Come pensare il federalismo?

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Come pensare il federalismo?
Collana di Filosofia Politica
a cura di Giuseppe Duso
Punto focale della collana è l’esercizio della filosofia politica, intesa insieme come tentativo di comprensione del reale e di
orientamento della prassi. A tale scopo appare indispensabile interrogare criticamente i concetti e i valori con i quali comunemente si
pensa la politica, per verificare se in essi non si manifestino presupposti ingiustificati o addirittura vere e proprie contraddizioni.
Egualmente essenziale si mostra l’attraversamento della lezione dei
classici, che ci parlano al di là di pur consolidate linee interpretative. L’attenzione alla politica e alle concezioni politiche non può
essere disgiunta dalla riflessione sulla struttura speculativa del pensiero e sull’incrocio tra la ricerca filosofica e la molteplicità dei
saperi, nelle loro specificità e trasformazioni. Questo intreccio caratterizza i lavori di filosofia politica della collana e motiva l’apertura a contributi più specificamente teoretici, per quanto riguarda
non solo il taglio, ma anche il contenuto. È da un lavoro complessivo di tale genere che possono emergere categorie nuove, o nuovamente pensate, attraverso le quali porre il problema politico alla luce della originaria questione della giustizia e rischiare di indicare
punti di riferimento nella complessità del nostro presente.
COME PENSARE
IL FEDERALISMO?
NUOVE CATEGORIE E TRASFORMAZIONI
COSTITUZIONALI
a cura di
Giuseppe Duso
Antonino Scalone
Polimetrica
International Scientific Publisher
2010 Polimetrica ® S.a.s.
Corso Milano, 26
20052 Monza – Italia
Tel./Fax ++39.039.2301829
Web site: www.polimetrica.com
ISBN 978-88-7699-193-6 Edizione stampata
ISBN 978-88-7699-194-3 Edizione elettronica
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Stampato presso DigitalPrint Service Srl – Segrate (MI)
Volume pubblicato con il parziale contributo del Dipartimento di Filosofia
dell’Università degli Studi di Padova
Sommario
Come pensare il federalismo?
Nuove categorie e trasformazioni costituzionali .................................... 9
Giuseppe Duso e Antonino Scalone
La Fédération comme forme politico-juridique................................... 19
Olivier Beaud
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico ............. 49
Sergio Ortino
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione............................. 73
Giuseppe Duso
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale ............................................. 119
Corrado Malandrino
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione .. 171
Pierangelo Schiera
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni ................ 187
Filippo Pizzolato
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee. ....... 217
Ilenia Ruggiu
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen .......................... 233
Antonino Scalone
8
Sommario
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale............................... 253
Giuseppe Gangemi
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della
cittadinanza. Appunti per un liberalismo politico e sociale .............. 279
Agostino Carrino
Autori..................................................................................................... 309
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 9-17 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Come pensare il federalismo?
Nuove categorie e trasformazioni
costituzionali
Giuseppe Duso e Antonino Scalone
L’individuazione del federalismo come problema da pensare non ci è
suggerita soltanto dall’occasione che il momento storico ci offre in
relazione all’Europa e all’Italia, ma nasce da un lungo lavoro di ricerca sui concetti politici moderni, che trova nel Centro interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo il
suo quadro organizzativo e il suo luogo di riconoscimento. Tali ricerche hanno in gran parte riguardato i concetti fondamentali che
caratterizzano il modo moderno di pensare la politica e quel percorso,
scandito dalla riflessione di autori cruciali, che dal concetto moderno
di sovranità giunge alla democrazia contemporanea. Nell’ambito delle attività del CIRLPGE è stato organizzato nel 2007 presso
l’Università di Padova un seminario internazionale, che rappresenta
l’antecedente immediato del presente volume. Il tema era costituito
dal tentativo di analizzare la realtà politica contemporanea alla luce
della capacità o meno della costituzione di prevedere e comprendere
la pluralità politica. Il problema del riconoscimento della pluralità si
pone con forza sia al livello sovrastatale, in processi come quelli che
sfociano nell’Unione Europea, sia al livello della realtà statale, dove
emergono forme di soggettivazione e prese di posizione politiche che
non sono inquadrabili nella classica dottrina dello Stato e della legittimazione del potere, ma esigono un modo diverso di pensare i
soggetti della politica. Ne è risultato un volume dal significativo titolo “Ripensare la costituzione: la questione della pluralità”1.
1
M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (a cura di), Ripensare la costituzione: la questione della pluralità, Polimetrica, Monza 2007 (www.polimetrica.com).
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Giuseppe Duso – Antonino Scalone
Allo sguardo ampio e non limitato da steccati diciplinari – diverse infatti erano le competenze (giuridiche, filosofiche, storiche, di
scienza politica) che si incrociavano sul tema comune – è apparsa la
difficoltà, intrinseca alla costituzione, di pensare una pluralità di
soggetti politici. Ciò perché la nozione di costituzione dipende per
larga parte da quella costellazione concettuale che, a partire dal
moderno giusnaturalismo, ha al suo centro il concetto di sovranità.
Per quanto non siano mancate le posizioni di chi pensa che anche a
livello europeo non si possa fare a meno della sovranità statale, tuttavia è risultata una larga concordanza nel rilevare l’insufficienza
degli strumenti concettuali che si condensano nei concetti e nelle
procedure della “legittimazione democratica” in relazione alla possibilità di pensare e dare spazio alla pluralità e alla partecipazione
dei cittadini alle decisioni politiche. Da qui il compito di ripensare
la costituzione per quanto riguarda una serie di concetti fondamentali e le procedure che da questi concetti dipendono. Queste infatti
(si pensi alle elezioni), se da una parte legittimano coloro che esercitano il potere, dall’altra sono insufficienti a coinvolgere i cittadini
mediante una effettiva partecipazione. Ma è emersa anche (Hasso
Hofmann) la necessità di un ripensamento del significato e della
funzione che lo strumento della carta costituzionale ha assunto a
partire dalle Rivoluzioni, quella francese in particolare.
In alcuni interventi poi, in relazione alla crisi della legittimazione tradizionalmente propria delle democrazie rappresentative, alla
necessità, riguardo all’Europa, di pensare in modo diverso il centro
o i centri di imputazione del comando e al riferimento a tradizioni
di pensiero ed esperienze storiche diverse, si è ravvisato nel federalismo un tema a cui dedicare particolare attenzione, nella direzione
appunto di superare le aporie e le difficoltà della costituzione in relazione alla realtà effettiva e all’esigenza di garantire ai diversi
livelli, da quello sopranazionale a quello statale, la pluralità e insieme la partecipazione.
È allora sembrato opportuno e urgente, per proseguire il lavoro
di analisi e di proposta, organizzare un secondo seminario, nel settembre 2009, sempre presso l’Università di Padova, sul tema del
federalismo. Il titolo, che è anche il titolo di questo volume, ci sembra particolarmente significativo: “Come pensare il federalismo?
Nuove categorie e trasformazioni costituzionali”. Nella intenzione
degli organizzatori il titolo voleva avere un significato preciso. In-
Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali
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nanzitutto l’interrogativo iniziale. Questo non nasce tanto dalla necessità di orientarsi tra diverse tradizioni e diverse proposte di
federalismo, quanto piuttosto dalla convinzione che “pensare il federalismo” costituisca un compito, tutto ancora davanti a noi, non
risolvibile sulla base di un modello già elaborato o di esperienze del
passato. È significativo che nei lavori monografici di Olivier Beaud
e Sergio Ortino dedicati alla costituzione della federazione2, che sono stati importanti per la determinazione del quadro di discussione
del seminario, si sia in modo diverso riconosciuto che realtà nate
come federalistiche si sono sostanzialmente convertite, sia pure con
qualche specificità, nella forma Stato classica, con l’unità e il centralismo che la caratterizza. Da ciò risulta la necessità di porre al
centro della riflessione il problema della relazione tra concetti fondamentali e procedure costituzionali, per quanto riguarda sia lo
Stato sovrano e unitario, sia la federazione. Che la riflessione sul
federalismo costituisca un compito, ci sembra confermato dai contributi contenuti in questo volume. Non solo infatti questo è
esplicitamente affermato in una serie di interventi (Beaud, Ortino,
Schiera, ma anche Pizzolato), e deriva in altri dall’esigenza di pensare il federalismo come via di superamento delle aporie e della
spoliticizzazione a cui i concetti moderni hanno dato luogo (Duso),
ma anche coloro che maggiormente si riferiscono ad una tradizione
federalistica affermatasi storicamente e teoricamente (Malandrino,
Gangemi) cercano comunque di fornire indicazioni innovative in
relazione al nostro presente (ad es. Malandrino con il paradigma federalista-comunicativo).
Anche l’altra parte del titolo riveste per gli organizzatori un preciso significato. Innanzitutto l’espressione “nuove categorie”, che
vuole indicare appunto il compito posto al pensiero dalla consapevolezza delle difficoltà che i concetti caratteristici della dottrina
dello Stato incontrano nell’intendere la realtà politica che abbiamo
di fronte ai vari livelli, da quello mondiale a quello sovrastatale, a
quello statale, a quello regionale e delle autonomie territoriali. La
necessità di superare la concettualità della sovranità e dello Stato è
stata chiaramente indicata da Beaud. Ma anche oltre alcuni nodi
2
Ci riferiamo a S. Ortino, Introduzione al diritto costituzionale federativo, Giappichelli, Torino, 1993, e a O. Beaud, Théorie de la fédération, P.U.F., Paris 2007.
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Giuseppe Duso – Antonino Scalone
centrali della tradizione del pensiero federalistico bisognerebbe andare, se fosse vero che non appare risolutiva, per uscire dalle aporie
della sovranità, la consueta opposizione tra Stato federale e Confederazione di Stati. Il carattere di novità che le categorie ricercate
rappresentano nei confronti della costellazione concettuale della sovranità, non esclude comunque che un grande profitto per la
comprensione del presente possa derivare dall’attraversamento di
un arco di pensiero e di esperienze politiche ben più ampio e più esteso nel passato di quello che caratterizza il moderno diritto
pubblico. In questo contesto trovano la loro ragione gli approfondimenti analitici, presenti in vari contributi, del pensiero di autori
come Althusius, convenzionalmente collocati in un orizzonte concettuale premoderno.
Infine l’ultima espressione del titolo, “modificazioni costituzionali”, vuole indicare che forse il problema che abbiamo di fronte
non è quello di un modello più o meno realizzabile, ma formalmente compiuto, quanto piuttosto quello di capire in che senso pensare
in modo federalistico possa essere utile per comprendere la nostra
realtà e le urgenze che essa pone in relazione alla possibilità di non
subire i processi che sono in corso, quei processi che la carta costituzionale non riesce più a normare e forse nemmeno a prevedere. Si
tratta di avere strumenti per comprendere questa realtà e punti di orientamento che possano guidare i mutamenti anche della costituzione formale, in una direzione che non solo registri o giustifichi
una realtà in atto, ma la sappia appunto indirizzare in modo produttivo, affinché possano trovare una risposta più adeguata una serie di
esigenze, quali quelle di un governo che si riveli idoneo al suo
compito, che è appunto quello di governare; di un organo rappresentativo che esprima la totalità della società nelle sue differenze e
nella sua pluralità e che sia effettivamente superiore all’organo del
governo, da esso istituito e controllato; della espressione politica
delle differenze e dunque della reale presenza politica della pluralità; e infine della partecipazione dei cittadini al di là della spoliticizzazione che l’immagine dei “cittadini sovrani” in realtà ha comportato nel dispositivo della democrazia rappresentativa. Anche questa
intenzione ha trovato preziosi contributi nel corso dei lavori del seminario. Accanto infatti al tentativo di Beaud di intendere la
federazione come forma, utile in quanto mostra la necessità di determinare le differenze che dovrebbero caratterizzarla nei confronti
Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali
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della forma dello Stato, cui corrisponde necessariamente la nozione
di decisione sovrana, vi è stata una serie di tentativi di declinare il
riferimento al federalismo in un modo più mobile e legato alla prassi, come un processo piuttosto che come una forma giuridicamente
definita. In questa direzione vanno sia la proposta di “federalismo
funzionale” di Ortino, sia le riflessioni di Schiera sul senso concreto
in cui il federalismo si lega ai temi della comunicazione, della politica e della amministrazione, sia l’utilizzo, variamente iterato
all’interno di molti contributi, della nozione di federalismo al fine
di comprendere la direzione delle trasformazioni dell’assetto costituzionale in cui ci troviamo.
Nel corso dei lavori seminariali le diverse competenze e le diverse prospettive non si sono cristallizzate in punti di vista diversi e
tra loro irrelati, ma si sono proficuamente intrecciate all’interno di
un campo problematico comune che ha permesso la discussione; ciò
è evidente anche nei saggi raccolti nel presente volume, nei quali
gli autori incrociano confrontandosi a vicenda analisi e proposte. Il
primo piano di questo confronto riguarda l’orizzonte di pensiero che
appare necessario per pensare il federalismo. A questo proposito
primario risulta essere il tema della sovranità. C’è chi (Malandrino),
attraversando un arco storico ampio, che dal medioevo arriva a noi,
lo intende nel senso di quella decisione in ultima istanza che non
può mancare nella società politica e che può essere intesa o in modo
assolutistico (hobbesiano) o in uno maggiormente pluralistico e partecipativo. In questa direzione si determina una linea di continuità
tra costituzionalismo liberal-democratico e federalismo e tra
quest’ultimo e la forma costituzionale della democrazia rappresentativa. Ma c’è chi appunto, come si è sopra ricordato, pensa che
solo superando la sovranità, che nella sua specificità sarebbe portato necessario della teoria politica moderna, si possa pensare in
modo adeguato il federalismo. Questa ultima posizione deriva peraltro da una analisi della sovranità che non la riduce in toto alla
dimensione di un potere che viene dall’alto, ma ravvisa, nelle genesi del concetto moderno, come connaturato a questa stessa dimensione, l’elemento della legittimazione e dunque un processo di autorizzazione e di costituzione dal basso, che a sua volta implica altri
concetti, come quelli di uguaglianza, libertà, rappresentanza, popolo. Se così fosse, da una parte non risulterebbe risolutivo, per comprendere la specificità del federalismo, concepirlo come una moda-
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Giuseppe Duso – Antonino Scalone
lità di fondazione del potere dal basso, dall’altra si mostrerebbe ben
più arduo di quanto solitamente si ritenga pensare il federalismo uscendo dal condizionamento del concetto di sovranità.
Una domanda che sorge dal confronto sul concetto di sovranità riguarda il rapporto che la nostra realtà storica e il nostro tentativo di
pensiero intrattengono nei confronti del quadro teorico all’interno del
quale si sono mosse le vicende degli stati nazionali, cioè la grande
costruzione del diritto pubblico. Pensiamo cioè il federalismo all’interno dello scenario dello jus publicum europaeum, oppure per pensare il federalismo dobbiamo necessariamente emanciparci da esso? E
ancora: la questione sta nel dover superare tale scenario, o nel comprendere se non sia la stessa realtà ad essere irrimediabilmente al di
là di esso?
La collocazione che si assume in relazione a queste domande è
legata anche alla diversa rilevanza attribuita a classici del pensiero
politico e giuridico che si ritengono rilevanti per il nostro problema,
e alla diversa lettura della loro opera. Anche se la responsabilità del
pensiero è tutta nostra e riguarda il nostro presente, tuttavia ci sono
autori a noi temporalmente vicini, ma anche lontani, che possono
risultare più o meno utili per lo scopo che ci proponiamo. Anche
qui le posizioni si confrontano e non sono concordi, sulla base di
diverse argomentazioni. C’è chi ritiene che costituisca un punto di
partenza la trattazione che Carl Schmitt fa della costituzione federale nella sua celebre Dottrina della costituzione, e chi invece la considera fuorviante, in quanto tutta condizionata dal concetto di sovranità. Ugualmente diverse sono le considerazioni sulla rilevanza
da attribuire ad autori come Grozio, Pufendorf, Locke e Montesquieu, ma anche a teorici del federalismo come Trentin ed Elazar, i
cui profili sono stati approfonditi in particolare nel contributo di
Gangemi. Con riferimento a quelli che possono essere ritenuti classici del federalismo un posto rilevante nel dibattito spetta, come già
ricordato, alla figura di Althusius, in relazione al quale ci si può oggi avvalere della edizione critica a cura di Malandrino della Politica, contenente anche la traduzione italiana3. C’è chi, come Beaud,
ritiene il pensiero althusiano della politica inutilizzabile ai nostri fini, a causa del marchio di tipo organicistico e corporativistico che
3
J. Althusius, La politica, a cura di C. Malandrino, Claudiana, Torino 2009.
Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali
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lo caratterizza, e chi invece, pur riconoscendo la sua collocazione in
un’epoca contrassegnata dalla società cetuale, lo considera utile ai
fini di una visione comunicativa e cooperativa del federalismo (Malandrino) e dell’elaborazione di un modo diverso da quello della
sovranità di intendere insieme i due aspetti, costitutivi della politica,
della partecipazione e del governo (Duso).
Come si è detto il titolo pone la questione delle categorie che si
considerano rilevanti per pensare il federalismo. Accanto a quelle di
pluralità e di governo, appare necessario riflettere sul concetto di
individuo, che da una parte sembra irrinunciabile in una concezione
moderna della politica e dall’altra deve sfuggire a quel ruolo che lo
ha reso punto di partenza strategico nel processo teorico che ha
prodotto il concetto moderno di sovranità. In ogni caso è l’accezione di un individuo autosufficiente e indipendente che la stessa
concezione del foedus sembra negare, nella direzione della struttura
relazionale in cui il singolo si trova e della rilevanza del gruppo per
l’estrinsecarsi della sua azione politica. Questo non esclude tuttavia
la responsabilità dei singoli; è proprio la categoria di responsabilità
a risultare appropriata ad una concezione federalistica, al contrario
di quanto avviene nella logica legittimante della autorizzazione che
caratterizza l’esercizio del potere nello Stato. Ugualmente tipica di
una concezione federale è la categoria di solidarietà, che non può
non legare tra loro quelle che si considerano non realtà diverse e indipendenti, ma parti di uno stesso tutto.
