McEnroe NON PUOI DIRE SUL SERIO

Transcript

McEnroe NON PUOI DIRE SUL SERIO
John mcenroe
con James Kaplan
Non puoi dire sul
serio
Titolo originale: Serious
© John McEnroe, 2002
Traduzione di Valentina Ricci/Studio Editoriale Littera
Per l’immagine con Nelson Mandela, l’Editore resta a disposizione degli aventi diritto.
Redazione: Edistudio, Milano
I Edizione 2012
© 2012 - EDIZIONI PIEMME Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
[email protected] - www.edizpiemme.it
Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)
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Odio le sveglie: il loro incessante ticchettio mi dà sui nervi.
Quindi l’11 settembre 2001 cominciò come un giorno qualsiasi in casa McEnroe, con la telefonata del servizio sveglia
alle sette. Riagganciai subito, lasciai dormire mia moglie
Patty e mi trascinai giù dal letto per andare a svegliare cinque dei miei sei figli. Ava, che all’epoca aveva appena due
anni ed era la piccola di famiglia, non partecipava ancora
a quel rituale mattutino.
Abitiamo all’ultimo piano di un grande edificio su Central Park West, in quello che secondo me è l’appartamento
migliore del più bel palazzo di tutta New York. Me lo ripeto
ogni giorno, quanto è fantastico. La nostra casa occupa gli
ultimi quattro piani e le camere dei ragazzi si trovano al
primo, al secondo e al terzo. Sorridevo passando da una
stanza all’altra, spettinando capelli, accarezzando schiene,
sfiorando guance. E mentre i miei figli si aggrappavano
agli ultimi minuti di sonno prima di affrontare la realtà di
un altro giorno di scuola, riemersero dentro di me i ricordi
della mia infanzia.
Tornai a essere il quindicenne che stava per iniziare una
grande avventura: quattro anni alla Trinity School nell’Upper West Side di Manhattan. Mia madre cercava di farmi
alzare dal letto della mia camera al piano di sopra del 255
di Manor Road, a Douglaston, nel Queens, incurante del
mio quotidiano malumore – scusa, mamma! – provocato
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dalla prospettiva di un tragitto giornaliero che i miei figli
non potrebbero nemmeno immaginare.
Cominciavo con una camminata di quindici minuti fino
alla stazione ferroviaria di Douglaston, una passeggiata
che mi toccò ogni mattina fino al meraviglioso giorno in
cui compii diciassette anni e finalmente presi la patente.
Salivo sul treno delle 7.20, mostravo al controllore il mio
abbonamento mensile e mi sedevo per una corsa di mezz’ora
fino alla Penn Station di Manhattan.
Forse chi non è di New York non sa che la Penn Station si
trova proprio sotto il Madison Square Garden, uno stadio che
frequentai molto da bambino perché ospitava le partite delle
mie squadre del cuore, i Knicks per il basket e i Rangers per
l’hockey. Al Madison ebbero luogo due eventi fondamentali
della mia adolescenza: il mio primo concerto rock (i Grand
Funk Railroad!) e la tappa newyorchese del tour mondiale
dei Led Zeppelin, nel 1975. E sempre al Madison, qualche
anno più tardi, nel Masters subito dopo Natale, ho ottenuto
alcuni dei miei più grandi trionfi tennistici, sia in singolo
che in doppio.
Sceso dal treno, camminavo nei tunnel affollati per raggiungere la metropolitana: la linea espresso della 7a Strada,
numero 2 o 3, per una corsa di venti minuti fino all’Upper
West Side. A volte viaggiavo con John Ryerson, un altro
studente della Trinity che come me abitava a Douglaston,
e di tanto in tanto si univa a noi un nostro compagno di
classe, Steven Weitzmann.
Adoravo la metropolitana. La adoro ancora oggi. Stare
pigiato tra la folla non mi ha mai disturbato: sono newyorchese fino al midollo, dopotutto, e il contatto ravvicinato
con gli sconosciuti fa parte del gioco. E, pur soffrendo di
mal d’auto quando leggo in macchina, la metropolitana non
mi fa lo stesso effetto (non che io, John e Steven leggessimo
molto, là sotto… ricordo parecchie battaglie a palline di
carta: scusate, passeggeri della metropolitana del 1974!).
