Minerva cardioangiologica 2011

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Minerva cardioangiologica 2011
0 - indice 16-11-2011 10:46 Pagina 7
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Vol. 59
Dicembre 2011
Suppl. 1 al N. 6
SIAPAV
XXXIII Congresso Nazionale
Padova, 23-26 Novembre 2011
INDICE
25
LETTURE
3
M.M. Di Salvo, G. Failla, F. Mugno, G. Ardita,
P.L. Antignani
Varici e infiammazione
C. Allegra
6
Le angiodisplasie: oggi e domani
28
B.B. Lee
8
31
32
Screening dell’arteriopatia diabetica
nei diabetici: quando, come, in quali
pazienti?
G.M. Andreozzi
Il trattamento ottimale del paziente
arteriopatico
A. Pinto
20
34
R. Pepe
23
CCSVI evidenze della letteratura (Gruppo di Studio SIDV-GIUV)
M. Amitrano, G. Arpaia, P.L. Antignani
36
Cosa dobbiamo trovare in un referto
eco-color-Doppler di qualità
Che ruolo ha l’eco-color-Doppler nel
percorso diagnostico terapeutico della
patologia cerebrovascolare?
L‘Accreditamento di Eccellenza dell’UOD di Angiologia secondo il percorso SIAPAV
R. Greco, B.L. Farina, V. Prisco
Il tempo di circolo cer ebrale nei
pazienti con sclerosi multipla: valutazione con ecografia con mezzo di contrasto
M. Mancini
L. Aluigi
21
L’Accreditamento di Eccellenza secondo
il percorso SIAPAV di UOS Angiologia
G. Arpaia
SIMPOSI
19
Il modello Hub & Spoke in Angiologia/Medicina Vascolare
G.M. Andreozzi, A. Visonà, R. Martini
La terapia ipolipemizzante nella gestione del paziente a rischio aterosclerosi
A. Corsini
15
Revisione ministeriale delle tabelle di
invalidità
39
CCSVI: parallelismo diagnostico tra
ecografia e flebografia
G. Cacciaguerra
41
Divisione di Angiologia/Medicina
Vascolare della UEMS (UEMS Division
on Angiology/Vascular Medicine):
risultati e applicazioni
Correlazione tra CCSVI e SM: risultati
di uno studio osservazionale su 560
pazienti studiati con due differenti
strumenti eco-doppler e dati preliminari di follow-up post-angioplastica
M. Catalano
P. Bavera
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
V
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INDICE
42
Epidemiologia della CCSVI nella sclerosi multipla utilizzando ECD-TCCS e flebografia
69
D. Alesso
A. d’Alessandro
44
Terapia compressiva nelle ulcere degli
arti inferiori: qualità novità
71
G. Mosti
46
Nuove prospettive nel trattamento
locale
G. Failla, G. Ardita, P. Finocchiaro, F. Mugno,
L. Attanasio, M. Di Salvo
49
74
Correzione emodinamica del reflusso
C’è una terapia medica per l’ulcera
venosa?
E. Arosio
53
SIAPAV-ILA: un sodalizio destinato a
durare
Il trattamento delle malformazioni vascolari: chi, come e dove
76
Telemedicina e angiodisplasie: la costituzione di un portale nazionale per i
medici di medicina generale, per gli
specialisti e per i pazienti
S. Pillon
58
61
78
B. Cosmi, M. Sartori
81
84
Trombofilie e arteriopatie
F. Conti
86
Il Medico Generalista, primo diagnosta
e primo terapeuta: la misura di ABI e
l’AOP asintomatica
89
C.F. Marulli
90
Management della claudicatio moderatasevera: obiettivi e strategie terapeutiche
Il training fisico nei vari stadi dell’arteriopatia ostruttiva periferica (AOP)
Trombofilie e poliabortività
Trombofilie: linee guida e grandi Trial
C. Cimminiello, G. Arpaia, G. Spezzigu
TVCE e neoplasie
R. Greco, B. L. Farina, V. Prisco
92
La terapia anticoagulante nella TVCE
W.M. Pacelli
94
La gestione della Trombosi Venosa
Profonda in Medicina d’Urgenza
E. Bernardi
Gli interventi di rivascolarizzazione
nella AOP
B. Gossetti, F. Faccenna, A. Laurito, J. Jabbour,
A. Alunno, A. Castiglione, M.M.G. Felli,
A. Malaj, D. Stavri
VI
Classificazione e meccanismo patogenetico delle trombofilie congenite
G. Pessina
M. Prior
66
Nuovi anticoagulanti orali: caratteristiche e possibile impiego nella TVS
P. Simioni, E. Campello
M.M Di Salvo, F. Mugno, P.M. Finocchiaro,
G. Ardita, G.Failla
64
Fattori di rischio e TVS
S. De Marchi
R. Mattassi
57
La TVS sentinella: programma di screening in Medicina Generale
R. Laurora
P. Alia
55
Clinica delle trombosi venose superficiali (TVS) e pr esentazione di un
modello di percorso diagnostico-terapeutico (PDT) per le TVS
G. Milio, D. La Rosa, e gruppo di lavoro per il
PDT-TVS
G. Guarnera
51
La misura di ABI in Medicina Generale:
risultati di un’esperienza sul campo
96
I filtri cavali: quando e come
A. Siani, F. Accrocca, R. Antonelli, G.A. Giordano,
R. Gabrielli, F. Mounayergi, L.M. Siani, G. Marcucci
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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INDICE
98
La trombosi venosa superficiale della
vena grande safena a livello della crosse safeno-femorale
B. Gossetti, F. Faccenna, A. Laurito, J. Jabbour,
A. Alunno, A. Castiglione, M.M.G. Felli,
A. Malaj, D. Stavri
100 Indicazioni attuali dei nuovi farmaci
anticoagulanti
C. Cimminiello
119 Test di Pearson e lo studio “PESI-MILLERS”: analisi correlativa per variabili
continue in 30 pazienti con tromboembolismo venoso: triennale esperienza
(2008-2010)
M.M. Ciammaichella, R. Maida, C. Patrizi,
C. Maida, G. Cerqua, M.L. Mecca
121 Fattori di rischio e sintomatologia della
trombosi venosa profonda distale
102 Il fondaparinux nel trattamento della
tromboflebite superficiale: lo studio
CALISTO
P. Prandoni, I. Minotto, R. Pesavento
COMUNICAZIONI ORALI
107 Tromboendarterectomia
e stenting
carotideo. Esperienza monocentrica
G. La Barbera, M. Vallone, G. Ferro, F. Valentino,
F. Fallea, L. Cassaro, D. M. Parsai, G. La Marca
109 Le complicanze infettive dopo evar:
la nostra esperienza nell’interessamento dell’aorta sopra-renale
L. Ukovich, K. Nikolakopoulos, C. Cera, F. Pozzi
Mucelli, S. Chiarandini, R. Adovasio
110 Una complicanza rara post-stenting
dell’arteria succlavia: la sindrome da
iperafflusso cerebrale
L. Ukovich, M. Naccarato, B. Ziani, K. Nikolakopoulos, C. Cera, G. Giacomel1, A. Calgaro,
R. Adovasio
112 Complicanze iatrogene nel trattamento
endovascolare
J. Clerissi, C. Massa Saluzzo, A. Ragazzoni, A. La
Rosa, C. Scotti, M. Dondi, S. Cirulli, R. Moia
M. Sartori, B. Cosmi, L. Salomone, G. Guazzaloca,
L. Valdrè, C. Legnani, G. Palareti
123 Chirurgia delle varici recidive
A. Ragazzoni, A. La Rosa, M. Dondi, E. Moia, C.
Scotti, A. Khamis, S. Cirulli, R. Moia
125 La valvuloplastica venosa con tecnica
OSES: risultati di una serie clinica di 32
casi
S. Camilli, D. Camilli
128 Correlazioni
tra alterazioni della
pompa suro-plantare, dell’apparato valvolare ed insorgenza di ulcera flebostatica: due casi clinici
A. Sellitti, A. Di Filippo, R. Giordano, M. Apperti
130 Postura e circolazione nostra esperienza
E. Bucherini, R. Rossetti, C. Brini, F. Ventura
132 Il varicocele pelvico e scrotale
J. Clerissi, C. Massa Saluzzo, A. Ragazzoni, A. La
Rosa, M. Dondi, C. Scotti, M. Martinotti, R. Moia
134 Come organizzare un Servizio di Angiologia a “isorisorse”
S. Cuppini, M. Marzolo, G. Burattin, E. Di Giacomo, M. Chinaglia, P. Amistà, E. Ramazzina,
S. Pierotti
incrementale della valutazione
114 Embolia polmonare da trombosi veno- 135 Valore
della performance sistolica mediante
sa giugulare idiopatica
D. Tonello, B. Zalunardo, S. Cesari, S. Irsara,
L. Zotta, F. Busato, F. Baratto, C. Biasutti,
A. Visonà
116 La
profilassi del tromboemblismo
venoso a domicilio e nel territorio
G. Camporese
117 Strategie di prevenzione della recidiva
di trombosi venosa profonda
G. Camporese
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
strain/strain rate nel predire l’outcome
di pazienti cardiopatici ischemici sottoposti ad interventi di chirurgia vascolare
A. Laurito, A. Dagianti, A. Malaj, A. Alunno,
M.M.G. Felli, A. Castiglione, J. Jabbour,
F. Faccenna, B. Gossetti
137 Ruolo della ricostruzione venosa nei
traumi complessi degli arti inferiori
A. Siani, F. Accrocca, G.A. Giordano, R. Antonelli,
R. Gabrielli, L. Irace, O. Martinelli, G. Marcucci
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
VII
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INDICE
139 Pyoderma gangrenosum: caratterische
cliniche e criteri diagnostici
D. Tonello, B. Zalunardo, S. Irsara, L. Zotta,
F. Busato, F. Baratto, A. Visonà
141 Miglioramento della funzione cardiaca
e dello stretch di parete in pazienti
claudicanti dopo ciclo riabilitativo
aerobico
S. Zecchetto, S. De Marchi, A. Rigoni, F. Rulfo,
M. Prior, E. Arosio
144 Studio di fattibilità in one-day surgery
di procedure endovascolari non complesse
F. Accrocca, A. Siani, G.A. Giordano, R. Gabrielli, R. Antonelli, G. Marcucci
146 Ruolo degli interventi Ibridi nel salvataggio d’arto in pazienti con ischemia
critica
R. Antonelli, F. Accroca, G.A. Giordano, A. Siani,
G. Marcucci
148 Utilità di un precoce riconoscimento di
lesioni non occludenti, ma a rischio
(failing graft), nei by-pass femorodistali
M.M.G. Felli, A. Alunno, A. Castiglione, A. Malaj,
J. Jabbour, F. Faccenna, A. Laurito
150 Trattamento endovascolare degli aneurismi periferici
J. Clerissi, C. Massa Saluzzo, A. Ragazzoni,
A. La Rosa, M. Dondi, C. Scotti, M. Martinotti,
R. Moia
152 Trattamento endovascolare delle lesioni iliache: nostra esperienza
J. Clerissi, C. Massa Saluzzo, A. La Rosa,
A. Ragazzoni, C. Scotti, M. Dondi, V. Epicoco,
R. Moia
155 Percorso diagnostico-terapeutico integrato del paziente con vasculopatia
diabetica
S. Cuppini, M. Marzolo, G. Lisato, F. Mollo,
P. Cardaioli, L. Zattoni, A. Sacco, E. Di Giacomo, G. Burattin, P. Dal Santo, E. Ramazzina
156 La PTA + stent dell’ischemia cronica
periferica nel paziente diabetico
J. Clerissi, C. Massa Saluzzo, A. La Rosa, A.
Ragazzoni, E. Moia, C. Scotti, M. Dondi,
V. Epicoco, R. Moia
VIII
158 Aneurisma dell’arteria mesenterica
superiore: case report e revisione della
letteratura
F. Baratto, S. Irsara, D. Tonello, F. Busatto,
B. Zalunardo, A. Visonà
161 Segni precoci di aterosclerosi in pazienti affetti da morbo celiaco
S. De Marchi, S. Zecchetto, G. Chiarioni,
A. Rigoni, M. Prior, F. Rulfo, E. Arosio
CORSI DI AGGIORNAMENTI
165 Il
trattamento endovascolare delle
varici degli arti inferiori
B. Gossetti, F. Faccenna, A. Laurito, J. Jabbour,
A. Alunno, A. Castiglione, M.M.G. Felli, A. Malaj,
D. Stavri
168 Il
ruolo dell’EVLA nel trattamento
endovascolare delle varici
G.B. Agus
170 La legatura sottofasciale delle perforanti
S. Venosi
173 La scleroterapia ecoguidata con schiuma nel trattamento delle varici degli
arti inferiori: risultati dopo 5 anni di
attività
M. Gallucci
175 Trattamento con radiofrequenze: esperienza personale
P. Bortolotti
178 Clinica delle ulcere vascolari
P.E. Mollo, S. Cherubini, V. Venturelli
180 Approccio clinico con simulazione al
paziente con ulcera agli arti inferiori
A. Crespi
182 L’importanza della cute perilesionale
O. Forma
184 La gestione infermieristica domiciliare
della persona amputata
A. Lombardi
185 L’uso delle medicazioni avanzate è giustificato?
A. De Angelis
189 Indice degli Autori
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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LETTURE
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):3-5
Varici e infiammazione
C. ALLEGRA
Varice dal latino Varix, radice varus cioè tortuoso, opposto, contrario. La etimologia esprime in pieno tutta la
patofisiologia della sindrome varicosa: vena
tortuosa,parete, circolo di ritorno non più centripeto
bensì centrifugo cioè opposto e contrario, emodinamica e
reologia. Le varici secondo la classificazione CEAP appartengono alla classe C2 e a seconda se siano primitive o
secondarie a un processo trombotico profondo, primitive
o secondarie; la loro evoluzione è verso complicanze flogistiche, varicoflebiti, oggi rivalutate in senso prognostico,
o verso alterazioni tessutali fino alla ulcerazione. Tutto
questo va sotto il nome di malattia venosa cronica. È una
malattia molto diffusa e sottostimata e la prevalenza nei
diversi paesi è variabile a seconda che sotto la denominazione di varici si includano anche le micro varici e le
telangectasie 1 o solo le varicosità nel territorio della safena cioè varici di medio e grosso calibro; si passa così da
una prevalenza di circa l’80% nel sesso maschile e 85% in
quello femminile a circa il 40% con una differenza tra i
due sessi a volte di 1 a 2 uomo-donna, a volte di 1 a 1,5
a volte con prevalenza maschile 2,3. Date le notevoli
discrepanze si ritengono opportuni ulteriori ricerche di
epidemiologia e prevalenza con popolazioni più omogenee, caratteri di arruolamento sovrapponibili tenendo
presente anche la razza, il clima e la alimentazione 4,5. Tra
i fattori di rischio due sono attualmente i più rilevanti la
familiarità che sembra essere secondo Scott 6 dell’80% e
l’età che, secondo studi recenti, produce oltre i 65 anni,
una triplicazione della malattia e delle complicanze quali
l’ulcera venosa 7. Questo ultimo fenomeno, l’invecchiamento della popolazione mondiale, ci appare di estrema
rilevanza se consideriamo che in Italia secondo i dati
ISTAT del 2001 la popolazione di ultrasessantacinquenni,
tocca il 20% della popolazione;dobbiamo dunque aspettarci nel prossimo decennio un aumento esponenziale di
questa malattia e delle sue complicanze a meno che non
si attui una meticolosa informazione e prevenzione sia
primaria che secondaria riducendo così non solo le complicanze delle varici e la terapia invasiva che ne consegue
in regime di ricovero con un miglioramento della qualità
delle Vita, ma abbattendo anche i costi per una Sanità
sempre più in crisi. Abbiamo calcolato che il costo della
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
U.O.C.D. di Angiologia,
Azienda Ospedaliera “S. Giovanni-Addolorata”, Roma
prevenzione attraverso l’informazione, l’educazione, la
contenzione elastica (3 paia di calze per anno), la visita
medico-specialistica con esame Doppler (2 per anno), la
terapia farmacologica (i flavonoidi), è approssimativamente di 1 Euro al giorno, laddove in presenza di complicanze, il costo passa a 350-500 euro al giorno a seconda di ricovero ordinario o di day-surgery o day-hospital.
In sintesi un anno di prevenzione costa meno di 1 giorno
di ricovero senza tenere conto della qualità di vita del
paziente e dei costi indiretti 8,9.
La varici sia primitive che secondarie riconoscono nella
incompetenza valvolare il primun movens della malattia
venosa cronica sia che il mancato funzionamento dell’apparato valvolare sia legato alla distruzione del medesimo
per ricanalizzazione postrombotica sia per non collabimento dei pizzi valvolari da dilatazione del lume venoso.
La risultanza di questi eventi è il reflusso che guoca un
ruolo fondamentale in tutta la patologia del sistema venoso innescando un processo automantentesi e progressivamente ingravescente con ripercussioni reologiche sia
nelle grandi che nelle piccole vene. La Legge di Bernoulli
domina la scena attraverso il rapporto inverso tra pressione di punta e pressione laterale; in presenza di una dilatazione la pressione di punta diminuisce, conseguentemente quella laterale-dilatativa aumenta; aumentando
questa ultima si riduce ulteriormente quella di punta e
così di seguito. Dunque Stasi, aumento della pressione
laterale;per questo la malattia venosa viene definita cronica ed evolutiva. Il processo emodinamico suddescritto a
sua volta innesca il processo reologico attraverso la stasi
che provoca l’accollamento a parete degli elementi figurati che in condizioni normali hanno una traiettoria assialecentrale.
L’insufficienza valvolare nelle vene di grosso e medio
calibro provoca una inversione del flusso particolarmente
attraverso le vene perforanti al terzo inferiore di gamba
per motivi gravitazionali.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
3
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
ALLEGRA
VARICI E INFIAMMAZIONE
Particolarmente interessate sono le perforanti di Cockett
dove I due reflussi si incontrano il reflusso lungo l’asse
safenico e quello attraverso la perforante verso la superfice; questo scontro di flussi viene esasperato durante la
deambulazione se questa avviene senza una contenzione
che aumentando la pressione intravenosa nell’asse safenico varicoso riporta il flusso dalla superfice in questo crea
un caput mortuum con complicanze trofiche precoci e
ingravescenti. Queste alterazioni emodinamiche dei grossi
vasi venosi si ripercuotono in senso distale alla microcircolazione, punto di contatto tra flusso sanguigno e tessuti, attivando il sistema di regolazione dei flussi nei microvasi.che impedisce l’inondamento tessutale e di conseguenza l’edema e le alterazioni trofiche 10-14.
Uno dei meccanismi di difesa è la variazione della vasomotion arteriolare con prevalenza dei periodi di vasocostrizione; questo riduce la ipertensione a livello capillare
e aumenta l’ematocrito con emoconcentrazione e relativo
aumento della pressione oncotica 15-18.
Questo fenomeno di emoconcentrazione capillare riduce
notevolmente l’inondamento tessutale da ipertensione
prevenendo le alterazioni ipossiche tessutali e l’alterazione della barriera ematotessulare;per tale motivo nei primi
gradi di malattia venosa cronica da varici non si osservano segni clinici particolari ad eccezione di un transitorio
edema serotino e i parametri microcircolatori di laboratorio sono poco significativi ad eccezione di un lieve aumento dell’Hctrel capillare e una riduzione della RBCV 19.
Importante ruolo giuocano i linfatici iniziali presenti nel
tessuto interstiziale. Il microcircolo linfatico come tutte le
unità micro circolatorie, è un circolo “a la demande“. A
seconda della pressione interstiziale , le benderelle che
ancorano i linfatici iniziali al tessuto, si tendono o detendono, aprendo o chiudendo così questo circolo di ritorno.
Tradotto in termini clinici: edemi transitori, posturali che
recedono immediatamente in clinostatismo. Al contrario
nella malattia venosa cronica di media e severa intensità,
la vasomotion della arteriola terminale si blocca per vasoparalisi e l’ipertensione venosa con reflusso si ripercuote
direttamente al circolo capillare con inondamento dei tessuti interstiziale e sovraccarico della funzione di drenaggio dei microvasi linfatici: In termini di clinica, edema
permanente con iniziali alterazioni trofiche tessutali.
Nell’animale di laboratorio è stato visto che dopo 3 settimane di aumento provocato della pressione venosa, a
livello delle valvole venose si nota una abnorme presenza
di granulociti, macrofagi e linfociti con aumento dei livelli
MMP-2 e MMP-9 e con esito in distruzione della valvola.
Questo a dimostrare quanto male l’endotelio venoso e le
valvole mal tollerino per troppo tempo una ipertensione.
Le variazioni di flusso come la stasi, flusso zero, il flusso
vorticoso che sempre esprime un rallentamento di flusso,
il reflusso, sembra provochino per assenza o alterazione
dello Shear Stress la liberazione di fenotipi infiammatori e
trombotici con alterazioni di recettori endoteliali detti glicocalici che perdono la funzione di legare o intrappolare i
leucociti e dunque favoriscono il processo infiammatorio.
La diminuzione della pressione di perfusione con il rallentamento del circolo venoso, stasi venosa, favorisce il
capillary plugging da parte dei globuli bianchi attivazione
4
dei medesimi e rilasciamento di enzimi proteolitici, metaboliti dell’ossigeno, lipasi,catecolamine e tutto il corredo
della infiammazione per attivazione leucocitaria come la
L-selectina, CD11b, ICAM-1 con grave danneggiamento
endoteliale e aumento della sua permeabilità con passaggio del fibrinogeno e la formazione per depomelarizzazione di una membrana di fibrina al’esterno del capillare,
fibrin cuff.
Tale ultimo atto legato alla flogosi, rappresenta l’ultima
difesa naturale per evitare un totale inondamento del tessuto interstiziale ma dall’altra parte ne impedisce la ossigenazione.
Studi ormai cospicui e recenti stanno dimostrando come i
pazienti affetti da malattia venosa cronica sia primitiva
che secondaria, durante la prolungata stazione eretta,
liberano sostanze ad azione infiammatoria prevalentemente di derivazione leucocitaria quali MMP e TIMP-2.
L’aumento del fattore endoteliale di accrescimento
(VEGF) sembra sia aumentato durante la stazione eretta
in tali pazienti quando portatori di lipodermatosclerosi
cioè in fase ormai avanzata.
Quale messaggio percepiamo da queste ricerche che compongono il mosaico della sindrome varicosa?
1. Evitare la stazione prolungata anche se possessori di
contenzione elastica.
2. La compressione rimane la pietra miliare della terapia
della malattia venosa cronica.
3. L’infiammazione da stasi venosa e venulare è un processo aggravante la patologia ma non è la causa.
4. Stasi venosa e dilatazione della parete venosa con
relativa insufficienza valvolare primaria o secondaria
sono elementi inscindibili dello stesso problema.
5. Accettando la sindrome varicosa come malattia familiare, cronica ed evolutiva, qualsiasi atto chirurgico anche
mininvasivo, quando dovuto, rappresenta solo un presidio momentaneo e obbliga il paziente e il Medico ad
un attento e continuo monitoraggio.
6. Si ha il dovere di informare per evitare attraverso una
attenta prevenzione a bassissimo costo, l’insorgenza
della malattia e le sue complicanze.
7. I Flavonoidi si pongono a dosaggio corretto e con un
timing ben definito come terapia fondamentale di
sostegno alle norme comportamentali, alla compressione elastica e ad eventuali procedure invasive.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
VARICI E INFIAMMAZIONE
ALLEGRA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):6-7
Le angiodisplasie: oggi e domani
B.B. LEE
Angiodysplasia, newly named to ‘congenital vascular
malformation (CVM)’ is the vascular disorder of extreme
variety with a stigma of totally unpredictable behavior;
“recurrence” has been the trademark of the CVMs.
Indeed, CVM remains the most difficult and confusing diagnostic and therapeutic challenge through centuries due to;
– Wide range of the clinical presentation
– Unpredictable clinical course
– Erratic response to the treatment with high recurrence
– High morbidity of conventional treatment
– Confusing terminology without proper information on
etiology, anatomy, and pathophysiology
Now we learned, the CVM is a ‘group of birth defects’
often affecting more than one vascular system; capillary,
arterial, venous, and/or lymphatic system with different
characteristics and behaviors. And the CVM represents
various birth defects developed in peripheral vascular
system during various stages of embryogenesis as the
result of a developmental arrest.
Among the new knowledge we learned through the last
two decades, the most critical information would be;
– CVM has TWO different faces as its unique and fundamental characteristics: “Embryonic face and Hemodynamic face”.
– Embryonic characteristic is represented by the “evolutive potentials” to grow when the condition/milieu
should meet, represented by the ‘extratruncular’ form*.
– Hemodynamic characteristic reflects each involved
vascular system to the CVM, more significant among
the ‘truncular’ form*.
Such new concept has been evolved by a new classification organized based on the consensus initiated through
Hamburg Workshop in 1988. It has been proved for its
superiority in the clinical applicability providing critical
information to various developmental failure during the
embryogenesis.
* Modified Hamburg Classification
6
Professor of Surgery, George Washington University,
Washington DC, USA
‘Extratruncular’ lesion as the result of the developmental
arrest in the ‘earlier stage’ of embryogenesis so that it
maintains unique embryonic characteristics of the mesenchymal cells to grow when provoked/stimulated by
various conditions (e.g. trauma, pregnancy, surgery, or
hormone). ‘Truncular’ lesion, on the contrary, as the
result of the developmental arrest along the ‘later’ stage
does no longer possess such critical evolutional power to
grow/recur.
Unpredictable behavior of the CVMs with high recurrence
is generally due to its pathognomic/ embryological characteristics of the ‘extratruncular’ lesion as an embryonic
tissue remnant.
Its erratic response to the conventional treatment with
high morbidity and high recurrence gave a notorious
reputation as an enigma among many vascular disorders;
“recurrence” became a trademark of CVM.
Hence, contemporary concept on the CVMs was finally
established based on this modified Hamburg classification
with proper information on the etiology, anatomy,
embryology, histopathophysiology of CVMs.
This new classification has provided a right ground for
contemporary diagnosis of various CVMs and subsequently advanced management based on a new technology.
Contemporary diagnosis can be made with a proper combination of various non- to less-invasive tests for the
majority of the CVMs; clinical assessment with non-invasive tests should be adequate in general enough to rule out
immediate candidate for the treatment with “absolute”
indication for the treatment; the confirmation of precise
nature of the CVMs in the expense of invasive tests can
be deferred until the decision for the treatment is made.
And finally, a new concept of ‘multidisciplinary team
approach’ emerged aiming at the prevention/control of
‘recurrence’ with minimally possible complications/morbidity as the ultimate goal of the management, as lonely
surgeons dreamed for centuries.
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LE ANGIODISPLASIE: OGGI E DOMANI
LEE
New multidisciplinary team1 approach has achieved full
integration of traditional open surgical treatment and nonsurgical/endovascular treatments with various forms of
embolo/sclerotherapy.
Now, the treatment strategy can be organized based on
newly established principles;
– Not every CVM lesion should be considered for the
treatment; the only lesion with justified indications
should be assessed by the multidisciplinary team as a
treatment candidate.
– Only when the team consensus should expect the
benefit by the treatment to exceed the risk of the complication and morbidity by the treatment, less risky
therapy should be tried first.
– Controlled aggressiveness is warranted for the CVM in
general regardless its condition even for AVM.
Traditional open surgical/excisional therapy and endovascular therapy are now fully integrated as a total care
management of the CVM as the most effective means.
(e.g. embolo/sclerotherapy for extratruncular lesion:
angioplasty and stent for truncular lesion)
Endovascular therapy is now the treatment of the choice
to non to poor surgical candidate with extensive lesions
beyond deep fascia with involvement of muscle, tendon
and bone as diffuse infiltrating extratruncular CVM lesions
as an independent therapy.
The role of endovascular therapy is further expanded as
adjunctive therapy to surgical candidate to improve the
safety and effectiveness of surgical control with reduced
morbidity.
Active incorporation of the embolo/sclerotherapy preand/or post- operatively allows substantial expansion of
the traditional role of surgical therapy alone especially for
the infiltrating extratruncular form of CVM while maintaining acceptable range of surgical risk.
For the future, we propose;
– Correction of misunderstanding on the CVM. “The
majority of the CVMs is not a congenital AV fistula but
venous anomalies”.
– Rethinking of the conservative attitude with improved
knowledge in patho-physiology and anatomo-embryology, and diagnostic and therapeutic technology.
– Multidisciplinary team approach with full integration
of open surgical and endovascular therapy as the main
strategy for the future CVM management.
– A team approach with new treatment strategy to achieve more improved treatment results even to once
tabooed lesion due to prohibitively high morbidity
accompanied, and to deliver improved long term treatment results with a reduced morbidity and recurrence
over the conventional approaches.
1
Vascular Surgery, Pediatric Surgery, Orthopedic Surgery, Plastic & Reconstructive Surgery, Oral-Maxillar-Head & Neck Surgery, Physical Medicine & Rehabilitation, Anesthesiology, Pathology, Vascular Medicine/Angiology, Cardiology, Pediatrics, Genetics, Dermatology, Psychiatry, Interventional Radiology, Diagnostic Radiology, Nuclear Medicine.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):8-11
La terapia ipolipemizzante nella gestione del paziente
a rischio aterosclerosi
A. CORSINI
Numerosi studi clinici controllati con obiettivi quali mortalità e morbilità per cause cardiovascolari (CV) e mortalità per tutte le cause hanno documentato il beneficio
della terapia ipolipemizzante. Dal punto di vista applicativo risulta evidente l’importanza di un corretto trattamento
farmacologico delle dislipidemie.
Inibitori della sintesi del colesterolo: statine
Gli inibitori della 3-idrossi-3-metilglutaril coenzima A
(HMG-CoA) riduttasi, l’enzima chiave della via biosintetica del colesterolo, o statine, sono la classe di farmaci
di elezione per il trattamento delle ipercolesterolemia e
sono in grado di ridurre il rischio di morbilità e mortalità
CV in pazienti con un rischio cardiovascolare, perfino in
quelli con livelli normali di lipoproteine a bassa densità
(LDL). Le statine esercitano il loro effetto principale, la
riduzione dei livelli di colesterolo LDL (LDL-C), inibendo
competitivamente la HMG-CoA riduttasi e, quindi, la sintesi endogena di colesterolo a livello epatico. La ridotta
disponibilità di colesterolo cellulare determina un
aumento dell’espressione dei recettori per le LDL sulla
superficie degli epatociti con una aumentata rimozione
delle LDL circolanti, riducendo così i livelli plasmatici
del LDL-C.
Effetti sui livelli di LDL-C
Le statine sono in grado di abbassare i livelli di LDL-C dal
20 al 55% a seconda del dosaggio e della statina somministrata.
L’analisi delle relazioni dose-risposta per tutte le statine
dimostra che l’efficacia nel ridurre il LDL-C è lineare; i
livelli di LDL-C si riducono del 6% ogni volta che la dose
di statina viene raddoppiata. L’effetto massimo sui livelli
plasmatici di colesterolo viene raggiunto dopo 15-30 giorni dall’inizio del trattamento. Le statine sono efficaci in
tutti i pazienti con livelli elevati di LDL-C, e con pari efficacia, anche nei pazienti normocolesterolemici. Fanno
eccezione i pazienti affetti da ipercolesterolemia famigliare omozigote che rispondono poco alle dosi abituali di
statine poiché entrambi gli alleli del gene del recettore
per le LDL codificano per recettori inattivi; la risposta par8
Dipartimento di Scienze Farmacologiche,
Università degli Studi di Milano
ziale che si osserva (con una riduzione fino al 25% dei
livelli di LDL-C) è dovuta a una riduzione della sintesi
epatica di VLDL associata all’inibizione della sintesi del
colesterolo mediata dalla HMG-CoA riduttasi.
Studi clinici
EFFETTI CRONICI DELLE STATINE
Numerosi studi clinici controllati, sia di prevenzione primaria sia secondaria, hanno documentato l’efficacia delle
statine nel ridurre gli eventi CV fatali e non fatali, l’ictus e
la mortalità totale. Il trattamento con le statine ha determinato una riduzione media dei livelli plasmatici di LDLC del 30% associata ad una simile riduzione media dell’incidenza sia delle morti coronariche sia dei casi non
fatali di infarto del miocardio.
Come mostrato nella Figura 1, il beneficio clinico è in
relazione diretta con l’abbassamento delle LDL 1, ad evidenziare che gli effetti pleiotropici delle statine, inclusi gli
effetti antiinfiammatori (e.g. abbassamento delle PCR)
sono da attribuirsi essenzialmente alla riduzione delle
LDL che di per se sono infiammatorie. Inoltre questi studi
clinici hanno documentato come il trattamento con statine possa determinare riduzioni significative del LDL-C
fino ad un 50% dei suoi valori, a cui si associa una riduzione degli eventi cardiovascolari del 40-45%. Lo studio
JUPITER ha evidenziato come il raggiungimento di livelli
di LDL-C nell’intorno dei 50 mg/dl sia associato nei
pazienti con rischio cardiovascolare moderato e caratterizzati da livelli normali di LDL-C ma da elevati livelli di
proteina C reattiva, porti ad una riduzione significativa
degli eventi CV. È importante ricordare che tutti gli studi
di intervento condotti a tutt’oggi con statine, compreso lo
studio JUPITER, hanno alla base della riduzione degli
eventi clinici esclusivamente la riduzione del LDL-C 1. Ne
consegue che abbassare il LDL-C in modo importante e
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LA TERAPIA IPOLIPEMIZZANTE NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE A RISCHIO ATEROSCLEROSI
CORSINI
colesterolo e favorendone l’escrezione per opera di altri
trasportatori. L’inibizione a livello dell’orletto a spazzola
evita tutte quelle interazioni che sono state documentate
con l’impiego dei sequestranti degli acidi biliari (resine)
che impediscono l’assorbimento non solo di acidi biliari,
ma anche di una serie di molecole lipofile di notevole
importanza biologica quali vitamine liposolubili e ormoni
steroidei.
Razionale dell’impiego della combinazione statine-ezetimibe per il raggiungimento degli obiettivi di LDL-C
Figura 1. – Riduzione del colesterolo LDL (%) e della frequenza
degli eventi cardiovascolari (infarto del miocardio non fatale +
morte cardiaca) nei principali studi clinici con ipolipemizzanti. I
dati degli studi SEAS, 4D e Aurora non sono stati utilizzati per
calcolare la linea di regressione.
significativo si associ effettivamente ad una riduzione del
rischio cardiovascolare.
Un recente studio di meta-analisi su più di 170000
pazienti ha dimostrato che le statine per ogni ulteriore
riduzione di 1 mmole/L (~40 mg/dL) di LDL-C riducono
di circa un quinto il rischio di infarto, rivascolarizzazione
e ictus ischemico 2. Non è stata dimostrata l’esistenza di
alcun valore soglia all’interno dell’intervallo dei livelli di
colesterolo studiati, facendo ipotizzare che una riduzione
del LDL-C di 2-3 mmoli/L porterebbe ad una riduzione
del rischio di circa il 40-50%, senza un aumento del
rischio di cancro o morti non cardiovascolari 2.
Nonostante queste premesse, la monoterapia con statine
non sempre raggiunge i livelli di colesterolo considerati
ottimali dalle linee guida internazionali. Le motivazioni di
questo fallimento terapeutico sono svariate, tra cui scarsa
adesione al trattamento, interazioni con le terapie concomitanti, fattori genetici, ed effetti collaterali, Elevati dosaggi di statine sono associati ad aumentato rischio di miopatie, degli enzimi epatici ed anche della mortalità non
CV. Queste ultime considerazioni suggeriscono come una
terapia ipolipemizzante combinata sia potenzialmente più
favorevole rispetto ad una terapia con dosaggi elevati di
statine nel ridurre il LDL-C.
Inibitori dell’assorbimento del colesterolo: ezetimibe
L’assorbimento del colesterolo proveniente dalla dieta
prevede un meccanismo specifico mediato da una proteina trasportatrice localizzata a livello dell’orletto a spazzola
delle cellule intestinali, la proteina Niemann-Pick C1 Like
1 Protein (NPC1L1) fondamentale nel controllare l’omeostasi del colesterolo. In particolare, la sua espressione è
modulata dal contenuto intracellulare di colesterolo nell’enterocita. È bene ricordare che il colesterolo presente
nell’intestino deriva solo parzialmente dalla dieta e per la
maggior parte ha origine endogena.
L’ezetimibe inibisce in modo specifico l’attività della proteina trasportatrice NPC1L1 impedendo così il trasferimento dal lume intestinale all’interno della cellula del
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Il trattamento con statine, associata all’inibizione della
sintesi di colesterolo, determina una risposta omeostatica
dell’organismo alla necessità di colesterolo che si traduce
in un aumento della quota di colesterolo assorbito. Per
ottenere un controllo ottimale dei livelli plasmatici di
colesterolo è necessario quindi un duplice effetto di inibizione dell’assorbimento e dell’aumentata sintesi endogena
di colesterolo. Numerosi studi clinici hanno dimostrato
l’efficacia di ezetimibe 10 mg/die nell’aumentare l’effetto
ipolipemizzante del 15-26% di qualsiasi statina. Questo
approccio consente di portare e mantenere un maggior
numero di pazienti a quei valori soglia LDL raccomandati
per un controllo ottimale del rischio CVD soprattutto a
livello ambulatoriale.
Riassumendo, la duplice inibizione a livello dell’enterocita
operata da ezetimibe e a livello dell’epatocita dalla statina, costituisce l’approccio terapeutico ottimale delle dislipidemie proprio per le diverse caratteristiche farmacodinamiche dei due agenti terapeutici e per la selettività
della loro azione. Gli studi clinici attualmente in corso
permetteranno di documentare come questo approccio
ipolipidemizzante combinato sia vincente anche da un
punto di vista clinico. Lo studio SHARP (Study of Heart
and Renal Protection) che ha previsto il trattamento su
9,000 pazienti (di cui 3.000 dializzati) con ezetimibe/simvastatina 10/20 mg vs. placebo. Lo studio della durata di
4,9 anni ha mostrato che il trattamento con Eze/Simva
10/20 mg ha ridotto sia gli eventi vascolari maggiori del
16,1% (p=0,0010) sia gli eventi aterosclerotici maggiori
del 16,5% (p= 0,0022). Il trattamento con l’associazione
ezetimibe/simvastatina è quindi ad oggi l’unico trattamento che abbia dimostrato un così grande beneficio su questa categoria di pazienti.
È importante notare (Figura 2) che la relazione tre riduzione delle LDL e riduzione degli eventi vascolari è assolutamente in accordo con i risultati di tutti gli altri studi
clinici condotti con statine in diverse tipologie di pazienti
(e.g. diabetici, ipertesi, coronaropatici,dislipidemici) a sottolineare che l’obiettivo della terapia ipolipidemizzante
sia l’abbassamento del colesterolo LDL sia in monoterapia
sia in combinazione.
Effetti acuti delle statine
Recenti dati sembrerebbero confermare che gli effetti
pleiotropici (indipendenti dall’abbassamento del colesterolo) delle statine possono avere un ruolo rilevante dopo
un trattamento precoce e con dosaggi importanti di statine quali atorvastatina 80 mg, nei pazienti con sindrome
coronarica acuta: Studi recenti dimostrano una minor incidenza di infarto periprocedurale e un periodo prolungato
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CORSINI
LA TERAPIA IPOLIPEMIZZANTE NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE A RISCHIO ATEROSCLEROSI
senza eventi cardiaci dopo l’intervento di PCI a seguito
della somministrazione entro le 48 ore di statine dall’evento 3. Una ipotesi recente postula il ruolo del fegato nel
mediare gli effetti pleiotropici delle statine 4. In particolare, gli effetti pleiotropici delle statine possono manifestarsi a poche ore dopo la somministrazione delle statine grazie ad una azione inibitoria diretta delle statine sulla sintesi e secrezione di mevalonato e dei suoi deivati isoprenici a livello epatico (Fig. 3).
Questi effetti inibitori sui livelli sierici di mevalonato e dei
suoi isoprenoidi si manifestano poche ore dopo la somministrazione delle statine mentre l’abbassamento dei
livelli di colesterolo LDL si inizia a manifestarsi 24-48 ore
dopo la somministrazione. Questa finestra terapeutica
(entro 24-48 ore) dopo la somministrazione della statina
rappresenta un momento importante per esaltare gli effetti pleitropici nei pazienti con sindrome coronaria acuta
indipendenti dall’abbassamento del colesterolo 5.
Figura 2.
Figura 3. – Effetti pleiotropici delle statine: ruolo del fegato.
Riassumendo, le attuali conoscenze sulla terapia ipocolesterolemizzante evidenziano l’importante contributo clinico, in
particolare delle statine, nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare ma sottolineano anche come la terapia di combinazione rappresenti un’importante opzione terapeutica.
10
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1. Poli A, Corsini A. Reversible and non-reversible cardiovascular risk in patients treated with lipid-lowering therapy:
analysis of SEAS and JUPITER trials. Eur J Intern Med;21:372373.
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LA TERAPIA IPOLIPEMIZZANTE NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE A RISCHIO ATEROSCLEROSI
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CORSINI
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):15-8
Screening dell’arteriopatia diabetica nei diabetici:
quando, come, in quali pazienti?
G.M. ANDREOZZI
L’arteriopatia obliterante periferica (AOP) ha nella popolazione adulta una prevalenza del 12%, e raggiunge il
20% nella popolazione con più di 70 anni 1 con un rapporto uomo/donna di 3:1, e la claudicazione intermittente
(CI), sintomo principale della AOP, è indicato da numerosi studi come fattore di rischio indipendente di mortalità
cardiovascolare, raddoppiando il rischio relativo di morte
e riducendo la spettanza di vita di circa 10 anni.2-4
La presenza di diabete mellito, la cui prevalenza è passata
dal 3% degli anni ‘80-‘90 al 5,5% del 2005,5 soprattutto di
tipo 2 (definito da una glicemia a digiuno >126 mg/dl,
con un’incidenza di 7,6/1000/anno, 6,7 accelera la comparsa di AOP di circa un decennio, e riduce il rapporto
uomo/donna a 2:1 (nella popolazione adulta giovane) e a
1:1 nella popolazione di età avanzata e, in almeno l’8%
dei casi, l’arteriopatia è già documentabile al momento
della diagnosi di diabete.8
Chi fa cosa
L’elevata prevalenza di AOP nel diabetico impone una
stretta sorveglianza di questi pazienti con l’obiettivo di
una diagnosi precoce finalizzata al rallentamento della
progressione della malattia e soprattutto alla comparsa di
eventi cardiovascolari maggiori (infarto miocardio e
stroke) fatali e non fatali. Sottoporre tutti i pazienti diabetici ad una valutazione vascolare come l’eco-color-Doppler (ECD) degli arti inferiori è tuttavia improponibile per
il notevole dispendio di risorse umane ed economiche
che comporterebbe. Questo empasse può essere superato
stratificando opportunamente i ruoli dei vari livelli di assistenza, con procedure diagnostiche appropriate eseguite
da personale adeguatamente formato.
La valutazione di 1° livello, secondo le linee guida della
Società Italiana di Angiologia e Patologia Vascolare (SIAPAV®),9 va demandata al Medico di Medicina Generale
(MMG) ed ai Diabetologi, che hanno un più stretto contatto con il paziente diabetico, mentre la valutazione di 2°
e 3° livello sono di competenza dottrinaria ed assistenziale degli specialisti in Angiologia e Chirurgia Vascolare,
che hanno ricevuto un’adeguata specifica formazione in
questo campo. Tuttavia, per semplificare il management
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
UOC di Angiologia Azienda Ospedaliera-Universitaria,
Università degli Studi di Padova, Padova
dei pazienti e accelerare l’iter diagnostico riducendo le
liste di attesa, le procedure diagnostiche di 2° livello possono essere eseguite anche dai Centri per la Prevenzione
e la Cura del Piede Diabetico, purché opportunamente
addestrati e accreditati (accreditamento di eccellenza
della SIAPAV®).10 Soltanto una stretta collaborazione tra
queste tre figure professionali potrà garantire un management adeguato del paziente diabetico e delle sue manifestazioni vascolari, con diversi livelli d’intervento, schematizzati nella figura 1.
In base ai dati epidemiologici precedentemente citati
tutti i diabetici la cui malattia dati da più di venti anni, i
diabetici con IDDM di età superiore a 35 anni e i diabetici NIDDM con età superiore a 40 anni dovrebbero ricevere una adeguata valutazione vascolare. Inoltre, considerato il ruolo preventivo di molte delle azioni indicate
nella figura 1, la valutazione vascolare dovrebbe essere
estesa anche ai pazienti con sintomi e segni espressione
di disfunzione endoteliale come un elevato indice di
massa corporea (BMI) o di un alterato rapporto
vita/fianchi, la presenza di microalbuminuria o di
disfunzione erettile.
Valutazione di 1° livello (sorveglianza clinica e misura di ABI)
La sorveglianza generale della popolazione diabetica è
dunque demandata al MMG e/o ai Centri per la Prevenzione e la Cura del Piede Diabetico che, nei soggetti
prima indicati, dovranno controllare periodicamente la
presenza dei polsi arteriosi e/o di soffi vascolari, la capacità deambulatoria e lo stato trofico della cute9, eseguendo personalmente la misura dell’ABI in caso di riduzione
della pulsatilità arteriosa, di presenza di soffi arteriosi o di
riduzione della capacità di marcia.
La misura di ABI è un momento cruciale della sorveglianza vascolare del paziente diabetico, a causa della scarsa
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
ANDREOZZI
SCREENING DELL’ARTERIOPATIA DIABETICA NEI DIABETICI: QUANDO, COME, IN QUALI PAZIENTI?
Figura 1. – Algoritmo per il management dell’arteriopatia periferica nel paziente diabetico.
specificità del sintomo claudicazione in questi pazienti.
Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza di questa
misura, semplice e di basso costo ed estremamente utile
non solo nell’identificare i pazienti arteriopatici, ma anche
nello screening del rischio cardio-vascolare 11 e sulla sua
scarsa applicazione.12
A seconda del risultato di ABI il paziente dovrà essere
avviato ai percorsi indicati nella figura 1 ed inserito nei
programmi specifici di follow-up13-15.
Nel soggetto normale ABI è compreso tra 0,95 e 1,30, e
con un valore superiore a 0,90 la presenza di arteriopatia
è ritenuta improbabile.
Valori compresi tra 0,9 e 0,7 sono espressione di un’arteriopatia lieve. È opportuno ripetere la misura entro tre
mesi. Se il dato è confermato il paziente deve iniziare un
adeguato programma di prevenzione secondaria9.
Un valore di ABI tra 0,7 e 0,5 è espressione di un’arteriopatia moderata, con lesioni segmentarie, stenotiche e/o ostruttive. È indicata una valutazione di secondo livello con esecuzione di un ECD degli arti inferiori e dei tronchi sopraortici, e l’adozione del programma di trattamento medico,
compreso il training fisico (consigliato o controllato)16,17.
Un ABI inferiore a 0,5 è espressione di un’arteriopatia
severa, ed impone di avviare il paziente a centri specialistici di angiologia o chirurgia vascolare per una diagnosi
di terzo livello.
Un valore di ABI superiore a 1,30 è inaffidabile ed impone un ECD.
Il riscontro di un ABI >1,30 è frequente nei pazienti diabetici a causa della incompressibilità delle arterie tibiali
per la presenza di mediocalcinosi di Monckeberg.
16
Le linee guida internazionali in questa evenienza suggeriscono di eseguire la misura della pressione arteriosa
all’alluce (Toe Systolic Blood Pressure, TSBP)18,19.
In Italia la misura della pressione arteriosa all’alluce è storicamente poco utilizzata e, per alcuni versi non supera
totalmente l’inaffidabilità della misura; nel caso di ABI
>1,30 si preferisce eseguire un esame eco-color-Doppler.14 15
Valutazione di 2° livello
Eco-color-Doppler degli arti inferiori
La valutazione di 2° livello si basa sulla esecuzione di un
ECD di tutto l’asse arterioso degli arti inferiori, che in
laboratori accreditati ha una consolidata accuratezza20.
È indicata nei pazienti con ABI compreso tra 0,7 e 0,5 e
nei pazienti con arteriopatia severa (ABI <0,5). Nei
pazienti con ABI compreso tra 0,9 e 0,7 non è strettamente indicato perchè la strategia terapeutica dell’arteriopatia lieve è di tipo conservativo anche nel paziente
diabetico.
Tuttavia l’esecuzione di un ECD può contribuire ad una
precoce definizione del quadro anatomico ed emodinamico degli arti inferiori ed in questo senso lo studio può
essere consigliato anche se non espressamente raccomandato15.
La valutazione deve essere estesa a tutto l’asse arterioso
dell’arto sino alle arterie metatarsali, con descrizione del
numero e della sede delle stenosi o delle ostruzioni
(blocchi singoli, sequenziali o multipli ed estesi), dei circoli collaterali compensatori e del run-off distale.
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SCREENING DELL’ARTERIOPATIA DIABETICA NEI DIABETICI: QUANDO, COME, IN QUALI PAZIENTI?
ANDREOZZI
Eco-color-Doppler dei tronchi sopra aortici (TSAo)
Bibliografia
È ampiamente dimostrato che l’AOP sia un fattore di
rischio indipendente di morbilità e mortalità cardiovascolare, e che il rischio di avere uno stroke a cinque anni è
nei claudicanti vari dal 5 al 10%, e pertanto è buona consuetudine eseguire uno studio dei TSAo nei pazienti con
AOP diabetica. Va tuttavia ricordato che report specifici
sull’argomento21,22 non hanno dimostrato una importante
influenza del diabete nella patologia dei tronchi sopra
aortici (TSAo). Uno studio epidemiologico condotto in
Friuli-Venezia Giulia, su un campione randomizzato di
1.800 soggetti, ha evidenziato una correlazione statisticamente significativa della patologia carotidea con il fumo
di sigaretta, l’ipertensione arteriosa ed i bassi livelli di
colesterolo HDL, ma non con il diabete. Il diabete sembra
invece influenzare la prevalenza di lesioni nelle grandi
arterie intracraniche.23 Alla luce di queste considerazioni
l’eco-color-Doppler dei TSA nei pazienti diabetici con
AOP è raccomandato se esistono segni specifici come i
soffi laterocervicali, sintomi suggestivi per TIA o fattori di
rischio maggiori per la patologia carotidea.
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Eco-color-Doppler dell’aorta addominale
La valutazione ECD dell’aorta addominale (sensibilità
rispetto all’angiografia e alla TC, molto vicina al 100%)24
deve completare tutte le valutazioni dell’asse arterioso
degli arti inferiori con l’obiettivo specifico di ricercare
dilatazioni aneurismatiche non apprezzabili clinicamente,
lesioni parietali non emodinamiche con rischio di ateroembolia aortica (blue toe syndrome) e stenosi emodinamicamente significative con rischio di trombosi aortica
ascendente.
Eco-color-Doppler delle arterie renali
Il 30-40% dei pazienti con AOP è portatore di stenosi
delle arterie renali, indipendentemente dalla presenza di
ipertensione renovascolare.25 La valutazione di questo
distretto è pertanto da consigliare almeno una volta, nell’iter diagnostico dell’arteriopatia diabetica, e da raccomandare in caso di coesistenza di ipertensione arteriosa o
di insufficienza renale.9
Eco-color-Doppler del tripode celiaco-mesenterico
La prevalenza di alterazioni ats nel tripode celiaco mesenterico è clinicamente poco rilevante; l’esame di questo
distretto va eseguito soltanto nel fondato sospetto clinico
di angina abdominis.
Lesioni cutanee
Poiché il paziente diabetico può presentare lesioni cutanee agli arti inferiori di origine ischemica o non ischemica (neuropatica o traumatica), con scarsa tendenza alla
guarigione a causa della glicazione proteica, della carenza
dei fattori di crescita, e/o della presenza di infezione, tutti
i diabetici con lesioni cutanee, come suggerito dalla flowchart della figura 1, devono essere sottoposti a misura
della ossimetria transcutanea anche in assenza di dolori a
riposo, per confermare o escludere la natura ischemica
della lesione.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
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ANDREOZZI
SCREENING DELL’ARTERIOPATIA DIABETICA NEI DIABETICI: QUANDO, COME, IN QUALI PAZIENTI?
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):19
Il trattamento ottimale del paziente arteriopatico
A. PINTO
L’aterosclerosi è la causa più frequente dell’arteriopatia
obliterante periferica (AOP) degli arti inferiori. Le sue
manifestazioni cliniche, la cui intensità è direttamente proporzionale al grado di interessamento vasale e allo sviluppo di circoli collaterali possono andare dall’insufficienza
arteriosa asintomatica o paucisintomatica al dolore in
seguito a deambulazione (claudicatio intermittens) e a
riposo. Inoltre, poiché l’AOP è quasi sempre espressione
di un processo aterosclerotico grave e diffuso questo comporta che i soggetti affetti da arteriopatia periferica presentino un rischio elevato di complicazioni cardiache e cerebrovascolari, soprattutto se non adeguatamente indirizzati
verso adeguati interventi di prevenzione (correzione dei
principali fattori di rischio) e terapia. Il trattamento medico
dell’AOP si pone complessivamente un triplice obiettivo:
1) ridurre della progressione della malattia aterosclerotica
generalizzata e, di conseguenza, della morbilità e mortalità cardiovascolare;
2) trattare i sintomi specifici al fine di migliorare la capacità funzionale e la qualità di vita del paziente (ad
esempio: aumentare la deambulazione massima prima
che si manifesti dolore, assicurare una condizione di
analgesia a pazienti con dolore persistente);
Vol. 58, Suppl. 1 al N. 6
U.O.C di Medicina Vascolare, Dipartimento Biomedico
di Medicina Interna e Specialistica,
Università degli Studi di Palermo, Palermo
3) prevenire le lesioni trofiche degli arti inferiori (ulcere,
gangrena, amputazioni).
Un trattamento ottimale del paziente arteriopatico deve
quindi tenere conto di questi tre aspetti e dei principali
fattori di rischio utilizzando farmaci che oltre a rallentare
la progressione della malattia aterosclerotica (statine,
antiaggreganti) riducano la frequenza degli eventi cardiovascolari (ACE-inibitori, sartani, calcio antagonisti).
Proprio alla gestione ottimale del paziente arteriopatico,
intendendo con questo termine una gestione integrata
della sintomatologia, della progressione di malattia e del
rischio cardiovascolare, le linee guida (TASC, ACCH) più
recenti offrono una notevole attenzione non trascurando
però di affrontare in maniera critica l’eventuale utilità di
farmaci indirizzati al trattamento della sintomatologia
(emorreologici e vasodilatanti).
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):20
Cosa dobbiamo trovare in un referto
eco-color-Doppler di qualità
L. ALUIGI
Il referto è un atto medico, solitamente stilato a conclusione di un’indagine strumentale, che ha valore giuridico
e come tale, deve corrispondere in via formale ad uno
standard che, quando possibile, deve essere corredato da
elementi iconografici comprovanti quanto dichiarato. Le
caratteristiche di un referto “ideale” devono necessariamente contenere elementi che possano farlo considerare
comprensibile, sintetico, esaustivo, orientativo; inoltre
deve essere immodificabile.
La diagnostica vascolare con eco-color Doppler, si rivolge
a numerosi distretti anatomici, ciascuno di essi con peculiarità anatomiche, fisiologiche e patologiche. La Società
Italiana di Diagnostica Vascolare ha dettato le modalità
esecutive di una corretta indagine strumentale con ecocolor-Doppler, enunciandole in linee guida che contengono i fondamenti metodologici per ogni distretto considerato unitamente a modelli di refertazione che hanno rappresentato e rappresentano orientamenti di posizionamento per chiunque esegua queste tipologie di indagine
e che devono esprimere la traduzione di quanto deriva
dalle informazioni ottenute dalle immagini che a loro
volta devono essere considerate parte integrante del
referto.
Elementi distintivi di un referto eco-color-Doppler di qualità, oltre ai dati anagrafici, sono:
– la specificazione del tipo di strumento utilizzato;
– la specificazione del tipo di sonda utilizzata;
– la specificazione dei parametri utilizzati per ottimizzare
l’immagine e i rilievi flussimetrici;
– la specificazione delle unità di misura utilizzate;
– la specificazione di eventuali modalità utilizzate per
20
Centro di Ecografia Internistica Interventistica
e Vascolare, Ospedale Maggiore, Bologna
l’interpretazione dei dati morfologici e flussimetrici
(eventualmente con riferimenti e/o citazioni bibliografiche) ;
– la correttezza dell’enunciato;
– la specificazione delle caratteristiche del refertante e la
sua firma (autografa o digitale).
È molto importante che un referto eco-color Doppler sia
di qualità in quanto rappresenta la base per l’inquadramento clinico del paziente in oggetto: gli elementi interpretativi dell’indagine costituiscono infatti la fotografia del
momento e dettano la tempistica per i controlli successivi
oltre che orientare provvedimenti terapeutici e/o il ricorso a diagnostiche complementari e/o integrative.
Non va comunque dimenticato che la qualità del referto
si legge anche attraverso la sua comprensibilità; se è
vero che gli elementi distintivi più tecnici devono essere
espressi per una lettura ed un interscambio di informazioni tra “pari” cioè tra coloro che hanno il medesimo
livello di conoscenza specifica è altrettanto vero che la
maggior parte dei referti sono indirizzati ai Medici di
Medicina Generale (non necessariamente specialisti
vascolari) che devono quindi essere messi nelle condizioni di interpretare correttamente i messaggi derivanti
da indagini correttamente eseguite per consentire il
miglior trattamento clinico.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):21-2
Che ruolo ha l’eco-color-Doppler nel percorso
diagnostico terapeutico della patologia cerebrovascolare?
R. PEPE
Secondo l’ultima revisione delle Linee Guida SPREAD l’ictus cerebrale rappresenta ancora una delle principali
cause di morte a livello mondiale dopo le malattie cardiovascolari ed i tumori ed è inoltre la prima causa di disabilità nell’anziano. La prevalenza aumenta in relazione
all’età, raggiungendo valori tra 4.6 e 7.3/ 100 abitanti nei
soggetti di età superiore ai 65 anni
Anche in Italia, pur con dati influenzati dal tipo di campione preso in considerazione e la variabilità dei livelli
assistenziali, lo studio Italian Longitudinal Study on
Aging (ILSA) ha dimostrano che la prevalenza e la mortalità aumentano con il crescere dell’età.
La presenza di lesioni ateromasiche stenosanti (bilaterali
nel 30% dei casi) od occlusive (nel 2%) delle carotidi
extracraniche si osservano nel 70-80% dei pazienti con
pregressa ischemia cerebrale, sono quasi sempre localizzate a livello della biforcazione con possibile interessamento dei ram di derivazione.
Nel circolo vertebro-basilare la maggiore incidenza di
lesioni ateromasiche interessa l’ostio (tratto V0) ed il tratto preforaminale (V1) dell’arteria vertebrale, rare le lesioni del tratto intertrasversario (V2) dove possono prevalere
fenomeni compressivi su base spondilogena.
Il tratto prossimale della succlavia ed il tronco anonimo
possono presentare lesioni ateromasiche stenosanti nel
25% dei casi ma solo raramente assumono un significato
emodinamico.
La diagnosi strumentale della malattia cerebrovascolare su
base aterosclerotica utilizza ormai da anni l’eco-colordoppler che con il progressivo incremento tecnologico è
diventato totalmente affidabile non solo nella determinazione del grado di stenosi ma soprattutto nella valutazione della morfologia della placca
La diagnostica neurosonologica consente uno studio completo e non invasivo del distretto arterioso extra ed intracranico con caratteristiche di affidabilità, riproducibilità, elevata
risoluzione temporale, rapidità di esecuzione e bassi costi.
Queste caratteristiche ne fanno la metodica diagnostica ideale non solo per uno studio di screening e di follow-up, ma
anche uno strumento di valutazione “al letto” del paziente
cerebro-vascolare acuto, con possibilità sia di monitoraggio
continuativo sia di studi seriati a cadenza ravvicinata.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
U.O.S.D. Angiologia, Ospedale S. Eugenio,
ASL RmC, Roma
Stabilito che circa 1/3 degli ictus ischemici è correlato alla
presenza di una stenosi aterosclerotica della carotide e
che questa si beneficia di una diagnosi precoce per un
eventuale intervento di rivascolarizzazione (NASCET ed
ECST), tutti i soggetti con recente TIA o ictus vanno sottoposti precocemente ad uno studio eco-Doppler dei vasi
epiaortici
Esso permette inoltre di differenziare agevolmente fra le
occlusioni di natura trombo-embolica e quelle attribuibili
a dissecazione della parete vasale per le quali è ben
documentata non solo la sua sensibilità diagnostica ma
anche l’accuratezza e la possibilità di valutazioni seriate
in grado di documentare l’eventuale ricanalizzazione del
vaso.
Le strategie terapeutiche possono essere inoltre modificate in maniera determinate dal rilievo precoce di tale patologia come fattore eziopatogenetico di un evento cerebro-vascolare ischemico.
La restenosi carotidea post-intervento è variamente valutata nelle diverse casistiche, la maggior parte compare
entro due anni dall’intervento, è attribuibile all’iperplasia
fibromuscolare del tessuto neointimale ma sembra tuttavia rivestire una modesta importanza dal punto di vista
clinico.
Poiché tende a stabilirsi precocemente, il controllo ecoDoppler riveste un ruolo fondamentale ed andrà accuratamente pianificato, una prima volta, entro i primi tre
mesi dall’intervento, successivamente a 9 mesi ed in
seguito annualmente.
Altra indicazione allo studio ultrasonografico dei vasi
carotidei è il riscontro, in soggetti asintomatici, di un soffio a genesi non cardiaca per la possibilità di evidenziare
stenosi >60% che, come evidenziato dallo studio ACAS,
potrebbero beneficiare dell’endoarteriectomia.
Ma se il NASCET ed ECST hanno avuto certamente il
merito di definire l’importanza della correlazione entità
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PEPE
CHE RUOLO HA L’ECO-COLOR-DOPPLER NEL PERCORSO DIAGNOSTICO TERAPEUTICO DELLA PATOLOGIA CEREBROVASCOLARE?
della stenosi- manifestazione clinica ed hanno quindi
consentito di porre un cut off per i pazienti sintomatici da
sottoporre ad intervento, l’ACSRS ha recentemente sottolineato la necessità di focalizzare l’attenzione sulla morfologia della placca permettendo di identificare, particolarmente nei soggetti asintomatici, i sottogruppi a più elevato rischio di ictus.
Diverse classificazioni sono state proposte per definire gli
aspetti ultrasonografici della placca carotidea relativi alla
sua composizione e morfologia:
– omogenee - eterogenee;
– ecolucenti (soft) - miste (medium) - ecogeniche
(hard).
Una classificazione successiva, ne ha considerato sia l’ecogenicità che la struttura permettendo di definire le placche soft o a bassa ecogenicità a prevalente contenuto lipidico con alta tendenza a sviluppare trombosi, ulcerazioni
e embolizzazioni, da quelle eterogenee e soft-medium
con il fenomeno dell’emorragia intraplacca con conseguente elevato rischio di trombosi ed ischemia cerebrale
Giustificato appare l’utilizzo dell’ecoDoppler carotideo
anche nello screening dei pazienti affetti da vasculopatia
in altra sede poiché è stata ben dimostrata la coesistenza,
in una significativa percentuale dei casi, con la stenosi
carotidea (AOP associa con il 24,5% dei casi con stenosi
>50% della carotide), negli anziani con età >65 anni con
associati fattori di rischio vascolare, nei pazienti coronaropatici.
Infine, significativo, anche se di difficile utilizzo applicativo, appare l’utilizzo degli US nello studio della parete
arteriosa nella fase iniziale del processo aterosclerotico
per la possibilità di correlare la sua evoluzione agli eventi
clinici.
In tal senso la valutazione dello spessore intima-media
con la metodica ultrasonografica ha certamente fornito un
nuovo potente strumento per identificare i pazienti a
rischio cardiovascolare maggiore come già posto in evidenza da Lorenz in una metanalisi pubblicata nel 2007
che ha dimostrato come un incremento dell’IMT di 0,1
mm correli con un aumento del rischio di IMA del 1015% e del 13-18% di ictus. Tali dati sono stati recentemente confermati da circa 20 studi di coorte che hanno
correlato l’aumento dell’IMT in pazienti con o senza pre-
22
cedenti eventi o fattori di rischio cardiovascolari con l’incremento del rischio di IMA/ictus.
Lo studio del paziente con patologia cerebrovascolare si
completa con la valutazione del circolo intracranico. Gli
ultrasuoni hanno dimostrato a tale livello una sensibilità
che va dal 91-92% per quanto riguarda il circolo anteriore
e un po’ inferiore per il circolo posteriore, mentre la specificità ed il valore predittivo positivo e negativo per l’identificazione delle stenosi sono vicini al 100%.
Particolare importanza oggi riveste il riconoscimento con
il Doppler transcranico dei fenomeni microembolici. Una
Consensus Conference del 1997 ha permesso di ben definire le caratteristiche specifiche dei segnali Doppler, indicativi di microembolia asintomatica che in caso di ictus
ischemico hanno una ben definita frequenza e pattern a
seconda del tipo di sorgente embolica, carotidea, cardiaca, ecc.
Di più recente applicazione l’utilizzo di tale metodica per
la selezione dei soggetti portatori di “placche a rischio”
che si possono giovare del trattamento chirurgico.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):23-4
Divisione di Angiologia/Medicina Vascolare della UEMS
(UEMS Division on Angiology/Vascular Medicine):
risultati e applicazioni
M. CATALANO
La costruzione di una realtà europea per cittadini con
diritti e doveri unici è una prospettiva complessa che si
articola sia nello sviluppo di normative e direttive che
attraverso un intenso lavoro di “armonizzazione” degli
strumenti e di identificazione di percorsi comuni che
coinvolge creatività e competenze in ogni ambito, sotto il
coordinamento dei diversi European Union Bodies.
Tali complessi sforzi sono vivacemente attivi anche in
ambiti a noi vicini quali quello della formazione, della
ricerca e dell’organizzazione sanitaria.
Lo sforzo crescente è quello di creare strumenti di coordinamento forti, articolati e rappresentativi delle realtà
nazionali ma capaci di definire percorsi europei su cui
richiedere l’adesione ed il rispetto (pur non obbligato) da
parte dei diversi Paesi.
In una prospettiva di progettazione europea si è collocato
il percorso collaborativo iniziato a Milano venti anno or
sono nell’area dell’Angiologia/Medicina Vascolare.
Materiali e metodi
Nel 1991 nasce a Milano, a conclusione del simposio
“International Symposium on the Future of Medical
Angiology”, l’European Working Group on Medical
Angiology (EWGMA) primo coordinamento europeo finalizzato al rafforzamento di tale area specialistica attraverso
attività formative sovranazionali. Nascono in quel periodo
le prime pubblicazioni sui criteri e l’identificazione dei
Teaching Centres europei (oggi in revisione secondo i
nuovi criteri) e la formalizzazione dell’European Fellowship on Merdical Angiology (oggi dell’European Fellowship on Angiology/Vascular Medicine) 1-5. L’EWGM.A
viene riconosciuto dall’IUA attraverso la creazione di un
Committe on Medical Angiology.
Nel 1996 viene creato un comitato ad hoc per il sostegno
scientifico della prima ricerca collaborativa europea
(CLIPS Trial)6.
Lo sviluppo dell’attività formativa, di ricerca e di coordinamento europeo rendono necessario un ulteriore passo
e viene creata nel 1998 Vas-Vascular-Independent Research and Education-European Organization-, Asociazione
scientifica europea no-profit nella quale convergono sciogliendosi i precedenti organismi e che amplierà gli obietVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Direttore Research Center on
Vacular Diseases e UOSD Angiologia,
Università degli Studi di Milano, Ospedale L. Sacco
Presidente UEMS Division of Angiology/
Vascular Medicine
tivi comprendendo formazione (European Master e Postgraduate Courses per medici e per nurses, continuazione
dell’European Fellowship, definizione dell’European Teaching Panel e European Teaching Centres), ricerca europee (fra i maggiori Data Bank on PD, e la recente Eropean Biobank on Vascular Diseases), awareness (creazione quale prototipo d’interazione medici-pazienti in Italia
AmaVas, Onlus, che a VAS fa riferimento)ed iniziative
volte al riconoscimento europeo dell’area specialistica
(http://www.vas-int.org).
Vas rafforza la collaborazione istituzionale con Università
(Master e Postgraduate courses sono Diplomi Universitari), Ospedali e Centri di Ricerca attraverso la stipulazione
di contratti formativi o di ricerca e rafforza la propria interazione con le Società Scientifiche Internazionali e Nazionali. Nel 2001 una riunione delle Società Scientifiche che
collaboravano con VAS (fra cui SIAPAV) sancisce la cancellazione del termine Medical Angiology e la sua sostituzione con Angiology/Vascular Medicine (sinonimi usati
nei diversi Paesi europei), ribadendo un importante concetto che rimarrà nei futuri atti decisionali.
Nel 2000 VAS avanza ufficiale richiesta al UEMS Council
per la creazione di una Section/Division (la denominazione dipende da regole legate al numero di riconoscimenti
della specialità esistente nei Paesi Europei) in Angiology/Vascular Medicine. VAS viene riconosciuta dalla
UEMS idoneo rappresentante europeo della specialità ed
inizia un lungo percorso all’interno di UEMS all’interno
della Section IM come rappresentanza della disciplina
A/VM.
Risultati
La UEMS Division on Angiology/Vascular Medicine viene
finalmente riconosciuta dal UEMS Council alla fine del
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
CATALANO
DIVISIONE DI ANGIOLOGIA/MEDICINA VASCOLARE DELLA UEMS (UEMS DIVISION ON ANGIOLOGY/VASCULAR MEDICINE)...
2007 e viene attivata ufficialmente con la prima riunione
del proprio Board a metà del 2008, con l’adesione dei
rappresetnanti delle Società Scientifiche Vascolari Europee
e di VAS.
Un riconoscimento UEMS significa il riconoscimento della
specialistica, della sua attribuzione d’area, degli Specialisti
e delle relative competenze, significa il riconoscimento
dei curricula formativi “europei” degli Specilaisti con conseguente annullamento dell’autoreferenzialità.
Nel Board viene data la precedenza alla stesura sa del
documento di definizione di obiettivi, criteri e regole
generali inerenti la specialità (Chapter 6), in analogia a
quanto percorso dalle altre Sezioni/Divisioni UEMS, che
di un breve documento di presentazione e progettualità
che sintetizza finalità, percorsi e ruoli per uniformare in
un percorso unico europeo, sia pur diversamente articolato, le profonde diversità esistenti fra i diversi Paesi europei nell’ambito dell’Angiologia/Medicina Vascolare (Policy
Statment).
In tali documenti viene inclusa la definitiva definizione di
Angiologia/Medicina Vascolare “L’Angiologia/Medicina
Vascolare è la Specalità di area Medica che si prende cura
delle Malattie Vascolari (arteriose, venose, linfatiche e del
microcircolo) ed è finalizzata alla prevenzione, alla diagnosi, alla terapia ed alla riabilitazione così come alla
ricerca ed alla formazione, a beneficio del paziente e
della popolazione in generale. (Angiologia/Medicina
Vascolare sono sinonimi nei differenti Paesi )”. A questa
definizione va fatto riferimento.
Con il coordinamento del CESMA nel quale la Division ha
ufficialmente fatto ingresso lo scorso anno, si stanno,
inoltre, definendo crtieri e validazioni per l’istituzione di
un European Diploma on Angiology/Vascular Medicine.
Secondo la normativa europea, al momento tali titoli non
godono di un diretto riconoscimento nazionale, ma oltre
a rappresentare un importante titolo “culturale” va considerato una base di contrattazione con gli organismi competenti dei singoli Paesi. Tale processo si presenta in
modo univoco per tutte le Specialità.
Parallelamente procede la definizione di un curriculum
europeo per Angiologia/Medicina Vascolare (cui si fa
cenno nel Chapter 6 http://www.vas-int.org)7 che ci si
augura di poter completare nel corso del prossimo anno.
Conclusioni
Questi documenti sono lo strumento che permette un’ine-
24
quivocabile definizione dello specialista di
Angiologia/Medicina Vascolare, unifica attività europee
formative esistenti e, dando dignità istituzionale alla
nostra area specialistica, autorizza a giungere ad un
rispetto dei criteri, delle competenze d’area e dei percorsi
formativi, determinando la fine di quel lungo periodo di
autoreferenzialità che ha reso possibile nel nostro Paese
l’uso inappropriato del termine “angiologo”.
L’esistenza di un curriculum europeo facilita le prospettive di riconoscimento specialistico a livello nazionale, fornendo unicità di obbiettivi, percorsi, criteri di validazione.
Oggi l’Angiologia/Medicina Vascolare grazie al riconoscimento europeo deve uscire dal ruolo di “eterna esclusa”
alla ricerca di spazi di inserimento, per assumere il ruolo
dovuto (e richiesto dalle esigenze dei pazienti e della
popolazione) di specialità di area medica, forte di motivazioni scientifiche, assistenziali e sociali che ne richiedono
l’esistenza.
Il lungo percorso per l’ottenimento di tale riconoscimento
europeo in sede UEMS insegna che motivazioni forti e
tenaci, supportate dalle esigenze sopramenzionate, risultano vincenti su interessi, personalismi e politiche che
vogliano ostacolare i risultati.
Nel nostro Paese questi risultati europei andranno articolati, in modo tale che sia un’unica forte voce a giungere a
livello istituzionale e che questa voce nasca da un coro di
attori che si esprimano con ruoli e tonalità diverse su un
unico, condiviso spartito.
Bibliografia
1. The case for the specialty of Medical Angiology. European
Working Group on Medical Angiology. International Angiology. 1991;10:199-201.
2. The case for the speciality of Medical Angiology. European
Working Group on Medical Angiology. Vasa. 1992;21:3-5.
3. Proposed training requirements for Medical Angiology fellows. European Working Group on Medical Angiology. Int.
Ang. 1993;12:323-5.
4. Introduction to the First European document on Medical
Angiology; Minerva Angiol 1992;17:161-4.
5. Teaching and Educational Program of Medical
Angiology/Vascular Medicine in Europe 1993, Elsevier Science Publ., Vascular Medicine)
6. CLIPS Group: Prevention of serious vascular events by aspirin amongst patients with peripheral arterial disease: randomized double-blind trial JIM 2007:261;276-284 Writing Group
M.Catalano (I), G. Born (UK) and R. Peto (UK).
7. http://www.vas-int.org/ >Institutions-EU/UEMS/Documents
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):25-7
Revisione ministeriale delle tabelle di invalidità
M.M. DI SALVO1, G. FAILLA1, F. MUGNO1, G. ARDITA1, P.L. ANTIGNANI2
La Legge N 118 del 30.03.1971, Legge 18/80. Del
30.03.1971 n 118 prevede un assegno di invalidità per i
soggetti che presentano una riduzione di capacità lavorativa compresa tra il 74 e il 99%, una pensione di inabilità in caso di totale e permanente perdita della capacità
lavorativa e un’indennità di accompagnamento per i
soggetti riconosciuti inabili (autonomamente non deambulanti o non autosufficienti) al compimento degli atti
della vita quotidiana.
