Breve profilo dellʼestetica di Cesare Brandi

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Breve profilo dellʼestetica di Cesare Brandi
Breve profilo dellʼestetica di Cesare Brandi
di Paolo DʼAngelo
Quando nel 1945 uscì la prima edizione del Carmine o della pittura di Brandi il quasi
ottantenne Croce fu il primo a recensirla, e non fu parco di elogi, riconoscendo in essa
un'opera “da raccomandare agli studiosi di teoria dell'arte così per le molte cose giuste e
calzanti che dice come per lo spirito che l'anima”. Queste lodi, tuttavia, erano funzionali a
un'interpretazione che si sforzava di ridurre la teoria di Brandi a una semplice variazione
sui temi consueti del crocianesimo: Croce metteva in luce i meriti dell'autore, ma al
contempo cercava di ricondurlo nell'orbita dei propri pensieri, di farne un discepolo e un
continuatore. L'annessione crociana ci appare oggi certamente spiegabile, ma non
condivisibile. Di fatto, anche se Brandi parla sempre con molto rispetto di Croce, ed evita
di criticarlo esplicitamente, l'estetica brandiana non è affatto appiattita su quella del grande
predecessore, e si configura piuttosto come la prima estetica post-crociana che sia
apparsa in Italia, se con questo termine si indica non tanto una relazione cronologica, ma
un atteggiamento mentale che, senza rifiutare di giovarsi di alcuni risultati crociani, pure si
muove su linee proprie e si avvale di nuovi strumenti di ricerca.
Anche se all'epoca della pubblicazione del primo testo brandiano di estetica non era
facile avvedersene, mentre lo sarebbe stato sempre di più man mano che uscivano i saggi
successivi del ciclo sulle arti (Arcadio o della scultura ed Eliante o dell'architettura
apparvero in un unico volume nel 1956, il Celso o della poesia fu stampato l'anno
seguente), gli autori ai quali Brandi faceva riferimento non erano nomi ovvi nel panorama
italiano di quegli anni: in primo luogo Sartre, Husserl e Heidegger, ma poi soprattutto Kant,
sottoposto a una rilettura destinata a rivelarsi tra le più originali e produttive. In seguito, nel
descrivere la natura delle proprie ricerche, Brandi utilizzerà il termine “Fenomenologia”,
parlerà della sua prima opera come di una “Fenomenologia della creazione artistica”. Egli
giungeva però alla fenomenologia per vie sue proprie, che non derivavano direttamente da
Husserl ma a Husserl risalivano attraverso Sartre e Heidegger. La sua era una
fenomenologia della creazione, dunque orientata verso la genesi, almeno ideale,
dell'opera. Se Croce, attraverso lʼaffermazione dellʼidentità di intuizione ed espressione,
vedeva nell'opera essenzialmente una riuscita, e non una ricerca, e dunque muoveva
dall'espressione compiuta, Brandi scioglie l'identità di intuizione ed espressione e
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scandisce le tappe del processo artistico nelle due fasi (la prima antecedente alla
seconda) della costituzione d'oggetto e della formulazione d'immagine, con ciò rimettendo
in movimento, dalla parte della produzione dell'opera, la fissità della teoria di Croce. Così
gli riusciva anche di recuperare il problema del rapporto tra immagine artistica e realtà
esterna, troppo frettolosamente accantonato da Croce, senza imbattersi nella vieta
soluzione che fa riferimento alla teoria dellʼimitazione. L'artista opera sull'immagine
dell'oggetto una scelta, un'accentuazione di alcuni aspetti a danno di altri. Dove noi
vediamo degli oggetti d'uso, definiti dalla loro funzione, egli percepirà dei rapporti spaziali
(la profondità di un paiolo, la sporgenza di una tavola), o luminosi (il brillare diverso del
metallo e della terracotta, il colore spento del legno); il rapporto con l'esistenza rimane
nell'immagine solo come residua sostanza conoscitiva, ma non impedisce lʼinvestitura
simbolica operata dalla selezione dell'artista. È sempre all'opera, in questa fase della
creazione artistica, una dialettica tra positività e negatività, nel senso che si può andare da
un'arte in cui è massima la presenza di dati conoscitivi, a una che riduce e cancella quasi
del tutto questi dati stessi, pur senza arrivare mai ad annullarli.