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Inoltre, mi è sempre piaciuta la sensazione di sobbalzare
nell’oscurità. Lo trovo confortante, anche se non saprei
spiegare il perché.
Scendevo sulla 96a Strada, salivo le scale fino a Broadway, tra lo strombazzare dei taxi e le strade brulicanti di
vita, e camminavo per cinque isolati fino alla Trinity, al
numero 139 della 91a West, tra Columbus e Amsterdam
Avenue. È esattamente lo stesso luogo in cui accompagno
in macchina Ruby, Kevin, Sean, Emily e Anna ogni mattina
dopo colazione.
È buffo: il nostro appartamento si trova a meno di un
chilometro dalla Trinity eppure, benché da ragazzo dovessi
fare parecchia strada per arrivarci (o forse proprio per questo), mi piace accompagnarli a scuola. Sono felice di avere
molto tempo da trascorrere con i miei figli e, lo ammetto, mi
piace viziarli un po’. Mi biasimate per questo? Avere John
McEnroe come padre rende le loro vite facili e difficili al
tempo stesso, e trovare un giusto equilibrio è più complicato
di quanto sembri. Voglio che i miei figli siano felici, protetti
e amati. Voglio che abbiano tutto, ma senza perdere quello
che io chiamo “il fuoco dentro”. È stato questo fuoco a farmi
arrivare dove sono arrivato tanto tempo fa e dove mi trovo
oggi. Ma io dovevo fare un sacco di strada ogni mattina,
invece loro li accompagno fin sul portone della scuola. Che
sia troppo indulgente?
L’11 settembre del 2001 scesi in cucina verso le sette
e mezzo del mattino e cominciai a preparare la frutta per
la colazione: mele, pompelmi, fragole e melone. Secondo
me mangiare frutta al mattino fa benissimo e, come i miei
genitori, mi do da fare per i miei figli: sbuccio le mele,
preparo gli spicchi di pompelmo, taglio il melone.
Pochi minuti dopo, la mia piccola tribù irruppe in cucina
come uno sciame di cavallette e fece fuori in un attimo la
frutta che avevo preparato con tanta cura, senza dire una
parola a parte un “grazie” che assomigliava a un grugnito
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(purtroppo, di tanto in tanto mi sono macchiato anch’io della
medesima colpa). Poi spazzolarono le loro scodelle di latte
e cereali, i waffles e le uova prima di precipitarsi fuori dalla
porta, poco dopo le otto.
Tornai a casa intorno alle 8.45 e accesi la televisione per
guardare i talk-show del mattino. Non so cosa mi spinse a
farlo quel martedì mattina: in genere mi piace cominciare
la giornata con caffè, ciambelle e il «Times». Quel giorno
però ero pronto, telecomando alla mano, per i programmi
mattutini: Diane Sawyer e Charlie Gibson, Katie Couric e
Matt Lauer, forse anche un po’ di Bryant Gumbel. Modestia
a parte, sono un campione di zapping.
Poi arrivò il telegiornale.
Al World Trade Center era scoppiato un incendio, annunciarono. Accidenti, pensai, ma sembrava che la situazione
fosse sotto controllo. Erano da poco passate le nove e mi
stavo preparando per andare in centro per la mia seduta settimanale di terapia. I tribunali la chiamano “supporto per la
gestione della rabbia” o, nel mio caso, era così che la definiva
l’avvocato della mia ex moglie. Partecipavo a quegli incontri
da quasi un anno e, sebbene difficilmente li avrei frequentati
se le condizioni del divorzio non me l’avessero imposto, e
benché non uscissi dalle sedute traboccante di pace interiore,
dovevo ammettere che la terapia stava dando qualche risultato. Mi capitava sempre più spesso di contare fino a dieci in
situazioni che un tempo mi avrebbero fatto perdere la testa.