In ogni caso, tema ricorrente in diversi interventi è quello della
rilevanza attribuita ai gruppi e alle aggregazioni per determinare
quella pluralità e quelle differenze – indistinte invece se punto di riferimento è la moltitudine degli individui – che caratterizzano la
federazione e per conferire senso concreto ed efficace all’agire politico dei cittadini. Su questa rilevanza del gruppo, non considerata
come alternativa alla dimensione dell’individuo, irrinunciabile nella
Modernità, ma tale da metabolizzare quella dimensione, insiste
Schiera, il quale mette anche in luce, oltre alle categorie di responsabilità, solidarietà, anche quella di autonomia, come caratterizzante una nuova realtà costituzionale, che va oltre la nozione tradizionale del costituzionalismo. Questa dell’autonomia, intesa non
nella accezione della indipendenza e assolutezza che caratterizza il
concetto di sovranità, ma in quella della conduzione responsabile di
sé, che deve caratterizzare un gruppo o un membro che si intende
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Giuseppe Duso – Antonino Scalone
parte di una realtà federata, è una categoria fondamentale per il federalismo. Essa non esclude che il gruppo sia, in qualche modo (è
questo è uno dei problemi fondamentali), sottoposto ad una azione
di governo (del governo centrale o federale, nella forma della federazione analizzata da Beaud), ma richiede contemporaneamente,
affinché non si perda la dimensione politica dei membri federati,
una attività di autogoverno da parte di questi ultimi. La dimensione
della pluralità e dell’autonomia dei gruppi organizzati, nel loro specifico carattere politico, appare valorizzata dalla riflessione
kelseniana, che costituisce un punto di riferimento per la teoria della federazione di Beaud. Come risulta anche dal confronto con la
pressoché coeva posizione di Schmitt, il federalismo di Kelsen, soprattutto in ragione del suo carattere originalmente tripartito,
sembra fornire utili spunti per pensare l’unità politica oltre e per
molti versi contro la concezione classica e monistica della sovranità. (Scalone).
La categoria dell’autonomia ha comportato il necessario intreccio
con la tematica della sussidiarietà. In alcuni contributi la valorizzazione di questo tema – con specifico riferimento alla Costituzione
italiana – si è tradotta nell’interpretazione dell’ordinamento politico
non come il frutto di una costruzione ex nihilo, ma come il risultato –
il colmo, per così dire – di un processo integrativo e osmotico di cui
le società parziali costituiscono i soggetti principali (Pizzolato). Ciò
senza destituire di significato l’istanza di decisione politica in senso
proprio, poiché ad essa è pur sempre demandata la cruciale funzione
“correttiva” rispetto alle possibili deviazioni corporative del sistema.
Secondo un’altra declinazione del problema – in qualche modo tipico
di ogni riflessione sull’assetto federale – della coerenza e della tenuta
complessiva di un ordinamento federale, queste sono affidate
all’auspicata instaurazione di un saggio equilibrio fra la valorizzazione delle differenze e delle istanze parziali da un lato e il rafforzamento in senso presidenzialistico del potere centrale dall’altro
(Carrino).
La tematica della aggregazione e delle sue forme ha sollecitato
più interventi, da quello di Ortino a quello di Schiera, a sottolineare
la rilevanza che ha oggi la rete per quella comunicazione che da
sempre è essenziale per la vita politica e per la dimensione del potere. Proprio la valorizzazione dell’elemento reticolare e comunicativo, in un quadro concettuale sempre più orientato verso la dimen-
Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali
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sione globale, contribuisce inoltre a problematizzare l’aspetto puramente territoriale dell’organizzazione federalistica in direzione di
un pluralismo che sappia render conto in modo adeguato (riconoscendole in termini di diritti) anche delle differenze culturali e delle
identità de-territorializzate, così come appaiono con riferimento
particolare ai migranti o alle minoranze etniche e religiose (Ruggiu).
Lo scopo del seminario e del volume non è certo quello di produrre proposte politiche o costituzionali. Piuttosto quello di porsi in uno
spazio che sembra ormai scomparso dalla scena del dibattito pubblico
quale si manifesta nei media, nei giornali, nella televisione, e
nell’ambito politico-partitico, tutti determinati dall’atteggiamento
dello scontro, nel tentativo di fare prevalere la propria volontà in un
immaginario dualistico finalizzato all’affermazione dell’unica volontà, che si fa legge e governo, secondo lo schema del criterio della
maggioranza che caratterizza il modo in cui sono interpretate le procedure democratiche. Lo spazio che abbiamo cercato di praticare è
invece quello caratterizzato da una riflessione comune nei confronti
dei problemi che si impongono: è lo spazio intermedio tra il lavoro di
ricerca scientifica e l’impegno politico, qualora questo sia inteso nel
senso classico del termine, quello cioè della responsabilità che
l’Università non può non avere nei confronti della società di cui fa
parte nell’attualità del presente.
Giuseppe Duso – Antonino Scalone
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 19-47 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
La Fédération comme forme
politico-juridique1
Olivier Beaud
Pour illustrer l’idée qui dominera le présent article, tiré de la conférence orale faite à Padoue, je partirai d’une citation d’Hanna
Arendt, dans son livre Essai on Revolution, où elle compare la genèse de la République américaine et française. Evoquant l’œuvre
des Founding Fathers, elle écrit : « Le principal problème des fondateurs était, à partir de treize républiques “souveraines”, et dûment
constituées, d’aboutir à l’union ; leur tâche était la fondation d’une
“république confédérale” qui (..) concilierait les avantages de la
monarchie dans le domaine des affaires extérieurs et ceux du républicanisme dans le domaine de la politique intérieure. Et dans cette
tâche qui devait aboutir à la Constitution, il n’était plus question de
constitutionnalisme au sens de droits civiques (..) mais il s’agissait
d’ériger un système de pouvoirs qui se freineraient et s’équilibreraient les uns les autres de façon telle que, ni le pouvoir de
l’Union ni celui de ses parties, les Etats dûment constitués, ne se
s’amoindrirait ni se détruirait l’un l’autre2.»
Ce que la philosophe allemande décrit ici n’est autre que le problème inhérent à toute construction fédérale qui a été l’objet de mon
livre sur la théorie de la Fédération3. Le défi auquel est confrontée
une théorie de ce type est celui de penser la dualité de deux pou1
Je remercie très vivement Giuseppe Duso et Antonino Scalone de leur invitation
à participer à ce colloque de Padoue (26 sept. 2009) sur « Comment penser le fédéralisme ? ». Dans la 1ère partie de celui-ci, je reprends des éléments déjà
développés, le 21 avril 2008, devant les participants du séminaire du Centre Marc
Bloch de Berlin.
2
Essai sur la révolution, trad. fr. Paris, Gallimard, p. 223
3
Théorie de la Fédération, (2007) Paris, Presses Universitaires de France, 2ème
édition, 2009, 448 pages, (augmentée d’un double index, nom et matières).
L’ouvrage est désormais cité comme TdF.
20
Olivier Beaud
voirs sur un même territoire : le pouvoir fédéral et le pouvoir fédéré, celui de la fédération, d’un côté, et celui des Etats-membres, de
l’autre. C’est l’existence de ce problème qui conduit les théoriciens
de l’Etat à dénier à ce type d’institution politique qu’est la Fédération une quelconque viabilité car un « imperium in imperio » serait
impensable. Mais cette objection philosophique ou théorique
n’interdit pas au juriste d’étudier les Fédérations qui ont existé, ni
d’en tenter la théorie pour rendre compte de cette forme de res publica composita. L’objet du livre précité est donc de présenter la
Fédération comme une forme politique, plus exactement, une forme
politico-juridique, égale en dignité , si l’on peut dire, avec l’Etat.
En réalité, cette hypothèse de travail – la Fédération comme une
forme politique – a été proposée dans une conférence intitulée « La
Fédération entre l’Etat et l’Empire » qui eut lieu dans le cadre d’un
séminaire organisé par l’économiste Bruno Théret au lendemain du
Traité de Maastricht (en 1994) sur « L’Etat, le social et la finance »4. Dès l’origine de ces recherches figure cette intuition selon
laquelle la Fédération est une forme politique irréductible à l’Etat
parce qu’elle s’oppose, presque point par point, aux éléments caractéristiques de l’Etat, et en particulier à la souveraineté. Pour le dire
d’un mot, l’Etat souverain se définit par l’unicité et l’exclusivité du
pouvoir sur un même territoire alors que la Fédération se distingue,
au contraire, par une dualité de pouvoirs sur un même territoire :
pouvoir fédéral (un) et pouvoirs fédérés (multiple).
Dans cette conférence prononcée en 1994, j’élaborais, à titre de
seconde hypothèse, l’idée de la comparaison entre la Fédération et
l’Empire. Celle-là ressemble à celui-ci pour partie en ce qu’elle est
un agrégat d’Etats, mais elle s’en distingue par le fait que cette
union d’Etats est volontaire et librement consentie alors que
l’Empire est une union forcée qui résulte non du consentement,
mais de la violence ou de la conquête (v. infra III, A)5.
Enfin, en raison de cette double opposition à l’Etat et l’Empire,
j’avançais alors l’hypothèse de l’autonomie constitutionnelle de la Fédération ; autrement dit, l’idée selon laquelle il y aurait un droit public
fédératif, qui serait distinct du droit étatique (Staastrecht) ou interétati4
La Fédération entre l'Etat et l'Empire, in B. Théret (dir.), L'Etat, la finance, le
social, Paris, la Découverte, 1995, pp. 282-304.
5
Ce thème est repris dans le chapitre 3 de la TdF, pp. 109 et s.
La Fédération comme forme politico-juridique
21
que (Völkerrecht) et que la forme politico-juridique que j’appelle la
Fédération doit être reconnue à part entière. Plus exactement, elle ne
peut pas être décrite correctement si l’on utilise les concepts utilisés
pour décrire l’Etat, ce que j’appelles concepts « stato-centrés ». D’une
certaine manière, l’une des conditions pour réussir à décrire le droit fédératif consiste à « désétatiser » les notions couramment utilisées par la
doctrine quand elle parle de la Fédération.
De cette conférence de 1994 jusqu’à l’écriture du livre (au cours
de l’année 2005-2006), je vais tester cette hypothèse centrale de
l’autonomie de la notion de Fédération en étudiant certains aspects
juridiques, constitutionnels, propres au système fédéral. De telles
enquêtes ont constitué le moyen de vérifier, empiriquement si l’on
peut dire, cette hypothèse centrale de l’autonomie constitutionnelle
de la Fédération. Autrement dit, ayant acquis la certitude que cette
hypothèse fonctionnait comme une sorte de « clé d’entrée » permettant de découvrir, sous un autre angle, des choses apparemment
bien connues, j’ai tenté d’approfondir l’hypothèse initiale, jusqu’au
point d’en proposer une synthèse qui est cet ouvrage sur la Théorie
de la Fédération. Il s’agit donc ici de le présenter en évitant de le
résumer, parce que ce serait ennuyeux pour ceux qui l’auraient déjà
lu, mais en décrivant quand même un peu son contenu pour ceux
qui ne l’auraient pas lu. Pour concilier cette double exigence, assez
contradictoire, j’ai résolu, d’expliquer d’abord, l’intention qui a
présidé à sa rédaction de ce livre en retraçant sa genèse (I),
d’évoquer, ensuite, le contenu de façon assez sélective en faisant
ressortir des éléments pas toujours explicites (II) et de dégager, enfin, certaines implications pouvant éventuellement intéresser un
public autre que celui des juristes (III).
1. Quelques remarques sur la genèse de la Théorie de la
Fédération
Si l’on revient ici sur la manière dont a vu le jour le livre, c’est pour
essayer – espérons-le – de mieux en faire comprendre le contenu et
la portée. C’est pour cette raison qu’on emploiera de manière un
22
Olivier Beaud
peu excessive le « je », la première personne du singulier, pour évoquer rétrospectivement ce parcours.
Partons donc du commencement. C’est en réécrivant la thèse sur
la souveraineté de l’Etat6 en vue de sa publication que j’ai été amené à examiner au cours de l’été 1993, les implications
constitutionnelles du Traité de Maastricht sur l’Union européenne
(1992). Par la même, il a fallu affronter de nouveau la question fédérale qui avait été seulement abordé de manière indirecte. Dans cet
ouvrage sur La puissance de l’Etat, ces considérations sur le fédéralisme sont reflétées dans le passage sur la constitution unitaire,
caractérisé par l’idée de « commandement constitutionnel »7, et
dans la conclusion du livre où le Traité de Maastricht est interprété
comme « matériellement » constitutionnel. Mais si cette réécriture
de la thèse m’avait alerté sur la particularité de la question fédérale,
la difficulté théorique qui en résultait (la conciliation possible ou
non entre souveraineté et fédéralisme) n’avait certainement pas été
résolue. Telle est la raison pour laquelle j’avais élaboré, lors de ma
candidature à l’Institut Universitaire de France, une partie du programme de recherches, en 1993, autour de la question du
fédéralisme. De ce point de vue, la conférence de 1994, sur la Fédération, l’Etat et l’Empire (v. supra) représenta le premier pas dans
ces recherches fédérales tandis que le livre (Théorie de la Fédération, 2007) en serait plutôt l’aboutissement. Si l’on tient ici à
rappeler la genèse de ce livre, c’est surtout pour être en mesure de
comparer les résultats obtenus dans le livre avec les intentions initiales du projet de recherches8.
A/ La genèse du livre entre hypothèse initiale et articles « préparatoires »
On a déjà vu dans notre introduction les hypothèses initiales de ce
projet, mais il est bon de voir comment des articles ont préparé le
6
Etat et souveraineté. Eléments pour une théorie de l’Etat, thèse d’Etat de droit
public, Paris II, 1989, dactyl, 606 p
7
La puissance de l’Etat, PUF, coll. Léviathan, 1994, pp. 245 et s.
8
Un tel parti-pris va conduire à citer en note dans ce qui suit plusieurs de nos articles, ce qui pourrait indisposer les lecteurs, mais c’est une contrainte ici rendue
nécessaire pour montrer à la fois le lien et l’écart entre les travaux antérieurs et le
livre (TdF).
La Fédération comme forme politico-juridique
23
livre et l’ont rendu d’une certaine manière possible. On laissera de
côté ici certains articles qui relèvent de l’histoire de la pensée politique9 ou de l’histoire de la doctrine juridique française ou étrangère10. En effet, le plus important ici est de d’évoquer les articles
plutôt juridiques portant sur des institutions régissant un système
fédératif. S’il convient de les signaler, c’est pour désamorcer par
avance la critique selon laquelle le projet d’écrire un livre sur la
« Théorie de la Fédération » conduirait à négliger les « institutions » et le droit positif. C’est certes une « Théorie », mais celle-ci
prend appui sur des institutions concrètes qui ont été étudiées dans
ces articles proprement juridiques ; leur étude a quelque sorte légitimé par avance l’élaboration d’un échafaudage plus conceptuel.
Le premier article de cette nature fut consacré à la question du
rapport conceptuel entre la souveraineté et le fédéralisme, en
199611. Il s’agit ici de montrer, voire de démontrer, qu’il y a une antinomie principielle entre la notion même de souveraineté,
caractéristique de l’Etat, et la notion de Fédération. Et ceci pour une
raison bien simple : la souveraineté renvoie à l’unicité de la puissance publique sur un même territoire alors que la Fédération
présuppose, au contraire, une dualité de puissances : la puissance
fédérale et les puissances fédérées. La preuve empirique, si l’on
peut dire, réside dans le fait que la Fédération implique nécessairement une répartition des compétences entre Fédération et Etatsmembres, alors que l’Etat suppose ce que j’ai appelé un principe
d’omnicompétence, la faculté qu’a l’Etat de se saisir de toute affaire
politiquement importante, sans être tenue de respecter une répartition des compétences avec une autre autorité politique à l’intérieur
de son territoire. Dans le livre, c’est-à-dire dans la Théorie de la
Fédération, j’ai même radicalisé le propos en soutenant la thèse
qu’il fallait éviter la notion de souveraineté si l’on voulait penser la
9
Notamment : Fédéralisme et fédération en France. Histoire d'un concept impensable ? in “Annales de la faculté de droit de l'Université de Strasbourg”, vol. 3,
1999, pp. 7-82. (trad. partielle in “Res Publica, (Revista de la historia y del presente de los conceptos politicos)”, N° 3, juin 1999, pp. 7-63.
10
Aperçus sur le fédéralisme dans la doctrine publiciste française au XXème siècle , in “Revue d’histoire des facultés de droit”, 2004, tome 24, pp. 165-204.
11
Fédéralisme et souveraineté. Notes pour une théorie constitutionnelle de la Fédération , “Revue du droit public”, 1998, n° 1, pp. 83-122.
24
Olivier Beaud
Fédération12, reprenant d’ailleurs une idée très connue de la plupart
des auteurs qualifiés de « fédéralistes » (par exemple, Carl Friedrich).
Par ailleurs, conscient des apories de l’idée de constitution unitaire pour penser l’acte fondateur d’une Fédération, j’ai essayé dans
un long article, de tester l’idée selon laquelle le fondement juridique
de la Fédération n’était pas une constitution fédérale – au sens de
loi suprême d’un Etat fédéral –, ni un traité international –, mais
bien un pacte constitutionnel fédératif13. L’idée n’est certes pas entièrement nouvelle car on la trouve chez Carl Schmitt dans son
chapitre 7 sur le pacte constitutionnel, et surtout dans sa 4ème partie
de la Théorie de la Constitution14. Mais l’étude dogmatique et historique permit de montrer que cette notion de pacte fédératif fut
utilisée par les juristes anglo-américains et que la notion de compact était notamment centrale chez un auteur comme Dicey, de
sorte qu’on ne pouvait pas révoquer la notion en agitant, comme on
le fait toujours, le nom et le fantôme de chez John Calhoun qui fut
le théoricien des States’ Rights et, dit-on toujours, le fossoyeur de
l’Union américaine. La pensée anglo-américaine ne fut pas la seule
à s’intéresser au pacte fédératif. Un auteur français aussi clairvoyant qu’Emile Boutmy avait, lui, parfaitement repéré la nature
mixte d’une constitution fédérale : c’est un acte impératif en la forme, mais qui « repose sur un traité entre plusieurs corps politiques
distincts et souverains »15. Du point de vue dogmatique, le pacte fédératif apparaît comme l’un de ces cas de ces actes juridiques qui
ont pour originalité d’être conventionnelles par leur origine et réglementaires par leurs effets. Bien qu’incomplet16, cet article
confirmait l’idée d’une originalité de la Fédération dont la manifes12
Chapitre 1, « Fédéralisme ou souveraineté ou comment sortir du “dilemme de
Calhoun“ pour penser le fédéralisme ? TdF, chap. I, pp. 39 et s.
13
La notion de pacte fédératif. Contribution à une théorie constitutionnelle de la
Fédération, in H. Mohnhaupt, J.-F. Kervégan, (hg.) Liberté sociale et contrat dans
l'histoire du droit et de la philosophie, Francfort, Klostermann, coll. Ius Commune,
1997, pp.197-270.
