“I HAVE A DREAM” - Martin Luther King alla marcia di Washington

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“I HAVE A DREAM” - Martin Luther King alla marcia di Washington
“I HAVE A DREAM” - Martin Luther King alla marcia di Washington
Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sarà ricordata come la più grande manifestazione per la
libertà nella storia del nostro paese.
Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmò il Proclama
dell’emancipazione1.
Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco
di una bruciante ingiustizia.
Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattività.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi.
Sono passati cento anni, e la vita dei neri è ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della
discriminazione.
Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di povertà, in mezzo a un immenso oceano di benessere
materiale.
Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della società americana, si ritrovano esuli nella
propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa.
In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno.
Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della
Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un “pagherò” di cui ciascun americano era destinato a ereditare la
titolarità.
Il “pagherò” conteneva la promessa che a tutti gli uomini, sì, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi
diritti inalienabili: “vita, libertà e ricerca della felicità”.
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo
impegno debitorio.
Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che è
tornato indietro, con la scritta “copertura insufficiente”.
Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento.
Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunità di questo paese non vi siano fondi sufficienti.
E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della libertà e la
garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi.
Quest’ora non è fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del
gradualismo.
Adesso è il momento di tradurre in realtà le promesse della democrazia.
Adesso è il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della
giustizia razziale.
Adesso è il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla
roccia compatta della fraternità.
Adesso è il momento di tradurre la giustizia in una realtà per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste.
L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finirà finché non saremo entrati nel frizzante autunno della
libertà e dell’uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, è un principio.
Se la nazione tornerà all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo
bisogno di sfogarsi un po’ e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sarà né riposo né pace finché i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza.
I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finché non spunterà il giorno
luminoso della giustizia.
* Ma c’è qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia:
durante il processo che ci porterà a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti.
Non cerchiamo di placare la sete di libertà bevendo alla coppa del rancore e dell’odio.
Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignità e disciplina.
Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica.
Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza
dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattività di cui oggi è impregnata l’intera comunità nera non deve indurci a
diffidare di tutti i bianchi, perché molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che
il loro destino è legato al nostro.
Hanno capito che la loro libertà si lega con un nodo inestricabile alla nostra.
Non possiamo camminare da soli.
E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti.
Non possiamo voltarci indietro.
Il Proclama di Emancipazione è un documento composto da due ordini esecutivi promulgati dal presidente degli Stati
Uniti Abramo Lincoln durante la guerra civile americana.
1
C’è chi domanda ai seguaci dei diritti civili: “Quando sarete soddisfatti?”.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalità
poliziesca.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli
alberghi delle città, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché tutta la facoltà di movimento dei neri resterà limitata alla possibilità di
trasferirsi da un piccolo ghetto a uno più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identità e derubati della
dignità dai cartelli su cui sta scritto “Riservato ai bianchi”.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno
di non avere niente per cui votare.
No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finché la giustizia non scorrerà come l’acqua, e la
rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni.
Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione.
Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la libertà sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e
travolti dai venti della brutalità poliziesca.
Siete i reduci della sofferenza creativa.
Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana,
tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può
cambiare e cambierà.
* Non indugiamo nella valle della disperazione.
Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno.
E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità
evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi
potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso
dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia.
Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore
della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non
parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullificatione delle leggi federali, un giorno, proprio là
nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche,
come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi
diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la
vedranno insieme.
Questa è la nostra speranza.
Questa è la fede che porterò con me tornando nel Sud.
Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di
fraternità.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci
insieme per la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verrà, quel giorno verrà quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo: “Patria mia,
è di te, dolce terra di libertà, è di te che io canto.
Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi libertà”.
E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la libertà riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire.
Che la libertà riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la libertà riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la libertà riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la libertà riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la libertà riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la libertà riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la libertà riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la libertà.
E quando questo avverrà, quando faremo riecheggiare la libertà, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e
da ogni paese, da ogni stato e da ogni città, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e
bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: “Liberi
finalmente, liberi finalmente.
Grazie a Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.