Se nel discorrere di costituzione d'oggetto Brandi muoveva da un ripensamento di alcuni
snodi decisivi della pittura moderna, dal simbolismo al cubismo, come è confermato del
resto dal fatto che la messa a punto della nuova terminologia avvenne nel transito tra due
successive stesure di un saggio dedicato a Morandi, la distinzione di una fase di
formulazione dʼimmagine, quella in cui l'opera si fa esterna e si traduce in linee, volumi,
colori, serviva all'autore per prendere le distanze da una teoria, la Pura Visibilità di Konrad
Fiedler, dalla quale pure aveva tratto per certi versi alimento. Brandi si rifiutava infatti di
identificare lo stile con una serie di procedimenti isolabili esclusivamente dal secondo
momento della genesi artistica (la formulazione dʼimmagine), e mirava a sottolineare come
costituzione e formulazione entrino del pari a definire quello che chiamiamo stile di un
artista. Brandi si apparecchiava gli strumenti per una lettura rigorosamente formale, ma
non formalistica dell'opera, scoprendo nello stile un modo di conoscere le cose, non un
semplice ricettario desumibile dai caratteri dell'opera formulata.
Illustrando il cammino che l'artista percorre, Brandi ha sempre cura di mettere in
luce come egli agisca estraendo l'immagine dal contesto pratico e affettivo in cui essa si
trova, rescindendo i legami che l'avvincono agli altri aspetti dell'esperienza. L'oggetto è
come retrocesso dalla vita. ʻCostituire lʼoggettoʼ significa isolarlo dalla serie temporale in
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cui si iscrive, dallo spazio di cui fa parte, ridurlo ad apparenza, considerarlo al di fuori della
connessione diretta con l'esistente. Per questo processo Brandi utilizza il termine
fenomenologico di 'Riduzione', che trae da Husserl e che fa transitare, in accordo del resto
con alcuni accenni husserliani in materia di estetica, dalla sfera teoretica a quella estetica.
Costituire lʼoggetto significa sottoporlo a un'epoché: “la realtà o, se preferisci, l'esistenza
dell'oggetto è come messa fra parentesi”. Di fronte a una natura morta di Caravaggio, o a
un mostro dipinto da Bosch si ha un senso vivissimo di Realtà, non però di Esistenza, e
l'arte potrà essere designata come Realtà Pura.
“La coscienza, che è intuizione e
intelletto, può andare anche oltre e depurare interamente la realtà dall'esistenza, porre
cioè una realtà che non sia, come nell'incubo, una realtà che possiede ancora un carattere
esistenziale, ma sia realtà solo se sicuramente, ineccepibilmente priva di esistenza”. In
questa determinazione dell'arte come realtà pura agiscono certamente delle componenti di
gusto, che vanno nel senso di una sacralizzazione dellʼarte; ma si sbaglierebbe ad
accentuarne la portata sul piano teorico generale, ove sarà meglio attenersi al significato
funzionale della nozione di realtà pura. Brandi non vuole fondare una religione artistica,
quanto piuttosto sorprendere il luogo proprio dell'arte nel cammino della coscienza, e
questo si vedrà sempre più chiaramente negli sviluppi successivi.
Già il Carmine non può essere interpretato, nonostante le apparenze, come la teoria di
un'arte determinata, la pittura; sebbene da essa tragga i suoi esempi, e sebbene nella
prima edizione fosse accompagnato da due saggi applicativi su Duccio e Picasso, esso è
in realtà unʼestetica filosofica, che non si dirige a questo o quel territorio artistico ma
piuttosto si sforza di comprendere la funzione dellʼattività artistica in genere. Ma se questo
è vero, i dialoghi successivi, intitolati alla scultura, all'architettura, alla poesia (Brandi ne
progettò anche altri due, rispettivamente per la musica e il teatro, che però non scrisse)
non andranno interpretati come estensioni o applicazioni della teoria prima stabilita. Brandi
non applica la teoria del Carmine alle altre arti, ma piuttosto ripensa l'intera sua teoria in
occasione di problemi determinati, risalendo da ogni nuovo contesto all'orizzonte teorico
generale.