Quello che udii subito dopo, però, provocò in me più
paura che rabbia. Quando stavo per uscire sentii che un aereo
si era appena schiantato contro la torre sud del World Trade
Center e che anche l’incendio alla torre nord di cui avevano
parlato poco prima era stato provocato dallo schianto di un
altro aereo. Fu subito chiaro che eravamo nel pieno di una
specie di attacco terroristico. Il cuore mi batteva come un
martello.
Cosa dovevo fare? Non ne avevo idea, quindi continuai
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la mia solita routine del martedì mattina. Ora credo di poter dire che ero sotto shock. Quando entrai nello studio
del mio strizzacervelli annunciai, quasi con noncuranza:
«Ha sentito che due aerei si sono appena schiantati contro
il World Trade Center?». Lui mi fissò per un attimo, forse
chiedendosi se fosse una battuta. E poi – ripensandoci è
davvero incredibile – iniziammo la nostra normale seduta,
senza aggiungere una parola sull’attentato.
Non riuscivo ancora a rendermi conto della gravità di
quanto era successo. Forse aveva a che fare con la mia carriera di tennista professionista: per anni ero stato costretto
a non soffermarmi a pensare agli incidenti aerei per poter
prendere almeno un volo a settimana. Normalmente i tennisti
non parlano mai di questo genere di cose, così come i piloti
di auto da corsa non amano parlare di incidenti mortali.
Inoltre i giovani si sentono invulnerabili.
Io invulnerabile non mi sento più.
Tornai subito a casa e mi incollai al televisore. Rimasi
inebetito: vidi le torri crollare una dopo l’altra. Il centro
di Manhattan era diventato lo scenario surreale di un film
di fantascienza: persone in preda al panico che correvano
per salvarsi, nuvole di polvere alte come montagne… e lì,
nell’Upper West Side, solo un silenzio irreale. Io e Patty ci
guardammo sconvolti.
Con il susseguirsi delle notizie, cominciammo a preoccuparci per i nostri figli. I telefoni erano fuori uso. Cosa
dovevamo fare? Cosa stava succedendo a scuola? Cosa
sarebbe successo, dopo? Nonostante fossimo ancora sotto
shock, ci rendemmo conto che se c’era un momento in cui
dovevamo riunirci e stare tutti insieme, era proprio quello.
Volevo abbracciare i miei bambini, ne avevo bisogno.
Fortunatamente Ruby, la nostra figlia sedicenne, aveva
con sé il cellulare e riuscì a contattarci; scesi di corsa in
strada, a piedi, per andare a prendere i ragazzi. Mentre
camminavo, ancora stordito, cominciai a sentire le sirene,
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a vedere i mezzi dei vigili del fuoco, le ambulanze e le
volanti della polizia che mi sfrecciavano accanto. Anche
le altre persone sembravano stordite e stavano sul marciapiede, a parlare e guardare. La città aveva subìto un colpo
terribile, ma sembrava che stesse reagendo in un modo
nuovo e insolito.
Chissà perché, camminando pensai agli U.S. Open disputati pochi giorni prima. Ora, improvvisamente, mi sembrava
che fossero passati mesi. Come sempre, li avevo seguiti da
commentatore per la cbs e, come sempre, quel lavoro mi
era piaciuto moltissimo. Il torneo si era però concluso con
una nota spiacevole: l’incontro amichevole tra me e Boris
Becker, programmato dopo la finale del singolo femminile
tra Venus e Serena Williams di sabato sera, era saltato a
causa di un infortunio subìto da Boris.
Ero molto arrabbiato e amareggiato: non solo per me,
ma per tutto il tennis seniores. L’esibizione avrebbe segnato
l’ingresso di un Becker ormai trentatreenne nel circuito
seniores, un torneo per cui mi ero impegnato con tutto me
stesso nei sei o sette anni precedenti, ma che ultimamente
aveva grossi problemi finanziari. Il ritiro quasi casuale di
Boris da un match importante agli U.S. Open non era affatto
di buon auspicio.
All’improvviso tutta quella faccenda sembrava banale e
molto, molto lontana. In quel momento volevo solo vedere
i miei figli, subito, e portarli a casa. Perché, mi chiesi, c’era
voluto un evento così terribile per farmi capire cosa conta
davvero nella vita?