Il grado di invalidità civile viene determinata sulla base
della Tabella vigente DM 552 del 5 febbraio 1992 (vedi
Tab esemplificativa) che fa riferimento alla incidenza
delle infermità invalidanti sulla capacità lavorativa La
tabella elenca sia infermità individuate specificatamente,
cui è attribuita una determinata percentuale “fissa”, sia
infermità il cui danno funzionale permanente viene riferito a fasce percentuali di perdita della capacità lavorativa di dieci punti, utilizzate prevalentemente nei casi di
più difficile codificazione Le malattie vascolari, insieme
a molte altre infermità, non sono tabellate ma, in ragione della loro natura e gravità, è stato possibile valutarne
il danno con criterio analogico rispetto a quelle tabellate.
cod.
Apparato cardiocircolatorio
6445
Coronaropatia lieve
(I classe NYHA)
Coronaropatia moderata
(II classe NYHA)
Coronaropatia grave
(III classe NYHA)
Coronaropatia gravissima
(IV classe NYHA)
Trapianto cardiaco in assenza
di complicanze
6446
6447
6448
9328
min.
max
fisso
11
20
0
41
50
0
71
80
0
0
0
100
71
80
0
Il Ministero della Salute, Ministero dell’Economia e delle
Finanze:
• VISTA le legge 3 agosto 2009, n. 102, articolo 20, attribuisce all’INPS competenze specifiche in materia di
accertamento e valutazione dell’ invalidità civile,
cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, oltre
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1UOC di Angiologia Medica,
Azienda Ospedaliero-Universitaria,
Policlinico-Vittorio Emanuele, Catania
2UOC di Angiologia, Ospedale S. Giovanni, Roma
che di gestione e coordinamento delle procedure
amministrative in tale ambito.
• VISTO, in particolare, il comma 6, del citato articolo
20 della legge 3 agosto 2009, n. 102, che prevede la
nomina da parte del Ministro del lavoro, della salute e
delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze, di una Commissione con il
compito di aggiornare le tabelle indicative delle percentuali dell’invalidità civile, già approvate con Decreto 5 febbraio 1992, e successive modificazioni, senza
oneri aggiuntivi per la finanza pubblica;
• VISTA la legge 3 marzo 2009 , n. 18 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale,
fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone
con disabilità;
Decretava: la “Istituzione della Commissione per l’aggiornamento delle tabelle di invalidità civile, già approvate
con decreto 5/02/92 e successive modificazioni, in applicazione dell’art. 20 comma 6 del D.L. n. 78/2009, convertito dalla Legge 3 agosto 2009, n. 102.
La durata della Commissione inizialmente prevista per sei
mesi, a decorrere dalla data del suo insediamento (24
Maggio 2010 - 24 Novembre 2010) è stata ulteriormente
prorogata. La Commissione si è avvalsa della consulenza
di specialisti nelle diverse branche della medicina e della
collaborazione di altre direzioni generali del Ministero, e
sono state effettuare audizioni delle Associazioni rappresentative delle persone con disabilità.
Alle Società Scientifiche tra cui la SIAPAV e il SID-GIUV è
stata chiesta collaborazione per un piano d’azione così
strutturato:
1. Aggiornare (sostituendo o integrando) le voci nosografiche contenute nelle tabelle del 1992, utilizzando la
classificazione OMS ICD9 CM o ICD10, se più appro-
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DI SALVO
REVISIONE MINISTERIALE DELLE TABELLE DI INVALIDITÀ
priato, in uso per le diagnosi delle schede di dimissione ospedaliera (SDO).
2. Aggiornare la fisiopatologia d’organo e d’apparato utilizzando le classificazioni funzionali validate dalla
comunità scientifica.
3. Definire la documentazione clinica idonea a descrivere i quadri disfunzionali per ciascun organo e apparato
(scale di valutazione standardizzata).
4. Successivamente, da parte dei medici legali della commissione (INPS e SSN) con la collaborazione delle
società scientifiche verrà effettuato l’aggiornamento dei
criteri di valutazione quali-quantitativa di pertinenza
medico-legale, con chiarimenti concettuali (capacità
lavorativa, danno biologico, menomazione ecc.),
anche in rapporto alle specificità connesse alle differenti classi di età (minori, adulti in età lavorativa,
anziani).
La SIAPAV, sulla base delle richieste sopraesposte, dopo
lavoro collegiale, ha presentato un documento nel quale si
è avuto cura di descrivere i principali quadri disfunzionali
delle principali affezioni vascolari declinandoli per livelli di
gravità (lieve - medio - grave) ed indicando gli strumenti
diagnostici e le scale di valutazione evidence based, idonei
per la “misura” e la descrizione del livello di gravità.
Per la Valutazione Diagnostica è stato ribadito che l’approfondimento diagnostico deve essere finalizzato all’accertamento del danno anatomico e biologico e del grado
di disabilità reali del paziente e pertanto tale accertamento medico-legale non potrà prescindere da una valutazione anatomica e funzionale delle arterie degli arti inferiori
e non può e non deve limitarsi solo a una mera valutazione strumentale di tipo morfologico effettuata solo in
funzione dell’intervento terapeutico. È stato ribadito che
la valutazione anatomo-funzionale necessario per l’accertamento medico legale richiesto debba essere espletato
da specialisti vascolari secondo le principali linee Guida
delle Società scientifiche (SIAPAV, SIDVE-GIUV, CIF).
Per l’Arteriopatia Ostruttiva Cronica Periferica: è stata utilizzata la classificazione basata su quella di Fontaine(l)
integrata, sulla base delle più recenti acquisizioni in tema
di fisiopatologia, epidemiologia, clinica e possibilità terapeutiche, dalla classificazione di Rutherford, che permette
chiaramente di descrivere le classi disfunzionali.
Classificazione ICD 9
Proposta IC10
44020 arteriopatia ostruttiva periferica
44021 AOP con claudicatio
44021 AOP con claudicatio
lieve o moderata
lieve o moderata
44022 AOP con
claudicazione severa
(IML < l00 mt)
confermata con il
treadmill test, Walking
Impairement Test. or
6 min walking test
44022 AOP con dolore a riposo
44023 Ischemia critica
cronica (CU)
44023 AOP con lesioni trofiche
44025 CLI con lesioni
trofiche
44024 AOP con gangrena
44026 CU con gangrena
26
L’accertamento medico legale richiesto deve trovare le
sue basi su:
– valutazione clinica;
– misurazione dell’indi-ce pressorio caviglia braccio;
– ECD periferico;
– ECD dei TSA e AA;
– treadmill test ed il test della marcia spontanea (6
minutes walking corridor test) per la misura della
capacità di marcia, per la valutazione funzionale dell’arteriopatico e della conseguente disabilità al di là del
danno anatomico.
Flebopatie
Per l’Insufficienza Venosa Cronica (IVC) condizione clinica assai rilevante sia dal punto di vista epidemiologico sia
per le importanti ripercussioni socio-economiche che ne
derivano è stato utilizzata la classificazione CEAP, nuova
modalità standardizzata di valutazione delle flebopatie
croniche che tiene conto della maggior parte dei segni e
sintomi della patologia. Le due proposte basate sulla ICD
9 e sulla ICD 10 sono sotto riportate:
Codifica ICD9
Codifica proposta ICD10
4540 Varici con ulcere
Insufficienza venosa cronica
primitive
4540 CEAP C-0: Flebopatie
asintomatiche senza sintomi
visibili o palpabili
4541 CEAP C-l: teleangectasie o
varici reticolari
45412 CEAP C-2: varici tronculari
senza edema
45423 CEAP C-3: varici tronculari
con edema
45424 CEAP C-4: varici tronculari
con discromie ciutanee
45425 CEAP C-5: varici tronculari
con ulcera guarita
45426 CEAP C-6: varici tronculari
con ulcere attive
45427: varici con trombosi venosa
superficiale
4541 Varici con
infiammazione
4542 Varici con ulcere ed
infiammazione
4549 Varici senza ulcere ed
infiammazione
L’accertamento medico legale richiesto deve trovare le
sue basi sulla valutazione clinica. L’eco-color-Doppler
ECD) che rappresenta attualmente il mezzo più utile e
affidabile per lo studio del sistema venoso degli arti inferiori. Il puro dato morfologico ecogra-fico, che con gli
apparati più recenti presenta un potere di risoluzione di
0,3 mm, consente di evidenziare le più fini caratteristiche
della parete vascolare e degli apparati valvolari. L’esame,
per l’immediatezza con cui avviene l’integrazione tra i
dati morfologici e quelli emodinamici, consente di ottenere informazioni non soltanto statiche, ma soprattutto dinamiche in tempi estremamente contenuti
Codificazione ICD9
Proposta ICD 10
Insufficienza venosa
cronica secondaria
4591 Sindrome
Post-trombotica
Insufficienza venosa cronica
secondaria
4591 Sindrome Post-trombotica
(SPT) senza classificazione
CEAP
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DI SALVO
REVISIONE MINISTERIALE DELLE TABELLE DI INVALIDITÀ
45910 SPT senza sintomi
45913 SPT con edema (C-3)
45914 SPTS con discromie cutanee
(C-4)
45915 SPTS con esiti di ulcere
(C-5)
45916 SPT con ulcere attive (C-6)
Malattie linfatiche
Nell’inquadramento clinico del linfedema, la classificazione CEAP-L (clinica, eziologica, anatomica, fisiopatologica), in analogia con la classificazione CEAP sulle flebopatie, ha le caratteristiche peculiari per rispondere ai compiti affidatici. Purtroppo questa classificazione non facilmente si può integrare con la classificazione ICD9 o ICD
10. Tuttavia, abbiamo voluto inserire della suddetta classificazione quella sulla disabilità , fornendo un ulteriore
contributo agli specialisti dell’INPS e del Ministero per lo
sviluppo delle nuove tabelle sulle invalidità.
Malattie linfatiche
Codifica ICD9
4570 Linfedema
post-mastectomia
4571 altri linfedemi
4572 Linfangiti
4578 Malattie linfatiche
non infettive
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Codifica Proposta ICD10
Linfedema primitivo
4570 Linfedema congenito
4571 linfedema precoce
(comparsa entro i 20 anni)
4572 Linfedema tardivo
(comparsa dopo 20 anni)
Linfedema Secondario
4573 Linfedema post-chirurgico
4574 Linfedema dopo trattamento
radioterapico
4575 Linfedema post-flogistico
4576 Linfedema post-traumatico
4577 Linfedema indurato
Per ogni codice aggiungere un quinto quadrante che indica lo
stadio clinico:
– 45711 = L. precoce I stadio che si reduce in posizione declive
– 45712 = L. precoce al II stadio che non si riduce
– 45713 = L. precoce al III stadio edema non riducibile
– 45774 = linfedema indurato con elefantiasi
4578 Linfangite Acuta
CEAP-L: Disabilità.
D0 Assenza di disabilità (il malato svolge le sue attività senza
restri-zioni delle sue scelte e/o delle sue funzioni anche se con
ortesi) (punti 0)
D1 Disabilità lieve (necessita di assistenza minima nell’esecuzione di alcune attività quali indossare tutori, usare alcuni utensili
e/o attrezzi) (punti 1)
D2 Disabilità moderata (necessita di assistenza esterna discontinua nell’esecuzione di alcune attività e di trattamento continuo)
(punti 2)
D3 Disabilità grave (necessita di assistenza completa e continua
nell’esecuzione di alcune attività della vita quotidiana) (punti 3)
Diagnostica strumentale da utilizzare:Ecodoppler venoso,
Ecografia tessuti molli, Linfoscintigrafia, Microlinfoscintigrafia, Linfografia (casi selezionati), Biopsia tissutale (casi
selezionati), Flebografia (casi selezionati), TC, RMN.
Conclusioni
La Società resta in attesa di ulteriore convocazione per la
revisione finale delle nuove Tabelle sulla invalidità civile.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):28-30
Il modello Hub & Spoke
in Angiologia/Medicina Vascolare
G.M. ANDREOZZI1, A. VISONÀ2, R. MARTINI3
L’assistenza sanitaria al malato vascolare è in atto erogata
in modo trasversale da specialisti di diversa formazione e
da strutture alquanto eterogenee creando una grande
disparità qualitativa e quantitativa dell’assistenza1.
Nelle aree dove non sono presenti strutture angiologiche
specifiche si registra un eccesso o un difetto di prestazioni, ovvero prestazioni erogate anche se non necessarie
(inappropriate) e prestazioni prive di adeguato approfondimento clinico (diagnostico e terapeutico, prestazioni
inadeguate).
Al contrario, dove sono presenti strutture angiologiche di
riferimento, il numero delle prestazioni erogate si colloca
in un valore intermedio, più coerente con i dati epidemiologici. Inoltre, laddove le strutture presenti sono strettamente interconnesse con i pronto soccorso e i DEA si
registra una tendenza alla riduzione dei ricoveri per
malattie vascolari, grazie alla presa in carico del paziente,
che ottimizza le cure e i controlli nel tempo.
La riduzione dell’inappropriatezza e dell’inadeguatezza
assistenziali è un obbligo organizzativo dei prossimi
decenni. La morbilità e l’inabilità cardiovascolare, considerando il previsto aumento della popolazione con più di
65 anni nei prossimi venti anni, sono destinate ad aumentare ben oltre l’attuale 4 per mille (ISTAT 2010).
Il piano sanitario nazionale ha proposto il modello
hub&spoke per la riorganizzazione della sanità italiana2,
partendo dal quale, SIAPAV ne ha elaborato e divulgato3
una versione squisitamente angiologica.
Razionale per la costruzione di una “rete per le
malattie vascolari”
La patologia vascolare è un problema sanitario di grande
impatto sulla popolazione e generatore di invalidità sociale e, poiché oltre il 70 % dei ricoveri di pazienti con
malattia vascolare avviene in reparti non di malattie
vascolari, è necessario migliorare e adeguare l’assistenza
vascolare negli ospedali per acuti a nuovi standard di
qualità.
Anche se non tutta la patologia da vascolare richiede
un’assistenza specialistica ospedaliera, è di fatto indispensabile disporre di una struttura specialistica in grado di
erogare un’assistenza diagnostica e terapeutica di elevata
28
1Presidente SIAPAV
Angiologia Azienda AUSL 8,
Castelfranco Veneto (TV)
3UOC Angiologia Azienda Ospedaliera-Università,
Padova
2UOC
intensità e complessità (pronta diagnosi, trattamento specifico, presa in carico di patologia cronica con frequenti
acuzie recidivanti; esempio paradigmatico è l’ischemia
critica persistente).
Obiettivi della rete per le malattie vascolari
1) Riorientare il processo assistenziale vascolare costruendo una rete basata sul modello della continuità assistenziale (ricovero per acuti, day-hospital/day service,
week service, post-acuzie) con presa in carico del
paziente, dimissione protetta, trattamento e assistenza
domiciliare (in accordo con servizi di cure domiciliari).
2) Ottimizzare l’uso delle risorse assistenziali (personale
medico e infermieristico, reparti, posti letto e loro
distribuzione, tecnologie diagnostiche e professionalità).
3) Definire i collegamenti funzionali con altre strutture
ospedaliere e territoriali (uu.oo. Chirurgia Vascolare,
Cardiologia , Radiologia, Dipartimento di Emergenza,
ecc.).
4) Valutare l’assistenza erogata in termini di appropriatezza, efficienza ed esito.
5) Predisporre e implementare percorsi clinico assistenziali e protocolli organizzativi condivisi.
6) Diffondere ed utilizzare modalità di identificazione dei
pazienti a rischio (es. identificazione di pazienti affetti
da arteriopatia periferica mediante misurazione indice
caviglia/braccio, misurazione Rischio Cardiovascolare
Globale, ecc.).
Modello hub (alta complessità) & spoke (bassa e
media complessità)
Il modello hub&spoke vascolare prevede un hub (struttura
complessa o dipartimentale di angiologia/medicina vascolare) per area vasta e un numero variabile di spoke, stret-
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IL MODELLO HUB & SPOKE IN ANGIOLOGIA/MEDICINA VASCOLARE
ANDREOZZI
tamente collegati tra loro, ove per area vasta si intende
un territorio con circa 700.000 abitanti, che nell’ordinamento attuale identifica una provincia di media grandezza. Aree metropolitane più ampie necessitano ovviamente
di un numero maggiore di hub e di spoke.
Tra gli spoke vanno incluse le strutture semplici degli
ospedali periferici e le strutture ambulatoriali territoriali
che erogano assistenza angiologica. Il privato accreditato
potrà adeguatamente e coerentemente inserirsi nel sistema, in base alle caratteristiche individuali, assimilabili alle
tipologie strutturali sopra ricordate.
In mancanza di uno specifico percorso formativo, a causa
della inopportuna chiusura delle scuole di specializzazione, la qualità deve essere certificata dai programmi di
accreditamento professionale di eccellenza delle strutture
(programma accreditamento SIAPAV4) e degli operatori
(programma accreditamento SIDV5).
Un siffatto modello configura, anche per l’angiologia/ medicina vascolare, il cosiddetto dipartimento (provinciale) funzionale che, da un canto riduce la congestione, l’inappropriatezza e l’inadeguatezza, la dispersione in vari reparti e/o
servizi, e dall’altro garantisce un’adeguata specializzazione,
la massima efficienza tecnica con minima ridondanza, la
totale concentrazione della casistica, e la tempestività dei
trasferimenti periferia-centro e centro-periferia.
È indispensabile che tutto il sistema adotti i medesimi
percorsi diagnostico-terapeutici provvedendo, mediante la
presa in carico del paziente, alla diagnosi al trattamento e
alla riabilitazione del paziente vascolare.
• definizione di protocolli operativi per l’integrazione
con i servizi territoriali:
ospedali di comunità, distretti, ospedalizzazione
domiciliare e residenze socio sanitarie assistite, servizi di assistenza domiciliare;
• organizzazione di incontri periodici con i medici di
medicina generale ed altri operatori del territorio per
migliorare appropriatezza prescrittiva e favorire il
miglior utilizzo delle risorse.
Requisiti di un centro spoke (bassa e media complessità)
Il centro spoke di angiologia/medicina vascolare può
essere collocato all’interno di un ospedale periferico (u.o.
semplice) o far parte dei servizi sanitari territoriali (ambulatori specialistici del territorio). In entrambi i casi è
necessaria la presenza di uno specialista angiologo, in
costante collegamento con l’hub di riferimento. Il collegamento va formalizzato con specifiche convenzioni interaziendali che prevedano una pronta comunicazione
(telefonica, informatica, telemedicina). Nella fase riorganizzativa sono indispensabili il mantenimento ed il potenziamento delle strutture esistenti.
Attività garantite dai centri spoke:
• diagnosi clinico-strumentale (anche in regime di
urgenza per gli spoke intraospedalieri), con definizione
dell’eziologia e della gravità della malattia;
• utilizzo di procedure, percorsi clinico-assistenziali e
protocolli di trasferimento condivisi e concordati con l’
hub di riferimento;
• trasferimento all’hub di riferimento di pazienti
– in condizioni di criticità, con patologie ad elevata
complessità diagnostico-assistenziale,
– ai quali non può essere garantito adeguato inquadramento diagnostico e adeguato trattamento;
• riaccoglimento dei pazienti stabilizzati dimessi dall’hub,
per il prosieguo del trattamento ed il follow-up;
• attivazione di rapporti di collaborazione con i PS e i
DEA per la corretta individuazione dei casi che necessitano di trasferimento al centro hub;
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Requisiti di un centro hub (alta complessità)
Il centro hub è l’u.o. complessa di angiologia/medicina
vascolare, dotato di posti letto all’interno di un ospedale
ad alta specializzazione, con ampia possibilità di ricovero.
È opportuno che l’ospedale abbia anche attività autonome di chirurgia vascolare ed emodinamica interventistica,
in modo da poter organizzare un vero e proprio vascular
centre.
L’hub deve assistere pazienti vascolari ad elevata complessità e pertanto è necessario abbia un’adeguata dotazione organica di specialisti angiologi, in grado di garantire un’attività clinica e di accettazione 24ore (possibilità di
ricovero immediato, guardia attiva continuativa 24 ore per
tutta la settimana, eventualmente in collaborazione con
altre UU.OO.).
Attività garantite dai centri hub
1. Diagnosi clinico-strumentale, anche in regime di
urgenza, attraverso la definizione dell’eziologia e
della gravità della malattia.
2. Collaborazione attiva con i PS e DE per la corretta
individuazione dei casi che necessitano di ricovero.
3. Attuazione dei provvedimenti terapeutici più adeguati
per la gestione della fase acuta.
4. Accesso rapido e preferenziale, durante l’intero arco
delle 24 ore, alla diagnostica di laboratorio secondo
protocolli definiti.
5. Utilizzo di percorsi clinico assistenziali, condivisi con
le altre UO dell’ospedale e i centri spoke.
6. supporto per la corretta gestione delle patologie
vascolari a strutture in cui non sono presenti unità
per le malattie vascolari.
7. Istruzione dei pazienti presi in carico e dei familiari
sui principali sintomi e segni di peggioramento della
malattia in atto.
8. Call service dedicato ai pazienti presi in carico e/o in
follow-up.
9. Controllo telefonico quindicinale dei pazienti in follow-up.
10. Organizzazione di incontri periodici con i medici di
medicina generale ed altri operatori del territorio per
migliorare appropriatezza prescrittiva e favorire il
miglior utilizzo delle risorse.
11. Consulenza sulla gestione dei pazienti e aggiornamento professionale per gli operatori sanitari degli
spoke.
12. Risposta a richieste per particolari necessità diagnostiche e terapeutiche non soddisfatte dai centri spoke.
13. Presa in carico dei pazienti che afferiscono a forme di
assistenza extra-ospedaliera, e gestione del follow-up.
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
ANDREOZZI
IL MODELLO HUB & SPOKE IN ANGIOLOGIA/MEDICINA VASCOLARE
Vantaggi del un modello hub & spoke in angiologia/medicina vascolare
Bibliografia
I vantaggi del modello proposto sono tutt’altro che trascurabili!
Innanzi tutto il paziente sarebbe al centro del sistema. In
secondo luogo, sotto il profilo dell’assistenza ambulatoriale, le prestazioni diminuirebbero di numero (percorsi diagnostico-terapeutici condivisi) sarebbero più appropriate,
e le liste d’attesa avrebbero una salutare contrazione.
Infine, per quanto concerne i casi a maggiore complessità
si avrebbe una riduzione del numero totale dei ricoveri
(diurni e ordinari) poiché molte delle prestazioni attualmente erogate con tali regimi assistenziali potrebbero
passare al regime di Day Service senza compromettere la
continuità assistenziale di cura (percorsi condivisi).
Il costo sarebbe contenuto, in quanto si tratta prevalentemente di riorganizzare e ottimizzare quanto già esistente,
con la necessità di istituire nuove strutture soltanto in
determinate aree del Paese.
30
1. Analisi del fabbisogno assistenziale angiologico, modelli di
appropriatezza e linee guida per l’accreditamento di eccellenza nella Regione Veneto: http://www.siapav.it/riservata_r/
triveneto/4.pdf
2. Documento prelimare informativo sui contenuti del nuovo
piano Sanitario Nazionale 2010-2012. www.salute.gov.it/
imgs/C_17_pubblicazioni_1252_allegato.pdf - 2010-10-26.
3. Bucchi G. Una gestione aeroportuale per riorganizzare la
sanità. Italia Oggi 27 aprile 2011.
Andreozzi GM: Angiologia modello hub&spoke. Sole 24oreSanità 3-16 maggio 2011.
Andreozzi GM: L’ANGIOLOGIA DEL FUTURO. Il Giorno, La
Nazione, Il Resto del Carlino 27 giugno 2011.
Zanetti V: C’è anche l’hub della sanità (dalla società di
Angiologia la proposta di riorganizzazione del sistema; intervista con il Presidente SIAPAV GM Andreozzi) Il Sole 24 Ore
NordEst 29.giugno.2011 pag. 13.
4. www.siapav.it
5. www.sidv.net/file_doc/GIUV%2027.pdf
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):31
L’Accreditamento di Eccellenza secondo il percorso
SIAPAV di UOS Angiologia
G. ARPAIA
La decisione di effettuare il percorso di accreditamento
SIAPAV è nata dalla consapevolezza di dover dare una
organizzazione della UOS, istituita nel 2007, e di affermarne non solo l’esistenza ma anche la vitalità a livello
aziendale. Sino al 2009 le attività della UOS erano state in
un certo qual senso guidate dalla richiesta non essendovi
nel Presidio ospedaliero dei Vimercate un servizio di diagnostica vascolare che garantisse prestazioni continuative
sia per i ricoverati per per Pazienti esterni. Vi era poi l’esigenza di garantire una diagnostica e un percorso di follow-up organizzato per i pazienti affetti da TVS e TVP
che hanno da sempre costituito interesse peculiare anche
di tipo scientifico per il gruppo li costituitosi con l’arrivo
di Claudio Cimminiello in qualità di Direttore di una delle
due medicine e successivamente del sottoscritto.
Il primo impegno fu di addestrare altri colleghi sia alla
diagnostica che alla gestione delle malattie vascolari quindi di costruire percorsi per le varie patologie peraltro dettati dalle esigenze e disponibilità dei vari operatori.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
UOS di Angiologia, Az. Osp. Desio e Vimercate,
Presidio di Vimercate (MB)
Dal momenti in cui mi sono approcciato al manuale di
accreditamenti, mi sono reso conto che molte delle
caratteristiche e dei criteri richiesti erano già di fatto presenti nella nostra organizzazione ma non erano mai stati
resi ufficiali sulla carta e condivisi tra tutti i componenti
del gruppo di lavoro. Mentre altri costituivano da tempo
base del nostro lavoro
Il maggiore impegno è stato quindi di trasferire dall’abitudine norma in maniera organica le nostre procedure e di
raccogliere tutte quelle documentazioni aziendali, di non
sempre facile accesso, a completamento dei criteri richiesti.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):32-3
L‘Accreditamento di Eccellenza dell’UOD di Angiologia
secondo il percorso SIAPAV
R. GRECO, B.L. FARINA, V. PRISCO
L’Accreditamento di Eccellenza si basa sull’adesione volontaria ad indicazioni e regole che definiscono i livelli di qualità di una struttura sanitaria, individuale o di equipe.
L’accreditamento è un processo di valutazione da parte di
Enti accreditanti che certificano l’organizzazione delle
strutture sanitarie secondo principi ispirati al “miglioramento continuo della qualità”.
Esistono due diversi tipi di accreditamento, l’accreditamento istituzionale, per il quale l’ente certificatore sono
le Regioni, alle quali è demandata la organizzazione dell’assistenza sanitaria, e l’accreditamento di eccellenza, per
il quale l’ente certificatore sono le Società Scientifiche,
che emanano le linee guida per la diagnosi e la cura
delle malattie di propria pertinenza.
La SIAPAV ha elaborato e pubblicato un manuale (ultima
revisione 2011) sul percorso da seguire per l’accreditamento di eccellenza, attraverso un sistema di autovalutazione, che è ispirato al raggiungimento del miglioramento
della qualità (miglioramento continuo).
L’adesione all’accreditamento è volontaria ed è finalizzata a:
– fornire consulenze;
– ottimizzare i risultati;
– stimolare il coinvolgimento dei professionisti in programmi di miglioramento;
– promuovere l’autovalutazione da comparare con la
valutazione esterna;
– analisi delle organizzazioni.
Il rapporto fra medici valutatori e medici che aderiscono al
percorso di Accreditamento è fra pari. Nel 2010 è stata
inviata alla SIAPAV la richiesta di Accreditamento della struttura UOD di Angiologia dell’Ospedale di Curteri di Mercato
S. Severino, all’epoca ASL Salerno. Il 19 maggio 2010 il GT
si è riunito presso la stessa struttura per la visita di valutazione, per l’accertamento e la verifica dei singoli requisiti:
– organizzativi;
– strutturali;
– attrezzature e dotazioni;
– formazione e aggiornamento;
– sistema informativo;
– valutazione e miglioramento;
– linee guida e procedure;
32
UOD di Angiologia,
Azienda Ospedaliera-Universitaria Integrata, Salerno
– soddisfazione e sicurezza del personale;
– diritti e soddisfazione dell’utente.
La visita di verifica si è conclusa con un giudizio finale
positivo, anche se sono emerse delle aree di criticità specie di tipo organizzativo: è emersa una scarsa attenzione
da parte della Direzione nei confronti della nostra UO,
che è altamente impegnata nella diagnosi e cura delle
malattie vascolari, in continuo aumento, e altamente produttiva.
Ci è stato consigliato di discutere e di condividere la
scheda di programmazione.
– La definizione del tipo di formazione di base e continua per il personale in rapporto alle funzioni, è risultata parziale e ci siamo attivati a documentare un
piano di formazione annuale dettagliato.
– La definizione dei meccanismi di sostituzione in caso
di assenza è risultata non precisa e l’abbiamo esattamente esplicitata e descritta nel nostro Manuale Operativo, dove è descritto il funzionigramma e l’organigramma della nostra UO.
L’UOD di Angiologia dell’Ospedale di Curteri, a gennaio
2011, è stata trasferita dalla Azienda Sanitaria Locale alla
Azienda Opedaliera Universitaria Integrata di Salerno e, a
giugno 2011, è stata inserita nell’Atto Aziendale come
U.O.C. di Angiologia e Piede Diabetico.
Conclusioni
A maggio 2010 l’UO di Angiologia di Salerno, ha ottenuto
l’Accreditamento di Eccellenza, perché valutata essere in
possesso dei requisiti necessari per la qualità delle prestazioni erogate.
A gennaio 2011 la nostra UO è stata trasferita dalla Azienda Sanitaria Locale di Salerno alla Azienda Ospedaliera
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L‘ACCREDITAMENTO DI ECCELLENZA DELL’UOD DI ANGIOLOGIA SECONDO IL PERCORSO SIAPAV
Universitaria Integrata di Salerno. L’Accreditamento di
Eccellenza ci ha permesso di migliorare alcuni aspetti
organizzativi, di intensificare la collaborazione con la
Direzione Generale, e ha migliorato il modo di operare
della Direzione stessa. La Direzione Generale dell’AOUI
di Salerno, ha inserito L’UO di Angiologia, ormai polo di
Eccellenza, nell’Atto Aziendale, come UOC di Angiologia
e Piede Diabetico.
Bibliografia
1. Andreozzi GM, Marchitelli E, Pepe R, et al. Gruppo di Studio
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
GRECO
Qualità ed Accreditamento Siapav-manuale per l’accreditamento professionale di eccellenza per le strutture sanitarie di
angiologia. Minerva Cardoangiologica Vol. 49-Suppl. 2-N° 6Dicembre 2001 (Revisione gennaio 2011).
2. Nicoli MA, Calderone B, Palestini L, Ragazzi G. Risultati
della ricerca sull’impatto dell’accreditamento nelle aziende
Sanitarie Giornata annuale CEPAS “Accreditamento in sanità:
novità e problemi emergenti” - 6 ottobre 2010;44.
3. Cinotti R, Nicoli MA. L’accreditamento istituzionale in EmiliaRomagna. Studio pilota sull’impatto del processo di accreditamento presso L’azienda USL di Ferrara dossier; 2008;165186.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):34-5
CCSVI evidenze della letteratura
(Gruppo di Studio SIDV-GIUV)
M. AMITRANO1, G. ARPAIA1, P.L. ANTIGNANI2
L’Insufficienza cerebro spinale cronica è una sindrome
vascolare caratterizzata da stenosi delle vene Giugulari
Interne, delle vene Vertebrali del sistema delle Azigos e
del plesso venoso lombare con insufficiente drenaggio
dimostrabile con Eco-Color-Doppler, flebografia selettiva
e RMN perfusionale. Le Lesioni stenosanti della CCSVI
sono state classificate come malformazioni venose tronculari in un Consensus Document dell’International Union
of Phlebology 1. Queste lesioni sono il risultato dell’arresto dello sviluppo che si verifica tardivamente nella formazione del tronco vascolare dal 3° al 5° mese di sviluppo fetale. Le lesioni tronculari di natura ostruttiva possono avere differenti impatti emodinamici sul sistema vascolare dipendenti dalla loro localizzazione dall’estensione,
dalla severità e dal naturale compenso attraverso collaterali. La scoperta di questa nuova sindrome (CCSVI) e la
sua relazione con la Sclerosi Multipla 2 è nata da una
intuizione del professor Zamboni direttore del Centro di
Malattie Vascolari dell’Università di Ferrara e dei suoi collaboratori. Egli ha dimostrato, dai dati della letteratura,
come è possibile fare diagnosi di CCSVI con la tecnica
degli Ultrasuoni 3. La proposta della nostra Società (SIDVGIUV) è lo studio del ritorno venoso cerebrale in soggetti
sani ed in varie patologie vascolari, onde validare la
metodica.
Materiali e metodi
Recentemente, grazie all’identificazione della CCSVI il
mondo scientifico vascolare ha rivolto lo sguardo sul
ritorno venoso cerebrale. Infatti per il passato l’attenzione
è stata rivolta quasi esclusivamente allo studio della
Trombosi venosa profonda del distretto brachiocefalico in
rapporto alle sue problematiche eziopatogenetiche ed
embolizzanti. Non esistono inoltre in letteratura studi
sulla Sindrome post-trombotica da pregressa TVP giugulare, eccetto casi clinici sporadici. Eppure oggi il riscontro
di questa patologia è frequente ed aumentata in rapporto
alle diverse patologie neoplastiche ed all’uso di dispositivi endovascolari. Per quanto riguarda le vertebrali inoltre,
nella pratica clinica le vene venivano studiate essenzialmente per stabilire la direzione del flusso in rapporto
all’omologa arteria soprattutto nelle inversioni di flusso da
34
1UOS di Angiologia, AORN Moscati, Avellino
2UOC di Angiologia, Ospedale S. Giovanni, Roma
Sindrome del Furto della Succlavia. In campo neurologico, invece, in letteratura sono presenti diversi studi che
cercano di correlare le alterazioni del ritorno venoso con
patologia cerebrale. Studi di Nedelmann 4 hanno evidenziato attraverso autopsie e metodiche ultrasonografiche la
presenza tra l’84 ed il 97% della valvola giugulare, nella
porzione distale di essa, come unica valvola tra atrio
destro e cervello. Successivi studi 5 ipotizzano che l’insufficienza di questa valvola può giocare un ruolo importante in varie patologie neurologiche. In particolare tosse e
cefalea 6, elevata pressione intracranica in rianimazione in
pazienti sottoposti a pressione positiva espiratoria (CPAP) 7.
Studi successivi hanno poi evidenziato la presenza di
insufficienza della valvola giugulare nell’amnesia globale
transitoria 8. Nedelmann sottolinea che più di ogni altro
reperto con Eco-Color-Doppler, la durata del reflusso è
l’elemento essenziale per la valutazione dell’insufficienza
giugulare, anche se viene analizzata la struttura della valvola il suo movimento l’inserzione dei suoi lembi. Sempre
Nedelmann ipotizza la partecipazione dell’insufficienza
valvolare giugulare nella ipertensione intracranica idiopatica. Infatti la prevalenza di questa alterazione si associa
con l’aumento del BMI il sesso femminile e l’età giovanile 5.
Un altro dato importante è la valutazione del ritorno
venoso nella diversa postura. Infatti è noto dalla letteratura 9 che durante la posizione supina prevale la via di scarico attraverso il sistema della giugulare esterna, durante
la posizione seduta a 90° la via di scarico è rappresentata
prevalentemente dal sistema vertebrale. Da questo si
deduce l’assenza del segnale giugulare al colorDoppler
nella stazione eretta e la netta riduzione della sua area.
Gisolf 10 partendo da queste evidenze ha costruito un
modello matematico che conferma questa teoria ed evidenzia inoltre che con il Valsalva in posizione eretta
ricompare segnale sulle giugulari, segno che lo stato di
ipertensione endocranica modifica questo ritorno. Inoltre
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CCSVI EVIDENZE DELLA LETTERATURA (GRUPPO DI STUDIO SIDV-GIUV)
accanto alle principali vie di deflusso giugulare e vertebrale va ricordato che concorrono al drenaggio cerebrale
le vene condilari ed il plesso petroso 11. Il protocollo
Zamboni prevede inoltre lo studio delle vene intracraniche e la valutazione del reflusso attraverso inversione di
colore. Naturalmente anche questo aspetto va approfondito ma sappiamo che come l’arterioso anche il circolo
venoso è esplorabile con opportuno settaggio dell’apparecchiatura. Già Baumgartner nel 97 12 schematizzò la
metodica stabilendo in rapporto al sesso e l’età la media
delle velocità nelle vene cerebrali. Stolz 13 successivamente ha utilizzato tale metodica nella diagnostica e nel
management della trombosi venosa intracranica. Sostanzialmente il drenaggio intracranico può essere diviso in
due sistemi il superficiale ed il profondo. Il sistema
profondo può essere investigato attraverso la vena di
Galeno, la cerebrale interna e la vena basale di
Rosenthal. La vena di Galeno drena nel seno retto quindi
alla confluenza dei seni ed al seno trasverso, anche questo ben evidenziabile al ColorDoppler. Il sistema superficiale provvede al drenaggio corticale passa per i seni
durali e si collega con il sistema profondo confluendo nel
seno trasverso. Naturalmente questa metodica richiede
apparecchiature ad elevata risoluzione de operatori
esperti. La metodica ecografica descritta da Zamboni prevede pertanto una valutazione completa con Eco-ColorDoppler del circolo intra ed extra-cranico in clinostatismo
ed a 90° come più volte descritta 14 onde valutare la sua
stretta associazione con la sclerosi multipla e quindi l’efficacia e la sicurezza di interventi endovascolari che
migliorerebbero la prognosi della malattia.
Conclusioni
Partendo dai dati della letteratura e dalla metodica messa
a punto da Zamboni la Società Italiana di Diagnostica
Vascolare è interessata ad approfondire le conoscenze sul
ritorno venoso intracranico sulla funzione valvolare, sul
significato del reflusso e quindi di validare la metodica
onde renderla riproducibile.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
AMITRANO
Bibliografia
1. Int. Angiology 2009 Consensus UIP.
2. Intracranial Venous Haemodynamics in Multiple Sclerosis. P.
Zamboni, E. Menegatti, I. Bartolomei, R. Galeotti, A.M. Malagoni, G. Tacconi, F. Salvi. Current Neurovascular Research,
2007;4:252-258.
3. Zamboni P, Menegatti E, Weinstock-Guttman B, Schirda C,
Cox JL, Malagoni AM et al. The severity of chronic cerebrospinal venous insufficiencyin patients with multiple sclerosis
is related to altered cerebrospinal fluid dynamics. Funct Neurol 2009;24:133-138.
4. Nedelmann M, Eicke BM, Dieterich M. Functional and
morphological criteria of internal jugular valve insufficiency
as assessed by ultrasound. J Neuroimaging 2005;15:70e5.
5. Nedelmann M, Kaps M, Mueller-Forell W. Venous obstruction and jugular valve insufficiency in idiopathic intracranial
hypertension. J Neurol 2009;256:964e9.
6. Knappertz VA. Cough headache and the competency of
jugular venous valves. Neurology 1996;45:149.
7. Effects of positive end-expiratory pressure on intracranial
pressure and cerebral perfusion pressure.Videtta W, Villarejo
F, Cohen M, Domeniconi G, Santa Cruz R, Pinillos O, Rios F,
Maskin B.Acta Neurochir Suppl. 2002;81:93-7.
8. Schreiber SJ, Doepp F, Klingebiel R, Valdeuza JM. “.Internal
jugular vein valve incompetence and intracranial venous
anatomy in transient global amnesia”. J Neurosurg. Psychiatry 2005;76-509-513.
9. Valdueza JM, von Munster T, Hoffman O, Schreiber, S,
Einhaupl KM. Postural dependency of the cerebral venous
out- flow. Lancet 2000;355:200-201.
10. Gisolf J, van Lieshout JJ, van Heusden K, et al. Human cerebral venous out flow pathway depends on posture and central venous pressure. J Physiol 2004;560:317e27.
11. Schreiber SJ, Lurtzing F, Gotze R, et al. Extrajugular pathways of human cerebral venous blood drainage assessed by
duplex ultrasound. J Appl Physiol 2003;94:1802e5.
12. Baumgartner, RW, Nirkko, AC, Muri, RM, Gonner, F. Transoccipitalpower-based color-coded duplex sonography of cerebral sinuses and veins, Stroke 1997;28:1319-1323.
13. Stolz E, Kaps M, Kern A, et al. Transcranial color-coded
duplex sonography of intracranial veins and sinuses in
adults. Reference data from 130 volunteers. Stroke 1999;
30:1070e5.
14. Zamboni et al J Neurol Sci 2009 15;28221-7.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):36-8
Il tempo di circolo cerebrale nei pazienti
con sclerosi multipla: valutazione con ecografia con
mezzo di contrasto
M. MANCINI
La sclerosi multipla è una malattia infiammatoria cronica
demielinizzante, a patogenesi autoimmune, che colpisce
il sistema nervoso centrale, con aspetti neurodegenerativi
e ad eziologia sconosciuta. Infatti, nonostante siano stati
proposti come agenti patogeni fattori infiammatori, infettivi, e autoimmuni, il loro rapporto di causalità con la
malattia rimane ancora da chiarire. Sulla base di studi
neuropatologici in un sottogruppo di pazienti è stato rilevato un pattern di demielinizzazione che non è stato
osservato in modelli sperimentali di encefalomielite acuta
o cronica, e che è simile alle alterazioni tessutali rilevabili
nella ischemia della sostanza bianca1,2. Il danno ipossico
della sostanza bianca potrebbe essere un elemento
secondario alla infiammazione e all’edema che nella fase
acuta della malattia potrebbero coinvolgere il tessuto circostante la placca di demielinizzazione e determinare
disturbi circolatori. Inoltre alterazioni infiammatorie nella
parete del vaso con l’attivazione della cascata coagulativa,
o con danno endoteliale diretto, potrebbero contribuire a
determinare la lesione ischemica.
Con la RMN cerebrale dinamica sono stati rilevati valori
medi dei tempi di transito cerebrale significativamente prolungati nei pazienti con sclerosi multipla3,4, inoltre già
molti anni fa sono state documentate alterazioni della parete venosa ed occlusioni vascolari con studi basati su tecniche istopatologiche5. Questi risultati indicano che un’anomalia emodinamica potrebbe essere una componente
significativa della fisiopatologia delle lesioni della SM.
L’ecografia con contrasto (CEUS) è un utile strumento di
imaging non invasivo per la valutazione, in vivo, delle
alterazioni microcircolatorie6. Il mezzo di contrasto utilizzato è un vero agente intravascolare, a differenza degli
agenti diffusibile comunemente utilizzati in risonanza
magnetica o con la tomografia computerizzata, esso rimane completamente all’interno dello spazio vascolare e
possiede una reologia intravascolare simile a quella del
globulo rosso. È costituito da microbolle contenenti gas
inerte e aumenta la potenza dell’eco retrodiffuso dal sangue di 20-30 dB (1:1000).
Lo scopo del nostro studio è stato di valutare la circolazione cerebrale in vivo con il CEUS, metodica fino ad ora
mai utilizzata nella SM.
36
Istituto di Biostrutture e Bioimmagini,
Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)
Materiali e metodi
Sono entrati a far parte dello studio 80 pazienti affetti da
sclerosi multipla (SM) clinicamente definita, diagnosticata
in base ai criteri di McDonald7 (48F/32M) e 37 soggetti di
controllo (SC) comparabili per età e sesso (19F/18M), di
diverse forme cliniche (33 RRMS, 18 PPMS, e 29 SMSP).
La disabilità è stata classificata utilizzando la Kurtzke
Expanded del Disability Status Scale (EDSS)8.
L’esame ecografico è stato eseguito con paziente in posizione supina con ecografo iU22 (Philips), con trasduttore
lineare 9-3 MHz. L’area di sezione (CSA) della vena giugulare interna (IJV) è stata misurata sul piano orizzontale.
Per l’imaging contrastografico è stata utilizzata una scansione trasversale del collo a livello della ghiandola tiroide
in cui erano contemporaneamente rappresentate la vena
giugulare interna e la carotide. Dopo 10 minuti a riposo
in posizione supina è stato iniettato manualmente un
bolo di 2,4 ml di SonoVue (Bracco SpA, Milano, Italia),
seguito immediatamente da 10 ml di soluzione salina ed
è stato acquisito un cine-loop della durata di 1 minuto.
Dopo dieci minuti a riposo, è stato effettuato un secondo
bolo per la valutazione del vaso controlaterale.
La curva di wash-in è stato analizzata off-line in cieco,
utilizzando il programma QLab-Philips.
Sono state definite manualmente tre diverse regioni di
interesse (ROI): l’arteria carotide, il parenchima tiroideo senza arterie o vene e la vena giugulare interna
(IJV). In ogni ROI sono stati misurati quattro parametri: Arrival Time (AT), Time To Peak (TTP), Incremental Time (IT) Absolute intensity Peak (AIP). È stato
considerato come tempo di circolazione cerebrale
(CCT) la differenza tra AT in arteria e AT in vena, e
come tempo di transito Arteria/tessuto (A/Ttt) la differenza tra AT in arteria e AT in tessuto tiroideo. È stata
definita incontinenza valvolare giugulare la comparsa
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
IL TEMPO DI CIRCOLO CEREBRALE NEI PAZIENTI CON SCLEROSI MULTIPLA: VALUTAZIONE CON ECOGRAFIA...
di microbolle sull’immagine B-mode in IJV prima che
in carotide. Per verificare la riproducibilità delle misure, due operatori hanno ripetuto in cieco le misurazioni in tutti i pazienti e nei soggetti di controllo. Per il
confronto del tempo di circolo cerebrale artero/venoso
tra SM e SC abbiamo usato i valori per ogni vaso
(CCT), la media dei valori tra il vaso destro ed il sinistro (CCTM), e il tempo più lungo tra i due vasi
(CCTL). I dati continui sono stati riportati come mediana e range, i dati categorici come percentuale. Per il
confronto dei parametri ecografici tra pazienti e gruppi di controllo è stato utilizzato un test non parametrico (Mann-Withney U test). Un valore p <0,05 è stato
considerato statisticamente significativo.
MANCINI
Gli 80 SM (età mediana 42 anni, range 20-62 anni) erano
paragonabili ai 37 SC (età mediana 40 anni; range 23-65
anni) per età, sesso, pressione sistolica e diastolica e frequenza cardiaca. I pazienti con SM hanno presentato
vene giugulari di dimensioni superiori ai SC (mediana
CSA MS 0,74 cm2, range 0,03-4,23 cm2; controlli 0,50 cm2,
0,18-2,08 cm2; p = 0,037). Ventisette (33%) SM e sei (16%)
SC hanno mostrato stenosi o ipoplasia della IJV (CSA <0,3
cm2).
Il mezzo di contrasto è stato ben tollerato in tutti gli individui, senza significativi effetti collaterali.
È stato rilevato reflusso di mezzo di contrasto in IJV con
una frequenza maggiore negli SM [36/80 (45%) SM e 7/37
SC (19%); ˜2 = 3,84 p = 0,0498). Non è stata rilevata differenza significativa tra gli SM e SC nei tempi di arrivo,
tempo di picco, ed intensità assoluta e tutti i parametri di
wash- erano simili negli uomini e nelle donne, senza differenze tra destra e sinistra.
CCT, CCTL e CCTM erano significativamente prolungati
nei soggetti con SM comparati con SC (CCT mediana
(range) MS 5.5s (2.0-29.2), SC 4.9 (2.2-7.6) p<0.001; CCTL
MS 6.5s (3.3-29.2) SC 5.2s (2.6-7.6) p<0,0001;CCTM
mediana (range) MS 5.9s (2.6-17.5) SC 4.8s (2.6-7.0)
p=<0.0001). Escludendo dall’analisi statistica le vene giugulari con flusso retrogrado, il tempo di circolazione
cerebrale rimaneva significativamente più lungo nel gruppo MS (CCT in 122 vene senza reflusso 6.3s (range 3.315.1s), vs. 66 vene senza reflusso 5.1s (range 2,6-7.6s) nel
gruppo SC; p <0,0001). Assumendo per CCT un cut-off di
7.2s (media + 2SD SC) 29 (37%) SM hanno mostrato un
prolungamento del CCT. Nessuna correlazione è stata
rilevata con il grado di disabilità (EDSS). Il CCTL ha
mostrato una correlazione significativa con l’età solo nei
SM (coefficiente di Spearman SM rho = 0,256, p = 0,001;
SC rho = 0,03, p = 0,81). Nessuna correlazione è stata trovata tra CCTL, durata della malattia (rho = 0,068, p =
0,41), e dimensioni della IJV (MS rho=0,087, p = 0,28; SC
rho=0,152, p = 0,244).
In condizioni fisiologiche la vena giugulare interna in
posizione supina è la via principale di drenaggio del sangue cerebrale e in pazienti con SM il tempo che impiega
il mezzo di contrasto per transitare dalle arterie alle vene
cerebrali è circa 1 secondo più lungo di quello rilevato
in soggetti di controllo. Il tempo di circolo carotide/giugulare può variare in rapporto alla gittata cardiaca, alle
resistenze vascolari sistemiche e cerebrali, alle resistenze
nella carotide esterna, alle resistenze retiniche, alla lunghezza del circuito vascolare, ed allo stato delle vene del
collo. Nei nostri pazienti con SM gli esami clinici ed
ematici escludevano la coesistenza di patologie cardiovascolari concomitanti. Inoltre, il tempo impiegato da
mezzo di contrasto per comparire in arteria e nel distretto vascolare extracerebrale come il tessuto tiroideo non
era differente nei due gruppi e ciò permette di escludere
che le variazioni osservate siano dovute a fattori emodinamici sistemici o che il deflusso cerebrale più lento nei
pazienti con SM sia secondario ad un ridotto afflusso
arterioso. La maggior parte del tempo di transito è costituito dal tempo che impiega il mezzo di contrasto per
passare attraverso arteriole, capillari e venule. Gli studi
istopatologici e ultrastrutturali nella SM hanno mostrato
che le placche cerebrali nella sclerosi multipla si localizzano in vicinanza di grandi vene epiventricolari e la flebografia con risonanza magnetica conferma in vivo lo
stretto rapporto tra le vene e la localizzazione delle placche infiammatorie della sclerosi multipla. Nel contesto di
marcata eterogeneità dei profili immunopatologici delle
lesioni della sclerosi multipla, un modello di frequente
osservato è caratterizzato da placche di demielinizzazione centrate su piccole vene, con una estensione radiale
perivenosa. La perfusione cerebrale potrebbe essere
modificata dalla stretta relazione topografica tra lesioni
della SM e strutture vascolari. Inoltre gli studi di Zamboni et al.9 dimostrano che alterazioni venose sia del circolo venoso extracranico che intracranico definite CCSVI
sono un reperto frequente nei pazienti con sclerosi multipla e ciò potrebbe modificare il gradiente di pressione
idrostatica e prolungare il tempo di circolo cerebrale. Il
flusso retrogrado nella vena giugulare interna è stato frequentemente osservato nei pazienti da noi esaminati. La
rilevanza clinica di tale anomalia non è ancora chiara, è
possibile che il reflusso dovuto ad incontinenza della
valvola giugulare interna possa provocare stasi venosa
cerebrale e prolungare il tempo di transito del mezzo di
contrasto.
I nostri risultati indicano un possibile ruolo della CEUS
nella valutazione dei pazienti con SM. L’identificazione un
sottogruppo di pazienti con un modello patogeneticamente distinto di malattia, caratterizzato da alterazioni
microcircolatorie, potrebbe essere di aiuto nella valutazione clinica e nella scelta di una specifica strategia terapeutica.
Discussione
Bibliografia
In questo studio per la prima volta in pazienti affetti da
SM il circolo cerebrale è stato esplorato con CEUS ed il
principale risultato è che il tempo di transito artero/venoso cerebrale è significativamente prolungato nei pazienti
con SM in confronto con i SC.
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Risultati
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MANCINI
IL TEMPO DI CIRCOLO CEREBRALE NEI PAZIENTI CON SCLEROSI MULTIPLA: VALUTAZIONE CON ECOGRAFIA...
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):39-40
CCSVI: parallelismo diagnostico
tra ecografia e flebografia
G. CACCIAGUERRA
L’insufficienza Venosa Cronica Cerebro-Spinale (CCSVI) si
caratterizza per la presenza di un’ampia serie di malformazioni venose che ostacolano il ritorno venoso encefalico e spinale. La principale difficoltà diagnostica è la natura squisitamente strumentale della diagnosi, basata sulle
anomalie anatomiche e sulle ripercussioni emodinamiche
che ne conseguono, ma del tutto priva di un corrispettivo
clinico che in qualche modo possa aiutare il diagnosta. I
cardini diagnostici principali sono la presenza di un ostacolo al deflusso venoso e la sua ripercussione emodinamica. L’approccio strumentale di prima istanza è l’ecocolor-Doppler (ECD), che può generare false diagnosi a
causa di un setting non corretto e/o di un non sufficiente
periodo di apprendimento dell’operatore. Una non corretta valutazione ECD genera di fatto false informazioni che
condizionano il successivo approccio angiografico. La flebografia, d’altro canto, presenta anch’essa dei punti critici, legati sostanzialmente alla quantità di mezzo di contrasto, alla pressione di iniezione ed alla proiezione utilizzata. Iniettando troppo contrasto a pressione elevata, infatti,
il circolo venoso in studio sarà iniettato anche per via
retrograda, generando un falso positivo, mentre una
proiezione non adeguata potrà non evidenziare apparati
valvolari anomali, creando un falso negativo. Infine, un
ultimo aspetto di non secondaria importanza, soprattutto
per l’ECD, riguarda la necessità di eseguire la valutazione
ecografica non su fotografie statiche ma su cine-loop di
adeguata durata. Infatti, il cardine diagnostico principale
non è la dimostrazione di un apparato valvolare anomalo,
ma la valutazione dell’alterazione emodinamica che ne
deriva.
Metodologia per la valutazione parallela delle due
metodiche
I criteri diagnostici utilizzati nello studio ECD finalizzabili
al confronto flebografico, sono fondamentalmente tre: la
presenza di anomalie valvolari o anatomiche, il blocco di
flusso in due posizioni ed il reflusso in due posizioni. Il
TCD non è stato considerato per mancanza del sistema
doppler multi angle (QDP). Il calcolo del delta CSA, eseguito come da protocollo, non è considerato in questo
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
U.O. di Chirurgia Vascolare, Ospedale “Cannizzaro”,
Azienda Ospedaliera per l’Emergenza, Catania
rapporto perché non è di alcuna utilità nella valutazione
del parallelismo tra le due metodiche. Anche la valutazione posturale ECD, benché eseguita, in questo rapporto è
stata tralasciata perché non confrontabile con la flebografia che viene eseguita solo a paziente supino.
I punti chiave su cui è stata eseguita la valutazione del
parallelismo tra le due metodiche sono la stenosi, la stasi,
il reflusso, che sono o non sono presenti. Le valutazioni
ECD, giugulari e vertebrali, sono state eseguite realizzando dei cine-loop ed è stato utilizzato anche la visualizzazione in M-Mode degli apparati valvolari Il sospetto
malformativo a carico del sistema azygos è stato valutato
con ECD sulla base dei segni indiretti vertebrali (reflusso
o assenza di flusso in due posizioni).
Esperienza personale
La nostra esperienza data dall’agosto 2010, e conta a
tutt’oggi 400 pazienti con sclerosi multipla (SM) in tutti i
sottogruppi clinici [riacutizzazioni–remissioni (RR), secondaria progressiva (SP), primaria-progressiva (PP)], tutti
sottoposti a valutazione diagnostica ECD.
Di questi pazienti solo 50 sono stati sottoposti a flebografia e contestuale PTA. I pazienti rimanenti sono tutt’ora in
lista d’attesa. In tutti i casi flebografati la diagnosi di
CCSVI è stata confermata; in dieci pazienti, tuttavia, la flebografia ha messo in evidenza alterazioni giugulari bilaterali che l’ECD non aveva visto (sottostima ecografica nel
20%). In nessun caso l’ECD ha segnalato dei falsi positivi.
In due pazienti la flebografia non ha confermato le stenosi rilevate all’ECD. Durante il follow-up clinico, i pazienti
hanno accusato frequenti ricadute della sintomatologia
neurologica e l’ECD è stato ripetuto, confermando le stenosi prima rilevate. L’evidenza ECD e l’ingravescenza clinica hanno suggerito la ripetizione della flebografia che,
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CACCIAGUERRA
CCSVI: PARALLELISMO DIAGNOSTICO TRA ECOGRAFIA E FLEBOGRAFIA
eseguita in più proiezioni nell’ostinata ricerca di quanto
descritto dall’ECD, ha confermato la presenza delle stenosi. La successiva correzione s’è accompagnata alla scomparsa dell’alterazione emodinamica.
Conclusioni
Una delle più frequenti domande che risuonano ancora
nella comunità scientifica riguarda l’esistenza o meno
della CCSVI. Credo che la domanda non abbia ragion
d’essere. La CCSVI è diagnosticabile sia con ECD sia con
flebografia, e non è dunque una diagnosi virtuale. Inoltre,
la PTA cancella in un attimo non solo l’alterazione anatomica ma anche tutte le modificazioni emodinamiche che
ne conseguono, ripristinando un deflusso venoso “normale”, e ciò è registrabile sia con ECD sia con flebografia. La
CCSVI esiste e il suo riconoscimento richiede semplicemente un adeguato periodo di apprendimento (non solo
per l’utilizzo dell’ECD ma anche per lo studio flebografico) ma non si può negarne l’esistenza soltanto perché
non si è in grado di riconoscerla. L’inadeguato apprendimento è probabilmente la causa dell’elevata discordanza
tra i risultati di vari studi. Infine, riguardo l’associazione
clinica tra CCSVI e SM, è un dato oggettivo di epidemiologia clinica che esula dagli obiettivi di questo rapporto,
che va misurato su grandi numeri, ma che certamente
non può essere negato.
40
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):41
Correlazione tra CCSVI e SM: risultati di uno studio
osservazionale su 560 pazienti studiati con
due differenti strumenti eco-doppler e dati preliminari
di follow-up post-angioplastica
P. BAVERA
Questo lavoro riassume, sotto forma di studio osservazionale, i risultati di 560 esami eco-Doppler eseguiti su
altrettanti pazienti malati di Sclerosi Multipla. Gli esami
sono stati eseguiti dallo stesso medico operatore utilizzando due apparecchi diversi ma con caratteristiche tecniche simili. Tutti gli esami sono stati effettuati seguendo
le caratteristiche richieste dal “Protocollo Zamboni”,
medico chirurgo vascolare che per primo ha osservato e
classificato le specifiche tecniche di questo tipo di esame.
Di fatto lo studio prevede la ricerca e quantificazione di
anormalità morfologiche e flussimetriche del sistema
venoso dei vasi del collo, più precisamente del sistema
giugulare e vertebrale e, di riflesso, frequentemente
anche dell’azygos.
I risultati ottenuti, per numeri e tipologie di anomalie
venose e valvolari, in una percentuale decisamente interessante fanno pensare che non vi siano delle semplici
coincidenze bensì delle possibili correlazioni tra SM e
l’insufficienza venosa cerebrospinale cronica, ormai nota
come CCSVI. Questo studio ha lo scopo di dimostrare,
con un numero di casi interessante, quanto questo esame
abbia aperto nuove strade nella diagnostica strumentale
pur essendo limitato ad operatori esperti.
In ultimo, ma i numeri sono certamente più piccoli, iniziano ad arrivare i primi controlli post PTA, generalmente
dopo tre mesi dalla procedura, che permettono una analisi sia soggettiva del paziente che di controllo diagnostico
strumentale. I risultati, ancora una volta, sono interessanti
e potrebbero aprire a diverse strade interpretative.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Milano
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):42-3
Epidemiologia della CCSVI nella sclerosi multipla
utilizzando ECD-TCCS e flebografia
A. d’ALESSANDRO
L’insufficienza venosa cerebrospinale cronica (CCSVI) è
un quadro vascolare recentemente descritto, caratterizzato
da stenosi multiple delle principali vie del drenaggio
venoso extracraniale, specialmente nelle vene giugulari
interne (IJV) e nella vena azigos (AZY), che causano ipertensione intracranica. L’attivazione di circoli collaterali,
chiaramente dimostrati per mezzo di flebografia selettiva,
tenta di compensare il ridotto ritorno venoso, tuttavia il
tempo di ritorno venoso rimane aumentato rispetto ai
soggetti di controllo. Le alterazioni emodinamiche descritte nella CCSVI, sembrano correlare in modo significativo
con la sclerosi multipla (SM). In questo rapporto riferiamo l’esperienza del nostro gruppo sull’argomento.
rosi Multipla Clinicamente Definita (CDMS), diagnosticata
in base ai criteri di McDonald revisionati. Clinicamente 69
pazienti (63,31%) presentavano un decorso clinico a riacutizzazioni-remissioni (RR), 34 pazienti (31,19%) avevano una forma secondaria progressiva (SP), e 6 pazienti
(5,5%) una forma primaria-progressiva (PP).
Materiali e metodi
Risultati
Screening non invasivo: è stato eseguito mediante esame
ECD-TCCS secondo il protocollo descritto da Zamboni,
valutando la presenza/assenza di cinque criteri emodinamico ultrasonografici richiesti per la diagnosi di CCSVI:
per avere una diagnosi di CCSVI, secondo il protocollo
Zamboni, occorre che il paziente abbia almeno 2 dei
seguenti 5 parametri:
1. reflusso nelle vene giugulari interne e/o vene vertebrali in posizione seduta e supina;
2. reflusso nelle DCVs (vena cerebrale interna, vena
basale di Rosenthal, e grande vena cerebrale di Galeno);
3. presenza di stenosi nella vena giugulare interna all’indagine B-mode ad alta risoluzione;
4. flusso non rilevabile all’indagine Doppler nelle vene
giugulari interne e/o nelle vene vertebrali;
5. controllo posturale inverso delle principali vie di
deflusso venoso cerebrale.
Diagnosi flebografica: 22 pazienti con diagnosi ultrasonografica di CCSVI, sono stati sottoposti a flebografia selettiva dei sistemi IJV e AZY preoperatoria.
Dei 109 pazienti con SM ben 101 (92,08%) presentavano
diagnosi di CCSVI mentre 8 pazienti (7,92%) non rispondevano ad almeno 2 criteri di Zamboni e quindi diagnosi
negativa alla CCSVI.
Nei 22 pazienti studiati con flebografia selettiva preoperatoria e positivi alla CCSVI, tutti presentavano anomalie
venose alle vene giugulari interne (2 pz una sola IJV ed in
20 pz entrambe le IJV) e 13 pazienti (59%) presentavano
contemporaneamente anomalie venose alla vena azygos.
Popolazione
Nel periodo gennaio-maggio 2011 sono stati studiati con
US consecutivamente 109 pazienti (73 femmine, 66,97%,
e 36 maschi, 33,03%), con età compresa tra 20 e 73 anni,
afferenti da diversi centri neurologici tutti affetti da Scle42
Responsabile Servizio di Angiologia Ospedale S. Severo,
Regione Puglia ASL Provincia di Foggia
Discussione
Le considerazioni che possiamo fare in questo lavoro
sono:
1) l’esame ECD-TCCS è uno strumento indispensabile per
la diagnosi di CCSVI in pazienti con SM; infatti l’esame
ECD-TCCS, sebbene abbia bisogno di un nuovo approccio culturale e che ha quindi necessità di un lungo periodo di apprendimento. Non meraviglia pertanto che vi
siano studi così discordanti tra loro nella percentuale di
positività;
2) l’esame ECD-TCCS è sovrapponibile alla flebografia
selettiva (100% dei pazienti) per ciò che riguarda la diagnosi di CCSVI mentre prese ne nta margini di errori,
anche significativi nella individuazione dei vasi interessati. All’esame ECD-TCCS pertanto deve essere affidata la
diagnosi di CCSVI senza precisare ulteriormente la natura
delle anomalie venose ed i vasi interessati. D’altra parte
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EPIDEMIOLOGIA DELLA CCSVI NELLA SCLEROSI MULTIPLA UTILIZZANDO ECD-TCCS E FLEBOGRAFIA
una sensibilità del 100% dell’esame ECD-TCCS rispetto
alla flebografia selettiva nella diagnosi di CCSVI indica
come l’esame ultrasonografico sia estremamente affidabile
nella diagnosi della CCSVI;
3) una percentuale del 92,08% di positività della diagnosi
di CCSVI nei pazienti con SM dimostra che la CCSVI è il
più importante fattore di rischio o concausa della SM.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):44-5
Terapia compressiva nelle ulcere degli arti inferiori:
qualità novità
G. MOSTI
Nella terapia compressiva che si attua nel trattamento
delle ulcere degli arti inferiori vi sono, ormai, alcuni punti
certi:
– la compressione è meglio di nessuna compressione;
– una compressione che eserciti un’ alta pressione è
meglio di una compressione con bassa pressione
(vanno considerate con molta attenzione le ulcere
arteriopatiche e miste con importante compromissione
arteriosa; l’I.W. deve essere >80; personale esperto
può applicare il bendaggio anche con I.W. tra 60 e 80)
– sistemi multistrato sono preferibili ai monostrato in
quanto in grado di sviluppare una maggior pressione,
conferire al bendaggio una maggior rigidità, assorbire
meglio l’essudato con gli strati protettivi (cotone o
schiuma di poliuretano).
– l’efficacia del bendaggio nei pazienti con ulcere flebostatiche è definitivamente dimostrata con una evidenza
di grado A
– non vi è accordo sull’efficacia di diversi tipi di compressione: la mancanza di studi randomizzati e controllati richiede un approccio pragmatico e le raccomandazioni in questo campo si basano sull’opinione
degli esperti.
In definitiva quale compressione nella classe CEAP 6
resta controverso.
Una revisione della letteratura evidenzia come il bendaggio anelastico o elastico siano preferiti più per questione
di abitudine o cultura che per dati obiettivi.
Vi sono anche studi randomizzati di confronto tra i due
tipi di bendaggio che dimostrano la sostanziale parità di
efficacia dei due bendaggi o la superiorità di quello elastico.
Tali studi presentano alcuni deficit metodologici:
– e ulcere considerate sono molto piccole (spesso <10
cm2)
– non è indicata l’etiopatogenesi e la severità dell’insufficienza venosa
– non sono indicati noti fattori di rischio per la guarigione quali dimensioni ed età delle ulcere e mobilità del
paziente
– non si sa con quale pressione è stato confezionato il
44
Lucca
bendaggio e se il personale scelto era ugualmente
esperto nell’applicazione dei due tipi di bendaggio, se
la tecnica di bendaggio per i diversi tipi di bende era
parimenti conosciuta e, quindi, se la compressione è
stata sempre usata nel suo modo ottimale.
– il bendaggio preso come riferimento come bendaggio
elastico in tutti questi studi si è rivelato essere, in
realtà, un bendaggio anelastico.
Visto che il bendaggio anelastico esercita una pressione a
riposo e di lavoro ed un effetto emodinamico maggiore
di quello elastico (in termini di riduzione del reflusso
venoso, volume venoso, calibro venoso, ipertensione
venosa aumento della frazione d’eiezione etc.) in ulcere
causate da severo danno emodinamico un bendaggio
qualitativo dovrà necessariamente essere anelastico e
deve essere applicato in modo tale da sviluppare un’alta
pressione di riposo e di lavoro; poiché esso ha un effetto
marcato sulla riduzione dell’edema, nelle prime fasi del
trattamento va rimosso più spesso di quanto viene raccomandato (1 settimana; v sotto) in quanto la pressione
esercitata cala drammaticamente con la riduzione dell’edema. Altri aspetti qualitativi dovrebbero essere: il mantenimento di una pressione efficace nel tempo (almeno 1
settimana), una pressione simile in tutti i pazienti (riproducibilità), facilità da applicazione e riusabilità dopo ripetuti lavaggi.
La novità in terapia compressiva è rappresentata dalla
possibilità di misurarne dosaggio (attraverso la misurazione della pressione esercitata) ed effetti (imaging ecografico, con TAC o RMN, pletismografia strain gauge, ad aria,
volumetria). Specie la misura della pressione esercitata
deve cominciare ad essere considerata uno standard qualitativo immancabile se si vuole parlare in misura seria e
documentata dell’efficacia di questo trattamento.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):46-8
Nuove prospettive nel trattamento locale
G. FAILLA, G. ARDITA, P. FINOCCHIARO, F. MUGNO, L. ATTANASIO, M. DI SALVO
L’infiammazione cronica è considerata la causa principale
della formazione dell’ulcera cutanea nel paziente con
malattia venosa cronica; essa è caratterizzata dall’iperproduzione di alcune proteasi (in particolare MMP-9 e MMP2) che, prodotte in eccesso,determinano l’impossibilità
nel corso del processo ripartivo, da parte dei tessuti, di
costituire la neo matrice extracellulare necessaria per portare a compimento il processo di guarigione1. Alcuni dati
in letteratura, ricavati dallo studio degli essudati e da biopsie, indicano che enzimi proteolitici e molecole dell’infiammazione sono abbondantemente rappresentati nei
fluidi derivati dalla superficie delle ulcere croniche, ma
anche negli strati profondi2. Un altro importante ostacolo
alla guarigione può essere rappresentato dalla presenza
di flora batterica polimicrobica che, già dalla concentrazione di 106 colonie per grammo di tessuto, rallenta significativamente o addirittura arresta il processo di guarigione: questa constatazione ha permesso ad alcuni autori di
coniare il termine di colonizzazione critica, cioè una condizione in cui le difese immunitarie dell’ospite non sono
in grado di impedire ai batteri di ostacolare il normale
processo di riparazione tessutale3. L’importanza delle singole specie microbiche o densità riguardo alla guarigione
non è chiara4. La carica batterica all’interno e sul fondo
delle ulcere va controllata e gestita in modo da evitarne
l’aumento del numero delle colonie responsabile, nel
tempo, di veri e propri periodi di arresto del processo di
riparazione tessutale, recentemente definiti come“recidive
settiche”5.
Ambedue questi processi biomolecolari determinano,
come effetto clinico, l’aumento dell’essudato.
A questi tre elementi, che già caratterizzano le ulcere,
bisogna associarne un quarto: la distinzione tra tessuto
non attivo, cioè tessuto non utile al processo di guarigione, come può essere lo slough o la necrosi, e tessuto attivo come può essere un tessuto di granulazione, finalizzato alla guarigione.
Il tessuto non attivo, non utile alla guarigione va rimosso
rapidamente 5.
Da quanto premesso gli obiettivi che dobbiamo perseguire per ottenere la guarigione sono i seguenti: la rimozione del tessuto non attivo e non utile alla guarigione; la
46
U.O.C. Angiologia “Policlinico Vittorio Emanuele”,
Catania
riduzione dell’infiammazione locale (attraverso la diminuzione dell’attività proteasica); il controllo della carica batterica per evitare le recidive settiche; la gestione dell’essudato.
Secondo le linee guida più recenti il corretto trattamento
locale è obbligatoriamente mirato ai suddetti obiettivi,
associando azioni combinate, rapide e selettive come ad
esempio il debridement con tecnologie avanzate come
Hydrosurgery e ultrasounds systems, seguito dall’uso di
medicazioni ad azione combinata, altamente assorbenti e
che rilascino antisettici. Per la gestione delle lesioni particolarmente essudanti è consigliato l’uso della pressione
topica negativa.
Inoltre particolare enfasi è data alla cura della cute perilesionale e alla gestione del sintomo dolore, aspetto quest’ultimo correlato alla qualità della vita dei pazienti5.
Per il trattamento del dolore oltre alle medicazioni che
rilasciano FANS, sembra essere promettente l’uso della
FREMS (Frequency rhythmic electrical modulation system)
nei pazienti con ulcere a forte componente infiammatoria6, ma anche nel dolore da neuropatia nel diabetico e da claudicatio nell’arteriopatico periferico.
Nel trattamento locale nella pratica clinica, anche se non
c’è supporto di validità clinica dalla revisione della letteratura, l’uso delle medicazioni avanzate è estremamente
diffuso7.
Le medicazioni avanzate consentono il mantenimento dell’ambiente umido necessario ad accelerare i processi di
guarigione. L’evoluzione tecnologica ci consente oggi una
scelta molto vasta e articolata di prodotti per medicazione.
Tale ampia gamma è stata recentemente inclusa in una
tabella riportata nel documento di posizionamento sull’essudato recentemente pubblicato a cura della World Union
of Wound Healing Societies e prevede una diversificazione
dell’utilizzo delle medicazioni avanzate in base alla quantità di essudato prodotto dalle lesioni trofiche croniche8.
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NUOVE PROSPETTIVE NEL TRATTAMENTO LOCALE
FAILLA
La gestione dell’essudato, il controllo della carica batterica, il contenimento del dolore sono le finalità d’uso di
questi presidi.
L’uso di medicazioni assorbenti e antibatteriche facilita il
trattamento delle lesioni di origine flebostatica, consentendo anche di ottimizzare i tempi di permanenza dei
bendaggi compressivi.
Le medicazioni avanzate ad azione combinata, che contengono antisettici sono ormai entrate nell’uso comune.
La loro reale utilità sta nella capacità di contenere la carica batterica per la prevenzione delle recidive settiche.
Purtroppo anche per questo tipo di medicazioni non esistono prove di efficacia clinica9, se si escludono alcune
deboli evidenze a favore dell’uso del cadexomero iodico
nell’accorciare i ratei di guarigione delle lesioni trofiche
degli arti inferiori10 . Nelle ulcere con componente ischemica e/o vasculitica il controllo della carica citochinaria
ed il contenimento del dolore attraverso il rilascio di
FANS possono essere utili nel migliorare la qualità di vita
dei pazienti. Questo risulta da recenti dati di letteratura11,
ma anche da nostre precedenti piccole esperienze cliniche già pubblicate sugli atti del Congresso Mondiale
WUWHS del 200812.
Nelle lesioni iperessudanti è possibile l’utilizzo della pressione topica negativa: oltre alla rimozione dell’essudato,
determina una riduzione della carica batterica ed un
incremento di flusso ematico a livello della zona perilesionale. Anche in questo caso l’esame della letteratura dà
risultati sconfortanti13, forse per l’esiguità dei casi trattati
nei lavori pubblicati, ma la pratica clinica dimostra l’utilità
di tale tecnica. La tecnologia attuale ci consente addirittura di utilizzare apparecchiature di dimensioni estremamente ridotte da associare alla terapia compressiva, estremamente gradite ai pazienti.
Infine alcuni lavori di farmaco-economia hanno dimostrato che l’utilizzo di questi sistemi di medicazione determina una diminuzione dei costi economici e sociali nella
gestione dei pazienti affetti da ulcera cutanea14.
Una piccola dimostrazione dell’utilità d’uso delle medicazioni avanzate e della terapia farmacologica associata, ci
viene dall’esame dei ratei di guarigione espressi in cm2
per settimana in 4 gruppi di pazienti affetti da ulcera
vascolare venosa trattati presso la nostra Unità operativa.
Materiali e metodi
I pazienti, trattati con terapia compressiva attraverso sistemi multistrato, multicomponente a elevata stiffness15,
sono stati suddivisi in quattro gruppi di 10: il primo gruppo è stato trattato con Cadexomero iodico e sistema di
bendaggio multistrato; il secondo gruppo con idrofibra
con argento e, eparina a basso peso molecolare e sistema
di bendaggio multistrato, il terzo gruppo con medicazione in idrofibra con argento e kit di calze elastiche doppio
strato; il quarto, gruppo di controllo è stato trattato con
medicazione tradizionale e bendaggio multistrato multicomponente.
