Il mio paese, i miei amici, i miei giochi d`infanzia
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Il mio paese, i miei amici, i miei giochi d`infanzia
Il mio paese, i miei amici, i miei giochi d’infanzia Racconto di Giuseppe Aprile Mimmo aveva l’abitudine di farsi chiamare a casa all’ora di gioco. Io arrivavo e trovavo spesso la mamma Marietta, sulla porta e mi diceva: “Mimmo ti aspetta. Lo trovo sempre in attesa di te. Non vede l’ora di uscire. Sono però contenta che studiate abbastanza ed a scuola ve la cavate. Così dovete fare sempre. Va bene il gioco, va bene divertirvi, ma a patto che facciate sempre il vostro dovere per la scuola. Così quando siete grandi non morirete di fame. Vi fate una professione”. La mamma di Mimmo quando mi vedeva era come se vedesse un suo figlio. Tutte le nostre mamme potevano essere considerate una nostra seconda mamma per quanto ci volevano bene. Tutte, nessuna esclusa. Donna Marrietta, la mamma di Pippo, donna Immacolata, la mamma di Ciccio, Rosina la mamma di Mimmo che quando ero piccolino mi allattava in aiuto a mia madre che talvolta non aveva latte a sufficienza; e poi donna Ntonietta, la mamma di Ugo, Peppina la mamma di Vicia, Rosina la mamma di Mimmo e di Memma che con me e mia sorella avevano un meraviglioso rapporto come se fossimo figli degli stessi genitori per quanto i nostri padre stavano assieme a condividere lavoro e gioco, attività di commercianti di olio e di carrozzieri ed eravamo anche imparentati per via che mia nonna Catuzza era sorella del loro nonno. Ricordo con grande affetto tutti i miei compagni di infanzia e di giochi giovanili. E tutti i loro genitori. Tra noi tutti ed i nostri genitori, tutti nati e cresciuti nello stesso ambiente, in un piccolo ma favoloso paesetto rurale, fatto di poche case e pochi spiazzi e di poche strade, dentro cui si svolgeva tutta la nostra semplice e favolosa vita, correva buona ed affettuosa vicinanza, amicizia, infinito rispetto reciproco. Sembravamo tutti figli davvero di un Dio che ci aveva generati e fatti crescere negli anni. Era davvero bella la vita della nostra fanciullezza. Il paese era fatto di pochissime cose. Casette di tegole, stradette fino agli anni cinquanta semplicemente in terra battuta o di selciato, strette, in salita o in piano, che s’inerpicavano tra le case verso l’alto o lungo la strada principale del paese che chiamavamo corso principale. E poi una piazza, diversi allargamenti di strade che chiamavamo piazza per sentirci di un paese con più piazze, quindi più importanti. E contavamo quegli allargamenti di strade chiamandoli con un nome specifico. C’era il argo della chiesa, quello del calvario, quello con cui cominciava la strada vecchia che portava al campo sportivo, quello del mulino, quello delle scuole. E c’erano i punti dove giocavamo al pallone, quando in paese stavamo senza dover andare al campo che distava un po’ di strada e non avevamo molto tempo per andarci. In un periodo avevamo composto l’orchestra. Io e Ugo cantavamo, Mimmo Speziali suonava la chitarra, Pippo Dicembre il basso, Cecè Mollica suonava pure la chitarra, Peppe Ceravolo la batteria, Vincenzo Attisani la fisarmonica; ed avevamo una amplificazione abbastanza consistente, tanto che una volta tutti i miei compagni, tranne che me, hanno organizzato una suonata in piazza con i nostri amici paesani che fecero da pubblico abbastanza divertito. Io non mi sentivo di cantare in piazza perché pur avendo una bella e forte voce, sentivo che non ero in grado di cantare in pubblico, non avendo mai avuto qualcuno che ci impartisse lezioni di canto. Io ed Ugo avevamo una bella voce, ma