14
Verfassungslehre, §29 et 30, Théorie de la Constitution, trad. fr., Paris, PUF,
1993, pp. 509-540.
15
E. Boutmy, Etudes de droit constitutionnel, 7ème éd., Paris, Plon, 1922, p. 238.
16
Il ne comprenait notamment pas une étude détaillée de la procédure de naissance
des pactes fédératifs.
La Fédération comme forme politico-juridique
25
tation pouvait être trouvée dans son fondement juridique : ni constitution d’un Etat, ni traité entre Etats. La Théorie de la Fédération
ne traite qu’indirectement du pacte fédératif, mais elle présuppose
un tel fondement juridique17.
La troisième institution examinée dans le cadre de ses recherches empiriques a été la nationalité dans une Fédération, à
l’occasion d’un colloque organisé en 2000, par Patrick Weil, sur la
question de la double nationalité. L’article qui en a suivi visait à
démontrer l’originalité de la dualité de la nationalité dans une Fédération, fédérale et fédérée, qui n’a rien à voir avec la double
nationalité dans un Etat18. En effet, la nationalité acquiert un sens
particulier dans une Fédération en raison d’un double fait : d’une
part, dans les Fédérations émergentes, un individu peut jouir, de
plein droit, de la nationalité fédérale par le seul fait qu’il détient la
nationalité d’un Etat-membre et d’autre part, les individus ont des
droits spécifiques, des « droits fédératifs », qui découlent de leur
appartenance (membership), à la Fédération. L’exemple d’un tel
droit est celui du libre établissement d’un membre d’un Etat fédéré
dans un autre Etat fédéré19. De manière plus générale, cette question
a été reprise et travaillée dans le chapitre sur la métamorphose de
l’Etat qui crée ou adhère à une Fédération20. Le statut de l’individu
reflète ici la nature du corps politique auquel il est rattaché. A la
dualité de la nationalité dans une Fédération correspond la dualité
du corps politique (Fédération et Etats-membres)21.
17
Le manuscrit originel comprenait cinq chapitres relatifs au pacte constitutionnel
de la Fédération, mais ils n’ont pas pu être intégrés dans le livre qui était déjà trop
volumineux.
18
The Question of Nationality within a Federation : a neglected Issue in Nationality Law , in R. Hansen, P. Weil (eds), Dual Nationality, Social Rights and Federal
Citizenship in the U.S. and Europe. The Reinvention of Citizenship, New York,
Berghahn Books, 2002, pp. 314-330. – texte rédigé en français, mais resté inédit.
Sur cette question, l’ouvrage de référence est désormais celui de Christoph Schönberger, Unionsbürger. Europas federales Burgerrecht in vergleischender Sicht;
Tubingen: Mohr, 2005) et pour un résumé de ses thèses en français, voir son article : La citoyenneté européenne comme citoyenneté fédérale, in “Annuaire de
l’Institut Michel Villey” , n°1, (2009) pp. 252 et s.
19
TdF, chap. 6, pp. 217 et s.
20
TdF, chap. 6, pp. 201 et s.
21
C’est ce que l’un des juges de la Cour Suprême des Etats-Unis, Anthony M.
Kennedy, a expliqué dans une opinion concordante de 1995 : « Les Pères fonda-
26
Olivier Beaud
Par ailleurs, à l’issue d’une étude un peu théorique consacré à
« Hans Kelsen et à la Fédération »22, il est apparu que le Maître de
l’Ecole de Vienne avait su penser l’ordre juridique fédéral comme
un ordre qui comportait deux ordres juridiques coordonnés et égalitaires : l’ordre fédéral et l’ordre fédéré. Les écrits kelséniens sur la
structure fédérale contiendraient, ainsi, le principe de parité fédérative qui donne sa structure originale au fédéralisme de même qu’ils
permettent de penser une tripartition conceptuelle : la Fédération
avec un grand F est composée nécessairement de la fédération –
avec un petit f – et les Etats-membres23.
Enfin, cette série d’études antérieures au livre comprenait également trois études portant sur des concepts-clé du droit constitutionnel : les droits de l’homme, la justice constitutionnelle et le
peuple.
L’article sur « les droits de l’homme dans une Fédération », issu
d’une conférence prononcée en juin 2001, montre que la notion de
Fédération peut-être pensée indépendamment de la catégorie des
droits de l’homme24. L’objet principal d’une constitution fédérale,
c’est de trouver un aménagement des relations entre les Etatsmembres et la Fédération de sorte que la question des droits de
l’individu passe au second plan. Il suffit de se référer à la citation
faite plus haut, au début de cet article, du livre d’Hannah Arendt sur
la révolution américaine. La preuve empirique de cette assertion est
d’ordre historique : aucune des grandes constitutions fédérales – de
la Constitution américaine de 1789 à la Constitution allemande de
1871 et la Constitution suisse de 1874 en passant par le pacte suisse
teurs ont divisé l’atome de la souveraineté. C’est là le génie de leur idée qui veut
que nos citoyens puissent avoir deux capacités politiques, l’une étatique et l’autre
fédérale, chacune étant protégée de l’immixtion de l’autre... chacune avec sa propre relation directe, son propre lien juridique, son propre ensemble de droits et
d’obligations envers les personnes qui les soutiennent et sont régies par elles. »
U.S. Term Limits, Inc. v. Thornton, 514 U.S. 779, 838, 1995 (Kennedy, J., concordant).
22
Hans Kelsen, théoricien constitutionnel de la Fédération, in C.-M. Herrera
(dir.), Actualité de Kelsen en France, Paris, LGDJ, pp. 47-84
23
Voir TdF, pp. 149 et s. Il s’agit d’une « reformulation » de la thèse kelsénienne
du triple degré fédéral. .
24
Droits de l’homme et du citoyen et formes politiques. Le cas particulier de la
Fédération, in “Revue universelle des droits de l’homme”, octobre 2004, Vol.16,
n°1-4, pp. 16-26
La Fédération comme forme politico-juridique
27
de 1815, l’Acte fédéral relatif à la Confédération germanique
(1815-1820) ou encore l’Acte de l’Amérique du Nord Britannique
(sur le Canada) de 1867 – ne connaît de Déclaration des droits25.
L’histoire de la formation des fédérations enseigne donc que le
nœud de la question fédérale est moins le rapport entre le pouvoir et
l’individu que celui entre la Fédération et les Etats-membres26.
Le second article porte sur la question du rapport entre justice
constitutionnelle et fédéralisme. Il vise à réfléchir aux raisons qui
pourraient expliquer le lien, presque systématique, existant entre les
deux institutions27. Autrement dit : pourquoi, dans la plupart des
grands pays fédéraux, des institutions de justice constitutionnelle ontelle existé et existent-elles encore ? Hasard ou nécessité ? Selon la
thèse développée dans cet article, l’arbitrage fédéral, qui vise à opérer
un règlement pacifique des litiges entre Etats-membres d’une Fédération, peut être considéré comme le prototype de la justice constitutionnelle dans les systèmes fédéraux. De nos jours, cette fonction arbitrale est perdue de vue car les conflits entre les Etats-membres ne
sont plus monnaie courante, mais elle a joué un rôle décisif dans la
naissance de la justice constitutionnelle dans les pays fédéraux. Si,
dans toute Fédération, l’arbitrage fédéral occupe une place centrale,
c’est tout simplement parce qu’il est un moyen de régler pacifiquement un différend entre Etats-membres de la Fédération. De ce point
de vue, la justice constitutionnelle qui inclut l’arbitrage fédéral dans
ses compétences, illustre la thèse selon laquelle il est interdit à tout
Etat fédéré d’entreprendre ou de mener une guerre intra-fédérative
(interne à la Fédération). Par conséquent, elle joue un rôle capital
dans l’économie générale du système fédéral.
Enfin, le dernier article qu’il convient de mentionner dans cette
série est celui qui traite du « peuple dans une Fédération »28. Au re25
Rappelons que le Bill of Rights américain de 1789 est issu de la révision de la
Constitution de Philadelphie par des Amendements.
26
Tel est l’objet de notre désaccord doctrinal avec l’étude, pourtant fondamentale,
de notre collègue juriste, Elisabeth Zoller : Aspects internationaux du droit constitutionnel. Contribution à la théorie de la fédération d’Etats, “Recueil des Cours de
l’Académie de la Haye”, tome 294 (2002), pp. 43-166. Voir TdF, pp. 197-199.
27
De quelques particularités de la justice constitutionnelle dans un système fédéral » in Grewe (C.), Jouanjan (O.) Maulin (E.) (dir.), La justice constitutionnelle,
Paris, Dalloz, 2005 pp. 49-72.
28
Das Volk in einem Bund [Le peuple dans une Fédération], in Buchstein, C. Offe,
28
Olivier Beaud
bours de la conception courante, il y est soutenu qu’une conception
unitaire du peuple n’a pas de sens dans un système fédéral qui est
complexe par définition. Juridiquement, le peuple d’une Fédération
est un « peuple composé de peuples » [compounded people] et il est
inadéquat de vouloir interpréter la notion fédérale de peuple au prisme du peuple de l’Etat unitaire ou tout simplement de la nation. Cette
question n’a pas été abordée explicitement dans la Théorie de la Fédération, mais elle a été reprise, sous une autre forme plus
récemment dans un article sur la question de la majorité dans une Fédération. Afin de tester cette idée de structure composite du peuple
fédéral, j’ai proposé le concept de « majorité composite », valable
dans la sphère fédérale et dans la sphère fédérée, pour décrire le phénomène de la majorité dans toute Fédération29.
Toutes ces études ont, en quelque sorte, préparé la rédaction de la
Théorie de la Fédération. Ce livre « présuppose » les thèses contenues dans ces articles. S’il m’a paru nécessaire de souligner, trop
longuement peut-être, la genèse de cet ouvrage, c’est pour mettre en
évidence deux points qui sont importants et qui n’apparaissent pas
forcément à la lecture du livre.
D’une part, l’ouvrage est incomplet. C’est une théorie de la Fédération, mais ce n’est pas une théorie générale de la Fédération. Le
plan initial comportait quatre parties. La première de ces parties visait à étudier la notion de Fédération ; dans une deuxième partie, il
était prévu d’examiner les « principes constitutifs d’une Fédération » (parité fédérative, pluralité fédérative et égalité fédérative) et
dans une troisième partie, le pacte fédératif comme fondement de la
Fédération. La quatrième partie était censée répondre à la question
de savoir si l’Europe était ou non une Fédération. Mais, quoique incomplet, l’ouvrage s’appuie, en amont, sur une série de monographies qui attestent, du moins le croit-on, du caractère opératoire
du concept de Fédération ici proposé.
D’autre part, la Théorie de la Fédération n’est pas un recueil
d’articles. La tentation de recourir à cet expédient qu’aurait été la
T. Stein, (hrsg), Souveräntiät – Recht – Moral. Staatsgewalt im Zeitalter der
offenen Staatlichkeit, Campus, 2007, pp. 75-86.
29
The Issue of Majority in a Federal System - the particular cases of constituent
power and of amendment of the Federal Compact, in Jon Elster Majorities, (à
paraître en 2010).
La Fédération comme forme politico-juridique
29
collection des articles, augmentée d’une préface plus ou moins longue, était forte, mais j’y ai finalement résisté et je ne le regrette pas.
L’effort d’avoir écrit un ouvrage autonome, distinct des articles antérieurs, aboutit à un gain de connaissance qui réside dans la
systématisation impliquée par l’écriture d’un livre autonome. Un
seul exemple suffira à le montrer. Il n’était pas prévu de consacrer
un chapitre à l’admission d’un nouvel Etat dans la Fédération déjà
constituée30. Mais le thème s’est imposé comme une évidence en
écrivant des chapitres où la question de l’admission apparaissait
comme décisive.
Cet éclairage rétrospectif visait à expliquer non seulement
l’intention du livre, mais de façon plus paradoxale, ce qui n’y figure
pas. On peut maintenant tenter de synthétiser le contenu du livre en
dégageant les thèses qui en forment la structure31.
2. Le contenu de la Théorie de la Fédération : repenser
différemment le fédéralisme
On peut résumer l’intention initiale du livre qui était de répondre à
la question suivante : « l’Europe, c’est-à-dire l’Union européenne,
est-elle une Fédération ? Mais pour y répondre, il faut d’abord savoir ce qu’est une Fédération. Autrement dit, cette théorie de la
Fédération est une sorte d'étalon de mesure pour la construction européenne si l’on veut la juger à l’aune du fédéralisme. En d’autres
termes, il nous a paru que, pour comprendre l’Europe, il fallait passer par le détour préalable (et un peu long) d’une explicitation du
concept de Fédération. On en est resté au stade du détour, mais il
convient d’expliquer pourquoi il a paru nécessaire de proposer une
nouvelle interprétation juridique du fédéralisme (A) et quels sont
les présupposés contenus dans la démarche ici réalisée (B).
30
chap.7. « L’admission de nouveaux Etats dans la Fédération », TdF, pp. 233 et s.
On a essayé de présenter ces thèses aux troisièmes rencontres du groupe de discussion franco-allemand qui ont eu lieu à Avignon les 5 et 6 décembre 2006. La
conférence était en français, mais le texte est paru en allemand : Plädoyer für eine
Föderationstheorie, in O. Jouanjan, J. Masing (hg), Terrorismusbekämpfung,
Menschenrechtsschutz und Föderation, Mohr, 2008, pp. 115-140, avec un « Kommentar » de C. Moellers » (pp. 141-146).
31
Olivier Beaud
30
A/ Une reconstruction du concept juridique de Fédération
Ce livre, « Théorie de la Fédération », se veut une sorte de théorie
du fédéralisme à l’usage des juristes. La thèse qui y est défendue a
été parfaitement résumée par Guy Carcassonne dans sa recension:
« la Fédération n’est pas un Etat ; elle est une forme politique autonome par rapport à ce dernier, dont elle n’a pas à se soucier de
réunir les éléments constitutifs, au premier rang desquels la souveraineté »32. Notre propos vise donc à déplacer les éléments et le
contenu de cette distinction en opposant cette fois la Fédération à
l’Etat comme étant des types idéaux des formes politiques. On
comprend que, par le simple fait d’opposer nettement l’Etat à la Fédération, on exclut l’Etat fédéral comme objet même de notre
enquête, car celui-ci est un Etat, certes un Etat d’un type particulier,
mais un Etat quand même (et non pas une Fédération).
La Fédération, telle qu’elle est ici conçue vise à décrire un genre
de forme politico-juridique dotée donc d’une dignité équivalente à
celle d’Etat, même si dans la doctrine et la pratique, elle est totalement éclipsée par l’Etat. Il en découle que les formes concrètes des
fédérations sont mal connues. Il n’y a pas en France, ni même ailleurs, de grande monographie juridique sur les Articles de la Confédération, première Fédération des Etats-Unis33. De même, on est
frappé par l’absence de la littérature juridique sur les ProvincesUnies des Pays-Bas qui furent pourtant non seulement la première
fédération européenne des Temps Modernes, mais aussi la première
république fédérale34.
En raison des hypothèses initiales, le livre a donc eu pour matériau empirique les éléments principalement constitués par les
fédérations « émergentes », et non pas les fédérations « consolidées »
ou « mûres » (mature, pour parler comme Arthur Mac Mahon). Il
s’agit ici seulement de reconstituer le mouvement.
32
Le Monde du 29 février 2008
Ce sont des historiens qui ont étudié cette première Fédération des Etats-Unis :
M. Jensen ou J. Rakove.
34
Il semble que nul n’a étudié sérieusement les écrits de Hugo Grotius sur la Hollande et le fédéralisme V. la présentation de ses travaux par P. Haggenmacher,
« Grotius », in O. Cayla, J.-L. Halpérin (dir.), Dictionnaire des grandes œuvres juridiques, Paris, Dalloz, 2008.
33
La Fédération comme forme politico-juridique
31
Mouvement du livre - Cet ouvrage sur la Fédération est animé
par un mouvement qu’il convient de faire ressortir en opposant un
moment négatif et un moment positif.
Il y a un moment négatif, ce qu’on pourrait appeler une sorte de
droit constitutionnel « négatif »35, dans la première partie du livre
où il est montré que ni la catégorie de la souveraineté, ni la summa
divisio entre Confédération et Etat fédéral ne peuvent rendre compte du phénomène fédéral pris dans sa singularité et en tant que
genre politico-juridique spécial. Cela signifie, en d’autres termes,
que la Fédération n’est pas un Etat et que l’on doit, si l’on veut faire
avancer la discussion sur le fédéralisme, cesser de poser
l’équation suivante « Fédération=Etat fédéral ». La raison de principe a déjà été évoquée : la souveraineté, caractéristique de la forme
étatique, est incapable de rendre compte de la forme fédérale. On
peut aussi justifier cette idée par une remarque très profonde de
Georges Burdeau, observant, au détour d’une phrase dans son Traité de science politique, que « souvent si l’État fédéral se présente
comme une réussite, ce succès n’est acquis que par la disparition de
la raison d’être du fédéralisme. »36 Cette phrase révèle, à mon avis,
l’impasse dans laquelle se tenait la doctrine dominante qui ignorait
le fait que les Etats fédéraux modernes avaient surtout des « résidus » fédéraux.
Il y a ensuite un moment reconstructeur, une sorte de droit constitutionnel positif, où il s’agit d’expliquer cette fois ce qu’est
positivement la Fédération. Ici, l’idée directrice revient à soutenir
que la Fédération est à la fois une union d’Etats et une institution
qui fait coexister ensemble deux puissances publiques, la puissance
fédérale et les puissances fédérées. D’où l’idée un peu paradoxale
selon laquelle la Fédération suppose une dualité, qu’elle assume et
entretient, entre deux puissances publiques, dualité qui, à son tour,
exige l’adoption de procédés politico-juridiques qui respectent
l’égalité entre les ordres fédéral et fédéré et aménagent de manière
35
Il s’agit ici d’une allusion au reproche qu’on faisait au grand juriste français,
Charles Eisenmann, de faire du droit administratif « négatif » tant était connue sa
virtuosité à critiquer de manière impitoyable les constructions doctrinales de ses
collègues qui s’évertuaient à décrire le droit administratif en vigueur (le droit positif).