Il lungo viaggio di Leonardo Sciascia
In questo racconto Sciascia riporta la storia di poveri contadini siciliani che, all’inizio del Novecento, vorrebbero emigrare in
America con l’aiuto del signor Melfa. Imbarcati sulla nave che dovrebbe portarli a New York, dopo un lungo e difficile viaggio...
Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata2 che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva
spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.
Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e
Licata3 ; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare,
aggrumati nell’arida plaga del feudo4. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero
di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’al-tra deserta spiaggia dell’America,
pure di notte. Perché i patti erano questi – Io di notte vi imbarco – aveva detto l’uomo: una specie di commesso
viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto – e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi5, vi sbarco;
a due passi da Nuovaiorche6... E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton, dodici
giorni dopo l’imbarco... Fatevi il conto da voi... Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare
grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare...
Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare in America. L’importante era davvero
sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza.
Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste,
sarebbero arrivati anche loro; “chi ha lingua passa il mare”7, giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il
mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori e alle farme8 dell’America, all’affetto dei loro fratelli
zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case. Duecentocinquantamila
lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari9, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto
tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna10 il mulo l’asino le provviste dell’annata il
canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno,
dopo anni che ne subivano angaria 11 : e ne aveva soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta
nell’apprendere la notizia. “Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se
ti riesce di trovarmi”.
Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la
camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto
fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per
una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi. Erano già le undici.
Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando
la spense, l’oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un
più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un
brusìo, un parlottare sommesso. Si trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario12
della loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra.
– Ci siamo tutti? – domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. – Forse ci hanno
ripensato, forse arriveranno più tardi... Peggio per loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che
corriamo?
Tutti dissero che non era il caso di aspettarli. Se qualcuno di voi non ha il contante pronto – ammonì il signor Melfa –
è meglio si metta la strada tra le gambe13 e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di
grosso: io vi riporto a terra com’è vero Dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e
dunque chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre
campa; se gli va bene... Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo. – In barca – disse il
signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un confuso grappolo di bagagli. – Cristo! E
che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie, e finì quando tutto il carico, uomini e bagagli,
si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse14 fuori. E la differenza tra un uomo e un
fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava appresso le duecentocinquatamila lire; addosso, cucite
nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zaurri15, questi villani.
Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i giorni,
poiché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito
come in un liquido caldo nero bitume16. Ne grondavano17 all’alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di
cagliata: densa, fitta
Gela e Licata: paesi della costa meridionale della Sicilia.
4 aggrumati... feudo: raccolti sulla terra riarsa della regione.
5 Nugioirsi: New Jersey, stato della costa atlantica degli Stati Uniti, dove si trova la città di Trenton.
6 Nuovaiorche: altra storpiatura popolare per New York.
7 “chi ha lingua... mare”: il senso del proverbio è che chi sa parlare è capace di arrangiarsi e può arrivare dovunque.
8 agli stori e alle farme: pronuncia dialettale per i termini inglesi stores (“magazzini”) e farmes (“fattorie”).
9 scapolari: immaginette sacre su stoffa che si tenevano sotto i vestiti, appese al collo.
10 terragna: bassa, modesta.
11 angaria: sopruso.
12 l’impresario: il signor Melfa è l’organizzatore del trasporto: dovrebbe imbarcare i contadini e sbarcarli in America.
13 si metta... gambe: si rimetta in cammino di corsa [modo di dire popolare].
14 traboccasse: cadesse.
15 zaurri: zoticoni.
16 bitume: liquido denso e appiccicoso, nerastro.
17 Ne grondavano: se ne liberavano.
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vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe18 quando il vento lo sommuove, il mare
vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano19 di luce se appena indugiavano a
guardare.
Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fitte costellazioni fossero scese
al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte
stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole20, una brezza
che allargava i polmoni.
– Ecco l’America – disse il signor Melfa. – Non c’è pericolo che sia un altro posto? – domandò uno: poiché per tutto il
viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono né strade né trazzere21, ed era da Dio22 fare la via giusta, senza
sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua. Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti – E lo
avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come
splendono questi paesi? Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva
osato una così stupida domanda.