Lo sforzo di approfondimento e riorganizzazione è massimo nel dialogo più esoterico di
Brandi, quello dedicato alla poesia, il Celso. Qui la distanza da Croce è già prima facie
notevole, perché Brandi rifiuta l'identificazione di linguaggio e arte ( “la sintesi estetica? La
sintesi estetica per chiamare un taxi?”), riconosce la sua natura comunicativa, ed è pronto
ad ammettere la preponderanza, in esso, di elementi schiettamente intellettuali. La parola
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è restia a produrre l'immagine, e perché questo avvenga è necessario “un urto, uno scarto,
onde [la coscienza] si stacchi dal corso pacifico della banalità quotidiana, dall'attitudine
pratica e intellettiva, per risalire alla sede prima della conoscenza”. Che nella parola possa
darsi la possibilità di evolvere da un lato verso il concetto empirico, privilegiando la
sostanza conoscitiva, oppure dall'altro verso la pura figuratività dellʼimmagine, è spiegato
da Brandi attraverso una riconsiderazione della teoria kantiana dello schematismo (della
quale colse acutamente, e tra i primi, la portata anche linguistica), in quanto lo schema è la
radice di entrambi e al tempo stesso la mediazione tra i due. Lo schema è aperto da un
lato verso l'immagine, dall'altro verso il concetto, e spiega il motivo per cui nella
concettualità sviluppata, nel segno, permane pur sempre una traccia o un residuo della
figuratività originaria, mentre nellʼimmagine a cui giunge l'arte non è interamente abolito
ogni legame col contenuto di conoscenza.
Il ripensamento della dottrina kantiana dello schematismo era messo a frutto anche nel
dialogo sull'architettura (la stesura del Celso è anteriore a quella dell'Eliante), ove serviva
a superare la difficoltà rappresentata dal fatto che l'architettura non sembra partire da un
antecedente naturale sul quale possa operarsi la ʻRiduzioneʼ o la ʻCostituzione dʼoggettoʼ .
L'architettura, rispondeva Brandi, non muove dall'oggetto, ma dallo Schema in cui si è
fissato un bisogno pratico (quello di ripararsi, ad esempio), e come le altre arti evolve lo
schema verso la Figuratività. Queste messe a punto, che implicano poi una profonda
riorganizzazione di tutto l'impianto teorico originario, contribuiscono ad allontanare quei
sospetti di estetismo che alcune formule del Carmine, soprattutto se assunte isolatamente,
sembravano autorizzare. L'arte non si configura più tanto come un dominio irriducibile,
splendido nel suo isolamento, al quale si giunge con un salto, quanto piuttosto come l'esito
possibile di un cammino che può portare anche, se mutano certe condizioni, alla
conoscenza. Qualche anno più tardi, Brandi avrebbe poi impiegato la dottrina della
originaria biforcazione dellʼimmagine e del segno dal ceppo comune dello schema in uno
dei suoi scritti più originali, il volume Segno e immagine, dove le usurpazioni dell'uno
sull'altro vengono utilizzate come indici di valutazione di concreti fenomeni culturali e
storici (il disegno infantile, la pittura bizantina, il manierismo), nella convinzione che “ogni
qualvolta la distinzione strutturale fra segno e immagine si offusca, è sintomo di una grave
alterazione, che, per così dire, minaccia e inceppa gli ingranaggi della civiltà”.
Nel corso degli anni Sessanta queste idee saranno utilizzate da Brandi, come vedremo,
nel dibattito con le nuove teorie semiotiche, e il confronto porterà a una riformulazione
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della teoria, con una terminologia in parte diversa. Piuttosto che di realtà pura, Brandi
parlerà di Astanza per indicare la particolare forma di presenza realizzata dall'opera d'arte,
distinta sia dalla flagranza dellʼoggetto comune, sia dalla natura del segno, che viene
attraversato alla volta di altro. Inoltre, egli affiancherà alla considerazione genetica
dell'opera d'arte quella della Ricezione dell'opera stessa, indicando in quest'ultima una
delle polarità fondamentali dell'approccio all'arte, la seconda delle Due vie cui si intitolava
un importante volume teorico del 1966. In esso, e nel successivo Teoria generale della
critica (1974), nel quale riorganizzava l'esposizione di tutta la sua teoria delle arti facendo i
conti con la strumentazione semiotica, e offrendo quelle estensioni al teatro, alla danza e
alla musica che erano mancate in precedenza, Brandi abbandona la forma dialogica per
abbracciare quella consueta del saggio e del trattato. In effetti, la scelta di affidare ai
dialoghi del ciclo Elicona la prima forma della sua estetica aveva contribuito a creare
intorno a quelle opere brandiane un'aura di spaesamento, un'impressione di ricercatezza e
di eleganza un po' fuori moda, laddove il Brandi dei due decenni successivi sarà sempre
vivamente coinvolto nel dibattito culturale.
Se, a conclusione di questo breve schizzo dellʼestetica brandiana, ci chiediamo in
che senso questa filosofia dellʼarte abbia influenzato la sua critica, dobbiamo tornare a
chiederci che tipo di critico sia stato Brandi, che cosa significhi il suo essere un criticofilosofo. Saltano agli occhi, allora, due conseguenze del suo essere un critico e un teorico.