36
G. Burdeau, Traité de science politique, t. II,, p. 495-496.
32
Olivier Beaud
viable cette pluralité. On peut formuler autrement cette idée du
« dualisme politique » en disant qu’il y a d’un côté, une unité politique, qui est la résultante de l’association des unités-membres –
c’est la Fédération – et de l’autre, une pluralité ou une multitude
d’unités politiques qui sont les États-membres. Ceux-ci n’ont pas
renoncé, en créant une fédération, à leur statut d’État, et n’entendent nullement être traités comme des provinces d’un État unitaire décentralisé. Cela peut notamment être démontré si l’on prend
en compte le telos, la finalité de la Fédération qui est double et
contradictoire: la « fin commune » est ce qui réunit les Etats et les
pousse à s’unir en une Fédération (double fin de la sûreté et de la
prospérité) tandis que la « fin particulière » est ce qui pousse les
Etats tout en se fédérant à rester encore des Etats voulant garder
leur indépendance et leur autonomie37.
Les choix déterminants du livre – Il convient maintenant de faire
ressortir quelques points saillants qui peuvent éclairer le sens que
l’on a voulu donner à cette formulation d’une théorie de la Fédération.
D’abord, le choix du mot de Fédération n’est pas neutre, et il
commande toute une série de développements du livre. Il y a
d’abord, dans ce choix, l’expression d’un refus qui est celui de la
distinction classique entre l’Etat fédéral et la Confédération d’Etats
qui structure la plupart des raisonnements des juristes. Celle-ci n’a
pas le caractère incontestable qu’on lui prête, et surtout, elle est
progressivement apparue comme un carcan qui, de nos jours, bloque la réflexion et qui, plus grave encore, déforme la réalité qu’elle
est censée décrire. Pour ne prendre qu’un exemple, elle est incapable d’expliquer le sort de la Fédération américaine au XIXème
siècle et même d’aujourd’hui38.
Choisir le mot de Fédération, c’est ensuite faire apparaître la Fédération en tant que telle à côté des deux notions qui l’éclipsent :
l’Etat, d’un côté, et l’Empire, de l’autre. On verra plus loin la différence avec l’Empire, et on a déjà évoqué la différence avec l’Etat.
On pourrait aussi ajouter, et c’est important, que la Fédération n’est
37
4ème partie du livre : « La Fédération comme institution politique », TdF, pp.
261-341.
38
Si l’on en croit E. Zoller qui a un regard très critique sur la façon de « lire »
l’expérience américaine à partir de cette dichotomie.
La Fédération comme forme politico-juridique
33
pas non plus une simple organisation internationale ou une simple
alliance39.
C’est surtout, prendre le parti de traiter d’abord et avant tout d’un
« genre » politique en soi – la Fédération – c’est-à-dire de penser la
Fédération, en soi et pour soi, indépendamment de ses différentes variétés – de ses espèces. On le verra plus loin à propos de la distinction
entre forme politique et forme de gouvernement.
En d’autres termes, la Fédération, telle que nous l’envisageons,
peut être définie comme une « union fédérale d’Etats », et non pas
comme un Etat fédéral. Cet angle d’attaque indique le point où se
situe l’originalité de cette démarche : alors que la doctrine juridique
dominante s’est surtout évertuée à traquer les différences existant
entre les deux formes fédératives (Confédération d’Etats et Etat fédéral), la doctrine minoritaire, à laquelle la TdF se rallie, vise à
rechercher ce qui est commun à toutes les formes fédératives quelles qu’elles soient40, ce qui suppose donc l’existence d’une sorte de
« droit commun fédératif ».
Il y a donc quelque chose d’assez inactuel dans ce travail puisqu’on n’a pas étudié, par exemple, la grande question du lien entre
la promotion du fédéralisme et la défense des droits des minorités
ethniques ou linguistiques. C’est ainsi qu’on justifie aujourd’hui le
fédéralisme à qui l’on attribue le mérite d’être une technique politique bien adaptée pour assurer le respect des minorités nationales.
De même, il y a donc quelque chose d’inachevé dans la mesure où
l’on a étudié une forme seulement de la Fédération, correspondant au
fédéralisme par agrégation. On entend par là la Fédération qui se
forme par « en-bas », par l’union volontaire des Etats, par « association » ; par conséquent, on a laissé de côté le fédéralisme par désagrégation ou par « dissociation , qui survient lorsqu’un Etat unitaire
se « desserre » et devient fédéral par une sorte de relâchement des
liens entre le Centre et la périphérie. C’est le cas de la Belgique aujourd’hui qui est devenue fédérale en raison des tensions de plus en
plus fortes entre les communautés wallonne et flamande41 et on
39
V. sur ce point, TdF, pp. 261-271.
Il ne s’agit pas de faire de la Fédération une sorte d’intermédiaire entre l’Etat fédéral et la Confédération d’Etats.
41
Constitution belge du 17 février 1994. Art .1er : «La Belgique est un État fédéral
qui se compose des communautés et des régions.»
40
34
Olivier Beaud
s’interroge sur l’application de ce concept à l’Espagne contemporaine
(avec les Communautés autonomes).
Les malentendus à éviter – Une telle réinterprétation du fédéralisme peut donner lieu à plusieurs malentendus. On souhaiterait en
dissiper au moins deux. Le premier consisterait à interpréter la notion de Fédération, telle qui est ici proposée, comme une « notion
intermédiaire », ou « une notion tierce » entre l’Etat fédéral et la
Confédération. Telle est l’interprétation faite par Jean Marc Ferry42,
du côté des philosophes, et Charles Leben et Vlad Constan-tinesco,
du côté des juristes,43 de nos écrits antérieurs. Ainsi, il y aurait le
long d’une échelle graduée du fédéralisme, deux pôles opposés,
d’un côté, l’Etat fédéral (pôle centralisateur) et de l’autre côté, la
Confédération d’Etats (pôle périphérique) et au milieu de ces deux
pôles, à une sorte d’équidistance, la Fédération. Cependant, cette
explication ne correspond pas véritablement à mon intention et résulte peut-être d’une certaine ambiguïté contenue dans les articles
antérieurs à l’ouvrage.
Je profite donc de l’occasion pour clarifier ce point central. La
Fédération, telle qu’elle est ici conçue, vise à penser la Fédération,
en soi, et pour soi, c’est-à-dire indépendamment de ses formes différentes, des espèces. Elle n’est pas une notion syncrétique qui
serait à mi-chemin de l’Etat fédéral ou de la Confédération. En
même temps, cette théorie de la Fédération n’interdit pas du tout
une « typologisation » des Fédérations empiriques. La preuve en est
que la dernière partie du livre44 décrit une opposition entre la Fédération républicaine – la république fédérale – et la Fédération monarchique. Rien n’empêche d’envisager deux types de Fédération
42
« La voie fédérative, celle de la Fédération d’Etats nationaux, se profile comme
une voie intermédiaire entre l’Etat fédéral et la confédération ». Jean-Marc Ferry,
«Dépasser le malaise européen ». La voie cosmopolitique de l’intégration, in Raison publique, n°7, 2004, p. 14. La note 2 renvoie à l’article Fédéralisme et
souveraineté, RDP, 1988.
43
Charles Leben, Fédération d’Etats-nations ou Etat fédéral in Ch. Joerges, Y.
Mény, J. Weiler, (eds) What Kind of Constitution for What Kind of Polity ? Responses to Joschka Fischer, Florence, Institut Universitaire Européen,
2000, pp. 85 ou encore Préface à Louis Le Fur, Etat fédéral et Confédération
d’Etats, (1896), rééd. Paris, Editions Panthéon-Assas (Avant-Propos de Ch. Leben), 2000, pp. IV-V.
44
« Fédération, forme politique et formes de gouvernement », pp. 345-422.
La Fédération comme forme politico-juridique
35
selon le degré de centralisation qui est opérée45. On pourrait aussi, à
la suite de Jean-Louis Quermonne, estimer que l’Union européenne
inaugure une sorte de nouveau type de fédéralisme qu’il a nommé
le « fédéralisme intergouvernemental »46 qui mêle différentes légitimités, et qu’un tel fédéralisme entrerait dans le genre de la
“Fédération » dont a dessiné les contours dans l’ouvrage.
Le second malentendu pourrait résulter de l’objection suivante :
le projet de scinder la Fédération de l’Etat aboutirait, injustement, à
mettre entre parenthèses l’Etat fédéral. Dès lors, cette théorie de la
Fédération ne serait-elle pas tout simplement une théorie modernisée de la Confédération d’Etats (Staatenbund) , ce qui lui ferait
perdre toute originalité ? Malgré sa force apparente, cette objection
ne me semble pas complètement fondée. Le point de vue adopté
dans le livre repose en partie sur la négation de la distinction entre
Etat fédéral et Confédération d’Etats ou, plus exactement, sur
l’idée qu’il serait temps de se débarrasser de cette summa divisio.
Rien n’illustre mieux le sens de l’entreprise que le propos suivant
de Christoph Schönberger, mon collègue et ami allemand, dont les
recherches sur la citoyenneté fédérale (et européenne) m’ont été très
précieuses : « l’échec d’une formation erronée de concept n’est pas
du l’échec même de la formation de concept. La Théorie de la Fédération permet plutôt de forger d’autres catégories, plus adéquates,
destinées à saisir les unions fédérales d’Etats au-delà de la distinction inadéquate Confédération/Etat fédéral»47. De ce point de vue,
les recherches convergentes de Schönberger et de moi-même,
confortent, du point de vue juridique, le jugement formulé par
Reinhart Koselleck à propos de la distinction entre Confédération
d’Etats/Etat fédéral. En effet, le grand historien allemand observait :
45
Ainsi, William Riker, distingue le « centralized federalism » du « peripherized
federalism ».
46
Maurice Croisat, Jean-Louis Quermonne, L’Europe et le fédéralisme. Contribution à l’émergence d’un fédéralisme intergouvernemental, Paris, Monchrestien,
« Clefs », 1996.
47
« Das Scheitern einer verfehlten Begriffsbildung ist nicht das Scheitern von Begriffsbildung überhaupt. Die Theorie des Bundes erlaubt vielmehr die
Herausbildung anderer, adäquaterer Kategorien zur Erfassung föderaler Zusammenschlüsse von Staaten jenseits der untauglichen Staatenbund-BundesstaatUnterscheidung » Die Europaïsche Union als Bund, in “Archiv des öffentlichen
Rechts”, Bd 129 (2004), p. 99.
Olivier Beaud
36
« Toutefois, et en dépit des débats juridiques interminables et passionnés, il serait faux de surévaluer cette opposition formelle : dans
les deux cas, il s’agit d’une association d’unités d’action, ayant un
caractère hétérogène, qui sont tombées d’accord sur un minimum
commun afin de pouvoir agir»48.
Ainsi pour résumer, à la suite de Koselleck et d’autres auteurs,
j’ai essayé, au lieu de procéder à une différenciation des formes fédérales, de saisir l’unité du concept de Fédération.
B/ Certains présupposés du livre
Ce livre n’a pas été écrit sans présupposés. Il repose sur l’idée
qu’une conception juridique de la forme fédérale ne peut pas
s’élaborer à partir de la seule connaissance du droit positif et d’une
analyse classique en termes d’organes et de compétences. On a mobilisé aussi bien l’histoire de la pensée politique que la théorie
constitutionnelle.
1/ Pour ce qui concerne la pensée politique, il y a, en effet, une
frappante homologie entre l’idée politique du fédéralisme et sa réalisation institutionnelle, ce qui n’est pas assez souvent souligné, de
sorte que les concepts politiques peuvent, selon nous, être utilisés
pour ordonner une partie du matériau juridique rassemblé. C’est ce
qu’on a essayé de faire à plusieurs reprises, soit quand on a décrit la
formation « conventionnelle » de la Fédération et de ce qu’on a appelé la « contractualité » de l’horizon fédéral – recours à Montesquieu, Rousseau et Kant – 49, soit quand on a analysé la Fédération
comme institution politique, déterminée par ses fins50 en faisant ici
référence aux travaux importants de Martin Diamond.
Par ailleurs, il convient d’indiquer que pour l’analyse juridique,
nous avons notamment privilégié certains auteurs qui ne sont pas
toujours cités comme des auteurs de référence, mais que nous
considérons comme décisifs pour une théorie constitutionnelle de la
Fédération. Le premier juriste est Pellegrino Rossi, juriste italien,
mais qui a écrit l’un des plus grands textes sur le fédéralisme en rédigeant le rapport pour la révision du pacte fédéral suisse de 1815 et
48
Structures fédérales de l’histoire allemande, in R. Kosellek, L’expérience de
l’histoire, Paris, Gallimard, Le Seuil, EHESS, 1997, p. 122.
49
TdF, chap. 3, notamment p. 109 et s.
50
TdF, chap. 8, pp. 273 et s.
La Fédération comme forme politico-juridique
37
qui a été exhumé par Luigi Lacché : Per la patria commune51.
L’autre auteur décisif pour notre cheminement fut Carl Schmitt
dont les deux chapitres ultime de sa Théorie de la Constitution ont
été déterminants. Selon notre interprétation, Schmitt remet en circulation, dans sa « Bundeslehre » [Théorie de la Fédération], des idées
émises par quelques grands juristes allemands, tels Gierke, Binding
et Triepel, et formant un courant d’idées opposé au courant majoritaire représenté par Gerber et Laband. Enfin, toujours du côté des
juristes, il convient de rappeler que l’achèvement de cet ouvrage
(TdF) n’aurait pas été possible sans l’aide décisive apportée par les
ouvrages de trois juristes contemporains : Sergio Ortino, Christoph
Schönberger et Anton Greber52.
Un choix négatif : Pufendorf versus Althusius – Dans ce livre,
j’ai suivi l’exemple donné par Murray Forsyth dans son maître livre
sur les Confédérations53, en choisissant Samuel Pufendorf comme
le premier théoricien moderne de la Fédération. Pourquoi, dira-t-on
avoir choisi d’écarter le nom d’Althusius alors que nombres
d’auteurs, au premier rang desquels figure Giuseppe Duso, proposent de le substituer à Pufendorf et aux penseurs de l’Etat pour
penser notre modernité ou notre post-modernité54 ? Selon les tenants de la réévaluation du Syndic d’Emden, il faudrait étudier son
51
P. Rossi, Per la Patria Commune (Rapporto della commissione della Dieta ai
ventidue Cantoni sul progetto d’Atto federale da essa deliberato a Lucerna, il 15
dicembre 1832), édition bilingue (franco-italienne), [a cura di Luigi Lacchè], Bari,
Piero Laicata, 1997.
52
Pour Sergio Ortino, son ouvrage pionnier, Introduzione al diritto costituzionale
federativo, Torino, Giappichelli, 1993 ; pour Chrstoph Schönberger, v. sa thèse
d’habilitation (note 18) et pour Anton Greber, sa remarquable Dissertation : Die
vorpositiven Grundlagen des Bundesstaates, Bâle, Helbing & Lichtenhahn, 2000.
53
Murray Forsyth, Unions of States: the Theory and Practice of Confederations,
Leicester Univ. Press, New York, Holmes and Meier, 1981.
54
On songe ici justement aux recherches de Giuseppe Duso sur Althusius, d’une
part le lire collectif. G. Duso, W. Krawietz, D. Wyduckel (hrsg), Konsens, Konsoziation in der politischen Theorie des frühen Föderalismus, Berlin, Duncker u.
Humblot, 1997 ; et d’autre part, ses deux articles L’Europa et la fine della sovranità, in “Quaderni Fiorentini per la Storia del pensiero giuridico moderno”, (vol.31
(2002), pp 109-139, not. pp. 126 et s.. Herrschaft als gubernatio in der politischen
Lehre des Johannes Althusius , in Politische Begriffe und Historisches Umfeld in
der Politica Methodice Digesta des Johannes Althusius, Wolfenbüttel, 2002, pp.
13-33.
38
Olivier Beaud
œuvre car elle permettrait d’échapper aux impasses de la souveraineté. Il suffit de rappeler la formule de Giuseppe Duso selon
laquelle Althusius est un « penseur pour une société post-moderne »
et l’autre formule selon laquelle fait, maintes fois répété, que
l’œuvre de Carl Friedrich – l’un des principaux théoriciens modernes du fédéralisme, serait « un commentaire sa vie durant de la
politique d’Althusius ». D’où la question suivante : si la doctrine de
Bodin et de Hobbes permet de penser l’Etat, et non pas la Fédération, et si celle d’Althusius est la seule capable de former un
antidote à l’Etat-nation, pourquoi n’avoir pas retenu cette dernière ?
La doctrine de Johannes Althusius vise à proposer une interprétation « continuiste » du politique et du social. Au face-à-face entre
l’Etat et l’individu, il propose une construction horizontale du corps
politique dans laquelle l’Etat (Etat symbiotique) est perçu comme
coiffant des corps intermédiaires (des familles des corporations, des
cités, des groupes). On comprend alors que les lecteurs contemporains d’Althusius puissent dire de sa doctrine qu’elle propose « une
conceptualisation radicalement fédérale de la vie sociale organisée
qui est aussi vieille et vénérable en tant que partie de la tradition de
la politique occidentale que l’Etat-nation lui-même »55. Mais on a
beau jeu de faire observer qu’en dernière analyse, une telle théorie
politique, loin de former une théorie purement fédérale, est constitutive d’une théorie corporatiste. L’ensemble du système, la constitution des communautés, ne repose nullement sur un principe volontaire et conventionnel, mais plutôt sur une insertion organique
dans un ensemble plus vaste. Par là même, il manque à cette théorie
politique du fédéralisme son fondement intellectuel « moderne »
qui est l’engagement contractuel. La politique d’Althusius repose,
comme le remarque Pierre Mesnard, sur une « anthropologie holiste » typique des constructions organicistes tandis que, de son côté,
Michel Villey estime que reconnaissant « l’existence de groupements intermédiaires : il [Althusius] demeure corporatiste »56.
Dès lors, si cette interprétation est exacte, il ne peut pas être
considéré comme le fondateur du fédéralisme moderne (interétatique) pour au moins deux raisons. D’une part, sa construction orga55
Th. Hüglin, in G. Duso, W. Krawietz, D. Wyduckel (hrsg), Konsens, Konsoziation, p. 235.
56
La formation de la pensée juridique moderne, édition Cours du droit, p. 585.
La Fédération comme forme politico-juridique
39
nique de l’Etat ne correspond pas au schéma moderne de la Fédération qui repose sur un schéma volontariste – et non organiciste –
c’est-à-dire sur l’idée d’un accord entre Etats souverains57. D’autre
part, sa doctrine corporatiste, qui fonderait sa doctrine fédéraliste,
serait inappropriée pour rendre compte de la « société d’individus »
qu’est devenue la société moderne, une société caractérisée finalement par ce face-à-face entre l’Etat et l’individu.