Una sera di luglio del 2000 (in quella che ora mi sembrava un’epoca infinitamente più innocente) ero andato a
una partita di football dei Mets con mio figlio Kevin, il suo
amico Josh e il padre di Josh, che è mio amico. Avevamo
preso la metropolitana sia all’andata che al ritorno.
Indossavo una variazione sul tema del mio abbigliamento
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newyorchese tipico: giacca di pelle e berretto da baseball
(dei Mets o degli Yankees, dei Rangers o dei Knicks). E
nessuno mi aveva importunato, né mentre andavo allo stadio, né tornando a casa. Mentre ci avvicinavamo allo Shea
Stadium vidi un tizio che aveva tutta l’aria di volere un
mio autografo, ma lo ignorai; poi la folla ci sospinse verso
i cancelli e la faccenda si chiuse lì.
Una parte di me era davvero contenta di essere lasciata
in pace. Pensai: È esattamente quello che voglio. Giusto?
Poi però dovetti ammettere: Be’, forse non è esattamente
quello che voglio.
È difficile spiegare davvero cosa significasse trovarsi nei
miei panni nei quindici anni che trascorsi nel circuito. Fu
come un’inebriante corsa sulle montagne russe.
Per un decennio, dalla metà degli anni Settanta alla metà
degli anni Ottanta, il tennis professionistico conobbe un
boom che non aveva mai vissuto prima e non avrebbe mai
più vissuto. Io sono capitato al momento giusto. La quantità
di soldi in gioco non aveva precedenti, e così l’entusiasmo
da parte del pubblico. A cominciare da Björn Borg, i tennisti divennero molto più che semplici celebrità dello sport.
All’epoca, persino i cantanti aspiravano a essere tennisti
professionisti. (Ovviamente noi volevamo essere rockstar.)
Borg aveva tre anni più di me, ma era diventato professionista molto prima e non aveva mai avuto l’aspetto di un
ragazzino, anche se trascorreva il tempo libero leggendo
fumetti. Era distaccato, profondo, riservato: meno rivelava
di sé, più le ragazze impazzivano per lui.
Fin dall’inizio, quando sbucai dal nulla arrivando alle
semifinali di Wimbledon all’età di diciotto anni, fui un poco
di buono agli occhi del pubblico. (Ho letto da qualche parte
che quando si stava preparando per il ruolo di Mozart in
Amadeus, Thomas Hulce guardava i video in cui davo in
escandescenze sul campo da tennis.)
Gli amici del circuito mi chiamavano Junior (mio padre
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è John Patrick McEnroe Senior). Per il pubblico ero SuperBrat, McBrat, McNasty*, tutti soprannomi al vetriolo, oppure semplicemente Johnny Mac, il classico fratello o figlio
o cugino o vicino di casa che rompe le scatole, l’uomo che
la gente amava odiare o (forse) odiava amare. Prima di me
altri tennisti avevano perso il controllo o avevano protestato
con il giudice di sedia – Pancho González, Ilie Nǎstase,
Jimmy Connors, tanto per fare qualche nome – ma nessuno
l’aveva fatto con… il mio stile inimitabile.
Da subito gli spettatori ebbero una reazione stupefacente
nei miei confronti. Forse le mie sfuriate risvegliavano in
loro qualcosa che avevano dovuto reprimere o sopportare da
bambini. Non lo so. Qualunque cosa fosse, la gente mi notò.
Quasi tutti sogniamo di diventare famosi, ma – come
dice il proverbio – bisogna stare attenti a ciò che si desidera.
C’erano momenti in cui volevo sottrarmi alla mia incredibile
notorietà. Ci provai. Una volta andai in vacanza alle Fiji
convinto che sicuramente laggiù, nelle distese infinite del
Sud del Pacifico, per qualche giorno sarei diventato un cittadino americano come tanti. Ma non avevo considerato che
il novanta per cento dei turisti in vacanza alle Fiji proviene
dall’Australia, ovvero sono i fan del tennis più appassionati
al mondo! Ma cos’hai in testa al posto del cervello, Mac?
