosciuti come “Gruppo
Barbour", per via della caratteristica giacca di moda tra molti giovani italiani) desiderosi di entrare a pieno
titolo in queste nuove, rampanti “Brigate 2”.
La trasferta viene quindi preparata nei minimi dettagli: in perfetta emulazione dello stile “casual” inglese16,
infatti, il gruppo non arriva a Genova con il treno speciale degli ultras ma su un normale treno di linea, tutti
senza le sciarpe della propria squadra per non essere riconosciuti da polizia ed avversari, ed in molti armati
di coltello perché decisi ad attaccare i Genoani. Anche la scelta dell’obiettivo non è casuale: una tifoseria,
quella genoana, che non solo era riconosciuta come “tosta”, ma che aveva interrotto in malo modo il
13
La Legge n° 401 del 1989 è il primo provvedimento ad hoc emanato per contrastare la violenza dei tifosi. Nella formulazione
originaria, che negli anni verrà ulteriormente modificata in senso repressivo, la novità più rilevante era rappresentata dell’interdizione
ai luoghi delle manifestazioni sportive di persone ritenute responsabili di atti definiti genericamente violenti (è la c.d. “diffida”).
14
Lo spirito di questi nuovi gruppi o gruppetti, basato sul culto della durezza e su un’organizzazione paramilitare, prepara il terreno
ad un fertile inserimento anche di atteggiamenti razzisti e xenofobi.
15
Il pensiero dell’Onda d’Urto Fiorentina: “Il movimento ultrà, lo dico con molta tristezza, se continuerà su questo percorso finirà in
un tunnel senza uscita e potrebbe addirittura morire. E’ una sensazione condivisa e generalizzata in altre curve che come noi
intravedono un tramonto del fenomeno ultrà. Sembra di essere in un’altra dimensione, troppo lontana da quella che ha dominato gli
ultimi venti anni” (“Ondata viola”, Supertifo, Maggio 1993).
L’opinione della Fossa dei Leoni del Milan: “Come premessa bisogna dire che in qualsiasi tipo di contesto un allargamento delle
dimensioni del fenomeno genera una caduta di qualità, soprattutto in questo campo, cioè l’ultras, dove il fenomeno è vissuto su
matrici di moda, di esteriorità, facendo perdere quell’essenza spesso barattata con una concezione numerica. Da ciò ne deriva un calo
a livello qualitativo, come etica di comportamenti, come gestione nella sua integrità. Adesso per esempio si vedono delle coreografie
faraoniche che nel passato non si vedevano, ma è un dato oggettivo che il peggioramento e l’impoverimento dei valori del
movimento ultras non è compensabile con il guadagno o la popolarità in termini di immagine” (“La Sud in paradiso – La Fossa”,
Supertifo, Giugno 1993).
16
In Inghilterra, quando la repressione della polizia si fece progressivamente più soffocante ed efficace, molti gruppi di holigans per
non essere individuati e controllati abbandonarono ogni look aggressivo o militante (in particolare quello dello skinhead) e le prassi
delle trasferte organizzate, optando invece per spostamenti autonomi (auto, treni di linea) ed un abbigliamento normale (talvolta
anche griffato) senza simboli e colori calcistici.
4
1991/92
1992/93
1993/94
1994/95
1995/96
1996/97
1997/98
1998/99
124
43,06
75
26,04
39
106
46,29
64
27,95
34
106
45,11
72
30,64
18
71
40,34
48
27,28
20
79
35,75
68
30,77
38
93
38,91
63
26,36
44
126
36,95
84
24,63
72
117
35,03
95
28,45
58
Fonte: Centro Nazionale Studi di Polizia in Marinelli – Pili, 1999.
13,54
14,85
7,66
11,36
17,19
18,41
21,11
17,36
38
14
21
17
17
25
42
40
13,19
6,11
8,93
9,66
7,69
10,46
12,32
11,99
%
Altri
%
Terna
arbitrale
%
Giocatori
o dirigenti
%
Forze
dell’ordine
%
Tifosi
avversari
gemellaggio che li univa agli stessi rossoneri. Giunti nel capoluogo ligure i rossoneri arrivano indisturbati
sotto la Gradinata Nord, quella dei tifosi di casa, li provocano per attirarne l’attenzione e poi scatenano la
rissa che, purtroppo, ha esiti fatali. Vincenzo Spagnolo affronta gli avversari a mani nude, secondo la logica
ultras, ma viene colpito da una coltellata in pieno petto e muore poco dopo in ospedale, mentre gli aggressori
fuggono nel settore ospite unendosi al resto della tifoseria. Quando viene diffusa la notizia si scatena la
rabbia degli ultras genoani, che prima obbligano l’arbitro a sospendere la partita e poi assediano fino a tarda
notte i tifosi rossoneri chiusi nel loro settore, ingaggiando una violenta guerriglia con le Forze dell’ordine
fuori lo stadio.