On laissera à d’autres que nous le soin de réfuter cette interprétation d’Althusius, mais on voudrait signaler le point suivant qui est
capital : le fait d’écarter Althusius et avec lui toute une série de
penseurs fédéralistes58, n’est pas anodin et peut davantage éclairer
le sens de la Théorie de la Fédération. En effet, on concède bien
volontiers qu’en en se bornant à étudier la Fédération comme une
union d’Etats (les Etats, sont les entités politiques modernes), on
n’aurait pas rompu avec l’idée classique faisant de l’Etat la figure
de notre modernité politique. Mais il m’a semblé que la Fédération
moderne était moins une tentative de « dépasser » l’Etat pour inventer une nouvelle forme politique, que pour le perpétuer sous une
autre forme, non sans contradiction d’ailleurs dans la mesure où si
la Fédération moderne résulte bien d’une union d’Etats (processus
conventionnel), le résultat n’est pas de former une « Fédération
d’Etats » (où le mot d’Etat souverain ne convient pas pour désigner
ces Etats), mais plutôt une « Fédération d’Etats-membres » – et les
Etats-membres n’étant pas des Etats-monades car ils ne sont plus
souverains.
3. Quelques implications de cette théorie de la Fédération
Pour conclure ce propos, on voudrait souligner quelques implications pour la théorie politique et juridique d’une telle conception de
la Fédération. Certaines d’entre elles portent sur la compréhension
de la construction européenne (l’Union européenne) : ne pourraitelle pas être mieux interprétée sous l’angle fédéral ? Comme on a
57
C’est l’argument de M. Forsyth, Union of States, 1981.
Du côté français ou francophone, il suffit de penser à Proudhon ou au « fédéralisme personnaliste » défendue par Alexandre Marc et de Rougemont.
58
Olivier Beaud
40
tenté de le faire ailleurs59 et comme d’ailleurs d’autres auteurs l’ont
déjà fait60, on se contentera ici d’examiner d’autres implications
possibles qui tournent autour de la question, non pas de l’Europe,
mais des formes politiques. L’une des implications possibles de la
Théorie de la Fédération est de permettre une voie d’accès indirecte à la notion d’Empire ; l’autre concerne la typologie possible des
Fédérations.
A/ La distinction entre Fédération et Empire
La notion d’Empire connaît un regain d’actualité. C’est surtout
l’évolution des relations internationales qui l’explique, ainsi que le
livre à succès d’Antonio Negri et Michael Hardt. Mais, bien que cela soit moins connu, on commence à interpréter l’Union européenne
sous l’angle de la notion d’Empire61. Il n’est donc pas inutile de
traiter de la question d’une éventuelle distinction à tracer entre les
deux notions. Dans la conférence précitée de 1994, nous étions parti
de l’hypothèse d’une opposition antithétique entre la forme fédérale
et la forme impériale. La rédaction de l’ouvrage sur la Fédération a
confirmé, selon nous, la validité de cette hypothèse.
Lorsqu’à la fin du XIXème siècle s’est posée au Royaume-Uni
la question de savoir si l’on devait modifier l’Empire britannique et
tenter de le « fédéraliser », Edward Freeman, grand historien et
connaisseur du fédéralisme, a contesté une telle idée sous la forme
d’un aphorisme: « ce qui est impérial ne peut être fédéral, et ce qui
est fédéral ne peut être impérial »62. Il voulait signifier, par là même, la radicale opposition des deux concepts d’Empire et de Fédé59
Peut-on penser l’Union européenne comme une Fédération ? in Colloque du
LATSIS du 9 octobre 2009, Genève. A paraître, 2010.
60
On a déjà cité les travaux de Jean-Louis Quermonne en France. Voir aussi
l’article récent de Robert Schütze, On Federal Grounds : the European Union as
(Inter)national Phenomenon, in “Common Market Law Review”, Vol. 46, (2009)
pp. 1069-1105.
61
J. Zielonka, Europe as Empire: The Nature of the Enlarged European Union,
Oxford, Oxford University Press, 2007, 304 p. Ce livre fait l’objet d’une recension
dans l’article très documenté de Jean Leca, The Empire Strikes Back!’ An Uncanny
View of the European Union. Part II – Empire, Federation or What?, in “Government and Opposition”, Vol. 45, No. 2, (2010) pp. 208–293.
62
E.A. Freeman, Imperial Federation, in “Macmillan’s Magazine”, n°51, 18841885, p.430. Je dois cette référence, à M. Thibaut Guilluy qui termine une thèse
sous ma direction sur l’idée fédérale au Royaume-Uni.
La Fédération comme forme politico-juridique
41
ration, opposition que l’on peut résumer en affirmant que le modèle
impérial implique la subordination et non la coopération, des périphéries au Centre, alors que le propre au modèle fédéralisme
implique une coopération égale entre Etats associés qui se considèrent comme égaux en droit.
Pourtant, malgré la présence de véritables débats sur l’Empire
dans le droit public français ou anglais aux XIXème et XXème siècles, on observe que les juristes contemporains ne considèrent pas
l’Empire comme un être juridique autonome ; ils ne le traitent ni
comme une catégorie du droit public interne, ni comme un concept
de droit public international. De leur côté, les historiens du droit qui
se sont penchés sur la question impériale ne le prennent pas davantage pour une forme politique autonome. Ils le considèrent soit,
dans son sens strict, comme « la forme de gouvernement dont le
chef est appelé empereur », soit « par métaphore », comme une
« grande puissance exerçant son pouvoir et son autorité sur un vaste
territoire et tendant à l’hégémonie »63. Ainsi, l’empire est pensé tantôt comme une forme de gouvernement autoritaire, tantôt comme
une grande puissance, c’est-à-dire comme un Etat qui aurait trop
bien réussi, en s’étendant. Mais par là même, la doctrine juridique a
du mal à expliquer la spécificité impériale qui réside dans la singularité des rapports entre le Centre et la périphérie.
Un des moyens d’approfondir, en juriste, la notion d’Empire
consisterait justement à rechercher ce par quoi elle se rapproche et
se sépare de celle de la Fédération. Les deux sont similaires par le
simple fait qu’elles désignent un agrégat ou un regroupement
d’Etats (union d’Etats). Mais un point décisif les distingue : la fédération est une union libre d’entités politiques, et ce critère apparaît
comme voisin de la Fédération en ce qu’il inclut des sous-unités politiques. Toutefois, à la différence de ce qui se passe dans la
Fédération, ces unités, dans un Empire, sont agrégées par la force.
Bien qu’il puisse avoir pour fondement juridique un foedus, un traité entre Etats ou entre cités, l’Empire se caractérise par l’action
d’un centre politique dominant qui impose sa volonté aux autres
Etats. Dès lors, il n’a pas pour fondement juridique un pacte consti-
63
J. Gilissen, La notion d’empire dans l’histoire universelle, in Recueil de la société Jean Bodin, Les grands empires, Bruxelles, 1973, pp. 765-766.
42
Olivier Beaud
tutionnel fédératif, mais un fait de conquête d'un Etat sur un autre,
légitimé ou non par des traités internationaux ou des constitutions.
Dans ce cas, l'union de collectivités publiques prend la forme autoritaire – verticale – de l’union forcée à la différence de la forme
démocratique – horizontale – de l'union volontaire propre à la fédération. En d’autres termes, le cas de l’Empire offre l’exemple d’un
pseudo-fédéralisme ou d’un fédéralisme inauthentique64.
Pour vérifier que la fédération est bien cette union libre d’entités
politiques, l’œuvre de Montesquieu reste un précieux guide. Dans
l’Esprit des Lois, et plus particulièrement dans le neuvième Livre
consacré à la « force défensive », il définit la « république fédérative » comme « une convention, par laquelle plusieurs corps politiques consentent à devenir citoyens d'un Etat plus grand qu'ils veulent former. C'est une société de sociétés, qui en font une nouvelle,
qui peut s'agrandir par de nouveaux associés qui se sont unis » (Esprit des Lois IX, 1). Certes, la définition de Montesquieu est trop
restrictive en ce qu’elle exclut à tort l’existence de fédération
d’Etats non républicains65 et qu’elle postule l’existence de « petites
républiques » pour fonder une fédération66. Mais cette définition extrêmement large qui englobe le fédéralisme antique (grec) et le
fédéralisme moderne (fédéralisme interétatique), est encore utile car
elle pointe l’idée capitale ci-dessus énoncée : la fédération est une
union volontaire entre Etats. Elle est volontaire et libre car elle résulte d’une « convention », d’un pacte entre « républiques », c’està-dire entre Etats, ceux que j’ai appelé les « Etats-monades »67.
On pourrait démontrer cette différence de façon plus concrète en
examinant aussi bien la genèse du pacte fédératif68, fondement juri64
V. par exemple l’article de A. Besançon, Russie. L’enjeu impérial, in “Le Monde”, 8.X.1993.
65
Cette insuffisance a été relevée par M. Brèthe de la Gressaye dans son commentaire du texte de Montesquieu, in Esprit des Lois, éd. de la Société des Belles
Lettres, 1955, t. II, p . 3
66
L’exemple des Etats-Unis prouve qu’il peut exister une Union fédérative de
grandes républiques, comme l’expliqueront les auteurs du Fédéraliste, sommés de
réfuter la thèse pessimiste de Montesquieu sur le lien entre république et petit territoire
67
TdF, pp. 201.
68
Nous espérons le faire en publiant bientôt un petit essai sur le pacte fédératif et
en conceptualisant le pacte fédératif comme acte d’autodétermination politique.
La Fédération comme forme politico-juridique
43
dique de la Fédération, que la spécificité de la citoyenneté fédérale
par rapport à la citoyenneté impériale69.
B/ La Fédération comme forme politique, distincte de la forme de gouvernement
En considérant la Fédération comme une forme politique, on a voulu défendre l’unité du genre fédératif. Mais celle-ci n’exclut pas du
tout l’existence d’une variété de Fédérations empiriques et une classification scientifique des Fédérations. Pour comprendre ce mélange possible, il faut selon nous introduire la distinction entre forme
politique et forme de gouvernement70.
Revenons une fois encore à Montesquieu qui explique la force de
la « république fédérative » par le fait que ce type de gouvernement,
« jouit de la bonté du gouvernement intérieur de chacune ; et, à
l'égard du dehors, il a par la force de l'association, tous les avantages
des grandes monarchies » (Esprit des Lois, IX, 1). La fédération est
une solution institutionnelle inventée par des petites républiques pour
faire face au péril de la guerre représentée par les vues bellicistes des
monarchies ou des empires despotiques. Elle conjugue donc deux
avantages : une constitution républicaine à l’intérieur et une puissance militaire capable de lutter contre une force extérieure. C’est
pourquoi elle est une forme mixte combinant une forme de gouvernement – c’est une république, – et une forme d’Etat – une fédération
de républiques, c’est-à-dire une union d’Etats distincts. C’est un peu
la même idée de mixité que défend Tocqueville lors qu’il observe:
« Non seulement les Etats-Unis forment une république, mais encore
une confédération »71.
Notre propos vise à souligner que la Fédération, telle que nous
l’étudions, est d’abord et avant tout une forme politique. Toutefois,
comme toute forme politique, elle peut être conciliée avec des formes de gouvernement différentes. Le propos est d’appliquer à la
Fédération la distinction analytiquement faite, lorsqu’on parle de
69
Ce que nous avons essayé de faire dans une conférence consacrée à « l’apport de
Yan Thomas à la compréhension du droit public », Ecole des Hautes Etudes en
sciences sociales, colloque en l’honneur de Yan Thomas, du 26 mars 2010.
70
Nous reprenons ici pour l’essentiel des développements contenus dans la TdF,
5ème partie, pp 345 et s.
71
A. de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, préface F. Furet, éd. de poche, Garnier-Flammarion 1981, t. I, p. 187
44
Olivier Beaud
l’Etat, entre une forme politique et une forme de gouvernement.
Savoir distinguer les deux formes, mais savoir aussi comment elles
s’articulent entre elles, est une condition indispensable pour comprendre la Fédération comme entité politique.
L’expression de « forme de gouvernement » est ici prise dans
son sens usuel et classique de régime politique72. La forme de gouvernement désigne la manière dont est distribué l’exercice du
pouvoir dans un Etat, soit entre les différents pouvoirs publics, soit
entre les différents types de gouvernants. Depuis Montesquieu, la
classification usuelle en la matière est celle qui oppose la monarchie, la république, et le despotisme, mais l’on sait que l’auteur de
l’Esprit des Lois mélange « principe » de gouvernement et « ressort » du gouvernement pour opérer sa classification. Quant aux
juristes, ils ont plutôt tendance à considérer les formes de gouvernement comme des régimes constitutionnels, et ils distinguent, de
façon classique, entre régime parlementaire, régime présidentiel et
régime directorial73.
En revanche, l’expression de forme politique est un peu équivoque, et mérite, par voie de conséquence, une explication. Par son
contenu, elle correspond à l’expression de « forme d'Etat » qui était
naguère utilisée par les juristes quand ceux-ci s’intéressaient encore à
la question de classification des régimes politiques74. Elle désigne, en
réalité, la manière dont les pouvoirs centraux et les pouvoirs locaux
sont articulés dans un même espace de pouvoir75. Dans ce cas, les
72
En anglais on parle de « forms of government ». V ; par exemple, pour un classique K. Loewenstein, Political Power and the Governmental Process, University
of Chicago Press, 1957, pp. 20 et s.
73
V. sur ce point, Ph. Lauvaux, Les grandes démocraties contemporaines, Paris,
PUF, 3ème éd. p. 185 et sq
74
Notamment Charles Eisenmann, dans son article Essai d’une classification théorique des formes politiques, in Ch. Eisenmann, Ecrits de théorie du droit, de droit
constitutionnel et d’idées politiques, (préface de Ch. Leben), Paris, Editions Panthéon-Assas, coll. Les Introuvables, 2002, pp.328 et sq
75
« La théorie des formes d’Etat répond, elle, au problème fondamental suivant :
existe-t-il dans l’Etat un seul appareil de gouvernement, qui le gouverne tout entier,
ou y existe-t-il au contraire plusieurs appareils de gouvernement, homologues, gouvernant chacun une fraction ou subdivision distincte de la collectivité étatique, à côté,
sans doute, et en plus d’un appareil de gouvernement “central“ (…) ? (...) La première solution donne l’“Etat simple” ou “unitaire”, la seconde l’“Etat composé” ou
“fédératif”, principalement “l’Etat fédéral” ». Ch. Eisenmann, op. cit.. p. 327-328.
La Fédération comme forme politico-juridique
45
formes concrètes ici envisagées sont des catégories bien connues :
l’Etat unitaire (centralisé ou décentralisé) et l’Etat fédéral. La doctrine dominante traite donc du fédéralisme (assimilé à une division
territoriale interne à l’Etat), dans le cadre de ces « formes d’Etat ».
Ainsi, la « forme d’Etat » et la « forme de gouvernement » concernent l’aménagement et la distribution du pouvoir, mais elles opèrent
sur « deux plans »76 bien distincts, qui ne sont pas interchangeables.
La forme d’Etat a pour singularité de rendre compte de la distribution territoriale du pouvoir, de répondre à la question de l’unicité
ou de la pluralité des pouvoirs en fonction du critère territorial, et
c’est en cela qu’elle est adéquate pour décrire le fédéralisme. On
garde ici l’idée contenue dans ce concept de « forme d’Etat », mais
on change l’appellation préférant l’expression de « forme politique ». Le gain heuristique apporté par cette distinction des deux
formes réside dans le fait qu’elle permet d’expliquer leur autonomie. De même qu’un Etat est indépendant de sa forme de gouvernement, une Fédération en tant que forme politique l’est également : elle peut, elle aussi, être tantôt républicaine tantôt aristocratique ou tantôt monarchique. De la même manière, elle peut se
conjuguer avec divers régimes constitutionnels qui seraient aussi
bien de nature présidentielle que parlementaire. L’opposition entre
le fédéralisme canadien et le fédéralisme nord-américain pourrait
illustrer l’opposition idéal-typique entre fédération parlementaire et
fédération présidentielle. De même, la distinction entre contemporaine entre le fédéralisme allemand et le fédéralisme suisse illustre
l’opposition entre fédération parlementaire et fédération « directoriale ».
Toutefois, l’application de ce distinguo conceptuel (entre forme
politique et forme de gouvernement), à la Fédération était difficile
en raison de la singularité de celle-ci qui tient à la dualité du pouvoir postulé par toute Fédération77. Mais on a pu mettre à jour une
76
Ch. Eisenmann insiste sur cette différence : « les deux problèmes concernent
également l’organisation gouvernementale au sens large, puisque ce sont des problèmes de droit constitutionnel, mais ils en concernent des aspects essentiellement
différents ; ils se situent sur deux plans tout à fait distincts, ils engagent des perspectives et se rapportent à des phénomènes foncièrement autres ». Ibid. p. 328.
77
TdF, pp. 348-349. Cette dualité est d’ailleurs un indéniable facteur supplémentaire de complexité.
46
Olivier Beaud
conséquence de la distinction entre forme politique et forme de
gouvernement qui est une sorte d’opposition idéaltypique entre
deux types de Fédération : la Fédération républicaine – la république fédérale ou la république fédérative –, d’un côté, et la fédération de monarchies, de l’autre. L’hypothèse normale est le cas de la
république fédérale où il y a non seulement une homologie des
formes de gouvernement dans les Etats-membres (clause de
l’homogénéité républicaine), mais aussi une « congruence structurelle » entre les deux formes de gouvernement : le gouvernement
fédéral devrait être aussi républicain que la forme de gouvernement
fédérée. Mais si la république fédérale est bien le cas « normal »
des Fédérations modernes, il existe des déviations comme le cas allemand représentant le cas singulier d’une fédération de monarchie.
Telle est l’Allemagne de la Confédération germanique, c’est-à-dire
le deutsche Bund (1815-1866), trop négligé dans les études
d’histoire constitutionnelle, ou encore l’Allemagne de Bismarck
que le juriste allemand Otto Mayer avait joliment appelé « une couronne de couronnes ».
On pourrait aussi introduire une distinction entre les formes de
Fédération en évoquant le critère alternatif de l’hégémonie ou de
l’égalité. L’histoire enseigne qu’il y a parfois des fédérations hégémoniques, c’est-à-dire dominées par un Etat-membre, et ici
l’exemple classique est celui de l’Allemagne impériale dominée par
la Prusse. Par contraste, la plupart des Fédérations repose sur la prohibition institutionnelle de l’hégémonie et par une affirmation de
principe de l’égalité de tous les Etats-membres, avec une égalité qui
peut être quand même proportionnée (problème de la pondération des
votes au sein de la Diète).
