Salvatore Natoli, L`educazione alla felicità, Aliberti Editore, Roma

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Salvatore Natoli, L`educazione alla felicità, Aliberti Editore, Roma
Salvatore Natoli, L’educazione alla felicità, Aliberti Editore, Roma, 2011.
Non fatevi ingannare dal titolo. Di primo acchito sembra di avere a che fare con uno dei tanti libri
da supermercato che solleticano l’edonismo e il narcisismo della società di massa. Si tratta, al
contrario, di un libro che affronta, in poche pagine, questioni decisive che investono anche
l’educazione e i sistemi formativi.
L’autore, Salvatore Natoli, professore di Filosofia teoretica all’Università di Milano Bicocca, ci
presenta due saggi, Abitare il presente e Uso e abuso del mondo. Nel primo, Natoli parte con
alcune considerazioni sul tempo. Il tempo, ricorda, è una creazione dell’uomo. E’ lui, infatti, ad
aver temporalizzato la natura, la quale non ha la coscienza del suo scorrere. L’esperienza della
temporalità ci è data dalla successione delle generazioni. Di qui le dimensioni, fondamentali per
l’uomo: il passato, il presente e il futuro. L’importanza data a ciascuna di esse cambia a seconda
delle epoche. Ai giovani di un tempo pesava, forse anche troppo, la memoria del passato. Tuttavia
era proprio grazie alla memoria che essi riuscivano a proiettarsi nel futuro, a guardare al domani. Il
legame con il passato, spesso critico, sviluppava passioni utopiche, collettive. Ne sono un esempio
le grandi rivoluzioni moderne, le battaglie per i diritti e, in negativo, i totalitarismi, figli anch’essi di
grandi messianismi. In nome del “bene” collettivo, infatti, si possono anche sacrificare valori
fondamentali. Con la società dei consumi (in Italia, a partire dagli anni Sessanta del secolo
scorso), la felicità ha perso le caratteristiche di utopia collettiva. E’ diventata una ricerca
individuale. Grazie allo stimolo del consumismo questa ricerca, priva di passioni ma ricca di
pulsioni, si è sempre più centrata sul presente. Il passato è stato così quasi abolito e si è persa
contestualmente la dimensione del futuro. La liberazione del corpo, il diritto al piacere individuale e
immediato hanno condotto a un asservimento sempre più subdolo proprio perché condotto in una
situazione di benessere materiale. Il desiderio, spinto all’estremo dalla necessità del consumo
continuo, è stato educato a credere di aver potere infinito (l’ “erba voglio” di lontana memoria). Il
fatto è, ricorda Natoli, è che “noi siamo una quantità di potenza finita”. Se non ne teniamo conto, il
risultato è la distruzione di sé e la perdita della capacità di scelta, che è la vera essenza dell’uomo
libero. I giovani, che in questa società sono nati e cresciuti, hanno solo conosciuto questa età del
rischio e dell’incertezza, priva di memoria e centrata sulla soddisfazione immediata del desiderio.
Se tutto ciò è vero, c’è da riflettere anche sui compiti dell’educazione di oggi. Natoli parla in
generale e suggerisce a questo punto un sano realismo. Congedate definitivamente le utopie
collettive, è necessario aiutare i giovani a problematizzare il presente prendendone le distanze. A
questo punto come non pensare alla scuola? Venuta meno la capacità aggregativa della politica e
della religione, la scuola sembra l’unico luogo rimasto alla maggiornza delle persone per
problematizzare la realtà con il distanziamento e lo sviluppo il pensiero. E’ questa la “rivoluzione
cognitiva” di cui parla Natoli: un’istituzione formativa che non si adegua al consumismo di massa
ma che educa i giovani a pensare e ad interpretare il mondo che cambia con occhio vigile e critico.
Un compito difficile, senza dubbio, soprattutto perché è presente da tempo una
tendenza
pericolosa, quella di asservire anche la scuola alle logiche del mercato e della società competitiva in
nome della crescita. Alla “rivoluzione cognitiva” Natoli, giustamente, aggiunge la necessità di un’
“educazione emotiva”, che si potrebbe anche chiamare relazionale e sociale. In una società
individualista è necessario lavorare in controtendenza: riscostruire legami, abituarsi ad aver fiducia
negli altri, negoziando e discutendo e, comunque, riconoscendosi reciprocamente. Tutto ciò
richiede un’istituzione formativa che abbia una consapevolezza: non si possono limitare i suoi
compiti all’educazione intellettuale o professionale. La scuola, a tutti livelli, ha anche il compito di
organizzare situazioni in cui i giovani possano sperimentare la relazione con coetanei ed adulti, far
crescere le proprie capacità empatiche e contenere così il narcisismo e il desiderio di competizione.
Un compito immane, soprattutto nelle condizioni attuali, ma, direi, obbligato, se vogliamo dare un
futuro alla nostra società.
Il secondo saggio, Uso e abuso del mondo, è centrato sull’antitesi tra due verbi: “fare” e “agire”. Il
fare, dice Natoli sulla scorta degli etimi greci, implica una competenza ed è governato dal criterio
dell’efficacia. L’agire implica qualcosa in più, la responsabilità, ovvero una soggettività che pensa
anche ai fini. Agire significa muoversi dentro il mondo per portare a compimento, realizzare
un’intenzione. Il criterio del fare è l’efficacia, quello dell’agire un fine superiore. Nel mondo
arcaico c’era un legame tra dimensione del fare e dimensione dell’agire. Nell’organizzazione
moderna del lavoro le due dimensioni si sono separate. Oggi nel mondo si fanno tante cose, ma
molto spesso non si sa perché e nemmeno per chi (ancor di più oggi con il venir meno della fabbrica
taylorista e l’avvento del mondo globalizzato). Una volta per definire tutto ciò si usava un termine:
alienazione. All’uomo di scuola, a questo punto, viene subito in mente l’azione dell’insegnare.
Deve essere governata dalla logica del fare o da quella dell’agire? Un’azione formativa è buona se
funziona o se, molto più semplicemente, si dirige verso scopi positivi soprattutto consapevoli? E
ancora: gli obiettivi educativi devono mirare soprattutto a un saper fare richiesto dal mercato del
lavoro o non anche a saper riflettere su questo saper fare (dunque, operazioni mentali,
distanziamento, capacità di empatizzare con gli altri)? Sono le domande che ci si pone oggi a
proposito delle cosiddette “competenze”, di cui si parla sempre di più, soprattutto da quando sono
state messe al centro dei programmi scolastici. Che cosa sono le competenze? Che cos’è questo
“saper fare”? Come è possibile promuovere le competenze senza essere intrappolati nella sola
logica del fare? Natoli ci dà qualche pista per ragionare sul tema. Ci dice ad esempio, che la scelta,
dunque la vera libertà, nasce dalla problematizzazione. Di ogni cosa è bene chiedersi sempre il
senso, quanto ci serve per la strutturazione della nostra soggettività (o di quella degli altri, nel caso
degli allievi), per la nostra responsabilità.
Il piccolo libro di Natoli non contiene ricette a problemi tanto ampi, del resto impossibili. C’è però
qualcosa di fondamentale: un’analisi del quadro di riferimento da cui affrontarle e di ciò che è in
gioco in questa età del rischio. Una cosa è chiara, dice Natoli, e non si può che condividere: “Al
centro di una società deve essere posta la formazione”.
Enrico Bottero