La misurazione delle aree delle ulcere è stata ottenuta
attraverso un sistema di analisi digitale di fotografie eseguite al cambio della medicazione e attraverso la costruzione di grafici di contrazione delle lesioni croniche che
mettono in rapporto l’area con il tempo. Se ne sono ricaVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
vati poi dei valori che esprimono la contrazione di ogni
ulcera espressa in cm2 per settimana.
Risultati
Come riassunto in tabella I esiste un vantaggio, in termini
di contrazione delle lesioni, espresso in cm2 per settimana, a favore dei gruppi nei quali sono state utilizzate le
medicazioni avanzate, rispetto al gruppo di controllo.
Tale vantaggio si accentua se si considera il gruppo dove
è stata aggiunta la somministrazione dell’eparina a basso
peso molecolare. I ratei di contrazione delle lesioni ottenuti, risultano essere ben al di sopra di quelli considerati
ottimali per una buona guarigione delle ferite croniche16.
Tabella I. – Risultati.
Cadexomer
iodine
Multilayer
bandage
2,09
0,58
0,65
0,49
0,85
2,6
0,12
1
0,63
0,66
Mean: 0,97
LMWE
Silver containing
Silver containing dressings and
dressings
Multilayer
Multilayer bandage
Stockings
3,00
0,30
1,90
0,40
2,10
0,90
1,13
0,57
0,36
1,65
1,23
2,09
1,09
0,56
0,76
1,03
0,76
0,54
1,34
0,88
0,13
0,92
Compression
therapy
only
0,20
1,09
0,3
1,19
0,58
0,66
0,32
1,25
0,98
0,25
0,68
Conclusioni
Anche se in letteratura le evidenze a favore dell’uso delle
medicazioni avanzate e delle moderne tecniche di trattamento nel diminuire i tempi di guarigione sono scarsissime, l’esperienza clinica, almeno per quanto riguarda l’Angiologia di Catania, dimostra che esse, associate alla terapia compressiva con sistemi ad elevata stiffness, possono
permettere di accorciare la durata delle ulcere venose,
soprattutto nei pazienti trattati anche con terapia farmacologica.
La nostra modesta esperienza ci convince della necessità
che ulteriori indagini , su larga scala, debbano essere fatte
per la dimostrazione di tali ipotesi.
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FAILLA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):49-50
Correzione emodinamica del reflusso
G. GUARNERA
La comparsa di una ulcera venosa è correlata all’ipertensione venosa.
È stato dimostrato che l’incidenza di ulcera in arti con
pressione venosa deambulatoria superiore a 80 mmHg è
di circa l’80% 1.
Nella maggior parte dei casi, l’ipertensione venosa è causata dal reflusso attraverso valvole incontinenti, anche se
in taluni casi l’eziopatogenesi può essere riconducibile ad
ostruzione venosa o a deficit della pompa muscolare del
polpaccio correlata ad obesità o a patologie neurologiche
o articolari. Spesso un trauma, anche modesto, rappresenta la causa finale della comparsa dell’ulcera.
I tre sistemi venosi (superficiale, profondo, perforanti)
possono essere coinvolti dal reflusso a vari livelli e in differente combinazione. Studi con EcocolorDoppler su
vaste casistiche di pazienti affetti da ulcera venosa documentano che il modello emodinamico più frequentemente riscontrato è rappresentato dal reflusso venoso superficiale 2.
L’abolizione del reflusso venoso superficiale ha dimostrato in molti trials osservazionali di ottenere una rapida e
duratura guarigione delle ulcere venose 3.
Lo studio ESCHAR (Effect of Surgery and Compression on
Healing and Recurrence) ha messo a confronto la chirurgia del circolo superficiale associata a compressione con
la sola compressione in 500 pazienti consecutivi affetti da
ulcera venosa cronica. Ad un follow-up di 24 settimane le
percentuali di guarigione erano sovrapponibili nei due
gruppi (65% vs 65% in caso di reflusso superficiale isolato, 56% vs 57% in caso di reflusso combinato superficiale
e profondo segmentario), ma le percentuali di recidiva a
12 mesi erano significativamente ridotte nel gruppo trattato con compressione e chirurgia (12% vs 28%) 4. Negli
stessi pazienti, esaminando le percentuali di recidiva con
i due metodi a 12 mesi e a 3 anni 5 in tre differenti sottogruppi di pazienti, in relazioni ai differenti modelli emodinamici (reflusso superficiale isolato, reflusso superficiale e profondo segmentario, reflusso superficiale e profondo assiale) si osservano differenti risultati. In particolare
non vi è una differenza significativa tra i due metodi nei
pazienti che presentavano reflusso superficiale e profondo assiale.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
U.O. Chirurgia Vascolare delle Lesioni Ulcerative,
IDI-IRCCS, Roma
Tali dati confermano diverse osservazioni secondo cui in
caso di reflusso segmentario nelle vene profonde la chirurgia del circolo superficiale può causare il ripristino
della continenza nel circolo profondo in circa il 50% dei
casi. Tale reperto viene spiegato dagli Autori che lo riportano ipotizzando che l’incontinenza venosa superficiale
potrebbe determinare un sovraccarico nel circolo profondo attraverso le perforanti e causare di conseguenza dilatazione e incontinenza delle vene profonde (“overload
theory”). Per contro, un reflusso venoso profondo assiale
può essere corretto dalla chirurgia del sistema venoso
superficiale solo nel 30% dei casi 6.
Pertanto, in presenza di tale quadro emodinamico può
avere un ruolo, in pazienti altamente selezionati, la chirurgia del circolo profondo.
Le indicazioni a questo tipo di chirurgia sono rappresentate dalla presenza di un reflusso venoso profondo totale,
fallimento della terapia conservativa, pazienti giovani con
intolleranza alla terapia compressiva, cattiva qualità di
vita dei pazienti .
Gli obiettivi consistono essenzialmente nella guarigione
dell’ulcera, nella prevenzione dell’ulcera e della recidiva,
nel miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
La chirurgia venosa profonda comprende metodiche
dirette (ripristino della competenza valvolare) ed indirette
(miglioramento dell’emodinamica dell’arto). La insufficienza venosa profonda primaria rappresenta una possibile indicazione alle metodiche ricostruttive dirette, in
quanto le cuspidi valvolari sono allungate, stirate, ma
comunque presenti e potenzialmente funzionali. All’opposto, l’agenesia o la completa distruzione valvolare, che
caratterizza la sindrome posttrombotica, comportano l’utilizzo di tecniche indirette.
In epoca recente, sono comparse in Letteratura casistiche
relative all’impianto di valvola venosa artificiale, costruzione di neovalvola autologa, applicazione endovascolare
di stent con ricanalizzazione di segmenti venosi ostruiti.
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GUARNERA
CORREZIONE EMODINAMICA DEL REFLUSSO
È difficile eseguire una analisi comparativa dei risultati
della chirurgia del circolo profondo in quanto le diverse
casistiche si riferiscono a differenti quadri clinici (IVPP o
SPT), riportano l’utilizzo di più tecniche, in alcune con un
concomitante intervento sul circolo superficiale. Si osserva talvolta che i reperti clinici non sono scorporati da
quelli emodinamici e non sempre i dati relativi alla evoluzione dell’ulcera sono estrapolabili da segni e sintomi di
insufficienza venosa cronica. Soprattutto non vi sono
trials che includano esclusivamente pazienti con una storia presente o passata di ulcera venosa legata ad insufficienza venosa profonda 7.
Tuttavia, estrapolando dalle serie di diversi Autori i casi
con ulcera si può rilevare che si ottengono con differenti
metodiche percentuali di guarigione in media del 70-80%
ad un follow-up medio di circa 5 anni 8.
Per quanto riguarda la chirurgia delle vene perforanti,
uno studio recente ha documentato che non vi è alcun
beneficio clinico a breve termine nella guarigione dell’ulcera aggiungendo la SEPS alla chirurgia della safena 9.
3.
4.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):51-2
C’è una terapia medica per l’ulcera venosa?
E. AROSIO
La comparsa di un’ulcera venosa è l’atto finale di tutta
una serie di eventi che trovano il loro primum movens in
alterazioni strutturali o funzionali dei tronchi venosi degli
arti inferiori, che costituiscono il quadro clinico che prende il nome di insufficienza venosa cronica.
Tali alterazioni infatti, si ripercuotono sul sistema capillare
cutaneo, principalmente attraverso i meccanismi dell’ipertensione venulare e della stasi, con conseguente danno
microcircolatorio. Con il progredire della malattie venosa
verso gli stadi più avanzati, il danno microcircolatorio si
manifesta dapprima con iperpigmentazione cutanea, successivamente con edema e lipodermatosclerosi e infine
con il formarsi di lesioni ulcerative.
Alterazioni microcircolatorie da ipertensione venosa
Le prime alterazioni evidenziabili a livello del microcircolo sono quelle a carico dei capillari che appaiono dilatati,
allungati e tortuosi, con un aspetto di tipo glomerulare 1.
Compaiono anche segni di danno dell’endotelio capillare
quali irregolarità della superficie luminale e dilatazione
degli spazi interendoteliali. Questi processi determinano
una aumentata permeabilità vasale e il conseguente
ampliamento degli spazi pericapillari che appare alla
capillaroscopia con la formazione di aloni attorno ai
capillari dilatati. Il microedema comporta la formazione di
fibrina in sede perivascolare e il depositarsi di questi
“cappucci” fibrinici può contribuire all’instaurarsi di condizioni di ipossia 2 nonostante in queste fasi il flusso
microcircolatorio venga solitamente riscontrato elevato.
Infatti, l’aumento del flusso microcircolatorio cutaneo che
si osserva con la rilevazione mediante sonda laser Doppler, determinato sia da una maggior velocità che da una
maggior concentrazione eritrocitaria intravasale, si verifica
prevalentemente a carico della componente capillare
profonda e non di quella nutrizionale. Quest’ultima invece, specie nelle fasi più avanzate, va incontro a fenomeni
di microtrombosi che causano microinfarti e micronecrosi
con una progressiva riduzione del capillari e quindi del
flusso nutrizionale cutaneo 3. Il succedersi di questi fenomeni giustifica il severo quadro di ipossia cutanea che
conduce all’instaurarsi dell’ulcera e che può essere messo
in evidenza con l’analisi della diffusione transcutanea di
O2 e CO2.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
D.A.I. Cardiovascolare e Toracico, U.O.C.
di Riabilitazione Vascolare,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Altro meccanismo di danno, che si realizzerebbe attraverso un ridotto shear rate, è l’incrementato marginamento
dei leucociti con conseguente plugging capillare e attivazione degli stessi, dalla quale deriva rilascio di enzimi,
radicali liberi e sostanze chemiotattiche 4. Anche l’alterata
regolazione microcircolatoria, sia miogenica che neurogenica, contribuisce alla genesi del danno tissutale e al suo
perpetuarsi. In particolare la perdita di vasomotion e del
riflesso veno-arteriolare costituiscono un elemento caratteristico della cute affetta da stasi venosa cronica e della
cute con ulcerazione venosa 5.
Terapia farmacologica
La correzione del reflusso venoso e del quadro di ipertensione venosa devono essere gli obiettivi principali del
trattamento dell’ulcera venosa cronica, al fine sia di favorirne la guarigione che di prevenirne la recidiva. A tal
fine il provvedimento essenziale risulta essere una adeguata terapia compressiva, con l’eventuale ausilio di una
correzione chirurgica dei difetti venosi.
Considerato tuttavia il rilevante ruolo svolto dalle ricadute
dell’ipertensione venosa a livello microcircolatorio appena descritte, si è cercato negli ultimi anni di verificare l’efficacia di diversi farmaci nel correggere tali alterazioni, in
particolare agendo sulle interazioni tra leucociti attivati ed
endotelio, al fine di accelerare la guarigione dell’ulcera.
Uno dei farmaci più studiati per il trattamento delle ulcere venose è la pentossifillina che parrebbe in grado di
diminuire l’adesione leucocitaria, la viscosità del sangue,
l’aggregazione piastrinica e avere effetti pro-fibrinolitici.
In una revisione sistematica di tutti gli studi randomizzati
e controllati con pentossifillina per le ulcere venose, il
farmaco ha dimostrato di offrire un beneficio aggiuntivo
quando utilizzato in combinazione con la terapia compressiva e una efficacia anche in monoterapia 6.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
AROSIO
C’È UNA TERAPIA MEDICA PER L’ULCERA VENOSA?
Un altro gruppo di farmaci che ha destato notevole interesse è quello dei cosiddetti farmaci vasoattivi, costituiti
prevalentemente da flavonoidi. In particolare la frazione
flavonoica purificata micronizzata (FMPM) costituita dall’associazione di diosmina ed esperidina, si è dimostrata
in grado, in alcuni studi, di accelerare la guarigione di
ulcere venose 7, probabilmente grazie alla sua azione
antinfiammatoria, legata all’inibizione dell’attivazione,
adesione e migrazione leucocitaria a livello endoteliale,
con conseguente prevenzione del danno endoteliale.
Una simile azione sulle attività endotelio-mediate con inibizione dell’adesione leucocitaria e piastrinica è esercitata
anche dai glucosaminoglicani (GAGs) quali il mesoglicano 8 e il sulodexide 9, che possiedono inoltre la capacità
di potenziare la fibrinolisi endogena e il potere antitrombotico plasmatico, contrastando così i meccanismi microcircolatori di danno endoteliale. Entrambi questi farmaci
hanno dimostrato in studi multicentrici randomizzati in
doppio cieco di aumentare il tasso di guarigione delle
ulcere venose.
Altri farmaci che hanno dimostrato una qualche efficacia,
anche se in studi non sempre di adeguata qualità metodologica, sono alcuni fibrinolitici come il prociclide e lo
stanazololo, e antitrombotici quali ASA ed eparine. Anche
gli analoghi delle prostaglandine hanno dimostrato in
alcuni studi di essere in grado di ridurre i tempi di guarigione delle ulcere, anche se il loro impiego è reso problematico dalla necessità della somministrazione endovenosa e dagli effetti collaterali.
Conclusioni
Il trattamento principale dell’ulcera venosa cronica è rappresentato dalla correzione del reflusso venoso e del quadro di ipertensione venosa attraverso una adeguata terapia compressiva o l’eventuale ausilio di una correzione
52
chirurgica dei difetti venosi. Tuttavia, se si considera il
rilevante ruolo svolto dalle alterazioni indotte a livello
microcircolatorio dall’ipertensione venosa e in particolare
dalle sfavorevoli modificazioni delle interazioni tra leucociti attivati ed endotelio, l’impiego di alcuni farmaci
vasoattivi, quali in particolare flavonoidi e GAGs, può
risultare di aiuto per accelerare la guarigione dell’ulcera.
Bibliografia
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study of Sulodexide in the treatment of venous leg ulcers.
Thromb Haemost 2002;87:947-52.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):53-4
SIAPAV-ILA: un sodalizio destinato a durare
P. ALIA
Signor Presidente, illustri partecipanti, Signore e Signori,
sono veramente lieto che l’associazione che rappresento,
ILA Associazione Italiana di Angiodisplasia ed Emangiomi
Infantili, abbia avuto l’opportunità di poter partecipare a
questo simposio dedicato alla malattia rara di cui si occupa: le Malformazioni Vascolari Congenite.
L’importanza e la peculiarità dell’evento derivano dalla
circostanza che una associazione scientifica di prestigio e
di rilevanza nazionale quale SIAPAV, che ha il proprio
focus di competenza e attività nella angiologia e patologia vascolare, abbia avvertito la necessità di dedicare una
attenzione particolare alle tematiche trattate dalla nostra
associazione, all’interno del proprio XXXIII convegno
nazionale dell’anno 2011.
Si tratta di un evento importante e storico per ILA, il
primo in undici anni di esistenza.
L’importanza e la valenza che ILA attribuisce a questa iniziativa traspare chiaramente anche dal titolo di queste
breve presentazione, con cui abbiamo voluto sintetizzare
la speranza, il desiderio e la necessità della collaborazione tra ILA e SIAPAV, oltre che dalle seguenti considerazioni volte ad illustrare la peculiarità di ILA.
Molte associazioni che si occupano di malattie rare nascono a seguito di un evento che drammaticamente irrompe
nella quotidianità della vita di chi ne è colpito.
Anche la nascita di ILA non è sfuggita a questo destino.
Ilaria Cantarini, Ila,laureanda in biologia presso l’Università degli Studi di Milano, a 27 muore a seguito dell’aggravarsi di una rara e grave forma di angiodisplasia. Nel
corso della malattia emergono in tutta la loro gravità ed
immanenza le problematiche tipiche di una malattia rara:
riconoscerla e diagnosticarla, curarla, cercare e contattare
in Italia e/o all’estero centri e professionisti in grado di
aiutare a combattere il male.
Si prende coscienza della carenza di conoscenze e mezzi
che consentano di mettere in campo gli strumenti e le
risorse necessarie ed efficaci per affrontare la malattia. Si
misura l’importanza decisiva della ricerca e della valenza
di un approccio multidisciplinare. Si vive il bisogno irrinunciabile di non essere lasciati soli e la paura della solitudine che deriva dal non conoscere il male da combattere.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Presidente ILA
Ilaria nel corso della sua malattia ha elaborato queste
sensazioni ed emozioni che ha trasmesso a chi le stava
vicino e che hanno rappresentato le fondamenta su cui si
è costituita ILA. La cultura scientifica di cui disponeva le
ha anche consentito di focalizzare il ruolo della scienza e
della conoscenza indispensabili per combattere un male
la cui rarità rende particolarmente impenetrabile.
I nostri malati devono affrontare, fra le tante difficoltà, nel
lungo e difficile tragitto da percorrere per combattere la
malattia, due ostacoli in particolare: diagnosticare in
tempi rapidi il male e la sua tipologia e essere messi in
condizioni di trovare la struttura che possa offrire la
migliore assistenza. Ostacoli che ancora oggi si presentano ostici e di difficile superamento. Si aggiunga poi che
sono pochissime le strutture ospedaliere in grado di intervenire nella cura delle malformazioni vascolari congenite,
che nel loro insieme costituiscono un ampio spettro di
malattie rare, ancorché non ne sia stata ancora acquisita
la qualifica ufficiale attraverso una adeguata ricerca epidemiologica.
Non va dimenticato inoltre che la carenza di strutture specializzate, e soprattutto la non diffusa conoscenza dell’esistenza delle poche/pochissime realtà disponibili sul territorio nazionale, ancorché alcune di eccellenza e che hanno
costituito, dalla fondazione di ILA, e costituiscono tuttora
di fatto l’unica “ancora di salvezza” corrisponde drammaticamente ad una ancor più significativa carenza “numerica”
di medici esperti in grado di diagnosticare e quindi intervenire soprattutto sui casi più gravi e/o complessi.
In sintesi di cosa abbisogna ILA???
Di una adeguata ricerca epidemiologica che consenta di
inquadrare in modo sistemico e rigoroso sul piano scientifico la multiformità delle forme in cui si presentano le
Malformazioni Vascolari Congenite.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
ALIA
SIAPAV-ILA: UN SODALIZIO DESTINATO A DURARE
Di una uniformità di classificazione e quindi di linguaggio
che consenta a tutti i medici di dialogare fra loro considerando le Malformazioni Vascolari Congenite come un
unico contesto di intervento medico scientifico, e ai
pazienti di capire cosa devono combattere
Di una capacità ed omogeneità di strumenti diagnostici
che corrisponda, se mi è consentirà la banalizzazione, al
concetto che “si trova quello che si conosce”. Non può e
non deve capitare che lo specialista di queste patologie, e
per fortuna ce ne sono, debba dire al paziente che visita
per la prima volta e da cui spesso è stato individuato per
caso, che le analisi che presenta debbano essere rifatte
perché non adatte allo scopo.
Di un incremento del numero delle strutture in grado,
prima di tutto, di diagnosticare con sicurezza il male e
quindi di indirizzare i pazienti ai centri adeguati, strutture e
centri la cui carenza numerica è quanto meno drammatica.
Della formazione di specialisti, sia diagnostici che chirurghi, che possano affiancare i pochi/pochissimi attualmente disponibili. Serve un programma di formazione che
consenta di dare continuità d’azione nel combattere il
male e quindi dare speranza di assistenza agli inevitabili
malati di domani.
Dare ai medici di base, che costituiscono i primi avamposti di intervento, strumenti adeguati di conoscenza per
allertarsi con il massimo anticipo possibile.
Dell’avvio, quanto meno, di un embrione di attività di ricerca che consenta di capire la natura di questa patologia.
Come si vede il campo di interventi è vastissimo e quelli
citati non sono certamente esaustivi.
54
Gli attori e gli interlocutori coinvolti sono tanti e diversificati per ruolo e funzione.
Tuttavia il mondo medico/scientifico è uno dei tanti ma
certamente il suo ruolo è decisivo.
Un altro attore irrinunciabile è costituito dai pazienti, e
quindi da ILA, che si sforza di rappresentarli il più degnamente e incisivamente possibile.
Da queste considerazioni, ancorché sintetiche, elaborate
da chi, come il sottoscritto, non appartiene al mondo
medico, ma che vive il “punto di vista” dei pazienti e
dei loro problemi, pazienti che misurano la qualità
degli interventi in base ai risultati, non interferendo
sulle metodiche medico/scientifiche adottate, rispetto
alle quali sono, direi costituzionalmente, neutrali,
emerge senza ombra di dubbio non solo l’opportunità,
ma la necessità di una collaborazione organica tra SIAPAV e ILA.
Un sodalizio, regolato da un accordo strutturato, che individui due linee fondamentali di intervento: l’una di impostazione metodologica l’altra che consenta di avviare
azioni concrete secondo criteri di priorità, fattibilità,
essenzialità, concetti su cui il ruolo e le competenze di
SIAPAV sono determinanti per avviare un percorso che
possa avere serie probabilità di successo, successo che è
misurato solo dal soddisfacimento dei problemi e delle
attese dei pazienti.
È con questi auspici che sono certo potremo beneficiare
delle competenze e delle potenzialità di SIAPAV per l’avvio di un proficuo e duraturo sodalizio, ILA e SIAPAV
sono l’uno complementare all’altro.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):55-6
Il trattamento delle malformazioni vascolari:
chi, come e dove
R. MATTASSI
Le malformazioni vascolari (o angiodisplasie) sono la
conseguenza di errori nello sviluppo del sistema vascolare nel periodo embrionario. La angiogenesi comprende
due fasi: una fase precoce, o reticolare, in cui si forma
una rete di capillari primitivi in tutto l’embrione, e una
fase tronculare, in cui si sviluppano i principali tronchi
vascolari. La fase di formazione dei vasi principali è
accompagnata da una involuzione fino alla scomparsa dei
capillari primitivi 1.
A seconda della fase angiogenetica in cui si manifesta
l’effetto patogeno, si avranno differenti tipi di malformazioni. Un’azione patologica che si manifesta nella fase
reticolare inibirà la regressione dei capillari primitivi per
cui permarrà un’area di vasi displasici nel contesto dei
tessuti. Un effetto anomalo sulla fase tardiva di formazione dei vasi principali produrrà una anomalia di un loro
segmento, come aplasie, ipoplasie o dilatazioni anomale
(aneurismi) congeniti.
Il fenomeno può interessare ognuno dei tipi vascolari,
siano essi arterie, vene o linfatici. Sono interessati in
maniera nettamente più frequente i vasi venosi 2. È anche
possibile una combinazione di malformazioni che interessano contemporaneamente più tipi vascolari (linfatico e
venoso, artero-venoso e linfatico ecc)
L’effetto patogeno può manifestarsi in qualsiasi distretto
corporeo con una estensione molto differente; si va da
piccole anomalie circoscritte a estese aree infiltrate da
vasi anomali.
Tutte queste differenti opzioni comportano una notevole
possibilità di combinazioni che spiega la estrema variabilità delle malformazioni vascolari al punto da poter affermare che, a differenza dei normali quadri patologici, la
patologia standard è la eccezione piuttosto che la regola.
Diagnosi
La diagnostica non può basarsi esclusivamente sull’esame
clinico in quanto l’aspetto esteriore può nascondere difetti profondi non evidenziabili se non con indagini strumentali. L’ecodoppler è considerato il primo esame che
consente di ottenere un iniziale quadro della malformazione in quanto fornisce dati sull’emodinamica, sulla sede
e sulla estensione della malformazione 3. Ulteriori dati forVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Centro Multidisciplinare per le Malformazioni
Vascolari “Stefan Belov”,
Istituto Clinico Humanitas “Mater Domini”,
Castellanza (VA)
niscono altri esami come la RMN, la TAC, la flebografia, la
radiografia semplice, la linfoscintigrafia ed altri. Il progresso nelle tecniche di imaging consente oggi di studiare
il paziente con tecniche sempre meno invasive 4. Appare
comunque fondamentale acquisire un quadro completo
della sede, del tipo di malformazione, della sua emodinamica e del grado di coinvolgimento dei tessuti e organi
prima di procedere al trattamento. Si deve in ogni modo
evitare una frettolosa terapia basata solo su un esame clinico in quanto questo atteggiamento porta spesso a errori
strategici e procedurali.
Terapia
Il trattamento delle malformazioni vascolari si basa su differenti tecniche: la terapia conservativa, la sclerosi nelle
varie forme tecniche, la chirurgia, la embolizzazione
mediante cateterismo e il laser .
La terapia conservativa utilizza prevalentemente la elastocompressione mediante apposite calze a compressione
graduata oppure bendaggi elasto-adesivi. Queste tecniche
sono però utili solo in casi leggeri in quanto nella migliore delle prospettive possono mantenere lo status quo. In
casi di patologia linfatica può essere indicata una fisioterapia drenante basata su una combinazione di tecniche
drenanti ed elastocompressive.
La sclerosi è una tecnica frequentemente utilizzata e si
basa su tre diverse metodiche: la sclerosi classica, la sclerosi con schiuma e la sclerosi mediante etanolo. La sclerosi classica, basata su iniezione di sostanze sclerosanti,
utlizzate generalmente per il trattamento delle varici, si è
dimostrata poco efficace nella cura delle angiodisplasie.
La sclerosi con schiuma dà risultati nettamente superiori
ma la incidenza di recidive è elevata 5. La tecnica di alcolizzazione è nettamente superiore, in quanto l’alcol è uno
dei più potenti agenti distruttori dell’endotelio vasale. La
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MATTASSI
IL TRATTAMENTO DELLE MALFORMAZIONI VASCOLARI: CHI, COME E DOVE
tecnica deve però essere correttamente applicata in quanto esiste un rischio elevato, in caso di procedura non corretta, di necrosi cutanea e danni nervosi. La corretta esecuzione, utilizzando il controllo flebografico e/o ecodoppler intraprocedurale, come pure un dosaggio adeguato
permette di ottenere i migliori risultati 6.
La embolizzazione mediante cateterismi selettivi é indicata in forme artero-venose che si prestino a questa procedura. Anche questa metodica richiede buona capacità tecnica e una adeguata conoscenza dei materiali da utilizzare, da scegliere in base al caso.
Le tecniche chirurgiche hanno ancora oggi un importante
ruolo nella cura delle angiodisplasie e non devono mai
essere ignorate. Esistono tecniche ricostruttive, in caso di
vasi aplastici o aneurismatici, tecniche ablative radicali e
tecniche palliative 7-9. In casi complessi possono essere
utili interventi multipli a tappe.
Il laser ha pure un importante ruolo e può essere utilizzato per via cutanea, per via percutanea interstiziale oppure
mediante cateterismo 10.
Fondamentale è una corretta strategia terapeutica che
comporti decisioni fondamentali come il timing e i tipi di
tecniche da utilizzare.
Caratteristica peculiare delle malformazioni vascolari è
quella di evolvere in maniera spesso imprevedibile. Il
trauma, fortuito oppure legato a una terapia, può favorire
la evoluzione ma può anche non modificare la situazione.
Evoluzioni anche rapide e importanti possono manifestarsi dopo una procedura terapeutica in un quadro non particolarmente grave.
Questa constatazione ha portato a ritenere che è indicato un
trattamento solo in pazienti sintomatici. Una strategia aggressiva volta a migliorare quadri angiografici o di RMN in
pazienti asintomatici vanno evitati. Al contrario, una patologia in evoluzione, con complicanze (emorragie, flebiti recidivanti ed altro) oppure con tendenza alla dismetria degli arti
in un bambino deve essere trattata con sollecitudine.
56
Decisiva è anche la scelta del tipo di tecnica da utilizzare.
Per ogni caso vi sarà una metodica, o anche una combinazione di metodiche, che potrà offrire le migliori possibilità di successo. Appare quindi fondamentale che vi sia
un approccio di un team multidisciplinare che possa
offrire tutte le tecniche sopra descritte e non un trattamento eseguito da un singolo specialista, inevitabilmente
condizionato nella scelta.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):57
Telemedicina e angiodisplasie: la costituzione di un
portale nazionale per i medici di medicina generale,
per gli specialisti e per i pazienti
S. PILLON
I termini “Sanità Elettronica”, “eHealth”, “Telelemedicina”
sono ormai termini correnti e spesso abusati. La rete
Internet costituisce in questo scenario un luogo di incontro e di scambio che avviene spesso su base “casuale”
attraverso ricerche sui motori di ricerca che spesso non
restituiscono informazioni corrette o validate.
Descrizione sintetica del progetto
Le MAV (Malformazioni Artero-Venose) sono patologie
rare meglio ricomprese dal termine Angiodisplasie.
Richiedono un approccio plurispecialistico per la diagnosi
ed il trattamento ma per la difficoltà nella diagnosi e la
relativa rarità della patologia i pazienti sono “persi” sulla
rete Internet alla ricerca di centri di riferimento e di indirizzi clinico-terapeutici. In particolare in piccoli centri, al
sud, in età pediatrica, questi pazienti sono spesso costretti
a “viaggi della speranza” non sempre con risultati soddisfacenti. Anche i medici di medicina generale ma spesso
anche gli specialisti, non esperti del “mezzo” sono mal
consigliati o sperduti nel caso di malattie rare e poco
definite sia clinicamente che semanticamente come le
Angiodisplasie
L’obiettivo del progetto è la realizzazione e la manutenzione continua di un portale Internet riservato agli operatori ed ai pazienti. Il portale verrà realizzato in collaborazione con l’Unità Operativa Dipartimentale di Telemedicina del Dipartimento Cardiovascolare dell’azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma e con il sostegno dell’Associazione Italiana Angiodisplasie ed Emangiomi,
denominata ILA in ricordo di Ilaria, una giovane paziente
deceduta per le conseguenze di questa patologia che
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
UOD Telemedicina, Azienda Ospedaliera
“San Camillo-Forlanini”, Roma
aveva proposto l’idea dell’associazione di pazienti, genitori e medici coinvolti nella patologia.
Finalità
– Diffondere le conoscenze nazionali ed internazionali
sulla patologia.
– Diffondere presso medici di base e pazienti la conoscenza dei centri di eccellenza per la diagnosi e la
terapia delle angiodisplasie.
– Fornire un supporto per i medici del territorio per una
second opinion e/o una consulenza specialistica di
indirizzo diagnostico/terapeutico.
– Realizzare percorsi di e-learning specifici.
– Supportare e divulgare tutte le iniziative del settore.
– Migliora conoscenza epidemiologica della patologia.
Risultati
Risultati attesi e benefici per la comunità di riferimento:
– aumento dei pazienti che si rivolgono a centri qualificati per il percorso diagnostico-terapeutico;
– aumento delle conoscenze sul tema per i medici del
territorio;
– riduzione delle complicanze (amputazioni maggiori e
minori, decessi) della patologia.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):58-60
Il Medico Generalista, primo diagnosta e primo
terapeuta: la misura di ABI e l’AOP asintomatica
C.F. MARULLI
Una caratteristica peculiare della Medicina Generale è
rappresentata dalle modalità di presentazione dei nostri
pazienti: essi giungono infatti alla nostra osservazione
lamentando sintomi molto volte sfumati e spesso non
catalogabili in classificazioni nosologiche precise; questo
è particolarmente vero nel caso di Peripheral Arterial
Disaese (PAD) che molte volte decorre in maniera asintomatica dal (25 al 50%). Dal punto di vista del Medico di
Medicina Generale (MMG), le arteriopatie periferiche
(Peripheral Arterial Disease, PAD) rappresentano sia un
importante marker di rischio CV sia una patologia, che
può causare sintomi interferenti con la qualità di vita e,
solo molto più raramente, una patologia che può porre a
rischio l’arto e la vita del paziente .
Ravenna
Tabella I. – Pazienti a rischio di PAD.
Età inferiore a 50 anni con diabete e un altro fattore di rischio
(fumo, dislipidemia, ipertensione o iperomocisteinemia).
Età tra 50 e 69 anni con storia di diabete o fumo.
Età maggiore di 70 anni.
Sintomi suggestivi di claudicatio o di dolore ischemico a riposo.
Alterazione dei polsi periferici.
Aterosclerosi coronarica, carotidea o malattie renali.
Compiti del MMG
– Sospetto diagnostico e conferma diagnosi
– Registrare diagnosi
– Valutare presenza di patologia aterosclerotica in altri
distretti
– Informare ed educare il paziente e i “care givers”
– Trattare il paziente sia per ridurre il rischio CV globale
sia per ridurre il rischio ischemico a carico dell’arto
– Diagnosticare tempestivamente le “urgenze ischemiche”
– Consultare lo specialista quando opportuno
Presentazione clinica
La malattia all’esordio può presentarsi con diverse modalità:
– pazienti asintomatici
– pazienti con sintomi atipici
– claudicatio
– ischemia critica degli arti
Solo un 1/5 dei casi con PAD diagnosticata obiettivamente è sintomatico, nella maggioranza dei casi la malattia è
asintomatica; questi pazienti hanno un profilo di rischio
sovrapponibile a quello dei pazienti sintomatici. Il gruppo
di pazienti con sintomi atipici lamenta molto spesso
senso di astenia durante sforzi, disturbi dell’equilibrio,
alterazioni aspecifiche della camminata (passi brevi, ridotta velocità ecc.).
58
In questi due gruppi di pazienti, asintomatici e sintomatici, è utile eseguire un ABI (Ankle brachial Index); questa
metodica ha una sensibilità dal 79 al 95% e una specificità
dal 96 al 100%, ma non è comunque ubiquitariamente
diffusa ed anche se rappresenta un test eseguibile nell’ambulatorio del MG è difficilmente proponibile per l’attuale livello di organizzazione delle cure primarie nel
nostro paese; in aggiunta la sua esecuzione non è rimborsabile da parte del SSN per cui anche lo specialista vascolare tralascia di eseguirlo preferendo effettuare un esame
Ecodoppler completo. Fanno alcune volte eccezione a
questa regola i Centri antidiabetici presso i quali i pazienti vengono spesso sottoposti a questa procedura. Oltre
alla tecnica classica che utilizza un minidoppler per la
misura della pressione è stata proposta anche la misurazione mediante l’uso dello stetoscopio ed un recente studio 1 ha dimostrato una buona correlazione tra le due
metodiche (ABI medio con doppler 1,03 ± 0,20 vs 1,01 ±
0,15, con stetoscopio P = 0.047) anche se il numero di
pazienti era esiguo (88 pazienti). Un limite della metodica
è l’assenza di standardizzazione e quindi di riproducibilità
sono stati descritti ben 25 modi diversi di misurare ABI 2.
Claudicatio
La claudicatio è definita come una sensazione di fastidio,
di affaticamento e di franco dolore agli arti, tutti sintomi
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IL MEDICO GENERALISTA, PRIMO DIAGNOSTA E PRIMO TERAPEUTA: LA MISURA DI ABI E L’AOP ASINTOMATICA
MARULLI
Figura 1. – Algoritmo diagnostico ideale nei pazienti a rischio PAD (vedi tabella I).
che insorgono durante lo sforzo e che scompaiono con il
riposo. La sede del dolore spesso coincide con la sede
dell’ostruzione: una stenosi delle arterie iliache può produrre dolore all’anca e al femore ma anche alla caviglia,
un’ostruzione dell’arterie femorali o poplitee è associata a
dolore al polpaccio, mentre un’occlusione delle tibiali a
dolore al polpaccio o più di rado al piede. Esistono delle
condizioni cliniche nelle quali è presente dolore in sedi
diverse dell’arto inferiore e che possono simulare una
claudicatio ma da questa vanno differenziate.
Prognosi e storia naturale
La storia naturale della malattia non giustifica atteggiamenti allarmistici, infatti, dopo 5-10 anni il 70-80% dei
pazienti resta invariato mentre negli altri casi si ha una
progressione; l’opportunità di una diagnosi precoce risiede, quindi, nell’alto rischio cardiovascolare aggiuntivo
che presentano questi pazienti infatti:
– il 60-80% presenta una coronaropatia;
– il 12-25% presenta una stenosi carotidea significativa;
– il rischio di infarto acuto del miocardio aumenta dal 20
al 60%;
– il rischio di stroke aumenta del 40%;
– la probabilità di morte per cause cardiovascolari
aumenta da 2 a 6 volte.
Quindi, la sorveglianza come la terapia dei fattori di
rischio cardiovascolari deve essere particolarmente
aggressiva ed intensa
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
I nostri dati
Il database di Health Search raccoglie, alla data del
31/12/2010, i dati di 900 MMG appartenenti alla Simg
(Società Italiana Medicina Generale) che assistono oltre
2.000.000 di pazienti e si articola in:
– 29.417.628 diagnosi/problemi;
– 285.101.656 accertamenti diagnostici;
– 10.255.593 pressioni;
– 183.412.379 ricette.
Su questo archivio, che nel 2006 conteneva i dati di 550
MMG per un totale di 800.000 pazienti, sono stati selezionati 320 medici per un totale di 464.382 assistiti, e su
questi è stata condotta una ricerca con l’obiettivo di valutare la prevalenza delle PAD nell’ambito delle cure primarie sulla base di un criterio clinico e di descrivere i comportamenti prescrittivi per queste patologie. Sono stati
ricercati i seguenti codici ICDIX: 440.2; 440.20; 440.21;
440.22; 440.23; 440.24; 440.29; 443.9. La prevalenza totale
era 0,7% e le patologie più rappresentate erano quelle
cardio cerebrovascolari (IMA 5,72%, Angina 3,39%, Stroke
5,44%, Fibrillazione atriale 7,07%). Per quanto riguardo i
dati prescrittivi è emersa una sotto prescrizione di quasi
tutti i principi attivi ritenuti utili in queste patologie (ACE,
ARBS, Ipolipemizzanti, Antiaggreganti, Anticoagulanti)
sia nei pazienti a rischio lieve che in quelli ad alto
rischio (es diabetici) dato peraltro già noto e presente
anche in altri paesi europei (Germania). Lo studio pur
con diversi limiti (criteri diagnostici non concordati, pato-
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MARULLI
IL MEDICO GENERALISTA, PRIMO DIAGNOSTA E PRIMO TERAPEUTA: LA MISURA DI ABI E L’AOP ASINTOMATICA
Figura 2. – Diagnosi differenziale della claudicatio.
logie non codificate) dimostra che i MMG diagnosticano
pochi casi di PAD anche quando questa è l’unica patologia lamentata dai pazienti e che pertanto richiederebbe
una diagnosi precoce allo scopo di abbattere l’elevato
rischio cardiovascolare.
Trattandosi di paziente ad alto rischio valgono le regole:
uso di ASA a basse dosi, se non controindicato, riduzione
dei livelli di colesterolo LDL con mezzi non farmacologici
e, se necessario, farmacologici (target < 100 mg/dl, 70
mg/dl se diabete o altre localizzazioni della malattia aterosclerotica) controllo dell’ipertensione arteriosa (target
PA £ 130/80 se insufficienza renale £ 120/80) e del diabete oltre che abolizione del fumo. L’esercizio fisico, quando possibile, è molto importante. Alla luce dei dati dello
studio HOPE, può essere utile considerare l’uso di ACE
inibitori anche in assenza d’ipertensione; questi farmaci
sono sicuramente da considerarsi nel caso d’ipertensione
e/o diabete.
60
Conclusioni
L’importanza della PAD risiede oltre che nel danno a carico dell’arto e nella cattiva qualità di vita soprattutto nel
rischio cardiovascolare aggiunto che questi pazienti presentano ed è quindi compito, in particolare del MMG,
sospettare una diagnosi il più presto possibile in modo da
affrontare e correggere in maniera aggressiva i fattori di
rischio cardiovascolari presenti.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):61-3
Management della claudicatio moderata-severa:
obiettivi e strategie terapeutiche
M.M DI SALVO, F. MUGNO, P.M. FINOCCHIARO, G. ARDITA, G.FAILLA
L’arteriopatia ostruttiva cronica periferica (AOCP) è una
patologia vascolare che si caratterizza per l’interessamento strutturale dei grossi e piccoli vasi arteriosi e che determina invalidità temporanea o permanente nelle sue diverse espressioni cliniche.
La classificazione di Leriche-Fontaine più volte rivista e
modificata, prevedeva la distinzione in quattro principali
livelli di malattia progressivamente più gravi in cui il I stadio è silente e caratterizzato da una manifestazione clinica solo per sforzi massimali, mentre il II stadio presenta
una sottoclassificazione basata prevalentemente sulla
valutazione anamnestica, distinguendo lo scompenso
macrocircolatorio stabile (stadio IIA) in cui il paziente
lamenta un dolore crampiforme ai muscoli dell’arto inferiore dopo uno sforzo determinato e costante, quantificabile nell’IML (o intervallo di marcia libero dal dolore)
>150-200 mt; e lo scompenso macrocircolatorio instabile
(stadio IIB) in cui il paziente avverte il dolore dopo un
IML <150-200 mt. Nel caso in cui il paziente avverta il
dolore dopo un IML <100 mt (stadio II B severo) il quadro clinico si presenta più grave essendo il paziente
esposto ad un rischio di peggioramento locale dell’arto
del 40% a 16-18 mesi e ad un rischio cardiovascolare globale del 20% circa a 3 anni.
Nel III e nel IV stadio le condizioni cliniche sono più
gravi, essendo caratterizzate rispettivamente il primo dal
dolore anche a riposo e il secondo dalle turbe trofiche.
Questa classificazione ha presentato dei limiti, primo fra
tutti la difficoltà a considerare l’intera popolazione dei
pazienti con AOCP al II stadio B in un unico gruppo.
Tale riflessione risulta evidente se si considera che non
tutti i pazienti appartenenti a tale fascia sembrano presentare le medesime caratteristiche: il paziente che claudica
in maniera stabile a 100-150 mt ha una prognosi ed una
aspettativa di vita migliore di chi claudica dopo 20-30 mt.
Successivamente con le modifiche apportate da
Rutherford la classificazione ha previsto l’introduzione di
sottogruppi o categorie distinguendo i pazienti che presentavano una claudicatio lieve (IML > 250 mt), moderata
(IML tra 250-150 mt) e severa (<150 mt).
Per tale motivazione, con l’introduzione in clinica del termine ischemia critica si è cominciato a considerare la posVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
UOC di Angiologia Medica,
Azienda Ospedaliero-Universitaria,
Policlinico-Vittorio Emanuele, Catania
sibilità di escludere quei pazienti che presentavano la
caratteristiche cliniche della malattia stabile da sforzo da
quelli che invece presentavano quadri evolutivi della
malattia con evoluzione verso stadi più gravi dell’AOCP.
Ai fini prognostici è pertanto utile distinguere tra i pazienti
con ischemia severa degli arti inferiori due gruppi a basso
e ad alto rischio. I criteri di selezione devono essere valutati dopo una corretta e precoce diagnosi della malattia.
Le linee guida elaborate in questi anni dalle Società
Scientifiche o gruppi di studio hanno cercato di tracciare
in maniera più precisa possibile i diversi step da raggiungere per effettuare una corretta diagnosi, segnalando
numerose raccomandazioni allo scopo di unificare le
metodiche di approccio diagnostico al malato vascolare
(SIAPAV, SICVE; GIUV; TASC).
Lo scopo finale di tale approccio è quello di localizzare le
lesioni responsabili, stimandone la severità, stabilire la
richiesta emodinamica in previsione di un intervento di
rivascolarizzazione, valutare il rischio operatorio per il
paziente, valutare i fattori di rischio per l’aterosclerosi e
valutare l’aterosclerosi in altri distretti.
In questo contesto ampia importanza viene data al rapporto bidirezionale tra medici di medicina generale e
medici specialisti vascolari: i primi hanno il compito di
effettuare la valutazione clinica generale iniziale, educare
il paziente alla correzione dei fattori di rischio e alla terapia medica di fondo, individuare i casi da avviare allo
specialista vascolare, effettuare il follow-up a distanza; i
secondi hanno il compito di effettuare una diagnosi specifica, impostare una terapia specialistica, gestire i casi
complessi, effettuare il follow-up clinico-strumentale.
Ambedue le figure professionali interagiscono tra loro
allo scopo di gestire al meglio i diversi momenti clinici
attraversati dai pazienti.
Vengono univocamente ritenute prioritarie in tal senso la
valutazione dell’ABI, l’ecocolor-Doppler degli arti inferiori
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DI SALVO
MANAGEMENT DELLA CLAUDICATIO MODERATA-SEVERA: OBIETTIVI E STRATEGIE TERAPEUTICHE
Tabella I.
Variabili angiografiche cliniche e strumentali, da valutare in pazienti
con AOCP da sottoporre a rivascolarizzazione:
Variabili Favorevoli
• stenosi o ostruzioni isolati aorto-iliaci, iliaci, femoro poplitei, sia
sopra che sottoarticolari,
• arterie di buona qualità anatomo-chirurgica in sede di riabitazione
Variabili Sfavorevoli con relativa possibilità di successo
• lesioni steno-ostruttive molto estese con discreta riabitazione
sino al 1/3 inferiore di gamba
• arcate plantari pervie
Indici predittivi sfavorevoli
– tcpO2 inferiore a 10-20 mmHg
– insufficiente incremento della tcpO2 nel passaggio alla posizione ortostatica e/o marcato allungamento del t/2
– elevati valori di tcpCO2
– aumentato livello di fibrinogeno
– aumentata viscosità ematica
– aumentato indice di rigidità eritrocitario
– aumentata viscosità plasmatici
– aumentata aggregazione eritrocitaria
Variabili Molto sfavorevoli
• lesioni steno-ostruttive molto estese senza riabitazione di un’arteria di gamba
• arcate plantari poco irrorate
(esteso anche ai tronchi sopraortici e all’aorta addominale), il test del cammino o sul tapis roulant, l’ossimetria
transcutanea (solo nella claudicatio severa) e la valutazione cardiologica (LLGG SIAPAV 2011).
Pertanto, una prima distinzione dei pazienti appartenenti
al II stadio B potrebbe essere fatta in merito all’entità
della claudicatio (150 o 20-30 mt) e sui dati strumentali
(PO 2 30-40 mmhg o <30 mmhg e CO 2 40-50 e > 50
mmhg), osservando quindi, due gruppi rispettivamente a
basso ed alto rischio clinico, con diversa evoluzione clinico-prognostica.
Altro versante ancora in piena discussione è rappresentato dalla scelta terapeutica: come trattare i pazienti con
claudicatio moderata-severa? terapia medica, chirurgica,
endoinvasiva e/o in associazione?
Il management complessivo dovrebbe essere sempre
preso in considerazione ponendo come obiettivi principali il rallentamento della progressione della malattia, la
prevenzione degli eventi cardiovascolari maggiori fatali e
non fatali, il miglioramento della capacità di marcia.
Sono pertanto ritenuti provvedimenti fondamentali l’adozione di un corretto stile di vita (abolizione del fumo di
sigaretta, dieta equilibrata, regolare attività fisica), una
terapia farmacologica basata sull’utilizzo di antipastrinici e
statine da associare ad altri farmaci che migliorano la
capacità deambulatoria (pentossifillina, naftidrofuril, il
cilostazolo, la L-propionil carnitina).
In generale la rivascolarizzazione chirurgica è preferita se
la claudicatio è invalidante per il paziente e se esistano le
condizioni anatomiche favorevoli. Se c’è un rischio simile
tra la procedura di rivascolarizzazione per via per cutanea
o per via chirurgica è da preferire la prima in quanto il
paziente è meno esposto a stress, anestesia e minori complicanze generali.
Inoltre la scelta su quale tipo di rivascolarizzazione sia
più appropriata in tali pazienti dovrebbe derivare da una
decisione multidisciplinare che coinvolga il chirurgo
vascolare, l’angiologo, il radiologo interventista puntando
soprattutto sulla valutazione della morfologia della lesio62
ne, il rischio chirurgico, le procedure interventistiche pregresse, l’aspettativa di vita del paziente, l’esperienza nelle
procedure, le variabili favorevoli e quelle sfavorevoli e gli
indici predittivi (Tab. 1).
Il follow-up di questi pazienti deve essere effettuato ogni
sei mesi ed in caso di evoluzione della patologia con
peggioramento della claudicatio o comparsa del dolore a
riposo la valutazione specialistica si impone entro pochi
giorni.
Sulle procedure interventistiche si dovranno fare le
seguenti considerazioni:
“La PTA (angioplastica percutanea) dovrebbe essere eseguita nei pazienti che per la sintomatologia sono candidati ad un intervento chirurgico, ma che per le condizioni
anatomo-patologiche, per la sede e per le caratteristiche
della lesione, sono suscettibili di un trattamento percutaneo”.
La PTA viene eseguita con controllo angiografico o con
ultrasonografia endovascolare; rari autori la eseguono
sotto controllo ecodoppler. L’esecuzione dell’angioplastica deve essere eseguita dal chirurgo vascolare o dall’angioradiologo nei Centri dotati di una Unità Operativa di
Chirurgia Vascolare, con la possibilità di uno stand-by
chirurgico e con una valutazione collegiale del paziente”.
“La terapia chirurgica è indicata in tutte le ischemie critiche, nelle arteriopatie invalidanti al 2° stadio e nelle
ostruzioni aortiche in cui sia ipotizzabile una evoluzione
trombotica ascendente o una ischemia pelvica”.
Il trattamento farmacologico sembra essere indicato,
secondo i criteri TASC, utilizzando farmaci ad elevato
potere microcircolatorio disaggregante e vasodilatante
come i prostanoidi (iloprost) in quei pazienti che hanno
una periferia vitale in cui le procedure di rivascolarazzazione sono impossibili, o hanno una scarsa probabilità di
successo o sono precedentemente falliti e in particolare
quando l’alternativa è l’amputazione (Racc. 85-TASC
2000).
A tali indicazioni ormai datate, sarebbe opportuno
aggiungerne altre come per esempio la mancanza di un
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MANAGEMENT DELLA CLAUDICATIO MODERATA-SEVERA: OBIETTIVI E STRATEGIE TERAPEUTICHE
“run off”, il rifiuto del paziente di sottoporsi ad altre tecniche, condizioni generali del paziente che non permettano altre tecniche, gravità delle lesioni e/o arto non funzionale, nelle prime fasi in attesa di procedimenti diagnostici, come supporto ed in attesa di altre tecniche terapeutiche, prima durante e dopo rivascolarizzazione o amputazione.
La procrastinabilità del trattamento chirurgico può essere
l’occasione per una scelta strategica dell’utilizzo dei prostanoidi che, grazie alla loro capacità di migliorare il run
off, possono essere impiegati nel pre e post operatorio. I
prostanoidi hanno dimostrato di possedere benefici effetti
sulla maggior parte dei componenti della microcircolazione, impedendo l’attivazione delle piastrine, l’attivazione
dei leucociti, e il danneggiamento dell’endotelio vascolare, migliorando l’omeostasi microvasculo-tissutale e la
funzione endoteliale.
L’estrema variabilità dei singoli centri nelle scelte terapeutiche e nella tempistica delle procedure impone che il
paziente con claudicatio severa sia preso in carico da
strutture specialistiche ospedaliere dedicate (UOC di
Medicina Vascolare, Angiologia, Chirurgia Vascolare) in
modo da poter mettere in atto i percorsi diagnostico-terapeutici validati e più idonei a migliorare il quadro clinico
e a scongiurare un eventuale peggioramento.
Conclusioni
I pazienti affetti da claudicatio moderata-severa possono
ottenere giovamento da un trattamento intensivo globale
in cui opzione chirurgica e farmacologia possono e devono determinare un’azione sinergica nel raggiungimento di
un obiettivo terapeutico comune. Il protocollo terapeutico
combinato è in grado di migliorare non solo la performance di questi pazienti e la sintomatologia, ma anche la
prognosi. Inoltre il trattamento con iloprost, migliorando
il run off microcircolatorio migliora il terreno di accoglimento in previsione di una rivascolarizzazione chirurgica
contribuendo ad una scelta terapeutica strategica nell’ottica del raggiungimento del miglior risultato.
Infine, se consideriamo che la claudicatio non è una
situazione clinica a se stante ma spesso costituisce un
marker di patologia cardiovascolare sistemica, essendo la
patologia aterosclerotica ad alto rischio globale, il miglio-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
DI SALVO
ramento del trattamento intensivo determina una riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (IMA, Ictus,
morte).
Sarà comunque prioritario per lo specialista educare il
paziente alla cura della malattia attraverso una terapia
combinata aggressiva che punti alla modificazione dei fattori di rischio e dello stile di vita, all’abitudine all’esercizio
fisico tanto quanto al trattamento medico e/o chirurgico
del caso.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):64-5
Il training fisico nei vari stadi dell’arteriopatia
ostruttiva periferica (AOP)
M. PRIOR
Nell’impostazione del trattamento dell’arteriopatia ostruttiva periferica (AOP) va sempre considerato che, anche
negli stadi iniziali, essa è una patologia solo apparentemente ad evoluzione benigna ma in realtà gravata da una
prognosi particolarmente sfavorevole sia per la sopravvivenza dell’individuo sia per la sua autonomia nelle attività quotidiane. Pertanto, il programma di intervento
dovrebbe essere di tipo integrato e multifattoriale, finalizzato cioè sia a rallentare la progressione della malattia e a
ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari, sia a salvaguardare il più possibile le capacità funzionali e la qualità
di vita del paziente. Il training fisico può rappresentare in
tale contesto un efficace presidio, in grado di incrementare l’autonomia di marcia negli stadi iniziali, di favorire il
recupero funzionale negli stadi avanzati e di contribuire
comunque ad un miglioramento della qualità di vita, consentendo inoltre una favorevole modificazione del profilo di rischio cardiovascolare del paziente.
Stadi iniziali
Nella gestione della AOP negli stadi iniziali, il training
fisico rappresenta il cardine del trattamento, purché sia
condotto in modo controllato e nell’ambito di protocolli
specifici, e può determinare incrementi della marcia libera da claudicatio sino al 200% nonché significativi miglioramenti della qualità di vita del paziente. Le principali
linee guida, infatti, affermano che un programma di esercizio fisico (preferibilmente controllato) debba essere
sempre considerato nel trattamento iniziale del paziente
con claudicatio intermittens 1. Esso sembra agire attraverso diversi meccanismi quali l’incremento della rete capillare muscolare e il miglioramento del flusso ematico (o
quantomeno da una sua ridistribuzione), verosimilmente
mediati da un aumento del rilascio o dell’utilizzazione
dell’ossido nitrico. Il training fisico inoltre determina
modificazioni favorevoli dei parametri emoreologici ed
emodinamici, nonché del metabolismo cellulare e, probabilmente, una riduzione della progressione dei fenomeni aterosclerotici. È stata anche descritta una riduzione
della percezione del dolore indotta dall’attività fisica,
verosimilmente mediata da un incremento del rilascio di
endorfine 2.
64
U.O.C. di Riabilitazione Vascolare,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Diversi sono i tipi di training proposti, dalla marcia libera
o su treadmill, all’utilizzo di cyclette o di simulatori di
scalini, associati o meno a esercizi a corpo libero o di
potenziamento muscolare. Per quanto riguarda invece
l’intensità dell’esercizio, i carichi di lavoro sono studiati
per migliorare da un lato le capacità di utilizzo dell’ossigeno, dall’altro per sfruttare i meccanismi di precondizionamento ischemico. Alcuni studi hanno proposto allenamenti su treadmill con esercizi ripetuti, protratti fino al
raggiungimento del massimo dolore sopportabile, intervallati da pause di riposo fino a completa scomparsa del
dolore 3. Tali protocolli, a fronte di una non facilmente
dimostrabile miglior efficacia, possono essere gravati dall’instaurarsi di eccessiva attivazione di processi infiammatori e rilascio di citochine, con produzione di radicali
liberi, danno da ischemia-riperfusione e progressione dell’aterosclerosi. Essi vanno pertanto impiegati con cautela
e possibilmente evitati nei pazienti con claudicatio severa
(stadio IIb di Fontaine) nei quali è verosimile che i danni
da ischemia-riperfusione siano già stati innescati dalla
patologia stessa 1,2.
Alla luce delle attuali conoscenze, si ritiene preferibile
eseguire il training su treadmill (o eventualmente su
cyclette) a carichi più moderati, cioè effettuando almeno
3 volte la settimana (preferibilmente quotidianamente)
camminate fino al 60-70% della capacità di marcia precedentemente determinata con test al treadmill, ripetute
dopo arresto per 1 minuto (o fino a scomparsa del dolore), fino ad una durata della marcia effettiva di almeno _
ora per seduta 4. La seduta è preceduta da 10 min di
riscaldamento (stretching e cyclette a carico libero) e
seguita da 5 min di recupero (stretching). A tale allenamento associamo 1/2 ora di ginnastica quotidiana, basata
su esercizi per favorire la stabilità, la propriocezione, l’articolarità, il tono e il trofismo muscolari e la meccanica
deambulatoria.
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IL TRAINING FISICO NEI VARI STADI DELL’ARTERIOPATIA OSTRUTTIVA PERIFERICA (AOP)
Prima di inserire un paziente nel programma riabilitativo
viene valutata la presenza di eventuali controindicazioni
all’esercizio fisico quali ad esempio patologie ortopediche
concomitanti che limitino le capacità deambulatorie. In tal
caso può essere considerato un allenamento su cyclette
che riduce il carico sulle articolazioni degli arti inferiori.
Un problema a parte è la frequente presenza di una cardiopatia ischemica e quindi della sicurezza dell’esercizio
fisico in tale condizione. Va a tal riguardo sottolineato che
l’allenamento aerobico non solo non è controindicato
nella cardiopatia ischemica, ma fa parte di tutti i programmi riabilitativi per pazienti post-infarto miocardico.
te in palestra per l’allenamento dei vari gruppi muscolari
in posizione sia supina che seduta, e viene iniziato un
training aerobico su cyclette per intervalli di tempo inizialmente brevi (15 min), poi più prolungati (30 min) con
carichi di lavoro ridotti e sotto controllo medico. Viene
inoltre favorita la ripresa della deambulazione con protezione della sede lesionata eventualmente anche con ortesi da scarico, specie in caso di piede diabetico. Talora
risulta possibile effettuare l’allenamento aerobico anche
su treadmill per acquisire una maggior autonomia di marcia.
Conclusioni
Stadi avanzati
Nell’affrontare il trattamento del paziente con arteriopatia
periferica in stadio avanzato, devono essere prese in considerazioni tutte le opzioni terapeutiche, in particolare,
quando possibile, gli interventi di rivascolarizzazione.
Anche negli stadi avanzati, tuttavia, l’associare il training
fisico agli altri provvedimenti terapeutici può favorire il
recupero delle capacità funzionali e il miglioramento
della qualità della vita del paziente.
In tale contesto è particolarmente importante che il programma di attività fisica venga determinato in base delle
condizioni cardiocircolatorie generali e del quadro ischemico locale. Inoltre, affinché il programma riabilitativo
possa essere eseguito efficacemente è fondamentale riuscire ad ottenere un adeguato controllo del dolore a riposo, in modo da evitare che il paziente mantenga l’arto in
posizione antalgica declive, posizione che provoca comparsa di edema e conseguente peggiore circolazione nella
zona ischemica. Per i pazienti più impegnati si inizia con
esercizi di mobilizzazione passiva e attiva al letto con
l’ausilio del terapista della riabilitazione al fine di ottenere
un miglioramento del trofismo muscolare, il ripristino di
una corretta mobilità articolare, una riduzione dell’edema
interstiziale e un incremento del flusso a livello microcircolatorio. Tale attività, eseguita talora anche con appositi
presidi meccanici, consente talora di ottenere un discreto
effetto antalgico, verosimilmente determinando allungamento e rilassamento della fibra muscolare 2. Con la
mobilizzazione, inoltre, è possibile recuperare l’articolarità dell’arto che, causa il dolore, assume posture viziate,
oltre a ridurre o rallentare il deterioramento della validità
muscolare determinato dalla inattività del paziente 6.
Nei pazienti in condizioni meno compromesse, o in fasi
successive non appena possibile, vengono eseguite sedu-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
PRIOR
Il training fisico rappresenta un provvedimento fondamentale per i pazienti con arteriopatia periferica negli
stadi iniziali essendo in grado da un lato di incrementare
l’autonomia di marcia, dall’altro di migliorare la qualità
della vita. A tal fine può essere utile associare al training
deambulatorio esercizi individualizzati rivolti al miglioramento dell’articolarità e della propriocezione che favoriscano il raggiungimento di una ottimale meccanica della
marcia, in considerazione del fatto che tali pazienti sono
spesso anziani e maggiormente compromessi anche dalla
presenza di altre comorbidità.
Negli stadi più avanzati, un approccio che preveda anche
l’impiego di programmi di training fisico individualizzati
può essere considerato per conservare o facilitare il recupero delle capacità funzionali e della qualità della vita
del paziente.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):66-8
Gli interventi di rivascolarizzazione nella AOP
B. GOSSETTI, F. FACCENNA, A. LAURITO, J. JABBOUR, A. ALUNNO, A. CASTIGLIONE, M.M.G. FELLI,
A. MALAJ, D. STAVRI
Gli interventi di rivascolarizzazione degli arti inferiori nei
pazienti con AOP dovrebbero trovare una loro corretta
indicazione sulla base del quadro clinico del paziente
stesso e sulle caratteristiche delle lesioni ostruttive (lesioni singole o multiple; sede, entità ed estensione della
lesione; presenza ed efficacia dei circoli collaterali).
Attualmente si hanno a disposizione indagini strumentali
estremamente attendibili per inquadrare tali lesioni sia dal
punto di vista morfologico (angioTC, angioRM o angiografia), che funzionale (ultrasuoni e TpCO2).
Dal punto di vista clinico, secondo le classificazioni di
Fontaine o di Rutherford, un intervento di rivascolarizzazione dovrebbe essere riservato a tutti i pazienti con
ischemia critica degli arti ed ai claudicanti con stretta
autonomia funzionale di marcia (>100 metri, con tempo
di recupero superiore ai 2 minuti) 1-2. Assai discutibile è
l’indicazione, posta da alcuni, nei claudicanti con autonomia di marcia non adeguata alle loro aspettative, soprattutto senza un preventivo ed adeguato trattamento fisioterapico e farmacologico.
Per quanto attiene le rivascolarizzazioni del distretto aortoiliaco, i bypass aorto-iliaci o aorto-femorali, un tempo
estremamente utilizzati, trovano indicazioni estremamente
limitate per lesioni ostruttive estese e bilaterali delle arterie
iliache, associate a lesioni aortiche fortemente ed estesamente calcifiche o con trombosi parietali diffuse (shaggy
aorta) 3. Anche i bypass extra-anatomici trovano un loro
residuo impiego solo in associazione con procedure endovascolari 4. In questi distretti la rivascolarizzazione endovascolare prevede l’uso in prima istanza di stent (ricoperti o
a celle chiuse) a ricoprire tutti i tratti ricanalizzati e l’uso
eventuale di una trombolisi loco regionale.
Anche per le procedure sottoinguinali, la scelta fra procedure endovascolari e chirurgia “open” deve privilegiare in
prima istanza il trattamento endovascolare, soprattutto se
si tratta di stenosi, lesioni isolate e brevi, e non coinvolgenti vasi in corrispondenza di sedi articolari. Il trattamento endovascolare eseguito da un operatore esperto
consente un minore stress sistemico e complicanze generali del paziente, evita incisioni cutanee e complicanze di
guarigione delle ferite chirurgiche in gambe ischemiche,
comporta un ricovero breve ed una ripresa rapida della
66
Cattedra di Chirurgia Vascolare,
“Università di Sapienza”, Roma
UOC di Chirurgia Vascolare A,
Policlinico Umberto I di Roma
deambulazione, consente un eventuale reintervento
endovascolare. Deve, però, essere sempre portato a termine in pazienti con condizioni anatomiche favorevoli,
senza compromettere l’integrità del letto arterioso residuo, allo scopo di non ridurre il circolo collaterale preesistente e di preservare il letto arterioso a monte ed a valle
delle lesioni trattate, consentendo così il ricorso ad un
successivo intervento di chirurgia “open”, nei casi di
insuccesso endovascolare.
Nell’ambito del trattamento endovascolare, possono essere utilizzati palloni semplici o medicati 5; stent metallici
“nudi” o ricoperti 6, a rilascio di farmaci o biodegradabili 7;
sistemi di ricanalizzazione meccanici (aterotomi) 8 o laser
assistiti; crioplastiche e brachiterapia 9. L’uso di uno stenting “primario” (utilizzo dello stent indipendentemente
dall’ angioplastica con pallone) è da preferirsi per procedure su vasi al di sopra del legamento inguinale, mentre,
a tutt’oggi, si preferisce la sola dilatazione con pallone
nei vasi al di sotto del legamento inguinale, aggiungendo
il posizionamento di uno stent, semplice o ricoperto, solo
in quei casi in cui la ricanalizzazione del vaso trattato
presenti stenosi residue rilevanti o dissecazioni parietali.
In caso di lesioni isolate, è opportuno ancor oggi attenersi alle linee guida della TASC II, divise per sede aorto-iliaca, femoro-poplitea sopragenicolata, e sottopoplitea 10.
Per quanto attiene la chirurgia “open”, la vena safena
autologa risulta il materiale di scelta per tutti i by-pass
con anastomosi distali al di sotto della rima articolare del
ginocchio, per le sue elevate percentuali di pervietà a
distanza e la ridotta incidenza di infezioni 11. L’impossibilità di utilizzare tale materiale (valutabile mediamente
attorno al 40-50% dei casi) comporta al ricorso di materiali biologici o sintetici alternativi (primo fra tutti il politetrafluortilene espanso - ePTFE) 12, usati singolarmente o
in bypass “compositi” 13, ma con risultati di pervietà
meno soddisfacenti, soprattutto a distanza.
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GLI INTERVENTI DI RIVASCOLARIZZAZIONE NELLA AOP
GOSSETTI
soprattutto se le lesioni sono in sedi non contigue e con
estensione diversa, se il patrimonio venoso autologo è
assente o inadeguato a bypassare l’intera lunghezza delle
lesioni e se il paziente presenta estese lesioni trofiche 14.
In questi casi si cerca di ottenere un contemporaneo
incremento del flusso ematico prossimale ed un ampliamento del letto arterioso a valle (Fig. 1).
Il ricorso a ricanalizzazioni endovascolari ed a by-pass di
lunghezza contenuta, effettuati prossimalmente o distalmente all’angioplastica e/o all’impianto di stent, è reso
possibile dal fatto che oggi esistono specialisti vascolari
in grado di effettuare in sale operatorie attrezzate (angiosuite) entrambe le procedure, ricorrendo ad una sola via
di accesso chirurgica, e minimizzando così tempi di ospedalizzazione e costi, ed ottenendo un più rapido recupero delle capacità deambulatorie del paziente.
Interventi di denervazione simpatica (gangliectomie e/o
simpaticectomie) non sono più considerati validamente
attendibili fra le procedure chirurgiche atte al recupero
della vitalità di un arto, in cui una procedura di rivascolarizzazione diretta non sia più possibile 15. La profundoplastica (chirurgica o endovascolare) è un intervento
che attualmente trova una sua esclusiva utilizzazione nei
casi di ostruzione di tutta l’arteria femorale superficiale,
con presenza di ricco circolo collaterale a partenza di
un’arteria femorale profonda, gravemente stenotica nel
suo tratto iniziale16. Il trattamento farmacologico intraoperatorio prevede l’uso per via endovenosa dell’eparina,
che, nel corso delle procedure endovascolari, è preceduto anche da un carico di farmaci antiaggreganti. La
terapia antiaggregante piastrinica andrebbe effettuata,
comunque, nell’immediato periodo postoperatorio e
protratta, se non vi sono controindicazioni, a tempo
indeterminato. Per interventi ibridi e dopo by-pass periferici può essere effettuata anche una terapia con eparina a basso peso molecolare, anche se l’impiego a lungo
termine non sembra influenzare in maniera significativa
i risultati a distanza 17.
Bibliografia
Figura 1. – Controllo angioRM di un intervento ibrido (bypass
femoro-popliteo + PTA dell’arteria tibiale anteriore sn).
Per lesioni a più livelli dell’albero arterioso va prendendo
sempre più piede il ricorso a trattamenti “ibridi” (endovascolari e chirurgici in corso della stessa procedura),
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GOSSETTI
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La misura di ABI in Medicina Generale:
risultati di un’esperienza sul campo
D. ALESSO
L’arteriopatia obliterante periferica degli arti inferiori
(PAD) è una sindrome aterosclerotica spesso asintomatica
e poco diagnosticata, ma associata ad elevato rischio cardiovascolare. La presenza di PAD, diagnosticata tramite la
misurazione dell’Ankle-Brachial Index (ABI), in individui
indenni da patologie cardiovascolari (CVD), è associata
ad un rischio di Infarto Miocardico, Ictus ischemico, e
morte per cause vascolari del 30% a 5 anni. La maggioranza degli individui con PAD agli arti inferiori non presenta sintomi riconoscibili di ischemia agli arti e la malattia è quindi considerata “asintomatica”. Tuttavia la loro
prognosi non è favorevole poiché in gran parte di essi è
presente un’aterosclerosi sistemica ed il loro profilo di
rischio cardiovascolare è comparabile a quello dei
pazienti con PAD sintomatica o coronaropatia. La misurazione ambulatoriale dell’ABI è lo strumento con il miglior
rapporto costo- efficacia per la diagnosi di PAD e può
fornire importanti dati sia per stima della prevalenza della
patologia sia per il monitoraggio dell‘efficacia degli interventi terapeutici. È uno strumento tuttavia poco utilizzato
in medicina generale. Inoltre sono disponibili pochi studi
sulla prevalenza di valori di ABI<0,90 in pazienti con
moderato RCV.
Alessandria
stati arruolati 10.287 soggetti totali, in Italia lo studio è
stato condotto nell’ambito di 30 A.S.L., nel territorio di 13
Regioni, con la partecipazione di 289 Medici di Medicina
Generale, appartenenti a METIS-FIMMG, preliminarmente
formati, che hanno arruolato allo studio 5.298 soggetti, di
cui 5112 valutabili, 51% di sesso maschile e 49% di sesso
femminile. Non vi erano differenza significative riguardo
le caratteristiche cliniche e demografiche, lo stato civile e
le abitudini di vita e voluttuarie dei soggetti ammessi allo
studio.
Numerosità del campione e analisi statistica
Lo Studio PANDORA (Prevalence of peripheral Arterial
disease in subjects with a moderate CVD risk , with No
overt vascular Disease nOR diAbete mellitus) si proponeva di valutare la prevalenza di PAD attraverso la misurazione dell’ABI in soggetti a rischio cardiovascolare moderato (presenza di almeno due fattori di rischio CVD,
secondo le linee guida NCEP ATP III, senza patologie
cardiovascolari conclamate, nè diabete mellito). Obiettivi
secondari: prevalenza e trattamento dei fattori di rischio
cardiovascolari, analisi delle caratteristiche dei pazienti e
dei medici, quali possibili determinanti per la diagnosi
sottostimata di PAD.
Basandosi su una frequenza attesa del 15% di ABI patologica nella popolazione selezionata, un campione minimo di 8.454 soggetti valutabili era sufficiente per raggiungere gli obiettivi dello studio e quindi fu pianificata
una popolazione totale di 9.000 soggetti. I gruppi sono
stati comparati usando il test “chi quadro” . Per esaminare la correlazione tra ABI anormale e stili di vita o fattori di RCV, sono stati calcolati OR (Odds ratio) e 95%
CI (intervallo di confidenza) di frequenza di fattori di
rischio e abitudini di vita in soggetti con ABI ≤0.90 e
ABI>0.90 e le differenze tra i gruppi sono state testate
con il Cochran-Mantel-Haenszel test. La correlazione tra
la presenza di PAD e le caratteristiche dei pazienti e 3
dei medici partecipanti sono state valutate attraverso la
regressione logistica multivariata con selezione retrograde delle covarianti, con il calcolo dell’OR e del 95% CI.
Una valutazione di p<0,05 è stata considerate statisticamente significativa.
Materiali e metodi
Risultati
Il progetto PANDORA è uno studio osservazionale, multicentrico, internazionale realizzato in 594 centri in 6 Paesi
(Italia, Belgio, Francia, Grecia, Olanda e Svizzera). Sono
I risultati dello Studio nella popolazione italiana evidenziano che il 22,9% dei soggetti asintomatici, ammessi allo
studio, ha una arteriopatia obliterante cronica in fase pre-
Obiettivi
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
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ALESSO
LA MISURA DI ABI IN MEDICINA GENERALE: RISULTATI DI UN’ESPERIENZA SUL CAMPO
clinica ed è a rischio per un evento cardiovascolare o
cerebrovascolare maggiore (Ictus,IMA). L’età, la familiarità
per Malattia cardiovascolare precoce, il fumo di tabacco,
l’ipertensione arteriosa, bassi livelli sierici di HDL, il consumo di alcool sono significativamente associati all’insorgenza della PAD.
Pertanto lo studio mette in risalto una popolazione di
individui, totalmente asintomatici, a rischio concreto di
sviluppare una PAD negli anni successivi, che, se opportunamente monitorati e curati, potrebbero evitare le maggiori complicanze della PAD. Lo studio dimostra inoltre
come un metodo clinico non invasivo e facilmente ripetibile, gestito dal Medico di Medicina Generale, come la
misurazione dell’ABI, consenta di individuare e monitorare una popolazione a rischio CV elevato, evitando le
complicazioni e i costi relativi alle loro cure.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):71-3
Clinica delle trombosi venose superficiali (TVS)
e presentazione di un modello di percorso
diagnostico-terapeutico (PDT) per le TVS
G. MILIO1, D. LA ROSA1, e gruppo di lavoro per il PDT-TVS2
La Trombosi Venosa Superficiale (TVS) è una delle patologie flebologiche più frequenti (costituisce il 15% di tutte
le patologie ostruttive venose acute), ma nello stesso
tempo rappresenta un’entità nosologica spesso trascurata
o scarsamente considerata. Il termine ha ormai sostituito
quello di tromboflebite superficiale, utilizzato storicamente per indicare uno stato morboso a carico delle vene del
sistema superficiale, specie degli arti inferiori, in cui si
manifestano i segni ed i sintomi di una “condizione
infiammatoria” e di uno “stato trombotico” all’interno
della vena. Infatti, le migliori conoscenze dei meccanismi
che controllano la trombogenesi, la permeabilità e la funzione endoteliale hanno ridimensionato il criterio classificativo fisiopatologico, privilegiando quello basato sulla
localizzazione del processo occlusivo, che vede da una
parte le trombosi venose superficiali (TVS) e dall’altra le
trombosi venose profonde (TVP).