Enfin, par rapport au livre qui était muet sur cette question, il n’est
pas impossible de prendre en considération le facteur économique
dans l’analyse institutionnelle de la Fédération. En effet, tout comme
l’Etat, la Fédération peut se combiner avec des régimes économiques
différents. Plus exactement, de même qu’il existe pour la forme étatique une sorte d’indifférence à la forme du régime économique
(libéral, socialiste, ou communiste), il existe la même indifférence
pour la forme fédérale. Dans son grand livre sur l’Europe,
l’économiste François Perroux a démontré, à propos du fédéralisme,
qu’on peut raisonner de deux façons, soit en adoptant une posture libérale, soit en adoptant une posture socialiste. Il critique la thèse
mécaniciste de Hayek selon laquelle le marché fédéral serait imman-
La Fédération comme forme politico-juridique
47
quablement un marché libéral et il le fait en mobilisant sa théorie non
libérale du marché. En effet, explique-t-il, « le marché fédéral, comme le marché national, est un marché politique »78, c’est-à-dire un
marché où la concurrence n’est jamais parfaite et qui est traversée par
des forces et des conflits. Le marché fédéral en économie se caractérise par le fait qu’il est « un marché à l’égard duquel s’exercent
plusieurs Pouvoirs publics d’organisation »79. Il en résulte cependant
que la forme politique fédérale peut se concilier avec des formes
économiques différentes80, c’est-à-dire que le fédéralisme peut impliquer aussi bien un régime économique libérale qu’un régime
économique socialiste ou social-démocrate. Si l’on prend le cas de
l’Union européenne, il est clair que, à ses origines, le Marché commun n’avait pas du tout la coloration purement libérale qu’il a
acquise depuis le Traité de Maastricht. L’effacement des barrières
douanières se conciliait parfaitement avec une politique protectionniste, à maints égards (politique agricole commune, par exemple).
La leçon de ces dernières remarques est claire : la Fédération peut
supporter, si l’on veut, n’importe quel type de régime économique.
La véritable difficulté commence lorsque le régime économique de la
fédération diffère totalement du régime économique des Etatsmembres.
Ces dernières notations ne sont que des pistes de réflexion qu’il
conviendrait peut-être d’approfondir. Elles prouvent qu’il reste
beaucoup à penser et à écrire sur la question fédérale qui, examinée
sous d’autres angles de vue, peut être réinterprétée de manière fructueuse. C’est du moins ce qu’on espère avoir démontré en publiant
cette Théorie de la Fédération .
78
L’Europe sans rivages, Paris, PUF, 1954, pp. 607-608.
Ibid. p. 608.
80
V. pour une analyse plus détaillée, notre article : Le fédéralisme économique selon François Perroux. Contribution à l’étude du fédéralisme, in J.-F. Kervégan, H.
Mohnhaupt (hrsg) Wirtschaft und Wirtschaftstheorien in Rechtsgeschichte und
Philosophie, Francfort, Klosterman, 2004, pp. 325-353.
79
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 49-72 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Dalla sovranità statale alla sovranità
dell’individuo attraverso il federalismo
funzionale e l'individuo simbiotico
Sergio Ortino
1. Le innovazioni tecnologiche hanno ripercussioni dirette e indirette non soltanto sull'economia in generale, ma anche sulle strutture
sociali. Il legame di stretta relazione e interdipendenza che unisce
gli esseri umani grazie alle nuove tecnologie dei computer e delle
telecomunicazioni, è alla base non solo dei sistemi di produzione e
diffusione di informazioni, ma anche di un potere politico sempre
più diffuso, disarticolato, reticolare, in cui la rappresentanza politica
vede ridurre la sua centralità nel governo della società a vantaggio
di posizioni sempre più rilevanti dei poteri intermedi e dei singoli
individui. La rivoluzione dell'informazione sta riconfigurando secondo un modello unico il modo di organizzazione, non soltanto
delle nostre imprese (le c. d. imprese a rete)1, ma anche del potere
pubblico (il c.d. governo reticolare). In tutti e due i settori infatti la
verticalizzazione accentrata e burocratica viene sostituita da un sistema multipolare di molteplici unità collegate verticalmente e
orizzontalmente in modo complesso e non lineare2.
Le forme politiche dell'era agricola sono state prevalentemente
regni e imperi, mentre un ruolo marginale, ancorché significativo, è
spettato agli assetti repubblicani di piccole dimensioni (comunità di
villaggio, alcuni centri urbani dell’antichità, le comunità alpine
svizzere, i comuni del Medioevo). La rivoluzione industriale e il
nuovo ordinamento economico hanno visto la nascita dello Stato
1
Reti di imprese tra regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia, a cura di F. Cafaggi, il Mulino, Bologna 2004.
2
Sul punto vedi S. Ortino, La struttura delle rivoluzioni economiche, Cacucci, Bari
2010.
50
Sergio Ortino
nazionale, un'istituzione in parte antica e in parte nuova. L'elemento
che accomuna le precedenti forme politiche al moderno Stato nazionale, è la sovranità che durante l'era agricola risiede nel re o
nell'imperatore, durante l'era industriale negli individui attraverso la
persona giuridica dello Stato. Il fatto che la sovranità moderna abbia origine nella sovranità degli antichi non è testimoniato soltanto
dalla identica radice etimologica di sovrano (re o imperatore) e di
sovranità (popolare). Grazie alla figura del sovrano dell'antichità si
affaccia quella configurazione primordiale dell'individuo titolare di
poteri e di diritti autonomi che andrà a caratterizzare il futuro delle
comunità politiche. Come rileva Mumford: “ Fu nel re che emerse
per la prima volta l'individuo, in una posizione di responsabilità superiore a quella del gruppo, e distaccata dalla sua matrice collettiva.
Con l'evoluzione della città, il re incarnò una nuova idea dello sviluppo umano e la città divenne l'incarnazione collettiva di questa
idea. Uno dopo l'altro i privilegi e le prerogative della regalità vennero ceduti ad essa e ai suoi cittadini, ma per effettuare questo
cambiamento furono necessarie migliaia di anni, e quando venne
completato gli uomini avevano oramai dimenticato come e dove
fosse incominciato.”3.
Nell'era dell'informazione stiamo assistendo al venir meno dello
Stato nazionale, di quell'entità attraverso cui fu possibile trasferire
la sovranità dei re e degli imperatori al popolo, e al sorgere di una
pluralità di nuovi pretendenti pronti a impossessarsi dello scettro
caduto e abbandonato.
All’alba di una rivoluzione economica che tende a diffondere il
potere in ogni direzione, è invero facile comprendere quanto i possibili scenari delle società del futuro prossimo siano più numerosi e
diversi di quanto non lo siano stati in passato. Il punto cruciale è
che i processi scaturiti dalle innovazioni tecnologiche hanno le loro
leggi, o meglio, una loro 'logica'. In realtà nessuno è formalmente
incaricato di gestire una rivoluzione economica, dato che una rivoluzione economica è capace soltanto di delegittimare i poteri legali
del passato e preparare il campo su cui sorgeranno i protagonisti
della nuova era economica, secondo gli schemi di comportamento
derivanti dalle invenzioni umane. Solamente chi conosce le regole
3
Lewis Mumford, La città nella storia (1961), RCS libri, Milano 1997, p. 150.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
51
di questa 'logica', può tentare di indirizzare in un senso o in un altro
le forze scatenate nella società dalle nuove tecnologie. Molto presto
nei prossimi anni scopriremo che i vincitori di questo gioco planetario sono coloro che per primi hanno capito e dominato la 'logica' dei
nuovi sistemi informatici.
2. Indagare se la rivoluzione dell’informazione e il nuovo ordinamento cibernetico stiano ponendo fine allo Stato nazionale, e quindi
stiano dando vita a qualcosa che non è più riconducibile a quella
specifica forma politica, è un quesito che oramai interessa una vasta
letteratura scientifica4. Credo spesso ci siano equivoci sul significato di questa 'fine' dello Stato nazionale. Per fugare tali equivoci
riassumo l’impatto che le innovazioni tecnologiche stanno producendo sullo Stato contemporaneo.
La sovranità statale si dissolve in frammenti seguendo vettori
4
Vedi ad esempio C. Schreuer, The Waning of the Sovereign State: Towards a
New Paradigm for International Law, in "European Journal of International Law",
4, 1993, pp. 447-471; J-M. Guéhenno, La fin de la democratie, Flammarion, Paris
1993, tr. in. The End of the Nation-State, University Minnesota Press, Minneapolis
(MN) 1995; P. Saladin, Wozu noch Staaten?, Verlag Stämpfli + Cie AG, Bern
1995; K. Ohmae, The End of the Nation State. The Rise of Regional Economies.
How new engines of prosperity are reshaping global markets, Free Press, New
York 1995, tr. it. La fine dello Stato-nazione. L'emergere delle economie globali,
Baldini & Castoldi, Milano 1996; Symposium on the Decline of the Nation State, in
"Cardozo Law Review", 18, 1996; M. Salah, Mondialisation et souveraineté de
l'Etat, in "Journal du Droit International", 3, Paris 1996, p. 611 ss.; L. Ali Khan,
The Extinction of Nation States, Kluwer Law International, The Hague 1996; P.
Pernthaler, Die Globalisierung als Herausforderung an eine moderne Staatslehre,
in Staat – Verfassung – Verwaltung, Festschrift anlässlich des 65. Geburtstages
von Prof. DDr. DDr. H.c. Friedrich Koja, Springer-Verlag, Wien 1998, p 69 ss.; A.
C. Aman Jr., The Globalizing State, p. 769 ss.; Francis Snyder, Governing Economic Globalisation. Global Legal Pluralism and European Law, in "European
Law Journal", volume 5, December 4, 1999, p. 334 ss.; J. Eatwell – Lance Taylor,
Global Finance at Risk. The Case for International Regulation, Polity Press, Cambridge 2000; M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti
nella società transnazionale, il Mulino, Bologna 2000; Responding to Terrorism:
Crime, Punishment, and War (note), in “Harvard Law Review”, 115, February
2002, 1217; Ripensare la costituzione. La questione della pluralità, a cura di M.
Bertolissi, G. Duso, A Scalone, Polimetrica Monza 2008; Dieci anni di Idee e Pratiche 1998-2008, Associazione Globus et locus, Casagrande Editore, Lugano
Milano 2008.
52
Sergio Ortino
diversi e contrastanti. Di fronte al logoramento delle tradizionali unità aggregative che reggono ancora le nostre società, la prima
caratteristica che emerge del nuovo assetto istituzionale è l'assenza
di poli di riferimento di ogni tipo e natura. Allorché lo Stato nazionale era il centro di riferimento dell'aggregazione politica delle
società industriali, era naturale che accadesse che quegli Stati che
mostravano maggiore vitalità e intraprendenza venissero a occupare
una posizione di vertice intorno a cui finivano per gravitare anche
gli interessi degli altri Stati minori. Così abbiamo visto come al vertice degli Stati si affermò prima la federazione delle Provincie
Unite dei Paesi Bassi nel XVII secolo, poi del Regno Unito nel
XVIII e XIX secolo e infine gli Stati Uniti insieme all'Unione Sovietica nel corso del XX secolo. A seguito dell'involuzione cui
stiamo assistendo dello Stato nazionale, non soltanto sta venendo
meno ogni forma possibile di polarismo nelle relazioni internazionali in cui una o due o poche potenze statali influenzano la politica
di tutti gli altri Stati in un modo o nell'altro, ma sta venendo meno
la stessa multipolarità diffusa costituita da tutti gli Stati nazionali in
cui è divisa la superficie terrestre.
La crisi dello Stato nazionale sta trascinando con sé verso la destrutturazione anche quelle istituzioni sopranazionali che sono state
create per mantenere vitali i singoli Stati nazionali dopo la fine della seconda guerra mondiale – a cominciare dall'Organizzazione
delle Nazioni Unite. In questa parabola vi è un aspetto di ironica
amarezza che non si può sottacere. Dopo che molti elementi dello
Stata nazionale sono andati in crisi, come la giustificazione stessa
del potere politico, la difesa del territorio, la cittadinanza, la gestione di una politica economica efficace, lo Stato nazionale ha cercato
di creare una linea di difesa con quelle ultimi propaggini della concezione tradizionale dello Stato nazionale rappresentate dalle istituzioni internazionali, continentali, intercontinentali istituite in questi
ultimi decenni. Nell'intenzione dei loro fondatori queste istituzioni
infatti avrebbero dovuto assolvere i compiti che i singoli Stati non
erano più in grado di assolvere. Ma poiché la logica degli strumenti
tecnologici della rivoluzione economica dei nostri giorni non sembra risparmiare neppure questi ultimi baluardi dello Stato nazionale,
il risultato complessivo di questa strategia è stato di indebolire ancor più i tratti medesimi dello Stato nazionale sia perché indebolito
dalla perdita di competenza trasferite agli organismo transazionali,
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
53
sia perché privato di quei successi che sperava di conseguire con tali organismi.
In sostanza da questa crisi del modello dello Stato nazionale a
livello locale e a livello internazionale emerge un'azione fondamentalmente contraddittoria: da una parte i singoli Stati nazionali
sperano di trovare una via di uscita alla loro crisi interna attraverso
il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali; dall'altra i risultati
non esaltanti se non addirittura mediocri di queste nuove e vecchie
organizzazioni internazionali finiscono per aggravare la crisi dei
singoli Stati nazionali che sostengono quelle organizzazioni.
La maggior parte di questi soggetti a livello internazionale possono essere considerati come espressioni di esigenze economiche.
Essi si manifestano in primo luogo attraverso blocchi di Stati a dimensione continentale o intercontinentale. Tra i più importanti sono
da segnalare l'Unione Europea5; l'Unione Africana6; il NAFTA nordamericano7; il MERCOSUR sudamericano8; l'APEC dell’area
pacifica9; ASEAN del sud est asiatico10; la SCO, l'organizzazione di
Shanghai per la cooperazione11.
Benché molte di queste organizzazioni sopranazionali possano
aver avuto la loro origine in ragioni di sicurezza e di difesa, la loro
presenza trova oggi giustificazione prevalentemente nel commercio
mondiale e nelle dimensioni delle imprese12. Nel sistema competitivo globale bisogna che le singole unità economiche siano sufficien-
5
Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Francia, Finlandia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Irlanda, Italia, Malta, Paesi Bassi,
Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria.
6
Essa comprende tutti gli stati dell'Africa ad eccezione del Marocco.
7
Canada, Messico, Stati Uniti.
8
Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Venezuela.
9
Australia, Brunei, Canada,, Cile, Cina, Corea, Filippine, Giappone, Hong Kong,
Indonesia, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Singapore,
Russia, Stati Uniti d’America, Thailandia, Taipei, Vietnam.
10
Brunei, Cambogia, Filippine, Laos, Indonesia, Malesia, Birmania, Singapore,
Thailandia, Vietnam.
11
Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan.
12
Per quanto riguarda la comunità europea e l'organizzazione del commercio mondiale vedi F. Ortino, Basic legal instruments for the liberalisation of trade. A
comparative analysis of EC and WTO, Hart, Oxford 2004.
54
Sergio Ortino
temente grandi da istituire al proprio interno un mercato in cui la
concorrenza e la cooperazione abbiano le maggiori possibilità di
operare concretamente13. Tali istituzioni continentali e intercontinentali si posizionano in sostanza come aree intermedie tra
l’economia mondiale della nuova era e le economie chiuse degli
Stati tradizionali. In esse si possono sperimentare livelli di concorrenza e di cooperazione più intensi e più ampi dei livelli che le
singole economie nazionali possono offrire, senza dover immettere
in un libero mercato competitivo planetario imprese nazionali ancora impreparate. Una delle principali conseguenze della creazione di
questi organismi macroregionali è che i singoli Stati sono costretti,
volenti o nolenti, a rinunciare in buona parte alle politiche di programmazione e di intervento pubblico in economia al fine di
rendere possibile la realizzazione della concorrenza nell’area interessata.
I gradi di integrazione di queste aree possono variare notevolmente, ancorché circoscritte alle materie economiche soltanto. Così
il primo livello di integrazione è rappresentato da una zona di libero
scambio delle merci, a seguito dell’abolizione fra gli Stati membri
dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all’entrata e
all’uscita delle merci come pure di tutte le altre misure di effetto
equivalente. Il secondo livello di integrazione è costituito dalla introduzione di una unione doganale mediante la configurazione di
una normativa tariffaria comune e di una politica commerciale comune nei riguardi degli Stati terzi. Il terzo livello di integrazione si
attua allorché si completa la creazione del mercato economico unico, abolendo le restrizioni all’interno del territorio interessato non
soltanto riguardo alle merci, ma anche riguardo ai fattori della produzione, come le persone, i servizi, i capitali. Tali politiche comuni
in economia possono essere ulteriormente estese ad altri settori
(come vedremo nell’Unione Europea è il caso della politica monetaria).
È ovvio che più cresce il grado di integrazione economica di
questi organismi, più si presenta necessario affidare la disciplina e
la regolazione dell’area a strutture di governo comuni, che nelle
13
Drucker, La società post-capitalista, p. 166.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
55
prime fasi dell’integrazione possono anche non essere presenti, ma
assumere semplicemente le funzioni di semplici segretariati.
Ma nell'epoca dell'economia globale, la sovranità statale si dissolve anche per un tendenza verso il regionalismo. Il fenomeno
aggregativo si manifesta infatti non soltanto a livello continentale,
ma anche in dimensioni locali all’interno di aree istituzionalizzate
intrastatali, o a livello interstatale, ma di tipo limitato, cioè transfrontaliero14. Secondo Kenichi Ohmae, che sul tema per primo ha
elaborato una vera e propria politica istituzionale a livello mondiale, queste unità sono per esempio: l'Italia settentrionale; il Baden
Würtemberg; il Galles; SanDiego/Tijuana; Hong Kong/Cina meridionale; la Silicon Valley/Bay Area in California; Pusan (estremità
meridionale della penisola coreana); le città di Fukuoka e Kitakyushu nel nord del isola giapponese di Kyushu; il Growth Triangle di
Singapore, Johore (lo Stato della federazione malese più a sud) e le
vicine isole di Riau in Indonesia (compresa Batam, una zona di porto franco); il Research Triangle Park del North Carolina; la regione
alpina della Rhône, con epicentro a Lyons, e con i suoi stretti legami economici e culturali con l’Italia; la regione LanguedocRoussillon, con epicentro a Toulouse, e con i suoi legami stretti con
la Catalogna; Tokyo e le aree limitrofe; Osaka e la regione del Kansai; l'isola malese di Penang; il nuovo emergente Greater Growth
Triangle, attraverso lo Stretto di Malacca, concernente Penang, Medan, e Phuket in Tailandia15. Ma ovviamente l’elenco potrebbe
allungarsi.