La prima è che proprio la riflessione teorica ha consentito a Brandi di andare oltre le
premesse della pura visibilità fiedleriana dalle quali aveva preso le mosse, la seconda è
che la presenza di un interesse così forte per l'estetica rende Brandi l'antitesi più netta al
tipo del connoisseur, ossia a un tipo di studioso d'arte che ha una solida tradizione,
particolarmente in Italia, e che spesso vene riproposto come vero modello di procedere
critico nei confronti dell'opera. Esaminiamo separatamente i due punti. Alle premesse della
Visibilità si vuole spesso ricondurre in senso riduttivo il metodo critico di Brandi. Ciò è
ingiusto e unilaterale, perché se è vero che la teoria di Fiedler, innestata di crocianesmo
(ma piuttosto si dovrebbe parlare di reinnesto, perché lʼestetica di Croce, almeno la prima
estetica, nasceva non lontana da presupposti fiedleriani) costituì lo sfondo di molta parte
della migliore critica figurativa dei primi decenni del nostro secolo, è vero anche che una
delle esigenze più forti che spingevano Brandi verso una teoria autonoma fu il desiderio di
superare, approfondire, le impostazioni della reine Sichtbarkeit. Mi sembra che questo
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aspetto si possa isolare e mostrare con molta chiarezza nella concezione dello stile
esposta nel Carmine e nella connessa teoria dellʼornato sviluppata nel dialogo
sullʼarchitettura. Lʼesigenza che spingeva Brandi a localizzare stile e ornato nelle stesse
fasi della costituzione dʼoggetto, e dunque a ritrovarli alla radice del processo artistico, è
ciò che segna nel modo più netto il suo distacco dai presupposti della pura visibilità, contro
i quali infatti Brandi prende posizione proprio nelle stesse pagine del Carmine, nelle quali
delinea la propria concezione dello stile. Che lo stile non sia identificabile a partire dalla
costituzione dʼoggetto significa infatti combattere “lʼisolamento empirico dello stile, rilevato
nei particolari formalistici dellʼopera”, negare che esso sia riducibile ai soli “elementi
grammaticali, o al più sintattici”; e significa soprattutto restituire allo stile il suo spessore
vorremmo dire conoscitivo.
L'altra conseguenza è che, affermando decisamente la necessità di una riflessione
estetica per lʼesercizio della critica, Brandi implicitamente si opponeva a una tradizione di
studi sullʼarte che in Italia ha, da Cavalcaselle a Morelli, attraverso Berenson fino a
Federico Zeri, una solida tradizione, e che si incarna nel tipo del connoisseur. Giulio Carlo
Argan ha parlato, per Brandi, di una distanza, anzi di un vero e proprio ribrezzo per
“lʼempirismo del conoscitore, per il quale la critica è una questione essenzialmente
oftalmica”. Di fatto, il conoscitore rappresenta per molti versi lʼantitesi perfetta del criticofilosofo. Se infatti cerchiamo di identificare le caratteristiche che individuano il tipo del
conoscitore, incontriamo subito la diffidenza, quando non la vera e propria insofferenza,
verso la teoria - verso l'estetica. Proprio il padre della moderna connoisseurship, Giovanni
Morelli, è in questo senso paradigmatico. Per lui l'estetica serve solo “a cibare gli uditori di
generici luoghi comuni”, a riempire i libri di “magnifiche frasi”, o meglio “frasi piene di
vento”. Insomma: per capire l'arte non serve “avere il cranio fornito di protuberanze
filosofiche”, ma intuizione, occhi buoni, e tanta esperienza. E Berenson, che pure si
sforzava di dotarsi di una teoria, coniugando gli esiti della Einfühlung con quelli della reine
Sichtbarkeit, ebbe un giorno a definire la storia dell'arte “un gioco in cui vince chi possiede
più fotografie”. Ma dietro il rifiuto dell'estetica da parte del connaisseur non è vero che non
ci sia unʼestetica: cʼè invece, spesso, unʼestetica semplicistica, e insomma una cattiva
estetica. La quale consiste essenzialmente in questo: che egli pensa che le opere d'arte
costituiscano una classe di oggetti empiricamente determinabile, e identificata da una
serie di tratti pertinenti: una classe, almeno potenzialmente, chiusa. Il conoscitore fa
attribuzioni, e attribuire significa inserire un oggetto in una classe delimitata di oggetti,
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identificata da certe e non altre caratteristiche; perciò è portato a pensare che il giudizio di
artisticità sia una riconduzione dello stesso tipo, in base a caratteristiche pertinenti.