– Liquidiamo il conto – disse il signor Melfa. Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi. – Preparate le vostre
cose – disse il signor Melfa dopo avere incassato. Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di
viaggio, che per patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti
d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola
o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola
aperta23, appena la barca si mosse. E dunque non avete capito niente? – si arrabbiò il signor Melfa. – E dunque mi
volete fare passare il guaio?... Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi
rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole... E poi, sono stato ai patti:
qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto... Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio! Gli
diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare,
benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in
terribile agguato se avessero osato allontanarsene. Il signor Melfa aveva raccomandato – sparpagliatevi – ma nessuno
se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci. Sentirono,
lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque
l’uomo spreme in canto24 la stessa malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano25 dietro
l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America. Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono
in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: “asfaltata, ben
tenuta; qui è diverso che da noi”, ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare
incontri: la seguivano camminando tra gli alberi.
Passò un’automobile: “pare una seicento”; e poi un’altra che pareva una millecento, e un’altra ancora: “le nostre
macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette”. Poi passarono, assordanti,
due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della
strada. Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono
a leggere: Santa Croce Camerina - Scoglitti. – Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome. – Pare anche a
me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo. – Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a
Filadelfìa: che io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa. – Anche mio fratello: stava in un altro
posto, prima di andarsene a Brucchilin26... Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa
Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto. –
Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi... Ma non è che possiamo passare qui la nottata,
bisogna farsi coraggio... Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo “Trenton?”... Qui la gente è più
educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è,
questa maledetta Trenton. Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare27
davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme;
credette volessero un passaggio, aprì lo sportello. – Trenton? – domandò uno dei due. – Che? – fece l’automobilista. –
Trenton? – Che Trenton della Madonna – imprecò l’uomo dell’automobile. – Parla italiano – si dissero i due,
guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un compatriota la loro condizione. L’automobilista chiuse
lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come
statue – ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di... – il resto si perse nella corsa. Il silenzio dilagò. – Mi sto
ricordando – disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo – a Santa Croce Camerina,
un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura. Si buttarono come schiantati28
sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.
(Leonardo Sciascia, Il mare colore del vino, Einaudi)
messe: messi, grano.
verminavano: formicolavano, come abbagliati dopo la lunga oscurità.
20 trasparente fauna di nuvole: nubi evanescenti di tutti i tipi e le forme.
21 trazzere: sentieri per gli animali [termine siciliano].
22 era da Dio: bisognava essere molto abili.
23 a gola aperta: a piena voce.
24 preme in canto: esprime, trasferisce nel canto.
25 baluginavano: brillavano.
26 Brucchilin: storpiatura per Brooklyn, quartiere di New York.
27 guizzare: balzare.
28 schiantati: straziati, distrutti
18
19
In Europe and America
there's a growing feeling of hysteria
Conditioned to respond to all the threats
In the rhetorical speeches of the Soviets
Mister Krushchev said "We will bury you"
I don't subscribe to this point of view
It'd be such an ignorant thing to do
If the Russians love their children too
How can I save my little boy
From Oppenheimer's deadly toy?
There is no monopoly on common sense
On either side of the political fence
We share the same biology
Regardless of ideology
Believe me when I say to you
I hope the Russians love their children too
There is no historical precedent to put
Words in the mouth of the president
There's no such thing as a winnable war
It's a lie we don't believe anymore
Mister Reagan says "We will protect you"
I don't subscribe to this point of view
Believe me when I say to you
I hope the Russians love their children too
We share the same biology
Regardless of ideology
What might save us, me and you
Is if the Russians love their children too
Russians è un singolo tratto dal primo album solista di Sting, The Dream
of the Blue Turtles, pubblicato nel giugno del 1985. La canzone rappresenta
una dichiarazione d'intenti contro l'allora dominante politica
estera della Guerra fredda. La musica è basata su Lieutenant Kije Suite, Op.
60 (part II "Song") di Sergei Prokofiev. Un ticchettìo di orologio, quasi a
ricordare la precarietà del tempo. Una risposta di Sting al famoso
argomento usato durante la Guerra fredda secondo cui le armi nucleari
erano necessarie all'occidente come deterrente alla minaccia sovietica.
La risposta ("E se anche i russi amassero i loro figli?") è ovviamente
provocatoria e vuole sottolineare che anche dall'altra parte la paura di
una guerra nucleare era la stessa.