lui cantava con spirito di capacità e osava cantare sentendosi pure bravo; io avevo bel altra idea. Cantavo perché avevo la voce, mi piaceva cantare, ma sentivo che non avevo tanta capacità da farmi ascoltare dagli altri. Cantavo per me, di istinto, aprivo la bocca e intonavo una delle mille canzoni che sapevo. Cantavo molto in casa guardandomi allo specchio dell’armadio e imitavo i cantanti veri e propri. Mi guardavo nello specchio e osservavo l’andamento della mia voce e dei miei gesti che mi facevano immaginare i cantanti che vedevo sui giornali. Allora non c’era nemmeno la televisione. Sentivamo la radio, il giradischi. C’erano dei dischi grandissimi, i settantotto giri ed alcuni più piccoli, i quarantacinque giri. Sapevamo tutte le canzoni allora in voga. Erano i tempi di Giorgio Consolini, Claudio Villa, Domenico Modugno, Nilla Pizzi, Oscar Carboni, Natalino Otto, Flo Sandos, Gino Latilla, Carla Boni, Aurelio Fierro, Gloria Cristian, Mario Abate, Elio Mauro, Narciso Parigi, Nunzio Gallo, Giacomo Rondinella, Luciano Taioli, Luciano Virgili, Achille Togliani, Arturo Testa, Nunzio Gallo. Poi vennero i cantautori, gli urlatori: Umberto Bindi, Bobby Solo, Adriano Celentano, Gianni Morandi, Giorgio Gaber, Gianni Meccia, Gino Paoli, Tony Dallara, e tanti, ma tanti altri che non menziono anche se nella mia mente corre sempre la loro immagine per come la vedevo sui giornali e, per quanto riguarda gli ultimi, per come li vedevamo in televisione che nell’intanto, primo fra tutti, Pepè Varacalli, venne portata al paese, nel suo Bar, e andavamo tutti, la sera, a vederla come si va al cinema o al teatro. Era il tempo del Musichiere di Mario Riva, di Lascia o raddoppia di Mike Buongiorno, del Carosello, dei primi film che vedevamo. Poi venne in festival di Sanremo e quello di Napoli che seguivamo facendo il tifo per questo o quel cantante, come si fa per lo sport del calcio e del ciclismo. I nostri idoli erano, nel mondo del calcio, le squadre della Juventus, dell’Inter, della Fiorentina, del Torino, del Milan, del Novara, della Pro Vercelli, dell’Atalanta di Bergamo, della Pro Patria che aveva la caratteristica di essere una squadra di serie A in un paesino del Nord, Busto Arsizio, che contava pochi abitanti; e dicevamo, però che era ricco di industrie e capivamo che ciò che contava era la ricchezza industriale che consentiva di mantenere una grande squadra di calcio. I calciatori che erano i nostri idoli erano Giampiero Boniperti, Benito Lorenzi, Mazzola, Bacicalupo, Combi, Caligaris, Rosetta, Magnini, Cervato, Lorenzo Buffon, Giorgio Grezzi, Pandolfini, Costagliola. A casa di Ugo Mollica era una stanza tutta dedicata allo sport del calcio e del ciclismo. Le pareti erano tappezzate delle foto di tutte le squadre e dei tanti campioni di ciclismo. E costituiva la sala dei nostri giochi. Giocavamo a chi trovava per primo un nome di ciclista o di giocatore dentro le squadre esposte. Uno diceva il nome di un calciatore e l’altro doveva sapere in quale squadra giocava e dove si doveva trovare. “Eccolo! L’ho trovato!” era la nostra gioiosa invocazione appena risolto il quesito. I ciclisti erano Fausto Coppi, Gino Bartali, Primo Volpi, Guido Messina, Leandro Faggin, Antonio Maspes. Sante Gaiardoni, Pettenella, Giancarlo Astrua, Minardi, Monti, Nencini, Fiorenzo Magni che si segnalava come il discesista per eccellenza- Individuavamo gli scalatori (il lussemburghese Ciarly Gaul, gli spagnoli Martin Federico Bahamontes. Luis Ocana e Fuentes, gli italiani Batali e Coppi, Gastone Nencini, Vito Taccone e Irnerio Massignan), e i passisti Anquetill, Baldini, Riviere che erano pure