Ho avuto spesso la sensazione di portare il mio nome
stampato in fronte. È dura camminare per strada (e soprattutto nella mia amata Manhattan, dove camminare è una
delle attività che preferisco) senza essere individuato da
persone che mi salutano con la familiarità di un vecchio
compagno di scuola.
La maggior parte delle volte si tratta di un’esperienza
positiva. Certo, vivrei benissimo anche se i miei pranzi
al ristorante non fossero sempre interrotti da un fan che
mi chiede l’autografo. Il fatto è che non mi piace firmare
* Super Peste, McPeste, McOdioso. [N.d.T.]
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autografi a chiunque superi gli undici o i dodici anni d’età:
cosa possono mai valere i miei scarabocchi per qualcuno che
non è un bambino, se non un po’ di soldi sul mercato delle
reliquie sportive? (Ma non fatemene parlare.) E, credetemi,
la mia firma non vale poi così tanto.
Ma essere avvicinato da un tifoso che mi dice: «Ehi, John
McEnroe, sei il più grande tennista di tutti i tempi!» non è
affatto difficile da sopportare. Oppure: «Ehi, il tennis non è
più lo stesso da quando te ne sei andato». O ancora: «Quella
vittoria alla Coppa Davis nel ’92 è stata incredibile!». Oppure:
«Ho davvero apprezzato molto che tu non abbia accettato,
quella volta in Sudafrica». (Nel 1980 mi fu offerto un milione
di dollari – una cifra impressionante all’epoca – per giocare
una partita amichevole contro Björn Borg a Sun City. Io
declinai perché non mi sembrava giusto, senza sapere quanti
amici mi sarei guadagnato con quel gesto.)
Di complimenti simili non mi stanco mai. Sono fiero
di essermeli guadagnati. E, lo ammetto, una parte di me è
fama-dipendente.
È uno dei motivi per cui sto scrivendo questo libro – sono
disposto ad ammettere anche questo. Non è solo per attirare
l’attenzione, ma per riflettere su quanta attenzione voglio
davvero, e sul perché ne ho bisogno. A volte mi chiedo
seriamente: verrò del tutto dimenticato prima o poi? Finirò
col desiderare ciò che non ho più? Di solito vogliamo sempre ciò che non possiamo avere il che, a mio avviso, è un
tratto piuttosto patetico della natura umana. Diventerò uno
che se ne va in giro a chiedere: «Ehi, vi ricordate di me?».
Spero di no.
Nella peggiore delle ipotesi, so che la gente mi ha considerato una specie di caricatura: un piagnucolone viziato
e arrogante dal pessimo carattere. Non nego di essermi
comportato così in molte occasioni, anche se la maggior
parte delle volte me ne sono pentito quasi subito. Mi preoccupa notare che con il passare del tempo “McEnroe la
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macchietta” prende il sopravvento e, forse sarà, ciò che i
posteri ricorderanno di me.
Mi dispiace che la cosa migliore che il mio agente mi
propone sia: «Ehi, ti interessa giocare contro Anna Kournikova?». Sono una caricatura al punto che la miglior proposta di cui sono degno è giocare contro la Kournikova? È
questo che succede alla mia età? È questo che sta accadendo
al tennis? Il fatto che il principale argomento di conversazione agli U.S. Open del 2000 fossero i miei commenti
su Venus Williams, e se avrei o meno giocato contro di
lei, secondo me è una dimostrazione di quanti problemi
abbia questo sport. (E quando sono stato io a sollevare
per primo la questione, durante un’intervista per il «New
Yorker», è stato solo un modo per farmi pubblicità? Non
ne sono così sicuro.)
Vi dico chiaramente, però, che ho molte altre cose di
cui occuparmi oltre che giocare contro Anna Kournikova
o Venus Williams, e so che lo stesso vale per loro.
Sentivo che dall’11 settembre qualcosa dentro di me era
cambiato; nella mia vita – in tutte le nostre vite – desideravo
più impegno, più serietà. Era come se finalmente dovessimo affrontare la realtà che avevamo a lungo evitato. Le
convinzioni a cui tutti ci eravamo aggrappati – «Compra
qualunque diavoleria tecnologica, i prezzi andranno alle
stelle»; «Nessuno oserà mai attaccare gli Stati Uniti d’America» – erano crollate sotto i nostri occhi. Speravo con tutto
il cuore che dalla tragedia sarebbe nato qualcosa di buono,
che sarebbe stato possibile vivere in questa nuova realtà.