Inquadramento clinico e classificazione
Per anni le TVS sono state considerate forme patologiche
di scarsa rilevanza clinica, ancorché di elevata frequenza,
a rapida evoluzione e prognosi favorevole; tale orientamento riguardava soprattutto le varicoflebiti, mentre maggiore importanza veniva attribuita alle TVS su vena sana,
poiché in alcuni casi potevano indurre al sospetto di una
neoplasia (tromboflebiti paraneoplastiche) o essere “rivelatrici” di altre patologie. Come è noto, infatti, le TVS su
vena sana, che rappresentano un quarto di tutte le TVS,
sono il gruppo più eterogeneo, come dimostra la classificazione clinico-patogenetica (Tabella I) che distingue le
TVS da anomalie della bilancia coagulativa e fibrinolitica
e/o correlate a trombofilie congenite (TVS gravidiche, da
contraccettivi, paraneoplastiche) e in TVS da anomalie
strutturali e microstrutturali dell’endotelio (Buerger,
Beçhet, Mondor). L’elemento che tutte le accomuna, differenziandole dalle varicoflebiti, è la normalità del quadro
emodinamico e la prevalenza in senso etiopatogenetico
delle alterazioni emocoagulative e di quelle strutturali. Un
terzo gruppo di TVS, che possono impiantarsi su vena
sana o su vena varicosa, sono quelle da causa esogena
(post-traumatiche, da ustioni, iatrogene, settiche). Nel
complesso, comunque, tutte le TVS erano ritenute del
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1Dipartimento Biomedico di Medicina Interna
e Specialistica (Di.Bi.M.I.S.), U.O. di Medicina Vascolare,
Università degli Studi di Palermo
2I componenti del Gruppo sono riportati alla fine del
documento, consultabile sul sito www.siapav.it
tutto benigne e ben distinte in tal senso dalle TVP, essendo tale distinzione supportata non solo dall’osservazione
clinica ed istologica e dal quadro emodinamico, ma
anche dalla diversa prognosi e dal diverso approccio terapeutico.
In realtà, la TVS presenta una rilevanza clinica che eccede
spesso la semplice localizzazione, tanto da dover essere
considerata in molti casi come una TVP. Una puntuale
valutazione del ruolo della TVS comporta infatti un
approfondimento dei vari aspetti, constatando come, a
fronte di un’apparente banalità e/o benignità, si individuino problematiche prognostiche talora abbastanza complesse.
La diagnosi di Trombosi Venosa Superficiale è generalmente stabilita sulla base dei segni clinici (rubor, calor,
tumor, dolor) lungo il decorso anatomico delle vene
superficiali e/o dalla presenza di un cordone sottocutaneo palpabile, duro, caldo e dolente. Tuttavia l’impiego
dell’eco-color-Doppler è fortemente raccomandato, data
la possibile estensione prossimale ed il possibile coinvolgimento delle vene profonde, ed anche in considerazione
della opportunità di definire le caratteristiche della malattia in rapporto alle condizioni della vena interessata, localizzazione e patogenesi.
Proposta di modello di percorso diagnostico
e terapeutico per la TVS
Partendo da tali considerazioni e dalla necessità di un
approccio clinico-diagnostico e terapeutico differenziato
per le varie forme di TVS, il Consiglio Direttivo Nazionale
della SIAPAV in carica ha stabilito di elaborare un documento, denominato Modello di Percorso Diagnostico e
Terapeutico per la Trombosi Venosa Superficiale, che si
propone di fornire ai Medici di Medicina Generale
(MMG) e agli Specialisti Vascolari (SV) un indirizzo comu-
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MILIO
CLINICA DELLE TROMBOSI VENOSE SUPERFICIALI (TVS) E PRESENTAZIONE DI UN MODELLO DI PERCORSO...
Tabella I. – Classificazione clinica delle TVS.
ne finalizzato a realizzare un trattamento medico di qualità nei pazienti con TVS, in ottemperanza agli standard
segnalati da Linee Guida (LLGG) nazionali ed internazionali.
Nel redigere il documento, il Gruppo di Lavoro (GdL) ha
seguito le direttive nazionali ed internazionali per la definizione di un PDT, nell’auspicio che esso possa rappresentare il riferimento per la redazione di specifici documenti locali, al fine di offrire strategie e tattiche assistenziali comuni ed equivalenti su tutto il territorio nazionale.
La metodologia seguita ha in primo luogo verificato la
priorità delle TVS in relazione all’esigenza di definire un
PDT ad hoc. Successivamente sono stati definiti i criteri
per l’identificazione del GdL, delle LLGG di riferimento
con relativa valutazione di qualità, della banca dati di
riferimento per la ricerca degli aggiornamenti, della inte72
grazione e contestualizzazione dei contenuti, ponendo
altresì attenzione all’aggiornamento, alla diffusione ed
implementazione e, infine, alla valutazione dell’impatto.
Le priorità della TVS, al fine di redigere un Modello di
PDT ad hoc, sono state valutate secondo criteri oggettivi
di prevalenza (3-11%), urgenza (estensione ed embolizzazione 0-33%), gravità (TVP contigua e/o concomitante 636%) e possibilità di intervento (framacologico, fisico, chirurgico). La strategia di trattamento di questi pazienti è in
molti casi analoga a quella prevista per tutte le forme di
TEV ma deve tener conto di 3 elementi: condizioni della
vena interessata (sana o varicosa), localizzazione della
trombosi (coinvolgimento della grande safena fino a 2-3
centimetri dalla confluenza o meno), presenza di fattori
di rischio circostanziali, concausali e stati trombofilici.
Il Consiglio Direttivo in carica nel 2011 e il Direttore del-
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CLINICA DELLE TROMBOSI VENOSE SUPERFICIALI (TVS) E PRESENTAZIONE DI UN MODELLO DI PERCORSO...
l’Ufficio Ricerche della SIAPAV sono il gruppo promotore,
ed hanno provveduto a redigere la prima bozza del
Modello di Percorso Diagnostico e Terapeutico per la TVS,
alla cui stesura finale hanno partecipato, fra gli altri, i referenti della Società Italiana di Diagnostica Vascolare (SIDV),
di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare (SICVE), per lo
Studio dell’Emostasi e Trombosi (SISET), e delle due principali Società di Medicina Generale (FIMMG e SIMG)
Le Linee Guida identificate come riferimento iniziale per
la redazione del documento sono quelle dell’ ACCP, del
CIF, della SIAPAV, SISET, SIDV-GIUV, dell’AAFP, dell’ICSI
ed altre riportate nel documento. Poichè esse adottano
differenti criteri per indicare il peso delle evidenze e la
forza delle raccomandazioni, è stata operata una sintesi,
per cui la gradazione indicata accanto ai principali suggerimenti decisionali è la seguente: GRADO A: suggerimento supportato da studi clinici controllati e randomizzati,
coinvolgenti un ampio numero di pazienti; GRADO B:
suggerimento che deriva da un numero limitato di studi,
condotti su campioni relativamente ridotti, o da corrette
metanalisi di studi non randomizzati o da registri osservazionali; GRADO C: suggerimento basato su documenti di
consenso tra esperti.
La banca dati prescelta per la ricerca degli aggiornamenti
rispetto alle Linee Guida citate è stata Medline Pub-Med.
Il processo di integrazione e contestualizzazione dei contenuti delle LLGG all’interno del PDT ha tenuto conto
dell’attuale organizzazione assistenziale italiana e anche
dei progetti di rimodulazione indicati dalle autorità regolatorie.
Il MMG e lo SV sono i principali riferimenti perché il
paziente con TVS riceva un trattamento medico di qualità
(best medical treatment). Il loro rapporto collaborativo, la
loro integrazione e condivisione rafforzerà, in ultimo, il
patto a favore del malato, consentendo l’attuazione delle
migliori pratiche nei confronti di esso.
Il gruppo di lavoro prevede un aggiornamento del PDT-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
MILIO
TVS almeno triennale, in linea con la durata in carica del
Consiglio Direttivo della Società. L’aggiornamento sarà
realizzato secondo le direttive del Consiglio Direttivo in
carica.
La diffusione del PDT-TVS avverrà mediante pubblicazione nei siti web della SIAPAV e delle Società Partecipanti.
Infine, l’Ufficio Ricerche della SIAPAV elaborerà degli
indicatori misurabili e monitorabili per valutare l’impatto
del Modello di PDT-TVS nella pratica clinica italiana.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):74-5
La TVS sentinella: programma di screening
in Medicina Generale
R. LAURORA
La proposta di uno screening in Medicina Generale sulle
flebiti di vena sana (dette “sentinella”) è assolutamente
innovativa e prevede una valutazione multidisciplinare
per poter essere considerata nella sua fattibilità.
Materiali e metodi
L’incidenza della TVS è poco nota, perché finora il ruolo
di questa patologia è stato trascurato e sottovalutato. Si
stima che la sua prevalenza sia nel sesso maschile come
nel femminile sia almeno il doppio rispetto alla TVP e
l’incidenza sia >1 caso per 1000 persone/anno ma la difficoltà a fare uno studio epidemiologico corretto e la
necessità di fare un lungo follow up dopo l’episodio di
TVS non facilitano le cose. La TVS è tradizionalmente
considerata “malattia benigna” nonostante sia riportata in
percentuali variabili ma comunque significative, a seconda dei lavori, l’associazione con TEV: è infatti riportata
l’associazione con TVP nel 6-44% dei casi, con EP asintomatica nel 20-33% e con EP sintomatica nel 2-13% con il
maggiore rischio per TEV se la trombosi è della vena
grande safena. La possibilità di portare avanti questo progetto parte dalle poche esperienze già presenti in letteratura, sia sull’opportunità di effettuare uno screening nelle
TVP sia sulla valutazione farmaco economica delle stesse;
inoltre, per avere informazioni sulle conoscenze attualmente in possesso dei MMG, è stato somministrato loro
un breve questionario, in modo che sia possibile valutare
i bisogni formativi su questo tema.
Conclusioni
Le tromboflebiti insorgenti su vena sana sono una piccola
quota delle TVS ma la possibilità, per altro non ancora
dimostrata, di poter sospettare patologie ben più gravi,
come quelle tumorali, reumatiche, da alterazione della
bilancia coagulative e fibrinolitica o alterazioni dell’endotelio “rivelate” dal loro precoce riconoscimento, porta ad
avere maggior attenzione e considerazione per tale patologia che finalmente viene riconosciuta meno “benigna”
di quanto sia finora apparsa.
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
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Fattori di rischio e TVS
S. DE MARCHI
L’incidenza della trombosi venosa superficiale (TVS) è di
125.000 casi per anno negli stati uniti, ma tale stima risulta largamente sottodimensionata per l’elevato numero di
casi non diagnosticati o non riportati. Molti studi evidenziano una maggior prevalenza nel sesso femminle e una
crscente prevalenza con l’aumento dell’età 1-5.
La causa più frequente di trombosi venosa superficiale
(TVS) agli arti inferiori è la presenza di varicosità dei segmenti venosi interessati. Le varici sono infatti presenti nel
60-70% dei casi. I restanti casi possono trovare una genesi
in condizioni patologiche che per vari motivi introducono
un rischio trombofilico, tali condizioni patologiche sono
considerate: obesità, immobilità, traumatismi, le malattie
autoimmuni, malattie di Bechet e Buerger, le neoplasie,
l’uso di catetere venoso e le forme di trombofilia congenita 2-5. Sebbene la TVS idiopatica possa svilupparsi lungo
le vene degli arti superiori o del tronco, gli arti inferiori
sono la regione decisamente più interessata; in particolare
i territori safenici e le comunicanti. L’interessamento
monolaterale è decisamente più frequente, mentre nel 510% dei casi è bilaterale o migrante. Molti dei fattori di
rischio per TVS sono gli stessi che possiamo ritrovare per
il tromboembolismo in generale.
La presentazione di TVS su vena sana e su vena varicosa
può indirizzare a diverse ipotesi patogenetiche. La TVS su
vena sana, apparentemente senza alcuna causa e particolarmente se migranti e multiple, deve far porre il sospetto
della presenza di una neoplasia sottostante (forma paraneoplastica) oppure di altra patologia non neoplastica: in
queste condizioni l’episodio tromboflebitico può precedere, talvolta di mesi, l’aperta manifestazione clinica della
malattia; in questi casi è evidente il vantaggio di inquadrare con chiarezza e tempestività la patologia di base
con trattamente più precoce della patologia.
L’obesità costituisce un fattore di rischio generale che
determina una condizione di stasi facilitante la formazione di trombosi a carico delle vene superficiali.
Anche le aterazioni ormonali e particolari condizioni possono determinare un rischio aggiuntivo di TVS: fra queste
ricordiamo la gravidanza e l’uso di contraccettivi orali.
IL traumatismo vasale è una condizione che si ritrova in
particolare durante il cateterismo venoso, in aggiunta vi
76
DAI Cardiovascolare e Toracico,
Unità Operativa Complessa di Riabilitazione Vascolare,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona
può essere un insulto chimico a livello endoteliale; tali
condizioni sono predisponenti la formazione di trombosi. Le trombosi venose superficiali su catetere presentano
facilmente evolutività e possibile complicanza infettiva.
Una forma particolare è la TVS di Mondor che si configura come trombosi a carico di vene torco-epigastriche, in
particolare nel sesso femminile si associa a neoplasie
(mammaria).
Di particolare interesse e frequenza è l’associazione con
malattie infiammatorie croniche o forme di tipo autoimmune. Le connettiviti ed il m. di Bechet costituiscono una
condizione facilitante in quanto si realizza un esteso e
cronico danno endoteliale che può innescare la formazione di trombo a livello parietale. Importante è la presenza
di anticorpi anti fosfolipidi che sostituisce un forte fattore
di rischio per trombosi sia superficiale che profonda
come per complicanze arteriose.
Anche le eventuali forme vasculitiche associate sono frequentemente complicate da TVS. Le tromboangioiti come
il m di Buerger presentano una associazione stretta con il
presentarsi di TVS per flogosi vasale sia arteriosa che
venosa 7.
La presenza di policitemia può inoltre essere causa di
TVS con una certa frequenza, in particolare se associata
ad altri fattori di rischio.
Infine, non va trascurata la ricerca di fattori trombofilici.
Uno recente studio effettuato su un campione di 112
pazienti consecutivi affetti da TVS, ha dimostrato che il
Fattore V Leiden era presente nel 14% dei pazienti con
TVS e nel 6%. Anche la Mutazione G20210A della protrombina è significativamente incrementata nella popolazione di pazienti con TVS. Altre mutazioni possono ovviamente essere riscontate, come deficit Prot.C, Prot.S, deficit
AT III, mutazione gene MTHFR; ovviamente l’associazione
di più forme aumenta la possibilità di estensione del fenomeno con coinvolgimento del circolo venoso profondo.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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FATTORI DI RISCHIO E TVS
DE MARCHI
Milio et al hanno inoltre dimostrato come nella genesi
della TVS siano importanti sia i fattori di rischio genetici
per la trombosi, ma anche il deficit degli inibitori, analogamente a quanto ormai precedentemente dimostrato per
le trombosi venose profonde. Ciò è particolarmente vero
per le TVS su vena sana insorte senza una causa apparente dimostrabile; l’alterazione della struttura venosa in se’
costituisce infatti uno stimolo alla genesi della trombosi.
Le alterazioni genetiche trombofiliche, in particolare il
Fattore V Leiden e la mutazione dell’enzima MTHFR, ma
anche i deficit degli inibitori naturali, sono causa importantissima di estensione del processo trombotico dal versante superficiale a quello profondo e ciò pare in modo
indipendente dal fatto che la TVS si sia generata su
vena sana o su vena malata.
Bibliografia
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):78-80
Nuovi anticoagulanti orali: caratteristiche
e possibile impiego nella TVS
B. COSMI, M. SARTORI
Sebbene la TVS sia considerata tradizionalmente un disordine benigno ed auto-limitantesi e sebbene la sindrome
varicosa sia il fattore predisponente più frequente, la TVS
può essere manifestazione di trombofilie congenite od
acquisite e neoplasie , specie in caso di TVS recidivanti o
migranti. Inoltre la TVS riconosce gli stessi fattori di
rischio della TVP quali età avanzata, immobilità, gravidanza, puerperio ed uso di terapia estroprogestinica.
L’Eco-Doppler venoso è indagine necessaria nella diagnosi iniziale per escludere la complicanza più temuta della
TVS di vena grande safena alla coscia o della v. piccola
safena a ovvero l’estensione in profondità con TVP e/o
embolia polmonare quando la TVS si estende alle cross
(safeno femorale per la v. safena e v. poplitea per la piccola safena) (Bounameaux 1997; Quenet 2003; Unno
2002; Verlato 1999).
Uno studio osservazionale più recente (POST: Observational Superficial Thrombophlebitis, 2010) è stato condotto per valutare la prevalenza di tromboembolismo
venoso in pazienti con TVS isolata al reclutamento e per
valutare l’incidenza di complicanze tromboemboliche nel
corso di un periodo di osservazione di tre mesi. Dei 600
pazienti idonei, senza TVP o EP all’inclusione, 58 hanno
sviluppato complicanze tromboemboliche al follow up di
tre mesi (EP 0.5%, TVP 2.8%, estensione della TVS 3.3% e
recidiva di TVS 1.9%). Fattori di rischio per le complicanze erano il sesso maschile, storia di TVP o EP, pregressa
neoplasia e assenza di vene varicose.
La variabilità delle stima delle complicanze associate alle
TVS dipende non solo dalla diversità delle popolazioni,
ma anche dal diverso follow-up della TVS e dalla completezza delle indagini impiegate per esplorare il sistema
venoso profondo e il circolo polmonare. Nonostante queste potenziali rilevanti complicanze non è stato ancora
stabilito il trattamento ottimale della TVS, specie degli
arti inferiori. Le opzioni terapeutiche finora proposte
comprendono calze elastiche, antinfiammatori, eparina ed
anticoagulanti orali. Altre possibilità sono la trombectomia locale, la legatura della cross safeno-femorale e lo
78
UO Angiologia e Malattie della Coagulazione
M. Golinelli, Dipartimento Cardio-Vascolare
Azienda Universitario-Ospedaliero S. Orsola-Malpighi,
Bologna
stripping venoso. Gli scopi del trattamento della TVS
sono oltre alla riduzione dei sintomi locali anche la prevenzione della ricorrenza e della estensione locale e la
prevenzione dell’estensione in profondità in TVP attraverso le cross o le vene perforanti.
Pochi sono gli studi clinici randomizzati condotti nel trattamento della TVS rispetto alla mole di studi condotti nel
trattamento delle TVP finora, verosimilmente per la difficoltà di definire la terapia ottimale in relazione alla diverse localizzazioni. Infatti mentre la varicoflebite di collaterali e di limitata estensione potrebbe giovarsi di un trattamento conservativo per la minor possibilità di complicarsi
in TVP, la TVS di vena safena alla coscia o di vena piccola safena alla gamba è potenzialmente a rischio di estensione in profondità e anche di embolia polmonare e dunque potrebbe richiedere un trattamento più aggressivo.
L’ eparina non frazionata, eparina a basso peso molecolare e gli anticoagulanti orali sono il trattamento di riferimento nella prevenzione e trattamento del tromboembolismo venoso. Se la TVS si avvicina a più di 3 cm alla cross
(safeno-femorale o safeno-poplitea) si ritiene che la TVS
sia praticamente diventata una TVP e pertanto meriti il
trattamento della TVP con eparina seguita da anticoagulanti orali per almeno 3 mesi. Una revisione sistematica
(peraltro di case-series) ha indicato che l’anticoagulazione
con eparina seguita da anticoagulanti orali è più efficace
del trattamento chirurgico (legatura della cross safenofemorale da sola o con stripping venoso associato o
meno a legatura delle perforanti) nella prevenzione di
TVP ed EP nella TVS di v. grande safena di coscia (Sullivan et al. 2001). Le TVS che non coinvolgono il circolo
profondo in particolare le TVS che sono a più di 3 cm
dalla cross safeno femorale o safeno poplitea sono ritenu-
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NUOVI ANTICOAGULANTI ORALI: CARATTERISTICHE E POSSIBILE IMPIEGO NELLA TVS
te a più basso rischio di complicanze quali EP e pertanto
si ritiene che esse meritino un trattamento più breve. Gli
studi clinici condotti finora per le TVS non coinvolgenti
le cross safeno-femorali o safeno-poplitee hanno utilizzato eparina non frazionata ed eparine a basso peso molecolare per periodi brevi (da 10 giorni a 4 settimane) e più
di recente è stato valutato un derivato sintetico dell’eparina a basso peso molecolare ovvero il pentasaccaride
Fondaparinux per un periodo di 6 settimane. Gli studi
copn eparina non frazionata ed eparina a basso peso
molecolare non hanno fornito risultatai significativi ciorca
al dose e la durata del trattamento.
Lo studio CALISTO (Comparison of Arixtra in Lower Limb
Superficial Vein Thrombosis with Placebo, Decousus et al,
2010) è stato lo studio internazionale più ampio condotto
finora su TVS svoltosi in 171 centri in 17 paesi. Si tratta di
uno studio randomizzato in doppio cieco su 3002 pazienti che hanno ricevuto Fondaparinux 2.5 mg/die s.c. o Placebo. I pazienti erano affetti da TVS isolata senza concomitante TVP o EP, trattati per 45 giorni e seguiti fino al
giorno 77. L’end-point primario di efficacia era il composito di: morte per qualsiasi causa, embolia polmonare sintomatica, TVP sintomatica, estensione sintomatica della
TVS alla giunzione safeno-femorale, recidiva sintomatica
di TVS al giorno 47. il principale end-point di sicurezza
era l’emorragia maggiore. L’end-point primario di efficacia è stato osservato in 13 pazienti su 1502 (0.9%) nel
gruppo Fondaparinux e 88 pazienti (5.9%) nel gruppo
Placebo (riduzione del rischio relativo con Fondaparinux
del 85%, intervallo di confidenza – IC – 74-92 = 95%, p <
0.01). L’incidenza dei singoli componenti dell’end-point
di efficacia è stata significativamente ridotta nel gruppo
Fondaparinux ad eccezione dell’outcome di morte (0.1%
in entrambi i gruppi). Il tasso di EP o TVP è stato del
85% inferiore nel gruppo Fondaparinux rispetto al gruppo Placebo (0.2% vs 1.3%, IC 74-95 = 93%, p < 0.001).
Simile riduzione si è ottenuta al giorno 77. L’emorragia
maggiore si è verificata in 1 paziente per ciascun gruppo.
L’incidenza di eventi avversi è stata di 0.7% con Fondaparinux, 1.1% con Placebo. I risultati dello studio CALISTO
indicano che è necessario trattare 88 pazienti con TVS per
prevenire 1 caso di EP o TVP.
Lo studio CALISTO ha dimostrato come la TVS meriti un
trattamento anti-trombotico prolungato e che in caso di
Fondaparinux può essere utliizzata la dose utilizzata nella
profilassi del tromboembolismo venoso.
Non ci sono studi che riguiardini l’uso dei nuovi anticoagulanti che sono inibitori diretti del fattore IIa ( dabigatran) o del fattore Xa (rivaroxaban o apixaban). Peraltro
l’uso del fondaparinux che è un inibitore indiretto del
FXa potrebbe prospettare l’utilità dei nuovi anticoagulanti
nelle TVS. Inoltre i nuovi anticoagulanti orali potrebbe
essere più maneggevoli dell’eparina e del fondaparinux
che invece richiedono la somministrazione sottocutanea.
Rimane peraltro ancora incerta la dose e la durata ottimale del trattamento della TVS con eparina a basso peso
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
COSMI
molecolare. Gli studi finora pubblicati nel trattamento
della TVS con EBPM non hanno dimostrato con certezza
se nel caso del trattamento con EBPM sia sufficiente una
dose profilattica o sia necessaria una dose terapeutica e
quale sia la durata ottimale del trattamento (10 gg vs. 30
gg) , pur essendoci la dimostrazione dell’efficacia del
Fondaparinux a dose profilattica per 6 settimane rispetto
al placebo.
La Parnaparina ( Fluxum) è un’eparina a basso peso
molecolare che è disponibile in Italia ed altri paesi europei. Si tratta di un sale sodico ottenuto per depolimerizzazione con perossido di idrogeno e sale cuprico dell’eparina non frazionata derivata dall’intestino di maiale. La Parnaparina ha un peso molecolare tra 4.000 e 6.000 D con
rapporto tra attività anti-Xa e anti-II a pari a 1.5-3.0. La
Parnaparina è stata valutata in studi clinici randomizzati
per la prevenzione ed il trattamento del tromboembolismo venoso (Camporese, 2009).
Lo studio prospettico, randomizzato in doppio cieco,
policentrico nazionale (STEFLUX : Superficial Thrombophlebitis and Fluxum, in via di pubblicazione) si è prefisso di chiarire se la trombosi venosa superficiale, da
molti considerata una affezione benigna, meriti un trattamento più aggressivo e prolungato con l’associato maggior rischio di complicanze emorragiche rispetto ad un
trattamento meno aggressivo, con dosi ridotte e di minor
durata con minori rischi emorragici e minor disagio al
paziente.Lo scopo dello studio è stato valutare non solo
se una dose intermedia della EBPM Parnaparina rispetto a
quella terapeutica sia più efficace di una dose profilattica
ma anche di valutare se siano sufficienti 10 giorni di trattamento rispetto a 30 giorni. Pazienti ambulatoriali con
trombosi venosa superficiale degli arti inferiori diagnosticata con Eco-(Color)Doppler venoso in fase acuta di
almeno 4 cm della v.grande o piccola safena o collaterali
sono stati randomizzati in doppio cieco a ricevere (siringhe di uguale aspetto), in scatole con numerazione consecutiva:
A. Parnaparin alla dose di 8.500 UI aXa una volta al giorno sottocute per 10 gg;
B. Parnaparin alla dose di 8.500 UIaXa al dì per 10 giorni
seguito da Parnaparin 6.400 UIaXa al dì per le successive
tre settimane;
C. Parnaparin alla dose di 4.250 UIaXa al dì per 30 gg.
La dose più alta di parnaparina ( gruppo B) si è dimostrata più efficace degli altri due regimi ( A e C) nel ridurre
in maniera significativa l’end-point combinato di TVP sintomatica ed asintomatica, recidiva e/o estensione locale
della TVS, o embolia polmonare sintomatica.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):81-3
Classificazione e meccanismo patogenetico
delle trombofilie congenite
G. PESSINA
Viene definita trombofilia la tendenza, determinata da
cause congenite o acquisite, al tromboembolismo venoso
e/o arterioso, che tipicamente è caratterizzata e dalla
comparsa di manifestazioni cliniche anche in età giovanile (prima di 40-45 anni), senza cause apparenti e con la
tendenza a recidivare. Va sottolineato che l’esistenza di
uno stato trombofilico non esprime necessariamente la
presenza continua di manifestazioni cliniche trombotiche.
Anche se il concetto di trombofilia implica l’alterazione
dell’equilibrio del sistema emostatico verso la trombogenesi, vi sono numerosi meccanismi compensatori che rendono episodica la trombosi. Affinché questi meccanismi
si alterino e si sviluppi quindi la trombosi, è in genere
necessario che più di un fattore trombofilico coesista.
I fattori trombofilici congeniti sono frequenti nella popolazione generale, e vi è quindi un’elevata possibilità che
coesistano fra di loro o con i fattori trombofilici acquisiti,
rompendo così l’equilibrio emostatico e portando alle
manifestazioni cliniche.
La Tabella I elenca le principali cause di trombofilia. Esse
sono state divise in congenite e acquisite, anche se questa distinzione è semplicistica, nella misura in cui le manifestazioni trombotiche sono spesso il risultato dell’interazione di fattori trombofilici appartenenti ad ambedue le
categorie. Questa rassegna si limiterà a trattare gli stati
trombofilici legati a cause congenite
Viterbo
Tabella I. – Principali stati trombofilici congeniti e acquisiti.
Stati trombofilici congeniti
– Carenza di antitrombina III
– Carenza di proteina C
– Carenza di proteina S
– Resistenza alla proteina C attivata legata alla mutazione del
gene del fattore V Arg506Gln (Fattore V Leiden)
– Mutazione G20210A del gene della protrombina
– Iperomocisteinemia
Stati trombofilici acquisititimoli fisiologici o farmacologici: gravidanza (in particolare il periodo post-parto, stati post-operatori,
immobilizzazione, traumi, età avanzata, uso di estrogeni ed
estroprogestinici
– Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
– In associazione con altre condizioni cliniche: tumori e chemioterapia antitumorale, infusione di concentrati del complesso protrombinico, sindrome nefrosica, piastrinopenia
indotta da eparina, porpora trombotica trombocitopenia,
malattie mieloproliferative, emoglobinuria parossistica notturna, iperlipidemia, diabete, iperviscosità, insufficienza cardiaca, talassemia
– Iperomocisteinemia
Materiali metodi e risultati
La frequenza della carenza di antitrombina III nella popolazione generale è stimata intorno a 1:2,000-1:5,000. La
trasmissione del difetto è autosomica dominante. La maggiore parte dei soggetti sono eterozigoti, con livelli plasmatici di antitrombina fra 40% e 70% del normale. Quasi
cento diverse mutazioni sono state identificate come basi
genetiche della carenza. In genere, le mutazioni sono tali
da impedire la sintesi della proteina da parte dell’allele
mutato, come delezioni, inserzioni e mutazioni nonsense.
Vi sono anche mutazioni missense che non arrestano la
sintesi della proteina ma producono alterazioni nella sua
conformazione e stabilità.
La frequenza della carenza di proteina C nella popolazione generale è di 1:500-1:700. Circa 200 mutazioni sono
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
state finora identificate. Sono frequenti le mutazioni che
arrestano la sintesi della proteina (frameshift, nonsense,
delezioni), ma vi sono anche singole sostituzioni aminoacidiche che evidentemente alterano il corretto dimensionamento della proteina e la rendono più instabile.
Non vi sono dati sulla frequenza della carenza di proteina
S nella popolazione generale. Finora, le mutazioni identificate non raggiungono il numero di cento (singole sostituzioni aminoacidiche, inserzioni, delezioni).
La maggior parte dei casi di resistenza alla proteina C attivata è associata a una sostituzione nucleotidica del gene
del fattore V sito nel cromosoma 1 (G1691A), che porta
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PESSINA
CLASSIFICAZIONE E MECCANISMO PATOGENETICO DELLE TROMBOFILIE CONGENITE
alla sostituzione di arginina in posizione 506 con glutammina. Questa mutazione diversamente dalle carenze degli
anticoagulanti naturali determina un eccesso di funzione
coagulante del fattore V. È assai frequente nella popolazione generale Europea e Nord Americana di origine
Caucasica, con un gradiente.
dal Nord al Sud fra 10-15% in alcune regioni della Svezia,
2-3% nell’Italia Settentrionale, fino a 1% nell’Italia Meridionale. La trasmissione della mutazione è autosomica
dominante.
La sostituzione nucleotidica di guanina con adenosina
nella posizione 20210 della regione 3’ non codificante del
gene della protrombina ha una frequenza nella popolazione generale assai alta e tipica di un polimorfismo (0,34%), con un gradiente di frequenza geografica che appare
inverso a quello del fattore V Leiden (più frequente nel
Sud Europa che nel Nord). Anch’essa determina un
eccesso di funzione della protrombina, con aumento dei
livelli plasmatici. I portatori della mutazione hanno un
aumento del rischio di tromboembolismo venoso che
varia da 2 a 7 volte quello dei controlli senza la mutazione, rischio simile o leggermente inferiore a quello riscontrato per il fattore V mutato.
L’omocisteina è un aminoacido sulforato presente nel plasma dell’individuo normale in concentrazioni variabili fra
5 e 15 Ïmol/L. Nel metabolismo dell’omocisteina sono
coinvolti tre enzimi: la metilenetetraidrofolato reduttasi,
enzima chiave nel ciclo dell’acido folico, la metionina sintetasi il cui coenzima è la vitamina B12 e la cistationina-‚sintetasi, che utilizza come cofattore enzimatico la vitamina B6. La carenza o anormalità funzionale di questi enzimi e/o la carenza acquisita di cofattori vitaminici determina un difettoso metabolismo dell’aminoacido e quindi il
suo accumulo nel plasma in elevate concentrazioni. I
possibili meccanismi patogenetici con cui l’omocisteina è
in grado di favorire eventi aterotrombotici sono molteplici
(Thambyrajah e Towned, 2000). Uno dei più noti riguarda
il danno endoteliale promosso dallo stress ossidativo
(Marshall e Bargert, 1997). L’omocisteina può andare
incontro ad autossidazione con formazione di dimeri
disulfidici di omocisteina, di omocisteina-cistina, di omocisteina-proteine. L’ossidazione comporta rilascio di due
protoni e due elettroni promuovendo così la formazione
di Specie Reattive dell’Ossigeno (ROS). Variazioni dell’equilibrio esistente tra livelli di ROS prodotti e livelli di
antiossidanti endogeni determina lo stress ossidativo che
sta alla base del processo di aterosclerosi. I ROS sono in
grado di reagire con le proteine delle LDL, con il lipidi
contenuti nelle lipoproteine e nella membrana plasmatica
disgregandola e/o alterandone la permeabilità. Inoltre
possono danneggiare gli acidi nucleici provocando rotture a singolo e doppio filamento e causare modifiche delle
basi azotate.
È stata inoltre indagata l’interazione dell’omocisteina coi
fattori della coagulazione da una parte e coi componenti
della parete vasale dall’altra. Numerose evidenze sperimentali mostrano come aumentate concentrazioni di
omocisteina ostacolino i sistemi anticoagulanti naturali
(proteina C attivata e trombomodulina) (Lentz e Sadler,
1991; Hayashi et al., 1992). L’omocistinuria determina
riduzione dell’attività del fattore VII e dell’antitrombina III
82
ed un’aumentata attività del fattore V (Rodgers e Kane,
1986; Giannini e Coleman, 1975).
È noto come l’endotelio abbia un’importante funzione
omeostatica sulla reattività e sulla fisiologia vasale stessa,
rappresentando il primo bersaglio dei fattori aterogenici,
che sono in grado di alterare la funzione endoteliale
attraverso un meccanismo ossidativo, stimolando la flogosi e la proliferazione delle cellule muscolari liscia alterando in maniera patologica la reattività vascolare (Ross R,
1993). L’omocisteina aumenta l’attività proliferativa dell’endotelio e delle cellule muscolari lisce attraverso la
produzione di ROS (Chambers e altri, 1999). In una metanalisi effettuata nel 1995 da Boushey e colleghi (Boushey
e altri, 1995), gli autori conclusero che incrementi di 5
micromoli/l nei livelli plasmatici di omocisteina conferivano un rischio paragonabile ad un aumento di circa 20
mg/dl dei livelli di colesterolo totale (Chambers e altri,
1999). Il rischio vascolare associato all’iperomocisteinemia
è graduale e progressivo e come per altri fattori di rischio
non esiste un valore soglia (Malinow e altri, 1993; Selhub
e altri, 1995). Inoltre va considerato che è importante
valutare il rischio quando all’iperomocisteinemia si associano altri fattori di rischio vascolare.
Numero studi hanno inoltre dimostrato che l’omocisteina
riduce i livelli di Ossido nitrico (NO), una sostanza con
azione vasodilatatrice, inibendo indirettamente l’enzima
che lo produce a livello endoteliale (eNOS: endothelial
nitric oxide synthase) aumentando i livelli di ADMA
(asymmetric dimethylarginine). Inoltre l’omocisteina è in
grado di aumentare la sintesi del colesterolo inducendo
l’enzima chiave della via biosintetica ( HMG-CoA) (Gulliams (2004).
È stato inoltre ipotizzato che uno dei meccanismi attraverso i quali l’iperomocisteinemia può favorire lo sviluppo di
una serie di patologie associate all’invecchiamento
potrebbe essere lo stabilirsi di una ridotta capacità genomico-riparativa collegata ad un deficit di donatori di metili con conseguente danno al DNA particolarmente lesivo
in cellule perenni quali i neuroni.
La condizione di iperomocisteinemia può essere corretta
mediante integrazione nutrizionale con acido folico, vitamina B6, vitamina B12, Betaina (trimetilglicina). Lo stress
ossidativo indotto dall’iperomocisteina può essere contrastato con terapia nutrizionale antiossidante.
Considerazioni conclusive
Dal momento che le alterazioni trombofiliche congeniti
sono frequenti nella popolazione generale esiste un’elevata possibilità che coesistano fra di loro o con i fattori
trombofilici acquisiti. Per questo motivo risulta di fondamentale importanza riconoscere le condizioni in cui
sospettare un aumentato “rischio genetico” (eventi vascolari < 50 anni d’età, storia familiare, aborti ripetuti, ecc.) al
fine di realizzare la ricerca di eventuali alterazioni genetiche all’insegna dell’appropriatezza clinica e prevenire con
opportune misure terapeutiche e comportamentali l’avvento di eventi vascolari venosi e/o arteriosi.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):84-5
Trombofilie e arteriopatie
F. CONTI
Il termine trombofilia definisce condizioni ereditarie o
acquisite del sistema emostatico che predispongono in
varia misura alla trombosi. Entrambe le condizioni possono coesistere nel medesimo soggetto. Questi difetti di
uno o più fattori della coagulazione del sangue sono stati
prevalentemente studiati nel’ambito della patologia venosa e hanno trovato una evidenza fisiopatologica e un
riscontro positivo nell’individuare i soggetti a rischio e nel
predisporre la profilassi e/o la terapia più adeguata. Nel
contesto della patologia arteriosa del cuore e dei vasi sanguigni finora le cause o i fattori di rischio più frequenti
sono raccolti in quella che oggi viene comunemente indicata come “sindrome metabolica” e che comprende una
serie di fattori di rischio e sintomi che si manifestano contemporaneamente nell’individuo (peso eccessivo, iperdislipidemia, ipertensione arteriosa, diabete mellito ecc.).
All’inizio del XX secolo le malattie cardiovascolari sono
considerate come la causa di circa il 10% delle mortalità
totale in tutto il mondo. Sul finire del secolo la percentuale è salita al 50% nei paesi industrializzati e secondo alcune stime si prevede che nel 2020 un terzo delle cause di
morte nel mondo, includendo i paesi emergenti, sarà
dovuto alle malattie cardiovascolari. Ogni anno in Italia
muoiono circa 243 mila persone per malattie cardiovascolari. Oggi è possibile identificare i soggetti più a rischio
ma i fattori conosciuti non sono sufficienti a spiegare tutti
i casi di infarto, ictus e arteriopatie che si manifestano in
individui non a rischio; per questo motivo la ricerca e gli
studi clinici si sono indirizzati verso l’identificazione di
nuovi marcatori, sia legati a cicli metabolici (tra cui i processi emocoagulativi o infiammatori) che a livello genico
per ricercare la predisposizione genetica a tali patologie.
Per tale motivo si è oggi consolidata una nuova dimensione molecolare della medicina , in particolare di un settore
definito come “Medicina Predittiva”. L’interesse per la componente genetica della suscettibilità a malattie complesse
sta assumendo sempre più importanza in quanto si sta
mettendo in evidenza il ruolo di alcuni polimorfismi genetici relativamente comuni che se associati e combinati tra
loro possono elevare di molto il rischio di tale patologie.
Dall’analisi di tutti il lavori pubblicati nell’ambito della
patologia arteriosa alcuni disturbi trombofilici hanno un
84
Centro per lo studio e il trattamento delle trombofilie
familiari e acquisite,
Azienda Ospedaliera S. Camillo Forlanini, Roma
preciso ruolo fisiopatologico. I difetti più comunemente
riscontrati sono:
– mutazione per Fattore V di Leiden (G1691A);
– mutazione per la Protrombina (G20210A);
– deficit di Proteina C;
– deficit di Proteina S;
– deficit di Antitrombina III;
– sindrome da anticorpi antifosolipidi;
– iperomocisteinemia.
Tra questi quelli che sembrano possedere un ruolo più
significativo come fattore di rischio indipendente per aterosclerosi-trombosi sono l’iperomocisteinemia congenita
o acquisita e la sindrome da anticorpi antifosfolipidi; questi due fattori si riscontrano più frequentemente nei soggetti di giovane età (< 50 anni) e senza altri particolari
indici di rischio aterogeno conosciuto.
L’iperomocisteinemia si associa spesso ad una variante
termolabile dell’enzima MTHFR (C677T) oltre che a fattori
esogeni legati a carenze polivitaminiche (acido folico, Vit.
B6, Vit. B 12). Il suo meccanismo d’azione è polivalente:
lesione endoteliale dovuta ai gruppi sulfidrilici, proliferazione di cellule muscolari lisce, ossidazione del colesterolo LDL. Recentemente è stata rilevata una seconda mutazione dell’MTHFR (A1298C) anch’essa associata ad una
ridotta attività enzimatica e se in combinazione con lla
mutazione C677T determina un ulteriore aumento dei
livelli ematici di Omocisteina.
La sindrome da anticorpi anticardiolipine e il LES (lupus
eritematoso sistemico) è una malattia autoimmune fortemente associata con la malattia vascolare aterogena. e la
trombosi arteriosa. Nei pazienti con LES la percentuale di
anticorpi antifosfolipidi arriva al 30%. Vari studi prospettici hanno dimostrato la presenza di anticorpi antifosfolipidi in corso di malattia coronarica e di ateromasia carotidea. Gli anticorpi antifosfolipidi sono diretti contro protei-
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TROMBOFILIE E ARTERIOPATIE
CONTI
ne come la Beta 2 glicoproteina I, la protrombina e più
raramente la proteina C e S.Nella patogenesi dell’ateromasia associata alla sindrome a parte le proprietà protrombotiche tipiche di questi anticorpi è stata evidenziata una
ridotta attività dell’enzima paraoxonasi (PON1) la cui funzione è di prevenire l’ossidazione delle LDL.
Per quanto attiene ai polimorfismi genetici oltre alle tre
classiche e ben note varianti (Fattore V di Leiden, Protrombina, MTHFR) gli studi recenti hanno evidenziato in
ambito arterioso altre mutazioni che possono aumentare
il rischio aterogeno in assenza di altri fattori.
1. La mutazione 4G/4G dell’inibitore dell’attivatore del
Plaminogeno (PAI-1) è spesso associata a livelli plasmatici elevati di PAI-1 con ridotta attività fibrinolitica
e conseguente rischio di malattia coronarica.
2. Il polimorfismo del gene del Fattore XIII (V34L) è
stato invece associato ad un aumento elevato dell’attività per cui in omozigosi rappresenterebbe un fattore
protettivo contro le trombosi prevalentemente venose.
3. Il polimorfismo del Beta-Fibrinogeno con mutazione
455G-A è associata a livelli plasmatici elevati di Fibrinogeno.
4. Per quanto attiene al ruolo della risposta infiammatoria
della parete vasale nell’evoluzione della placca aterosclerotica l’attività pro infiammatoria svolta dell’Interleuchina 6 è già da tempo nota, ma recentemente
sono stati individuati due varianti genetiche (G-174-C
e G-634-C) che comportano una aumentata attività e
un più elevato livello plasmatico dell’Interleuchina 6
con conseguente maggior rischio di malattia arteriosa.
Di contro la mutazione G-1082-A dell’Interleuchina 10
che è una molecola antinfiammatoria comporta una
ridotta produzione di questa citochina con relativo
maggior rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.
Una attenzione particolare merita la Lipoproteina (a) il
cui aumento nel sangue è predittivo per le malattie arteriose. Si può considerare come un terzo tipo di Colesterolo che si affianca ai più conosciuti LDL e HDL. Lo studio
PROCARDIS ha analizzato il genotipo Lpa in circa 16.000
soggetti europei e ha dimostrato che tra le diverse varianti del gene due in particolare sono associate all’aumento
del livello plasmatico di Lpa e svolgono un ruolo causale
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
nello sviluppo della malattia coronarica. Una persona su
6 è portatrice di queste due varianti nel suo DNA e ha di
conseguenza livelli più elevati di Lpa con un rischio
aumentato di 4 volte. Quindi la Lpa si è dimostrata fattore
di rischio cardiovascolare alla stregua di quelli già noti
nella cosidetta sindrome metabolica anzi i suoi effetti si
sommano e si amplificano. Comunque poco si conosce
sul suo meccanismo d’azione (forse aumenta l’attività del
PAI 1), la dieta, l’esercizio fisico e le statine sono poco
efficaci nell’abbassare i livelli plasmatici, alcuni farmaci
esistenti come la niacina sembrano funzionare ma si rimane in attesa di altri sostanza che possano abbassare selettivamente la Lpa.
Tutti questi esami di laboratorio comportano certamente
un costo abbastanza elevato pertanto sorge spontanea la
domanda “quando è giustificato eseguire lo screening
trombofilico in caso di trombosi arteriosa?”. Noi crediamo
che sia indicato nelle seguenti situazioni:
– eventi trombotici ricorrenti;
– eventi precoci (in eta <50 anni);
– assenza di stenosi significative da placche aterosclerotiche all’ecodoppler e/o all’angiografia;
– in pazienti con età <50 anni con importante storia
familiare e affetti da patologia arteriosa senza evidenti
fattori di rischio tradizionali.
Altra domanda frequente “quando eseguire lo screening?“. Almeno 2 settimane dopo la sospensione del trattamento anticoagulante al fine di evitare una possibile
interferenza con questi farmaci sui dosaggi ad esempio
dell’Antitrombina III, della Proteina C e S e del LAC mentre la ricerca dei polimorfismi genetici può essere effettuata in qualsiasi momento.
Conclusioni
Nella ricerca di elementi genetici che possono influenzare
l’insorgenza di una patologia arteriosa sono stati identificati numerosi polimorfismi dei fattori emostatici ma la
loro relazione con tali malattie è tuttora controversa. A
differenza della trombosi venosa dove il pannello di ricerca dei marcatori trombofilici è ormai accertato e stabilito,
nella trombosi arteriosa questa relazione è allo stato
attuale meno evidente. Pertanto lo studio delle trombofilie va eseguito solo in pazienti selezionati.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):86-8
Trombofilie e poliabortività
P. SIMIONI, E. CAMPELLO
L’aborto è la più comune complicanza della gravidanza. Il
termine include tutte le interruzioni spontanee della gravidanza dal concepimento fino alla 24° settimana gestazionale. Fino al 5% delle donne va incontro a 2 o più aborti
precoci e l’1-2% delle gravide ha 3 più aborti precoci.
Per aborto ricorrente si intende la presenza di 3 o più
aborti spontanei consecutivi, indipendentemente da precedenti parti espletati. Le cause riconosciute essere più
importanti sono: l’età materna avanzata, difetti anatomici
materni, disfunzioni endocrine, alterazioni cromosomiche,
problemi immunologici, fattori ambientali, e la sindrome
da anticorpi antifosfolipidi. In circa il 50% dei casi non
viene riconosciuta alcuna causa.
La trombofilia si definisce come un disordine associato ad
un’aumentata tendenza a sviluppare trombosi. I principali
disordini trombofilici che possono promuovere la trombosi, sono congeniti, il Fattore V Leiden, la mutazione
della Protrombina G20210A, le metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) e la mancanza degli anticoagulanti naturali (Antitrombina, Proteina C, Proteina S), o acquisiti, la
Sindrome da Anticorpi Anti-fosfolipidi.
La diagnosi di trombofilia si basa su caratteristiche cliniche, le più comuni sono eventi trombotici ricorrenti, familiarità per trombosi, trombosi idiopatica e in sedi inusuali,
trombosi in giovane età, o durante la gravidanza e il
puerperio. I difetti trombofilici sono associati ad un
aumentato rischio di avventi avversi in gravidanza, come
per esempio aborti spontanei, abruptio placentae, preeclampsia e sindrome HELLP.
Abbiamo condotto una ricerca bibliografica tramite Medline di tutti gli articoli pubblicati recentemente in letteratura, e della relativa bibliografia, usando come parole chiave “poliabortività e disordini trombofilici”. Nella nostra
analisi sono stati inclusi studi caso-controllo, di coorte e
longitudinali, nonché meta-analisi e review.
La trombofilia è il più importante fattore di rischio per
trombosi nel corso della gravidanza; circa il 50% di eventi
trombotici durante la gravidanza e il post-partum sono
associati con la trombofilia congenita.
Molti studi hanno esaminato l’associazione tra trombofilia
ereditaria e poliabortività, spesso con differenti risultati,
stante l’eterogeneità degli studi, le dimensioni del cam86
Dipartimento di Scienze Cardiologiche,
Toraciche e Vascolari. Clinica Medica 2,
Università degli Studi di Padova, Padova
pione, il tipo di studio, come pure la definizione di poliabortività non sempre univoca e il tipo di trombofilia indagato.
In una review sistematica che ha esaminato 25 studi per
un totale di 7167 donne, il Fattore V Leiden e la variante
Protrombinica sono associati con una poliabortività precoce (nel primo trimestre di gravidanza).
Altre metanalisi hanno riportato simili associazioni tra
trombofilia e aborti ricorrenti, in particolare quella pubblicata su Lancet nel 2003 che ha preso in considerazione
31 studi. Ha dimostrato che il FVL è associato con poliabortività precoce (OR 2,01, 95% CI 1,13-3,58) e tardiva
(7,83, 2,83-21,67) ed aborti tardivi non ricorrenti (3,26,
1,82-5,83); la resistenza alla Proteina C attivata è associata
con poliabortività precoce (3,48, 1,58-7,69). La Variante
Protrombinica è associata a poliabortività precoce (2,56,
1,04-,29) ed aborti tardivi non ricorrenti (2,30, 1,09-4,87);
il deficit di proteina S è associato con poliabortività
(14,72, 0,99-218,01) e aborti tardivi non ricorrenti (7,39,
1,28-42,63). Infine MTHFR, deficit di Proteina C e di Antitrombina non sarebbere significativamente associate a
poliabortività.
Lo studio NOHA (Nimes Obstetricians and Haematologists), un vasto studio caso-controllo che ha arruolato una
coorte di 32700 donne, il 18% delle quali aveva avuto
uno o più aborti nel corso della loro prima gravidanza,
ha evidenziato nell’analisi multivariata una chiara associazione tra aborti da causa non spiegata tra la 10° e la 39°
settimana di gestazione e il Fattore V Leiden eterozigote
(OR 3,46; 95%CI, 2,53-4,72) e la mutazione della Protrombina (OR 2,60; 95%CI, 1,86-3,64); nessuna associazione è
stata trovata tra trombofilia e aborti prima della 10° settimana gestazionale.
Tuttavia altri studi presenti in letteratura non hanno confermato un aumento del rischio di aborti nei portatori di
Fattore V Leiden o variante protrombinica.
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TROMBOFILIE E POLIABORTIVITÀ
SIMIONI
Tabella I.
Tipo di trombofilia
Abortività precoce
(I trimestre)
OR (95% CI)
Poliabortività precoce
(I trimestre)
OR (95% CI)
Abortività tardiva
OR (95% CI)
FVL omozigote
FVL eterozigote
Variante Protrombinica
Deficit Antitrombina
Deficit Proteina C
Deficit Proteina S
2,71 (1,32-5,58)
1,68 (1,09-2,58)
2,49 (1,24-5,0)
0,88 (0,17-4,48)
2,29 (0,60-26,43)
3,55 (0,35-35,7)
1,91 (1,01-3,61)
–
2,70 (1,37-5,34)
–
–
–
1,98 (0,40-9,69)
2,06 (1,1-3,86)
2,66 (1,28-5,53)
7,63 (0,30-196,3)
3,05 (0,24-38,5)
20,09 (3,7-109,15)
Sebbene l’OR per l’aborto in donne FVL fosse più alto
rispetto alle non trombofiliche (OR 1,52; 95%CI, 1,062,19) in una recente review di studi di coorte prospettici,
tuttavia il rischio assoluto di avere aborti in donne trombofiliche si è dimostrato essere di modesta entità (4,2% vs
3,2% nelle non trombofiliche). Inoltre non è stata dimostrata alcuna associazione tra mutazione della Protrombina e l’aborto spontaneo (rischi assoluto 4,8% nelle carriers vs 3,6% nelle non carriers; OR 1,13; 95%CI,0,642,01).
Pertanto, anche se questi studi prospettici dimostrano che
la trombofilia potrebbe aumentare il rischio di andare
incontro ad aborti spontanei, essi confermano anche che
la probabilità di avere una gravidanza normale in queste
paziente è comunque elevata. Sembra plausibile che lo
stato di ipercoagulabilità che caratterizza le pazienti trombofiliche possa contribuire alla patogenesi multifattoriale
degli aborti.
Un discorso a parte merita la sindrome da anticorpi
antifosfolipidi (APS) che è data dall’associazione di trombosi vascolare e/o disturbi gravidici on anticorpi anticardiolipina (aCL) e/o anticorpi antibeta2glicoproteina 1
(b2GP1), e/o lupus anticoagulant (LA). La sindrome è
presente se c’è almeno uno dei criteri clinici e uno dei
criteri di laboratorio.
In una review sistematica di 25 studi caso-controllo mirata a valutare la consistenza del rischio di poliabortività in
donne con APS ma senza malattie autoimmunitarie associate, si evidenzia un’associazione statisticamente significativa tra poliabortività e positività del LA [OR 7,79 (2,3026,45)] e con la presenza di aCL sia IgG [OR 3,57 (2,265,65)] che IgM [OR 5,61 (1,26-25,03)] ad alto e medio titolo; l’associazione più forte si ha tra LA e aborti ricorrenti
tardivi (<24° SG).
La terapia antitrombotica per prevenire gli aborti ricorrenti include: 1) dosi profilattiche di UFH o LMWH e/o 2)
aspirina.
Per quanto riguarda le pazienti affette da APS, i dati in letteratura sono favorevoli nel riconoscere l’efficacia e la
sicurezza della combinazione tra UFH o LMWH e basse
dosi di aspirina nel prevenire nuovi aborti in pazienti che
hanno già un’anamnesi positiva per poliabortività. In una
recente meta-analisi di studi controllati randomizzati in
pazienti con APS e storia di poliabortività, si evidenzia una
proporzione superiore di nati vivi nel pazienti sottoposte a
terapia in associazione rispetto alla sola aspirina (74,3% vs
58,8% rispettivamente; RR 1,30; 95%CI, 1,04-1,43).
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Infine per quanto riguarda la profilassi antitrombotica
nelle paziente con trombofilia congenita e poliabortività, i
dati disponibili sono meno consistenti e convincenti. In
uno dei pochi trials, Gris et al. Riportano una proporzione di nati vivi superiore in donne trombofiliche e con un
pregresso aborto dopo la 10° SG, trattate con enoxaparina 40 mg/die rispetto a pazienti trattate con aspirina (85%
vs 29% rispettivamente). Tuttavia lo studio presenta un
campione molto esiguo.
Nel LIV-ENOX trial 166 donne trombofiliche con storia di
poliabortività, sono state randomizzate a ricevere 2 dosi
di enoxaparina (40 mg/die o 80 mg/die), senza differenza
di out come tra i due gruppi.
Donne con poliabortività dovrebbero essere sottoposte a
screening per la presenza di APS; c’è ormai il convincimento generale che queste donne debbano essere trattate
con UFH o LMWH a dosaggio profilattico in combinazione con aspirina fino al parto.
Allo stato attuale non vi è indicazione a trattare con terapia antitrombotica pazienti con episodi di aborti ricorrenti
sine materia, ma gli studi disponibili non escludono la
possibilità che tale terapia possa essere efficace qualora ci
sia una trombofilia ereditaria sottostante.
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SIMIONI
TROMBOFILIE E POLIABORTIVITÀ
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):89
Trombofilie: linee guida e grandi Trial
C. CIMMINIELLO, G. ARPAIA, G. SPEZZIGU
Negli ultimi 15 anni sono stati condotti numerosi studi
che hanno valutato il ruolo della trombofilia, congenita o
acquisita, nello sviluppo del tromboembolismo venoso
(TEV) e nelle patologie gravidiche o nella poliabortività;
aspetti, questi ultimi, che non saranno considerati in questa trattazione. La trombofilia contribuisce alla patogenesi
di circa il 40% degli episodi TEV. Per converso il 50% dei
portatori di una trombofilia svilupperanno un TEV anche
se l’impatto delle differenti anomalie può comportare
ricadute cliniche diverse a seconda del tipo di trombofilia. Dalla letteratura si potrebbe infatti desumere che alcuni fenotipi non comuni, come il deficit di antitrombina, di
proteina C o di proteina S o l’eterozigosi per il Fattore V
Leiden o la combinazione di più deficit in eterozigosi, si
associno ad un rischio più elevato di TEV rispetto ad altre
anomalie più comuni. I fenotipi menzionati comporterebbero anche una più precoce comparsa del TEV nel corso
della vita e più frequenti recidive ma non è possibile
escludere che tali evidenze siano state condizionate,
almeno in alcuni studi, da bias quali la rarità dei fenotipi
a presunto più elevato rischio o l’inclusione di pazienti
con marcata familiarità di TEV. Un recente ampio studio
olandese ha fornito dati solidi sul rischio assoluto di
primo TEV e di recidiva nei portatori di trombofilia. I
risultati di tale studio hanno confermato l’esistenza di
trombofilie ad elevato rischio e di trombofilie a rischio
più basso, con alcune di queste ultime anomalie che non
sarebbero fattori di rischio indipendenti di TEV. In realtà
il valore predittivo di recidiva di TEV attribuito ai tipi più
comuni di trombofilia quali il fattore V Leiden e la mutazione G20210A della protrombina, è limitato. Tali anomalie si associano ad un aumentato rischio di recidiva ma
l’entità di tale aumento è così modesta da non giustificare
alcun provvedimento aggiuntivo oltre a quelli che di
norma vengono assunti nei pazienti con i diversi tipi di
TEV, idiopatico o secondario. In aggiunta a tali premesse
va sottolineato che non esistono al presente studi randomizzati e prospettici che abbiano valutato in maniera
sistematica il vantaggio di uno screening della trombofilia
nel ridurre il rischio di recidiva di TEV. L’unica esperienza
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
UOC di Medicina e UOS di Angiologia,
Az. Osp di Desio e Vimercate, Presidio di Vimercate (MB)
in proposito è un sottostudio del più grande trial MEGA
che coinvolgeva 197 casi di recidiva di trombosi venosa
testati per trombofilia prima di una recidiva e 324 controlli non testati. La frequenza di recidiva di TEV tra testati e
non testati non era significativamente differente. Inoltre,
la presenza di trombofilia ereditaria non è mai stata
impiegata come elemento per orientare la durata della
profilassi secondaria del TEV. I sottogruppi con trombofilia dello studio ELATE non avevano una frequenza di
recidive in corso di trattamento anticoagulante diversa dai
non affetti mentre nello studio WODIT i soggetti portatori
di trombofilia erano più a rischio se trattati con soli tre
mesi di terapia anticoagulante. Risultati, come si vede,
contraddittori e derivanti da analisi si sottogruppi che
hanno spinto le più accreditate linee guida a non riconoscere a questa condizione un ruolo determinante nella
decisione di protrarre o meno il trattamento anticoagulante dopo un episodio TEV. La Sindrome da Anticorpi
Antifosfolipidi merita considerazioni a parte. Si tratta della
più frequente trombofilia acquisita, i cui criteri diagnostici
sono stati definiti (Sapporo criteria) e di recente rivisitati
al workshop di Sydney. Sulla base di evidenze datanti la
metà degli anni 90 era invalso il concetto che questi
pazienti dovessero essere trattati a lungo con terapia anticoagulante condotta con intensità maggiore di quella
comunemente usata per i pazienti con TEV. Due studi più
recenti, di cui uno italiano (WAPS), hanno smentito tale
evidenza, concludendo che l’intensità convenzionale
della terapia anticoagulante orale (INR tra 2 e 3) è sufficiente e che più elevate intensità producono solo un
aumentato rischio di bleeding. Per i pazienti con stroke
ischemico da Sindrome Antifosfolipidi è ammessa, in
alternativa al trattamento con anticoagulanti orali, la terapia con ASA.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):90-1
TVCE e neoplasie
R. GRECO, B. L. FARINA, V. PRISCO
Le trombosi venose cerebrali e cervicali non sono così
frequenti rispetto alle trombosi in altre sedi (arti inferiori).
Per tale motivo, la diagnosi richiede un alto sospetto clinico e, confermata la diagnosi, va sempre cercata la causa
di tali eventi. Da non trascurare la possibile presenza di
neoplasie occulte, nelle TVCE idiopatiche.
La trombosi venosa cerebrale (TVC) è una malattia cerebrovascolare causata da trombosi di uno o più seni durali
e/o delle vene cerebrali. L’incidenza è di 5 casi/1 milione.
È causa dello 0,5% degli stroke. La causa della TVC è
identificata nell’85% dei casi (15% idiopatica). La causa
più frequente è la presenza di uno stato trombofilico congenito o acquisito (21-34%). A seguire le neoplasie (7%).
Le trombosi dello stretto superiore rappresentano l’1-2%
di tutte le trombosi. In particolare la trombosi venosa
della giugulare interna (TVGI) era frequente in era preantibiotica quando era associata a gravi infezioni della testa
e del collo.
Attualmente cause più frequenti di TVGI sono i cateteri
venosi, in pazienti neoplastici e non, l’iperstimolazione
ovarica in corso di fecondazione in vitro, le manipolazioni chirurgiche locali, le compressioni e/o infiltrazioni neoplastiche (primitive e secondarie).
Non mancano in letteratura casi clinici di TVGI idiopatiche, che hanno rappresentato il primo segno di una neoplasia occulta.
I pazienti con cancro hanno aumentato rischio di trombosi e i pazienti con una diagnosi di trombosi venosa spontanea senza cause apparenti hanno un rischio aumentato
di sviluppare un cancro entro un anno, e l’incidenza varia
a seconda degli studi dal 2% al 25%.
La relazione fra fenomeni di coagulazione spontanea e neoplasie fu descritta per la prima volta da Trosseau nel 1865.
Oggi sono stati identificati i meccanismi attraverso i quali
le cellule neoplastiche interferiscono con la coagulazione:
– le cellule tumorali esprimono in modo aberrante fattori
procoagulanti (TF);
– interferiscono con il normale processo fibrinolitico,
attraverso attivatori e inibitori della fibrinolisi;
– rilasciano citochine proinfiammatorie e proangiogeniche;
– producono microparticelle plasmatiche.
90
UOD Angiologia, Azienda Ospedaliera-Universitaria
Integrata, Salerno
Materiali e metodi
Dal 2000 ad oggi, abbiamo diagnosticato, occasionalmente, tre trombosi di vena giugulare interna, idiopatiche, in
pazienti di sesso femminile : due insorte in donne risultate trombofiliche (mutazione Fattore V Leiden in omozigosi e mutazione 20210 G della protrombina in eterozigosi
in soggetto in terapia estroprogestinica)
e la terza, 60 anni, recentemente giunta alla nostra osservazione dopo reperto occasionale di trombosi della giugulare, riscontrata durante una ecografia della tiroide.
Confermata la trombosi, la paziente è stata sottoposta, da
noi, ad esami per la ricerca della causa.
Oltre allo screening trombofilico (negativo), sono stati
anche chiesti esami per la ricerca di neoplasia occulta:
– ecografia addome e pelvi;
– Rx torace;
– sangue occulto feci;
– esami di laboratorio, compresi i marcatori, risultati tutti
negativi.
Visto che i pazienti con trombosi idiopatica hanno un
rischio maggiore di diagnosi di patologia neoplastica
entro il primo anno dall’evento, la paziente sarà ricontrollata a distanza.
Conclusioni
Considerato che la trombosi della giugulare interna è
spesso reperto occasionale, è opportuno eseguire lo studio delle giugulari, durante l’esecuzione dell’ecocolordoppler TSA.
La neoplasia occulta deve essere sospettata in tutti i casi
di trombosi venosa idiopatica, specie se in sede inusuale
(come il territorio cerebrale e cervicale) e interessante
soggetti giovani, e può essere svelata da indagini precocemente eseguite.
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TVCE E NEOPLASIE
GRECO
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):92-3
La terapia anticoagulante nella TVCE
W.M. PACELLI
Sia la diagnosi che la gestione delle trombosi delle vene
cervico encefaliche (TVCE) possono essere difficili, a
causa dei diversi fattori di rischio sottostanti e all’assenza
di un approccio uniforme di trattamento. Tale patologia
presenta approcci diversi in quanto i distretti anatomici
interessati sono “differenti”, il cervicale e l’encefalico, con
ripercussioni cliniche, sintomatologiche, diagnostiche e di
trattamento, diverse.
La trombosi delle vene cerebrali è una forma rara di ictus
che di solito colpisce individui giovani.
La trombosi delle vene cervicali colpisce di solito i portatori di cateteri venosi (giugulare interna, giugulare esterna, succlavia) o coloro che presentano sindrome TOS
(succlavia).
Le strategie terapeutiche vanno dalla limitazione del processo trombotico (evitare la crescita del trombo, facilitare
la ricanalizzazione e prevenire TVP o EP, per entrambe )
alla terapia della ipertensione endocranica, delle crisi
comiziali, nelle Trombosi venose cerebrali, alla eventuale
terapia antibiotica, che a volte viene praticata nelle trombosi cervicali (infezione del catetere venoso centale –
Port a cath) e nelle trombosi cerebrali.
Terapia delle TVCE
La terapia antitrombotica della fase acuta prevede un
bolo e.v. di eparina NF di 3000 U seguita da infusione
continua in pompa di 1000-2000 U/h aPTT 1,5-2. Può
essere usata la EBPM 100 U/kg due volte al giorno. Il
trattamento è indicato per tutte le forme di TVCE, comprese quelle con reperto TC/RMN di emorragia o infarcimento emorragico
Proseguire la terapia eparinica fino a che non ci siano
segnali di miglioramento e remissione della fase acuta;
imbricare con AO in quarta – quinta giornata nelle trombosi venose encefaliche, valutando la clinica e in seconda
giornata nelle trombosi venose cervicali ( INR tra 2-3 ). La
durata della terapia con AO è personalizzata e basata sui
fattori eziologici.
La trombolisi locale e sistemica non presenta evidenza sulla
efficacia e sulla sicurezza e prevede l’utilizzo di rtPA o UK (
bolo di 1-5 mg seguita da 1-2 mg/h per 24/h per rtPA, bolo
100.000-600.000 U seguita da 100.000 U/h 24/h per UK).
92
ASL, Caserta
Tale terapia viene utilizzata come trattamento di seconda
linea ed è riservata nelle trombosi venose cerebrali, ai
pazienti più gravi , con peggioramento clinico, nonostante terapia eparinica, o qualora si renda necessaria una
immediata ricanalizzazione, se vi è trombosi massiva con
circolo molto lento all’angiografia e si rischia di perdere il
paziente nei primi tre giorni.
Nelle trombosi venose cerebrali il trattamento dell’ipertensione endocranica, prevede la testa alzata dal letto a
30°, diuretici osmotici come il Mannitolo al 20%, 1g/kg
(30-60 min.) per 2-3 giorni, l’acetazolamide 500-1000
mg/die, la restrizione idrica e la iperventilazione, tenendo
la CO2 a 30-35 mmhg.
Il trattamento per l’ipertensione endocranica è necessario
solo nel 20% dei casi.
Può essere prevista la rachicentesi evacuativa, nel caso
che la TVC si manifesti con “pseudotumor crebri” o la
emicraniectomia decompressiva nei casi di erniazioni
transtentoriali.
Per le crisi epilettiche è preferibile impiegare la Fenitoina
o il Valproato, data la non interazione con TAO e la possibilità di somministrazione e.v.
La profilassi secondaria con AO dipende, come già detto,
dai fattori di rischio, che se transitori prevede durata di
tre mesi, se TVCE idiopatica o TVCE con mutazione geniche (eteroz. fattore II e fattore V) durata di 6-12 mesi, se
deficit ATIII, mutazioni geniche in omozigosi, APL o
anamnesi positiva di trombosi venose in altri distretti recidivanti, durata indefinita.
Bibliografia
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Stam J et Al. Cochrane Database of Systematic Reviews 2002,
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LA TERAPIA ANTICOAGULANTE NELLE TVCE
PACELLI
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):94-5
La gestione della Trombosi Venosa Profonda
in Medicina d’Urgenza
E. BERNARDI
L’incidenza della trombosi venosa profonda (TVP) negli
outpatients sintomatici continua a declinare nel tempo,
essendo passata dal 30-40% negli anni ’90 all’attuale 1015%. Questo rilievo è spiegato, da un lato, dall’aumento
significativo dell’indice di sospetto di TVP al livello della
popolazione, derivante da una campagna di (in)formazione capillare sui vari media (televisione, stampa, internet);
dall’altro è collegato alla progressiva e aspecifica riduzione della soglia di accesso (overcrowding) alle strutture
d’emergenza che, nel corso degli ultimi 15 anni, ha rappresentato il motore principale di rinnovamento e sviluppo della medicina d’urgenza (MdU).
Tra le più significative novità collegate all’evoluzione
della MdU vi è la liberalizzazione e standardizzazione
dell’uso dell’ecografia (critical US), intesa come strumento
di semeiotica avanzata e (quasi) imprescindibile elemento
del triage medico avanzato, potendo essere utilmente
impiegata sia come ausilio diagnostico non-invasivo (rapido, focalizzato e bed-side), sia come strumento di monitoraggio dell’andamento clinico del paziente ovvero dell’efficacia della strategia terapeutica adottata.
La critical US viene ormai massicciamente impiegata nei
vari campi d’azione della MdU, dalla gestione del paziente critico con problematiche cardio-respiratorie o traumatiche alla valutazione dei pazienti senza priorità di rischio;
in quest’ultimo contesto, i pazienti con sospetta TVP rappresentano una popolazione numerosa.
Inquadramento iniziale
Di norma, l’approccio standard alla sospetta TVP in MdU
comprende in primo luogo una valutazione generale
mirata a stabilire se, insieme ai rilievi locali (dolore,
edema, discromia) sussistano sintomi sistemici d’allarme
(dispnea, dolore toracico, cardiopalmo, sincope), che talvolta possono essere sottovalutati dai pazienti, specie se
anziani. Parte essenziale della suddetta è la rilevazione
dei parametri vitali, l’applicazione di uno score clinico
per la TVP (ad esempio quello di Wells) e l’esecuzione di
esami bioumorali, tra cui la valutazione dei livelli di DDimero.
Il riscontro di un livello di probabilità basso / TVP
“improbabile” in associazione a livelli di D-Dimero infe94
Pronto Soccorso ULSS n. 7, Padova
riori al cut-off decisionale permette, in base alla letteratura, di escludere con sicurezza ed affidabilità la diagnosi di
TVP; tuttavia, pur essendo evidence-based, questa strategia combinata viene raramente impiegata nella realtà italiana, nella quale si preferisce sempre ricorrere ad metodiche di imaging per escludere / confermare i casi di
sospetto tromboembolismo venoso. Diversamente, il
riscontro di un livello di probabilità intermedio - alto /
TVP “probabile” o di livelli di D-Dimero superiori al cutoff decisionale, impone l’utilizzo di metodiche di imaging; in particolare: l’ecografia con compressione (metodiche alternative sono la veno-TC e la veno-RM).
Ecografia
Per la valutazione ecografica, in relazione alla collocazione della struttura di MdU (Presidio Ospedaliero di 1° / 2°
livello) e alla tempistica dell’accesso, sono possibili due
scelte alternative.
1) Dove sia presente e operativo un servizio di angiologia la scelta è, ovviamente, obbligata; infatti, la metodica eco-color-Doppler (ECD) consente di escludere o
confermare rapidamente la presenza di una TVP distale isolata, concludendo definitivamente l’iter diagnostico per la sospetta trombosi; inoltre, l’ECD potenzialmente permette valutare in modo obiettivo un più
ampio range di ipotesi diagnostiche differenziali, tra
cui: patologia arteriosa, edemi infettivi (dermo-epidermiti) o linfatici, versamenti articolari, cisti del cavo
popliteo, lesioni (traumatiche e non) muscolo-tendinee.
NB: dove/se attiva la modalità di triage infermieristico
avanzato ”Fast-track” è anche ipotizzabile l’invio diretto dei pazienti ai servizi di angiologia, una volta esclusa la presenza di sintomi pericolosi e – se previsto –
calcolato la probabilità clinica standardizzata e/o invia-
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LA GESTIONE DELLA TROMBOSI VENOSA PROFONDA IN MEDICINA D’URGENZA
to un campione ematico per la determinazione dei
livelli di D-Dimero.
2) Dove non sia disponibile un servizio di angiologia, o
quando il paziente acceda alla struttura d’Urgenza al di
fuori delle ore di ufficio (sera/notte e week-end), si
aprono almeno due scenari:
– esecuzione differita (temporalmente e/o spazialmente) di un ECD, potendo nel frattempo rinviare a
domicilio i pazienti con probabilità clinica intermedia - bassa e/o D-Dimero elevato e trattenere in
osservazione in pazienti ad alto rischio (probabilità
clinica elevata / TVP “probabile” e/o D-Dimero elevato), avendo cura di iniziare la somministrazione a
dosi terapeutiche di EBPM, salvo nei pazienti nei
pazienti a più basso rischio;
– esecuzione immediata dell’ecografia venosa a due
punti (CUS) da parte del medico di Pronto Soccorso, integrata in un algoritmo decisionale che incorpori anche la probabilità clinica e i valori di DDimero, e seguita dall’esecuzione differita di un
ECD oppure di una CUS “seriata”.
Diagnostica differenziale
In tutti i pazienti con work-up della sospetta TVP “normale” dovrà essere successivamente proposto / programma-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
BERNARDI
to / applicato un processo diagnostico differenziale per
stabilire a quali patologie (es. infettiva, traumatica, degenerativa) siano da riferirsi i sintomi locali.
Disposizione/Terapia
In tutti i pazienti nei quali sia stata confermata la presenza di una TVP va immediatamente iniziata una terapia
antitrombotica, previa esecuzione di un pannello di laboratorio minimo comprendente tempi di coagulazione,
funzione renale e conta piastrinica. La gestione va poi
conclusa con le seguenti modalità:
– dimissione (terapia domiciliare) ‡ pazienti autosufficienti, con TVP non associata a sintomi di embolia
polmonare e senza significative comorbidità (NB: solo
in presenza di una idonea rete assistenziale territoriale);
– ricovero breve / osservazione breve intensiva ‡ pazienti
parzialmente autosufficienti, con TVP non associata a
sintomi di embolia polmonare ma con comorbidità
(NB: solo in presenza di una idonea rete assistenziale
territoriale);
– ricovero ordinario ‡ pazienti non autosufficienti e/o
con TVP associata a sintomi di embolia polmonare e/o
con significative comorbidità.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):96-7
I filtri cavali: quando e come
A. SIANI, F. ACCROCCA, R. ANTONELLI, G.A. GIORDANO, R. GABRIELLI, F. MOUNAYERGI,
L.M. SIANI, G. MARCUCCI
Il filtro cavale è un efficace metodo di prevenzione dell’embolia polmonare ed anche se non esistono studi randomizzati che evidenzino una chiara prevalenza circa l’efficacia del filtro rispetto ad altri metodi di prevenzione
dell’embolia polmonare stessa, il suo impiego è andato
intensificandosi nel corso degli anni in relazione agli ottimi risultati riportati in letteratura . Attualmente assistiamo
oggi ad un reclutamento sempre più crescente di pazienti
che possono giovarsi di tale presidio, spesso a carattere
temporaneo.