Sono tre in particolare le conseguenze di quella tragica domenica: la sospensione di tutte le competizioni
sportive la domenica successiva; un ulteriore inasprimento delle normative antiviolenza, mentre la terza
investe dall’interno il mondo ultrà.
Sette giorni dopo la morte di Vincenzo Spagnolo, infatti, su iniziativa dei leaders delle due tifoserie di
Genova (Genoa e Sampdoria), viene organizzato un raduno nazionale tra ultras. Decidono di incontrarsi per
riflettere - sul loro mondo, sui cambiamenti che ne avevano stravolto la fisionomia - nel tentativo di porre dei
limiti alla violenza e di ridisegnare delle regole per un mondo che sembrava non averne più.
A Genova giungono i leaders di quasi tutti i gruppi d'Italia e, pur esplicitandosi in quella giornata anche le
contraddizioni e le profonde differenze interne al movimento, l'incontro produce un risultato importante: un
comunicato sottoscritto dalla maggior parte dei presenti dal titolo "Basta lame basta infami". Nel documento
si può leggere, tra l'altro: "Basta con questi ultras che ultras non sono, che cercano proprio a spese del mondo
ultras di fare notizia, di diventare grandi ignorando il male fatto (come in questo caso irreparabile). Basta con
la moda dei 20 contro 2 o delle molotov e dei coltelli".
Questo comunicato, di fatto un vero e proprio appello ad essere ultrà secondo certe regole, viene ferocemente
criticato dalla maggior parte dell'opinione pubblica, dai giornali e dalle forze politiche italiane. Il documento
manifesta un preoccupato, seppur tardivo, riconoscimento della crisi in atto all'interno del mondo ultras e
contiene una severa autocritica per non aver compreso per tempo che l'escalation di quella violenza anomica
veniva a minare le fondamenta stesse del movimento, eppure quasi nessuno, dall’esterno, coglie l'importanza
di questi elementi di novità.
Gli effetti del raduno di Genova sono stati, in ordine al rispetto dei codici comportamentali,
complessivamente positivi: quantomeno negli anni immediatamente successivi la maggior parte dei gruppi si
è attenuta alle indicazioni del documento (alcuni sono arrivati persino a sconfessare la violenza come metodo
lecito d'azione), mentre altri gruppi, più o meno velatamente, non hanno condiviso e non hanno accettato il
divieto di usare armi. In generale, comunque, gli atti di violenza sono diminuiti, così come i feriti da arma da
taglio (che nella maggior parte dei casi continuano ad essere vittime dei cosiddetti "cani sciolti").
Al ridimensionarsi, in percentuale sul totale annuale, degli episodi di violenza tra tifosi fa da contraltare
invece il costante incremento degli incidenti che coinvolgono ultras e forze dell'Ordine.
La seguente tabella evidenzia come sono ripartiti in termini assoluti e percentuali gli incidenti da stadio verificatisi
dal campionato 1991/92 al 1998/99 .
12
11
18
20
19
14
17
24
4,17
4,80
7,66
11,36
8,6
5,86
4,99
7,17
A questi vanno aggiunti i dati più recenti diramati ogni anno dal Ministero degli interni. Sono dati non
completi e non omogenei tra loro perché di anno in anno i consulenti del Ministero cambiano i parametri
nella valutazione degli incidenti. Possono comunque aiutarci nella nostra riflessione. I dati del Ministero
rilevano, infatti, come nel corso del campionato 2000/2001 vi siano stati 176 incidenti con feriti a fronte dei
5
127 incidenti della stagione 2001/02 (- 26%) ed un aumento degli incidenti nel corso del 2002/03 (+ 28%)
tale da riportarci allo stesso livello di due anni prima. Significativo il dato registrato nelle prime 20 giornate
del campionato 2002/03 che attesta come ben il 43% degli incidenti avvenga tra ultras e Forze dell’Ordine in
assenza di gruppi ultras rivali. Altro dato interessante è quello relativo al numero di uomini impiegati dalle
Forze dell’Ordine ogni domenica dentro e attorno agli stadi: nel 1994, secondo i dati forniti dal Centro Studi
di Polizia, vi erano 5.500 uomini impiegati; nel 2002, a fronte di un notevole calo degli spettatori, il numero
è quasi raddoppiato e si contano 10.300 uomini ad assicurare l’ordine pubblico.