Distingue l'originale dalla copia, nel che evidentemente si dà o si può dare interpretazione
esatta; perciò egli insegue anche nel caso del valore estetico quello che ormai è soltanto
un fantasma, perché non c'è esattezza nel giudizio di gusto. A questo empirista, che vuol
vedere soltanto con gli occhi, l'arte diventa inevitabilmente un oggetto metafisico:
un'epifania assoluta, che c'è o non c'è, e, quando c'è, si può solo dire che c'è.
Se torniamo al significato che la vocazione teorica di Brandi assume per la sua
critica, siamo in grado, mi pare, di cogliere meglio alcuni dei tratti che caratterizzano la
figura di Brandi nel panorama della critica d'arte del Novecento. Non mi soffermerò tanto
su quegli aspetti che più immediatamente discendono da quanto detto sin qui, per
esempio il rifiuto, da parte di Brandi, di riconoscere dignità in sede critica ai caratteri
morelliani, cui corrisponde l'esigenza che il giudizio si fondi su quel che è esteticamente
rilevante; o la resistenza sempre opposta a ridurre la critica al solo momento filologico, che
non è disprezzo per la filologia ma coscienza che questa non può mai surrogare
un'estetica.
Il distacco di Brandi dal tipo del connoisseur si esprime con la massima chiarezza in alcuni
tratti salienti e non comuni della sua attività di critico. Il primo è la sistematica estensione
dell'esercizio critico non solo alla pittura e alla scultura, ma anche alla architettura. Non si
deve dimenticare, come abbiamo visto, che essa ha raggiunto alcuni dei suoi risultati più
cospicui e duraturi proprio nell'ambito della critica architettonica. Già nel dialogo Eliante
Brandi si mostrava subito capace non solo di emettere giudizi di grande autorevolezza, ma
anche di ripensare su nuove basi l'intera storia dell'architettura. Ciò avveniva grazie a una
riconsiderazione radicale della problematica della spazialità dell'architettura. Dal nucleo più
propriamente filosofico della sua estetica Brandi portava con sé l'affermazione forte della
irriducibilità dello spazio dell'opera d'arte allo spazio esistenziale, e la consapevolezza che
l'opera, sia essa pittura, scultura o architettura, crea il suo spazio assai più di quanto si
inserisca in uno spazio preordinato. Se dunque interno ed esterno sembrano appartenere
allʼaspetto fenomenico dellʼoggetto architettonico, e avvicinarlo a cose di esistenza
comune, il loro recupero e utilizzo sul piano critico non potrà aversi che tramite il loro
trasferimento da rilievi empirici a componenti stessi della struttura dellʼimmagine
architettonica. Il che avviene mostrando che in ogni momento la forma dell'architettura è al
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tempo stesso esterna e interna a se stessa: “L'architettura non potrà mai essere soltanto
un interno o un esterno, ma l'esterno dovrà godere di una spazialità che lo renda interno a
sé stesso, e l'interno reciprocamente esterno”.
Nel mostrare come si attuasse in architettura il passaggio dalla spazialità
esistenziale dellʼoggetto a quella ʻpuraʼ dellʼopera dʼarte, Brandi si provvedeva di alcune
delle più caratteristiche tra le sue categorie critiche, quelle stesse che gli permetteranno di
impostare la propria critica architettonica come scoperta e individuazione dello specifico
ʻtema spazialeʼ di una cultura o di un artista. Brandi puntava così decisamente verso una
critica come storia figurativa dell'immagine, rinunziando a ogni sollecitazione o appiglio
che potesse pervenirgli dalle intenzionalità programmatiche proiettate in architettura.
Rispetto al metodo critico crociano, che conserva sempre qualcosa di tribunalizio e arido,
condensabile comʼè, per ammissione del suo stesso ideatore, nella proposizione “cʼè
unʼopera dʼarte a” oppure “non cʼè unʼopera dʼarte a”, quella brandiana è una critica come
attraversamento dellʼopera, come scoperta e partecipazione alla sua legge di formazione.
È una critica interna, ma non perché superstiziosamente chiusa a ciò che è fuori del testo.
È una critica quasi asceticamente proiettata verso la lettura del dato formale
dell'immagine, ma non riducibile a rilevazione formalistica, perché tutta la strumentazione
teorica brandiana, lo abbiamo visto, era tesa proprio a evitare che lo stile venisse isolato
come resto di superficie, inventariato senza riguardo alla genesi profonda dell'opera.
Questa critica non rifiuta pregiudizialmente, come spesso le si è rimproverato, l'apporto
della filologia e, per esempio, le risultanze della ricerca iconologica; la sua ambizione è
invece di fonderli fino a consumarli senza residui nella decifrazione della struttura della
forma.
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