A quarantatré anni ero padre di sei figli. Non volevo più
essere una caricatura. In un certo senso, avevo la sensazione
che per me quella caricatura fosse stata uno scudo dietro
cui nascondermi per poter rimanere immaturo.
Vedete, la magia del tennis a livello professionistico è che
ti permette di comportarti come un bambino. Parecchi di voi
mi diranno che è bello conservare certi aspetti infantili, ma
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ogni bambino deve crescere, prima o poi, oppure diventa
un caso clinico.
Mi sono sempre considerato più attento della maggior
parte dei giocatori di tennis: leggevo, pensavo, osservavo
il mondo esterno. Ma l’ho sempre guardato da una certa distanza. Era difficile superare la sensazione che tutto ruotasse
intorno al mio piccolo universo chiuso, da cui fuoriuscivo
solo per trarne dei vantaggi, come ottenere dei buoni posti
a un concerto o incontrare persone che non avrei mai conosciuto se non fossi stato un tennista famoso. E non osavo
fuoriuscirne molto spesso. Per molti versi, non sapevo nemmeno che il mondo esterno esistesse. E lasciate che ve lo
dica: una volta che esci dal mondo reale, è molto difficile
tornarci. Basta guardare tutti gli ex vip che finiscono malati
o sconvolti o un po’ toccati. O morti.
C’è stato un periodo, devo ammetterlo, in cui il mio ego
era così ingombrante che passava a malapena dalle porte.
Spero che avere dei figli mi abbia cambiato. Avere dei figli
ti riporta immediatamente sulla terra, a meno che tu non
li faccia crescere da altre persone, cosa che io non ho mai
avuto intenzione di fare.
Pensate: Johnny Mac padre di sei figli! Quando salii
per la prima volta sul palcoscenico del mondo ero un diciottenne dal viso paffuto, con una criniera di ricci ribelli
e la fascia rossa. Oggi sono un uomo dal viso scavato, con
capelli radi e spolverati di bianco, le rughe sulle guance, un
piccolo anello d’argento al lobo dell’orecchio sinistro e un
tatuaggio con rose e spine sulla spalla destra. So cambiare
un pannolino, gestire un capriccio, asciugare lacrime, preparare la colazione.
Sono ancora in forma. Gioco a tennis quasi tutti i giorni,
mi alleno sulla cyclette o salto la corda quando non ho
tempo per il tennis o non voglio esagerare. La mia vista è
ancora ottima e i miei riflessi abbastanza veloci, tanto che
un giorno o l’altro potrei sfidare per soldi una “testa di se-
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rie” a giocare un paio di set. Come forse ricorderete, i miei
standard sul campo da tennis sono sempre stati piuttosto
alti, e mi sono sempre dato parecchio da fare perché non
voglio deludere me stesso quando gioco. Fino a non molti
anni fa ho preso in seria considerazione l’idea di giocare
di nuovo nel doppio in Coppa Davis, dopo una pausa di
parecchi anni. Anche se avrei dovuto chiedere a mio fratello
Patrick, allora capitano della squadra statunitense, che cosa
ne pensasse al riguardo.
Però non mi illudo. Nessuno conosce il proprio corpo
meglio di un atleta professionista, sono consapevole che la
macchina donatami dal Padreterno non è più flessibile come
un tempo, che ho inevitabilmente perso qualche colpo.
Essendo una persona che pensa in modo quasi ossessivo
in termini numerici (quando ero piccolo, stupivo gli amici
dei miei genitori moltiplicando e dividendo a mente numeri
molto alti), direi che sono più o meno un sessanta per cento
del tennista che ero all’apice della carriera.
Il che non è poi così male. Eppure non sono più un vero
tennista.
Quindi cosa sono?