Questi dati, accompagnati da una forte azione repressiva anche a livello legislativo attuata negli ultimi anni –
nel 2000 i provvedimenti che vietavano l’allestimento di treni speciali per tifosi e la vendita dei biglietti per i
tifosi ospiti il giorno della partita; nel 2001 la normativa contro i cosiddetti “striscioni violenti”17 ed i cori
razzisti o pseudo-tali; sempre nel 2001 la legge nr. 377 che ha incrementato le pene per i cosiddetti reati da
stadio (diffida per un massimo di tre anni, eventuale obbligo di firma, ecc.) ed introdotto nuovi divieti; nel
2003 la Legge Pisano ha ulteriormente inasprito le pene, introdotto l’arresto in quasi-flagranza di reato ed
addirittura previsto l’arresto da tre a diciotto mesi per il semplice possesso di materiale pirotecnico di ogni
tipo (compresi gli inoffensivi fumogeni) – evidenziano come una maggior militarizzazione degli stadi e una
azione legislativa sempre più punitiva non siano stati il migliore antidoto contro la violenza negli stadi. La
violenza negli stadi negli ultimi anni non è diminuita considerevolmente e non è aumentata; si è solo
trasformata, è diventata sempre più violenza del ribelle che si sente braccato ed emarginato, è diventata
violenza contro le “Istituzioni repressive” che allo stadio sono rappresentate dalle Forze dell’Ordine (un
esempio eclatante in questo senso è rappresentato dal recente episodio di Avellino-Napoli dove un tifoso
napoletano, in circostanze non del tutto ancora chiarite, ha perso la vita cadendo da un’ altezza di 10 metri, e
un centinaio di tifosi partenopei hanno sfogato la loro ira dando la caccia ai pochi poliziotti presenti).
Forse, per limitare il fenomeno della violenza negli stadi sarebbe ora che anche in Italia si seguissero altre
strade, alternative a quelle repressive. Forse una presenza più discreta e meno visibile delle Forze
dell’Ordine, così come è ormai prassi consolidata in molti paesi del Nord Europa, contribuirebbe a rendere
meno teso e pesante il clima che si respira invece oggi intorno ad uno stadio.
Forse, invece di varare ulteriori ed inutili leggi ultra repressive, bisognerebbe affiancare alle misure punitive,
misure di carattere sociale, non volte a reprimere e controllare, ma capaci di valorizzare le energie positive
presenti nel mondo delle curve e di lavorare sulla mediazione dei conflitti (come è ormai consuetudine fare
in altri ambiti del sociale).
Ma torniamo più direttamente ad occuparci, non tanto di violenza, ma di ciò che più ha caratterizzato in
questi ultimi anni il mondo ultras.
Dopo il raduno di Genova nel 1995, che ha rappresentato un vero punto di svolta per gli ultras, si sono
ripetute negli anni successivi occasioni di dialogo, confronto ed iniziativa comune tra gruppi ultras, spesso
incentrate sul problema della repressione. Dal 1998, in particolare, grazie anche all'attività del Progetto Ultrà,
tali iniziative attorno a temi ultras sono diventate pratica comune per un numero sempre più ampio di gruppi,
affrontando in particolare le questioni dei diritti dei tifosi e la difesa della cultura popolare del tifo di fronte
all'avanzata dell'industria calcio18.
E’ in atto quindi da alcuni anni il tentativo dei tifosi di riproporsi, con più forza, come una vera e propria
agenzia di socializzazione che non ha come unico obiettivo quello di praticare violenza. Anche da questo
punto di vista, oltre che per le profonde ragioni solidaristiche che da sempre animano il mondo ultras, si
spiegano le tante iniziative benefiche organizzate dalle e nelle curve negli ultimi anni (dall'iniziativa
nazionale di sostegno al Telefono Azzurro, agli aiuti umanitari per l'ex Jugoslavia, passando per una miriade
di iniziative locali).
Tale ricerca di incontro e di confronto interno al movimento ultrà è finalizzata, dunque, a difendersi dalle
degenerazioni violente interne, ma anche a fare quadrato contro un’opinione pubblica che considera gli ultrà
unicamente come feroci criminali ed un apparato istituzionale che ha ulteriormente affilato le armi della
repressione. Negli ultimi anni, inoltre, stanno assumendo sempre più importanza le iniziative di protesta nei
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Causa scatenante fu l’esposizione dello striscione “Onore alla Tigre Arkan” da parte dei sostenitori romani, a ricordo del
nazionalista serbo (ex-capo ultrà della Stella Rossa Belgrado e criminale di guerra nel conflitto che aveva dilaniato la ex-Yugoslavia
(Lazio-Bari del 30/1/2000).
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Nel 1998 fu intrapresa la prima azione di protesta comune e coordinata contro le Leggi repressive e la loro applicazione
eccessivamente discrezionale: molte tifoserie esposero uno striscione con scritto “Liberò cittadino? No, ultras!”. L’iniziativa si è
ripetuta in forme analoghe nel 2000 (striscione “Leggi speciali: oggi per gli ultrà, domani per tutta la città!”) e nel 2003 (striscione
“A voi i soldi a noi la repressione!”)