Indicazioni
Sono distinte in assolute e relative.
Le indicazioni assolute sono rappresentate da pazienti
con evidenza di EP o TVP cavale, iliaco-femorale o poplitea con:
– controindicazione all’anticoagulazione
– complicanze dell’anticoagulazione
– fallimento dell’anticoagulazione
Le indicazioni relative (in pazienti selezionati) sono:
– grave insufficienza respiratoria e/o cardiaca per-esistente o successiva a diversi episodi di EP in paziente
con TVP in atto
– trauma midollo spinale o cranico chiuso
– pazienti ad alto rischio per TVP (pz immobilizzati, in
terapia intensiva, posizionamento preoperatorio profilattico, in chirurgia bariatrica, per rischi multipli di
malattia tromboembolica venosa, in caso di stroke)
– dopo tromboembolectomia iliaco femorale chirurgica
o mediante fibrinolisi o embolectomia polmonare
– TVP prossimale con trombosi flottante
È necessario considerare invece come le coagulopatie
severe a carattere trombofilico e la sepsi né controindichino l’utilizzo.
Discussione
Il filtro cavale è in grado di ridurre l’incidenza di EP e
delle sue recidive allo 0-5% 1. Diversi aspetti sono tuttavia
oggetto di dibattito come la sua reale capacità di preven96
UOC Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Ospedale “S. Paolo”, ASLRMF Civitavecchia, Roma
zione a lungo termine, il suo impatto sul’emodinamica
cavale e lo sviluppo di complicanze legate alla suo posizionamento. Le complicanze legate a fenomeni di malfunzionamento del filtro come la perforazione cavale, la
dislocazione in sede prossimale associata o meno a
perforazione o trombosi, la rottura del filtro stesso sono
effettivamente rare specie se il filtro appare ben posizionato e selezionato sulla base della sezione trasversale
della vena cava inferiore i. In letteratura tali complicanze
vengono riportate nello 0,4-1,8% dei casi 2. Attualmente
l’impiego di filtri autocentranti ha ridotto significativamente il rischio di angolazione superiore ai 15% gradi riducendo la dislocazione, la perforazione e la perdita della
capacità filtrante . Inoltre difficilmente il filtro condiziona
alterazioni dell’emodinamica cavale con ripercussioni a
carico delle pressioni venose in sede iliaco-femorale o
distale . Sicuramente l’impiego dei filtri autocentranti
adattabili a vene cave con diametri inferiori ai 3 cm è
essenziale al pari del suo corretto rilascio .Tuttavia è
necessario considerare come i filtri cavali siano associati
in modo significativo a TVP ricorrente rispetto alla sola
anticoagulazione a 2 anni e come nell’8% dei casi si
possa sviluppare anche una trombosi cavale associata. Il
rischio di trombosi della vena cava varia in rapporto al
tipo di filtro ed oscilla tra il 5 ed il 12%. Tuttavia con i filtri di moderna concezione tale incidenza si è ridotta
significativamente al 1-3% 3. In relazione a tutti questi dati
quindi si evidenzia come tale procedura non sia scevra
da potenziali rischi e come soprattutto non esistano evidenze di una sua superiorità rispetto alla sola terapia anticoagulante. Pertanto mentre in caso di indicazione assoluta il posizionamento del filtro appare supportato da
molte evidenze scientifiche, in caso di indicazione relativa
appare necessaria una selezione del paziente valutando
attentamente il rischio -beneficio anche sulla base dell’
eziologia trombotica e della spettanza di vita. L’introdu-
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I FILTRI CAVALI: QUANDO E COME
SIANI
zione dei filtri cavali temporanei ha condizionato una
reale cambiamento delle indicazioni, permettendo di
ampliare l’impiego dei filtri stessi anche in pazienti più
complessi e discutibili permettendo di utilizzare il filtro
come una effettiva metodica di prevenzione anche in
assenza di una EP. Attualmente i filtri temporanei si differenziano dai filtri di prima generazione poiché sono
potenzialmente permanenti ma al contempo rimovibili
poiché hanno scarsa endotelizzazione dei pattini d’appoggio nei primi 30 giorni, tendenza all’autocentramento
con scarsa incidenza di angolazione o dislocazione e non
richiedono connessione con l’esterno presentando quindi
anche una bassa incidenza di infezione. Per quanto
riguarda l’aspetto puramente tecnico la metodica è facilmente eseguibile per via percutanea femorale o giugulare
indipendentemente dalla sede di posizionamento del filtro (sopra o sottorenale).Normalmente il filtro viene posizionato in sede sottorenale con l’apice a livello della confluenza delle vene renali ( L2). In caso di trombosi delle
vene renali, di gravidanza, di trombosi cavale completa
estesa prossimalmente, di trombosi della vena gonadica o
di anomalie della cava inferiore il filtro viene posizionato
in sede soprarenale. Nonostante i diversi sistemi attualmente in commercio siano tutti validi, il filtro tipo
Gunther Tullip (sistema coassiale 7FR su guida 0.035 COOK medical) presenta diversi vantaggi come la possibilità di essere usato per via giugulare o femorale, l’autocentramento, l’ottima compatibilità con RNM e la possibilità di un suo recupero legato alla bassa incorporazione
dei punti di ancoraggio a fronte di un ottima capacità di
filtrazione e bassa percentuale di dislocazione. Nel plan-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
ning preoperatorio l’angioTC appare essenziale per una
corretta definizione dell’anatomia e dei diamteri cavali
poiché, specie nei pazienti con scompenso cardiaco
destro, il rischio di trovare delle vene cave con diametro
superiore ai 3 cm è possibile con compromissione dell’autocentramento tilting e possibile migrazione/dislocazione.
Conclusioni
Il filtro cavale rappresenta un ottimo presidio nel trattamento della malattia tromboembolica evidenziando una
provata efficacia ed affidabilità. Tuttavia è necessario considerare la possibilità di complicanze anche severe, specie nel lungo termine . Un allargamento delle indicazioni
è possibile mediante l’introduzione dei nuovi sistemi temporanei che presentano scarsa endotelizzazione e facile
irremovibilità con bassa percentuale di dislocazione ed
infezione sistemica. Una sua utilizzazione indiscriminata a
scopo profilattico o alternativo all’anticoagulante non
appare giustificabile sulla base dei dati attualmente presenti in letteratura
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):98-9
La trombosi venosa superficiale della vena grande
safena a livello della crosse safeno-femorale
B. GOSSETTI, F. FACCENNA, A. LAURITO, J. JABBOUR, A. ALUNNO, A. CASTIGLIONE, M.M.G. FELLI,
A. MALAJ, D. STAVRI
La trombosi delle vene superficiali (TVS) degli arti viene
generalmente considerata una affezione relativamente
benigna, soprattutto se insorta in pazienti con evidente
patologia varicosa. In questi casi, susseguente ad un trauma minore, essa è caratterizzata da dolore locale, infiammazione ed indurimento dei vasi posti nel tessuto sottocutaneo, ipertemia della cute sovrastante, che mostra un
arrossamento lungo la vena interessata, tensione ed, a
volte, edema dell’arto. In alcuni casi la TVS insorge anche
in pazienti senza evidenti vene varicose: in questi pazienti vengono chiamati in causa traumi meccanici o chimici,
come quelli indotti da infusioni endovenose, introduzione
di cateteri, soprattutto per quanto attiene gli arti superiori,
radiazioni, infezioni batteriche o fungine, alterazioni ematiche e della coagulazione, anomala attività immunitaria.
Più raramente, infine, si osservano TVS, per lo più
migranti, indotte da neoplasie, coinvolgenti il corpo o la
coda del pancreas, lo stomaco, il polmone, il torace ed il
colon, oppure malattie del collageno o mieloproliferative.
Il più delle volte questa TVS viene trattata con un bendaggio elastico o calze a compressione graduata, sollevamento dell’arto interessato, terapia con impacchi caldoumidi locali, analgesici contro il dolore e farmaci non steroidei o anti-infiammatori.
Dal punto di vista clinico e, soprattutto, terapeutico, il
problema cambia radicalmente con il coinvolgimento
delle vene safene, ed in particolare della vena grande
safena (VGS), dal momento che il trombo, aderendo solo
parzialmente e tenacemente ad un segmento della parete
venosa, può propagarsi distalmente e prossimalmente.
Questa evenienza può portare al coinvolgimento del circolo venoso profondo ,sia attraverso lo sbocco safenofemorale o safeno-popliteo, sia attraverso le vene perforanti incompetenti, con il possibile distacco dell’estremità
flottante del trombo, che aggetta nelle vene profonde, ad
opera del flusso ematico e conseguente embolia polmonare (EP). Questo è il motivo per il quale una TVS, coinvolgente la VGS alla coscia, soprattutto se in sede periinguinale (si parla di 3 cm circa al di sotto dello sbocco
safenico in femorale comune), vene considerata alla stregua di una trombosi venosa profonda (TVP). E sempre
per le suddette motivazioni in letteratura sono riportati
98
Cattedra di Chirurgia Vascolare,
UOC di Chirurgia Vascolare A, Policlinico Umberto I,
Università degli Studi “La Sapienza”, Roma
casi di TVS con eventi trombo-embolici con percentuali
molto variabili: si parla infatti di 6-44% di TVS associate a
TVP; eventi di EP asintomatica nel 20-33% dei casi; episodi di EP sintomatica nel 2-13% 1-7.
Purtroppo tale e tanta variabilità di incidenza percentuale
di complicanze ha portato spesso a sottovalutare il trattamento di tale patologia, senza che, peraltro, i numerosi
trials internazionali in questo campo abbiano fatto chiarezza su come affrontare e cercare di risolvere il problema 8-12, e senza che le linee guida societarie abbiano fornito dati su cui basare un comportamento terapeutico
certo ed uniforme 13.
Un tentativo per cercare di inquadrare e risolvere il problema potrebbe basarsi sulle seguenti osservazioni:
– oggi abbiamo a disposizione indagini ad ultrasuoni
estremamente attendibili (ecocolorDoppler) per una
diagnosi precisa e circostanziata della localizzazione
(sede ed estensione) dell’evento flebitico da trattare,
tenendo presente che in un gran numero dei casi (7080%) il quadro clinico, pur eclatante, sottovaluta l’estensione della trombosi nel circolo superficiale 14;
– la terapia locale va sempre attuata e si basa su bendaggi o calze elastiche, e mobilizzazione precoce;
– la terapia farmacologica sistemica può essere attuata
con anti-infiammatori non steroidei e/o eparina a
basso peso molecolare;
– il trattamento chirurgico dovrebbe essere effettuato in
urgenza solo in pazienti con trombosi recente e trombi
freschi nelle vene safene;
– il trattamento chirurgico, effettuato in anestesia locale
o loco-regionale, dovrebbe prevedere l’eventuale
trombectomia del circolo profondo, se coinvolto, la
legatura e la deconnessione della vena safena dal circolo profondo, la legatura dei collaterali safenici, la
varicectomia con l’asportazione dei gozzi varicosi
trombizzati. Solo così si ottiene una più rapida guari-
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
LA TROMBOSI VENOSA SUPERFICIALE DELLA VENA GRANDE SAFENA A LIVELLO DELLA CROSSE SAFENO-FEMORALE
gione, la riduzione dell’infiammazione e del dolore del
paziente.
La scelta fra trattamento farmacologico ed intervento chirurgico dovrebbe essere basata sulla base della classificazione in quattro stadi, suggerita da Verrel nel 2001 15. Lo
stadio I include varicoflebiti senza coinvolgimento delle
valvole giunzionali, all’inguine o al ginocchio, e le vene
profonde; lo stadio II comprende quelle trombosi che
arrivano sino alle valvole giunzionali delle vene safene;
nello stadio III il trombo è penetrato nelle vene profonde;
nel IV stadio la trombosi si estende nel circolo profondo
solo attraverso le vene perforanti. Negli stadi I e IV il trattamento dovrebbe essere conservativo nelle prime fasi
della TVS e la rimozione delle vene varicose dovrebbe
essere effettuata solo dopo la regressione del quadro clinico acuto. Gli stadi II e III, dovrebbero, viceversa, essere
considerati come un’urgenza chirurgica.
Va tenuto presente, altresì, che la chirurgia è a costi contenuti, rappresenta una procedura “definitiva” del trattamento della TVS e comporta una risoluzione rapida del
quadro sintomatologico del paziente, anche se sono stati
descritti rari episodi di EP, comunque non mortali, conseguenti all’atto operatorio e che quest’ultimo ha una morbilità attorno all’8% dei casi, rappresentata dalle infezioni
della ferita, seromi inguinali o ematomi 16. Forse per questo motivo, la terapia farmacologica a base di eparina a
basso peso molecolare, a dosi profilattiche, dovrebbe
avere un ruolo ancillare per le prime 4 settimane postoperatorie.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):100-1
Indicazioni attuali dei nuovi farmaci anticoagulanti
C. CIMMINIELLO
I nuovi farmaci anticoagulanti orali comprendono l’inibitore diretto della trombina, dabigatran etexilato, e l’inibitore diretto del fattore X attivato (Xa), rivaroxaban. Questi
due farmaci sono attualmente in commercio in Italia con
l’unica indicazione codificata per la profilassi del Tromboembolismo Venoso (TEV) in soggetti sottoposti a protesica elettiva d’anca o di ginocchio. In particolare, i due
farmaci menzionati non possono essere impiegati nella
terza indicazione della Chirurgia Ortopedica Maggiore, la
profilassi del TEV in soggetti con frattura d’anca. Del tutto
recentemente ai due farmaci citati, si è aggiunto un
nuovo inibitore diretto del Xa, apixaban, che è in commercio con le medesime indicazioni di dabigatran e rivaroxaban. I tre farmaci menzionati sono caratterizzati da
profili farmacocinetici assai differenti e che possono essere importanti nell’orientare le scelte cliniche. La biodisponibilità dei tre composti varia dal 6% di dabigatran (che è
un pro-farmaco) all’80% di rivaroxaban passando dal 60%
di apixaban. L’emività è simile ma con differenze significative: 7-11 ore per rivaroxaban, 12 ore per apixaban e
12-17 ore per dabigatran. Dabigatran e rivaroxaban devono essere somministrati una sola volta al giorno, mentre
apixaban richiede doppia somministrazione. L’eliminazione è renale per l’80% nel caso di dabigatran, per il 66% di
rivaroxaban e per il 25% di apixaban. Se si considerano
gli studi eseguiti nel modello clinico della protesica d’anca e di ginocchio, si rileva che dabigatran - utilizzato alla
dose di 150 o 220 mg/die con avvio post-operatorio - si
avvale di 4 studi di fase III: RE-NOVATE I, RE-MODEL e
RE-MOBILIZE cui si è aggiunto più di recente il RENOVATE II. I risultati dei primi tre studi hanno mostrato
che dabigatran è efficace quanto enoxaparina impiegata
secondo lo schema europeo (4000 U/die avviata prima
dell’intervento) nel prevenire TEV e mortalità generale ed
è meno efficace di enoxaparina se impiegata secondo lo
schema nordamericano (3000 U due volte al giorno con
inizio post-operatorio) in protesica di ginocchio. La sicurezza sul versante delle emorragie maggiori è risultata
pari a quella di enoxaparina. Va sottolineato che il programma di sviluppo di dabigatran prevedeva che i protocolli includessero la registrazione delle complicanze
emorragiche in sede di intervento tra gli end-point mag100
Dipartimento Internistico P.O. Vimercate,
AO di Desio e Vimercate (MB)
giori di sicurezza. Come per tutti gli altri nuovi anticoagulanti, la durata della profilassi in protesica di ginocchio si
limitava a 2 settimane che è una durata ridotta rispetto
alle 5 settimane oggi consigliate dalle linee guida. Il più
recente RE-NOVATE II, condotto con dabigatran alla sola
dose di 220 mg in confronto ad enoxaparina secondo
schema europeo in protesica d’anca, ha confermato la
pari efficacia e sicurezza dei due farmaci a confronto.
Rivaroxaban è stato sviluppato nell’ambito di un programma denominato RECORD che prevedeva 4 studi, il
RECORD 1 ed il RECORD 2 in protesica d’anca ed il
RECORD 3 e 4 in protesica di ginocchio, Rivaroxaban,
che era utilizzato costantemente alla dose di 10 mg con
avvio post-operatorio, si mostrava più efficace di enoxaparina, sia impiegata con lo schema nordamericano che
con quello europeo. Non si registrava un aumento significativo delle emorragie maggiori nel braccio rivaroxaban,
ma le emorragie in sede di intervento non venivano
incluse nella valutazione di sicurezza di questi studi.
Apixaban è stato sviluppato nel corso di 3 studi ADVANCE 1, 2 e 3 che hanno valutato questo inibitore diretto
del fattore Xa, somministrato nel post-operatorio alla dose
di 2.5 mg due volte al giorno, con enoxaparina impiegata
sia con lo schema nordamericano sia con quello europeo.
Gli studi ADVANCE 1 e 2 hanno valutato il nuovo farmaco nel modello della protesica elettiva di ginocchio non
riuscendo - nell’ADVANCE 1 - a dimostrare la non inferiorità di apixaban rispetto ad enoxparina alla dose di 3000
U due volte al giorno. Peraltro la frequenza di emorragie
maggiori risultava, sempre nell’ADVANCE 1, significativamente più elevato nei trattati con enoxaparina rispetto a
quelli trattati con apixaban. Nello studio ADVANCE 2 il
confronto di apixaban con enoxaparina impiegata secondo lo schema europeo ha mostrato la non inferiore efficacia di apixaban e la pari sicurezza nei confronti delle
complicanze emorragiche. Nello studio ADVANCE 3
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
INDICAZIONI ATTUALI DEI NUOVI FARMACI ANTICOAGULANTI
apixaban è stato confrontato con enoxaparina impiegata
secondo lo schema europeo nei pazienti sottoposti a protesica d’anca. L’end point composto dall’insieme di TEV,
sintomatico e non, e mortalità generale, risultava significativamente meno frequente nei trattati con apixaban
mentre le complicanze emorragiche non risultavano differenti nei due gruppi a confronto. Non esistono studi
testa a testa di confronto tra i nuovi anticoagulanti Una
recente metanalisi degli studi citati relativi a dabigatran e
rivaroxaban (con esclusione del RE-NOVATE II) ha concluso per una pari efficacia di enoxaparina e dabigatran
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
CIMMINIELLO
per quanto riguarda l’end point TEV sintomatico e mortalità generale. Altrettanto sovrapponibili le complicanze
emorragiche maggiori e quelle clinicamente rilevanti
(quindi comprese le emorragie in sede operatoria). Per
converso rivaroxaban risultava più efficace di enoxaparina nel ridurre TEV sintomatico e morte ma anche le complicanze emorragiche risultavano significativamente più
frequenti nei trattati con rivaroxaban rispetto ad enoxaparina se si considerava l’end-point composito costituito
dalle emorragie maggiori e da quelle clinicamente rilevanti.
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):102-3
Il fondaparinux nel trattamento della tromboflebite
superficiale: lo studio CALISTO
P. PRANDONI, I. MINOTTO, R. PESAVENTO
La trombosi venosa superficiale (TVS) è stata considerata
per molto tempo una condizione morbosa di scarso valore clinico e trattabile in modo sostanzialmente discrezionale, dall’antibioticoterapia all’uso di FANS fino alla somministrazione di anticoagulanti alle dosi più diverse o
ricorrendo alla chirurgia. In realtà la TVS, probabilmente
con la sola esclusione della flebite indotta da sostanze
chimiche, rappresenta una forma di tromboembolismo
venoso (TEV) a prognosi generalmente benigna e si associa con una certa frequenza alla trombosi venosa profonda (TVP), può essere complicata da una embolia polmonare (EP) e talora è la prima manifestazione di patologie
pro-trombotiche maggiori.
Il recente interesse manifestato nel campo della ricerca
clinica per la cura della TVS è sostanzialmente dovuto
allo sviluppo di tale consapevolezza. Risalgono al periodo 1999-2003 i primi studi dedicati al trattamento della
TVS, i cui risultati non riescono a mostrare la superiorità
di una specifica terapia rispetto ad un’altra, fra quelle
valutate 1-3.
Studi recenti
Nel 2003 furono pubblicati i risultati dello studio Stenox 4,
uno studio randomizzato, di confronto fra 4 schemi di trattamento (enoxaparina a dosaggi diversi o trattamento
antiinfiammatorio non steroideo per via orale per 10 giorni vs. nessun trattamento) in pazienti con TVS con o senza
varicoflebite, successivamente seguiti per 3 mesi. Sfortunatamente il mancato raggiungimento del campione statistico prefissato (furono reclutati 436 pazienti sui 1200 previsti) ha fortemente limitato la possibilità di identificare differenze statisticamente significative e clinicamente rilevanti
tra i gruppi di trattamento. In ogni caso il trattamento farmacologico è risultato più efficace rispetto all’assenza di
trattamento nel ridurre l’estensione prossimale della TVS e
ha mostrato una tendenza statisticamente non significativa
alla riduzione di eventi tromboembolici maggiori; tale tendenza si manifestava d’altra parte solo inizialmente ed il
potenziale vantaggio della terapia farmacologica si annullava dopo la sospensione del trattamento.
Nel 2005 furono pubblicati i risultati dello studio Vesalio 5,
uno studio multicentrico randomizzato in doppio cieco di
102
Dipartimento di Scienze Cardiologiche,
Toraciche e Vascolari, Clinica Medica II,
Università degli Studi di Padova
trattamento della TVS della grande safena con nadroparina a dosi terapeutiche vs dosi profilattiche somministrate
per 30 gg, un periodo di tempo volutamente maggiore di
quello adottato nello studio Stenox, nell’ipotesi di una
maggiore efficacia del trattamento anche dopo la sospensione del farmaco. Anche il Vesalio fu prematuramente
interrotto per difficoltà di arruolamento, con i conseguenti limiti interpretativi già visti nello Stenox ed ottenendo
risultati simili: l’iniziale evidente beneficio nel gruppo di
trattamento con nadroparina ad alte dosi veniva perso nei
due mesi successivi alla sospensione del trattamento. In
entrambi gli studi il trattamento farmacologico mostrava
un buon profilo di sicurezza. I risultati interlocutori di
questi studi e la conferma della presenza di un significativo tasso di complicanze tromboemboliche sintomatiche
presentato dai pazienti arruolati nello Stenox (14/427,
3,3%) e nello studio Vesalio (5/164, 3,1%) durante il follow-up di tre mesi, indipendentemente dal trattamento
assegnato, certamente mostravano la necessità di ulteriori
studi clinici, opportunamente disegnati in modo tale da
consentire un ampio reclutamento di pazienti con TVS, il
confronto di un farmaco antitrombotico vs placebo ed
una adeguata durata di trattamento.
Lo studio CALISTO
Con tali premesse veniva avviato nel 2007 uno studio
multicentrico internazionale randomizzato in doppio
cieco di ampie proporzioni, lo studio CALISTO i cui risultati sono stati pubblicati in questi giorni sul prestigioso
New England Journal of Medicine 6. Lo studio ha arruolato 3002 pazienti con TVS acuta isolata degli arti inferiori,
successivamente randomizzati a ricevere una dose giornaliera di fondaparinux o placebo per 45 giorni, un periodo
di tempo ritenuto idoneo ad evitare il fenomeno di
“catch-up” osservato negli studi precedenti. Di particolare
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IL FONDAPARINUX NEL TRATTAMENTO DELLA TROMBOFLEBITE SUPERFICIALE: LO STUDIO CALISTO
interesse è stata la scelta di un dosaggio giornaliero di
fondaparinux generalmente ritenuto profilattico, pari a 2,5
mg. L’end-point primario di efficacia era rappresentato da
un composito di morte per ogni causa, EP sintomatica,
TVP sintomatica, estensione sintomatica della TVS alla
giunzione safeno-femorale, e recidiva di TVS entro i primi
47 giorni. Gli end-point secondari di efficacia erano rappresentati dall’ endpoint primario a 77 giorni , da ogni
singolo componente dell’endpoint primario e da un composito di EP sintomatica, TVP sintomatica e chirurgia
della TVS L’endopoint primario di sicurezza era rappresentato dall’incidenza di emorragia maggiore. Il follow up
è stato di 77 giorni.
L’incidenza dell’endpoint primario di efficacia al termine
del trattamento è stata pari a 0,9% (13/1502 pazienti) nel
gruppo trattato con fondaparinux e 5,9% (88/1500
pazienti) nel gruppo trattato con placebo, pari ad un
rischio relativo nel gruppo trattato di 0,15 (95% CI: 0.080.26; P<0,001) ed un numero di pazienti da trattare per
prevenire un evento (NNT) di 20. A differenza di quanto
osservato negli studi precedenti, il beneficio del trattamento farmacologico è rimasto significativo anche dopo
la sospensione del trattamento, con un’incidenza di eventi a 77 giorni di 1,2% (18/1502) nel gruppo di trattamento
e di 6,3% (94/1500) nel gruppo placebo (RR 0.19;95% CI:
0,12-0,32; P<0,001). Nel gruppo trattato con fondaparinux
il rischio relativo del composito di EP e TVP è risultato
ridotto dell’ 85% (0,2% vs 1.3%; 95%IC:50-95%; P<0,001;
NNT 88). Anche in questo caso il beneficio si è mantenuto dopo la sospensione del trattamento. Globalmente vi
sono state 6 EP nel gruppo placebo e nessuna nel gruppo
di trattamento. In 54 pazienti appartenenti al gruppo placebo ed in 5 appartenenti al gruppo di trattamento la TVS
si è estesa alla giunzione safeno-femorale (RR 0.09;
95%CI:0.04-0.23; P< 0,001). Una significativa riduzione del
rischio relativo durante il trattamento è stata inoltre dimostrata nei confronti dell’estensione della TVS alla giunzione safeno-femorale, della recidiva di TVS e della legatura
chirurgica safenica. Nonostante il confronto verso placebo, non sono state registrate differenze significative nel
tasso di emorragie, con una emorragia maggiore presente
in ogni gruppo. L’incidenza di eventi avversi seri non
fatali è risultata leggermente maggiore nel gruppo trattato
con placebo (1,1%) rispetto a quello trattato con fondaparinux (0,7%). Non sono state osservate, infine, differenze
nella mortalità per ogni causa fra i due gruppi, risultata
pari allo 0,1%.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
PRANDONI
Dunque, il trattamento della TVS acuta con 2,5 mg di fondaparinux sc 1 volta al dì per 6 settimane, è risultato efficace, sicuro, ben tollerato, ampiamente applicabile ed in
grado di offrire una protezione prolungata ai pazienti
affetti. Una certa prudenza nel traslare i risultati dello studio CALISTO nella pratica medica potrebbe insorgere
dalla constatazione che le complicanze clinicamente
significative sono state relativamente rare anche nel gruppo di pazienti trattato con il placebo (NNT per TEV sintomatico di 88) ma non si può non rammentare che un
numero piuttosto elevato di pazienti ha interrotto il trattamento sperimentale in cecità ed è stato successivamente
e prevalentemente trattato con anticoagulanti in forza del
raggiungimento di uno degli end-point predefiniti, l’
estensione prossimale della trombosi alla giunzione safeno-femorale. È pertanto del tutto probabile che in assenza di un trattamento anticoagulante una frazione significativa di questi pazienti avrebbe sviluppato delle complicanze tromboemboliche maggiori. I risultati dello studio
CALISTO sono, a nostro parere rilevanti perché consentono di avere finalmente a disposizione una terapia della
TVS semplice, efficace e soprattutto verificata sperimentalmente.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
103
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0 - indice 15-11-2011 18:10 Pagina 1
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3 - comunicazioni orali 16-11-2011 11:08 Pagina 105
COMUNICAZIONI
ORALI
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3 - comunicazioni orali 16-11-2011 11:08 Pagina 106
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3 - comunicazioni orali 16-11-2011 11:08 Pagina 107
ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):107-8
Tromboendarterectomia e stenting carotideo.
Esperienza monocentrica
G. LA BARBERA1, M. VALLONE2, G. FERRO1, F. VALENTINO1, F. FALLEA1, L. CASSARO1, D. M. PARSAI1, G. LA MARCA1
Negli ultimi anni la rivascolarizzazione endovascolare con
stent (CAS) delle stenosi carotidee si è proposta come
alternativa alla rivascolarizzazione chirurgica (TEA). I
risultati del CAS, con protezione neurologica, in paz con
elevato rischio chirurgico, sono apparsi sovrapponibili
alla TEA1. Di contro diversi trials, su pazienti sintomatici,
hanno mostrato l’incidenza di maggiore rischio periprocedurale nel CAS2-4. Ad oggi la rivascolarizzazione carotidea
tramite PTA + stent è indicata in casi selezionati e presso
centri ad alto volume di procedure. Lo stent carotideo e
la TEA sono tutt’ora oggetto di confronto nei trials internazionali. Riportiamo i nostri risultati immediati e a
distanza.
Materiali e metodi
Da gennaio 2006 a Dicembre 2010, 325 pz (225 uomini –
100 donne), età media 71,5 aa, sono stati sottoposti a
rivascolarizzazione carotidea. Abbiamo confrontato il
Gruppo 1 (PTA + Stent): 100 pz, e il Gruppo 2 (TEA): 225
pz. Abbiamo valutato gli “end points” postoperatori a 30
gg (tasso di mortalità e deficits neurologici) confrontandoli con le variabili preoperatorie. Inoltre abbiamo valutato la comparsa di IMA a 30 gg nei 2 gruppi. Nel FU
abbiamo valutato il tasso di sopravvivenza, di restenosi e
di libertà da stroke
Risultati
L’età media del Gruppo 1 era maggiore (74.7 vs 69.6 aa;
p<,005). Nel postoperatorio 1 pz è deceduto nel gruppo 1
mentre nessun pz nel Gruppo 2, (tasso di mortalità 1,2%
vs 0%).
Un maggior tasso di complicanze postoperatorie è stato
rilevato nel:
– Gruppo 1, pz =>75 aa (10% vs 0%) p<.05 rispetto il
Gruppo 2 (3% vs 4%) p=ns,
– Gruppo 1, >2 malattie associate (12% vs 2%) p<.05
rispetto il Gruppo 2 (2% vs 5%) p=ns,
– Gruppo 1, BAC (33% vs 4%) p<.005 rispetto il Gruppo
2 (14% vs 4%) p.05,
per quanto riguarda gli IMA a 30 gg abbiamo riportato
nel gruppo 1, un tasso di 1,1% vs nel Gruppo 2 di 0,4%
(p=ns).
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1U.O.C. di Chirurgia Vascolare,
Ospedale Civico Benfratelli, Palermo
2Sezione di Radiologia Interventistica,
Ospedale Civico Benfratelli, Palermo
Nel FU a 6 aa (medio di 40 m) abbiamo ottenuto un tasso
attuariale di sopravvivenza, di restenosi, e di libertà da
stroke, rispettivamente del 92%, 90% e 91% nel gruppo 1,
e del 93%, 93% e 93% nel gruppo 2.
Conclusioni
Ad oggi diversi trials clinici, conclusi ed in corso, suggeriscono un atteggiamento più selettivo nell’indicazione al
CAS.
Nella nostra esperienza abbiamo registrato un maggior
tasso di complicanze postoperatorie, in termini di mortalità e stroke, nei paz anziani (>75 aa) trattati con CAS
(10% vs 3%; p<05).
Allo stesso risultato pervengono gli Autori dello studio
CSTC5, nella loro metanalisi sui paz sintomatici, nella
valutazione ITT, ove registrano una tasso cumulato di
stroke e/o exitus, nei 120 gg successivi al CAS vs TEA,
che risulta essere sovrapponibile nei 2 gruppi se i paz
hanno un’età <a 70 aa (5,8% vs 5,7%) mentre risulta statisticamente maggiore nel gruppo CAS se i paz hanno
un’età >a 70 aa (12% vs 5,9%), p <.005, con un incremento,a 120 gg, del Rischio Relativo del 50% e del Rischio
Assoluto 6,1%.
I risultati sono pressoché analoghi se consideriamo gli
Autori dello studio CREST6, che nei 1321 paz sintomatici,
hanno evidenziato un tasso combinato di mortalità e
stroke a 30 gg, dopo la randomizzazione del 6% nei paz
CAS e 3,2% nei paz TEA (p<,02).
Nello studio CSTC (5) gli IMA sono stati pressochè
sovrapponibili nei 2 gruppi (CAS 0,3% vs TEA 0,4%;
p=ns). Nel ns studio riportiamo un tasso di 1,1% nel
gruppo 1 e 0,4% nel gruppo 2, in assenza di significatività
statistica.
Mentre nel suddetto studio non viene evidenziato alcun
altro sottogruppo di paz che evidenzi relazione significati-
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
LA BARBERA
TROMBOENDARTERECTOMIA E STENTING CAROTIDEO. ESPERIENZA MONOCENTRICA
va con i risultati, nella ns esperienza anche la presenza di
malattie associate e di pregressi BAC sono gravati da un
tasso di mortalità e deficits neurologici significativamente
maggiori nel gruppo 1 in confronto al Gruppo 2, rispettivamente 12% vs 2% (p<.05) e 33% vs 14% (p,05). Ma a
questo riguardo dobbiamo osservare che l’incidenza di
malattie associate e di coronaropatie che richiedono un
BAC si incrementa parallelamente all’età.
Lo studio CREST6 nel FU medio a 2.5 aa, sul totale dei
paz, ha registrato tassi sovrapponibili nel CAS vs TEA, del
tasso combinato di stroke periprocedurali, IMA, Exitus o
stroke ipsilaterale.
Analogamente nel ns FU medio a 40 mm abbiamo riportato un tasso attuariale di sopravvivenza, di restenosi, e di
libertà da stroke, rispettivamente del 92%, 90% e 91% nel
gruppo 1, e del 93%, 93% e 93% nel gruppo 2.
In conclusione, ad oggi, nel trattamento con CAS, l’età
superiore a 70 aa, nei paz con stenosi carotidee sintomatiche, deve essere considerato un fattore di rischio
per risultati peggiori, quindi la TEA carotidea in questi
paz deve essere considerata come “first option treatment”.
108
Bibliografia
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N Engl J med 2004;351:1493-501.
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symptomatic carotid stenosis (International Carotid Stenting
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endarterectomy for treatment fo carotid-artery stenosis. N
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):109
Le complicanze infettive dopo evar:
la nostra esperienza nell’interessamento
dell’aorta sopra-renale
L. UKOVICH1, K. NIKOLAKOPOULOS1, C. CERA1, F. POZZI MUCELLI2, S. CHIARANDINI1, R. ADOVASIO1
L’infezione dell’endoprotesi aortica rappresenta un problema aperto di difficile risoluzione in quanto i pazienti
candidati a trattamento endovascolare presentano condizioni generali che spesso non permettono trattamenti
aggressivi.
Obiettivo
Presentare la nostra esperienza nel trattamento delle infezioni endoprotesiche dell’aorta addominale. Scarsa è la
letteratura, l’incidenza risulta essere <1%1,2. Il trattamento
è complesso sia per le condizioni generali del paziente
sia per la sede anatomica che può essere coinvolta.
Materiali e metodi
Nel periodo Gennaio 2000- Aprile 2011 sono stati eseguiti
350 interventi di EVAR. Le endoprotesi prevalentemente
impiantate sono state: Talent 57%, Endurant 19%, Excluder
14%, Anaconda 4% e Aneurix 3%. La diagnosi è stata fatta
su base clinica, esami ematochimici, emocolture e AngioCT.
Risultati
Sono stati riscontrati 3 casi (0,7%) di infezione protesica.
Tutti maschi, di età media di 77±4 anni. Il periodo di
tempo medio intercorso tra l’intervento e la diagnosi di
infezione è stato di 32 mesi (range 34-60). In un paziente
l’infezione è conseguita a 2 trattamenti endovascolari di
embolizzazione di arterie lombari, causa di endoleak di II
tipo. Tutti i pazienti sono stati trattati inizialmente con
antibiotico-terapia mirata. I microrganismi isolati all’emocoltura sono stati: Salmonella Typhi, Escherichia Coli,
Staphilococcus Aureus Coagulasi Negativa, Acinectobacter
Baumanii. Due pazienti hanno avuto un interessamento
dell’aorta sopra-renale (ambedue protatori di protesi
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1U.C.O. Chirurgia Vascolare,
Ospedale di Cattinara, Trieste
2U.C.O. Radiologia, Ospedale di Cattinara, Trieste
Talent) e sono stati trattati con cuffia prossimale. In un
caso associata a bypass spleno-mesenterico, nell’altro a
embolizzazione della sacca dello pseudoaneurisma.
Entrambi operati i pazienti sono deceduti rispettivamente
in prima giornata post-operatoria per peritonite da salmonella e il secondo in XI giornata per MOF. Il terzo paziente è deceduto per rottura posteriore di aneurisma da suppurazione della parete poche ore dopo il ricovero.
Conclusioni
In letteratura ci sono riferimenti solo ad infezioni dell’aorta sottorenale. La singolarità dei casi giunti alla nostra
osservazione sta nel fatto che in due pazienti, trattati con
free-flow soprarenale e probabilmente per questo motivo,
l’infezione si è propagata all’aorta soprarenale rendendo
complesso il trattamento.
Bibliografia
1. Cernohorsky P, Reijnen MM, Tielliu IF, Sterkenburg SM, van
den Dungen JJ, Zeebregts CJ. The relevance of aortic endograft prosthetic infection. J Vasc Surg. 2011 Mar 10 (Epub
ahead of print).
2. Hobbs SD, Kumar S, Gilling-Smith GL. Epidemiology and
diagnosis of endograft infection. J Cardiovasc Surg (Torino),
2010 Feb; 51(1): 5-14.
3. Laser A, Baker N, Rectenwald J, Eliason JL, Criado-Pallares E,
Upchurch GR Jr. Graft infection after endovascular abdominal aortic aneurysm repair. J Vasc Surg 2011 Feb 1 (Epub
ahead of print).
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):110-1
Una complicanza rara post-stenting dell’arteria
succlavia: la sindrome da iperafflusso cerebrale
L. UKOVICH1, M. NACCARATO2, B. ZIANI1, K. NIKOLAKOPOULOS1, C. CERA1, G. GIACOMEL1,
A. CALGARO3, R. ADOVASIO1
Revisionando la letteratura abbiamo trovato rari casi di
sindromi da iperafflusso cerebrale dopo procedura endovascolare di ricanalizzazione dell’arteria succlavia complicati con emorragia intracerebrale e subaracnoidea. Sundt
fu il primo a descrivere la sindrome da iperperfusione
cerebrale nel 1975 in 5 pazienti sottoposti a endoarterectomia carotidea che nel post-operatorio avevano manifestato emicrania, segni neurologici di lateralità focale transitori e emorragia intracranica3. Oggi questa sindrome
colpisce il 0,3-1% dei pazienti sottoposti a endoarterecotmia carotidea; nulla si sa sulla reale incidenza nei pazienti
sottoposti a rivascolarizzazione endovascolare di arterie
afferenti al cervello.
1U.C.O. Chirurgia Vascolare,
Ospedale di Cattinara, Trieste
2U.C.O. Neurologia, Ospedale di Cattinara, Trieste
3U.C.O. Radiologia, Ospedale di Cattinara, Trieste
Materiali e metodi
Una donna di 64 anni con esiti di emiparesi destra in
recente ICTUS cerebri, sottoposta a endoarterectomia
carotidea sinistra un mese prima si presenta alla nostra
attenzione per occlusione cronica dell’arteria succlavia
sinistra. La sintomatologia riferita dalla paziente è di clau-
Figura 1. – Angiografia e angioplastica con stenting dell’arteria succlavia sinistra: ostruzione dell’arteria dell’arteria succlavia sinistra
all’origine, estesa per circa 3,5 cm. Inserimento di stent Smart-Cordis 7 x 40 mm e sua dilatazione. Il controllo finale documenta rivascolarizzazione dell’arteria succlavia sinistra.
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UNA COMPLICANZA RARA POST-STENTING DELL’ARTERIA SUCCLAVIA: LA SINDROME DA IPERAFFLUSSO CEREBRALE
UKOVICH
Figura 2. – Tc diretto capo post-procedura: presenza di emorragia in sede tipica con interessamento dei nuclei talamici, con maggior
coinvolgimento di quello sinistro. Versamento emorragico endoventricolare soprattutto del ventricolo laterale sinistro. Si associano
inoltre micro-petecchie emorragiche sia a livello cerebellare bilateralmente, sia in sede occipitale bilateralmente.
dicatio dell’arto superiore sinistro durante le normali attività quotidiane. La paziente è affetta da diabete mellito,
ipertensione arteriosa in trattamento farmacologico e
fuma 20 sigarette al giorno. Viene ricoverata presso la
nostra struttura per essere sottoposta a procedura endovascolare di rivascolarizzazione dell’arteria succlavia. La
pressione arteriosa misurata a livello dell’arto superiore
destro prima della procedura è di 130/80 mmHg. Durante
la procedura endovascolare la pressione arteriosa viene
monitorizzata e si notano dei picchi ipertensivi che raggiungono 190/90 mmHg. La procedura viene portata a
termine senza difficoltà tecniche, riuscendo a ricanalizzare l’arteria succlavia sinistra e rilasciando a questo livello
uno stent Smart Cordis 7 x 40 mm.
Risultati
Nell’immediato post-operatorio la paziente riferisce forte
emicrania, non controllabile con paracetamolo (1 g) e.v.
Dopo 15 minuti la paziente presenta vomito a getto, perdita
di coscienza e segni neurologici di focalità transitoria. Viene
quindi eseguita una TC cerebrale senza m.d.c. che evidenzia vasta emorragia endoventricolare con micro-petecchie
emorragiche sia a livello cerebellare, sia a livello occipitale
bilateralmente. La TC ripetuta a distanza di 24h evidenzia
una stabilità del quadro radiologico. La sintomatologia lentamente regredisce, la paziente riprende coscienza, deambula, permane lieve afasia e la paziente viene trasferita in
riabilitazione a distanza di 45 giorni dall’evento emorragico.
Discussione
La sindrome da iperafflusso cerebrale è una seria complicanza della rivascolarizzazione cerebrale. Sono stati identificati due meccanismi sinergici che possono portare allo
sviluppo di questa sindrome: la mancata autoregolazione
del flusso cerebrale e l’ipertensione arteriosa post-operatoria. È stato dimostrato che in pazienti con graduale
diminuzione della pressione di perfusione cerebrale
dovuta a stenosi croniche, le arteriole cerebrali sono dilatate e perdono la capacità di vasocostrizione nel caso in
cui venga ristabilita una pressione di perfusione normale.
Questo può portare a iperemia del tessuto cerebrale con
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
incremento della pressione intracranica e alla rottura delle
arteriole con emorragia cerebrale multi-focale4-5.
Nel caso da noi riportato, la paziente, precedentemente
sottoposta a endoarterectomia carotidea, veniva sottoposta a disostruzione della succlavia, aumentando quindi la
pressione di perfusione cerebrale evidentemente non
auto-regolata dalle arteriole cerebrali. Inoltre il picco ipertensivo registrato durante la procedura ha aumentato
ulteriormente la pressione cerebrale.
I pazienti a rischio per la sindrome da iperafflusso cerebrale non sono facilmente identificabili2. Si è suggerito
che i probabili fattori di rischio possano includere l’ipertensione arteriosa, la stenosi serrata o la occlusione del
segmento da rivascolarizzare e i segni di ischemia cronica
cerebrale. Fino ad ora questi fattori di rischio non sono
stati associati in letteratura alla rivascolarizzazione dell’arteria succlavia, essendo una procedura poco comune. I
criteri di selezione dei pazienti per questa procedura non
sono universalmente noti. Sono necessari studi con maggior casistica per poter identificare i pazienti a rischio per
questa seria complicanza e per poterla evitare. Inoltre
uno stretto monitoraggio intra- e post-operatorio permettono una tempestiva diagnosi e un rapido trattamento
della sindrome da iperafflusso cerebrale, cercando di
limitare i danni cerebrali.
Bibliografia
1. Meyers P, Higashida R, Phatouros C, Malek A, Lempert T,
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2. Salerno J, Vitek J. Fatal cerebral hemorrhage early after sublcavian artery endovascular therapy. Am J Neuroradiol 26:
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):112-3
Complicanze iatrogene nel trattamento endovascolare
J. CLERISSI, C. MASSA SALUZZO, A. RAGAZZONI, A. LA ROSA, C. SCOTTI, M. DONDI, S. CIRULLI, R. MOIA
L’approccio endovascolare è entrato ormai nella routine
diagnostico-terapeutico di malattie vascolari quali ad
esempio la coronaropatia, la patologia aneurismatica e
l’arteriopatia obliterante cronica periferica, per le quali la
procedura mini-invasiva può rappresentare, in casi selezionati, la tecnica di prima scelta oppure un’eccellente
alternativa alla chirurgia invasiva.
La prospettiva di un ottimale rapporto costo-beneficio,
soprattutto per quei pazienti che presentano numerose
comorbidità di notevole impatto clinico, rende il trattamento endovascolare di largo impiego nella pratica diagnostico-terapautica.
Tuttavia tale approccio non è esente da rischi, connessi
sia alla procedura in sé che al corollario di eventi fisiopatologici che si possono verificare in alcuni pazienti a
seguito di manovre strumentali anche poco invasive,
quale appunto l’angiografia.
Considerando in particolare le procedure di rivascolarizzazione del distretto arterioso periferico, le complicanze
significativamente associate possono essere distinte in
locali e sistemiche. Le prime a loro volta comprendono le
complicanze del sito d’accesso, per le quali in letteratura
è riportata un’incidenza del 4%, e quelle al sito di intervento (angioplatica ed eventuale stenting), con un’incidenza pari al 3,5%. In seguito a puntura arteriosa, nello
specifico, l’evenienza più frequente è rappresentata da
formazione di pseudoaneurisma (0,5%) seguito da fistola
artero-venosa (0,1%). Per quanto riguarda invece le problematiche a distanza dal sito d’accesso si tratta di complicanze connesse alla dilatazione del device: in particolare formazione di trombi (3,2%) e rottura del vaso (0,3%).
A carico del tratto distale del vaso dilatato si possono
inoltre verificare embolizzazioni (2,3%) e dissezioni
(0,4%).
Più raro ma estremamente importante dal punto di visto
prognostico è il secondo gruppo di complicanze, che
prevede un interessamento di tipo sistemico: i principali
coinvolgimenti sono quello cardiaco (0,2%), renale (0,2%)
e cerebrovascolare (0,55%).
In generale si può affermare che le complicanze dipendono essenzialmente da fattori connessi da una parte alla
selezione del paziente (e talvolta alla non accurata valuta112
Pavia
zione del rischio globale che la procedura comporta),
dall’altra all’abilità dell’operatore e alla sua capacità di
discernere correttamente l’accesso più indicato per quel
tipo di procedura e il calibro della strumentazione utilizzata.
Casistica
Nella nostra esperienza abbiamo analizzato i casi di complicanze peri e post-procedurali in corso di angiografie
per rivascolarizzazioni di distretti periferici (1095 casi,
87,1%) e carotidei (119 casi, 9,5%), per embolizzazioni di
fibromi uterini (4 casi, 0,3%) e di varicoceli scrotali (13
casi, 1,1%) e per il trattamento di formazioni e malformazioni aneurismatiche viscerali e periferiche (26 casi, 2%),
relativamente al periodo gennaio 2001 - aprile 2011.
Sul totale dei casi trattati (1257) abbiamo riscontrato 16
complicanze. Tali complicanze sono state: formazione di
pseudoaneurisma (7 casi 0,5%), trombosi a livello del
device (5 casi, 0,4%), rottura dell’arteria in sede di dilatazione del palloncino (2 casi, %), emorragia retroperitoneale (1 caso, 0,08%), embolia cerebrovascolare (1 caso,
0,08%).
Abbiamo escluso dalla nostra casistica la semplice ecchimosi in sede di accesso angiografico, per la quale si è
provveduto ad applicazione di borsa del ghiaccio per 2
ore, manovra sufficiente a ridimensionare la perdita ematica. La distinzione tra soffusione ecchimotica e raccolta
ematica vera e propria è stata effettuata sulla base del
dato obiettivo derivante dalla palpazione dell’inguine
(presenza di tumefazione discreta in caso di ematoma) e,
nei casi dubbi, basandoci sul dato ecografico.
Per gli ematomi si è provveduto ad effettuare immediatamente un’incisione inguinale, previa anestesia locale,
ricostituendo la continuità del vaso leso con punti di
sutura 2-0.
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
COMPLICANZE IATROGENE NEL TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE
Nel caso degli pseudoaneurismi si è invece proceduto
con una nuova seduta angiografica, durante la quale si è
embolizzata la lesione attraverso iniezione intrasacca di
trombina.
Per i casi di rottura dell’arteria si è provveduto in urgenza
alla sutura della soluzione di continuo in chirurgia open.
Nel casi di emorragia retroperitoneale, previo accertamento mediante TC addome, si è resa necessaria la trasfusione di 2 sacche di globuli rossi concentrati, oltre alla
sutura diretta della lesione.
Risultati e discussione
Dopo il trattamento specifico in tutti i casi di ematomi e
pseudoaneurismi non si sono verificate ulteriori lesioni. Il
follow-up ha previsto un controllo obiettivo e, quando
necessario, strumentale mediante indagine ecografica a 7
giorni e a 30 giorni dalla procedura. In tutti i casi non si
sono resi necessari ulteriori provvedimenti specifici.
Nei pazienti con trombosi si è verificato un nuovo episodio trombotico in un caso, a distanza di 2 mesi dal trattamento, in sede poplitea. Per i pazienti andati incontro ad
emorragia retroperitoneale e a rottura arteriosa non ci
sono state ulteriori complicanze.
I pazienti che hanno riportato complicanze presentavano
tali fattori di rischio: ipertensione arteriosa (59 casi,
69,4%), fibrillazione atriale cronica condizionante una
TAO precedente al trattamento (12 casi, 14,1%), iperomocisteinemia (6 casi, 7%).
Dalla nostra esperienza emerge che la complicanza in
assoluto più frequente è la formazione di pseudoaneurismi in sede di accesso angiografico. Nella valutazione dei
possibili meccanismi che hanno portato a tale complicanza, l’ipotesi più probabile è la mobilizzazione della medicazione compressiva, dovuta alla scarsa compliance di
questi pazienti, i quali hanno avuto difficoltà a mantenersi allettati durante le 24 ore post-procedurali. In ogni caso
tale complicanza può essere prontamente trattata con una
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
CLERISSI
percentuale di successo del 100%. All’estremo opposto si
è verificata una complicanza mortale, sebbene non sia
certa la correlazione con la procedura, potendosi trattare
di un episodio embolico indipendente.
Conclusioni
Il trattamento endovascolare è una tecnica diagnosticoterapeutica caratterizzata da una bassa incidenza di complicanze e da una bassa mortalità peri e post-procedurale.
L’incidenza complessiva di complicanze, nella nostra
esperienza, è risultata del 6,7%, in linea con i dati riportati in letteratura. La procedura angiografica è pertanto da
considerarsi di prima scelta in tutti i pazienti in cui l’intervento chirurgico è sconsigliato per gravi comorbidità e
rimane una valida alternativa alla chirurgia tradizionale
per la bassa invasività e per la ripetibilità in caso di restenosi.
Bibliografia
1. Borioni R, Garofalo M, De Paulis R, Albano P, Chiariello L.
Pseudoaneurismi iatrogeni delle arterie periferiche. Chirurgia
Italiana 2008 – vol. 60 n.1 pp 103-111.
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6. Mastering endovascular tecniques: A guide to excellence,
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):114-5
Embolia polmonare
da trombosi venosa giugulare idiopatica
D. TONELLO1, B. ZALUNARDO1, S. CESARI2, S. IRSARA3, L. ZOTTA1, F. BUSATO1, F. BARATTO3,
C. BIASUTTI2, A. VISONÀ1
La trombosi venosa giugulare (TVG) è frequentemente
secondaria a cateterismo venoso, estensione del processo
trombotico da vasi contigui o compressione esterna in
corso di patologia infettiva o neoplastica. L’evento idiopatico è molto raro e la sua storia naturale è sconosciuta.
1U.O.D.
Angiologia, Ospedale S. Giacomo,
Castelfranco Veneto (TV)
2U.O.C. Radiologia, Ospedale S. Giacomo,
Castelfranco Veneto (TV)
3U.O.D. Chirurgia Vascolare, Ospedale S. Giacomo,
Castelfranco Veneto (TV)
Caso clinico
Una donna di 87 anni, affetta da ipertensione arteriosa
senza precedenti di salute rilevanti, si presentava in Pronto Soccorso per tumefazione dolente in sede laterocervicale sinistra comparsa da una settimana. L’ecografia eseguita in urgenza evidenziava una trombosi venosa occludente limitata alla vena giugulare interna sinistra. La
paziente era ricoverata in Angiologia.
All’ingresso in reparto l’esame obiettivo cardiaco, polmonare e addominale era sostanzialmente nella norma. In
particolare non si rilevavano segni di flogosi a carico del
rinofaringe o dell’orecchio medio, né masse o linfoadenopatie laterocervicali. La paziente era sottoposta ad esami
ematochimici, risultati sostanzialmente nella norma, con
l’eccezione di un livello elevato di D-dimero (1749 ng/ml,
v.n. <500) e di una modesta alterazione degli indici di flogosi (VES 34 mm/h, PCR 1,31 mg/dl). L’ECG era nei limiti
di norma. L’ecocardiogramma evidenziava lieve ipertensione polmonare. La TC del collo, del torace e dell’addome superiore (Fig. 1) escludeva neoplasie occulte, raccolte ascessuali cervico-polmonari o patologie realizzanti
compressioni ab estrinseco. Era segnalata embolia coinvolgente le diramazioni principali delle arterie polmonari
bilateralmente. Erano presenti altre anomalie anatomiche
come l’origine anomala della carotide comune destra
(direttamente dall’arco aortico) e un’arteria succlavia
destra lusoria a decorso retrotracheale. Tali anomalie non
realizzavano compressione della vena anonima sinistra.
Il successivo studio con angio-RNM escludeva l’estensione del processo trombotico nei seni venosi intracranici. I
marcatori neoplastici e la ricerca di trombofilia genetica
(fattore V Leiden, variante G20210A della protrombina)
erano negativi. L’eco-color-Doppler venoso escludeva
una concomitante trombosi venosa profonda (TVP) degli
arti inferiori. L’ecografia dell’addome e della pelvi non era
significativa. La paziente era trattata con eparina a basso
114
peso molecolare embricata con warfarina fino al raggiungimento dell’INR terapeutico, quindi con warfarina nei
successivi sei mesi. La sintomatologia dolorosa regrediva
spontaneamente in terza giornata.
Discussione
La TVG è comunemente legata alla presenza di cateteri
venosi centrali (CVC). In era pre-antibiotica era una complicanza nota di infezioni otorinolaringoiatriche come la
sindrome di Lemierre o gravi otiti medie complicate da
trombosi del seno sigmoideo 1. Altre cause frequenti di
TVG sono le compressioni e/o infiltrazioni neoplastiche
(primitive o secondarie) e le manipolazioni chirurgiche
locali. Sono segnalati casi di TVG associata ad abuso di
droghe endovenose 2 e ad iperstimolazione ormonale
ovarica 3. Le forme idiopatiche sono spesso associate a
neoplasia non necessariamente in continuità con la vena
giugulare 4. La diagnosi di cancro può essere posta anche
a distanza di mesi dall’esordio di TVG e va sospettata fortemente nei casi di TVG bilaterale.
L’incidenza di trombosi degli arti superiori è frequentemente associata a CVC (87%) e la vena giugulare interna
rappresenta il sito maggiormente colpito dal processo
trombotico (44%), con incidenza di embolia polmonare
(EP) variabile tra 5 e 9% 5. L’incidenza di EP dovuta a
trombosi non correlata a CVC non è nota. La propagazione del trombo verso i seni venosi cerebrali è possibile,
ma infrequente. La sintomatologia, assai variabile, consiste nella presenza di una tumefazione palpabile al collo,
dolente e dolorabile alla pressione, di consistenza duroelastica, solitamente senza segni d’infiammazione e adenopatie. La TVG può essere asintomatica ed essere
riscontrata casualmente durante un’indagine ecografica.
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EMBOLIA POLMONARE DA TROMBOSI VENOSA GIUGULARE IDIOPATICA
TONELLO
vena giugulare interna dovrebbe essere riservata ai
pazienti con progressione di trombosi o recidiva di EP in
corso di terapia anticoagulante ben condotta.
Conclusioni
L’approccio ad un paziente con trombosi venosa giugulare idiopatica deve prevedere principalmente l’esclusione
di una neoplasia sottostante concomitante o a distanza
dall’evento tromboembolico. Il trattamento non si discosta da quello consigliato per le trombosi venose profonde
in altre sedi anatomiche.
Bibliografia
Figura 1. – Angio-TC dei vasi del collo e degli arti superiori.
Trombosi venosa giugulare interna sinistra.
Sintomi legati ad EP sono rari e spesso la diagnosi di EP
viene posta con le indagini eseguite per escludere patologie neoplastiche o compressione ab estrinseco 6. La mortalità dei pazienti con TVG appare sovrapponibile a quella dei pazienti con TVP in altre sedi 7. La terapia anticoagulante resta la prima scelta di trattamento. Il ricorso ad
interventi di trombolisi, tromboaspirazione o posizionamento di filtri in vena cava superiore 8 non appare
aggiungere benefici alla terapia medica. La legatura della
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1. Naganuma T, Dote K, Kato M, Sasaki S, Ueda K, Kono Y,
Watanabe Y, Kajikawa M, Yokoyama H. Pulmonary embolism due to internal jugular vein thrombosis without an
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3. Belaen B, Geerinckx K, Vergauwe P, Thys J.Internal jugular
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4. Gbaguidi X, Janvresse A, Benichou J, Cailleux N, Levesque
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5. Major KM, Bulic S, Rowe VL, Patel K, Weaver FA. Internal
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):116
La profilassi del tromboemblismo venoso
a domicilio e nel territorio
G. CAMPORESE
Il tromboembolismo venoso rappresenta una complicazione potenzialmente pericolosa nei pazienti medici e
chirurgici. La crescente adozione di strategie farmacologiche di tromboprofilassi ha contribuito a ridurre significativamente l’incidenza di eventi tromboembolici venosi. L’utilizzo di alcuni farmaci quali le eparine a basso peso
molecolare ha consentito di allargare progressivamente le
indicazioni profilattiche di questi farmaci, ma contemporaneamente numero studi su nuovi farmaci, quali il fondaparinux prima ed i nuovi farmaci antitrombotici orali
(anti Xa ed anti trombinici) dopo, hanno posto progressivamente l’indicazione a modificare il panorama di agenti
profilattici a disposizione dei clinici con il probabile
obbiettivo di modificare le prossime Linee Guida Internazionali ormai di imminente prossima pubblicazione.
Materiali e metodi
La presentazione mette in evidenza i punti salienti dei
trial sulla tromboprofilassi pubblicati successivamente
all’uscita dell’ultima edizione delle Linee Guida Internazionali (8th ACCP Guidelines on Antithrombotic and
Thrombolytic Therapy, Chest 2008), proponendo una
sorta di aggiornamento in tempo reale delle novità nel
campo della profilassi farmacologica, mirata soprattutto
alla gestione del paziente che ritorna sul territorio dopo
la dimissione.
Conclusioni
Alla luce dei dati presentati dagli studio più recenti si può
concludere che l’era dei nuovi anticoagulanti orali è iniziata ma la rivoluzione sarà lenta. Bisogna evitare scelte
sbagliate che rallentino lo loro introduzione nella pratica
clinica e, proprio per questo motivo, gli anticoagulanti
tradizionali resteranno nel prontuario ancora per molti
anni, così come i pazienti che traggono il massimo beneficio dalla terapia classica non dovrebbero sospenderla
per i nuovi farmaci. I costi andranno valutati da rigorose
analisi farmacoeconomiche ma senza demonizzazioni
strumentali e dovranno anche tenere conto dei costi del
116
Unità Operativa Complessa di Angiologia,
Azienda Ospedaliera, Padova
monitoraggio della terapia attuale e della qualità di vita
dei pazienti. Infine, anche e soprattutto i servizi sanitari
dovranno adeguarsi alla nuova realtà e fornire adeguata
competenza e supporto.
Bibliografia
1. Bottaro FJ, Elizondo MC, Doti C, et al. Efficacy of extended
thromboprophylaxis in major abdominal surgery: what does
the evidence show? Thromb Haemost 2008; 99:1104–1111.
2. Rasmussen MS, Jørgensen LN, Wille-Jørgensen P. Prolonged
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abdominal or pelvic surgery. Cochrane Database Syst Rev
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Investigators. Extended duration rivaroxaban versus shortterm enoxaparin for the prevention of venous thromboembolism after total hip arthroplasty: a double-blind, randomized controlled trial. Lancet 2008; 372:31–39
5. Lassen MR, Ageno W, Borris LC, et al., for the RECORD3
Investigators. Rivaroxaban for thromboprophylaxis after total
knee arthroplasty. N Engl J Med 2008; 358:2776–2785.
6. Turpie AGG, Lassen MR, Davidson BL, et al., for the
RECORD4 Investigators. Rivaroxaban versus enoxaparin for
thromboprophylaxis after total knee arthroplasty. Lancet
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7. Lassen MR, Davidson BL, Gallus A, et al. The efficacy and
safety of apixaban, an oral, direct factor Xa inhibitor, as
thromboprophylaxis in patients following total knee replacement. J Thromb Haemost 2007; 5:2368–2375.
8. Lassen MR, Gallus A, Pineo G, et al., for the ADVANCE-1
Investigators. Randomized double blind comparison of
apixaban with enoxaparin for thromboprophylaxis after
knee replacement: the ADVANCE-1 trial [abstract#31]. Blood
(ASH Annual Meeting Abstracts) 2008; 112.
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Dicembre 2011
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):117-8
Strategie di prevenzione della recidiva
di trombosi venosa profonda
G. CAMPORESE
L’incidenza di un primo episodio di TVP sintomatica è di
circa 71-117 casi/100.000 abitanti negli USA, il 26-47%
delle quali non riconosce un’eziologia nota e sicura (idiopathic or unprovoked DVT). L’incidenza di TVP recidiva
varia nel tempo in base alle modalità di presentazione del
primo episodio di TVP, con una percentuale variabile dal
4.2% (dopo 6 mesi dal primo evento) al 22.5% (dopo 10
anni dall’evento) nella TVP secondaria, e dal 10% al 52.6%
rispettivamente nella TVP idiopatica. Il problema insorge
non tanto sulla tipologia di farmaci da utilizzare e sullo
schema terapeutico da eseguire nella fase acuta della TVP,
che ormai appare validato e standardizzato dalle Linee
Guida Internazionali più recenti (es. 8th ACCP Guidelines,
Chest 2008), ma piuttosto sul quanto questa terapia debba
durare e, soprattutto, su quale sia la strategia migliore da
seguire in regime di prevenzione secondaria a lungo termine per prevenire le recidive di TVP al momento della
sospensione della terapia anticoagulante. Vi sono molteplici fattori che possono influenzare il rischio di una recidiva di TVP: 1) fattori pre-trattamento (sesso, trombofilia,
cancro, fattori di rischio temporanei oppure la presentazione idiopatica, la sede della TVP, prossimale o distale,
oppure se la TVP è isolata o vi è concomitante presenza
di embolia polmonare); 2) fattori post-trattamento (persistenza di un valore di D-Dimero elevato, persistenza di un
residuo trombotico, preferenze del paziente).
Materiali e metodi
Al momento attuale le strategie di prevenzione secondaria a nostra disposizione sono molteplici, e tutte prendono spunto da alcuni studi della letteratura: 1) anticoagulare i pazienti mantenendo un valore di INR più basso
rispetto al range terapeutico ottimale; 2) identificare sottogruppi di pazienti ad alto/basso rischio che abbiano l’indicazione a prolungare o interrompere la terapia anticoagulante; 3) somministrare nuovi farmaci antitrombotici
per via orale che abbiano un profilo di sicurezza simile a
quello degli antagonisti della vitamina K; 4) somministrare farmaci con un profilo di sicurezza migliore (meno
sanguinamenti) di quello degli antagonisti della vitamina
K, ma con un’efficacia ancora scientificamente da dimostrare o validare.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Unità Operativa Complessa di Angiologia,
Azienda Ospedaliera, Padova
Conclusioni
Al momento attuale non è ancora stata individuata e validata con certezza la strategia farmacologica di prevenzione secondaria che sia in grado, al momento della sospensione della terapia anticoagulante orale, di garantire con
efficacia e sicurezza una significativa e duratura riduzione
degli eventi tromboembolici venosi recidivi. Alcuni studi
sono ancora in corso, ed altri in via di pubblicazione, che
potranno apportare nuovi dati utili a contribuire in
maniera significativa al miglioramento della gestione di
questi pazienti nel lungo termine.
Bibliografia
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Pesavento R, Iotti M, Tormene D, Simioni P, Pagnan A. The
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vein thrombosis or pulmonary embolism. A prospective
cohort study in 1,626 patients. Haematologica. 2007
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3. Iorio A, Kearon C, Filippucci E, Marcucci M, Macura A,
Pengo V, Siragusa S, Palareti G. Risk of recurrence after a
first episode of symptomatic venous thromboembolism provoked by a transient risk factor: a systematic review. Arch
Intern Med. 2010 Oct 25;170(19):1710-6
4. Prandoni P, Prins MH, Lensing AW, Ghirarduzzi A, Ageno W,
Imberti D, Scannapieco G, Ambrosio GB, Pesavento R,
Cuppini S, Quintavalla R, Agnelli G; AESOPUS Investigators
Residual thrombosis on ultrasonography to guide the duration of anticoagulation in patients with deep venous thrombosis: a randomized trial. Ann Intern Med. 2009 May
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5. Cosmi B, Legnani C, Iorio A, Pengo V, Ghirarduzzi A, Testa
S, Poli D, Tripodi A, Palareti G; PROLONG Investigators (on
behalf of FCSA, Italian Federation of Anticoagulation Clinics). Residual venous obstruction, alone and in combination with D-dimer, as a risk factor for recurrence after anti-
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CAMPORESE
STRATEGIE DI PREVENZIONE DELLA RECIDIVA DI TROMBOSI VENOSA PROFONDA
coagulation withdrawal following a first idiopathic deep vein
thrombosis in the prolong study. Eur J Vasc Endovasc Surg.
2010 Mar;39(3):356-65.
6. EINSTEIN Investigators, Bauersachs R, Berkowitz SD, Brenner B, Buller HR, Decousus H, Gallus AS, Lensing AW, Mis-
118
selwitz F, Prins MH, Raskob GE, Segers A, Verhamme P,
Wells P, Agnelli G, Bounameaux H, Cohen A, Davidson BL,
Piovella F, Schellong S. Oral rivaroxaban for symptomatic
venous thromboembolism. N Engl J Med. 2010 Dec
23;363(26):2499-510.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):119-20
Test di Pearson e lo studio “PESI-MILLERS”:
analisi correlativa per variabili continue in 30 pazienti
con tromboembolismo venoso:
triennale esperienza (2008-2010)
M.M. CIAMMAICHELLA1, R. MAIDA2, C. PATRIZI3, C. MAIDA4, G. CERQUA5, M.L. MECCA6
Lo studio “PESI-MILLERS”, acrostico derivante da “PULMONARY EMBOLISM SEVERITY INDEX and MILLER
SCORE”, ha arruolato 30 pazienti, di età compresa tra 48
e 82 anni, con tromboembolismo venoso (embolia polmonare centrale) ricoverati nella Struttura Semplice
“Breve Osservazione” e “Sub-Intensiva C” della Struttura
Complessa “Medicina Interna per l’Urgenza” nel triennio
gennaio 2008-dicembre 2010. Il quadro clinico di esordio
era caratterizzato in tutti i pazienti da grave insufficienza
respiratoria (valore emogasanalitico arterioso di pO2<60
mmHg) eventualmente associata a dolore toracico, stato
confusionale, instabilità emodinamica (PAS<90 mmHg)
secondo le American College of Chest Physicians Evidence-Based Clinical Practice Guidelines (8th Edition).
Tutti i pazienti sono stati sottoposti a: TC toraco-addomino-pelvica con mdc; angiografia polmonare con fibrinolisi
loco-regionale secondo il protocollo previsto dall’UKEP
Study (2000 UI/kg/h per 24 ore + eparina sodica) modificato da noi a 1000 UI/kg/h per 48-72 ore fino a dimostrazione angiografica della risoluzione del trombo previi
controlli angiografici seriati ogni 24 ore e previi controlli
seriati del fibrinogeno ogni 6 ore, in associazione ad eparina sodica, in vena periferica, inizialmente alla dose di
18 U/kg/h o 1300 U/h, aggiustando poi la velocità infusionale in base ai valori di PTT seriati ogni 6 ore, come
previsto dalle American College of Chest Physicians Evidence-Based Clinical Practice Guidelines (8th Edition) del
2008; ecocardiografia pre-dimissione con misurazione
della pressione arteriosa polmonare (PAP); ecocolordoppler venoso arti inferiori ed eventuale bendaggio elastocompressivo; ricerca markers trombofilici e neoplastici.
In tutti i pazienti è stato calcolato il PESI1-7 ed il Miller
Score8 i cui valori pre-lisi (T0) e post-lisi (T1) sono stati
messi a confronto nei 30 pazienti arruolati.
Pertanto, è stato creato un database con Microsoft
Access© denominato “PESI-MILLERS”. Il database conteneva i seguenti campi: 1) numero del paziente, 2) punteggio PESI1-7 all’ingresso, 3) Miller Score pre-lisi8, 4) Miller Score post-lisi8.
Tutti i pazienti sono stati analizzati, durante il reclutamento, secondo i suddetti 4 campi, raccolti di volta in volta in
maschere create in modalità “visualizzazione struttura” e
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1UAS
“Gestione della Trombosi Venosa Profonda ed
Embolia Polmonare nell’Area dell’Emergenza”,
SC Medicina Interna per l’Urgenza,
ACO S. Giovanni-Addolorata-Britannico, Roma
2Dirigente Medico, Responsabile SS “Breve Osservazione”,
SC Medicina Interna per l’Urgenza,
ACO S. Giovanni-Addolorata-Britannico, Roma
3Dirigente Medico, Responsabile SS “Sub-Intensiva C”,
SC Medicina Interna per l’Urgenza,
ACO S. Giovanni-Addolorata-Britannico, Roma
4Dirigente Medico, SC Patologia Clinica,
ACO S. Giovanni-Addolorata-Britannico, Roma
5Direttore SC Medicina Interna per l’Urgenza,
ACO S. Giovanni-Addolorata-Britannico, Roma
6Dirigente Medico Radiologo, SC Radiologia per il DEA
“visualizzazione foglio dati” come consentito dal programma database.
È stata eseguita un’analisi correlativa per variabili continue con test parametrico di Pearson per verificare se esiste una relazione significativa tra i valori del PESI1-7 all’ingresso (variabile A indipendente) ed i valori del Miller
Score8 all’ingresso (variabile E dipendente).
Lo studio “PESI-MILLERS” si propone i seguenti obiettivi:
1) verificare eventuali relazioni esistenti tra i valori del
PESI1,2,3,4,5,6,7 all’ingresso ed i valori del Miller Score all’ingresso (T0) prelisi8 nei 30 pazienti arruolati nello studio
“PESI-MILLERS” durante il triennio gennaio 2008 – dicembre 2010;
2) verificarne la significatività statistica riscontrata applicando come test di analisi correlativa per variabili continue il test parametrico di Pearson per stabilire se le relazioni delle variabili considerate siano dovute al caso.
Materiali e metodi
I 30 pazienti arruolati con embolia polmonare centrale
sono stati esaminati secondo i campi del database creato
con Microsoft Access© denominato “PESI-MILLERS”.
Il test di correlazione parametrica di Pearson correla la
variabile A indipendente (PESI all’ingresso) con la variabile E dipendente (Miller Score all’ingresso) nei 30 pazienti
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CIAMMAICHELLA
TEST DI PEARSON E LO STUDIO “PESI-MILLERS”: ANALISI CORRELATIVA PER VARIABILI CONTINUE IN 30 PAZIENTI ...
arruolati nello studio “PESI-MILLERS”. Nella colonna
“Variabile A (PESI)” sono espressi i valori di PESI per ogni
paziente all’ingresso. Nella colonna “A-A-” il risultato ottenuto dalla differenza del valore della variabile A in ogni
paziente e la media dei valori di A. Nella colonna “(A-A-)2”
il valore ottenuto nella colonna “A-A-” in ogni paziente
elevato al quadrato. Nella colonna “Variabile E (MILLER
SCORE)” sono espressi i valori di MILLER SCORE all’ingresso per ogni paziente. Nella colonna “E-E-” è riportato
il risultato ottenuto dalla differenza del valore della variabile E in ogni paziente e la media dei valori di E. Nella
colonna “(E-E-)2” il valore ottenuto nella colonna “E-E-” in
ogni paziente elevato al quadrato. Nella colonna “(A-A-)
(E-E-)” il risultato ottenuto dal prodotto della differenza
del valore della variabile A in ogni paziente con la media
dei valori di A per la differenza del valore della variabile
E in ogni paziente con la media dei valori di E. Con la
sigla Σ si intende la sommatoria dei valori ottenuti in ciascuna delle colonne considerate. Con la sigla M la media
dei valori ottenuti in ciascuna delle colonne considerate.
Per il calcolo del test si applica la formula del coefficiente
“r” (che indica la forza dell’associazione e viene calcolato
come prodotto del momento rispetto alla media) di correlazione di Pearson: “(A-A-) (E-E-) / √ “(A-A-)2 ” (E-E-)2. Pertanto, il valore di “r” ottenuto con Gradi di Liberta
(GL)=29 è di 0,008. Essendo il Valore Critico (VC) di “r”
<0,652 con GL=29 per p=0,001, il Valore Relativo (VR) di
“r” pari a 0,0008 esprime una concordanza positiva assoluta della covariazione tra i valori delle due variabili considerate (A ed E) che è altamente significativa con
p<0,001.
Analisi dei risultati
Il test di Pearson applicato ai 30 pazienti mostra una correlazione altamente significative (p<0,001) delle due
variabili esaminate (valori di PESI all’ingresso e valori di
Miller Score all’ingresso) e, quindi, non attribuibile al
caso. Infatti, il valore di “r” ottenuto è di 0,008 ed il VC
(valore critico) di “r” per p=0,001 è <0,652 con GL=29.
Discussione
I dati conseguiti suggeriscono che l’aumento dei valori
del PESI all’ingresso nei 30 pazienti arruolati nello studio
“PESI-MILLERS” correli con l’aumento dei valori del Miller
Score all’ingresso prelisi osservati in tutti i pazienti. Ciò
suggerisce che la gravità del quadro clinico, misurata dal
PESI1-7, sia correlata con il punteggio del Miller Score8
ottenuto con il riscontro angiografico, come si evince dai
valori del PESI1-7 e del Miller Score8 all’ingresso.
Dalla disamina della letteratura emergono le seguenti
esperienze che, seguito, proponiamo.
Qanadli1 impiega il PEI per qantificare il grado di ostruzione arteriosa in pazienti con embolia polmonare e
porre a confronto il PEI stesso con gli indici angiografici
ed ecocardiografici.
Nordenholz2 considera come indicatori predittivi, nella
stratificazione del rischio per embolia polmonare, il PESI
e la pulsossimetria.