Da diversi anni sono un commentatore di tennis abbastanza orgoglioso del suo lavoro e ritengo di essere uno dei
migliori nella mia professione. Non è stato un caso. Come
saprete, ho sempre avuto una certa facilità nel parlare a ruota
libera, ma commentare richiede massima concentrazione,
capacità di formulare frasi di senso compiuto e sensibilità nel
capire quando il silenzio vale più delle parole. In breve, era
(ed è ancora) un lavoro duro. Perciò ho dovuto farmi le ossa.
Fortunatamente, come mi è accaduto nella carriera tennistica, ho avuto eccellenti maestri. Mi è sempre piaciuto
essere il membro di una squadra, più che giocare come singolo, e lavorare accanto a grandi giornalisti sportivi come
Dick Enberg e Ted Robinson (e produttori come Gordon
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Beck e John McGuinness, che mi ha concesso la libertà
di essere me stesso) mi ha reso felice e mi ha insegnato
molto. Sono certo che la mia gioia traspaia in televisione
e alla radio, che i miei commenti abbiano permesso alla
gente di vedere una parte diversa di me, una parte molto
più leggera e autoironica di quella che ho rivelato sui
campi da tennis.
Negli ultimi anni sono cresciuto molto. E come la maggior
parte della gente – e forse anche più della maggior parte
della gente – sto crescendo ancora. Chiunque mi abbia visto
giocare nel circuito seniores sa che, anche se il mio brutto
carattere si è un po’ ammorbidito, in campo sono ancora in
grado di tirarlo fuori. Non succede spesso come una volta,
questo no – per un motivo semplicissimo: non gioco spesso
come una volta –, ma di questi tempi anche il poco sembra
troppo, e il fatto che la gente si aspetti da me le intemperanze
per cui sono famoso non facilita le cose.
Sto cercando di migliorare. Una delle cose contro cui
lotto con maggiore accanimento è quella parte profonda di
me che non si è ancora decisa ad abbandonare la rabbia. In
fin dei conti, sono certo che è stato proprio questo aspetto
del mio carattere a portarmi in cima, anche se non sono più
all’apice della mia carriera, quel fuoco dentro di me brucia
ancora. Dove finirei se lo lasciassi estinguere?
E a cosa mi serve esattamente, adesso?
L’orgoglio è una cosa buffa. Anche se durante la mia
carriera sportiva ho avuto molto di cui andare fiero – e molto
di cui pentirmi – non sono mai stato il tipo che si sofferma
troppo sulle cose. Sono uno che gioca a rete: il mio stile
era, ed è ancora, basato sull’andare avanti, sempre avanti,
e poi sferrare il colpo vincente.
Ma quando la tua carriera come atleta professionista
finisce, ti trovi in una posizione strana. Ti chiedi: e ora
cosa mi aspetta?
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Nel corso della mia carriera sono passato da una cosa
all’altra: il passo successivo era sempre dietro l’angolo.
Lungo la strada ho raggiunto molti obiettivi – vincere il
torneo universitario ncaa, vincere Wimbledon, gli U.S.
Open, la Coppa Davis; ho cercato di emulare il mio eroe,
Rod Laver, e ho realizzato molti dei miei sogni. Negli ultimi
anni, però, ho riflettuto su chi ero, chi sono e chi voglio
diventare.
Sono fierissimo della mia carriera tennistica. Ho vinto
77 tornei di singolo e 77 di doppio: 154 tornei in totale,
più di qualunque altro tennista professionista. I miei record
mi permettono di piazzarmi al terzo posto assoluto sia nel
singolo, dopo Jimmy Connors e Ivan Lendl, che nel doppio,
dietro a Todd Woodbride a Tom Okker.
Pensate al numero esiguo di grandi giocatori che vantano
risultati significativi non solo nel singolo ma anche nel doppio. Non ne fanno parte né Borg (non ha quasi mai giocato
in doppio), né Connors, né Lendl. Pensate a quante star
americane dell’era moderna hanno partecipato alla Coppa
Davis. Uno dei risultati di cui vado più fiero è quello di aver
contribuito a resuscitare la Coppa Davis negli Stati Uniti, a
partire dalla fine degli anni Settanta, un periodo in cui altre
teste di serie americane (soprattutto James Scott Connors)
non erano particolarmente inclini a sprecare energie per giocare praticamente gratis, quando era possibile guadagnare
una marea di soldi in altri tornei ed esibizioni.