i maggiori campioni delle tappe a cronometro. Che mondo meraviglioso avevamo! E quanto la nostra vita si identificava in esso! Che felicità dentro quel nostro mondo e con le nostre famiglie legate da affetto, amicizia, dedizione reciproca. Solo eccezionalmente avveniva qualche inimicizia; che durava poco, perché o l’uno o l’altro cercava una minima occasione per superare il contrasto. Dominava il bene, il buon rapporto, la tolleranza, la dedizione dell’uno per l’altro. Non dimentico mai mio pare che, avendo avuto la sera un bisticcio con il professore Gino, incontrandolo, di sera, per la via vicino alla fontana, in mia presenza, disse: “Buona sera professore e scusate per ieri sera”. E il professore a rispondere: “Non vi preoccupate Micuzzo, Tutto passato!” E tornarono amici come prima. Oggi non sarà che avverrebbe una cosa simile. Ognuno si chiude in uno stupido orgoglio, sempre inutile e dannoso, mai motivato, e una volta nemico non lo ritrovi più! Due mondi, ovviamente, diversi con ragioni diverse e con diversa natura umana! Il nostro mondo era lontano dalle grandi città, delle quali si parlava mitizzandole. E quando uno partiva per lavoro fuori, non si scordava mai e lo si immaginava chissà come e chissà dove. Non si poteva immaginare davvero lo stato e il punto dove poi si sarebbe trovato. Restava nella nostra mente così, com’era sempre stato. E chi poteva mai immaginare la città del Nord? O la Germania, o la Francia, o l’Australia, o l’America? O il Canada, l’Argentina? Mai una foto vista, mai potuto avere una pur pallida idea dell’altro mondo, lontano da noi in modo eguale, sia per i paesi europei sia per i paesi d’oltre oceano. Per noi il mare era come il cielo. Solo che il mare stava parallelamente a noi e il cielo stava di sopra. Ma tutto era azzurro, dello stesso colore e della stessa immaginaria vastità. Del resto le carte geografiche affisse alle pareti della scuola elementare li mostravano tutte in azzurro. Mari e monti avevano lo stesso colore. E noi guardando le carte geografiche tentavamo di farci una idea almeno sulle distanze. E per noi la differenza tra le città, per grandezza, era segnata dai caratteri più o meno grandi e marcati che le segnavano. Anche i fiumi li vedevamo più o meno lunghi, più o meno grandi a seconda anche della grossezza delle righe, sempre in azzurro, che li segnalavano. Il più grande era il Mississipì in America, quindi il Rio delle Amazzoni in Brasile, il Nilo nel Nord Africa, Il Volga in Russia, il Danubio nel cuore dell’Europa. Caratteristici erano i piccoli fiumi come il Tamigi in Gran Bretagna, il nostro Po’ e l’Adige, lo storico e mitico Piave e l’Arno, la Senna della Francia. E così era per i laghi che imparavamo dalle carte geografiche. Il Lago Superiore tra Stati Uniti e Canadà, l’Agoda e l’Omega in Russia, il Peipus e gli italiani Garda, Como e Iseo; il Trasimeno nel centro Italia. Il nostro mondo favoloso era composto da queste immagini: nomi, carte geografiche, pagine di giornali di sport e scritture di canzoni, qualche libro di favola, e il gioco delle bocce, della dama, ed i giochi popolari in piazza nei giorni del prenatale e dell’estate, l’andare in campagna e dedicarsi a meravigliose ricorrenze quali la raccolta delle lumache, dei fichi, delle olive, degli asparagi, del rigano, degli ortaggi, e di tanti frutti meravigliosi che allora non si compravano al mercato, come oggi, ma si facevano degli orti coltivati dai nostri indimenticabili genitori ortolani e solerti contadini, pieni di vigore fisico e arditi di sentimenti, sorridenti sempre e rivolti al domani con fiducia e tranquillità. Giuseppe Aprile