In Europa ed America c'è un crescente sentimento d'isteria condizionato dal
rispondere a tutte le minacce. Nei retorici discorsi al Soviet il signor
Krushchev ha detto: "Vi seppelliremo". Non sottoscrivo questo punto di
vista: sarebbe una cosa ignorante da fare se anche i russi amano i propri
figli.
Come posso salvare il mio giovanotto29 dal giocattolo mortale di
Oppenheimer?30 Non c'è monopolio del senso comune da entrambi i lati
dello steccato politico: dividiamo la stessa biologia noncuranti
dell'ideologia. Credetemi quando vi dico: spero che anche i russi amino i
propri figli.
Non ci sono precedenti storici per mettere le parole in bocca al presidente.
Non esiste niente di simile ad una guerra che si può vincere. È una bugia a
cui noi non crediamo più. Il signor Reagan dice "Vi proteggeremo". Non
sottoscrivo questo punto di vista
Credetemi quando vi dico: spero che anche i russi amino i loro figli.
Noi dividiamo la stessa biologia, noncuranti dell'ideologia. Quello che potrà
salvarci, me e te, è se i russi amano anche loro i propri figli
Nikita - testi di Elton John
“Hey Nikita is it cold in your little corner of the world?
You could roll around the globe and never find a warmer soul to know.
Oh I saw you by the wall ten of your tin soldiers in a row
with eyes that looked like ice on fire the human heart a captive in the
snow.
Oh Nikita you will never know anything about my home
I’ll never know how good it feels to hold you
Nikita, I need you so, oh Nikita is the other side
of any given line in time counting ten tin soldiers in a row
oh no, Nikita you’ll never know.
Do you ever dream of me? Do you ever see the letters that I write?
When you look up through the wire Nikita do you count the stars at
night?
And if there come the time guns and gates non longer hold you in
and if you’re free to make a choice just look towards the west and find a
friend.
Oh Nikita you will never know anything about my home
I’ll never know how good it feels to hold you Nikita I need you so
Oh Nikita is the other side of any given line in time counting ten tin
soldiers in a row oh no, Nikita you’ll never know.
Oh Nikita you will never know never know anything about my home
I’ll never know how good it feels to hold you Nikita I need you so
oh Nikita is the other side of any given line in time counting ten tin
soldiers in a row oh no, Nikita you’ll never know.
Nikita, counting ten tin soldiers in a row…
“Hey Nikita fa freddo nel tuo piccolo angolo del mondo?
Potresti girare tutto il globo e non trovare mai una
creatura più calda da conoscere.
Ti ho vista vicino al muro; dieci dei tuoi soldati di latta
in fila con gli occhi che sembravano ghiaccio sul fuoco;
il cuore umano un prigioniero nella neve.
Nikita non saprai mai nulla della mia patria
io non saprò mai quanto sia bello stringerti.
Nikita, ho tanto bisogno di te. Nikita è dall’altra
parte di un confine tracciato col passare del
tempo, contando dieci soldati di latta in fila.
No, Nikita non saprai mai.
Mi sogni mai? Vedi mai le lettere che scrivo?
Quando di notte guardi in su attraverso il filo spinato
conti mai le stelle, Nikita?
E se verrà il momento in cui le armi e le pistole non ti
tratterranno più lì e se sarai libera di fare una scelta,
guarda verso ovest e troverai un amico.
Nikita non saprai mai…
Nikita non saprai mai nulla della mia patria; io non
saprò mai quanto sia bello stringerti; Nikita, ho tanto
bisogno di te. Nikita è dall’altra parte di un confine
tracciato col passare del tempo contando dieci soldati di
latta in fila: oh no, Nikita non saprai mai.
Nikita, contando dieci soldati di latta in fila…
29 Ma "Little Boy" è il nome della bomba atomica sganciata su Hiroshima.
30 Fisico statunitense. Diede importanti contributi nel campo della fisica moderna, in particolare alla meccanica quantistica, ma la
sua fama è legata soprattutto alla costruzione della prima bomba atomica nell'ambito del progetto Manhattan. Dopo la guerra
Oppenheimer divenne un fiero oppositore dell'utilizzo delle armi nucleari.