Nural3 afferma che i parametri impiegati per distinguere
l’embolia polmonare emodinamicamente stabile da quella
instabile, inclusi il PEI, diametro del ventricolo destro,
120
dilatazione del ventricoilo destro, RV/LV short axis ratio,
reflusso in vena cava inferiore possono essere predittori
significativi di mortalità.
Ghanima4 mostra una correlazione tra il grado di estensione prossimale del trombo ed il PEI con la severità del
quadro clinico polmonare.
Choi5 correla la classe PESI con la mortalità a 30 giorni e
la mortalità intra-ospedaliera e considera il PESI come
predittore prognostico.
Pech6 correla il PEI con la sopravvivenza dei pazienti con
embolia polmonare.
Aujesky7 calcola il PESI assegnando un punteggio per
variabili e suddividendo i pazienti classi di gravità clinica.
Miller8 elabora uno score di gravità basato sul numero di
segmenti vascolari occlusi riscontrati durante angiografia
polmonare.
Conclusioni
Lo studio “PESI-MILLERS” ha dimostrato come nel gruppo
di 30 pazienti con tromboembolismo venoso (embolia
polmonare centrale) vi sia correlazione tra le due variabile considerate: PESI1-7 e MILLER SCORE8. Tale correlazione mostra una concordanza positiva assoluta secondo il
coefficiente “r” di correlazione di Pearson ed è espressione non di una associazione casuale ma di una stretta correlazione tra aumento dei valori del PESI1-7 ed aumento
del valore del MILLER SCORE8 nei 30 pazienti con embolia polmonare centrale.
Confrontando le esperienze in letteratura, lo studio “PESIMILLERS” propone dei dati che integrano quelli forniti
dagli studi di Qanadli1, Nordenholz2, Nural3, Ghanima4,
Choi5, Pech6, Aujesky7, Miller8.
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pulmonary embolism: comparison with angiographic index
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Fattori di rischio e sintomatologia della trombosi
venosa profonda distale
M. SARTORI, B. COSMI, L. SALOMONE, G. GUAZZALOCA, L. VALDRÈ, C. LEGNANI, G. PALARETI
Nei pazianti sintomatici che si recano presso un ambulatorio vascolare con sospetto di trombosi venosa profonda
(TVP), se esaminati con studio ultrasonografico completo
dell’arto inferiore, la prevalenza della trombosi a carico
delle vene del polpaccio è circa il 10-20% 1. Fattori di
rischio accertati per la TVP prossimale sono l’immobilizzazione dell’arto, un’intervento chirurgico recente, la presenza di neoplasia, l’assunzione di estro-progestinici, un
pregresso evento trombo-embolico. Non è noto se tali fattori siano associati anche ad un incremento del rischio di
sviluppare una TVP distale. Parimenti l’edema, il dolore,
il reticolo venoso superficiale sono le note caratteristiche
della TVP prossimale, ma non è noto se siano anche le
caratteristiche cliniche della trombosi a carico delle vene
del polpaccio.
Scopo del nostro studio è stato, pertanto, valutare quali
fattori di rischio siano associate alla diagnosi di TVP distale isolata e quali siano le caratteristiche cliniche della TVP
distale isolata.
Materiali e metodi
Nel presente studio sono stati arruolati 726 pazienti (femmine 59,9%), di età media 63±17 anni (IQR 26,5) presentatisi all’ambulatorio urgenze vascolari della nostra UO
per sospetto di trombosi venosa profonda. I criteri d’inclusione erano: primi tre pazienti della giornata inviati dal
medico di medicina generale o dal pronto soccorso per
sospetta TVP, aspettativa di vita maggiore di tre mesi,
possibilità di raccogliere un’adeguata anamnesi e di poter
eseguire un’indagine ultrasonografica degli arti inferiori.
Sono stati esclusi i pazienti in cui è stata posta diagnosi di
trombosi venosa profonda prossimale.
I fattori di rischio studiati sono stati: l’anamnesi personale
positiva per un pregresso evento trombo-embolico, una
neoplasia maligna in atto, la terapia con estrogeni, l’obesità, l’immobilizzazione (non poter deambulare autonomamente), la paralisi dell’arto sintomatico, un’intervento
chirurgico recente (entro 45 giorni).
L’esame ultrasonografico è stato eseguito con un apparecchio Philips ENVISOR secondo la procedura di Schellong
[2]: prima è stato analizzato l’asse iliaco-femorale, quindi
la vena poplitea, se non evidenza di trombosi a tale livelVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
U.O. Angiologia e Malattie della Coagulazione
“Marino Golinelli”, Policlinico S. Orsola-Malpighi,
Bologna
lo sono state analizzate le vene del polpaccio: vene tibiali
posteriori, peroniere e quindi le vene muscolari. La diagnosi di trombosi delle vene del poplaccio è stata posta
secondo i criteri di Schellong 2.
L’analisi statistica è stata eseguita con il software SPSS©
(version 15.0; SPSS Inc. Chicago, Illinois, USA). Per il confronto tra variabili continue è stato utilizzato il test di T di
Student, per le variabili categoriche il test di Fischer, l’analisi logistica per evidenziare l’associazione tra le variabili analizzate e la diagnosi di TVP distale isolata. Il livello
di significatività statistica è stato posto per ·=0.05.
Risultati
In 91 pazienti è stata posta diagnosi di trombosi TVP
distale isolata (prevalenza 12.5%). L’età (60,7+18,3 vs.
63,8+16,9 anni, p=ns) ed il body mass index (26,94+5,59
vs. 26,96+4,68 kg m-2, p=ns) erano simili nei pazienti in
cui era stata posta la diagnosi TVP distale e coloro in cui
la TVP era stata esclusa.
Per quanto attiene ai fattori di rischio, un pregresso evento trombotico, la presenza di neoplasia e la chirurgia per
neoplasia non erano associtati alla diagnosi di TVP distale, mentre la paralisi dell’arto sintomatico (34% vs. 10%;
p<0,01), l’immobilizzazione (12% vs. 4%, p<0,01), la chirurgia (15% vs. 9%, p<0,05) erano più frequenti nei
pazienti con TVP distale rispetto ai pazienti in cui la TVP
era stata esclusa. Una terapia a base di estrogeni era più
frquenti nei pazienti con TVP distale rispetto ai pazienti
in cui la TVP era stata esclusa (9% vs. 3%, p<0,05). Per
quanto attiene alle caratteristiche cliniche, nei pazienti
con TVP distale, il dolore era di più frequente riscontro
(87% vs 77% p=0,03) mentre l’edema era meno frequente
(62% vs 74% p=0,023). Rubor, tumor, calor e reticoli
venosi superficiali erano presenti con la stessa frequenza
nei due gruppi. L’analisi multivariata ha dimostrato che la
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
SARTORI
FATTORI DI RISCHIO E SINTOMATOLOGIA DELLA TROMBOSI VENOSA PROFONDA DISTALE
paralisi e/o l’immobilizzazione dell’arto sintomatico (OR
4,04; CI: 2,07-7,88 p=0,001), l’assunzione di estro-progestinici (OR 4,41; CI: 1,71-11,3 p=0,002) erano le variabili
associate alla diagnosi di TVP distale, gli altri fattori di
rischio come la chirurgia, la presenza di neoplasia, il trauma, non erano associati alla presenza di TVP distale. L’unico sintomo associato alla presenza di TVP distale era il
dolore (OR 2,22 CI: 1,10-4,49 p= 0,03).
tomi cardine della diagnosi di TVP prossimale non è tipico della TVP distale. Parimenti, solo alcuni tra i fattori di
rischio per la TVP prossimale sembrano essere rilevanti
per lo sviluppo di TVP distale. In particolare, i nostri dati
indicano che solo l’immobilizzazione di un arto e l’assunzione di una terapia a base di estrogeni costituiscono fattori di rischio per la TVP distale.
Conclusioni
1. Galanaud JP, Sevestre-Pietri MA, Bosson JL, Laroche JP,
Righini M, Brisot D, Boge G, van Kien AK, Gattolliat O, Bettarel-Binon C, Gris JC, Genty C, Quere I; OPTIMEV-SFMV
Investigators. Comparative study on risk factors and early
outcome of symptomatic distal versus proximal deep vein
thrombosis: results from the OPTIMEV study. Thromb Haemost. 2009;102:493-500
2. Schellong SM. Distal DVT: worth diagnosing? Yes. J Thromb
Haemost. 2007;5 Suppl 1:51-4.
Il nostro studio ha dimostrato che anche nella realtà italiana la prevalenza della trombosi a carico delle vene del
polpaccio è superiore al 10% nei pazianti sintomatici che
si recano presso un ambulatorio vascolare. Le caratteristiche della TVP distale non sono le stesse della TVP prossimale. L’unico sintomo peculiare della TVP distale è il
dolore al polpaccio, l’edema che costituisce uno dei sin-
122
Bibliografia
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):123-4
Chirurgia delle varici recidive
A. RAGAZZONI, A. LA ROSA, M. DONDI, E. MOIA, C. SCOTTI, A. KHAMIS, S. CIRULLI, R. MOIA
Tra le complicanze a lungo termine del trattamento delle
varici vi è la comparsa di recidive, la cui frequenza risulta
variabile sulla base di alcuni fattori tra cui la predisposizione individuale alla patologia, la procedura scelta ed
l’accuratezza con cui viene eseguita. Le recidive si manifestano dopo un periodo medio di latenza di 3-5 anni, da
un precedente intervento chirurgico e rappresentano un
problema complesso e costoso in chirurgia vascolare. Le
cause di tale evenienza sono molteplici: mancata interruzione di un ramo afferente alla crosse, una safena duplice
non riconosciuta, la mancata escissione di collaterali varicose o segmenti safenici, la riorganizzazione del circolo
venoso superficiale grazie al fenomeno della neoangiogenesi. Dai dati pervenuti dalla letteratura emerge che la
recidiva varicosa ha ancora oggi un’incidenza variabile tra
il 10 e il 60%; tale percentuale è da considerarsi comunque elevata, considerate le nuove conoscenze sui meccanismi di formazione, sull’evoluzione della tecnica di valutazione preoperatoria e sull’intervento chirurgico.
Scopo del lavoro è quello di valutare le cause e il trattamento di tale evenienza su un gruppo di pazienti precedentemente trattati per varici essenziali.
Materiali e metodi
Dal Marzo 2001 al giugno 2011 presso la nostra divisione
di Chirurgia Vascolare Istituto di Cura Città di Pavia è
stato eseguito uno studio retrospettivo su 698 pazienti,
affetti da patologia varicosa recidiva, giunti alla nostra
osservazione e ricoverati con indicazione chirurgica.
Sul totale dei pazienti considerati 564 (80,8%) erano
donne e 134 (19,2%) uomini, con un’età media di 55
anni, con range compreso tra 36 e 78 anni, affetti da varici degli arti inferiori già sottoposti in passato ad intervento per la medesima patologia. 529 (75%) erano stati sottoposti a trattamento di chirurgia tradizionale e 169 (25%) a
trattamento CHIVA.
Dei pazienti esaminati 642 (92%) presentavano un corredo sintomatologico caratterizzato da pesantezza (74%),
affaticabilità (68%), tensione (62%), crampi (61%), parestesie (28%), algia (7%), con fattori di rischio associati
nell’89% dei casi (55% abitudini di vita e di lavoro, 36%
familiarità, 9% fattori ormonali). 45 casi (7%) erano comVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Polo Universitario Istituto di Cura Città di Pavia,
U.O. di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Università degli Studi di Pavia, Pavia
plicati da tromboflebite superficiale e 12 da ulcera varicosa (1,9%). L’8% dei pazienti non riferiva alcun sintomo.
Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad esame clinico e
strumentale mediante EcocolorDoppler, al fine di precisare la sede del reflusso venoso.
Il protocollo Duplex Scan è stato ottenuto esaminando in
posizione eretta, dall’inguine alla caviglia, il circolo venoso superficiale (osti safeno-femorali, safeno-poplitei, vena
grande safena, vena piccola safena, eventuali perforanti e
varicosità extrasafeniche) e il circolo venoso profondo
(femorale comune, femorale superficiale, vena poplitea)
mediante manovra di Valsalva e con compressione
manuale delle logge muscolari.
L’esame obiettivo evidenziava, anche nei pazienti asintomatici, importanti ectasie venose all’arto inferiore ed all’esame ultrasonografico severo reflusso in ortostatismo con
aumento dei diametri varicosi transparietali.
L’intervento chirurgico primitivo era stato eseguito tra i 4
e i 48 mesi precedenti, con una media di 27 mesi. Nei
pazienti trattati precedentemente al ricovero con chirurgia
tradizionale in 492 (70,5%) casi era stato eseguito lo stripping della safena interna, per tutta la sua lunghezza, associato a crossectomia e flebectomia locale. Nei restanti 37
casi (29,5%): 29 varicectomie isolate, 6 crossectomie safeno-femorali non associate a stripping della safena interna
e 2 legature della safena interna.
Risultati
In 225 casi (32,2%) la causa di recidiva era da ricercarsi
nella progressione della malattia residua, mentre si è
obiettivata neovascolarizzazione ex-novo in 122 casi
(17.4%). L’evoluzione della patologia varicosa ricorrente
era determinata nella totalità dei casi da vene perforanti e
da varici extrasafeniche incontinenti e non presenti al
momento della prima diagnosi. Diverso è il discorso
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
RAGAZZONI
CHIRURGIA DELLE VARICI RECIDIVE
riguardante la neovascolarizzazione per la cui definizione
ci siamo avvalsi esclusivamente della metodica strumentale e dell’obiettività intraoperatoria.
Infine erano stati obiettivati 174 (24,9%) casi di ricorrenza
varicosa dovuta ad insuccesso tecnico in seguito ad intervento chirurgico di safenectmoia magna e 139 casi
(19,9%) in seguito a cura CHIVA.
Le recidive di CHIVA erano tutte determinate da una ricanalizzazione del tronco safenico e sua incontinenza da
attribuirsi verosimilmente a un limite tecnico legato alla
metodica e all’esperienza del chirurgo.
Conclusioni
La patologia varicosa recidivante è una problematica gravata da molteplici fattori individuali quali l’anamnesi lavorativa, la familiarità, il quadro ormonale e la sua soluzione è di pertinenza chirurgica. Nell’ambito della prevenzione risulta importante, nella nostra esperienza, un’accurata valutazione preoperatoria mediante ecocolor-Doppler, indagine volta ad effettuare una mappatura completa e dettagliata dell’albero venoso, descrivendo eventuali
anomalie anatomiche e delle lesioni varicose.
Il reintervento chirurgico rappresenta l’approccio d’elezione nel trattamento delle varici recidive, per quanto risulti
spesso di difficile esecuzione, a causa delle presenza di
abbondante tessuto fibrotico ed aderenziale.
Abbiamo osservato che nel caso di procedure tradizionali
la recidiva è spesso legata ad incompleta radicalità della
tecnica mentre nel caso delle recidive post-CHIVA sono
prevalenti fenomeni di neoangiogenesi e di collateralità
che vanificano l’atto chirurgico.
Risulta comunque fondamentale un follow-up accurato
dei pazienti onde identificare e correggere il più presto
possibile l’eventuale anomalia.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):125-7
La valvuloplastica venosa con tecnica OSES:
risultati di una serie clinica di 32 casi
S. CAMILLI, D. CAMILLI
Nella cura degli stadi medio-gravi della Insufficienza
Venosa Cronica e nella malattia varicosa, vengono correntemente applicate varie tecniche ablative, ma sfortunatamente a distanza di tempo tutte dimostrano lo sviluppo di varici recidive in un numero elevato di casi, tra
il 20 e il 60%. Questo dipende da molti fattori, ma un fattore fisiologico evidente è che la ablazione o distruzione
della vena grande safena (VGS) elimina un condotto di
drenaggio venoso; questo fatto “di per sé” stimola lo sviluppo di circolo collaterale venoso, che con l’andare del
tempo può diventare a sua volta varicoso. La possibile
efficacia di tecniche conservative, che minimizzano la
perdita di patrimonio venoso (ad esempio con la strategia CHIVA 1), è stata dimostrata e alcuni studi recenti ne
hanno messo in evidenza i buoni risultati a distanza con
un dimezzamento della percentuale di varici recidive 2-3.
Tuttavia la strategia CHIVA sta avendo difficoltà a diffondersi soprattutto a causa del maggiore tempo richiesto
per lo studio pre-operatorio del paziente, il mappaggio
venoso, l’approccio chirurgico non standardizzabile e
quindi necessariamente personalizzato. È stata anche
dimostrata la possibilità di tecniche riparative delle valvole venose (valvuloplastica), alcune più facilmente
applicabili alle valvole del circolo profondoA 4-6, altre più
adatte a quelle della VGSA 7-8. Tuttavia queste tecniche
non si sono diffuse; i motivi sono molteplici, tra cui l’incertezza nei criteri di inclusione dei pazienti eligibili e la
difficoltà di visualizzare le valvole venose, ma soprattutto
per la mancanza di una tecnica veramente affidabile,
capace di competere con le tecniche ablative anche nei
risultati a breve termine.
Attualmente, le apparecchiature eco-doppler sono nettamente migliorate rispetto al passato, con una migliore
definizione dei dettagli e con l’introduzione della tecnica
B-flow, e consentono una soddisfacente visualizzazione
delle valvole. Inoltre recentemente è stato introdotto nella
pratica clinica un concetto funzionale innovativo e nuova
tecnica di valvuloplastica ad esso correlata, la valvuloplastica trazionaleA 9.
Vengono qui di seguito esposti il concetto funzionale e la
tecnica della valvuloplastica trazionale, e inoltre i risultati
a breve e medio termine su 32 casi operati.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Chirurgia Vascolare, Osp. S. Andrea,
Università degli Studi “La Sapienza”, Roma
Il concetto funzionale
Il concetto funzionale è innovativo; ha l’obiettivo di
applicare una forza di trazione sulle opposte pareti intercommissurali, parallela al bordo libero delle cuspidi valvolari. Il fine è quello di modificare la sessione trasversa
del bulbo valvolare da circolare a ovale, aumentando il
diametro intercommissurale e così riassorbire l’eccesso di
lunghezza delle cuspidi allentate che, in tal modo, riacquistano la possibilità di contatto e quindi la funzione
della continenza valvolare.
Per applicare tale forza di trazione è disponibile il dispositivo medico OSES (Oval Shaped External
Support) da impiantare chirurgicamente attorno alla valvola da riparare; suturando alla parete venosa un dispositivo moderatamente sovradimensionato rispetto al diametro della valvola da curare, questo esercita una trazione
che aumenta il diametro intercommissurale fino alla misura voluta (circa il 30% maggiore del diametro nativo). La
sutura del dispositivo alla parete venosa dovrà essere eseguita con precisione, in corrispondenza dell’apice delle
opposte commissure.
Il dispositivo OSES
Il dispositivo OSES è un supporto reticolare in Nitinolo
medicale, liscio flessibile e adattabile, con caratteristiche
di superelasticità, disponibile attualmente in tre taglie
(small, medium, large). Esso
assomiglia ad uno stent vascolare, ma ha una sezione trasversa ovale ed è aperto su un lato per poterlo posizionare attorno alla valvola; può essere posizionato attorno alla
valvola terminale e/o pre-terminale della VGS, ma teoricamente è applicabile attorno ad ogni valvola venosa, sia
del circolo superficiale che profondo.
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CAMILLI
LA VALVULOPLASTICA VENOSA CON TECNICA OSES: RISULTATI DI UNA SERIE CLINICA DI 32 CASI
Studi preliminari ed esperienza clinica
Per saggiare la sicurezza e l’efficacia della Valvuloplastica
trazionale con la tecnica OSES (V-OSES), sono stati eseguiti vari studi preliminari, sia sperimentali che preclinici,
e tutti hanno dato risultati incoraggianti o francamente
positiviA 10. È anche iniziata una esperienza clinica limitata e prudente che, al momento, comprende 32 casi operati e, tra questi, 14 casi con un follow-up superiore a 12
mesi. Tutti gli interventi furono associati alla legatura
selettiva delle collaterali varicose o delle perforanti incontinenti o a varicectomie multiple o alla scleroterapia o
altroA 11.
Risultati
Tutti gli interventi di V-OSES programmati hanno potuto
essere completati, dimostrando in ogni caso la fattibilità
della tecnica. Un paziente affetto da Insufficienza Venosa
Profonda Primaria (IVPP) e varici polirecidive fu operato
con la tecnica V-OSES a livello della vena femorale; dopo
oltre 54 mesi di osservazione l’eco-doppler ha dimostrato
ad ogni controllo il ripristino funzionale della valvola operata. I 31 casi operati a livello della crosse safenica furono
tutti trattati in anestesia locale. La visualizzazione intra-operatoria della valvola terminale e/o pre-terminale fu possibile in circa il 60% dei casi, mentre negli altri casi fu impedita dallo spasmo venoso o dallo spessore e opacità della
parete; in questi casi, per l’identificazione della valvola e
dei suoi apici intercommissurali si fece riferimento alle
misurazioni ecodoppler pre-operatorie. Ad 1 mese dall’intervento, la continenza valvolare risultò completa in 18
casi, migliorata in 9, invariata in 4 casi. Al controllo del 6°
mese su 22 casi, una continenza perfetta fu rilevata in 16
casi, migliorata in 4, assolutamente insufficiente in 2. All’ultimo controllo dopo 12-60 mesi (media 16 mesi) mesi in 14
casi, l’eco-doppler confermò una continenza ottimale in 11
(79%), accettabile in 2 (14%), insufficiente in 1 (7%).
Discussione
Questa esperienza clinica iniziale sembra promettente,
ma è necessario continuare l’osservazione più a lungo e
comunque eseguire un trial allargato e multicentrico. I
risultati ottenuti dimostrano una tendenza alla migrazione
dei casi, col passare del tempo, verso le posizioni di
migliore continenza; questo fatto è inusuale e di dubbia
interpretazione al momento attuale, ma potrebbe essere
riferito al miglioramento emodinamico complessivo derivante dalla operazione. In ogni caso, questa serie seppure limitata di casi indica la validità del concetto funzionale e la fattibilità e sicurezza della tecnica V-OSES. La visibilità e la mobilità delle cuspidi valvolari sono le uniche
vere precondizioni per l’eligibiltà del paziente all’intervento, ma i criteri di inclusione comprendono uno studio
accurato del sistema venoso sia superficiale che profondo. Inoltre, è obbligatoria la misurazione dei diametri
delle valvole (in posizione eretta) e delle distanze relative
tra loro o con punti di riferimento prestabiliti; questo per
poter scegliere la taglia corretta dell’OSES e il suo corretto
posizionamento. Il diametro intercommissurale ottimale
per ottenere la continenza è stato definito dagli studi preliminari su banco di laboratorio ed è risultato essere circa
126
del 30% maggiore di quello nativo. Anche la posizione
delle valvole e le distanze relative sono un dettaglio
importante poiché il posizionamento del dispositivo e
l’applicazione dei punti di sutura (giusto all’apice delle
opposte commissure) sono cruciali ai fini del risultato. In
caso di incerta visualizzazione intraoperatoria, alcuni trucchi pratici possono risultare utili per superare la difficoltà.
Se l’efficacia della tecnica V-OSES fosse confermata da un
largo trial clinico a medio/lungo termine, si può immaginare una indicazione molto ampia: (a) dovrebbe essere
una scelta ottimale in tutti i pazienti con varici primarie e
con valvole visibili e mobili agli ultrasuoni, soprattutto
nei giovani o in caso di varici recenti; (b) dovrebbe essere raccomandata nei casi di varici secondarie a sindrome
post-trombotica, in cui la causa della insufficienza valvolare safenica è non tanto la meiopragia di parete o altri
fattori costituzionali ma l’iperafflusso venoso causato dalla
insufficienza del sistema profondo; (c) può essere complementare in tutte le tecniche conservative della safena
(CHIVA, ASVALA 12, etc.) in quanto ne favorisce la funzione drenante nei due sensi (non solo in senso retrogrado).
Conclusioni
La tecnica V-OSES sembra essere efficace, ma si devono
attendere i risultati di una applicazione clinica più ampia. Il
dispositivo OSES è facilmente applicabile attorno alla valvola terminale e/o pre-terminale della VGS e virtualmente
attorno ad ogni valvola periferica da curare, sia del circolo
superficiale che profondo. La diffusione clinica della tecnica può migliorare i risultati delle tecniche conservative e
portare ad una più frequente conservazione della VGS
soprattutto negli stadi iniziali della malattia varicosa, così
riducendo le recidive a distanza e mantenendo in situ un
patrimonio venoso potenzialmente utile e prezioso per le
sostituzioni arteriose. Noi siamo d’accordo con i Medici,
Chirurghi e Flebologi che hanno un approccio alle varici di
tipo funzionale ed emodinamico; questo approccio favorisce le tecniche conservative, mentre la maggior parte ha
una cultura prevalentemente clinica e anatomica e si comporta di conseguenza, applicando solo tecniche ablative,
con il risultato di essere responsabili dell’ingiustificato
sacrificio di un gran numero di vene safene.
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Dicembre 2011
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
LA VALVULOPLASTICA VENOSA CON TECNICA OSES: RISULTATI DI UNA SERIE CLINICA DI 32 CASI
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
127
TORNA ALL'INDICE
3 - comunicazioni orali 16-11-2011 11:08 Pagina 128
ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2010;58(Suppl. 1 al N. 6):128-9
Correlazioni tra alterazioni della pompa suro-plantare,
dell’apparato valvolare ed insorgenza
di ulcera flebostatica: due casi clinici
A. SELLITTI1, A. DI FILIPPO2, R. GIORDANO1, M. APPERTI3
Le ulcere venose degli arti inferiori sono espressione di
scompenso nel funzionamento delle vene periferiche.
All’origine esiste un’ipertensione venosa con microangiopatia da stasi. Il perdurare di tale situazione conduce
all’edema, iperpigmentazione, ipercheratosi, dermoipodermite sino all’ulcera. Le ulcere venose degli arti inferiori rappresentano il 75% di tutte le lesioni trofiche a carico
di questi distretti. Sono affetti da ulcera flebostatica lo 0,3
– 3% dei pazienti con malattia venosa cronica agli arti
inferiori. L’innovazione tecnologica, determinata dall’utilizzo di medicazioni avanzate e terapia compressiva adeguata, ha ridotto notevolmente i tempi di guarigione
(risoluzione dell’ulcera in meno di tre mesi di trattamento
in circa l’80% dei pazienti), ma non delle recidive. Alla
base di queste ultime concorrono una non adeguata
osservanza da parte dei pazienti dei consigli terapeutici
suggeriti dallo specialista (terapia chirurgica, scleroterapica, medica, compressiva).
Materiali e metodi
Sono stati trattati presso i nostri centri negli ultimi 5 anni
284 ulcere venose (93 maschi, 191 femmine) di età compresa tra i 22 e i 94 anni. Tra queste abbiamo selezionato
due casi clinici interessanti che evidenziano le correlazioni che sussistono tra le alterazioni della pompa suro-plantare, dell’apparato valvolare e l’insorgenza di ulcera flebostatica. Il sistema venoso è un circolo a bassa velocità di
flusso ed è condizionato dalla funzione delle valvole e
del lavoro muscolare. Un drenaggio fisiologico consente
di mantenere nel distretto capillare una pressione adatta a
consentire gli scambi gassosi e metabolici con i tessuti.
Un ostacolo e/o una difficoltà al normale deflusso consegue la formazione di settori di stasi che producono una
sofferenza del microcircolo. In verità esistono altri fattori
che concorrono a determinare questo percorso a ritroso,
tuttavia il loro ruolo complessivo è insufficiente a garantire un adeguato deflusso. Questi fattori sono la “vis a
tergo” che agisce prevalentemente sul distretto venulare,
il “massaggio arterioso” che rappresenta una forza debole, la “vis a fronte” che è attiva nei grossi tronchi prossimi
al diaframma ed è fovorita dal clinostatismo, il “tono
128
1ASL
Salerno, Ospedale Nocera Inferiore, Pagani,
Servizio di Angiologia e Flebologia Chirurgica,
U.O.C. di Chirurgia Generale ed Oncologica
2ASL Salerno, Ospedale Nocera Inferiore, Pagani,
Servizio di Ecocolordoppler Vascolare,
U. O. C. di Medicina d’Urgenza
3Seconda Università di Napoli,
Sezione di Fisiopatologia e Terapia delle Flebopatie
venoso” che dipende dal simpatico, maggiormente deputato al controllo della volemia che al ritorno venoso. Il
primo caso clinico riguarda una paziente di 65 anni sottoposta 30 anni fa ad intervento di stripping della safena
interna sinistra. Circa 20 anni fa, in seguito ad incidente
stradale, si procurava una frattura alla gamba e piede sinistro con esito in anchilosi dell’articolazione tibio-tarsica.
Dopo un anno dall’incidente compariva un’ulcera flebostatica in sede sovramalleolare interna sinistra ed un inizio di recidiva varicosa. 10 anni fa fu operata per recidiva
varicosa all’arto inferiore sinistro. In 20 anni l’ulcera è
guarita 2 volte per periodi brevi. La paziente è portatrice
di scarpa ortopedica e negli ultimi 8 anni non vi è stata
nessuna guarigione, nonostante 2 interventi di innesto
dermo-epidermico. Si è affidata alle nostre cure da circa 2
anni. Il secondo caso clinico riguarda un paziente di 73
anni, affetto da cardiopatia aritmica ipertensiva, pregresso
infarto del miocardio e trombosi venosa profonda all’ arto
inferiore destro, esitato in sindrome post-flebotrombotica.
È forte fumatore con segni morfo-emodinamici di importante e diffusa sclerosi vasale agli arti inferiori, in trattamento con dicumarolici (I.W. = 6 sia a destra che a sinistra). Trattasi di un soggetto dinamico senza evidenti alterazioni posturali. Circa 3 anni fa vi è stata la comparsa di
una lesione ulcerativa cutanea all’ arto inferiore di destra
in seguito a microtraumatismo, complicatosi con un’infezione. Gestita correttamente, applicando anche una cauta
elastocompressione, la lesione guariva in 2 mesi, e tuttora
senza recidiva.
Risultati
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
CORRELAZIONI TRA ALTERAZIONI DELLA POMPA SURO-PLANTARE, DELL’APPARATO VALVOLARE ED INSORGENZA...
Delle 284 ulcere venose (93 maschi, 191 femmine) trattate
negli ultimi 5 anni abbiamo ottenuto la guarigione del
92% dei casi. Nell’83% è avvenuta entro il primo trimestre,
la restante percentuale entro 24 mesi. Nel primo caso clinico la lesione ulcerativa non ha mai raggiunto la guarigione totale negli ultimi 8 anni, nonostante 2 interventi di
innesto dermo-epidermico. Il secondo caso clinico, invece, la guarigione è avvenuta in 2 mesi, senza recidiva a
distanza di 3 anni.
Conclusioni
L’utilizzo delle medicazioni avanzate nella cura delle ulcere flebostatiche e delle lesioni cutanee, richiede una adeguata curva di apprendimento. L’uso corretto di questi
presidi ha permesso, nell’ultimo quinquennio, di ridurre
drasticamente il tempo di guarigione. Comunque la guarigione è condizionata notevolmente dall’ efficienza della
continenza valvolare e della pompa suro-plantare. L’incontinenza valvolare può essere ridotta con una corretta
terapia compressiva e farmacologica. Nei casi di insufficienza del sistema venoso superficiale, la correzione chirurgica e/o scleroterapica dà buoni risultati. Più difficile
risulta guarire ulcere con alterazioni della pompa suroplantare. Verosimilmente la percentuale delle ulcere venose che non pervengono a guarigione completa sono da
attribuire a quest’ ultima evenienza.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
SELLITTI
Bibliografia
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Torino 2001.
2. G. Genovese. Chirurgia delle vene e dei linfatici. Ed. Masson.
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inferiori – Atti 9° congresso nazionale AIUC. Catania 15-18
settembre 2010.
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n 3, pag 285-98, giugno 2011.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):130-1
Postura e circolazione nostra esperienza
E. BUCHERINI1, R. ROSSETTI2, C. BRINI1, F. VENTURA1
La frequente ricorrenza di gamba gonfia che rappresenta
spesso una conseguenza di patologia venosa ostruttiva
(trombotica) presenta difficoltà di diagnosi differenziale
di fronte a silenzi diagnostici strumentali (ecodoppler) e
di laboratorio (d-dimero negativo). La ricorrenza a malattie osteo-articolari (come l’artrosi) o malattie muscolo-tendinea spesso conseguenza di strappi o distrazioni muscolari oppure malattie infiammatorie della cute e del sottocute come l’erisipela viene spesso posta ma non sempre
riscontrata. Tale ricerca viene posta soprattutto di fronte
al riferimento di un dolore tipico manifestato da un
paziente. Non sempre comunque il dolore è tipico spesso
il sintomo è espressione di una contrattura cronica di
muscoli della dinamica reclutati per uno scopo statico.
Cioè le catene crociate di apertura e chiusura si inseriscono in uno schema posturale statico gestito dalla catena
statica di base controllato cioè dalla catena statica connettivale correlata dalla flessione e dalla estensione. Su questo schema agiscono le catene cinetiche pertanto il movimento del soggetto con quella condizione statica di base
non sarà mai uguale a quello di un altro soggetto che ha
una condizione di base di partenza diversa. Se si attiva di
più una emicatena rispetto ad un’altra ci porta a flessioni
diverse (alluce valgo, retropiede asimmetrico, recurvatum
del ginocchio) sono espressioni funzionali adattative del
corpo. Il problema posturale o meglio della diagnosi
posturale è stato sempre quello di riuscire a capire la successione degli avvenimenti in un atteggiamento per fornire indicazioni ad un intervento più specifico nel sistema
posturologico (recettore podalico, stomatognatico, oculare, vestibolare etc). L’atteggiamento posturale è spesso
mediato anche da condizionamenti psicologici (es la
retropulsione durante l’esercizio ad occhi chiusi è frequente negli ansiosi, depressi, in chi ha paura, in chi ha
avuto pregressi traumi psichici etc). Il sistema posturale
non è solo uno scambio di informazioni neuronali, ma
risulta spesso “sporcato” dal vissuto del paziente con una
azione cibernetica mediata dall’ ippocampo sede delle
“emozioni”. L’individuo nel suo insieme non è solo meccanico ma olistico con indagine anamnestica sul disagio
del paziente. Osso è un sistema statico il connettivo è un
sistema dinamico di riferimento che fa da contrappeso,
130
1AUSL
di Ravenna, S.S. di Medicina Vascolare Angiologia,
Dipartimento Cardiovascolare
2Ambulatorio Specialistico di Posturologia e Fisiatria,
Ferrara
ma i vasi sono gli “inquilini” delle nostre fasce. Così come
le leve non si potrebbero esercitare se non ci fosse questo schema osteo- muscolare i nostri vasi risentono di
compressioni stiramenti e lassità connettivali.
Materiali e metodi
Gli studi del circolo del circolo in genere ma soprattutto
del venoso spesso considerano un solo distretto, ostio
della safena, punto di fuga, perforanti sviluppo di un circolo collaterale con interessamento di più dipartimenti,
shunt chiusi o aperti, ma tali valutazioni sono limitati allo
studio di una singolo distretto della gamba o di un singolo arto senza considerare o studiare in modo più completo la funzione dell’organismo nella sua globalità cioè del
nostro assetto posturale. Cioè voglio dire che dobbiamo
studiare si come i nostri piedi appoggiano a terra, ma
anche se esiste una correlazione funzionale fra il nostro
atteggiamento posturale, cioè come stiamo in piedi ed
come ci muoviamo e la nostra circolazione. Già da tempo
sappiamo come l’attività fisica migliori la circolazione e
soprattutto sappiamo come le anomalie del piede, creino
delle difficoltà ad un corretto funzionamento della circolazione soprattutto sul versante venoso e linfatico. Ciò
che ancora non riusciamo a capire è perché la presenza
di insufficienze venose (varicosità) e linfatiche (linfedema) si esprimano maggiormente in una gamba rispetto
altra nonostante non sussistano alterazioni anatomiche
dei nostri vasi, in fondo i nostri piedi sono piatti o cavi
da entrambi i lati. Sappiamo comunque da studi di posturologia clinica che una buona coordinazione ed una
buona postura passano attraverso lo studio delle fasce
connettivali (cioè di sistemi di rivestimento) presenti nel
nostro corpo. Le fasce formano l’involucro superficiale e
profondo del nostro corpo. Il grado di cedevolezza varia
da fascia a fascia con gradi di lassità diversi. Partendo da
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POSTURA E CIRCOLAZIONE NOSTRA ESPERIENZA
BUCHERINI
queste considerazioni e prendendo lo spunto dall’attivazione nella nostra azienda di un ambulatorio per patologie del piede e della caviglia in abbiamo valutato quaranta pazienti flebopatici venti con un atteggiamento in chiusura e venti in apertura delle catene muscolari riscontrando patologie diverse sui due gruppi.
Risultati
Nella catena di apertura verso la catena di chiusura erano
più frequenti le perforanti di coscia 8 (20) vs 3 (20) con
minori incontinenza ostiale delle safene interne 5 (15) vs
10 (20). Non variazioni significative della piccola safena 3
(20) vs 2 (20) e delle perforanti visibili di gamba presenti
14 (20) vs 16 (20).
Atteggiamento posturale valutato nel seguente modo:
– catena di apertura apre l’iliaca, il bacino, abduce il
femore e crea un varo dell’anca. Rotazione esterna del
femore, rotazione esterna della tibia, la supinazione
del piede verso l’esterno, varo del calcagno, quinto
varo;
– la catena di chiusura crea la rotazione interna del
femore, la rotazione interna della tibia, valgo del
ginocchio, la pronazione del piede verso l’interno,
valgo del calcagno, alluce valgo.
Tali indagini anamnestica servono anche per richiamare
l’attenzione su patologie di appannaggio del sistema
posturale più frequente e disponibile nell’ambito famigliare (es: alluce valgo, atteggiamenti posturale) ma anche
secondo noi nelle sindromi varicose possiamo ricordare
alterazioni simili nella famigliarità del paziente. Così’
come accavallare la gamba come il nonno indica una predisposizione tonico funzionale di insieme che fa compiere
al soggetto un moto particolare di accavallare la gamba.
Una gestualità che è identificabile nella filogenesi od
ontogenesi del rapporto dedicato, come la mimica, (ridi
come tuo padre etc). Nella valutazione posturale è importante descrivere una storia anamnestica ben definita che
va dai trattamenti odontoiatrici, ortopedico (plantare,
busto, scarpette, protesi, ginnastica correttiva, occhiali da
lontano e da vicino, lenti a contatto correzione ortottica
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
etc). Scivolate banali, fratture distorsioni di caviglie, traumi, cefalee, emicrania, instabilità (non sindromi vertiginose), cinetosi e scoliosi ecc.
Conclusioni
La nostra valutazione non ha la pretesa di dare indicazioni comportamentali ma riflessioni per eventuali proposte
atte a valutare il nostro paziente in modo olistico non
solamente come vasculopatico al fine di cogliere le fatica
ed il dolore spesso espresso nel paziente con disturbi
posturali. Spesso in medicina le evidenze scientifiche
sono limitate e quelle esistenti sono messe in discussione
o presentano una scarsa rilevanza. Il medico, allora deve
frequentemente fare delle scelte terapeutiche, nella speranza di adottare la cura migliore per i propri pazienti.
Bibliografia
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AFP Edit., Paris.
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dello studio del paziente vertiginoso. Acta Otorhinol. Ital.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2010;58(Suppl. 1 al N. 6):132-3
Il varicocele pelvico e scrotale
J. CLERISSI, C. MASSA SALUZZO, A. RAGAZZONI, A. LA ROSA, M. DONDI, C. SCOTTI, M. MARTINOTTI, R. MOIA
Il varicocele è una patologia che interessa il sistema
vascolare del testicolo caratterizzata da dilatazione ed
incontinenza delle vene testicolari, che hanno il compito
di drenare il sangue dal testicolo. Insorge solitamente tra i
15 e i 35 anni, eccezionalmente prima, assai di rado nella
vecchiaia. Presenta un’incidenza elevata: nell’85% dei casi
è localizzato a sinistra, nell’11% è bilaterale e solo nel 4%
a destra, a causa delle differenti caratteristiche anatomiche tra le due vie vascolari. La vena testicolare destra
sbocca infatti ad angolo acuto nella vena cava inferiore e
la sinistra perpendicolarmente nella vena renale di sinistra, a basso flusso rispetto alla vena cava. Le vene dilatate possono determinare un innalzamento della temperatura del testicolo, che se si mantiene per lungo tempo può
causare infertilità e atrofia testicolare.
Il varicocele femminile, definito anche come insufficienza
venosa pelvica, è caratterizzato da una dilatazione delle
vene ovariche. Nella maggior parte dei casi colpisce la
vena ovarica sinistra per motivi anatomici. È più frequente di quanto si immagini, fino al 15% delle donne fra i 18
e i 50 anni ne è affetta.
Nella maggior parte degli uomini i sintomi non sono evidenti e tendono a presentarsi con il caldo, dopo sforzi
fisici, alla fine di un rapporto sessuale o dopo una prolungata stazione eretta. Includono dolore sordo al testicolo, senso gravativo di pesantezza a livello scrotale, sensazione di fastidio al testicolo o in una parte dello scroto.
Obiettivamente il testicolo interessato può risultare più
piccolo rispetto all’altro e si possono apprezzare vene
dilatate a livello scrotale.
Nelle donne il dolore pelvico mono o bilaterale, cronico
e fastidioso, è associato talora ad algie in regione periovarica, senso di peso addominale, irritabilità vescicale e
gonfiore al basso ventre. La sintomatologia si accentua
con il flusso mestruale, la posizione eretta, l’affaticamento
e con i rapporti sessuali.
La diagnosi, oltre ad un accurato esame obiettivo, prevede l’esame del liquido seminale (spermiogramma) e l’ecocolordoppler scrotale per l’uomo; l’ecocolordoppler transvaginale e la angio-RM dell’addome per la donna.
La scleroembolizzazione transcatetere, rispetto alla chirurgia tradizionale, è una tecnica che permette di trattare il
132
Polo universitario Istituto di Cura Città di Pavia,
U.O. di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Università degli studi di Pavia
paziente in modo rapido, sicuro ed estremamente efficace: è infatti quasi totalmente indolore, necessita unicamente di una lieve anestesia locale, non necessita di sutura e può essere effettuata in regime di day-surgery.
Materiali e metodi
È stato condotto uno studio retrospettivo in 252 pazienti:
186 uomini di età media 25.2 anni (range tra i 13 e i 40
anni) e 66 donne di età media 35 anni (range tra i 25 e i
52 anni) trattati con scleroembolizzazione transcatetere tra
il gennaio 2000 e il marzo 2011. Le vene interessate sono
state selettivamente cateterizzate usando accesso venoso
brachiale antecubitale o femorale; per l’embolizzazione è
stata iniettata una schiuma ottenuta con sodio tetradecil
solfato al 3% e aria. Nel follow-up i pazienti sono stati
monitorati tramite esame clinico e eco-doppler. Negli
uomini è stata inoltre eseguita una valutazione della patologia e della fertilità attraverso l’utilizzo di un questionario. L’analisi dello sperma è stata eseguita seguendo le
linee guida della WHO. Le differenze tra i parametri spermatici prima e dopo il trattamento sono state valutate
attraverso il Wilcox test.
Risultati
Il tasso di successo della tecnica è stata del 97% (247 varicoceli). I risultati del follow-up completo (49,3 mesi ±
21,46 dev. st.) in 198 varicoceli (78,5%) ha rilevato 7
(3,5%) recidive di varicocele di grado II-III e la risoluzione della patologia in 191 (96,5%) casi. Successivamente al
trattamento è stato accertato un miglioramento statisticamente significativo di tutti i parametri spermatici nei
pazienti prima infertili (P <,001). Di 56 pazienti che desideravano avere un figlio, e che avevano alterazioni spermatiche prima del trattamento, 24 (43,4%) sono riusciti a
dare inizio a una gravidanza.
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IL VARICOCELE PELVICO E SCROTALE
CLERISSI
Conclusioni
La scleroembolizzazione con schiuma di sodio tetradecilsolfato al 3% nei varicoceli è associata a un basso tasso di
recidiva, a un alto tasso di guarigione e a un significativo
miglioramento delle alterazioni dei parametri spermatici
misurati prima del trattamento stesso; un sostanziale
incremento della possibilità di gravidanza è stato ottenuto
in pazienti che desideravano avere un figlio e che presentavano alterazioni spermatiche prima del trattamento.
Nella donna si è assistito alla quasi totale regressione
della sintomatologia algica.
Bibliografia
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2010;58(Suppl. 1 al N. 6):134
Come organizzare un Servizio di Angiologia
a “isorisorse”
S. CUPPINI1, M. MARZOLO1, G. BURATTIN2, E. DI GIACOMO3, M. CHINAGLIA4, P. AMISTÀ5,
E. RAMAZZINA1, S. PIEROTTI6
L’attività di Angiologia nell’Ospedale di Rovigo sino al 2009
è stata svolta fondamentalmente dalla Medicina Interna,
dalla Chirurgia Vascolare e da altri professionisti (Geriatri,
Neurologi, Specialisti SUMAI) coinvolti singolarmente. Nell’anno 2009 la Medicina Interna è stata investita del compito di verificare, almeno per la parte non chirurgica, la possibilità di coordinare tutta la attività, prendendo spunto
dalla ristrutturazione logistico-tecnologica del Presidio
Ospedaliero. Il compito si presentava particolarmente complesso, sia per la “trasversalità” dell’azione, sia per la consuetudine di utilizzare spazi, tecnologia e risorse umane
secondo vetusti ed apparentemente immodificabili percorsi
clinici-organizzativi. Il raggiungimento di tale obiettivo
rientrava nella contrattazione annuale del budget, non prevedendo alcuna modifica dell’atto aziendale. In definitiva
due sono risultati gli obbiettivi da raggiungere: il coordinamento di tutta la attività angiologica ed il conseguente
miglioramento dell’assistenza al paziente vascolare
Materiali e metodi
Il processo è risultato articolato su una serie di passaggi
obbligati: 1) Riunione di tutte le risorse tecnologiche in
un unico polo, facilmente individuabile e identificabile 2)
Assistenza infermieristica e di accettazione unica 3) Creazione di un calendario di presenza settimanale tale da
garantire la presenza dell’Angiologo tutte le mattine feriali
4) Creazione di un agenda appuntamenti interni unica
con possibilità di inserire i pazienti in post-ricovero o in
follow-up 5) creazione di un data base comune, grazie al
contemporaneo utilizzo della nuova cartella clinica informatizzata 6) Prima riunione “trasversale” tra tutti professionisti coinvolti 7) Organizzazione di un evento formativo aziendale semestrale di natura angiologica 8) Percorso
diagnostico-terapeutico angiologico condiviso con il
Pronto Soccorso 9) Coinvolgimento di tutti gli angiologi
negli studi clinici in essere 10) Definizione di incontri
semestrali con i MMGG per migliorare la appropriatezza.
della richiesta 11) Presentazione del progetto a tutti i
Responsabili di SOC e di Dipartimento.
Risultati
A distanza di meno di due anni dalla originaria ipotesi di
lavoro, il progetto è diventato una realtà ben evidente all’interno del Presidio Ospedaliero, realizzando tutti i passaggi
sopra citati. Tuttavia alcune problematiche, stante la trasver134
1SOC Medicina Interna-Angiologia,
Presidio Ospedaliero ULSS n.18, Rovigo
2SOC Geriatria-Angiologia,
Presidio Ospedaliero ULSS n.18, Rovigo
3Angiologia Specialistica,
Presidio Ospedaliero ULSS n.18, Rovigo
4SOC Neurologia, Presidio Ospedaliero ULSS n.18, Rovigo
5SOC Radiologia, Presidio Ospedaliero ULSS n.18, Rovigo
6Direzione Medica, Presidio Ospedaliero ULSS n.18, Rovigo
salità delle equipe coinvolte, appaiono più complesse e difficilmente realizzabili in tempi brevi: 1) Coordinamento
pomeridiano e nei periodi “ critici” 2) Ridefinizione delle
prestazioni dei calendari CUP per esterni, tale da migliorare
la appropriatezza della richiesta 3) Definizione chiara e inequivocabile dell’attività dell’Angiologo Medico e del Chirurgo Vascolare 4) Stesura di Protocolli comuni con altre figure
professionali coinvolte nella gestione del paziente angiologico: diabetologi, cardiologi e radiologi interventisti.
Conclusioni
L’organizzazione di un Servizio di Angiologia a “isorisorse” è, in un momento di grave crisi economica, una strada percorribile che necessita, tuttavia, del massimo impegno clinico-organizzativo da parte degli specialisti coinvolti e la massima disponibilità della Direzione Sanitaria
del presidio ospedaliero.
Bibliografia
1. Tissue Doppler and strain imaging: anything left in the echolab? Citro R, Bossone E, Kuersten B, Gregorio G, Salustri A.
Cardiovasc Ultrasound. 2008 Oct 30;6:54. Review.
2. Regional left ventricular deformation and geometry analysis
provides insights in myocardial remodelling in mild to
moderate hypertension. Baltabaeva A, Marciniak M, Bijnens
B, Moggridge J, He FJ, Antonios TF, MacGregor GA, Sutherland GR. Eur J Echocardiogr. 2008 Jul;9(4):501-8.
3. Effect of obesity on left ventricular structure and myocardial
systolic function: assessment by tissue Doppler imaging and
strain/strain rate imaging. Tumuklu MM, Etikan I, Kisacik B,
Kayikcioglu M. Echocardiography. 2007 Sep;24(8):802-9.
4. Echocardiography in congenital heart disease: usefulness,
limits and new techniques. Pacileo G, Di Salvo G, Limongelli
G, Miele T, Calabrò R. J Cardiovasc Med (Hagerstown). 2007
Jan;8(1):17-22. Review.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2010;58(Suppl. 1 al N. 6):135-6
Valore incrementale della valutazione della
performance sistolica mediante strain/strain rate nel
predire l’outcome di pazienti cardiopatici ischemici
sottoposti ad interventi di chirurgia vascolare
A. LAURITO1, A. DAGIANTI2, A. MALAJ1, A. ALUNNO1, M.M.G. FELLI1, A. CASTIGLIONE1, J. JABBOUR1,
F. FACCENNA1, B. GOSSETTI1
Lo strain, ossia deformazione, può essere calcolato come
variazione in lunghezza rispetto alle dimensioni originarie
[Lagrangian strain Ω = (L – L0)/L0]. Lo strain rate è calcolato come gradiente di velocità spaziale istantaneo
(1/s), quindi SR = (V2 – V1)/L, meno dipendente dalle
condizioni di carico e perciò miglior indice della contrattilità miocardica. È possibile riportare i valori di regional
strain (SRI) come regional shortening fraction in asse
lungo (strain longitudinale) e come regional thickening
fraction in asse corto (strain radiale), rappresentati da
curve Ω/SR con morfologia opposta: negativa in sistole
(accorciamento) e positiva in diastole (allungamento) per
lo strain longitudinale, positiva in sistole (ispessimento) e
negativa in diastole (assottigliamento) per lo strain radiale. Lo strain misura la deformazione, lo strain rate la velocità di deformazione miocardica. La metodica di speckle
tracking permette di superare i limiti delle tecniche Doppler tradizionali, quali ad esempio l’angolo-dipendenza.
Obiettivo
Dimostrare il valore prognostico aggiuntivo rispetto ai
parametri eco tradizionali, derivante dalla valutazione
pre-operatoria della performance ventricolare sinistra
mediante SRI e speckle tracking in pazienti con vasculopatia polidistrettuale sottoposti ad interventi di chirurgia
vascolare.
Materiali e metodi
Sono stati arruolati 54 pazienti (15 femmine e 39 maschi,
età media 73 anni), ipertesi e cardiopatici ischemici (16
con coronaropatia monovasale e 38 con coronaropatia
multivasale), con vasculopatia polidistrettuale, 24 dei
quali diabetici. Ogni soggetto è stato sottoposto ad
esame clinico ed indagine ecocardiografica pre- e postoperatoria con ecocardiografo MyLab30Gold (Esaote)
secondo le raccomandazioni dell’ASE, con acquisizione
ad alto frame rate >200 frame/s. La FE è stata calcolata
con metodo Simpson. Sono stati registrati tre cicli cardiaci in formato cineloop per le analisi offline. Il ventricolo sinistro in proiezione 4 camere apicale e parasternale asse corto è stato suddiviso in 6 segmenti valutati
individualmente con il software X-Strain-Esaote-Italy per
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1Cattedra
di Chirurgia Vascolare A,
Policlinico ‘’Umberto I’’,
Università degli Studi ‘’La Sapienza’’, Roma
2Cattedra Malattie Apparato Cardiovascolare,
Policlinico ‘’Umberto I’’,
Università degli Studi ‘’La Sapienza’’, Roma
l’analisi 2D SRI longitudinale (regional shortening fraction), radiale (regional thickening fraction) e speckle
tracking. Per tutti i soggetti è stato registrato il valore di
global strain (GS) espresso come media ± deviazione
standard. Le variabili quantitative sono state comparate
mediante test T di Student. Le correlazioni sono state
effettuate con lo studio della correlazione lineare. Un
valore di p <0,05 è stato considerato statisticamente
significativo. I dati sono stati analizzati mediante software SPSS 10,0 (SPSS, Chicago, Il, USA).
Risultati
Nello studio effettuato è stato possibile riscontrare un
valore di global strain ventricolare sinistro significativamente ridotto nel gruppo di pazienti diabetici e con coronaropatia multivasale rispetto alla media del campione
(-14,8 ± 2,8% vs -17,84 ± 3,1%; p <0,05). Lo SRI è stato in
grado di rilevare precocemente alterazioni della contrattilità miocardica, ancor prima di un evidente deterioramento della funzione di pompa valutata come frazione d’eiezione. Proprio in questi pazienti si è registrata una maggiore insorgenza di angina o anomalie elettrocardiografiche (aritmie, anomalie della fase di ripolarizzazione ventricolare) nel periodo post-operatorio.
Conclusioni
L’analisi 2D SRI-speckle tracking è una metodica non
invasiva valida per realizzare un’integrazione tra parametri regionali di funzione sistolica e indici di funzione globale, utile non solo ai fini di una migliore accuratezza
diagnostica ma anche per la stratificazione prognostica di
pazienti con indicazione ad interventi di chirurgia vascolare non cardiaca.
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LAURITO
VALORE INCREMENTALE DELLA VALUTAZIONE DELLA PERFORMANCE SISTOLICA MEDIANTE STRAIN/STRAIN RATE...
Bibliografia
1. Tissue Doppler and strain imaging: anything left in the echolab? Citro R, Bossone E, Kuersten B, Gregorio G, Salustri A.
Cardiovasc Ultrasound. 2008 Oct 30;6:54. Review.
2. Regional left ventricular deformation and geometry analysis
provides insights in myocardial remodelling in mild to
moderate hypertension. Baltabaeva A, Marciniak M, Bijnens
B, Moggridge J, He FJ, Antonios TF, MacGregor GA, Sutherland GR. Eur J Echocardiogr. 2008;9:501-8.
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imaging and strain/strain rate imaging. Tumuklu MM, Etikan
I, Kisacik B, Kayikcioglu M. Echocardiography. 2007;24:8029.
4. Echocardiography in congenital heart disease: usefulness,
limits and new techniques. Pacileo G, Di Salvo G, Limongelli
G, Miele T, Calabrò R. J Cardiovasc Med (Hagerstown).
2007;8:17-22. Review.
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Ruolo della ricostruzione venosa nei traumi
complessi degli arti inferiori
A. SIANI1, F. ACCROCCA1, G.A. GIORDANO1, R. ANTONELLI1, R. GABRIELLI1, L. IRACE2,
O. MARTINELLI2, G. MARCUCCI1
Il trattamento delle lesioni venose nei traumi complessi
degli arti inferiori continua a rappresentare un argomento
controverso. La ricostruzione del segmento venoso infatti,
nonostante comporti un aumento dei tempi chirurgici e
sia soggetta a frequente trombosi postoperatoria, specie
nei traumi estesi, sembrerebbe condizionare un miglioramento dei risultati della ricostruzione arteriosa attraverso
un aumento dell’outflow riducendo le complicanze dell’ipertensione venosa sia breve che a lungo termine. Scopo
del nostro lavoro è quello di analizzare e valutare i risultati delle ricostruzioni del segmento venoso nel contesto
dei traumi complessi degli arti inferiori ed del loro impatto sulla ricostruzione arteriosa e sulla prevenzione dell’ipertensione venosa.
Materiali e metodi
Da gennaio 2004 a dicembre 2010 24 pazienti, 18 uomini
e 6 donne, con età media di 38 anni (17-44) sono stati
sottoposti ad intervento urgente per un trauma complesso
degli arti inferiori.In tutti i casi vi era un coinvolgimento
dell’asse arterioso (femorale comune in 6 casi, femorale
superficiale in 8 casi, arteria poplitea in 7 casi, vasi di
gamba in 3 casi) In 17 casi si è evidenziato intraoperatoriamente un consesuale coinvolgiemto dell’ asse venoso
(femorale comune 5 casi, femorale superficiale 6 casi,
poplitea 5 casi, vasi di gamba 1 caso). In 18 casi abbiamo
avuto una sindrome ischemica senza emorragia da trauma
chiuso, in 6 casi una sindrome emorragica con ischemia
da trauma aperto. In 7 casi si è evidenziato un consensuale coinvolgimento nervoso (nervo sciatico in 5 casi,
tibiale posteriore in 2 casi). In tutti i casi era presente una
scomposizione ossea marcata necessitante di stabilizzazione prioritaria, mentre in 2 casi era inoltre presente una
vasta perdita tegumentaria. Le metodiche di riparazione
sono riportate in tabella I. Abbiamo eseguito una legatura
dei vasi venosi di gamba in 1 solo caso, mentre in 16 casi
è stata eseguita una ricostruzione venosa associando in 5
casi (3 vena femorale superficiale, 2 vena poplitea) un
trombectomia distale per presenza di materiale trombotico associato. In tutti i casi la nostra tecnica si è basata
steps routinari come l’iniziale controllo dei vasi, la trombectomia arteriosa distale, l’impiego dello shunt (tipo
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1UOC Chirurgia Vascolare,
Ospedale “S. Paolo” ASL RMF Civitavecchia-Roma
2UOC Chirurgia Vascolare Policlinico Umberto I, Roma
Tabella I. – Tecniche chirurgiche di riparazione arteriosa
e venosa.
N.
A femorale
comune
V femorale
comune
A femorale
superficiale
V femorale
superficiale
Arteria Poplitea
Vena Poplitea
Arterie Tibiali
Vene Tibiali
Inter- Venoraffia Sutura Legatura Tromposizione
capo a venosa bectomia
graft
capo
safenico
6
5
1
–
–
–
5
4
1
–
–
–
8
7
–
1
–
–
6
6
–
–
–
3
7
5
3
1
7
3
3
–
–
–
–
–
–
2
–
–
–
–
–
1
–
2
–
–
Pruitt) in sede arteriosa e venosa, l’impiego della vena
grande safena contro laterale, la stabilizzazione ossea
mediante fissatore esetrno, il controllo angiografico a
rivascolarizzazione conclusa, le fasciotomie di principio.
Risultati
La mortalità è stata dell’8.3% (2/24) ed è stata legata alle
gravi lesioni associate. Il tasso di amputazione è stato del
9% (2/22) per grave sindrome ischemica irreversibile in
un caso e per l’infezione dei tessuti in un caso rispettivamente. In tutti i pazienti la ricostruzione arteriosa e venosa sono state valutate mediante esame clinico e monitoraggio con eco-color-Doppler a 6 mesi. Per quanto
riguarda la pervietà della ricostruzione venosa,la pervietà
a 30 giorni è stata del 90% (18/20), la pervietà ad 1 anno
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SIANI
RUOLO DELLA RICOSTRUZIONE VENOSA NEI TRAUMI COMPLESSI DEGLI ARTI INFERIORI
del 70% (14/20). La trombosi postoperatoria complessiva
è stata del 30% (2 precoci e 4 tardive). Le misurazioni dei
flussi dei segmenti venosi interposti in femorale superficiale e poplitea rilevata mediante eco-color-Doppler
hanno documentato una buona velocità di flusso associata a continenza valvolare. Non abbiamo avuto fenomeni
di phlegmasia o embolia polmonare nel postoperatorio.
Le ricostruzioni trombizzate non hanno evidenziato fenomeni di ricanalizzazione.
Discussione e conclusioni
La ricostruzione del segmento venoso, specie a livello
della femorale comune o della vena poplitea rappresenta
una problematica complessa e controversa. La legatura di
principio comporta spesso sequele funzionali importanti
legate all’ipertensione venosa che ne consegue e sembrerebbe in grado di ridurre la pervietà della stessa ricostruzione arteriosa a distanza attraverso un aumento delle
resistenze distali 1. La tendenza alla legatura di principio
trova giustificazione in diversi studi che evidenziano una
modesta pervietà a distanza, specie in presenza di lesioni
lunghe o in presenza di traumi contusivi estesi, riportando
inoltre una maggiore incidenza di complicanze legate alla
trombosi della ricostruzione stessa come l’embolia polmonare 2,3. Nella nostra esperienza abbiamo notato come in
presenza di lesioni segmentarie, sotto i 7-10 cm, ma
soprattutto legate a traumi aperti o a basso trauma energetico, la ricostruzione possa invece, in accordo con altri
autori, presentare una buona pervietà sia precoce che a
distanza, aumentando la pervietà arteriosa stessa attraverso un miglioramento dell’outflow 4. La ricostruzione venosa pertanto appare necessaria in alcuni distretti come
quello popliteo o femorale comune al fine di garantire
138
una pervietà migliore della ricostruzione arteriosa. Nella
nostra esperienza l’impiego dello shunt in associazione
alle fasciotomie ha permesso una riduzione significativa
dei tempi d’ ischemia e della sindrome compartimentale
giustificando anche i risultati in termini di pervietà a
breve della ricostruzione venosa. In presenza di traumi
chiusi estesamente contusivi o in presenza di lesioni multiple interessanti i vasi di gamba riteniamo invece che la
legatura di principio sia da preferire in considerazione dei
mediocri risultati sia precoci che a distanza 5. In conclusione riteniamo, in accordo con diversi autori, che nel
paziente stabile, in cui si realizzi il coinvolgimento di segmenti centrali, come la vena poplitea e la femorale comune, la ricostruzione debba essere eseguita di principio,
riservando la legatura alle lesioni molto estese, nei traumi
diffusamente contusivi ad alto impatto energetico o nei
pazienti instabili emodinamicamente.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):139-40
Pyoderma gangrenosum:
caratterische cliniche e criteri diagnostici
D. TONELLO1, B. ZALUNARDO1, S. IRSARA2, L. ZOTTA1, F. BUSATO1, F. BARATTO2, A. VISONÀ1
Il pyoderma gangrenosum (PG) è una rara affezione,
inquadrabile come dermatosi neutrofila infiammatoria sterile, caratterizzata da vaste ulcere cutanee ricorrenti, associate a un essudato emorragico o muco-purulento 1,2. La
corretta diagnosi deve prevedere l’esclusione di altre
cause che possono mimare il PG per poter instaurare
repentinamente un trattamento immunosoppressivo 3.
Caso clinico
Una paziente di 84 anni, affetta da cardiopatia ipertensiva, fibrillazione atriale permanente in terapia anticoagulante orale, ipertiroidismo ed artrite sieronegativa, era
ospedalizzata per la comparsa spontanea di ulcere cutanee agli arti inferiori estremamente dolenti. Le lesioni si
presentavano superficiali, con fondo necrotico, margini
piani, essudato siero-ematico e orletto perilesionale violaceo.
L’esame arterioso escludeva segni di arteriopatia periferica di significato emodinamico. L’ecocolorDoppler venoso
non evidenziava insufficienza venosa profonda o superficiale.
Gli esami ematochimici all’ingresso evidenziavano modesta leucocitosi neutrofila e minimo incremento degli indici di flogosi (VES 31 mm/h, PCR 1,48 mg/dl). Negativo lo
screening per vasculite (ANA, ANCA, fattore reumatoide,
crioglobuline). Negativa la ricerca di HBSAg e anticorpi
anti-HCV. TSH nei limiti di norma. Marcatori neoplastici
negativi (eccetto CEA 5,2, v.n. <3 ng/ml). Negativa la
ricerca di sangue occulto in 3 campioni di feci.
Radiografia del torace, ecocardiogramma ed ecografia
addominale non erano significativi.
La biopsia cutanea evidenziava un quadro aspecifico di
dermatite da stasi.
Il debridement meccanico svelava transitoriamente un
fondo completamente granuleggiante, ma rapidamente
ricompariva abbondante necrosi con tendenza all’estensione concentrica.
La paziente era trattata con antibiotici, antidolorifici, antiinfiammatori e prostaglandine e.v. con scarso beneficio.
L’introduzione di steroidi ad alto dosaggio (prednisone
1 mg/kg) presentava un immediato effetto antalgico, ma
scarsa efficacia sulle lesioni cutanee che continuavano a
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1U.O.D.
Angiologia, Ospedale S. Giacomo,
Castelfranco Veneto (TV)
2U.O.D. Chirurgia Vascolare, Ospedale S. Giacomo,
Castelfranco Veneto (TV)
presentare iper-reattività al debridement (patergia). L’ossigenoterapia iperbarica veniva interrotta prematuramente
per cinetosi invalidante durante il trasporto in ambulanza.
Posto il sospetto di un PG, si instaurava terapia immunosoppressiva con ciclosporina e colchicina, successivamente sospese per la comparsa di effetti collaterali (diarrea,
ipertensione, candidosi del cavo orale, interazione con la
warfarina), e successivamente con methotrexate.
Nei due mesi successivi la paziente andava incontro a
graduale e completa guarigione delle lesioni, con sospensione degli analgesici e ripresa dell’autonomia che la
paziente aveva progressivamente perso durante la lunga
malattia in ospedale.
Discussione
L’esatta prevalenza del PG non è nota. L’incidenza stimata
varia tra 1 e 3,3 ogni 330.000 soggetti, ed è maggiore nel
sesso femminile in età compresa tra i 20 e i 50 anni. Nel
3% dei casi colpisce soggetti in età pediatrica 4.
Il quadro clinico è polimorfo per quanto riguarda la sede
delle lesioni, la loro estensione e profondità e le manifestazioni di accompagnamento. Sono maggiormente colpiti
gli arti inferiori, in particolare la superficie anteriore delle
gambe, ma raramente possono essere interessate anche
altre parti del corpo e le mucose (es. cavo orale, regioni
peristomali in pazienti con morbo di Crohn o colite ulcerosa con ileostomia) 5.
Sulla base dell’alterazione cutanea caratteristica possiamo
distinguere le quattro forme cliniche maggiori del pyoderma: bolloso, ulceroso, pustoloso e granulomatoso superficiale (o vegetante).
Più frequentemente la malattia esordisce con noduli dolorosi o con pustole sterili che progrediscono rapidamente
(anche meno di 48 ore) e che evolvono in ulcere molto
dolorose, di profondità e grandezza variabili (fino a 20
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TONELLO
PYODERMA GANGRENOSUM: CARATTERISCHE CLINICHE E CRITERI DIAGNOSTICI
cm di diametro), dai bordi violacei o bluastri, non definiti,
circondate da orletto eritematoso. La forma ulcerosa si
estende centrifugamente e si mantiene solitamente superficiale, mentre la forma pustolosa, caratterizzata da raccolte purulente, si accresce con andamento serpiginoso.
Caratteristico, ma incostante, è il fenomeno della patergia,
in cui le ulcere insorgono in zona di pregresso trauma
minore per iper-reattività cutanea. La formazione delle
lesioni può non associarsi a sintomi generali, ma più frequentemente l’esordio si accompagna a dolore, febbre
elevata, astenia ed artralgie 6.
Il decorso clinico può essere mite o maligno, cronico o
ricorrente, con una significativa morbilità.
Nel 50% dei casi il PG si associa a una malattia di base,
spesso una malattia infiammatoria viscerale (morbo di
Crohn, rettocolite ulcerosa), una malattia ematologica a
carattere proliferativi 7 o reumatica (artrite reumatoide,
lupus eritematoso sistemico) o un tumore maligno 8. Queste affezioni associate sono numerose e senza relazione
patogenetica apparente. Il PG a volte rivela la malattia
sottostante; in altri casi costituisce un evento intercorrente
nel decorso di una patologia già nota. Il controllo della
malattia associata non sempre porta alla guarigione delle
ulcerazioni cutanee.
L’eziologia non è stata ancora determinata con esattezza.
È presente una disfunzione del sistema immunitario coinvolgente sia l’immunità umorale che quella a mediazione
cellulare. La disfunzione umorale consiste in una reazione
antigene-anticorpo su antigeni esogeni (infettivi o farmacologici) o endogeni (malattie autoimmuni, neoplasie). La
reazione a mediazione cellulare è provocata da un incremento delle interleuchine (IL-1, IL-2, IL-6), con iperproduzione di G-CSF (Granulocyte Colony Stimulating Factor),
mobilizzazione midollare dei granulociti neutrofili e incremento del Tumor Necrosis Factor (TNF)-alfa.
L’istologia è aspecifica e dipende dallo stadio evolutivo: si
osservano ascessi sterili con denso infiltrato di polimorfonucleati e alterazioni vascolari (trombosi capillari, emorragie, necrosi). La ricchezza di polimorfonucleati neutrofili
giustifica l’assimilazione dell’affezione a una dermatosi
neutrofilica.
La diagnosi è essenzialmente clinica, coadiuvata dall’istologia, che ha il compito di escludere altre patologie in
grado di mimare il PG.
I tre indizi cardine sono:
a) l’aspetto caratteristico delle ulcere (bordo rilevato, violaceo, sottominato);
b) il carattere rapidamente evolutivo;
c) l’assenza di risposta alla terapia antibiotica.
La diagnosi differenziale deve essere posta con infezioni
del derma (micosi profonde, micobatteriosi, fascite necrotizzante), vasculiti (in particolare morbo di Wagner), calcifilassi (anch’essa dolorosa ed ingravescente), ulcere da
insufficienza venosa o arteriosa, sindrome di Sweet (sindrome paraneoplastica) o ulcere artefatte 9.
Il trattamento del PG è problematico. Non abbiamo dati
da sperimentazioni prospettiche randomizzate. I migliori
trattamenti documentati sono con i corticosteroidi sistemi-
140
ci (prednisone, metilprednisolone ad alte dosi) e gli inibitori della calcineurina (ciclosporina A, tacrolimus). Nei
casi resistenti sono usate combinazioni di steroidi con sulfamidici o farmaci citotossici (azatioprina, methotrexate).
Terapie topiche con corticosteroidi, tacrolimus ed altri
presidi specifici del corretto wound-care sono associati a
risultati non sempre soddisfacenti 10. A causa del fenomeno della patergia il debridement chirurgico delle lesioni è
controindicato. I trapianti cutanei e l’applicazione di cute
sintetica, possibili solo previa stabilizzazione della malattia con immunosopressori, possono ridurre il dolore e il
rischio di infezioni secondarie 11.
La prognosi del PG non è di facile definizione in quanto
dipende dalla tempestività della diagnosi. La storia naturale tende verso una lenta risoluzione con una cicatrice
depressa antiestetica, nel corso di mesi od anni. Se il trattamento è instaurato precocemente, è possibile la restitutio ad integrum, con possibilità comunque di recidive fino
al 30% dei casi.
Conclusioni
Il sospetto di PG deve essere posto in pazienti con lesioni
a comparsa spontanea, dolenti, rapidamente evolutive e
scarsamente responsive alla terapia antibiotica. Il PG è
una diagnosi di esclusione e rappresenta un’urgenza dermatologica, in quanto il ritardo nell’instaurare la terapia
immunosopressiva può portare a lesioni estese e mutilanti
e, in casi estremi, all’amputazione.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOL 2010;58(Suppl. 1 al N. 6):141-3
Miglioramento della funzione cardiaca e dello stretch
di parete in pazienti claudicanti
dopo ciclo riabilitativo aerobico
S. ZECCHETTO, S. DE MARCHI, A. RIGONI, F. RULFO, M. PRIOR, E. AROSIO
L’esercizio fisico controllato ha dimostrato la sua efficacia
nell’incrementare la capacità di marcia del paziente,
migliorando significativamente la limitazione funzionale
correlata alla patologia e la prognosi. L’esercizio fisico
aerobico eseguito con regolarità riduce gli eventi cardiovascolari, agendo attraverso vari meccanismi. Un elemento di rilievo è il miglioramento della performance cardiaca dopo training fisico; questo aspetto è stato ampiamente valutato nei soggetti affetti da cardiopatia ischemica,
mentre pochi sono i dati relativi a pazienti con arteriopatia periferica. Il training fisico controllato nei pazienti
post-infartuati, a breve distanza dall’evento, migliora la
frazione di eiezione e previene l’incremento del diametro
telediastolico del ventricolo sinistro riducendo inoltre i
livelli di NTproBNP, molecola che incrementa in relazione
allo stretch di parete ventricolare. NTproBNP è considerato un affidabile e sensibile marker di disfunzione cardiaca. Vi sono crescenti evidenze che dimostrano come
all’aumentare della concentrazione di NTproBNP, incrementi il rischio di sviluppare insufficienza cardiaca e
patologia cardiovascolare nella popolazione genrale.
Recenti studi hanno inoltre messo in relazione, in pazienti
affetti da cardiopatia ischemica, il grado di incremento di
NTproBNP dopo esercizio fisico massimale con l’aumento
del rischio cardiovascolare. Non vi sono dati a noi noti
riguardanti l’andamento di NTproBNP in pazienti claudicanti in corso di training fisico. Ci siamo pertanto proposti di valutare, in pazienti con arteriopatia degli arti inferiori al II stadio di Leriche-Fontaine, privi di patologia cardiaca nota, le modificazioni della performance cardiaca
(funzione sistolica, diametro telediastolico del ventricolo
sinistro, NTproBNP) e dell’emodinamica periferica dopo
un breve ciclo di training fisico controllato.