Ditemi pure che sono un sentimentale, ma sono sempre
stato fierissimo di rappresentare il mio paese: nel tennis
non esiste emozione più grande. Forse ricorderete le foto
che mi ritraggono mentre corro intorno al campo con una
bandiera americana dopo la nostra appassionante vittoria
contro la Svizzera nel mio ultimo match in Coppa Davis,
nell’anno che concluse la mia carriera, il 1992. In dodici
anni ho disputato 30 incontri in Coppa Davis, vincendo 41
match di singolo e 59 in totale.
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Vorrei però soffermarmi sulla cosa più importante: non
il numero di partite vinte, ma le cinque Coppe che ho contribuito a far vincere agli Stati Uniti.
La storia del tennis, qualunque sia stato il mio ruolo in
essa, è sempre stata molto importante per me. Il mio idolo,
Rod Laver, è stato uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi,
e ha realizzato per ben due volte la straordinaria impresa
di vincere tutti e quattro i titoli principali nella stessa stagione: il Roland Garros, Wimbledon, gli U.S. Open e gli
Open d’Australia.
Io non ci sono mai riuscito. Ho vinto tre volte a Wimbledon e tre agli U.S. Open, ma mai un Roland Garros o
un Open d’Australia.
Pete Sampras ha vinto tredici titoli del Grande Slam
e, anche se gli è sfuggito il Roland Garros, ha vinto sette
volte a Wimbledon, quattro agli U.S. Open e due agli Open
d’Australia: un record incredibile.
Come me, anche Andre Agassi ha vinto quattro volte il
Grande Slam, ma a differenza di me ha vinto tutti e quattro
i trofei principali, anche se non nella stessa stagione. Il suo
posto nella storia è assicurato.
Dove mi porterà tutto questo? Solo il tempo potrà dirlo.
In totale ho vinto oltre dodici milioni di dollari in premi
e, con l’aiuto di mio padre e di altre persone sagge, ho investito le mie vincite e i soldi guadagnati con la pubblicità
in modo abbastanza intelligente e prudente da permettere
a mia moglie e ai miei figli una vita agiata. All’inizio i
contratti pubblicitari non furono numerosi, a causa della
mia immagine di ragazzaccio, ma poi si sono susseguiti in
fretta, quando i numi del marketing di Madison Avenue, e in
particolare quelli della Nike, hanno capito come sfruttarla.
Ho avuto contratti importanti anche dopo aver lasciato il
tennis giocato, proprio con la Nike.
Perché, allora, sento ancora di poter fare molto?
Credo dipenda dalla mia tendenza a vedere il bicchiere
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mezzo vuoto. Sono abbastanza intelligente da sapere che
non ha senso guardare a quello che non si è fatto invece che
a quello che si è fatto. Perdi la prospettiva, se ti paragoni a
persone che sono fuori dalla tua portata o con cui non è il
caso di paragonarti.
Ma a volte lo faccio lo stesso.
Lo confesso: sento che avrei potuto fare di più. Ci sono
notti in cui non riesco a dormire e ripenso all’Open d’Australia che mi sono lasciato sfuggire mentre ero all’apice
della carriera perché ho sempre creduto che avrei avuto
un’altra possibilità; al Roland Garros che ho avuto a portata
di mano e ho buttato via.
Mi sembra quasi di sentirvi sbottare: «Dai, McEnroe!
Sei ricco, famoso e in salute; hai una famiglia meravigliosa,
una vita più che agiata. Hai fatto cose incredibili e sei stato
in posti fantastici, cose e posti che la maggior parte della
gente può a malapena sognare. Perché non ti rilassi e non
ti godi quello che hai?».
Vi rispondo che ci sto provando, con tutto me stesso.
Però rimango uno che gioca a rete. Il mio stile è, ed è
sempre stato, andare avanti, sempre avanti.
Le mie aspettative su me stesso sono, come sempre,
straordinariamente alte.
Perché dovrei cambiare adesso?
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