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confronti di un’industria calcistica che tende a sottrarre significato all’essere tifoso per relegare il
frequentatore dello stadio al ruolo di semplice consumatore dell’evento sportivo.
Sembra quasi un paradosso, ma proprio nel momento di maggior debolezza interna, i gruppi ultrà si sono
scoperti capaci di trovare punti di contatto e di azione comune tra loro. Ecco così che l’essere ultrà viene
anche a connotarsi, ed è questa forse la novità più interessante anche dal punto di vista culturale, per
l’appartenenza ad un movimento quasi di resistenza, che lotta contro il tentativo di imborghesire il fenomeno
del tifo calcistico e di distruggerne quella cultura popolare di cui gli ultrà, in Italia, si sentono i legittimi
depositari.
Dunque gli ultras hanno continuato ad incontrarsi, dimostrando che nonostante le profonde differenze ed i
contrasti - ed aldilà delle appartenenze di classe sociale ed anagrafica, del background culturale e politico –
si è fatta largamente strada una consapevolezza nuova: che esiste, per tutti i gruppi, un’unità di fondo e di
grado più alto rispetto alle differenze che li dividono. Di più: all’opzione dei raduni ultras, pratica ormai
collaudata che prevede la partecipazione di piccole delegazioni di ogni tifoseria, il maturare convinto di
questo sentimento di appartenenza e comunanza “oltre i colori” ha persino spinto il Movimento Ultras19 a
ipotizzare vere e proprie manifestazioni di piazza a sostegno delle proprie battaglie e rivendicazioni. Dopo
che un primo tentativo era stato realizzato nella primavera del 2002 a Brescia, per iniziativa degli ultras
locali, per buona parte della stagione sportiva 2002/2003 si sono succedute riunioni preparatorie per una vera
e propria manifestazione nazionale. Originariamente fissata per il 4 aprile 2003 a Roma, la manifestazione ha
avuto un brusco rallentamento nei giorni immediatamente precedenti20 ed alla fine ha visto una discreta
presenza numerica di tifosi, ma in rappresentanza di uno spettro relativamente contenuto di gruppi.
Ben diversa è stata invece la partecipazione alla Manifestazione nazionale svoltasi il 22 giugno a Milano, alla
quale hanno aderito ben 72 diversi gruppi ultras (alcuni anche stranieri). Nonostante il caldo torrido, il
capoluogo lombardo ha visto sfilare circa 5000 persone, determinate a fare sentire con forza ma anche con
compostezza la propria voce contro repressione, calcio moderno e pay-tv. Uno sforzo ed un risultato
certamente notevoli, quand’anche le note vicende estive abbiano dimostrato che i vertici del calcio e delle
istituzioni non hanno nessuna intenzione di invertire la marcia.
Proprio il caos legato ai ripescaggi della serie B ha offerto l’occasione infine per una duplice manifestazione
di protesta nelle scorse settimane. La prima il 29 agosto sotto la sede milanese della Lega Calcio, dove in
numero stavolta più contenuto (anche per puntare su un effetto-sorpresa) si sono ancora ritrovate tifoserie tra
loro storicamente rivali ma accomunate dalle stesse parole d’ordine e dalla stessa indignazione contro il
“Palazzo”. La seconda, durante la partita Italia-Galles disputata a settembre a S.Siro, quando in più settori
dello stadio sono stati esposti diversi striscioni di protesta, ottenendo una discreta visibilità mediatica.
La stagione da poco iniziata ci chiama pertanto a verificare cosa accadrà prossimamente, sotto vari aspetti:
- se a Movimento Ultras aderiranno anche quelle tifoserie o gruppi che fino ad ora, per diverse ragioni,
hanno preferito non partecipare;
- se questi ripetuti incontri tra ultras, con corollario di amicizie e rispetto reciproci, abbasseranno anche il
livello di conflittualità tra tifoserie;
- se lo stesso Movimento Ultras riuscirà a costruire, dopo la fase della protesta, una piattaforma
rivendicativa capace di dare una prospettiva di rinascita “dal basso” ad un sistema-calcio apparso nel più
totale sbando e degrado etico-normativo;
- se il mondo ultras sarà in grado di coinvolgere, processo che passa inevitabilmente attraverso un
continuo processo di crescita e di assunzione di responsabilità, altre e più ampie schiere di tifosi ed
appassionati, quantomeno quanti regolarmente ancora preferiscono il “freddo gradino” dello stadio ai
comfort della pay-tv.
.
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Dal 2002 si è creato un vero e proprio coordinamento nazionale che si è dato questo nome.
A causa di sopravvenuti dissidi di carattere organizzativo tra gli ultras laziali e buona parte degli altri gruppi aderenti
a Movimento Ultras.
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La seguente bibliografia si propone di offrire al lettore un ampio panorama dei lavori
pubblicati in Italia sull’argomento.
Bibliografia:
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