Materiali e metodi
Sono stati arruolati 22 pazienti con claudicatio intermittens (II stadio secondo la classificazione di Leriche-Fontaine), di età compresa tra 50 e 75 anni, con un ABI tra
0,5 e 0,9 all’arto più sintomatico. Sono stati esclusi i
pazienti con deficit contrattile del ventricolo sinistro
(FE<45%), con anamnesi positiva per evento ischemico
cardiaco, con alterazioni della cinetica segmentaria del
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
U.O.C. di Riabilitazione Vascolare, Policlinico GB Rossi,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
ventricolo sinistro. I pazienti arruolati hanno seguito un
ciclo riabilitativo della durata di quindici giorni, con sedute quotidiane comprendenti: 30 minuti di esercizi aerobici
(propriocezione e attivazione muscolatura respiratoria);
50-60 minuti di camminata su treadmill al 70% dell’intervallo di marcia assoluto (alla comparsa del dolore ischemico il paziente sospendeva l’esercizio fino alla risoluzione della sintomatologia per poi riprendere la camminata);
20 minuti di cyclette libera. All’inizio e al termine del
ciclo riabilitativo i pazienti hanno eseguito test al treadmill per determinare l’intervallo di marcia assoluto (i test
sono stati condotti a velocità 3,2 km/h e pendenza 10%);
durante il test la camminata è protratta fino al massimo
dolore sopportabile in modo da misurare la massima
distanza percorribile dal paziente (MWD). All’inizio e
immediatamente al termine di ogni test abbiamo effettuato: prelievo per dosaggio NTproBNP; ecocardiografia con
misurazione del diametro telediastolico del ventricolo
sinistro, della frazione di eiezione e della frequenza cardiaca; ecocolorDoppler dell’ arteria femorale comune
bilateralmente con misurazione del volume di flusso ad
un centrimetro dalla biforcazione. Per l’analisi statistica è
stato utilizzato il programma Stata 11.0. I dati raccolti
hanno mostrato una distribuzione normale e sono stati
analizzati utilizzando il t-test per dati appaiati eccetto che
per i valori relativi alla portata femorale che, non avendo
distribuzione normale, sono stati analizzati mediante test
di Wilcoxon. Le figure sono espresse mediante grafico
Box-and-Whisker plots: il box comprende i valori tra il
25° e il 75° percentile (il 50% dei dati); la linea orizzontale all’interno del box rappresenta la mediana; le linee verticali raggiungono i massimi valori superiori e inferiori,
considerando come fuori limite i valori che distano dal
box una distanza superiore a una volta e mezzo il box
stesso (•).
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
ZECCHETTO
MIGLIORAMENTO DELLA FUNZIONE CARDIACA E DELLO STRETCH DI PARETE IN PAZIENTI CLAUDICANTI DOPO CICLO ...
Figura 1. – NTproBNP prima e dopo training (*p<0.005).
Figura 2. – Portata dell’arteria femorale comune prima e dopo
training (*p<0.05).
Risultati
protratto per 25 giorni. In pazienti affetti da arteriopatia
periferica è stato recentemente documentata una correlazione tra concentrazione di NTproBNP e mortalità a cinque anni per qualsiasi causa. La riduzione di NTproBNP si
associa nel nostro studio ad una riduzione del diametro
telediastolico del ventricolo sinistro a riposo; entrambi
questi dati dimostrano una migliorata dinamica ventricolare con maggior efficienza di pompa e concomitante riduzione dello stretch di parete (dato rilevato finora solo nel
paziente cardiopatico). A ciò va associato un decremento
della frequenza cardiaca basale che contribuisce all’efficienza cardiaca migliorando il riempimento ventricolare e
la perfusione coronarica. Per quanto riguarda l’emodinamica periferica, abbiamo documentato un incremento
significativo della portata femorale sull’arto sintomatico
dopo training; tale rilievo ben si accorda con il consensuale incremento dell’autonomia di marcia. Questo dato
potrebbe essere attribuito ad un potenziamento dei circoli
collaterali e ad un miglioramento della funzione endoteliale indotta da esercizio fisico. I nostri dati confermano
quindi l’efficacia del training fisico supervisionato, anche
per cicli brevi, nell’incrementare l’autonomia di marcia del
paziente claudicante e nell’aumentare il flusso ematico
all’arto sintomatico. Dopo training fisico NTproBNP si
riduce e incrementa meno in risposta all’esercizio massimale; tale dato, unitamente al rilievo di una riduzione del
diametro ventricolare diastolico indica una migliore
performance cardiaca con un favorevole riduzione di
stretch di parete ventricolare. In considerazione dei risultati ottenuti riteniamo che NTproBNP possa essere valutato in studi più ampi come marcatore di efficacia del training fisico nel migliorare l’emodinamica cardiovascolare
in pazienti con arteriopatia agli arti inferiori. In questo
senso si potrebbe inoltre valutare se l’andamento della
concentrazione di NTproBNP prima e dopo test massimale sia in grado di avere un valore predittivo di risposta riabilitativa.
Al termine del ciclo di training fisico controllato abbiamo
rilevato un incremento dell’ autonomia di marcia (MWD
450±180 m vs 250±108 m; p<0,05). Abbiamo inoltre osservato una riduzione della concentrazione di NTproBNP
(188±108 pg/mL vs 210±130 pg/mL; p<0.005 – figura 1) e
del diametro telediastolico del ventricolo sinistro (48±4
mm vs 50±5 mm; p<0,05) a riposo. Il test al treadmill ha
provocato un incremento significativo di NTproBNP; l’entità di incremento è stata più bassa dopo training (12±10
pg/mL vs 24±21 pg/mL; p<0,0005). Parallelamente il diametro telediastolico del ventricolo sinistro a riposo è risultato ridotto al termine del training (48±4 mm vs 50±5 mm;
p<0.05). In riposta al test al treadmill, il diametro telediastolico del ventricolo sinistro ha mostrato un incremento
significativo prima del training (52±7 mm vs 50±5 mm;
p<0.0005), mentre non sono state registrate variazioni al
termine. La frazione di eiezione non ha subito variazioni
significative, mentre la frequenza cardiaca è risultata ridotta dopo il ciclo di allenamento (66±9 bpm vs 71±12 bpm;
p<0.05). Per quanto riguarda la portata dell’arteria femorale comune in condizioni di riposo, il ciclo riabilitativo ha
determinato un aumento del volume di flusso all’arto sintomatico (2,55±2,13 L/min vs 1,86±1,30 L/min; p<0,05 figura 2).
Discussione
I pazienti arteriopatici claudicanti presentano NTproBNP
pre-training ai limiti superiori della norma. Tale dato
potrebbe indicare una condizione di relativa sclerosi
parietale con aumento della tensione applicata alla parete
durante la normale attività cardiaca; abbiamo in corso
valutazioni per confrontare questi dati con quelli di individui sani di pari età. Il ciclo riabilitativo supervisionato,
seppur breve, ha determinato la riduzione della concentrazione di NTproBNP a riposo, con una riduzione dell’incremento dello stesso in risposta al treadmill test a fine
training. L’incremento di NTproBNP dopo esercizio acuto
è stato documentato in soggetti cardiopatici nei quali è
stata inoltre rilevata una riduzione di concentrazione di
NTproBNP in condizioni di riposo dopo training aerobico
142
Bibliografia
1. Mueller T, Dieplinger B, Poelz W, Endler G, Wagner OF,
Haltmayer M. Amino-terminal pro-B-type natriuretic peptide
as predictor of mortality in patients with symptomatic
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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MIGLIORAMENTO DELLA FUNZIONE CARDIACA E DELLO STRETCH DI PARETE IN PAZIENTI CLAUDICANTI DOPO CICLO ...
peripheral arterial disease: 5-year follow-up data from the
Linz Peripheral Arterial Disease Study. Clin Chem. 2009;
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2. Shmilovich H, Ben-Shoshan J, Tal R, Afek A, Barshack I,
Maysel-Auslander S, Harats D, Keren G, George J. B-type
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3. Berent R, von Duvillard SP, Crouse SF, Auer J, Green JS, Sin-
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ZECCHETTO
zinger H, Schmid P. Short-term residential cardiac rehabilitation reduces B-type natriuretic peptide. Eur J Cardiovasc
Prev Rehabil. 2009;16:603-8.
4. Rutten JH Mattace-Raso FU, Steyerberg EW, Lindemans J,
Hofman A, Wieberdink RG, Breteler MM, Witteman JC, van
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Peptide improves cardiovascular and cerebrovascular risk
prediction in the population: the Rotterdam study. Hypertension 2010; 55: 785-791.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2010;58(Suppl. 1 al N. 6):144-5
Studio di fattibilità in one-day surgery di procedure
endovascolari non complesse
F. ACCROCCA, A. SIANI, G.A. GIORDANO, R. GABRIELLI, R. ANTONELLI, G. MARCUCCI
Alla luce dell’atteggiamento sempre più mini-invasivo
delle procedure chirurgiche e della necessità di mantenere i costi sanitari sempre più limitati, la possibilità di
ridurre la durata della degenza ospedaliera prima e,
soprattutto dopo, interventi di chirurgia vascolare ha
determinato un ricorso alle tecniche endovascolari in
costante crescita. Se per la fase preoperatoria la cosiddetta “preospedalizzazione” ha limitato di molto la degenza
preoperatoria, le procedure endovascolari eseguite in
anestesia locale e con approcci percutanei hanno altresì
ridotto il tempo di degenza postoperatorio. Si è giunti a
ipotizzare la possibilità di eseguire procedure di chirurgia
endovascolare non complesse, quali quelle riservate al
trattamento di patologie ostruttive delle arterie degli arti
inferiori al II stadio di Fontaine, in regime di day-hospital
o di oneday-hopsital.
Lo scopo del nostro lavoro è quello di valutare la fattibilità in one day-surgery di interventi di chirurgia endovascolare in pazienti affetti da arteriopatia ostruttiva al II
stadio.
Materiali e metodi
Dal Gennaio 2008 al Dicembre 2010, abbiamo sottoposto
108 pazienti a 123 procedure di angioplastica percutanea
di lesioni dell’asse iliaco-femoro-popliteo. Tali pazienti
(età media 69 anni, range 50-82) presentavano come fattori di rischio ipertensione arteriosa nel 87% dei casi, diabete nel 56% dei casi, tabagismo nel 33% dei casi, dislipidemia nel 66% dei casi e pregressa cardiopatia ischemica
nel 12%. La classificazione ASA preoperatoria era II in 82
pazienti (75,9%) e III nei restanti 26 (24,1%). Il quadro
sintomatologico era rappresentato da un stadio di Fontaine IIb con una claudicatio intermittens variabile da 10 a
350 metri (media 150 metri circa).
In 33 casi si è trattato di angioplastica del distretto iliaco,
in 79 del distretto femorale e popliteo sopragenicolato e
in 11 casi del distretto popliteo sottogenicolato. In 101
casi (82,1%) alla procedura di angioplastica si è associato
stenting. Nel distretto iliaco abbiamo utilizzato nella totalità dei casi uno stent di tipo premontato, mentre a carico
dell’arteria femorale superficiale abbiamo utilizzato uno
stent auotoespandibile nel 67% dei casi, uno stent rico144
UOC Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Ospedale “S.Paolo” ASLRMF Civitavecchia-Roma
perto nel 23% e solo nel 10% è stata eseguita una angioplastica senza stent. Nel distretto popliteo infra e sottogenicolato è stata eseguita in tutti i casi solo un’angioplastica senza stent.
Le procedure suddette sono state eseguite in tutti i casi in
anestesia locale con infiltrazione del sito di puntura (94,4%
femorale, 5,6% brachiale) con Mepivacaina all’1% con un
dosaggio massimo di 10 cc. In cinque casi è stato necessario l’uso di una blanda sedazione con Fentanest 2 cc.
La durata media delle procedure è stata di 55 minuti con
un range compreso tra 29 e 177 minuti.
Una compressione manuale del sito di puntura femorale
è stata eseguita in 45 casi nella prima fase della nostra
esperienza e, successivamente, un sistema di chiusura
(Proglide Closure, Abbott – Angioseal, StJude Medical) è
stato utilizzato nei restanti 71 casi. Nei 7 casi di puntura
brachiale è stata praticata una compressione manuale.
Per verificare la fattibilità in day hospital delle suddette
procedure endovascolari abbiamo analizzato l’incidenza
di complicanze locali (ematomi sede di puntura, ischemie
d’arto) e sistemiche a distanza di 3, 6, 12, 24 ore dalla
procedura.
Risultati
Nelle 123 procedure eseguite abbiamo osservato a tre ore
dal termine la comparsa di un ematoma dal sito di puntura in tre casi (2,4%), per nessuno dei quali è stata tuttavia
necessaria una revisione chirurgica dell’emostasi. A 6 ore
dal termine di una procedura abbiamo osservato la comparsa di una ischemia (0,8%) dell’arto trattato per cui è
stato necessario la disostruzione chirurgica. A tre ore
abbiamo notato la comparsa di un caso (0,8%) di dolore
toracico. A 12 e 24 ore, rispettivamente, non si è verificata alcuna complicanza locale o sistemica.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
STUDIO DI FATTIBILITÀ IN ONE-DAY SURGERY DI PROCEDURE ENDOVASCOLARI NON COMPLESSE
Conclusioni
Dall’analisi della nostra esperienza e dalla revisione della
letteratura 1, abbiamo osservato che l’incidenza di complicanze locali e sistemiche dopo procedura di angioplastica
è complessivamente bassa ed è significativamente limitata
alle prime 6 ore dopo la procedura. Tali procedure endovascolari pertanto, in casi non complessi, che non richiedano lunghi tempi ed in pazienti selezionati, rappresentano una tecnica efficace e sicura, tanto da poter essere
eseguite in regime di one day surgery o day hospital.
L’impiego inoltre dei sistemi di chiusura percutanea,
come l’angioseal o il Proglide, possono ulteriormente, in
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
RONA
accordo con altri autori ed in pazienti selezionati, permettere una più rapida deambulazione e dimissibilità 2.
Bibliografia
1. Kırma C, Oduncu V, Tanalp AC, Erkol A, Dündar C, Sırma D,
Tigen K, Pala S, Izgi A, Türkmen M, Sunar H. Primary angioplasty in a high-volume tertiary center in Turkey: in-hospital
clinical outcomes of 1625 patients. Turk Kardiyol Dern Ars.
2011;39:300-7.
2. Hvelplund A, Jeger R, Osterwalder R, Bredahl M, Madsen JK,
Jensen JS, Kaiser C, Pfisterer M, Galatius S.The Angio-Seal™
femoral closure device allows immediate ambulation after
coronary angiography and percutaneous coronary intervention. EuroIntervention. 2011;7:234-41
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):146-7
Ruolo degli interventi Ibridi nel salvataggio d’arto in
pazienti con ischemia critica
R. ANTONELLI, F. ACCROCA, G.A. GIORDANO, A. SIANI, G. MARCUCCI
L’associazione di interventi chirurgici tradizionali come il
bypass o l’endoarterectiomia con metodiche endovascolari è sempre più frequente nella pratica clinica poiché permette sia di gestire in un unico tempo le lesioni multidistrettuali sia perché permette di trattare le lesioni dell’inflow e/o dell’outflow di una rivascolarizzazione chirurgica
stessa riducendo sensibilmente la morbilità e la mortalità
in pazienti generalmente ad alto rischio chirurgico. Scopo
del nostro studio è di valutare i risultati a distanza delle
rivascolarizzazioni ibride degli arti inferiori nei pazienti
con ischemia critica.
Materiali e metodi
Da gennaio 2005 a dicembre 2010 75 pazienti (53 maschi
e 22 femmine), con età media di 75 anni (53-85) affetti da
ischemia critica delgli arti inferiori sono stati sottoposto a
trattamento ibrido di rivascolaizzazione degli arti inferiori.
In 55 casi i pazienti appartenevano alla classe III° secondo la classificazione di Leriche-Fontaine presentando un
ABI tra 0.4 e 0.3,in 20 casi alla IV° classe con ABI inferiore a 0.3. In tutti i casi è stato eseguito un work-up preoperatorio mediante ecocolor-doppler,valutazione dell’
ABI, angioTC o AngioRMN. I fattori di rischio associati
erano: ipertensione artriosa sistemica, tabagismo, cardiopatia ischemica, diabete, dislipidemia, obesità.
Le procedure sono state distinte in prossimali (Gruppo A:
correzione endovascolare dell’inflow iliaco e bypass
femoro-distale) o distali (Gruppo B: bypass femoropopliteo e PTA tibiale).
Il gruppo A ha compreso 62 pazienti in cui è stato eseguita una PTA/stentintg dell’ asse iliaco in associazione a
bypass femoropopliteo sottogenicolare in vena safena
autologa in 58 casi o con PTFE in 4 casi, il gruppo B ha
compreso 13 pazienti in cui al bypass femoropopliteo in
vena safena autologa è stata associata una procedura di
PTA dei vasi di gamba o dell’ arcata plantare.
In 67 casi è stata associata una terapia con endoprost nel
periodo pre e postoperatorio, in 8 casi tale terapia non è
stata eseguita per problematiche di natura cardiolohgica.
68 pazientisono stati sottoposti a terapia con doppia
antiaggregazione (ASA e clopidogrel) per 6 mesi con successiva sospensione del clopidogrel. In 7 casi è stata ripri146
UOC Chirurgia Vascolare,
Ospedale “S. Paolo” ASL RMF Civitavecchia-Roma
stinata una terapia con anticoagulante orale in associazione a clopidogrel per 6 mesi. In tutti i pazienti è stata
associata una terapia con statine.
Risultati
La mortalità perioperatoria è stata dell’ 1,3% per infarto
del miocardio a 24 ore(gruppo A).Il tasso d’amputazione
a 30 giorni è stato del 4% (3/74) Ad un follow-up a 6
mesi tre pazienti sono deceduti per infarto del miocardio
(4% 1 gruppo A, 3 gruppo B)La pervietà a 30 giorni è
stata nel gruppo A del 96,7% (59/61) e nel gruppo B del
92,3% (12/13). Nessun paziente è stato perso al follow
up. La pervietà primaria e prmaria assistita ad 1 anno è
stata del 75% e 83,3% rispettivamente nel gruppo A e del
66,6 %e 77,7% rispettivamente nel gruppo B. In caso di
occlusione precoce si è proceduto ad amputazione di
coscia in tutti i casi. Il tasso d’amputazione ad 1 anno è
stato del 16,6% nel gruppo A e del 22,3% nel gruppo B.
Nel follow-up non si sono riscontarti fenomeni di infezione protesica. In tutti i casi abbiamo avuto un miglioramento della sintomatologia e dell’healing della lesione
distale. In tutti i casi si è assistito ad un aumento dell’
ABI.
Discussione e conclusioni
L’approccio ibrido presenta il vantaggio di trattare in
modo sincrono lesioni multidistrettuali, migliorando
l’inflow o l’outflow per una bypass chirurgico.e garantendo pertanto la sua pervietà a distanza 1,2. Nella
nostra esperienza abbiamo avuto risultati migliori nel
gruppo A, dove le lesioni erano prossimali. L’impiego
inoltre di un materiale venoso autologo di calibro congruo ha permesso di ottenere risultati validi sia precoci
che a distanza attraverso un rigido protocollo di sorveglianza ultarsonografica al fine di diagnosticare e tratta-
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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RUOLO DEGLI INTERVENTI IBRIDI NEL SALVATAGGIO D’ARTO IN PAZIENTI CON ISCHEMIA CRITICA
re precocemente tutte quelle situazioni di failing graft.
Viceversa nel gruppo B, la presenza di una grave interessamento dei vasi tibiali ha condizionato risultati
meno brillanti specie a distanza. Inoltre, specie in seguito all’occlusione del bypass, le possibilità di un pervietà
primaria assistita o secondaria mediante redo chirurgico
o endovascolare è apparsa più aleatoria e difficoltosa 3.
In entrambe i gruppi appare essenziale una corretta
terapia postoperatoria ed un attento follow-up al fine di
identificare rapidamente le condizioni di Failing graft
imminente che devono essere prontamente trattate.
Ulteriori valutazioni potranno essere desunte da un
ampliamento della casistica operatoria. Tuttavia i risulta-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
ANTONELLI
ti brillanti a breve termine, e la possibilità di un trattamento in un unico tempo sembrerebbero suggerire la
validità di tale approccio.
Bibliografia
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twenty-five concomitant endovascular and open procedures
for lower extremity arterial disease. J Vasc Surg 2003;37:316322.
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3. Slovout DP, Sullivan TM. Combined endovascular and open
revascularization. Ann Vasc Surg 2009;23:414-24.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
147
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3 - comunicazioni orali 16-11-2011 11:08 Pagina 148
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):148-9
Utilità di un precoce riconoscimento di lesioni non
occludenti, ma a rischio (failing graft),
nei by-pass femoro-distali
M.M.G. FELLI, A. ALUNNO, A. CASTIGLIONE, A. MALAJ, J. JABBOUR, F. FACCENNA, A. LAURITO
La previsione di una occlusione di un bypass femorodistale (failing graft) rimane a tutt’oggi di difficile riconoscimento ed il tasso di occlusione rimane tutt’oggi ancora
non indifferente. Nel 2007 la TransAtlantic InterSociety Consensus (TASC II) ha raccomandato di eseguire
un programma di sorveglianza clinica che consiste nella
registrazione della comparsa di nuovi sintomi,
l’esame obiettivo degli arti con la palpazione del bypass
e dei polsi periferici, la misurazione a riposo e, se possibile, dopo esercizio fisico, degli indici cavigliabraccio (ABI). Tale programma di sorveglianza andrebbe
iniziato nel periodo immediatamente post-operatorio e
condotto ogni 6 mesi per almeno 2 anni 1.
Lo scopo di questo studio retrospettivo è quello di valutare quale potrebbero essere le strategie tali da
prevenire l’occlusione dei bypass femoro-distali e migliorarne così la pervietà secondaria e ridurre così il ricorso
ad interventi di amputazione maggiore.
Materiali e metodi
Da una revisione dei nostri dati su 402 pazienti sottoposti
a un bypass femoro-distale (306 bypass femoro-poplitei
sottogenicolati e 96 bypass femoro-tibiali), è stato possibile valutare i dati inerenti i controlli clinici e gli esami strumentali ad ultrasuoni (valutazione dell’ABI con Doppler
C.W.
e
imaging dell’albero arterioso effettuato con ecocolorDoppler) in 310 pazienti.
Durante l’esame ecografico, sono stati rilevati alcuni parametri, come ad esempio: velocità di picco sistolico all’interno del bypass, velocità di picco sistolico nell’eventuale
sito di massima stenosi, il rapporto di velocità di
picco sistolico, la velocità di fine diastole nel sito di massima stenosi e il diametro minimo residuo di l’innesto.
Questi pazienti sono stati divisi in tre gruppi sulla base
dei dati ultrasonografici: gruppo A, senza alterazioni emodinamiche o morfologiche significative; gruppo B, con
alterazioni morfo-funzionali presenti, ma non ritenute “a
rischio” di occlusione; gruppo C, pazienti con “failing
graft”. I criteri per definire un paziente “a rischio” erano:
VPS-bypass (cm/sec)= 30-50, VPS-max (cm/sec) <250,
VPS-ratio <3, VFD (cm/sec) <100, decremento dell’ ABI
148
Cattedra di Chirurgia Vascolare,
“Sapienza” Università di Roma, UOC di Chirurgia
Vascolare A, Policlinico Umberto I di Roma
<0.15 e diametro residuo del bypss >3 mm. I criteri per
definire un paziente con “failing graft” invece erano: VPSbypass (cm/sec) <30, VPS-max (cm/sec) >250, VPS-ratio
>3, VFD (cm/sec) >100, decremento dell’ ABI >0.15 e diametro residuo del bypass <3 mm (Fig. 1).
Risultati
La mortalità è stata nulla. Nel corso del follow-up di questi pazienti, della durata media di 26 mesi, 42 pazienti
sono stati inclusi nel gruppo B e sono stati sottoposti ad
un ulteriore controllo a distanza di tre mesi: a tale controllo, 11 pazienti hanno presentato parametri invariati,
ma in due di essi, a distanza, si è verificata l’occlusione
del bypass che ha richiesto l’amputazione dell’arto in un
caso. I rimanenti 31 pazienti di questo gruppo, all’ulteriore controllo sono stati inseriti nel gruppo C. In 15 di essi,
è stato effettuato un re-intervento precoce: 9 PTA e stenting delle lesioni diagnosticate e 6 revisioni
chirurgiche delle anastomosi. I restanti 16 pazienti sono
stati sottoposti a sola terapia antiaggregante e vasoattiva.
Nessuno dei pazienti sottoposti a reintervento ha presentato un’occlusione del bypass o ha necessitato di un’
amputazione per tutta la durata del follow-up (Fig. 2).
Invece nei pazienti sottoposti a terapia farmacologica, 11
hanno presentato un’occlusione dell’innesto. In questi
casi, il recupero della vascolarizzazione dell’arto è stato
possibile solo in 6, riconfezionando chirurgicamente il
bypass. Tuttavia in 6 pazienti si è reso necessario un
intervento di amputazioni maggiore.
Conclusioni
L’eco-color-Doppler, insieme agli altri strumenti previsti
dal programma di sorveglianza, sembra essere lo strumento migliore per il controllo di questi pazienti, sia per
le note caratteristiche di non-invasività, basso costo,
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UTILITÀ DI UN PRECOCE RICONOSCIMENTO DI LESIONI NON OCCLUDENTI, MA A RISCHIO (FAILING GRAFT),...
FELLI
Figura 1. – Immagine eco-color-Doppler che mostra un aumento
della VPS >250 cm/sec a livello dell’anastomosi prossimale di un
bypass femoro-popliteo sottogenicolato.
Figura 2. – Immagine eco-color-Doppler effettuata al controllo a
3 mesi, dopo procedura di PTA dell’anastomosi prossimale della
lesione relativa alla Figura 1.
riproducibilità dell’esame che per la possibilità di rilevare
parametri morfologici e velocimetrici del bypass e dei siti
anastomotici. Tuttavia l’incapacità di riprodurre in un’unica immagine il bypass, le calcificazioni parietali e la scarsa compliance dei pazienti sono i principali limiti di questo programma di sorveglianza. Il rischio di sviluppare
una lesione stenotica del bypass diminuisce con il tempo,
ma rimane nel range del 5-10%/anno, in pazienti che
necessitano di bypass in vena grande safena invertita per
ischemia critica degli arti 2,3. Il trial clinico “Ex-Vivo Graft
Engineering via Transfection III” (PREVENT III) che ha
analizzato i risultati su bypass infrainguinali effettuati
per ischemia critica, ha documentato che il 30% dei
bypass sono stati sottoposti a revisione entro 1 anno della
procedura, con l’8% dei bypass richiedenti tre o più interventi 4.
Sembra quindi fondamentale raccomandare al paziente di
attenersi al controllo dei fattori di rischio e di partecipare
al programma di sorveglianza proposto al fine di ridurre
al minimo il rischio di sviluppare lesioni stenotiche che
possano compromettere la pervietà del bypass. Nella
nostra esperienza, il 13,5% delle lesioni “a rischio” sono
stati rilevate durante il programma di follow-up, che ha
permesso di evidenziare stenosi a livello del bypass
anche in pazienti asintomatici. Secondo i risultati del
nostro studio, in caso di riscontro di “failing graft”,
il paziente, se possibile, deve essere tempestivamente sottoposto a un reintervento evitando l’occlusione del bypass
e l’eventuale amputazione dell’arto. Questi dati mostrano
come un controllo strumentale dei pazienti sottoposti a
bypass periferici possa evitare il ricorso ad interventi
di demolizione dell’arto, diminuendo inoltre il costo
sociale del paziente; i nostri risultati sembrano essere correlati con quelli pubblicati nella letteratura recente 5.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):150-1
Trattamento endovascolare degli aneurismi periferici
J. CLERISSI, C. MASSA SALUZZO, A. RAGAZZONI, A. LA ROSA, M. DONDI, C. SCOTTI, M. MARTINOTTI, R. MOIA
Gli aneurismi periferici sono lesioni arteriose piuttosto
rare; possono rimanere a lungo asintomatiche oppure
manifestarsi con una serie di complicanze che mettono in
grave pericolo l’integrità dell’arto coinvolto. Il distretto
maggiormente interessato è quello popliteo (70-80%),
seguito in ordine di frequenza da quello femorale: arteria
femorale comune (26%), arteria femorale superficiale
(3,5%), arteria femorale profonda (0,5%). Di rilevanza epidemiologica risulta l’associazione tra aneurismi del
distretto femoro-popliteo e dell’aorta addominale, evidenziabile in circa il 3% dei soggetti portatori. L’eziopatogenesi degli aneurismi arteriosi nel 90% dei casi rientra nel
contesto di un’aterosclerosi polidistrettuale. Da un punto
di vista clinico la prima manifestazione sintomatologica di
un aneurisma periferico è rappresentata da una sua complicanza: trombosi ed embolizzazione periferica sono le
più frequenti, mentre più raramente vanno incontro a rottura. Ne consegue l’importanza di effettuare una diagnosi
corretta e precoce, allo scopo di procedere ad un adeguato trattamento preventivo; la storia naturale dell’aneurisma infatti porta ad una progressiva dilatazione e conseguente aumento del rischio di complicanza, circostanza
che impone una mirata strategia terapeutica. L’indicazione
al trattamento sussiste in presenza di sintomatologia clinica e negli aneurismi asintomatici il cui diametro superi i 2
cm. La tecnica chirurgica tradizionale è quella dell’aneurismectomia con o senza interposizione di protesi. Nel caso
del distretto popliteo si procede al confezionamento di
un by-pass femoro-popliteo utilizzando la vena grande
safena o una protesi in Dacron previa esclusione della
sacca aneurismatica mediante legatura prossimale e distale; il tasso di pervietà cumulativa a 5 anni è superiore al
75% in caso di intervento chirurgico in elezione. Risultati
inferiori in termini di pervietà a distanza si sono osservati
in caso di trattamento chirurgico in urgenza per la comparsa di complicanze specifiche. Nel caso di coinvolgimento aortico e femorale si contempla una ricostruzione
con by-pass aorto-bifemorale. Sempre più frequente è
l’impiego della tecnica endovascolare con impiego di
endoprotesi per il trattamento di tale patologia. Trattandosi di una tecnica poco invasiva ed associata a bassa mortalità peri e post-operatoria, risulta più spesso indicata in
quei pazienti ad elevato rischio chirurgico.
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Polo Universitario Istituto di Cura Città di Pavia,
U.O. di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Università degli Studi di Pavia
Materiali e metodi
La nostra casistica comprende 27 aneurismi periferici, trattati presso la nostra Unità Operativa con tecnica endovascolare nel periodo gennaio 2001- aprile 2011. Di questi
21 erano uomini (77,7%) e 6 donne (22,3%) con un’età
media di 67,2 anni (range 45-71 anni). La localizzazione
delle lesioni aneurismatiche era la seguente: 12 a livello
popliteo, 10 a livello dell’arteria iliaca, 5 a livello femorale. La lunghezza media della lesione è risultata essere
47,3 mm (range 33-67 mm). Per tutti i pazienti si è utilizzato l’accesso femorale (omolaterale in 25 casi e controlaterale nei restanti 2 casi). 23 pazienti (85%) sono stati trattati mediante posizionamento di stent ricoperti, 3 (11%)
con stent non ricoperto e un paziente (4%) con stentgraft.
Risultati e discussione
Il successo clinico è stato immediato in 26 pazienti
(96,3%): in un caso di aneurisma dell’arteria femorale non
è stato possibile escludere completamente l’aneurisma a
causa della tortuosità del vaso e dell’eccessiva lunghezza
del segmento arterioso interessato dalla lesione. Non si è
verificata nessuna complicanza periprocedurale. La mortalità ha inciso in un caso (3,7%) a distanza di 7 mesi dal
trattamento per patologia precedente al trattamento e per
cause non correlate alla procedura angiografica.Il followup ha previsto un’angio-TC di controllo a 6 mesi e seriate
osservazioni ambulatoriali con valutazione clinica e strumentale mediante EcocolorDopplerdel corretto posizionamento dello stent, per un periodo minimo di 18 mesi.
Durante il follow-up sono stati riscontrati 2 episodi trombotici, entrambi a livello popliteo, in sede di posizionamento dello stent ed un epidosio di migrazione del device.Al fine di prevenire la migrazione e l’endoleak degli
stent grafts, la nostra esperienza suggerisce che l’esclusio-
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TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE DEGLI ANEURISMI PERIFERICI
ne endovascolare delle lesioni aneurismatiche dell’arteria
poplitea possa richiedere l’applicazione di una o più
endoprotesi la cui lunghezza complessiva superi di circa 3
cm la lunghezza dell’ aneurisma, sia prossimalmente che
in sede distale. Allo scopo di evitare la disconnessione fra
i devices è preferibile realizzare un overlapping di almeno
2 cm fra le endoprotesi, le quali possono differire di un
millimetro di diametro. La notevole flessione dell’articolazione ed i ripetuti movimenti del ginocchio possono
determinare l’inginocchiamento del device, con conseguente trombosi, e provocare la rottura o la migrazione
dello stent.
Conclusioni
La ricostruzione endovascolare degli aneurismi delle arterie periferiche è stata proposta negli ultimi decenni come
alternativa al trattamento chirurgico convenzionale nei
pazienti ad alto rischio chirurgico. Essa si dimostra poco
invasiva ed elimina la necessità di ricorrere ad emotrasfusione. Il trattamento endovascolare nella patologia aneurismatica periferica appare quindi uno strumento efficace e
sicuro, con alta percentuale di successo a breve e a
medio termine.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):152-4
Trattamento endovascolare delle lesioni iliache:
nostra esperienza
J. CLERISSI, C. MASSA SALUZZO, A. LA ROSA, A. RAGAZZONI, C. SCOTTI, M. DONDI, V. EPICOCO, R. MOIA
L’angioplastica percutanea è diventata un’opzione di
prima scelta nel trattamento delle lesioni stenotiche iliache classificate secondo la TransAtlantic Inter-Society
Consensus (TASC) come tipo A e tipo B. Trattandosi di
una tecnica a bassa invasività è possibile estendere l’indicazione anche a quei pazienti che presentano comorbidità tali da precludere l’approccio chirurgico tradizionale.
Nel nostro studio abbiamo preso in considerazione le stenosi derivanti dalla formazione di placche ateromasiche
che determinano una progressiva ipoperfusione a valle,
clinicamente espressa da claudicatio intermittens con
dolore, crampi o sensazione di fatica durante la deambulazione, localizzato soprattutto ai glutei, alle anche e al
polpaccio.
Scopo dello studio è quello di analizzare i pazienti trattati
con PTA e PTA+stenting presso U.O. Chirurgia Vascolare
Istituto di Cura Città di Pavia dal Gennaio 2000 al Marzo
2010.
Materiali e metodi
In questo studio abbiamo preso in considerazione 154
lesioni iliache in 135 pazienti giunti alla nostra divisione
di Chirurgia Vascolare istituto di Cura Città di Pavia, per
essere sottoposti a trattamento endovascolare, dal Gennaio 2000 al Marzo 2010.
Sul totale dei pazienti considerati 93 (68,8%) erano uomini e 42 (31,1%) donne, con un ‘età media di 67 anni, con
range compreso tra 41 e 88 anni.
I più comuni fattori di rischio riscontrati nei 135 pazienti
giunti alla nostra osservazione erano: ipertensione arteriosa (73%), fumo di sigaretta (62%), CAD (59%), iperlipidemie (47%) e diabete mellito (33%).
Il sintomo più frequente era la claudicatio intermittens,
riscontrato in 78 pazienti (57,8%); 36 (26,7%) lamentavano dolore a riposo e 21 (15,6%) presentavano lesioni trofico-ulcerative dell’arto inferiore.
Abbiamo analizzato, inoltre, la sede delle lesioni, riscontrando l’interessamento dell’arteria iliaca comune in 74
casi (48%), dell’iliaca esterna in 61 (39,6%) e di entrambe
le arterie in 19 casi (12,4%).
Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad accurato esame clinico ed EcocolorDoppler arterioso degli arti inferiori. In
152
Polo Universitario Istituto di Cura Città di Pavia,
U.O. di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Università degli Studi di Pavia
alcuni casi (16%) si è resa, inoltre, necessaria l’esecuzione
di angio-TC arti inferiori.
L’indicazione all’esame angiografico si pone in caso di
stenosi clinicamente significative o di ostruzioni a carico
delle arterie dell’arto inferiore, condizionanti claudicatio
intermittens, dolore a riposo o lesioni trofico-ulcerative.
In particolare, nei pazienti con lesioni iliache la claudicatio intermittens insorge precocemente rispetto a lesioni
più a valle dell’albero arterioso.
L’eventuale terapia anticoagulante viene sospesa 5 giorni
prima della procedura angiografica e sostituita con eparina a basso peso molecolare.
A tutti i pazienti viene praticata idratazione mediante
soluzione fisiologica e sodio bicarbonato.
L’accesso arterioso viene eseguito, previa anestesia locale,
mediante puntura omo o controlaterale in sede inguinale.
Viene posizionato introduttore da 5 o 6 Fr per eseguire il
test angiografico preliminare mediante iniezione di mezzo
di contrasto iodato diluito al 50%. I cateteri da PTA sono
da 3-5 F e montano un pallone calibro 2-8mm. Gli stent
vengono utilizzati soltanto in caso di dissezione arteriosa
e in caso di stenosi residua maggiore 30%. Durante la
procedura vengono somministrati 4000-6000 UI di eparina sodica intra-arteria.
Il successo procedurale viene stabilito sulla base del ripristino del flusso diretto in assenza di stenosi residue. Successivamente si procede a valutazione mediante EcocolorDoppler.
Il follow-up prevede visite di controllo a scadenza trimestrale. Consideriamo insuccesso la restenosi sia di tipo clinico, basata sulla ricomparsa di dolore o di lesioni o sulla
mancata guarigione delle lesioni trofico-ulcerative, che
quella di tipo strumentale, riscontrata ai successivi controlli mediante ecocolor-Doppler. La positività comporta
l’esecuzione di un ulteriore esame angiografico ed eventualmente nuova PTA o PTA+stenting.
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TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE DELLE LESIONI ILIACHE: NOSTRA ESPERIENZA
Risultati
Le lesioni dell’asse iliaco sono state trattate con PTA+stenting in 105 casi (68,2%) e mediante sola PTA in 49
(31,8%). Gli stent sono stati utilizzati nei casi di dissezione
arteriosa e di stenosi residua maggiore 30%. In letteratura
è riportata l’indicazione all’utilizzo di stent soprattutto nei
pazienti che presentano lesioni ilache multiple e diffuse,
concomitante stenosi dell’arteria femorale superficiale
omolaterale, insufficienza renale cronica grave e forte
tabagismo, in quanto hanno un elevato rischio di restenosi. Solo in 1 caso (0,6%) si è avuta la comparsa di ematoma inguinale in seguito alla procedura angiografica. Il
trattamento endovascolare ha avuto esito positivo su 121
(78,6%) lesioni iliache con un netto miglioramento della
sintomatologia e dell’obiettività clinica. Nelle restanti 33
(21,4%) lesioni si è verificata restenosi, evidenziata dalla
ricomparsa dei sintomi e confermata dagli accertamenti
strumentali. Analizzando i casi di restenosi ed i fattori di
rischio associati è emerso che tale evenienza si è verificata soprattutto nei pazienti con abitudine al fumo di sigaretta (75%), con lesioni iliache multiple e diffuse (45%),
con stenosi dell’arteria femorale superficiale omolaterale
(39%) e con grave insufficienza renale cronica (6%).
Conclusioni
Il trattamento endovascolare nelle lesioni iliache ha una
percentuale elevata di successo (78,6%), con basso rischio
di mortalità e complicanze. I casi di insuccesso sono
soprattutto legati ad abitudini di vita come il fumo di sigaretta ed al grado di estensione delle lesioni iliache. La
terapia endovascolare isulta pertanto una valida alternativa alla chirurgia tradizionale, soprattutto per i pazienti di
età avanzata e con severe comorbidità.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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3 - comunicazioni orali 16-11-2011 11:08 Pagina 155
ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):155
Percorso diagnostico-terapeutico integrato
del paziente con vasculopatia diabetica
S. CUPPINI1, M. MARZOLO1, G. LISATO2, F. MOLLO2, P. CARDAIOLI3, L. ZATTONI4, A. SACCO5, E. DI GIACOMO6,
G. BURATTIN7, P. DAL SANTO7, E. RAMAZZINA1
Tra le varie motivazioni alla base della nascita dei Dipartimenti vi è sicuramente la possibilità di condividere risorse
umane, tecnologiche e linee guida comuni per una
gestione quanto più uniforme ed efficace del paziente.
L’arteriopatia degli arti inferiori (PAD), ed in particolare,
quella diabetica, è una patologia il cui approccio multidisciplinare ben si presta a verificare il reale buon funzionamento di un percorso diagnostico-terapeutico.
Materiali e metodi
Dall’anno 2005 all’interno del Dipartimento di Medicina
Interna le SOC di Medicina Interna (Amb.di Angiologia
Medica) e di Diabetologia hanno messo a punto una strategia sistematica di approccio al paziente con sospetta
PAD e con PAD conclamata. Tutti i pazienti con sospetta
PAD venivano sottoposti ad Indice di Winsor (IW), sia in
Ambulatorio Angiologico, sia in Diabetologia; se l’IW
risultava <0.9 veniva confermata la patologia, se IW risultava tra 0.9 e 1.4 veniva esclusa la patologia; tuttavia in
caso di forte sospetto clinico ed IW nella norma, veniva
eseguito IW dopo sforzo: se <0.9 si confermava la PAD e
si avviava il paziente a valutazione di II livello (ecocolor
doppler in Angiologia Medica, ergometria su tappeto
rotante ed ossimetria transcutanea, presso la Diabetologia); tutti i pazienti diabetici con IW >1.4 venivano
comunque inviati alle successive indagini. L’esame ultrasonografico veniva eseguito in Angiologia Medica se il
livello di arteriopatia veniva giudicato sino al grado IIB
sec. Fontaine; veniva invece eseguito in ambito chirurgico
vascolare se si era in presenza di ischemia critica (stadio
III-IV sec. Fontane e ossimetria <30-50 mmHg). I pazienti
con ischemia critica, dopo valutazione chirurgica, venivano sottoposti ad arteriografia, in previsione di intervento
endovascolare o chirurgico tradizionale, oppure alla sola
terapia medica (Prostanoidi), in regime di Day-hospital
Medico. Tutti i pazienti con ischemia non critica venivano
invitati ad eseguire una valutazione clinico-strumentale
semestrale. Per i pazienti che si sottoponevano ad intervento (Endovascolare o tradizionale) veniva organizzato
un follow-up clinico-strumentale a 1,3 e sei mesi. In questo senso l’Ambulatorio di Angiologia Medica ha riservato
uno spazio settimanale ai pazienti affetti da arteriopatia
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1SOC
Med. Int-Angiologia Medica (Dip. Med. Int.),
ULSS 18 Rovigo
2SOC Diabetologia (Dip. Med. Int.), ULSS 18 Rovigo
3SOC Cardiologia, ULSS 18 Rovigo
4SOC Radiologia, ULSS 18 Rovigo
5SOC Chirurgia Vascolare, ULSS 18 Rovigo
6Angiologia Specialistica, ULSS 18 Rovigo
7SOC Geriatria-Angiologia Medica, ULSS 18 Rovigo
diabetica, così come la Diabetologia si è resa disponibile
per l’esecuzioni delle ossmetrie e delle ergometrie.
Risultati
Questo tipo di organizzazione ha portato alla valutazione
di circa 500 pazienti all’anno con sospetta arteriopatia o
arteriopatia diabetica conclamata ; i positivi alle indagini
di primo livello sono risultati circa il 50% e di questi il
40% era diabetico; il 15% presentava un IW <a 0.5, un
30% tra 0.7 e 0.5, un 40% tra 0.9 e 0.7. In circa il 15% dei
pazienti con forte sospetto clinico l’IW era non dirimente
per cui è stato eseguito l’esame ecodoppler. I pazienti
inviati a valutazione chirurgica sono risultati il 10% e di
questi l’80% ha eseguito esame angiografico; la procedura
endovascolare è risultata la più utilizzata, soprattutto nei
pazienti diabetici. Una piccola quota dei pazienti sottoposti ad angiografia (1.5%) è stata giudicata inoperabile ed
avviata alla sola terapia medica con Iloprost.
Conclusioni
L’organizzazione di questo complesso percorso diagnostico-terapeutico, coinvolgente più Unità Operative, ha permesso di ottimizzare le risorse umane e tecnologiche già
esistenti, coordinando e razionalizzando la loro attività,
nell’ottica di una migliore gestione dei pazienti con arteriopatia degli arti inferiori.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):156-7
La PTA + stent dell’ischemia cronica periferica
nel paziente diabetico
J. CLERISSI, C. MASSA SALUZZO, A. LA ROSA, A. RAGAZZONI, E. MOIA, C. SCOTTI, M. DONDI,
V. EPICOCO, R. MOIA
Nei paesi industrializzati il diabete rappresenta la causa
principale di ospedalizzazione per patologie riguardanti il
piede e, dopo i traumi, il principale responsabile eziologico di amputazione. Concorrono all’insorgenza del piede
diabetico essenzialmente due condizioni coesistenti: la
neuropatia diabetica e l’arteriopatia ostruttiva cronica
periferica (AOCP).
Il trattamento endovascolare di ricanalizzazione mediante
palloncino ed eventuale applicazione di stent rimane
tutt’ora la procedura più utilizzata nei pazienti diabetici
affetti da ischemia critica degli arti inferiori, laddove possibile, in alternativa alla chirurgia. Il numero di angioplastiche del distretto periferico per la rivascolarizzazione
dell’arto ischemico ha mostrato un forte incremento negli
ultimi anni. Tale approccio consente nella medesima sessione procedurale una valutazione immediata e rivascolarizzazione dell’albero arterioso con notevoli vantaggi in
termini di costi e benefici per il paziente.
Trattandosi di tecniche a bassa invasività è possibile
estendere l’indicazione anche a quei pazienti che presentano comorbidità tali da precludere l’approccio chirurgico. La crescente esperienza degli operatori e il progressivo miglioramento dei materiali e delle attrezzature utilizzate giustificano un atteggiamento aggressivo nei confronti della patologia in questione.
Scopo di questo lavoro è dimostrare l’efficacia della rivascolarizzazione mediante PTA e stenting nei pazienti diabetici trattati presso il nostro centro, valutando l’outcome
postprocedurale immediato e a breve e a lungo termine.
Materiali e metodi
Nel nostro studio abbiamo analizzato 232 pazienti diabetici (132 uomini 56,9% e 100 donne 43,1%) per i quali si è
reso necessario l’intervento di rivascolarizzazione mediante PTA + stenting. L’ età media dei pazienti è 75 anni in
un range compreso tra 58 e 87.
I pazienti vengono sottoposti ad esame clinico, durante il
quale si pone particolare attenzione alla valutazione dei
polsi arteriosi periferici e ad esame ecocolorDoppler arterioso degli arti inferiori. L’indicazione all’ esecuzione dell’
esame angiografico si pone in caso di stenosi clinicamente significative o di ostruzioni a carico delle arterie all’ar156
Polo Universitario Istituto di Cura Città di Pavia,
U.O. di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
Università degli Studi di Pavia
to, condizionanti claudicatio intermittens stadio II B sec.
Leriche – Fontaine, dolori a riposo o lesioni trofico-ulcerative.
L’ eventuale terapia anticoagulante orale viene sospesa 5
giorni prima della procedura e sostituita con eparina a
basso peso molecolare.
Tutti i pazienti vengono sottoposti a terapia idratante via
endovenosa mediante soluzione fisiologica e sodio bicarbonato.
L’accesso arterioso viene eseguito, previa anestesia locale,
mediante puntura omo o controlaterale in sede inguinale.
Viene posizionato introduttore da 5 o 6 Fr per eseguire il
test angiografico preliminare mediante iniezione di mezzo
di contrasto iodato diluito al 50%. Nel corso degli ultimi
anni si è progressivamente rafforzato il concetto che per
lesioni nel distretto sottogenicolare l’utilizzo di materiale
di tipo coronarico (0,014 inches per i vasi tibiali; 0,035
inches per i vasi femoro-poplitei) sia più indicato, potendo garantire un miglior risultato tecnico finale. I cateteri
da PTA sono da 3-5 F e montano un pallone calibro 2-8
mm. Gli stents vengono utilizzati soltanto in caso di dissezione arteriosa. Durante la procedura vengono somministrati 4000-6000 UI di eparina sodica intra-arteria.
Il successo procedurale viene stabilito sulla base del ripristino del flusso diretto in assenza di stenosi residue. Successivamente si procede a valutazione clinica della validità dei polsi arteriosi periferici, a confronto del rilievo
precedente.
Il follow-up prevede visite di controllo a scadenza trimestrale. Consideriamo fallimentare la restenosi sia di tipo
clinico, basata sulla ricomparsa del dolore o di lesioni o
sulla mancata guarigione delle ulcere, che quella di tipo
strumentale, riscontrata ai successivi controlli mediante
EcoColorDoppler. La positività comporta l’esecuzione di
un ulteriore esame angiografico ed eventualmente nuova
PTA + stenting. È infatti consolidato che l’eventuale falli-
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
LA PTA + STENT DELL’ISCHEMIA CRONICA PERIFERICA NEL PAZIENTE DIABETICO
mento di un trattamento endoluminale non ha effetti
avversi sulla possibilità di un trattamento di rivascolarizzazione chirurgica in un secondo tempo.
Talvolta, a causa dell’estrema calcificazione parietale o
per la presenza di kinking, non è possibile procedere a
rivascolarizzazione endoluminale. In questi casi l’alternativa rimane l’approccio chirurgico tradizionale mediante
confezionamento di by-pass ed in ultima l’amputazione
maggiore.
Risultati
Sul totale dei pazienti trattati (242) è stato possibile eseguire la procedura su 232 (95,9%) pazienti. Non è stato
possibile eseguire l’angioplastica in 10 casi (4,1%) per
problematiche connesse all’accessibilità del segmento
arterioso (eccessiva calcificazione parietale e tortuosità del
vaso). Laddove è stato possibile procedere con PTA +
stenting gli esiti sono stati positivi in 194 (83,7%) casi, con
risoluzione delle lesioni trofiche e miglioramento dell’obiettività clinica. Nei restanti 38 casi (16,3%) si è verificata
restenosi dei segmenti arteriosi, con conseguente ricomparsa della sintomatologia algica o il mancato miglioramento delle lesioni trofico-ulcerative nei pazienti con
arteriopatia periferica di IV stadio (secondo la classificazione di Leriche-Fontaine). Quest’ultimo gruppo di
pazienti è stato candidato ad una nuova procedura emodinamica, eseguita previo nuovo studio dell’albero arterioso mediante ecocolorDoppler. La re-PTA ha avuto successo in 12 pazienti (65%) mentre si è resa necessaria una
terza procedura nei restanti 26 casi. Il salvataggio dell’
arto in questo sottogruppo di pazienti è risultato pari all’
85%.
Conclusioni
Nella nostra esperienza la procedura emodinamica
mediante PTA + stenting del territorio sottogenicolare può
essere considerata tecnica d’elezione con ottimi risultati
clinici e strumentali nel trattamento dell’ischemia critica
cronica del paziente diabetico in particolar modo quando
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
CLERISSI
almeno un’arteria di gamba viene rivascolarizzata con
successo.
Il rischio di amputazione maggiore, infatti, rimane comunque alto nei casi in cui la rivascolarizzazione è avvenuta
solamente nel distretto iliaco-femoro-popliteo.
Bibliografia
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ATTI XXXI congresso nazionale SIAPAV. Roma 25-28 novembre 2009 Minerva Cardioangiologica vol. 57 suppl. 1 n° 6
dicembre 2009.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):158-60
Aneurisma dell’arteria mesenterica superiore:
case report e revisione della letteratura
F. BARATTO1, S. IRSARA1, D. TONELLO2, F. BUSATTO2, B. ZALUNARDO2, A. VISONÀ2
Gli aneurismi dell’arteria mesenterica superiore (AMS)
sono un’evenienza rara, rappresentano il 5,5% degli aneurismi viscerali la cui prevalenza è 0,1-2%1. Sono clinicamente importanti in quanto possono portare a severe
complicanze, quali embolizzazione distale o occlusione
del vaso per trombosi con conseguente ischemia intestinale acuta e rottura con emorragia massiva. Circa il 38%
degli aneurismi dell’AMS (AAMS) si presenta rotto al
momento della diagnosi clinica2, con una mortalità che va
dal 40% al 60%1. Le principali strategie terapeutiche comprendono lo stretto monitoraggio clinico, il trattamento
chirurgico tradizionale oppure l’approccio endovascolare.
Presentiamo un caso di una paziente affetta da doppia
patologia della mesenterica superiore: aneurisma coinvolgente il tratto medio dell’AMS e concomitante dissezione
del tratto arterioso prossimale.
Case report
Una donna di 65 anni, ipertesa, sottoposta 5 anni prima
ad intervento di resezione ileale per infarto segmentale
causato da embolizzazione distale non ulteriormente
indagata, nel luglio 2008 eseguì un’ecografia addominale
con riscontro occasionale di un aneurisma di 2 cm coinvolgente il tratto medio dell’AMS. La successiva angio-TC
addome mostrò l’emergenza dei primi rami digiunali dalla
parete aneurismatica con stenosi serrata post-aneurismatica e concomitante dissezione prossimale del medesimo
vaso a partire dalla sua origine, con coinvolgimento dei
primi rami duodenali, della pancreaticoduodenale inferiore e della colica media (Fig. 1A).
Al momento della diagnosi, la paziente era completamente asintomatica. Venne quindi sottoposta ad intervento di
messa a piatto dell’aneurisma e confezionamento di bypass anterogrado protesico in Dacron 7 mm tra l’aorta
addominale sottorenale, con anastomosi terminolaterale
aortoprotesica, e l’AMS a livello del colletto distale dell’aneurisma, con riperfusione della stessa e del ramo ileocolico. L’AMS venne pertanto legata in corrispondenza del
colletto prossimale dell’aneurisma, mantenendo così la
perfusione nel tratto prossimale di arteria, da cui originavano i rami duodenali e la colica media. Nonostante la
concominate dissezione a tale livello, il vaso non fu trat158
1SSD
Chirurgia Vascolare, Ospedale San Giacomo,
Castelfranco Veneto, Treviso
2SSD Angiologia, Ospedale San Giacomo,
Castelfranco Veneto, Treviso
tato prossimalmente (Fig. 1B,C). Un campione di parete
aneurismatica fu inviato per l’esame istologico che confermò l’eziologia aterosclerotica della lesione. A termine
della ricostruzione non fu riscontrata ischemia intestinale.
Il decorso post-operatorio fu regolare e la paziente venne
dimessa in 7° giornata con terapia antiaggregante. L’angio-TC di controllo, eseguita una settimana dopo intervento, documentò la pervietà del by-pass aorto-mesenterico (Fig. 1D). La paziente venne successivamente monitorata mediante periodici controlli ecografici e tomografici. L’ultima angio-TC addome, eseguita a 3 anni di followup, conferma la pervietà del by-pass e la spontanea risoluzione della dissezione del tratto prossimale della
mesenterica superiore. La paziente è asintomatica.
Discussione
A differenza degli altri vasi viscerali, le cause più frequenti dell’evoluzione aneurismatica dell’AMS sono gli eventi
infettivi e la dissezione3. Gli aneurismi micotici, solitamente, insorgono successivamente ad un’endocardite
subacuta spesso provocata dallo Streptococco non emolitico. Nonostante sia una rara causa di aneurisma, la dissezione intimale interessa l’AMS con maggiore frequenza
rispetto agli altri vasi viscerali. Sino ad oggi sono stati
riportati in letteratura almeno 20 casi correlati a questa
patologia4-6. Altre eziologie di AAMS includono l’aterosclerosi (25%), condizioni infiammatorie come la pancreatite (12%) e, meno frequentemente, i traumi (<2%)5. Nel
70-90% dei casi, i pazienti con AAMS sono sintomatici al
momento della presentazione clinica, i sintomi più frequenti sono: dolore addominale progressivo, angina
abdominis, massa pulsante, nausea o vomito. La febbre
può essere un elemento suggestivo per gli aneurismi
micotici5. Nel nostro caso, il reperto è stato occasionale,
ma va notato che la paziente aveva avuto un pregresso
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ANEURISMA DELL’ARTERIA MESENTERICA SUPERIORE: CASE REPORT E REVISIONE DELLA LETTERATURA
BARATTO
Figura 1. – A) Ricostruzione angio-TC addome pre-operatoria. AMS con dissezione del tratto prossimale ed aneurisma del tratto
medio. B, C) Foto intraoperatorie: aneurisma dell’AMS con emergenza di rami collaterali dalla parete aneurismatica e by-pass. D) Ricostruzione angio-TC addome post-operatoria. By pass aorto-mesenterico.
episodio di embolizzazione con ischemia intestinale per il
quale era stata sottoposta a resezione ileale.
Negli ultimi anni, la diffusione di tecniche di imaging non
invasive ha reso possibile la diagnosi precoce di un maggiore numero di lesioni, anche quelle asintomatiche. Le
indicazioni al trattamento degli aneurismi asintomatici
sono tuttora controverse a causa della rarità di tale patologia e della mancanza di studi prospettici. Tuttavia, gli
Autori sono concordi nel trattare gli aneurismi asintomatici con diametro superiore a 2 cm e quelli sintomatici indipendetemente dalle dimensioni7.
Il trattamento di scelta è la resezione dell’aneurisma con
ricostruzione dell’AMS. Gli approcci chirurgici includono
la legatura, l’aneurismoraffia e l’aneurismectomia. La semplice legatura è considerata una procedura accettabile,
specie nelle situazioni di emergenza, grazie ai potenziali
circoli collaterali tra l’AMS con il tripode celiaco e l’arteria
mesenterica inferiore2,8-10. Qualora sia coivolto il tronco
principale dell’AMS, visto l’elevato rischio di alterazioni
ischemiche distali, è fortemente raccomandata la rivascolarizzazione8. Il graft in vena safena rappresenta il materiale di scelta in presenza di aneurismi infetti o di ischemia intestinale; negli altri casi, invece, le protesi sintetiche
costituiscono una valida alternativa5.
Recentemente sono state introdotte le tecniche endovascolari mininvasive che comprendono l’embolizzazione
con spirali e l’esclusione dell’aneurisma mediante posizionamento di endoprotesi. La prima viene utilizzata in presenza di vasi tortuosi ed aneurismi sacciformi7, in quanto
arterie molto tortuose o con severe angolazioni possono
precludere il posizionamento dello stent-graft7. Gli svantaggi principali di tale tecnica sono il rischio di complicanze ischemiche dovute ad embolizzazione distale e la
riperfusione della sacca aneurismatica da parte di circoli
collaterali, che si verifica nel 37% dei casi11. L’endoprotesi, invece, viene utilizzata per aneurismi fusiformi situati
nel tratto medio-prossimale del vaso coinvolto che deve
avere un decorso rettilineo7. Le principali controindicazioni sono: vasi collaterali con emergenza dalla sacca aneurismatica (la copertura di tali arterie può causare ischemia
intestinale), aneurismi di grosse dimensioni senza una
“landing zone” adeguata ed aneurismi infetti (sospetto clinico-anamnestico)12.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Nel nostro caso, abbiamo preferito il trattamento chirurgico, considerata l’estensione delle lesioni e l’elevato rischio
di ischemia intestinale qualora si fosse optato per un
eventuale approccio endovascolare. Il tratto prossimale
dell’AMS, infatti, era dissecato con coinvolgimento dei
primi rami duodenali e della colica media, la lesione
aneurismatica, invece, era situata nel tratto medio del
vaso con emergenza dell’ileocolica dal colletto distale.
Pertanto, abbiamo preferito non trattare la dissezione, salvaguardando così i primi rami duodenali e la colica
media, mentre sono stati riperfusi i rami emergenti dal
colletto distale dell’aneurisma.
In Letteratura, tuttavia, vengono segnalati diversi casi sia
di dissezione dell’AMS13, sia di aneurismi con coivolgimento di rami collaterali9, che sono stati trattati con successo mediante tecnica endovascolare. Nelle casistiche
riportate dai vari Autori, però, non abbiamo riscontrato la
presenza contemporanea di una doppia lesione come
nella nostra esperienza, dove l’eventuale posiziomanento
di un endograft lungo tutto il segmento coinvolto con
copertura dei rami duodenali, digiunali e della colica
media, sarebbe verosimilmente stato associato ad elevato
rischio di ischemia intestinale massiva.
Conclusioni
Gli aneurismi dell’AMS sono lesioni rare con elevato rischio
di rottura e di mortalità. La chirurgia tradizionale è tuttora
considerata il “gold standard” dalla maggior parte degli
Autori, con soddisfacenti risultati a lungo termine7. Recentemente, sono state introdotte tecniche endovascolari
mininvasive con minore morbidità e mortalità; infatti, possono costituire una valida alternativa alla chirurgia laparotomica in caso di lesioni morfologicamente favorevoli, specie nei pazienti ad elevato rischio. Tuttavia, sono controindicate in alcune situazioni anatomo-cliniche, come aneurismi infetti, voluminosi o lesioni con molti rami collaterali.
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BARATTO
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):161-2
Segni precoci di aterosclerosi in pazienti affetti
da morbo celiaco
S. DE MARCHI1, S. ZECCHETTO1, G. CHIARIONI2, A. RIGONI1, M. PRIOR1, F. RULFO1, E. AROSIO1
In letteratura è stata ampiamente documentata un’ alterazione degli indicatori di aterosclerosi precoce ed in generale un aumento del rischio cardiovascolare in pazienti
affetti da malattie reumatologiche. In tali patologie vengono infatti descritti processi di aterosclerosi accelerata in
relazione allo stimolo flogistico cronico. L’infiammazione
determinerebbe un quadro di disfunzione endoteliale da
perossidazione lipidica che promuove la formazione della
placca aterosclerotica. Sono invece disponibili pochi dati
relativi a tali aspetti nei pazienti affetti da enteropatie a
genesi autoimmune 1-3 ed in particolare per i pazienti
celiaci. Il numero di tali pazienti è in continuo aumento,
anche per le migliorate tecniche diagnostiche e per una
aumentata sensibilità nei confronti del problema. La patologia celiaca presenta caratteri di autoimmunità e di attivazione flogistica che, per quanto locali, comportano
ripercussioni sistemiche e potrebbero quindi determinare
un incremento del rischio cardiovascolare. Ad oggi, però,
tale rischio non è stato ben definito nei pazienti con
morbo celiaco e le poche evidenze disponibili risultano
controverse 4,5. Vengono prevalentemente descritte basse
concentrazioni di colesterolo HDL e, in genere, profili
lipidici sfavorevoli, mentre, per quanto riguarda la valutazione di indici strumentali di disfunzione endoteliale, in
letteratura non vi sono dati 6. Ci siamo pertanto proposti
di valutare la vasodilatazione endotelio-mediata, lo spessore intima-media carotideo, il profilo lipidico, lo stato
infiammatorio ed i livelli di omocisteina in pazienti affetti
da morbo celiaco di nuova diagnosi, prima e dopo dieta
priva di glutine.
Materiali e metodi
Abbiamo esaminato 20 pazienti celiaci (11 femmine e 9
maschi tra 23 e 41 anni) prima e dopo documentato
periodo di dieta priva di glutine. Tutti i pazienti valutati
per sospetto clinico di celiachia (anemia cronica di natura
non identificata, dolori intestinali ricorrenti) sono stati sottoposti a controllo degli anticorpi specifici (anti-gliadina,
anti-endomisio e anti-transglutaminasi) e ad esame endoscopico con biopsia duodenale per la conferma diagnostica all’esame istologico. Sono stati effettuati prelievi per il
dosaggio di colesterolo totale, HDL, LDL, trigliceridi,
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
1UOC
di Riabilitazione Vascolare,
Policlinico G.B. Rossi,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
2UOC di Gastroenterologia, Policlinico G.B. Rossi,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
omocisteina, hs-PCR, folati e vitamina B12. Abbiamo esaminato mediante metodica ultrasonografica lo spessore
intima-media alla carotide comune (IMT) e la vasodilatazione endotelio-mediata all’arteria omerale (EDD). Queste
stesse valutazioni sono state eseguite anche su 22 volontari sani bilanciati per sesso ed età. I dati sono stati analizzati mediante t-test di Student ed analisi della varianza
(ANOVA) e considerati significativi valori di p<0,05.
Risultati
Fra i celiaci, 2 pazienti si presentavano sottopeso, mentre
i restanti risultavano nei limiti ponderali di norma (BMI
20.51, range 17,9-22,9). Con la sospensione dell’assunzione di glutine il peso è aumentato significativamente (BMI
21,07, range 18,9-23,2 - p<0,03). Parimenti, al controllo
dopo il periodo di dieta, sia il colesterolo totale
(204.4±25,2 mg/dl vs 185,42 ±37,77 mg/dl; p<0,03) che il
colesterolo HDL (68,1±15,4 mg/dl vs 51,42 ±18,62 mg/dl;
p<0,03) risultavano incrementati in modo significativo nei
pazienti con celiachia, senza significativo aumento del
colesterolo LDL (127,5±32,3 vs 110,73±24,65 mg/dl). I
valori di omocisteina erano significativamente più elevati
nei pazienti celiaci rispetto ai controlli (18,9±7,3 vs
9,2±2,1 p<0,01) e non si sono modificati con il trattamento dietetico. La proteina C reattiva si è significativamente
ridotta con il trattamento dietetico (p<0,05). L’IMT era
incrementato nei pazienti celiaci rispetto ai controlli sani
(0,082±0,011 vs 0,058±0,012 cm p<0,001; dopo dieta libera da glutine ha evidenziato un significativo decremento
(0,067±0,010 vs 0,082±0,011 cm; p<0,03). La EDD era inizialmente ridotta nei pazienti celiaci rispetto ai controlli
(9,3±1,3 vs 11,2±1,2%; p<0,05) ma raggiungeva valori
sovrapponibili a quelli dei controlli (12,7±2,1%) dopo
intervento dietetico (Fig. 1).
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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DE MARCHI
SEGNI PRECOCI DI ATEROSCLEROSI IN PAZIENTI AFFETTI DA MORBO CELIACO
Figura 1. – Vasodilatazione endotelio dipendente in soggetti
celiaci prima e dopo terapia diatetica e in un gruppo di controlli
sani.
Discussione
In questo studio pilota abbiamo osservato l’alterazione di
alcuni indici di rischio cardiovascolare, sia di tipo metabolico che strumentale in pazienti celiaci alla diagnosi e,
il loro miglioramento dopo dieta priva di glutine. La
celiachia è una condizione con caratteri di tipo autoimmune e target privilegiato nell’intestino tenue, ma con
ripercussioni sistemiche documentate dall’incremento
degli indici di flogosi e dal quadro di malassorbimento.
In letteratura vi sono scarsi dati sull’incidenza della
malattia cardiovascolare in questa popolazione (tradizionalmente le osservazioni sono state fatte sul rischio dell’insorgenza di neoplasie); alcune segnalazioni sono state
effettuate in merito al riscontro di gravi cardiopatie dilatative. Nel nostro studio i pazienti presentavano livelli
aumentati di omocisteina e riduzione relativa della quota
di colesterolo HDL. Il regime dietetico ha determinato un
incremento sia del colesterolo totale che di quello HDL.
La risoluzione della flogosi intestinale permette infatti un
miglior assorbimento dei lipidi, mantenendo comunque
un profilo favorevole sul rapporto colesterolo
totale/HDL. L’iperomocisteinemia potrebbe essere giustificata da un basso assorbimento vitaminico; tuttavia non
si è verificato un miglioramento significativo di tale parametro dopo dieta, forse per il fatto che il meccanismo di
recupero dell’assorbimento vitaminico e la correzione di
questo valore potrebbe richiedere tempi più lunghi. L’incremento dell’IMT è un indice di aterosclerosi subclinica.
Tale parametro è collegato ai fattori di rischio cardiovascolare e, in questo caso, la responsabilità più rilevante
162
potrebbe essere da attribuire alla presenza di uno stato
flogistico cronico, seppure di bassa intensità, come documentato dagli aumentati valori di hs-PCR che, infatti, si
riducono dopo astensione dal glutine. È noto che l’espressione di citochine connesse con i meccanismi di flogosi induce disfunzione endoteliale, in tal senso agirebbe
anche l’aumentato stress ossidativo che è presente nelle
condizioni di flogosi cronica associata a ridotto potere
antiossidante. La correzione dello stato di flogosi, determinata dalla dieta priva di glutine, consente una inversione dei processi che si associano all’incremento dell’IMT, favorendo una iniziale regressione dell’ispessimento. Questi pazienti presentano infine anche una ridotta
vasodilatazione endotelio dipendente flusso mediata,
altra condizione indicativa di aumentato rischio cardiovascolare e verosimilmente collegata con la flogosi cronica
e con le conseguenze del malassorbimento (ridotto
assorbimento vitaminico, incremento omocisteina). La
dieta priva di glutine parrebbe in grado di modificare
favorevolmente tale parametro.
In conclusione, questo studio presenta alcuni dati interessanti sul rischio vascolare nelle malattia celiaca e sulla
possibilità di intervenire con un approccio dietetico su
una condizione di disfunzione endoteliale indotta da
meccanismi autoimmuni. Riteniamo pertanto possa costituire un modello sperimentale da considerare al fine di
ulteriori conferme delle nostre osservazioni.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):165-7
Il trattamento endovascolare delle
varici degli arti inferiori
B. GOSSETTI, F. FACCENNA, A. LAURITO, J. JABBOUR, A. ALUNNO, A. CASTIGLIONE, MMG. FELLI,
A. MALAJ, D. STAVRI
Il trattamento della patologia varicosa prevede un gran
numero di interventi chirurgici, che vanno dalla legatura
e crossectomia del golfo safenico, allo stripping (lungo e
corto), alla varicectomia, alla chirurgia emodinamica
(Chiva), alla chirurgia valvolare, alla occlusione safenica
effettuabile con il laser o le radiofrequenze, ed alla legatura delle perforanti. Un numero così elevato di procedure può essere previsto ed utilizzato per rendere la chirurgia delle varici il più possibile “personalizzata” alle esigenze del paziente ed il più possibile mini-invasiva. Va,
inoltre, sottolineato che molte di queste procedure sono
attuabili grazie all’introduzione in ambito diagnostico dell’ecocolorDoppler (ECD), in grado non solo di offrire un
quadro morfologico preciso di tutto il circolo superficiale
degli arti, ma anche di valutarne la direzione del flusso
ematico al suo interno, la struttura e la continenza valvolare, ed i rapporti con il circolo profondo. Per poter parlare del trattamento endovascolare di occlusione safenica
mediante radiofrequenze è opportuno confrontare e far
riferimento agli interventi di stripping safenico, che da
sempre hanno rappresentato il termine di paragone per
qualsiasi trattamento delle varici degli arti.
Per quanto attiene, dunque, lo stripping della vena grande safena (VGS) occorre tener presente che l’assunto di
una legatura corretta e sistematica di tutti i rami venosi
che costituiscono il golfo (epigastrica superficiale, circonflessa iliaca superficiale, circonflessa laterale e pudenda
interna), come prevenzione di una recidiva varicosa, resta
a tutt’oggi ancora valido, come del resto la necessità di
effettuare la sezione tra legature della VGS il più vicino
possibile alla parete della vena femorale, senza lasciare
un lungo moncone residuo, fonte di possibili apposizioni
trombotiche e successiva embolizzazione, ma anche
senza provocare una stenosi della stessa femorale. Altro
rilievo indispensabile risulta quello che uno stripping isolato delle safene non ha alcuno spazio terapeutico, ma
questo gesto chirurgico va sempre associato all’interruzione delle perforanti coinvolte ed alla varicectomia. Fatte
queste debite premesse le indicazioni allo stripping della
VGS sono: i reflussi lunghi, l’insufficienza delle perforanti
di coscia ed una flebite superficiale recente, per uno
stripping “corto prossimale; un rara patologia localizzata
Vol. 58, Suppl. 1 al N. 6
Cattedra di Chirurgia Vascolare,
UOC di Chirurgia Vascolare A, Policlinico Umberto I,
Università degli Studi “La Sapienza”, Roma
alla gamba, per lo stripping “corto” distale; varici tronculari diffuse, insufficienza valvolare totale con varici malleolari, per lo stripping “totale”. Anche lo stripping della
vena piccola safena ha delle sue precise indicazioni rappresentate da: varici tronculari estese, o dall’insufficienza
valvolare allo sbocco, associata all’insufficienza delle
vene gemellari e della perforante gemellare. Con queste
indicazioni la mortalità legata allo stripping si aggira sullo
0.02% dei casi e le recidive sono attorno al 5-20%, anche
se va sottolineato che tali percentuali sono fortemente
condizionate dal tipo di stripping, dall’operatore (34% di
recidive se l’intervento viene effettuato dal chirurgo generale contro il 6.5% se ad effettuare la procedura è un chirurgo vascolare 1), da come e da chi il paziente viene
controllato e da qual è la durata del follow-up. Fisher, ad
esempio, riporta uno studio retrospettivo a 34 anni, in cui
le percentuali di reflussi post stripping arrivano a superare il 60% in controlli tardivi (oltre 30 anni) 2. Jones3 e
Dwerryhouse4 riportano varici recidive sino al 35% dei
casi, a 5 anni, sottolineando che nel 45% dei casi è possibile riscontrare fenomeni di neo-vascolarizzazione a livello inguinale. Per quanto riguarda, viceversa le complicanze peroperatorie queste possono essere suddivise in precoci (TVP con possibile embolia polmonare, ecchimosi,
edema perimalleolare, linforrea inguinale, ritardo di cicatrizzazione, suppurazione) e tardive (disturbi neurologici,
cheloidi e telangectasie). In particolare, l’embolia polmonare è riportata in percentuali variabili fra lo 0.06 e l’1,2%
dei casi (media 0,5%) 5-6-7, la TVP varia fra lo 0,15 ed il
5,3% (media 1%) 8-9, l’infezione fra il 4,5 ed il 13,7%
(media 8%) 10-12, ed il linfedema attorno allo 0,5% 13. Le
parestesie, sino al dolore, legati alle lesioni del nervo
safeno, hanno una incidenza percentuale diversa in base
allo stripping lungo (7,1-38.8%)14-15 o corto (7,6-24,5%)3-10.
L’occlusione con radiofrequenze della vena grande safena, rispetto a quanto sopra esposto per lo stripping,
soprattutto se effettuato con il nuovo sistema obliterativo
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GOSSETTI
IL TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE DELLE VARICI DEGLI ARTI INFERIORI
Tabella I.
ClosureFAST, che ha un generatore che emette una energia costante e prestabilita, che elimina i rischi di un riscaldamento insufficiente o eccessivo, e si effettua con una
occlusione segmentaria, che elimina i rischi legati alle
variazioni individuali della retrazione del catetere, sembrerebbe fornire risultati clinici a 2 anni quanto meno
non inferiori a quelli dello stripping. In particolare, questo sistema permette il ritorno ad una normale attività
lavorativa in 1.2 giorni, contro il 3.9 dell’intervento chirurgico classico; ha una minore incidenza della sintomatologia dolorosa ed un minor numero di complicanze minori
e, di conseguenza una qualità di vita migliorata dopo la
procedura16. Quanto poi alle complicanze, il ClosureFAST, a fronte di una assenza di reflusso superiore al 94%
dei casi, a 2 anni, ha mostrato pochi effetti collaterali
secondo la tabella che è riportata a fianco. Come si può
osservare, infatti, non ci sono differenze significative neppure tra le procedure effettuate sulla VGS e quelle sulla
piccola17.
Restano in ogni caso ancora aperti alcuni quesiti che
potranno forse essere risolti con l’esperienza futura: la
possibilità di utilizzare questa tecnica anche in pazienti
con safene di calibro superiore al cm; la necessità di
ricorrere all’associazione con un accesso chirurgico dello
sbocco safeno-femorale per sezionarlo e legare i vasi collaterali; il problema dei costi, che sembra risolvibile solo
per impieghi su vasta scala di questo tipo di intervento.