Il fenomeno è facilmente spiegabile. L’introduzione delle forze
di mercato, favorite come sappiamo in modo rilevante dalla rivoluzione dell’informazione, implica in generale che il potere economico si sta spostando dal centro alla periferia. Non il processo di
pianificazione centrale, ma il commercio estero e il capitale mettono in grado le comunità locali, collocate in una posizione favore14
A. Aykaç, Transborder Regionalisation, Sindelfingen, Libertas Verlag, 1994; D.
Blumenwitz, Der Grenzüberschreitende Regionalismus als mögliches Instrument
der Konfliktenschärfung, paper, INTEREG, Symposium, Marienbad, 23.26.10.1997, Europaregion Tirol/EuregioTirolo, P. Pernthaler e S. Ortino (hrsg./a
cura di), Autonome Region Trentino-Südtirol/Regione Autonoma Trentino–Alto
Adige, Trento 1997.
15
Ohmae, La fine dello Stato-nazione, pp. 129-130.
56
Sergio Ortino
vole, di trarre profitto dall’economia globale con mezzi alternativi
di sviluppo economico. Queste nuove aree economiche emergenti
non possono sottostare a uno stretto controllo centralizzato. L’analisi economica ha inoltre dimostrato che gli sforzi e i tentativi di
partecipare all’economia globale, non sono avvenuti per caso. La
traiettoria secondo la quale si spostano le priorità allorché le aree
economiche passano da una fase all’altra di sviluppo, è alquanto
prevedibile. Il movimento in alto nella scala di sviluppo dipende
dall’abilità di creare le politiche, le istituzioni e le infrastrutture giuste al momento giusto16. Queste nuove zone emergenti non hanno
bisogno di essere comunità sovrane politicamente indipendenti, ma
solo di avere notevole libertà di azione nelle questioni economiche.
I cambiamenti strutturali provocati dalla tecnologia dell’informazione rivelano che le aree geografiche ricche e sviluppate sorte
in tutto il mondo – spesso zone di confine sviluppatesi intorno a un
centro economico regionale – sono quelle che stanno apportando
miglioramenti reali e concreti alla qualità della vita. Ciò che contribuisce a formare queste entità economiche è, prima di tutto la
presenza in una determinata area geografica, di un insieme di gusti
e preferenze largamente simili. I confini di tali regioni economiche
non sono imposti da decisioni politiche, ma sono segnati dal mercato globale di beni e servizi. Queste linee non sono predeterminate in
anticipo, non stabiliscono niente di nuovo, ma accompagnano i
concreti rapporti dell’attività umana, confermando giorno per giorno i contorni reali creati dalle innumerevoli decisioni individuali.
Queste regioni naturali sono motori potenti di sviluppo perché il
loro orientamento primario è verso l’economia globale, non verso le
altre parti del paese al quale appartengono politicamente. Esse sono
16
Ohmae, La fine dello Stato-nazione, p. 128 ss.. Queste aree economiche sono
chiamate da Ohmae «Stati regioni». Il termine non è adeguato a descrivere il fenomeno. Il significato letterale dell’insieme delle due parole è che in tali casi sono
Stati di dimensione più piccola degli Stati ordinari, con l’implicazione che l’unico
cambiamento necessario nelle questioni istituzionali al fine di cimentarsi con le
nuove realtà della nostra epoca è di ridurre la dimensione degli Stati più grandi e di
quelli di media grandezza. Sarebbe meglio chiamare questi fenomeni diversamente, per esempio «regioni geo-economiche», o forse meglio ancora «micro-regioni
geo-economiche» in modo da distinguere questo fenomeno interstatale o interconfinario dalle macro-regioni come fenomeno continentale o intercontinentale.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
57
di dimensioni limitate, affinché i propri cittadini abbiano gli stessi
interessi come consumatori, ma nel tempo stesso ampie abbastanza
da giustificare economie non di scala (che possono essere promosse
da una base di qualsiasi dimensione), ma di servizi (vale a dire l’infrastruttura di servizi di comunicazione, trasporto, professionali, essenziali per la partecipazione all’economia globale). Secondo
Ohmae queste entità economiche generalmente hanno una popolazione da pochi milioni fino a 10-20 milioni. Quando un’area geoeconomica prospera, la sua buona fortuna si riversa sui territori adiacenti all’interno e al di fuori dell’ordinamento politico di cui fa
parte. Oggi esistono già molti casi in tutto il mondo in cui l’effetto
catalitico delle regioni geo-economiche ha avuto la possibilità di
manifestarsi.
Le conseguenze della formazione di queste zone in termini istituzionali sono evidenti. Dato che le regioni economicamente
omogenee sono una leva essenziale per avvalersi della economia
globale nell’interesse di tutti gli individui, il governo centrale deve
non solo rimuovere le barriere che tengono l’economia globale fuori dalla portata dei cittadini e dei residenti, ma anche abbandonare
l’idea che tutto il paese debba essere trattato economicamente e socialmente come un’unità uniforme e compatta. Le conclusioni di
Ohmae, secondo le quali: “Gli Stati regione non sono e non devono
necessariamente essere nemici dei governi centrali. Se maneggiati
con delicatezza da parte della federazione, questi porti d’ingresso
all’economia globale, possono rivelarsi i loro migliori amici”, possono venir condivise solo nel senso che: primo, il governo centrale
cambi la sua natura da «Stato tutto fare» ad uno dei diversi livelli di
governo, e, secondo, che queste regioni geo-economiche diventino
il punto di partenza della nuova rivoluzione istituzionale del nostro
tempo.
È proprio in relazione a questo fenomeno di regionalismo economico, continentale e locale, che si manifesta in modo inequivocabile la profonda scissione tra fattore politico e fattore economico, tra Stato e mercato, tra legittimità e ricchezza, che la rivoluzione
spaziale ha prodotto in questa fine secolo. Mentre si moltiplicano le
aree di grandi, medie e piccole dimensioni che traggono la loro unità da una prosperità comune e che acquisiscono un’autonomia di
azione nel campo economico internazionale, i tradizionali Stati na-
58
Sergio Ortino
zionali sopravvivono come sovrastrutture svuotate della loro sostanza17.
È vero che ogni fenomeno umano ha sempre una dimensione
spaziale. Ma è anche sempre più evidente che la geo-economia dei
nostri giorni deve tener conto, molto più di prima, della diversità e
della molteplicità degli attori implicati nel mercato economico
mondiale. La geopolitica che si ostina a considerare soltanto attori
politici gli Stati o in via subordinata le organizzazioni continentali o
internazionali, è destinata a collezionare più insuccessi che vittorie.
Le iniziative del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea,
come pure dei singoli Stati, volte a favorire la risoluzione di problemi specifici di determinate aree attraverso la promozione di
fenomeni regionalistici che si manifestano sia all’interno dei confini
di uno Stato, sia tra aree transfrontaliere, potrebbero essere interpretate come segnali del nuovo modo di essere di queste organizzazioni transnazionali e internazionali.
I vincitori di questo confronto saranno quelle istituzioni capaci
di offrire le migliori risposte ai vari problemi sociali, etnici, culturali, ambientali del nostro tempo. Inutile dire che il modo in cui le tre
strutture operano è quasi l’opposto: lo Stato-nazione prima occupa
un territorio (che domina all’interno e isola all’esterno), e poi lo divide e lo fa fruttare; la microregione a livello locale dapprima
sfrutta le reti di informazione in tutto il mondo (arricchendo internamente e includendo le aree confinanti) e poi divide la ricchezza
fra i suoi cittadini e fra i suoi cittadini e le aree limitrofe; la macroregione a livello continentale infine si colloca in una posizione
intermedia tra lo Stato-nazione e la microregione.
Anche i principi fondamentali delle tre strutture sono completamente differenti: lo Stato nazionale difende se stesso come entità
trascendente ed eterna, e presume di risolvere direttamente la maggior parte dei problemi dei suoi governati; la regione economica
locale considera se stessa un organismo temporaneo, sempre mutevole e non vuole essere uno ‘Stato balia’, ma semplicemente lo
strumento attraverso il quale la gente può finanziare direttamente le
17
P. Moreau Defargues, Introduction à la géopolitique, Éditions du Seuil, Paris
1994, tr. it. Introduzione alla geopolitica, il Mulino, Bologna 1996, p. 163.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
59
proprie necessità; anche sotto questo profilo le regioni economiche
continentali si collocano di nuovo in una posizione intermedia.
Il fatto che il regionalismo economico di livello continentale
contenga elementi delle altre due strutture dello scenario istituzionale nel mondo, sottolinea l’incertezza e l’ambiguità del suo
sviluppo futuro. In realtà sembra che l’arena decisiva in cui avrà
luogo il confronto fra lo Stato nazionale e il regionalismo economico locale sarà con molta probabilità proprio quella delle aggregazioni sopranazionali della nostra epoca. Molto probabilmente il futuro assetto mondiale dipenderà dall’evoluzione di questi enti
sopranazionali. Se diventeranno un livello della futura rete mondiale di governo, saranno strumenti utili alle micro-regioni geoeconomiche e agli Stati nazionali. Se invece si trasformeranno in
sovrane super-nazioni territoriali, con propri confini, esse rappresenteranno l’ultima fase storica dello Stato nazionale vecchio di
cinque secoli.
3. Dal quadro sopra riferito, emerge con tutta evidenza che allo Stato restano schegge di sovranità. In economia le risorse naturali della
terra non sono più i fattori principali. Poiché il controllo del territorio e delle risorse naturali in esso presenti non è più fondamentale
per l’economia globale, e poiché il controllo sul capitale intangibile
come la conoscenza è pressoché impossibile, lo Stato perde una delle sue ragioni di esistere, una delle ragioni per le quali prese vita
nelle sue forme moderne intorno al XV secolo e in base alle quali
orientò nei secoli successivi la sua azione.
Uno dei compiti degli Stati del XX secolo è stato di perseguire
la piena occupazione, intesa non soltanto come bene indispensabile
per la vita e la dignità dei singoli individui, ma anche come mezzo
per ridistribuire il prodotto nazionale lordo tra il maggior numero di
individui, al fine di rendere più agevole la tassazione grazie alla
presenza di una grande moltitudine di piccoli contribuenti, piuttosto
che una tassazione tra pochi ricchi percettori di reddito18. Il superamento della concezione tradizionale del lavoro causato dalla rivoluzione dell’economia globale sottrae allo Stato non soltanto una del18
J. D. Davidson and W. Rees-Mogg, The Sovereign Individual, Macmillan, London 1997, p. 128 ss.
60
Sergio Ortino
le sue fondamentali ragioni d’essere (occupazione, previdenza, assistenza), ma anche una delle sue principali fonti di entrate tributarie.
Si parla di «fine del lavoro» in termini drammatici stante il «tormento» che le nuove tecnologie hanno sempre creato, creano e
creeranno sulle vecchie. Ma oltre a preoccuparci nel breve periodo
dei risvolti sociali e individuali della ‘fine del lavoro’, credo sia anche importante affrontare la questione in termini obiettivi. Nel
breve e nel medio periodo non sembra più possibile vedere come
salvare la tradizionale funzione della politica economica degli Stati
volta a promuovere la piena occupazione con i tradizionali strumenti fiscali, monetari, creditizi, di spesa pubblica.
Si deve constatare pertanto come le attività economiche dipendono sempre meno dalla politica degli Stati, e sempre più dalle
scelte dei singoli, siano essi investitori, produttori, consumatori.
Regole di comportamento comuni, linguaggio tecnologico identico,
informazione a costi sempre più bassi permettono la creazione di un
vero e proprio mercato globale senza frontiere, in cui i singoli possono agire al di fuori dell’intermediazione statale. Poiché il ruolo
dello Stato tradizionale in materia economica è stato viceversa fino
a oggi fondamentale, forse la ragione stessa del suo sorgere nel XV
e XVI secolo, è facile capire perché ci troviamo di fronte a tali modificazioni epocali del nostro modo di vivere insieme, sia a livello
privato che pubblico, da far pensare sempre più vera la previsione
della imminente fine dello Stato nazionale.
Con l’avvento degli Stati nazionali i popoli del Pianeta si sono
suddivisi secondo linee linguistiche, etniche, culturali, economiche.
Oggi i legami di vicinanza, omogeneità determinati dal vivere di più
generazioni su uno stesso territorio, vengono affiancati o in parte o in
tutto sostituiti da altri tipi di associazionismo resi possibili dalla rivoluzione dell’informazione. La cittadinanza come status giuridico
specifico di individui appartenenti in base a specifici requisiti a un
ordinamento statale, avrà sempre meno importanza, sostituita sempre
più dal criterio della residenza permanente19. La concezione del popolo tipica degli Stati nazionali viene messa in crisi per due fenomeni
opposti: l’immigrazione di persone in cerca di migliori condizioni di
vita e l’emigrazione di persone e imprese in cerca di migliori condi19
L. Ali Khan, The extinction of Nation-States.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
61
zioni fiscali e di forza lavoro. I confini politici come sbarramento e
controllo dei flussi in entrata e in uscita di persone, diventano sempre
più confini amministrativi che delimitano non l’entrata e l’uscita, ma
il regime giuridico delle persone residenti al loro interno.
La tendenza che in modo manifesto modifica il tradizionale rapporto tra individui e gruppo di appartenenza statale, è determinata
dal comportamento di milioni di persone che oggi vogliono essere
integrati economicamente con tutto il pianeta e godere della massima indipendenza politica e culturale. È la Web Society di cui parla
Derrick De Kerckhove20.
Il territorio non rappresenta più il luogo di riferimento esclusivo e
indispensabile per l’esercizio della sovranità21. Non soltanto concorrono altri enti territoriali a esercitare sullo stesso spazio geografico
poteri sovrani, come nel caso delle istituzioni transnazionali; non soltanto esiste oramai un numero notevole di organismi pubblici a
carattere funzionale che intaccano il principio di territorialità degli
Stati nazionali, come ad esempio la NATO o l’Organizzazione del
commercio mondiale –, ma esiste anche un numero infinito di modalità offerte dai mezzi moderni di comunicazione ed elaborazione dati,
di porre in essere azioni con effetti sul territorio senza che lo Stato
abbia molte possibilità di intervenire per far valere una sua disciplina
specifica, come nel caso del commercio elettronico22.
La considerazione che spesso viene fatta secondo cui i fenomeni
che riguardano gli elementi essenziali dello Stato di questi giorni,
siano di trasformazione più che di erosione23, mi pare che poco aggiungano alla tesi qui sostenuta. Dal momento che la trasformazione incide sulle modalità concrete dell’esercizio della sovranità
dello Stato, la trasformazione medesima significa in realtà trasferimento ad altri soggetti del potere di prendere le decisioni politiche,
ovvero l’estinzione della funzione che quei poteri ponevano in essere e che nessun altro ora esercita.
20
De Kerckhove, Connected Intelligence.
Elkins, Beyond Soverignity.
22
M. Ortino, Il mercato comunitario dei servizi di investimento. Il trading online,
Giuffrè, Milano 2005.
23
S. Sassen, Losing control. Sovereignty in an Age of Globalization, Columbia
University Press, New York 1996, tr. it., Fuori controllo. Mercati finanziari contro
stati nazionali: come cambia la geografia del potere, il Saggiatore, Milano 1998.
21
62
Sergio Ortino
Il sospetto è che in tema di sopravvivenza o meno degli Stati nazionali molti studiosi delle scienze sociali si comportino come i
teorici della teoria economia tradizionale, i quali occupandosi di
scelte razionali soggette a vincoli noti, si trovano in grande difficoltà davanti alla creatività tecnologica. Ma la verità è che l’essenza
del cambiamento tecnologico mette in discussione un vincolo che
fino a quel momento tutti gli altri hanno considerato un dato. Capisco l’effetto che può avere sui giuristi positivisti e gli economisti di
ispirazione neoclassica il dover soltanto pensare per un momento
che lo Stato nazionale non sia più un vincolo dato. Il fatto è che il
vincolo Stato nazionale non viene meno per convinzioni teoriche,
ma per gli effetti concreti delle innovazioni tecnologiche.
4. Nelle esperienze tradizionali e più consolidate di Stato federale
come Stati Uniti, Svizzera, Germania, Canada, Australia, il federalismo è stato sempre inteso come ordinamento politico attraverso
cui vengono distribuiti i diritti sovrani tra le entità centrali e le entità periferiche, presenti all'interno del proprio territorio. Un federalismo, quindi, che ha ancora alla base la concezione dello Stato sorto nel XVI secolo in Europa. In questa prospettiva la distinzione
che, a partire dalla fine del XVIII secolo, si opera tra Stati unitari e
Stati federali è una distinzione che non intacca i principi del tradizionale Stato nazionale sovrano, territoriale e confinario.
Questo tipo di federalismo strutturale dovrà (in forme ovviamente adeguate alle varie esigenze regionali e locali) pervadere i vigenti
assetti statali ancora fortemente centralizzati. Gli Stati federali, trovandosi in una posizione più favorevole per recepire le istanze che
provengono dai processi di trasformazione in atto, stante la dislocazione del potere sovrano tra più centri, procedono più speditamente
nella direzione richiesta dalle circostanze, operando un graduale
trasferimento di molte funzioni pubbliche dal centro alla periferia24.
24
P. Pernthaler, Der differenzierte Bundesstaat. Theoretische Grundlagen, praktische Konsequenzen und Anwendungsbereiche in der Reform des österreichischen
Bundesstaates, Wilhelm Braumüller, Wien 1992, tr. it. Lo Stato federale differenziato, il Mulino, Bologna 1998; Asymmetries in Constitutional Law. Recent
Developments in Federal and Regional Systems, F. Palermo, C. Zwilling and K.
Kössler (eds), Eurac, Bolzano 2009.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
63
Si assiste pertanto in questi Stati a una netta inversione di quella
tendenza che portò, in epoche non sempre coincidenti, ciascuno di
tali Stati a rafforzare i poteri del centro a danno della periferia (è
noto che la tendenza al rafforzamento dello Stato centrale rispetto
agli Stati membri, fu determinata dalle politiche conseguenti allo
Stato sociale, ovvero dalle crisi economiche internazionali e dalle
guerre mondiali). In breve potremmo dire che negli Stati federali
tradizionali stanno riaffiorando le linee originarie di tipo federativo
che furono spesso all'origine di quelle esperienze.