Sulla base di quanti sino a qui esposto si possono,
comunque, fare le seguenti considerazioni: i risultati di
qualunque trattamento delle varici degli arti inferiori risul166
tano fortemente condizionati dalle indicazioni e dal chirurgo che lo effettua; l’impiego dell’ECD consente oggi di
ricorrere a metodiche mini-invasive e, quindi, di più rapida esecuzione rispetto ai trattamenti chirurgici tradizionali; la scelta del trattamento dovrebbe comunque sempre
basarsi sul quadro anatomo-funzionale del distretto venoso interessato, sulla clinica e le aspettative del paziente e,
naturalmente, sulla “confidenza” che il chirurgo ha per le
singole procedure.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):168-9
Il ruolo dell’EVLA nel trattamento
endovascolare delle varici
G.B. AGUS
Le varici, segno e sintomo caratteristico della malattia
venosa Cronica (MVC), rappresentano notoriamente una
delle malattie più diffuse del mondo occidentale, dove
costituiscono serio problema per costi sociali e causa di
complicanze. Sempre più rappresentano anche un rilevante problema estetico. Da oltre cento anni sono state
trattate nel medesimo modo: con la tecnica chirurgica di
asportazione, soprattutto mediante stripping delle vene
safene. Questo atteggiamento, viceversa, da circa venti
anni è sottoposto a sostanziale critica per i mutamenti
concettuali sviluppatisi, grazie all’impiego dell’eco-colordoppler, sia in termini interpretativi del quadro clinico
delle vene varicose, sia sulle modalità più differenziate,
meno invasive e più personalizzate di nuovi trattamenti.
Background
Cosa significa endovascolare nel trattamento delle varici ?
In sostanza, invece di eseguire incisioni chirurgiche più o
meno estese, attraverso le quali asportare vene, talvolta
irrazionalmente, il trattamento ablativo fisico o chimico
endovascolare si attua per via percutanea (o anche utilizzando mini-incisioni chirurgiche di pochi millimetri, in
anestesia locale, altamente estetiche) con l’introduzione
di aghi o cateteri sotto controllo eco-doppler peri-procedurale. Attraverso questo semplice accesso, sarà possibile
eseguire l’ablazione fisica delle vene varicose, non tanto
o non solo con la loro asportazione, quanto con la obliterazione delle vene causa del reflusso originante le varici
stesse, eliminando l’uno e le altre. Per ablazione chimica
si intende in realtà un trattamento, se si vuole, antico – la
scleroterapia –, ma rinnovato in significativi aspetti di esecuzione, a cominciare dall’uso dell’eco-doppler (ecosclerosi) e dell’introduzione non di sostanze liquide, bensì in
forma di schiuma (foam/mousse), che producono migliori
risultati (oggi si sta sperimentando per l’ablazione chimica
anche un trattamento congiunto laser-foam o meccanicofoam). Il primo Congresso internazionale, evento chiave
nel quale furono presentate per la prima volta le tecniche
di trattamento endovascolare fisico, con RF e Laser, fu il
14th World Congress of the Union Internationale de Phlébologie, tenutosi a Roma al Palazzo dei Congressi dell’EUR nei giorni 9-14 settembre 2001, sotto la presidenza
168
Sezione di Chirurgia Vascolare e Angiologia,
Dipartimento di Scienze Chirurgiche Specialistiche,
Università degli Studi di Milano
di Claudio Allegra. Seguì poi un programma fitto e serio
di Corsi di formazione ai nuovi concetti ed alle nuove
tecniche, a cui corrispose una letteratura scientifica di
notevole valore. Per quanto riguarda l’endovenous laser
ablation (EVLA), il successo del trattamento ebbe riscontro in campo internazionale con la costituzione dell’
International Endovenous Laser Working Group-IEWG,
con la compartecipazione di Paesi sia europei che americani (Sud America e USA), oltre ad altre esperienze autonome.
Stato attuale e risultati
Oggi, dopo la necessaria fase di insegnamento di base sui
criteri di appropriatezza delle indicazioni, diagnostica,
tecnologia, efficacia e sicurezza della metodica, ed aver
creato modelli di procedura step-by-step, centinaia di
migliaia di procedure vengono eseguite nel mondo. La
Letteratura scientifica non è da meno con centinaia di
pubblicazioni qualificate, review e meta-analisi. Il Corso
sull’endovascolare (RFA, EVLA e foamsclerotherapy) del
Congresso Nazionale SIAPAV 2011 pertanto si pone come
momento di apprendimento pratico, ma allo stesso tempo
di riflessione sul cammino percorso in un decennio. In
sintesi, la scelta di usare i nuovi trattamenti endovascolari
permette la minor invasività e l’ambulatorietà, e dunque i
minori costi della terapia della MVC, oltre il massimo
rispetto dell’estetica, tutte moderne esigenze richieste da
pazienti e Sistemi Sanitari. Le tecniche più innovative
sono rappresentate dall’ablazione fisica mediante RFA e
EVLA. Quale laser, è preferito a diodi a varie lunghezze
d’onda; e su questo punto si è sviluppato maggiormente
un significativo avanzamento con l’introduzione di laser a
lunghezza d’onda di 1470 nm, coniugato all’uso di nuove
fibre a emittenza radiale dell’energia. La tecnica è semplice, a patto che si segua una buona scuola di apprendi-
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IL RUOLO DELL’EVLA NEL TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE DELLE VARICI
mento e criteri ben standardizzati. L’introduzione nella
vene safene per via percutanea o mini-chirurgica è opzione dello specialista. Risultati: la maggioranza dei casi trattati presenta percentuali di obliterazione immediate e a
distanza superiori al 90% e significativa soddisfazione dei
pazienti, spesso entusiastica. Il follow-up ha raggiunto
oggi periodi di 10 anni (l’EVLA fu riconosciuta ufficialmente dalla FDA nel 2001); e via via le numerose esperienze stanno raggiungendo il tempo necessario di validazione superiore a 3-5 anni, quanto la numerosità casistica.
In generale, si riscontrano poche controindicazioni specifiche legate alla morfologia o al diametro della vena da
trattare. In tal senso la relativa semplicità della procedura
di cateterismo venoso e conduzione del trattamento
endovascolare da parte dell’operatore manifesta apparentemente una bassa incidenza di difficoltà procedurali o di
incidenti intraoperatori, che viceversa, senza accurata
visione critica della procedura stessa, possono andare a
inficiare i risultati a distanza, ad aumentare le complicanze a breve termine, e pertanto a danneggiare l’immagine
del trattamento endovascolare rispetto alle presunte certezze di una chirurgia dello stripping, centenaria. Si motivano così casi di mancata obliterazione del vaso a diversi
livelli (iuxta-giunzionale o tronculari), rare trombosi
venose profonde, rarissime ustioni cutanee, parestesie,
tutti eventi riconducibili a possibili, quanto prevenibili,
errori tecnici. Indici significativi ed esclusivi della scelta
all’indicazione chirurgica appropriata al singolo paziente
– quali sintomi, segni, indice di gravità, soddisfazione del
paziente e/o del chirurgo, rilevamento della qualità di
vita e sul piano oggettivo con eco-doppler – , possono
alterare il risultato a distanza. Certamente, non un unico
trattamento è appropriato per tutti i pazienti, per tutti i
pattern di reflusso venoso e per tutte le situazioni. L’insieme dei seguenti targets dovrebbe essere sempre preso in
considerazione per la corretta fattibilità di un’EVLA:
a. eliminazione delle varici;
b. correzione dell’emodinamica;
c. soddisfazione del paziente;
d. miglioramento estetico;
e. riduzione delle complicanze e delle recidive;
f. miglioramento nello score clinico (VCSS) CEAP (in
particolare per una più rapida guarigione delle ulcere
cutanee);
g. riduzione dei costi diretti (SSN) e indiretti (privati;
rapido ritorno alle proprie attività).
Conclusioni
Gli eccellenti risultati sul piano clinico e nella correlazione tra risultati controllati con l’eco-doppler ed esame cli-
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
AGUS
nico in follow-up ormai a media e lunga distanza, riscontrabili in review e meta-analisi, mostrano un cospicuo
numero di elementi che validano la procedura endovascolare fisica, con particolari prospettive di implementazione dei risultati grazie al progredire tecnologico. Questi
hanno portato le società scientifiche nordamericane SVS e
AVF a proporre la RF e l’EVLA come nuovo gold standard
con grading di Raccomandazione 1B.
Bibliografia
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de la littérature au 1er mars 2004. Phlébologie 2004;57:12533.
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MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):170-2
La legatura sottofasciale delle perforanti
S. VENOSI
Il trattamento chirurgico dell’ulcera varicosa e ancor più
di quella post-flebitica, ha rappresentato sempre un problema di difficile risoluzione per il chirurgo vascolare.
Lo scopo del nostro lavoro è quello di valutare quali
siano le indicazioni più idonee a questo tipo di intervento, quali siano le metodiche diagnostiche più valide per
la scelta dei pazienti e quali i risultati a breve e medio
termine di una tecnica innovativa qual è la legatura endoscopica sottofasciale delle vene perforanti (SEPS).
Materiali e metodi
In questo studio sono stati presi in considerazione 18
pazienti: 14 di sesso femminile e 4 maschile, di età compresa fra 32 e 61 anni. Dal punto di vista clinico i pazienti
erano così suddivisi: 4 appartenevano alla classe C2, 2
alla C3, 6 alla C4, 3 alla C5 e 3 alla C6 (C1: Teleangectasie o reticoli venosi; C2: Teleangectasie o reticoli venosi;
C3: Edema senza alterazioni cutanee; C4: Alterazioni cutanee (pigmentazione, eczema, lipodermato, sclerosi); C5:
Ulcera guarita con alterazioni cutanee; C6: Ulcera attiva
con alterazioni cutanee). La selezione di questi pazienti,
da sottoporre all'intervento chirurgico di SEPS è stata
posta oltre che sulla base del reperto clinico di ulcere
cutanee (3), pregresse lesioni già guarite (3), gravi distrofie e pigmentazione cutanea (6), anche sul reperto diagnostico strumentale pre-operatorio di vene perforanti di
gamba chiaramente insufficienti e responsabili di edemi e
varicosità. Lo studio pre-operatorio, è stato effettuato in
tutti i casi mediante Eco Color-Doppler (ECD). Particolare attenzione è stata posta al reperto di vene perforanti
insufficienti a livello di gamba. Oltre all'incontinenza
delle vene perforanti, riscontrate in numero variabile da 2
a 5 per paziente, l'ECD ha consentito di evidenziare un
reflusso safeno-femorale in 6 casi (C2-C3) ed un reflusso
safeno-popliteo in un caso (C4). L'intervento chirurgico è
stato preceduto da un mappaggio delle perforanti e degli
eventuali gavoccioli varicosi presenti.
Nei 7 pazienti con insufficienza safeno-femorale (6) e
safeno-poplitea (1) è stato associato alla SEPS uno stripping della grande o della piccola safena. In nessun caso è
stata effettuata l'ischemizzazione temporanea dell'arto
durante la SEPS.
170
Chirurgia Vascolare A, Policlinico Umberto I,
Università degli Studi “La Sapienza”, Roma
Nella nostra esperienza, abbiamo utilizzato un dissettore
del tipo GSI Spacemaker®, introdotto grazie ad un’incisione cutanea di 10-12 mm condotta sulla superficie mediale
di gamba, quattro dita trasverse al disotto dell’interlinea
articolare del ginocchio. La dissezione è stata dapprima
realizzata gonfiando il palloncino con una quantità determinata di soluzione fisiologica (in media 240 cc) e
lasciandolo in sede per circa 2 minuti, in seguito mantenuta grazie all’insufflazione continua di CO2 alla pressione di 15 mmHg. Dopo la creazione di uno spazio sottofasciale, si è introdotto il trocar e l’endoscopio da 10 mm e,
sotto visione endoscopica diretta, è stato possibile praticare una seconda incisione di 10 mm e introdurre un
altro trocar per lo strumentario. Le perforanti così visualizzate sono state legate con clips metalliche da 5 mm ed
infine sezionate. Questo tempo chirurgico è stato eseguito sempre per primo nei casi in cui è stato associato a
stripping e/o varicectomia. Le perforanti più frequentemente interrotte sono state la Cockett I e II. La perforante
retromalleolare è stata interrotta in soli 2 casi.
È stato sempre effettuato un bendaggio elasto-compressivo post-operatorio, protratto per almeno 6 settimane nei
pazienti appartenenti alle classi C4, C5 e C6 (12 pazienti)
e associato a profilassi della TVP con eparina a basso
peso molecolare per 30 giorni (Clexane ® 4000 UI
aXa/die). La degenza media è stata di 3 giorni per i
pazienti delle classi C2 e C3 (6) e 5 giorni per i pazienti
delle classi C4, C5 e C6 (12).
Risultati
Non sono state osservate complicanze nell’immediato
periodo post-operatorio, tranne un ematoma di coscia di
modesta entità in un paziente sottoposto a stripping della
vena grande safena. In un follow-up variabile fra 3 e 18
mesi (follow-up medio a 6 mesi) tutti i pazienti sono stati
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LA LEGATURA SOTTOFASCIALE DELLE PERFORANTI
VENOSI
piezza dell’ulcera pari al 60%. In tutti i casi inoltre i
pazienti hanno riferito un miglioramento della sintomatologia soggettiva, caratterizzata da dolore, parestesie,
senso di peso, crampi e claudicatio venosa. Nei pazienti
con ulcera guarita inoltre, a distanza di 6 e 9 mesi, non
sono state osservate recidive dell’ulcera stessa.
Discussione
Figura 1. – Inserimento del trocar nello spazio sottofasciale (A),
gonfiaggio del palloncino (B), ispezione dello spazio (C), legatura e sezione della vena perforante (D).
controllati periodicamente mediante esame clinico ed
ECD. Nei 6 pazienti appartenenti alle classi C2 e C3, sia
l’esame clinico che l’esame ECD non hanno evidenziato
varici residue e/o recidive, né reflussi patologici. Nei
rimanenti 12 pazienti (classi C4, C5 e C6) all’esame clinico, è stato osservato un miglioramento obiettivo, consistente in una riduzione dell’edema perimalleolare. Nei 3
pazienti con ulcera attiva è stato possibile osservare in 2
casi una cicatrizzazione dell’ulcera a distanza rispettivamente di 45 e 60 giorni. Nel restante paziente è stata
osservata, a distanza di 3 mesi, una riduzione dell’amVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
L’obiettivo della SEPS è quello di migliorare le conseguenze fisiopatologiche e cliniche dell’insufficienza delle
vene perforanti di gamba. Come emerge dalla letteratura,
l’incontinenza di queste vene è associata molto spesso sia
all’insufficienza venosa del circolo superficiale, sia alla
sindrome post-flebitica, che molto spesso si manifesta clinicamente con la comparsa di gravi ulcere venose e
distrofie cutanee del III inferiore di gamba. Le problematiche da noi incontrate riguardano: la selezione dei
pazienti e quindi la diagnostica, la tecnica chirurgica in sé
ed i risultati ottenuti. Per quanto riguarda la selezione dei
pazienti, questa è avvenuta principalmente sulla base dell’esame clinico associato all’ECD. L’indicazione principale
è stata posta nei pazienti appartenenti alle classi C4, C5 e
C6, ma la relativa semplicità della metodica ed i primi
risultati ottenuti, ci hanno indotto ad ampliare le indicazioni, utilizzando la SEPS anche in alcuni casi di pazienti
appartenenti alle classi C2 e C3, nei quali tale procedura è
stata associata al normale intervento programmato di
stripping e/o varicectomia. Dalla nostra esperienza emerge come l’ECD, se utilizzato da operatori esperti, presenta
un’elevatissima attendibilità nel riscontro delle vene
perforanti incontinenti. Relativamente alla tecnica chirurgica, abbiamo potuto constatare come questa sia di semplice applicazione e non richieda particolari attitudini.
Molto importante, nella prima fase dell’intervento, è l’esatta localizzazione della fascia muscolare che consente la
sicura introduzione del dissettore all’interno della loggia
sottofasciale. Un eventuale errore nel posizionamento del
dissettore, ad esempio nel tessuto sottocutaneo, comprometterebbe infatti l’intera procedura. La dissezione delle
vene perforanti I e II di Cockett o di altre più prossimali è
risultata sempre molto agevole, pur richiedendo una certa
manualità “endoscopica”. L’interruzione delle perforanti
mediante clips metalliche e la loro sezione risulta semplice ed esente da rischi e complicanze. Taluni Autori
hanno suggerito comunque l’utilizzo di altri sistemi quali
la coagulazione delle perforanti o la loro interruzione con
apparecchi ad ultrasuoni (Ultracision®). Tali tecniche
avrebbero lo scopo di abbreviare i tempi dell’intervento.
A fronte di un sia pur minimo rischio di complicanze
trombotiche, arteriose o venose, ed anche in relazione al
fatto che secondo la nostra casistica non abbiamo mai
osservato sanguinamenti significativi, riteniamo che tale
procedura possa essere evitata. Nei casi in cui la SEPS è
stata associata agli interventi di stripping e/o varicectomia
è stato possibile ridurre il numero delle incisioni cutanee
normalmente utilizzate per una legatura selettiva soprafasciale, ed in ogni caso, non sono state osservate complicanze aggiuntive di alcun genere. Riguardo al timing chirurgico, nei casi in cui la SEPS sia associata allo stripping
e alla varicectomia, riteniamo che debba essere in prima
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VENOSI
LA LEGATURA SOTTOFASCIALE DELLE PERFORANTI
istanza preparata e interrotta la grande safena allo sbocco
e posizionata la sonda dello stripper; successivamente è
opportuno eseguire la SEPS e quindi come ultimo tempo
lo stripping e la varicectomia. Taluni Autori riportano casi
di flebite superficiale e/o di TVP, sebbene con un’incidenza molto limitata; ulteriori complicanze riferibili alla SEPS,
ma anche ad altri tipi di trattamento chirurgico, possono
essere la panniculite, l’ematoma, l’infezione delle ferite
chirurgiche. L’analisi dei risultati della nostra esperienza
dimostra come la SEPS sia un intervento efficace sia nel
trattamento dell’insufficienza delle perforanti in pazienti
con sindrome varicosa, sia soprattutto nei casi di grave
flebostasi conseguente a fenomeni post-flebitici. Il miglioramento del quadro clinico, sia soggettivo che obiettivo
osservato nei nostri pazienti, testimonia come il traguardo
della riduzione della pressione ortostatica nelle sedi critiche venga raggiunto facilmente con questa procedura ed
emerge chiaramente come l’interruzione delle perforanti
favorisca e acceleri in maniera significativa la guarigione
delle ulcere.
Appare evidente come il raggiungimento di risultati positivi sia correlato, oltre che ad una corretta indicazione,
anche ad un’attenta tecnica operatoria.
Grande importanza riveste inoltre l’associazione di una
terapia farmacologica con eparina a basso peso molecolare e di una terapia fisica elasto-compressiva.
Un’ulteriore problematica è rappresentata dai costi di
gestione dei pazienti considerati; sebbene l’applicazione
172
della SEPS con le modalità da noi descritte comporti una
spesa aggiuntiva, è pur vero che l’abbreviazione dei
tempi di degenza così come il miglioramento clinico dei
pazienti trattati rappresentano uno stimolo ed un incentivo a proseguire e ad estendere le indicazioni di questa
procedura.
Bibliografia
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):173-4
La scleroterapia ecoguidata con schiuma
nel trattamento delle varici degli arti inferiori:
risultati dopo 5 anni di attività
M. GALLUCCI
Materiali e metodi
Az. Ospedaliera San Giovanni Addolorata, Roma
In questo studio abbiamo voluto valutare l’efficacia e la
sicurezza della scleroterapia con schiuma in un’ampia e
ben rappresentata tipologia di varici di medio e grosso
calibro degli arti inferiori, (varici primitive della GS e PS,
varici recidive,varici extrasafeniche e varici tributarie safeniche) in pazienti con stadio clinico compreso tra C2 e
C6, di cui si riportano i risultati (follow-up medio 26
mesi). Tutti i pazienti prima del trattamento sono stati sottoposti ad un attento esame clinico ed ecocolordoppler
per la valutazione dello stadio clinico CEAP, dei calibri e
dei reflussi valvolari safenici, e per ognuno è stato compilato il questionario Venous Clinical Severity Score per la
gravità clinica. Oltre ad una valutazione di efficacia della
tecnica in senso generale, grazie all’eterogeneità del campione trattato sia per quanto riguarda l’età (36-84) che
per quanto riguarda il decorso, il calibro, la sede e l’etiologia delle varici, si è sottoposto l’intero campione trattato
ad indagine statistica per individuare se vi fosse una differente risposta terapeutica tra i vari gruppi di pazienti ed
in particolare fra quelli numericamente piu’ rappresentativi : varici primitive della GS e varici recidive ad intervento di stripping,ed in particolare all’interno del gruppo
delle GS se vi fossero differenti risultati in relazione al
calibro safenico, e alla sede di reflusso valvolare presente
(valvola preterminale, terminale o sopragiunzionale ecc.).
Risultati
Per i criteri di valutazione dei risultati si è fatto riferimento al 2 nd European Consensus Meeting on Foam Slerotherapy 1. Complessivamente si è ottenuto il successo totale
nel 78,5% dei casi trattati, successo parziale nel 16,1% e
insuccesso nel 5,4%. Per il trattamento della GS, lo score
clinico(VCSS) è migliorato maggiormente nel gruppo con
reflusso sulla valvola preterminale (-84,7%) rispetto al
gruppo con reflusso/ assenza della valvola femorale
sopragiunzionale (-72,8%) P=0,015.
Il successo totale per quanto riguarda le varici recidive è
stato del 70,5% mentre per il gruppo varici extrasafeniche
dell’85,6% P= 0.001.
Nei 23 pazienti con ulcera si è ottenuta la guarigione nel
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
70,5% dei casi (3-6mesi) con rapida risoluzione del dolore
ove presente. In un solo paziente diabetico (0,4%) abbiamo registrato un effetto collaterale sistemico maggiore
rappresentato da linfangite e TVP iliaco femorale per
neoplasia polmonare occulta. In 6 p. (2,78%) abbiamo
registrato cefalea e in tre di queste anche disturbi visivi
risoltisi spontaneamente in qualche ora.
Conclusioni
La terapia sclerosante con schiuma si èdimostrata nella
nostra esperienza una terapia efficace, sicura e soprattutto
di basso costo, attuabile in un’alta percentuale di pazienti
affetti da varici.
I risultati ottenuti sono quasi sempre buoni, a volte eccellenti, a patto che vi sia una giusta indicazione ed una corretta esecuzione della tecnica,(punto di iniezione, dosaggi, concentrazione del farmaco e n° di iniezioni sclerosanti). In particolare si ritiene che per ottenere una sclerosi completa e duratura, sia necessario ripetere a breve
(15 giorni) l’iniezione sclerosante nello stesso tratto di
varice quando questa non risulti completamente occlusa
dal 1° trattamento.
Il razionale di tale condotta terapeutica parte dalla convinzione che durante la 1° iniezione la vena reagirebbe
con un forte vasospasmo difensivo, impedendo alla
schiuma di agire sull’intera circonferenza del vaso,
lasciando così indenne o quasi l’endotelio all’interno
delle pieghe indotte dalla riduzione transitoria del calibro.
La 2° iniezione avvenendo in condizioni di vasoparalisi
avrebbe lo scopo di colmare questo deficit endoteliolesivo, favorendo cosi l’evoluzione del processo verso la
fibrosi.
Bibliografia
1. F.X.Breau et al. 2nd European Consensus Meeting on Foam
Slerotherapy. VASA 2008 ; Supplement 71, February 2008.
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LA SCLEROTERAPIA ECOGUIDATA CON SCHIUMA NEL TRATTAMENTO DELLE VARICI DEGLI ARTI INFERIORI...
2. Cavezzi A. Frullini A. :The role of sclerosing foam in ultrasound guided sclerotherapy of the saphenous veins and of
recurrent varicose veins: our personal experience. Australian
and New Zeland J of Phlebology 1999;3:49-50.
3. Tessari L, Cavezzi A, Frullini A. Preliminary experience with
a new sclerosing foam in the tratment of varicose veins
Derm. Surg.2001;1:58-60.
174
GALLUCCI
4. Gallucci M, Antignani PL, Allegra C. La sclérotérapie à la
mousse dans les varices des membres.
5. inférieus :2 notes de technique. Phlébologie 2010;4:1-6.
6. Gallucci M, Antignani PL, Allegra C. Qualité de vie après
sclérothérapie échoguidée à la mousse chez des patients
âgés atteints d’une IVC sévère et et invalidante. Phlèbologie
2011;64:28-34.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):175-7
Trattamento con radiofrequenze: esperienza personale
P. BORTOLOTTI
Le Radiofrequenze (RF) sono onde elettromagnetiche ad
alta frequenza, 460 kHz, che vengono prodotte da una
corrente bipolare, nel passaggio dall’elettrodo positivo a
quello negativo e che, attraversando un tessuto, liberano
in esso energia sotto forma di calore. Il sistema VNUS®
ClosureFAST® è costituito da un generatore a RF (RFG2) e
da un catetere intravascolare lungo 60 o 100 cm, di 7
French, compatibile con filo guida da 0,025, con un elettrodo in punta lungo 7 cm. La vena viene trattata lungo
l’intera circonferenza in modo uniforme, senza la presenza di punti più caldi. L’effetto termico viene limitato a 1,5
mm di distanza rispetto agli elettrodi. Si ha un riscaldamento controllato e localizzato. Il calore fa contrarre il
collagene della parete venosa, che così si chiude. All’esame istologico si riscontra un ispessimento della parete
venosa per fibrosi subintimale, senza segni di flogosi e
senza trombosi endoluminale.
Materiali e metodi
Dal maggio 2002 all’ottobre 2011 sono stati trattati 621
pazienti con RF, 253 con catetere Closure o ClosurePLUS,
368 con il catetere ClosureFAST, introdotto nel 2008. Tutti
i pazienti sono stati studiati con ecocolordoppler (ECD)
prima del trattamento (mappaggio) e dopo (controllo e
follow up). I controlli ECD post trattamento sono stati
effettuati tra 1 e 30 giorni, il follow up è stato eseguito
con studio ECD a 3, 6 e 12 mesi. Tutti gli interventi e tutti
i controlli sono stati eseguiti dalla stessa equipe medica.
In tutti i pazienti è stato trattato il tronco safenico, anche
nel tratto al di fuori dello sdoppiamento fasciale, quando
questo si presentava in continuità con il segmento a
monte compreso nello sdoppiamento fasciale; Nella maggioranza dei casi il trattamento è stato eseguito dal 1/3
superiore di gamba fino alla crosse safeno-femorale (subito a valle dello sbocco della v. epigastrica, a circa 2 cm.
dalla crosse), in un numero minore di casi dal 1/3 inferiore di coscia e raramente dal malleolo alla crosse. Mai eseguita crossectomia. I rami collaterali sono stati trattati con
varicectomia chirurgica o scleromousse nello stesso
tempo (raramente) o a distanza (1-6 mesi). Nel 40% circa
dei pazienti i collaterali vanno incontro a chiusura spontanea nel post trattamento e nell’88.7% subiscono una
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
UO. Chirurgia Generale, Lucca
significativa riduzione di calibro. Indicazioni al trattamento con RF: - Safene insufficienti con reflusso lungo (dalla
giunzione safeno-femorale) o misto (dalla giunzione e da
perforanti), CEAP C2 o superiore. - Safene del diametro
non inferiore a 3 mm. e non superiore a 12 mm. Controindicazioni relative: - Safene del diametro superiore a
12 mm. (rare) o con grossi gozzi varicosi. In questi casi
per trattarle è sufficiente fare una abbondante tumescenza
in modo da schiacciare la vena. - Safene tortuose o con
gozzi varicosi eccentrici: si ricorre al filo guida per eseguire una completa cateterizzazione del vaso. - Safene
superficiali (a 2-3 mm dalla cute): anche in questo caso si
ricorre ad una abbondante tumescenza al fine di allontanare la vena dalla cute. - La presenza di perforanti safeniche (Dodd): in questo caso può essere necessario un trattamento prolungato (ripetizione del ciclo) nella sede della
perforante. Controindicazione assoluta è la presenza di
trombo nel segmento di vena da trattare, recente o pregresso (difficile dire quanto pregresso). Altre controindicazioni: la gravidanza e la limitata mobilità di pazienti
anziani o defedati.
Precauzioni da osservare nei pazienti con pacemaker,
defibrillatore interno o altro device attivo impiantato: consultare il cardiologo o il produttore del device, fare un
monitoraggio continuo del paziente durante la procedura
e una valutazione del paziente e del device anche dopo
la fine della procedura. Inoltre tenere sempre tutti i cavi e
gli attacchi lontani dal pacemaker, defibrillatore o altro
device attivo impiantato. Non esistono dati riguardanti
l’uso di questo catetere in pazienti con documentata
malattia periferica arteriosa. Dovrebbe essere posta la
stessa attenzione come nella tradizionale procedura chirurgica di legatura e stripping. Nei primi 4 pazienti trattati
è stata utilizzata una anestesia loco regionale, nei successivi 50 una anestesia locale con sedazione, in tutti gli altri
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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BORTOLOTTI
TRATTAMENTO CON RADIOFREQUENZE: ESPERIENZA PERSONALE
(567) una anestesia tumescente senza sedazione. Le
miscele anestetiche utilizzate per l’anestesia tumescente
sono state varie: in un primo tempo 20 ml di Ropivacaina
10% in 250 ml di soluzione fisiologica (SF), poi 10 ml di
Lidocaina al 2% in SF fredda a 4°C; attualmente una
miscela di 20 ml di Lidocaina 2% con Adrenalina 0.2 mg e
2 ml di Sodio Bicarbonato 8,4% in 500 di SF fredda a 4°C
(Miscela di Klein). Tutte hanno funzionato bene, l’ultima
ci è sembrato dare risultati migliori in termini di copertura
anestetica e di quantità di ecchimosi postoperatorie da
puntura. Per il trattamento con le radiofrequenze è necessario solo il digiuno, non sono necessarie la tricotomia,
né la profilassi antibiotica, né la profilassi antitrombotica,
né il bendaggio preventivo dell’arto sano. Il trattamento si
effettua in ambulatorio di II livello accreditato. Durante il
trattamento si esegue il lavaggio continuo del catetere e
della vena con soluzione eparinata (1 ml di eparina sodica in 500 ml. di soluzione fisiologica). Il trattamento dura
30 minuti (di cui oltre 25’ per la preparazione e l’anestesia e 2-3’ di trattamento vero e proprio con radiofrequenze (7-10 cicli di 20”). Al termine viene fatta indossare una
calza elastica (monocollant) di classe 2^, piede aperto.
I pazienti vengono dimessi dopo 15’ e ritornano immediatamente alle loro normali attività.
dioso indurimento lungo il decorso safenico e in 4 la
comparsa di una pigmentazione. In 5 pazienti (ma probabilmente anche in numero maggiore) si è vista la comparsa di teleangectasie (matting).
Le ecchimosi cutanee e qualche piccolo ematoma si sono
riscontrati frequentemente, ma dalla rapida risoluzione
(entro 1 mese). Questi sono dovuti alla rottura di piccoli
vasi o di teleangectasie in corso di anestesia tumescente.
In ultimo le flebiti, precoci o tardive, dei rami collaterali.
Queste, a volte fastidiose, si riscontrano frequentemente e
non sono da considerare complicanze ma piuttosto conseguenze del trattamento. Le vene tributarie della grande
safena obliterata dalle radiofrequenze, sono soggette a
chiusura spontanea, a meno che non scarichino il flusso
in collaterali. Questo fenomeno a volte avviene con processo flebitico ed è responsabile dell’unico vero dolore o
fastidio post trattamento, che il paziente quindi percepisce non sul tronco safenico, ma nella sede dei tributari
interessati. E’ un dolore solitamente ben tollerato, raramente necessita di terapia antalgica e può essere prevenuto o limitato con l’uso precoce (già subito dopo il trattamento) di adeguata elastocompressione. Insorge solitamente non prima di 3-4 giorni dopo il trattamento, ma
può manifestarsi anche dopo 2-3 mesi od oltre.
Risultati
Conclusioni
Considerando come risultato ottimale la completa obliterazione del tratto safenico trattato, abbiamo avuto 597
successi (96%). In 24 pazienti (3.8%) si sono riscontrati 9
insuccessi completi (1.6%), tutti verificatisi prima del 2008
(anno di introduzione del catetere ClosureFAST), e 15
(2.4%) insuccessi parziali, cioè una vena safena pervia e
refluente per almeno 10 cm. Gli insuccessi parziali in 12
pazienti sono stati riscontrati distalmente alla crosse,
dovuti in 9 casi a collaterali o tributarie safeniche incontinenti o in 3 casi a perforanti incontinenti (Dodd). 3 insuccessi parziali sono stati riscontrati in sede prossimale,
subito a valle della crosse, a causa di grossi collaterali di
crosse incontinenti. I 24 pazienti sono stati sottoposti, con
successo, in 2 casi a nuovo trattamento con RF, in 3 a
crossectomia (reflusso parziale prossimale, dalla crosse) e
in 6 a scleromousse eco guidata. I restanti 13 hanno rifiutato qualunque ulteriore trattamento perché asintomatici
(reflusso strumentale). Il trattamento con RF della grande
safena è una procedura caratterizzata da bassa incidenza
di complicanze e tutte minori. Nella nostra casistica mai
viste trombosi venose profonde (in letteratura un unico
autore, Hingorani nel 2004, ne ha presentate 12), mai
viste embolie polmonari, mai viste perforazioni vasali, nè
infezioni. Il dolore nella sede di trattamento è infrequente, in 2 casi è stato segnalato nel trattamento lungo alla
gamba, uno di questi è stato significativo. A volte il
paziente riferisce un fastidio, ben tollerabile, che non ha
compromesso le normali attività quotidiane. La maggioranza dei pazienti trattati non ha fatto uso di analgesici
nel postoperatorio. In 2 pazienti si sono riscontrati i segni
di ustione cutanea di I grado sul decorso safenico, con
completa guarigione a 1 mese. Raramente sono state riferite parestesie cutanee: 4 casi di cui una permanente (a 1
anno), ma ben tollerata. In 5 casi si è osservato un fasti-
L’obliterazione endovascolare della grande safena con
radiofrequenze è una metodica sicura ed efficace, con la
quale può essere trattata la maggioranza dei pazienti
affetti da insufficienza della grande safena. E’ una metodica poco invasiva e può essere effettuata in ambulatorio
attrezzato, con dimissione immediata e recupero postoperatorio rapido. Necessita di un approccio ecodoppler preciso e rigoroso. I pazienti hanno dimostrato molta soddisfazione per i risultati clinici ed estetici ottenuti. Se si considerano i costi relativi alla mancata ospedalizzazione dei
pazienti (nemmeno in day surgery) e alla perdita delle
giornate lavorative (minima), il trattamento con radiofrequenze consente un significativo risparmio per le Aziende
sanitarie e per la società.
176
Bibliografia
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TRATTAMENTO CON RADIOFREQUENZE: ESPERIENZA PERSONALE
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BORTOLOTTI
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):178-9
Clinica delle ulcere vascolari
P.E. MOLLO, S. CHERUBINI, V. VENTURELLI
Le ulcere cutanee costituiscono un ambito nosografico di
rilevanza medico-sociale se correlate alla loro elevata
incidenza, ai costi terapeutici ed assistenziali per la collettività ed alla perdita di giornate lavorative. L’aumento dell’aspettativa media di vita correla con un incremento della
loro prevalenza, anche se la mancanza di studi su vasta
scala ne rende conosciuta soltanto parzialmente la loro
reale dimensione epidemiologica. Le lesioni cutanee degli
arti inferiori a genesi vascolare sono tuttavia molteplici,
da quelle primitivamente ischemiche che rappresentano
gli stadi evolutivi dell’arteriopatia obliterante cronica periferica, a quelle secondarie alla stasi che caratterizza la
sindrome clinica della malattia venosa cronica, a quelle a
genesi mista, alle microangiopatiche diabetiche e non
diabetiche, alle vasculitiche, alle sclerodermiche, alle linfatiche. Queste ultime spesso non vengono classificate
come entità nosografica autonoma poiché il coinvolgimento del sistema linfatico si associa sovente alla malattia
venosa cronica e ne costituisce una complicanza ed una
condizione emodinamica evolutiva fortemente peggiorativa. Secondo una classificazione su base etiopatogenetica
è possibile distinguere le ulcere da danno primitivo delle
strutture vascolari (u. venose 70-80%, u. arteriose 15-25%,
u. miste, u. microangiopatiche), da quelle da danno
secondario (u. da pressione e da cause chimiche, fisiche
e meccaniche, u. neuropatiche, u. infettive, u. metaboliche, u. ematologiche, u. neoplastiche, u. da grave deficit
della pompa muscolare e da alterato appoggio plantare).
Le lesioni ulcerative rappresentano sempre l’epifenomeno
di una patologia di base che deve essere tempestivamente ricercata, correttamente riconosciuta e adeguatamente
trattata per evitare risultati terapeutici insoddisfacenti o
addirittura fallimentari. Occorre pertanto un inquadramento di tipo fisiopatologico ed una rigorosa metodologia diagnostica che, dopo il fondamentale momento dell’accurato ed attento ascolto anamnestico, utilizzi un percorso diagnostico clinico-strumentale improntato alla
massima appropriatezza.
L’approccio clinico-diagnostico si basa su quattro elementi fondamentali rappresentati dall’anamnesi, dall’esame
clinico-morfologico della lesione ulcerativa e della cute
perilesionale, dall’esame semeiologico vascolare e dalle
178
Servizio di Angiologia Medica, U.O.C. di Cardiologia,
UTIC, P.O. Anagni ASL Frosinone
indagini strumentali e di laboratorio utili per una conferma e per un definizione diagnostica.
La raccolta accurata e completa dei dati anamnestici è il
momento essenziale per una corretta diagnosi, talvolta
sufficiente, già da sola, ad orientare verso il corretto indirizzo diagnostico. In particolare occorre chiedere al
paziente vulnopatico modalità e tempi di insorgenza, l’
eventuale presenza di dolore e/o di parestesie e disestesie nonché di concomitanti condizioni peggiorative i
segni ed i sintomi della lesione trofica stessa, i trattamenti
contraccettivi e/o farmacologici pregressi o attuali, l’attività lavorativa, lo stile di vita, le abitudini igieniche, le
condizioni economiche e sociali, la storia clinica remota e
l’anamnesi familiare. Di estrema importanza l’esame clinico-morfologico della lesione ulcerativa e della cute perilesionale, che dovrà essere accurato e indirizzato alla valutazione delle dimensioni e della profondità (parametri
correlati al grado di sofferenza tessutale), della forma, del
numero e della sede (sovente tipica per alcuni tipi di
lesione come la localizzazione sovramalleolare per le
ulcere flebostatiche e quella acrale per le lesioni a genesi
ischemica). Non meno importante l’esame del fondo e
dei bordi, utile oltreché per la conferma diagnostica
anche per la scelta della opzione terapeutica ottimale e
del trattamento topico piu’ appropriato. La costante osservazione del fondo e dei bordi risulta determinante anche
per una adeguata valutazione del decorso e dei tempi di
guarigione della lesione stessa. Essenziale appare anche
l’esame della cute circostante, poiché da esso derivano
fondamentali informazioni sulla natura, sulla storia clinica
e sulla evoluzione del quadro. La presenza di fibrosi cutanea, di dermo-ipodermite siderinica e di aree di “atrophie
blanche” orientano per una genesi venosa, mentre la presenza di formazioni papillomatose o verrucose su cute
edematosa e di aspetto “lattescente” depongono per una
natura linfatica. Una cuta pallida, con marcate manifestazioni distrofiche a carico degli annessi, eventualmente
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CLINICA DELLE ULCERE VASCOLARI
MOLLO
associate a onicodistrofie attesta la natura ischemica dell’ulcera. Nel percorso clinico del paziente con ulcera
vascolare particolare rilievo assume il corretto esame
semeiologico vascolare, fondato sul riscontro di varici clinicamente evidenti, sull’esame dei polsi arteriosi ai comuni punti di repere, sulla eventuale presenza di soffi e/o di
fremiti, sulla misurazione circonferenziale degli arti e
sulla loro comparazione volumetrica. L’eventuale comparsa di edema mono- o bilaterale, la presenza del segno
della “fovea”, la scomparsa delle normali incisure retromalleolari e della salienza del tendine di Achille con positività del segno di Stemmer (segno patognomonico del
linfedema) costituiscono preziosi elementi di valutazione
clinica per la conferma o l’esclusione di precisi quadri clinici e per la loro diagnosi differenziale.
La corretta gestione clinica del paziente con ulcera vascolare si completa con un approccio diagnostico strumentale che, tenendo conto della estrema diffusione di questa
patologia e del conseguente aggravio in termini di spesa
sulla collettività, non può non indurre comportamenti
razionali ed appropriati nel ricorso alle procedure strumentali stesse, individuando due livelli sequenziali. Tra le
indagini di I livello un ruolo fondamentale è affidato alla
diagnostica strumentale non invasiva ad ultrasuoni (
esame doppler ad onda continua, ecodoppler ed ecocolordoppler , metodiche di studio non invasive, di basso
costo e facilmente ripetibili). Di grande utilità l’esame
doppler ad onda continua per la sua facilità di esecuzione, consente, attraverso il rilievo dell’A.B.I. e la misurazione comparata delle pressioni arteriose distrettuali degli
arti, una immediata discriminazione dei pazienti arteriopatici ed attraverso il riscontro delle pressioni venose in
clino- ed ortostatismo e dopo ortodinamismo la conferma
di quadri di patologia venosa cronica. Tra gli esami di I
livello vanno inclusi naturalmente l’ecocolordoppler per
lo studio dei distretti arterioso e venoso degli arti , le
indagini pletismografi che, anche se progressivamente
desuete, risultano utili a fornire indicazioni in ambito
venoso, il rilievo della tensione transcutanea di ossigeno
(TcPO2) , il Laserdoppler, la capillaroscopia. Gli esami di
II livello raggruppano una serie di indagini alle quali
occorre far ricorso nel sospetto clinico-anamnestico di
polidistrettualità e/o di patologie associate (sistemiche,
neoplastiche, internistiche). Sovente la gestione di tali
pazienti richiede un approccio trasversale di tipo multidisciplinare con la collaborazione del chirurgo vascolare
dell’internista , dell’ematologo, del reumatologo, dell’infettivologo dell’angioradiologo ecc.). In questi casi può
essere necessario il ricorso ad indagini diagnostiche per
immagini (TAC, RMN, indagini angiografiche, TC spirale
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
con ricostruzione tridimensionale), ad esami neurofisiopatologici (test di sensibilità, esami elettromiografici, potenziali evocati), ad indagini ecografiche (ecocardiografia,
studio dell’aorta addominale, cavi politei ecc.). Infine un
cenno al supporto del laboratorio di patologia clinica per
le necessarie indagini microbiologiche ed istopatologiche.
In particolare l’esame colturale (integrato dall’antibiogramma) indicato quando si rilevano segni clinici di infezione batterica della lesione ulcerativa o dei tessuti perilesionali e la biopsia con l’esame istologico nei casi in cui
vi sia il fondato sospetto di quadri vasculitici, di pioderma
gangrenoso ovvero si sospetti, a causa di un eccessivo
ritardo del processo di guarigione o per una ingiustificata
estensione, una possibile trasformazione neoplastica della
lesione.
Conclusioni
Le ulcere vascolari rappresentano una patologia di elevato rilievo clinico e medico-sociale con notevole riverbero
in ambito economico e costituiscono l’epifenomeno di
differenti alterazioni circolatorie dei distretti arteriosi,
venosi, linfatici e microcircolatori, con differente livello di
gravità e sovente associate. Risulta pertanto di estrema
importanza, per poter instaurare un adeguato trattamento
terapeutico, la corretta gestione clinica del paziente con
ulcera vascolare mediante l’inquadramento di un percorso diagnostico rapido ed efficace che risponda a criteri di
accuratezza anamnestica ed appropriatezza clinico-strumentale nel rispetto delle attuali esigenze della moderna
medicina basata sulle evidenze. Da non sottovalutare il
contributo della valutazione e della gestione interdisciplinare del paziente con lesione ulcerativa degli arti inferiori, alla luce del progressivo miglioramento dei tempi di
guarigione conseguiti in questi ultimi anni nei laboratori
vascolari ed a letto dei pazienti trattati a domicilio. Il percorso clinico sopra evidenziato risulta assolutamente ineludibile per il corretto inquadramento della lesione cutanea e per il conseguente appropriato trattamento terapeutico sia generale che locale e per l’utilizzo delle nuove e
diverse proposte terapeutiche messe a disposizione dalla
tecnologia e dall’industria.
Bibliografia
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delle ulcere vascolari degli arti inferiori. In: Monti M. L’ulcera
cutanea. Springer. Milano, 2000.
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Ed. Monti Saronno, 2000.
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Approccio clinico con simulazione al paziente
con ulcera agli arti inferiori
A. CRESPI
Il processo di diagnosi identifica una malattia o una condizione medica dai segni e dai sintomi presentati dal
paziente e attraverso eventuali esami effettuati. Per potere
trattare efficacemente i pazienti con ferite, il processo diagnostico deve:
Novara
Figura 1. – Sintesi delle procedure diagnostiche nella gestione delle ferite.
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APPROCCIO CLINICO CON SIMULAZIONE AL PAZIENTE CON ULCERA AGLI ARTI INFERIORI
– determinare la causa della ferita;
– identificare eventuali comorbilità/complicazioni che
possano contribuire alla formazione della ferita o al
ritardo della guarigione;
– valutare lo status della ferita;
– contribuire allo sviluppo del piano di gestione della
ferita.
Una volta attuato il piano di gestione, la ripetizione dei
vari punti del processo di diagnosi e valutazione, ad
esempio una rivalutazione e la ripetizione degli esami,
può contribuire a monitorare il progresso della guarigione della ferita ed a rilevare eventuali complicazioni quali
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
CRESPI
un’infezione (Figura 1). Una nuova valutazione può
anche suggerire la necessità di eseguire esami diversi e/o
di rivedere il piano di gestione della ferita.
Nella diagnosi e nella valutazione di una ferita, è molto
importante che i medici si assicurino che la valutazione
complessiva consideri tutti gli aspetti relativi sia al paziente sia alla ferita.
Bibliografia
1. World Union of Wound Healing Societies (WUWHS). Principi
di best practice: La diagnostica e le ferite. Documento di
consenso. Londra: MEP Ltd, 2008.
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L’importanza della cute perilesionale
O. FORMA
L’organismo umano è in grado di guarire le lesioni cutanee con le proprie forze, tuttavia questa capacità è soggetta a variazioni individuali: la rapidità e la qualità di
guarigione dipendono dallo stato di salute generale dell’organismo colpito e dalla genesi della lesione stessa. Esistono dei fattori locali e generali che possono andare ad
influire sull’andamento della lesione rallentandone la guarigione.
In risposta ad una lesione cutanea acuta si attiva un processo riparativo ben orchestrato con eventi e passaggi
ben definiti dal punto di vista temporale che portano al
ripristino di una integrità anatomica e funzionale. Nelle
lesioni croniche il processo è prolungato ed incompleto e
procede in maniera scoordinata con risultati spesso
insoddisfacenti dal punto di vista anatomico e funzionale.
Tutta una serie elementi diversificano l’evoluzione dell’ulcera cronica da quella acuta innanzitutto per la persistenza della condizione infiammatoria. Dal punto di vista
fisiopatologico tutta una serie di fattori favoriscono una
cronicizzazione dell’ulcera a partire dalle condizioni più
comuni come il diabete, l’insufficienza renale cronica, l’ischemia periferica, l’insufficienza venosa, il linfedema, le
lesioni da decubito o i deficit di vitamine e sali minerali
fino ad arrivare alle meno frequenti come quelle da chemioterapici o da terapia radiante. Altre condizioni locali
possono tendere a peggiorare una lesione quali ad esempio la presenza di una sovrapposizione infettiva o la persistenza di una condizione di ischemia o di sovraccarico
pressorio. Nelle lesioni croniche la persistenza della condizione infiammatoria genera una cascata di risposte che
perpetuano lo stato di “non guarigione”.
La cute perilesionale rappresenta un parametro fondamentale per una gestione corretta ed efficace dell’ulcera;
il saper valutare e gestire la cute e la cute perilesionale,
permette di affrontare in modo corretto l’ulcera.
L’esposizione continua a stimoli flogistici è la normalità
per la cute e la spiegazione la troviamo nella sua struttura, nel tipo di innervazione e la sua vascolarizzazione.
La reattività della cute dipende soprattutto dal comportamento dei vasi che è modulata dall’integrità dell’innervazione sensitiva locale, dalla reattività dell’endotelio, dall’aggregazione piastrinica, dai fattori della coagulazione.
182
Servizio Infermieristico di Vulnologia,
Ospedale S. Raffaele, Milano
Tutti questi fattori sono influenzati da differenze genetiche, dall’età, dallo stile di vita, dalla dieta, dalle infezioni
virali e batteriche sistemiche e anche locali.
L’analisi di tutte queste variabili è sempre necessaria per
valutare la patogenesi dei processi flogistici cutanei ed
intervenire rimuovendone le cause piuttosto che semplicemente sedare l’infiammazione con farmaci aspecifici.
Lo studio della permeabilità epidermica è di fondamentale importanza per poter riuscire a comprendere e predire
il comportamento delle varie sostanze (farmaci, antisettici,
creme, medicazioni, ecc.) analizzando la loro liberazione
sia a livello locale, cioè a livello dermico, sia a livello
generale, cioè a livello transdermico ; lo strato corneo
viene considerato comunemente come la barriera principale che si oppone al trasporto delle sostanze invece
con” lo studio su modelli della permeabilità dell’epidermide”, si è dimostrato che non è lo strato corneo ma
bensì il sistema dermo-epidermico che può limitare la
velocità di diffusione di qualsiasi sostanza si utilizzi a
livello locale.
Quindi la valutazione della cute perilesionale è utile ai fini
terapeutici in quanto permette di distinguere problematiche inerenti alla lesione da quelle scatenate dall’utilizzo di
materiali non tollerati o utilizzati in modo improprio.
La presenza di macerazione, di piccole erosioni sparse,
presenza di margine netto esterno sulla cute perilesionale, frequentemente rappresentano una problematica da
terapia topica; l’intolleranza alla garza, al cerotto, alla
medicazione di nuova generazione adesiva, all’argento,
ecc. può arrivare a manifestarsi con un vero e proprio
eczema.
La dermatite è sempre fonte di ulteriori problemi per il
paziente in quanto facilmente le erosioni si infettano e si
complica l’evoluzione della lesione stessa.
Ovviamente i particolari si notano solo se prima facciamo
una valutazione complessiva di tutta l’area e poi affrontia-
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L’IMPORTANZA DELLA CUTE PERILESIONALE
FORMA
mo settore per settore tutta la cute perilesionale partendo
dall’esterno fino ad arrivare al margine della lesione analizzando così tutte le caratteristiche più peculiari.
È certo che la scelta e le tecniche di esecuzione delle
medicazioni, nonché dei bendaggi, possono creare problematiche alla cute perilesionale: Il
– l’azione degli idrogeli;
– l’argento e i residui sul fondo della lesione e sulla cute
perilesionale;
– le soluzioni coloranti e antisettiche;
– i poliuretani (con additivi e conservanti);
– le tecniche di rimozione delle medicazione;
– l’adesività di cerotti e medicazioni avanzate;
– i bendaggi.
Un’analisi della letteratura evidenzia che a tutt’oggi gli
approcci di prevenzione e di cura delle lesioni e della
cute perilesionale sono disomogenei e molte volte si
osserva una assoluta mancanza di uniformità nei comportamenti assistenziali, terapeutici e diagnostici. Le varie
figure professionali coinvolte e l’ampia disponibilità di
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
ausili e presidi reperibili sul mercato, incrementano una
difformità di approccio con conseguenze dolorose per il
soggetto che si trova a rischio di complicanze; una adeguata valutazione del soggetto ed un corretto approccio
preventivo e/o curativo svolgono un ruolo determinante
nella salvaguardia dell’integrità cutanea favorendo in questo modo la qualità di vita per il paziente, la qualità della
prestazione erogata, fino alla guarigione della lesione.
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MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):184
La gestione infermieristica domiciliare
della persona amputata
A. LOMBARDI
Oggi, il 70% delle amputazioni sono causate da malattie
vascolari ed infettive (61-70 anni), il 22% da traumi (21-30
anni) come incidenti stradali o domestici, il 5% da tumori
(11-20 anni) ed il 3% da malformazioni congenite. Delle
patologie che causano amputazione, le malattie vascolari
sono le più comuni, queste malattie limitano il flusso
arterioso del sangue agli arti inferiori, causano ulcere
gangrene che possono condurre all’amputazione. Il diabete è un’altra causa comune di perdita degli arti. Le
complicanze del diabete diminuiscono la circolazione e la
sensibilità degli arti. Si formano ulcere e infezioni che
possono condurre all’amputazione. L’amputazione, di per
sé, è un evento drammatico che menoma l’immagine
della persona manifestandosi come qualcosa che si è perduta, e come tale comporta per l’individuo una serie di
reazioni diverse, dipendenti sia dalla sua personalità, sia
da fattori esterni. L’amputazione è l’indicazione assoluta
quando non si possono offrire al paziente altre alternative
soddisfacenti. Consiste nella resezione di un segmento
distale di un arto ed è ottenuta sezionando lo scheletro
nella sua continuità. Con essa ci si propone di salvaguardare il paziente da gravi complicazioni generali, o si mira
ad ottenere un significativo miglioramento della sua qualità di vita. le disabilità non sono un punto d’arrivo, bensì
un punto d’inizio, una nuova vita, una nuova sfida. Nel
caso di pazienti con amputazione di arto,si rende indispensabile una corretta valutazione da parte del team
multidisciplinare,per la stesura di un progetto riabilitativo,
coerente con la presenza di capacità funzionali residue
sufficienti,per attuare un programma protesico riabilitativo
che permetta di ridurre al massimo gli esiti sfavorevoli,
sul piano dell’autonomia motoria, di un’amputazione di
arto, e gli interventi di assistenza una volta che il paziente
rientri nell’ambiente di appartenenza (domicilio, casa di
cura, casa protetta, RSA geriatrica). Un aspetto molto rilevante riguarda la preparazione fisica e psicologica dal
paziente all’evento traumatico .Un accurato training di
lavoro,orientato da una valutazione funzionale e motivazionale preventiva, consentirà di ridurre al massimo i
tempi di guarigione, preparando inoltre il paziente, ad un
pronto recupero fisico e psicologico in attesa del trattamento riabilitativo con protesi. Si lavora quindi per ripri184
Novara
stinare buone condizioni generali e locali: il moncone
dovrà essere oltre che ben conformato, trofico, tonico e
privo di edemi. Siamo nella cosiddetta fase del nursing
del moncone che comprende l’attuazione di: a) un adeguato bendaggio, b) apprendimento di elementi di igiene
per le cura del moncone e della cicatrice, c) una corretta
postura, d) presa di coscienza del nuovo stato da parte
del paziente. ll moncone è purtroppo frequentemente
sede di manifestazioni dolorose che vanno da una semplice sensazione di fastidio, a veri e propri tormenti che
inficiano ogni trattamento riabilitativo. Le sindromi dolorose nei monconi perfettamente costituiti: sono evidentemente legate a cause estrinseche dovute a scarsa igiene o
all’utilizzo di protesi inidonee. Nelle sindromi dolorose
”pure” si pensa che le manifestazioni dolorose siano
dovute ad una alterazione del sistema simpatico su base
vascolare. A volte la semplice sensazione dell’arto fantasma (il paziente percepisce sensazioni di tipo sensitivoposizionale ed anche motorie dell’arto che gli è stato
amputato) può diventare nel tempo un vero e proprio
dolore del fantasma che può essere estremamente invalidante. Il coinvolgimento e la formazione dei familiari,
sulle problematiche collegate alla gestione della protesi, e
del paziente e nel suo insieme (problemi del moncone,
trasferimenti, modifiche dell’ambiente domiciliare trattamenti ricorrenti, trattamenti farmacologici ecc.), migliorano gli esiti del training protesico,rendendo più agevole la
gestione della persona all’interno del proprio ambiente
domestico. Anche gli aspetti motivazionali giuocano un
ruolo importante nel successo del progetto,dal momento
che l’impegno personale e le aspettative del paziente
risultano spesso determinanti. L’informazione accurata ed
il coinvolgimento del paziente sul progetto e la comprensione e definizione degli obbiettivi da lui ritenuti importanti e significativi assicurano la massima collaborazione
ed impegno possibili.
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
Dicembre 2011
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ATTI XXXIII CONGRESSO NAZIONALE SIAPAV (Roma, 23-26 novembre 2011)
MINERVA CARDIOANGIOL 2011;59(Suppl. 1 al N. 6):185-7
L’uso delle medicazioni avanzate è giustificato?
A. DE ANGELIS
Il progresso scientifico e tecnologico ha permesso un’evoluzione nel campo del would care grazie all’utilizzo di prodotti che sfruttano i principi della medicazione ideale nel
rispetto dell’omeostasi cutanea e del mantenimento del
letto della ferita umido: le medicazioni avanzate (World
Union of Wound Healing Societies, 2007). Per quello che
riguarda le ulcere venose, il trattamento principale è l’applicazione della compressione, sia in forma di bendaggi o
calze a compressione. Le medicazioni sono applicate sotto
la compressione per aiutare la guarigione, per dare conforto e per controllare l’essudato (Smithdale, 2010; Vowden,
2010). Al fine di poter supportare il personale sanitario con
le migliori evidenze scientifiche si è voluto verificare se in
letteratura fosse giustificato nel rapporto costo/efficacia,
l’uso delle medicazioni avanzate vs quelle tradizionali nel
trattamento dell’ulcera vascolari. Per medicazione tradizionale intendiamo un materiale (es.garza idrofila, garza TNT)
posto a diretto contatto con sola funzione di copertura,
emostasi e protezione. Per medicazione avanzata abbiamo
invece inteso un materiale con caratteristiche di biocompatibilità che, interagendo con la ferita su cui è applicato, ne
evoca una risposta specifica (idrocolloidi, alginati, idrogel,
materiali di poliuretano).
Materiali e metodi
La ricerca del materiale bibliografico è avvenuta dal 20
ottobre 2011 al 30 ottobre 2011, anche se una ricerca preliminare era già stata condotta nel mese di novembre
2010. I concetti essenziali del nostro purpose statement
per lo studio sono stati individuati attraverso il sistema
P.i.C.O. (P : persone con ulcere vascolari; I: medicazioni
avanzate; C: medicazioni tradizionali; O: guarigione ulcera, compliance paziente, sostenibilità economica) e successivamente, attraverso il sistema della Facet Analysis,
così da ampliare il campo di ricerca e cercare di reperire
il maggior numero di articoli inerenti (completezza). La
scelta delle Key-works, delle voci di thesaurus, ovvero i
termini “descrittori” utilizzati per la ricerca, è stata fondamentale per interrogare le banche dati da cui attingere la
bibliografia di riferimento. Il carattere asterisco * - anche
detto truncation (funzione di troncamento)- è stato usato
per semplificare ed ampliare le possibilità di interrogazioVol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Civitavecchia
ne, mentre per aumentare la specificità della ricerca, per i
descrittori a testo libero composti da più parole sono stati
usati gli operatori di vicinanza (N2 o N3) in CINAHL e
l’uso della stringa virgolettata (‘) in PubMed. Le parole
chiave scelte sono state collegate tramite gli operatori
booleani OR e AND, comprendono termini MeSH e parole a testo libero: Dressing/s; Modern dressing; Modern
wound dressing; Traditional wound dressing; Different
dressing; Bandages, Hidrocolloid [MESH]; Hidrocolloid;
Alginates [MESH]; Management wound care; Wound care
pain; Leg ulcer [MESH]; Ulcer; Chronic wounds; cost
effectiveness; managed care cost. La ricerca bibliografica
è stata effettuata nella banca dati PubMed (versione gratuita di Medline), in quella del Comulative Index of Nursing and Allied Health Literature (CINAHL Plus with full
text, tramite EBSCO Host), in quella di OvidSp, in quella
di Cochrane Library ed ILISI con l’accesso attraverso la
Biblioteca Digitale del Collegio IPASVI di Roma. Poiché la
ricerca preliminare ha evidenziato un discreto numero di
studi RCT inerenti il nostro argomento di approfondimento, abbiamo ritenuto opportuno puntare ad un elevato
grado di specificità della ricerca, pertanto attraverso l’uso
del filtro metodologico è stata aggiunta – con l’operatore
booleano AND – una stringa di interrogazione, ottimizzata per la specificità/ristrettezza (Sensibilità del 93% e Specificità del 97%) estrapolata dal servizio “Clinical Queries”
di PubMed. Quindi i limite impostati sono stati: pubblicazioni inerenti articoli in versione abstract o full text, data
di pubblicazione inferiore a 6 anni e solo Clinical trials,
Randomized Controlled Trial, Meta-Analysis. La strategia
di ricerca ha portato ad esaminare 209 studi su Pubmed,
24 studi su Cochrane, 186 studi su Cinahl, 87 studi su
OvidSp e nessuno su Ilisi. Successivamente un attento
studio degli abstract (o full text ove presenti on line) ha
portato ad analizzare 5 articoli (2 su Cochrane Library, 3
su Pubmed).
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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DE ANGELIS
L’USO DELLE MEDICAZIONI AVANZATE È GIUSTIFICATO?
Risultati
Tra gli studi esaminati una revisione della letteratura della
Cochrane Library, evidenzia che per le ulcere vascolari
arteriose non ci sono prove sufficienti per determinare se
agenti topici e medicazioni influenzano il tasso di guarigione (Nelson & Bradley, 2007). Per quello che riguarda
le ulcere venose una meta analisi della Cochrane Library
di Trials randomizzati e controllati ha valutato diversi tipi
di medicazioni coadiuvanti o meno di bendaggio (Palfreyman, Nelson, Lochiel, & Michaels, 2006). Non c’era
alcuna restrizione in termini di provenienza, data di pubblicazione o di lingua e la guarigione dell’ulcera era
l’endpoint primario. Sono stati analizzati 42 studi randomizzati e controllati che hanno soddisfatto i criteri di
inclusione. I principali tipi medicazione valutati sono stati
gli idrocolloidi (n = 23), le schiume (n = 6), gli alginati (n
= 4), condimenti idrogel (n = 6) e un gruppo di medicazioni varie (n = 3). L’evidenza attuale non suggerisce che
gli idrocolloidi sono più efficaci della semplice medicazione a bassa aderenza utilizzata sotto compressione (9
prove; rischio relativo per la guarigione con idrocolloide
1,09 [IC 95% 0,89-1,34]). Per altri confronti non c’erano
prove sufficienti. In conclusione, il tipo di medicazione
applicata sotto la compressione non ha mostrato di
influenzare la guarigione dell’ulcera. Così, si determina
che nessuna raccomandazione conclusiva può essere fatta
sul quale tipo di medicazione è più conveniente. Un altro
studio prospettico, randomizzato e a gruppi paralleli
(Meaume, et al., 2009) è stato svolto per confrontare efficacia e la tollerabilità di un medicazione idrocolloide a
base di acido ialuronico (HA+ HC) verso una medicazione idrocolloide di riferimento non a base di acido ialuronico (HC) nel trattamento delle ulcere venose o di origine
mista nel quale sono stati arruolati 125 pazienti e trattati
per un massimo di 42 giorni. Il criterio primario di efficacia era la riduzione della ferita; altri criteri di efficacia
sono state le condizioni del letto della ferita e della cute
circostante, e la presenza e la gravità dei sintomi come
dolore e prurito. Dopo 42 giorni di trattamento la riduzione media di area dell’ulcera è stata -42,6% (95% intervallo
di confidenza [CI]: -66,6, -5,7) e -31,0% (95% CI: -51,6, 8,8) nel gruppo HC + HA e nel gruppo HC di riferimento,
rispettivamente. La differenza tra i trattamenti non era statisticamente significativa. Una riduzione> = 90% della
superficie dell’ulcera iniziale è stato osservato in 15
pazienti nel gruppo HC + HA e in soli sette pazienti nel
gruppo HC . Cambiamenti nelle condizioni del letto della
ferita nei due gruppi non erano significativamente differenti, ad eccezione di una riduzione più marcata del tessuto fibrinoso nel HC + HA gruppo (p = 0,04), al giorno
28. Entrambi i trattamenti sono risultati ben tollerati . La
medicazione con HC + HA era ugualmente ben tollerata e
con una tendenza ad essere più efficace del HC riferimento nel trattamento delle ulcere venose o di origine
mista, tuttavia sono necessarie ulteriori ricerche per confermare questi risultati. Un altro RCT (Michaels, et al.,
2009) è stato effettuato in Inghilterra per esaminare l’efficacia e il costo-efficacia di una medicazione antimicrobica
d’argento per le ulcere venose( presenti da più di 6 settimane) rispetto alla medicazione semplice non aderente
(nota anche come a bassa aderenza)sotto bendaggio
186
compressivo o calze. La scelta della medicazione all’interno di questi gruppi è stato lasciato alle preferenze clinico.
L’outcome primario era la guarigione dell’ulcera completa
a 12 settimane nell’arto , mentre outcome secondari sono
stati i costi e aggiustati per la qualità della vita-anno
(QALY), costi-efficacia, il tempo di guarigione, e tasso di
recidiva a 6 mesi e 1 anno.In totale, 304 partecipanti sono
stati reclutati per la sperimentazione clinica: 213 per la
RCT e 91 al braccio osservazionale. All’interno del 107
RCT sono stati randomizzati a medicazioni antimicrobiche
e 106 le medicazioni di controllo. Non ci sono state differenze significative (p> 0,05) tra i due gruppi per l’esito
principale della proporzione di ulcere guarite a 12 settimane (59,6% per l’argento e il 56,7% per le medicazioni
di controllo). Il tempo complessivo medio di guarigione
era anche non significativamente diverso tra i due gruppi
(p = 0,408). Un totale di 24 pazienti aveva ulcere recidive
entro 1 anno, i tassi di recidiva del 11,6% (n = 11) per
l’antimicrobica e il 14,4% (n = 13) per le medicazioni di
controllo non erano significativi. Significa valutazioni di
utilità sia per il EuroQol 5 dimensioni (EQ-5D) questionario della qualità della vita e Short Form 6 dimensioni (SF6D) indice di utilità non hanno mostrato differenze per
entrambi i gruppi a 1, 3, 6 o 12 mesi. Costo-efficacia di
modellazione dei risultati del RCT ha dimostrato che le
medicazioni antimicrobiche non erano convenienti. Quindi, nessuna differenza significativa negli endpoint primario o secondario è stata trovata tra l’uso di medicazioni
con antimicrobici argento e quelle semplici a bassa aderenza. Uno studio clinico (Hampton, Coulborn, Tadej &
Bree-Aslan, 2011) dimostra che la valutazione e la gestione dell’essudato è la chiave per la guarigione dell’ulcera.
Una paziente di 102 anni che presentava una dolorosa
ulcera ad eziologia mista complicata da infezione è stata
gestita e portata a guarigione con una medicazione che
assorbiva l’essudato eccessivo e riduceva selettivamente
la carica batterica grazie al miele di manuka. Il limite di
questo studio si delinea nel fatto che non vengono
espressi i tempi di guarigione ed un solo caso clinico non
rappresenta una prova sufficiente per poter generalizzare
tale evidenza.
Conclusioni
Dopo la lettura integrale e analisi critica dei lavori scelti,
possiamo affermare che in letteratura non sono presenti
sufficienti prove che sostengano la maggior efficacia delle
medicazioni avanzate rispetto alle tradizionali nella risoluzione delle ulcere vascolari.
Un limite di questa revisione risiede nel fatto che l’efficacia dell’utilizzo delle medicazioni avanzate è stata valutata
solo in termini di medicazione unitaria verso la guarigione delle ulcere, e non in relazione al tempo dedicato dai
professionisti utilizzando le medicazioni avanzate rispetto
alle tradizionali nella gestione/guarigione delle ulcere e in
relazione al miglioramento della qualità di vita dei
pazienti. Per questo motivo invitiamo ad approfondire
l’argomento e a compiere ulteriori studi anche verso l’uso
della negative pressure wound therapy e del platelet gel
wound , affinché i professionisti, nell’agire quotidiano,
prendano decisioni validate sul trattamento più idoneo da
eseguire che è proprio del pensiero evidence based.
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Dicembre 2011
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L’USO DELLE MEDICAZIONI AVANZATE È GIUSTIFICATO?
Bibliografia
1. Hampton S, Coulborn A, Tadej M, Bree-Aslan C. Using a
superabsorbent dressing and antimicrobial for a venous
ulcer. British Journal of Nursing, 2011;20:40-3.
2. Meaume S, Ourabah Z, Romanelli M, Manopulo R, De
Vathaire F, Salomon D, Saurat Jh. Efficacy and tolerance of a
hydrocolloid dressing containing hyaluronic acid for the
treatment of leg ulcers of venous or mixed origin. Current
medical research and opinion, 2008;24:2729-39.
3. Micheals JA, Campbell B, King B, Palfreyman SJ, Shackley P,
Stevenson M. Randomized controlled trial and cost-effeciveness analysis of silver-donating antimicrobial dressings for
venous leg ulcers (VULCAN trial).The British Journal of Surgery, 2009;96:1147-56.
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
DE ANGELIS
4. Nelson EA, Bradley MD (2007). Dressings and topical agents
for arterial leg ulcers. Cochrane Database Systematic Review,
CD001836.
5. Palfreyman SJ, Nelson EA, Lochiel R, Michaels JA (2006).
Dressing for healding venous leg ulcers. Cochrane Database
Systematic Review, CD001103.
6. Smithdale R. Choosing appropriate dressings for leg ulcers.
Nursing & Residential Care, 2010;12:318-325.
7. Vowden P. Effective management of venous leg ulceration.
Practice Nursing, 2010;21:194-200.
8. World Union of Wound Healing Societies (2007). Wound
Exudate and the role of dressings. A concensus document.
Recuperato il 27/10/2011 da http://www.wuwhs.org /datas/
2_1/4 /consensus_exudate_ENG_FINAL.pdf
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
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5 - indice autori 16-11-2011 12:55 Pagina 1
Indice degli Autori
A
Accroca F., 145
Accrocca F., 96, 137, 144
Adovasio R., 109, 112
Agus G.B., 168
Alesso D., 69
Alia P., 53
Allegra C., 3
Aluigi L., 20
Alunno A., 66, 98, 135, 148, 165
Amistà P., 134
Amitrano M., 34
Andreozzi G.M., 15, 28
Antignani P.L., 25, 34
Antonelli R., 96, 137, 144, 145
Apperti M., 128
Ardita G., 25, 46, 61
Arosio E., 51, 141, 161
Arpaia G., 31, 34, 89
Attanasio L., 46
B
Baratto F., 114, 139, 158
Bavera P., 41
Bernardi E., 94
Biasutti C., 114
Bortolotti P., 175
Brini C., 128
Bucherini E., 128
Burattin G., 134, 155
Busato F., 114, 139
Busatto F., 158
C
Cacciaguerra G., 39
Calgaro A., 110
Camilli D., 125
Camilli S., 125
Campello E., 86
Camporese G., 116, 117
Cardaioli P., 155
Cassaro L., 107
Castiglione A., 66, 98, 135, 148, 165
Catalano M., 23
Cera C., 109, 110
Cerqua G., 119
Cesari S., 114
Cherubini S., 178
Chiarandini S., 109
Chiarioni G., 161
Vol. 59, Suppl. 1 al N. 6
Chinaglia M., 134
Ciammaichella M.M., 119
Cimminiello C., 89, 100
Cirulli S., 112, 123
Clerissi J., 112, 132, 150, 152, 156
Conti F., 84
Corsini A., 8
Cosmi B., 78, 121
Crespi A., 180
Cuppini S., 134, 155
d’Alessandro A., 42
I
Irace L., 137
Irsara S., 114, 139, 158
D
Dagianti A., 135
Dal Santo P., 155
De Angelis A., 185
De Marchi S., 76, 141, 161
Di Filippo A., 128
Di Giacomo E., 134, 155
Di Salvo M., 46
Di Salvo M.M., 25, 61
Dondi M., 112, 123, 132, 150, 152,
156
L
La Barbera G., 107
La Marca G., 107
La Rosa A., 112, 123, 132, 150, 152,
156
La Rosa D., 71
Laurito A., 66, 98, 135, 148, 165
Laurora R., 74
Lee B.B.; 6
Legnani C., 121
Lisato G., 155
Lombardi A., 184
E
Epicoco V., 152, 156
F
Faccenna F., 66, 98, 135, 148, 165
Failla G., 25, 46, 61
Fallea F., 107
Farina B.L., 32, 90
Felli M.M.G., 66, 98, 135, 148, 165
Ferro G., 107
Finocchiaro P., 46
Finocchiaro P.M., 61
Forma O., 182
G
Gabrielli R., 96, 137, 144
Gallucci M., 173
Giacomel1 G., 110
Giordano G.A., 96, 137, 144, 145
Giordano R., 128
Gossetti B., 66, 98, 135, 165
Greco R., 32, 90
Guarnera G., 49
Guazzaloca G., 121
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
J
Jabbour J., 66, 98, 135, 148, 165
K
Khamis A., 123
M
Maida C., 119
Maida R., 119
Malaj A., 66, 98, 135, 148, 165
Mancini M., 36
Marcucci G., 96, 137, 144, 145
Martinelli O., 137
Martini R., 28
Martinotti M., 132, 150
Marulli C.F., 58
Marzolo M., 134, 155
Massa Saluzzo C., 112, 132, 150,
152, 156
Mattassi R., 55
Mecca M.L., 119
Milio G., 71
Minotto I., 102
Moia E., 123, 156
Moia R., 112, 123, 132, 150, 152,
156
Mollo F., 155
Mollo P.E., 178
Mosti G., 44
Mounayergi F., 96
Mugno F., 25, 46, 61
189
TORNA ALL'INDICE
5 - indice autori 16-11-2011 12:55 Pagina 2
INDICE DEGLI AUTORI
N
Naccarato M., 110
Nikolakopoulos K., 109, 110
P
Pacelli W.M., 92
Palareti G., 123
Parsai D.M., 107
Patrizi C., 119
Pepe R., 21
Pesavento R., 102
Pessina G., 81
Pierotti S., 134
Pillon S., 57
Pinto A., 19
Pozzi Mucelli F., 109
Prandoni P., 102
Prior M., 64, 141, 161
Prisco V., 32, 90
Ragazzoni A., 112
190
R
Ragazzoni A., 123, 132, 150, 152,
156
Ramazzina E., 134, 155
Rigoni A., 141, 161
Rossetti R., 128
Rulfo F., 141, 161
S
Sacco A., 155
Salomone L., 121
Sartori M., 78, 121
Scotti C., 112, 123, 132, 150, 152,
156
Sellitti A., 128
Siani A., 96, 137, 144, 145
Siani L.M., 96
Simioni P., 86
Spezzigu G., 89
Stavri D., 66, 98, 165
MINERVA CARDIOANGIOLOGICA
T
Tonello D., 114, 139, 158
U
Ukovich L., 109, 110
V
Valdrè L., 121
Valentino F., 107
Vallone M., 107
Venosi S., 170
Ventura F., 128
Venturelli V., 178
Visonà A., 28, 114, 139, 158
Z
Zalunardo B., 114, 139, 158
Zattoni L., 155
Zecchetto S., 141, 161
Ziani B., 110
Zotta L., 114, 139
Dicembre 2011
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