Tutte e due queste tendenze, evidenziando una forte articolazione dello Stato tradizionale in forme di Stato di tipo quasi federale,
federale, o addirittura confederale, creano le premesse istituzionali
favorevoli per predisporre gli assetti politici alle modificazioni conseguenti alle innovazioni tecnologiche nel campo delle comunicazioni e dei computer. Questo processo è oramai ben visibile in
molti Stati di democrazia liberale, sia essi Stati nazionali tradizionali a debole decentramento come Regno Unito e Francia, che in Stati
nazionali a forte e medio decentramento come Germania e Austria25.
L'opera potrà dirsi completata allorché – accanto a forme tradizionali di federalismo strutturale – si darà vita a forme di federalismo funzionale. Con tale espressione si vuole intendere un federalismo in cui la logica dell’azione (funzionalismo) e gli elementi
strutturali (federalismo) sono in grado di configurare il governo
combinando specifici bisogni e necessità con una divisione costituzionale di diritti e di poteri. Tale distribuzione e configurazione
delle situazioni soggettive dei singoli enti territoriali deve aver inoltre luogo in base a una potestà di direzione e di controllo da parte
del corpo elettorale, non tanto sul punto dell'esercizio (conseguente
al normale processo democratico mediante elezioni e referendum),
ma sul punto della stessa titolarità (o parti di titolarità). Un federalismo, quindi, in grado di ridisegnare e riorganizzare in tempi
ragionevolmente brevi gli assetti territoriali-statali in conformità ai
grandi cambiamenti strutturali della nostra epoca. L'esperienza costituzionale che prevede già qualche elemento di federalismo
25
Per un panorama sintetico di questa evoluzione nei principali Paesi dell'Europa,
vedi The changing faces of federalism.
64
Sergio Ortino
funzionale, è la Spagna con il modello dello stato ‘autonomico’26.
Come evidenziato dallo studio di Alesina e Spolaore, l'estensione
territoriale non deve più essere considerata un fatto esogeno, ma
deve essere valutata sulla base di un calcolo costi-benefici, tale da
comparare i benefici della dimensione con i costi dell'eterogeneità27.
Soltanto forme di federalismo funzionale, sviluppate e arricchite
all’interno di sistemi macro- e microregionali, sapranno offrire un
progetto istituzionale capace di indicarci la via verso l'assetto politico definitivo del futuro. In questo nuovo ordine mondiale, la
sovranità sarà sottoposta a un generale sfaldamento attraverso processi di ridimensionamento, trapasso e specializzazione. Emergeranno vecchie e nuove entità a esercitare alcune, ma non tutte le
competenze caratteristiche che abbiamo sempre associato con il
tradizionale Stato nazionale. L’autonomia invece della sovranità sarà il principio fondamentale nell’organizzazione delle comunità
politiche. In questo mondo multidimensionale, coinvolgente, partecipativo, tribale, nessuna organizzazione può monopolizzare tutte le
dimensioni della sovranità.
Di questo processo globale di modificazioni costituzionali, l’ultima cosa che si deve pensare è che esso abbia luogo in un solo
momento, una volta per tutte (secondo la logica che ha trasformato
molti Stati autocratici negli ultimi due secoli in Stati democratici
mediante l’opera di una assemblea costituente).
Per far convivere insieme forme di federalismo strutturale con
forme di federalismo funzionale bisogna anzitutto far partecipare le
varie popolazioni interessate al riassetto territoriale delle comunità
intermedie (stati, regioni, province, comuni), attraverso consultazioni e referendum locali secondo quel processo di regionalizzazione in senso lato come sopra indicato. È un passo fondamentale
questo non soltanto per individuare le aree 'naturali' alla logica delle
innovazioni tecnologiche, ma anche per rafforzare quella presa di
conoscenza dei problemi locali da parte di tutti i cittadini, resa oggi
26
Vedi per i particolari G. Poggeschi, Le nazioni linguistiche della Spagna autonómica, Cedam, Padova 2002.
27
A. Alesina and E. Spolaore, The Size of Nations, MIT Press, Cambridge (Mass.),
London 2002.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
65
peraltro possibile grazie alla rivoluzione dell’informazione. Mentre
spetterà alle leggi nazionali il compito di indicare le procedure fondamentali in base alle quali si dovranno aggregare o disaggregare
gli enti territoriali, saranno le popolazioni interessate ad esprimersi
con il voto per i casi specifici e in via definitiva.
In secondo luogo si dovrà assumere come principio generale che
i criteri relativi alla distribuzione dei compiti tra i vari livelli territoriali di governo si baseranno sulla distinzione tra due tipi fondamentali di potestà legislativa.
La prima conseguirà dall'esercizio di competenze fisse (o statiche). Infatti tra i compiti tradizionali degli attuali Stati (sicurezza
interna, giustizia, difesa, ambiente e infrastrutture, quali strade, acquedotti, scuole, ospedali, etc.) devono essere individuate quelle
materie o quelle funzioni da riservare in via permanente ad un livello territoriale ben determinato. Esse troveranno corrispondenza nel
primo tipo di competenza, c. d. fissa, o statica. Secondo la tecnica
del federalismo tradizionale, di tipo cioè strutturale, il riparto di
competenze avrà luogo tra i vari livelli di governo, dalla più piccola
unità fino all'organizzazione mondiale. Lo spostamento di tali competenze da un livello ad un altro è effettuato attraverso la normale
procedura aggravata di revisione della costituzione.
È ovvio che l'assunto di un catalogo di competenze fisse da attribuire a ben determinati livelli di governo, in quanto tali competenze sostanzialmente connesse con la medesima ragion d’essere
del livello di governo in questione, sarà nel tempo da sottoporre a
nuova verifica. Un esempio è sufficiente. In conseguenza del fatto
che la conoscenza è diventata l'elemento discriminante nella concorrenza in economia, i principali aspetti della politica sociale sono
ora non ben facilmente distinguibili dalla politica economica. Infatti
se i capitali possono essere presi in prestito, le risorse naturali comprate e la tecnologia copiata, una economia che vuole perseguire
alti salari non può far altro che puntare sulle capacità, quindi sulla
formazione del capitale umano. Nella individuazione del livello più
adeguato di governo per l'attribuzione dell'educazione in uno Stato
federale è evidente che dovranno essere tenuti in conto sia aspetti
specifici connessi alla cultura e alle tradizioni delle varie comunità
locali, come pure esigenze scientifiche e tecnologiche di portata generale.
66
Sergio Ortino
In contrapposizione a queste competenze fisse esistono le competenze mobili ed eventuali. Esse sono mobili perché possono
essere affidate ad uno piuttosto che ad un altro livello di governo
territoriale; eventuali perché possono anche non essere attribuite a
nessun potere pubblico in quanto riservate alla sfera privata. Ciò
deve aver luogo secondo procedure specifiche prestabilite – comunque mai aggravate e sempre di facile espletamento. Una ipotesi
di tale procedura potrebbe essere costituita dalla presenza di un organo rappresentativo delle entità politiche inferiori nell’entità
politica superiore in grado di decidere l’assunzione di nuove competenze o la dismissione di vecchie competenze.
Con il perdurare delle tendenze verso una economia senza frontiere, nei prossimi decenni sarà naturale assistere, a livello mondiale, allo sviluppo di un diffuso processo di federalizzazione delle
strutture politiche mediante fenomeni di trasferimento di poteri
molto più complessi di quanto sia accaduto in passato e di quanto
possiamo immaginare. Continueremo ad assistere comunque alla
perdita di competenze degli attuali Stati nazionali: sia verso l’alto
(organizzazioni di tipo continentale come l’Unione Europea, o internazionale come ad esempio le Nazioni Unite o le varie organizzazioni ad esse collegate, sia verso il basso (entità territoriali minori
come le nascenti micro-regioni geo-economiche o le già esistenti
unità politico-amministrative come le regioni, i cantoni, le province,
i comuni dei vari Stati nazionali); sia verso l'esterno (organismi autonomi di vigilanza sovranazionale, centri di arbitrato internazionale28, agenzie private di valutazione del debito o dell’emissione di
titoli29, associazioni del terzo settore30).
Allo Stato nazionale ‘tutto fare’ si sostituirà una pluralità di entità politiche tendenzialmente competenti a svolgere soltanto specifi28
A.-M. Slaughter, International Law in a World of Liberal States, in “European
Journal of International Law – Journal européen de droit international”, 6, n. 4,
1995, LBE, p. 503 ss., p. 518 ss.
29
Per vari esempi vedi Sassen, Fuori controllo, p. 60 ss.
30
Rifkin, La fine del lavoro, p. 395 ammonisce: “Solo riuscendo a costruire comunità locali forti e in ciò in grado di autosostenersi, la gente di tutte le nazioni potrà
affrontare le forze dello spiazzamento tecnologico e della globalizzazione dei mercati che stanno minacciando il benessere – se non la stessa sopravvivenza – di
buona parte del consorzio umano”.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
67
che funzioni in modo tale da far prevalere efficienza ed efficacia,
come pure responsabilità e trasparenza dell'azione pubblica. Senza
questa rete istituzionale mondiale (il c.d. ‘marlbe cake’ della letteratura politologia americana) sarà impossibile governare i popoli
nella loro individualità specifica e nelle loro relazioni mondiali. Per
restare al campo economico, chi potrebbe, ad esempio, dire quale
sarà l'autorità competente a dettare le norme per una impresa australiana che commercia dalla piazza di Londra ‘futures’ giapponesi sul
mercato di Chicago? Ovvero nei confronti di chi si sentiranno responsabili le multinazionali una volta che il legame di lealtà con il
Paese di origine è oramai venuto meno?
Sotto un profilo generale apparirà inderogabile il superamento
dell'attuale ordine mondiale dualista fondato, da una parte, sulla organizzazione internazionale come mero luogo di incontro di Stati
nazionali contrapposti e, dall'altra, sugli Stati nazionali ‘tutto fare’.
Proprio la definizione di criteri universali conseguenti ai processi di
globalizzazione evidenzia ogni giorno il caso unico, particolare, locale. Come abbiamo visto, i processi di trasformazione in atto
stanno decentrando a ogni livello, non soltanto la conoscenza, ma
anche il potere politico. È uno scenario in cui le relazioni internazionali non saranno più dominate da una o poche superpotenze
statali, ma da una gran quantità di protagonisti capaci di esercitare
un potere politico, economico, culturale detenuto a vario titolo.
Come afferma Richard N. Haass, il XXI secolo sarà nelle relazioni
internazionali il secolo della non polarità31. Contrastare questo fenomeno con megastati continentali o addirittura mondiali, non è
inutile, ma semplicemente pericoloso. Al piano livellato e quindi orizzontale della economia globale descritto di recente in modo
molto efficace da Thomas L. Friedman32, non deve sovrapporsi un
altro analogo e corrispondente piano livellato e quindi orizzontale
di un governo mondiale o di alcuni governi continentali. All'opposto, la globalizzazione orizzontale dell'economia e del particolarismo socio-culturale deve essere intersecata da una complessa organizzazione verticale in grado di interagire con le forze del
31
R. N. Haass, The Age of Nonpolarity. What will follow U.S. Dominance, in “Foreign Affairs”, May-June 2008, vol. 87, n. 3.
32
Friedman, The World is Flat.
68
Sergio Ortino
mercato globale, una volta assecondandole, una volta limitandole,
una volta contrastandole. Importante è che l'interazione istituzionale
con i processi di globalizzazione non sia compiuta dal rudimentale
ed inadeguato Stato nazionale ‘tutto fare’, ma dalla rete dei vari livelli di governo (non importa ora in quale dimensione regionale,
continentale, mondiale) che dovranno essere ricercati secondo un
articolato e complesso processo federalista dal basso verso l'alto e
dall'alto verso il basso.
Constatato che lo Stato nazionale esce del tutto ridimensionato,
dopo essere stato il protagonista assoluto nel secolo scorso, manifestando segni di irreversibile decadenza in quasi tutte le attività in
cui attualmente si esprime, a livello singolo o a livello sovranazionale; constatato che tutte le ere economiche si sono dotate di nuove
istituzioni cooperative utilizzando in modo diverso parti del vecchio
assetto istituzionale (secondo un processo più volte ricordato in
questo studio, che in biologia viene denominato exaptation) – , tutto
ciò constatato consegue che nella creazione delle nuove istituzioni
politiche restano a nostra disposizione soltanto quegli elementi del
vecchio regime che possono essere recuperati. La principale delle
cooptazioni che devono essere fatte degli istituti del passato per avviarci verso un assetto istituzionale del futuro, è costituita dal
federalismo33.
Come afferma Peter Russel: “La presente era, in termini di storia
mondiale, può essere descritta come l'era del federalismo. Stiamo
vivendo un momento dell'evoluzione politica in cui le limitazioni
dello Stato nazionale sono ampiamente riconosciute e l'idea prevalente per superare queste limitazioni in un modo democratico non
imperialista viene individuato negli strumenti del federalismo in
grado di combinare autoregolazione e potere condiviso”34.
In particolare, come sopra indicato, si dovrà assistere a una evoluzione del federalismo, da strutturale a funzionale. Il federalismo
33
Come suggerisce il titolo del volume I cantieri del federalismo in Europa, a cura
di A. D'Atena, Giuffrè, Milano 2008, è su questa istituzione che stanno operando i
riformatori costituzionali in tutta Europa.
34
P. Russel, The future of Europe in an era of federalism, in The changing faces of
federalism. Institutional reconfiguration in Europe from East to West, S. Ortino,
M. Zagar and V. Mastny (eds), Manchester University Press, Manchester 2005, p.
5.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
69
funzionale contiene già in embrione i tratti fondamentali di quel sistema di governo globale in cui l'individuo dovrà assumere una
posizione sempre più determinante. In verità il nuovo ordine mondiale sarà un ordine pluralista di tipo reticolare, in cui i singoli individui
potranno scegliere il livello di governo territoriale più idoneo per la
soluzione dei loro problemi, come pure l'organizzazione indipendente
e autonoma da qualunque potere pubblico territoriale, idonea a tutelare interessi specifici al di là di qualunque confine politico35.
La soluzione qui tratteggiata ovviamente non vuole escludere altre soluzioni transitorie verso gli assetti politici definitivi dell'era
dell'informazione. Così, ad esempio, si può pensare di costruire i
rapporti futuri tra gli uomini partendo dalle tradizionali unità statali,
private però dei loro tipici confini sovrani e munite soltanto di confini di natura amministrativa (il c.d. Stato libero), nonché integrate
da una concezione della diversità come valore specifico della nostra
era (la c.d. democrazia universale)36.
Soltanto grazie a questa organizzazione a rete di tipo territoriale
e di tipo funzionale di entità politiche e di organismi autonomi e indipendenti in grado di assumere molti dei compiti degli attuali Stati,
la società globale conseguente alla rivoluzione dell’infor-mazione
tenderà a sviluppare una variegata e ricca articolazione di rapporti
sociali, culturali ed economici entro cui le differenze tra gruppi e
individui saranno accettate, in quanto e soltanto perché organicamente inserite in adeguati livelli di aggregazione. Mentre i singoli
individui saranno collegati a gruppi, comunità, organismi caratterizzati per la loro varietà di livelli dal più semplice al più complesso
e per loro natura mista in cui gli aspetti privatistici tenderanno sempre più a sfumare in aspetti pubblicistici e viceversa, lo Stato
35
Varie configurazioni dei nuovi rapporti tra diritto internazionale e diritto interno
sono state sviluppate dalla scienza giuridica in questi ultimi tempi. Concezioni simili a quella prospettata nel testo sono contenute negli scritti recenti di Slaughter,
International Law in a World of Liberal States e di Aman, The Globalizing State.
In tali concezioni tuttavia lo Stato gioca ancora un ruolo fondamentale, corrispondente probabilmente alla situazione in atto. Secondo quanto sostenuto nel testo tale
ruolo, tuttavia, dovrebbe ridursi ulteriormente nel prossimo futuro.
36
L. Ali Khan, rispettivamente The Extinction, e A theory of Universal Democracy. Beyond the End of History, Kluwer Law International, The Hague 2003.
70
Sergio Ortino
nazionale diventerà soltanto uno dei contesti entro cui agiranno i
singoli individui.
Per tale via sarà allora possibile che le maggiori possibilità di
scelte dei consumatori vadano ad arricchire le sfere di libertà oggi
riconosciute ai cittadini; che i singoli aumentino il loro senso di lealtà e di identità nei confronti di una molteplicità di associazioni,
comunità locali e internazionali; che il nuovo coinvolgimento dei
singoli nella determinazione delle attività collettivamente rilevanti
sviluppi la loro personalità e incrementi il loro benessere; che sorga
una diffusa convinzione e fiducia che nelle singole comunità di appartenenza, tutti i membri osservino le stesse regole e condividano
gli stessi valori e comportamenti etici; che alla fine ogni singolo essere umano sia, in ogni comunità di appartenenza, un individuo
responsabile per sé e per gli altri.
In verità sono propenso a credere che nel prossimo avvenire saranno i singoli individui i centri decisionali di sistemi reticolari
globali, non tanto nel senso di individui sovrani capaci di prendere
un numero sempre maggiore di decisioni in completa autonoma37,
ma piuttosto nel senso di individui simbiotici capaci di vivere compiutamente la loro esistenza all’interno di una molteplicità di forme
di comunione e di cooperazione.
L’individuo simbiotico dei nuovi sistemi di governo è un concetto teso a sostituire la sovranità per discendenza monarchica dell'era
agricola e la sovranità per omogeneità democratica dell’era industriale, con associazioni di individui connessi in rete. Esso riassume
nel suo seno le fasi principali dell’evoluzione cooperativa umana:
della famiglia monogamica mantiene il senso di fedeltà reciproca e
di responsabilità nella cura della discendenza da intendersi non soltanto biologica; del villaggio neolitico e della città-stato il senso di
appartenenza a una comunità di amici o di conoscenti; dei regni e
degli imperi l'idea di far parte di una organizzazione capace di dominare lo spazio e il tempo; dello Stato nazionale di essere uguale a
tutti gli altri individui che partecipano alle varie aggregazioni sociali. L’individuo simbiotico in sostanza riuscirà a dare espressione al
fenomeno della cooperazione a livello globale nelle forme corrispondenti al nuovo paradigma della connessione, e cioè a inserire
37
Davidson and Rees-Mogg, The Sovereign Individual.
Dalla sovranità statale alla sovranità dell'individuo
attraverso il federalismo funzionale e l'individuo simbiotico
71
armonicamente l’unicità individuale nella molteplicità delle comunità espresse sul Pianeta, fino ad arrivare a ricomprendere tutti gli
esseri viventi del mondo vegetale e animale. La configurazione dell'individuo simbiotico deriva dal riuscire a mettere in condizione
l'unità elementare di ogni aggregato sociale di agire consapevolmente all'interno delle varie comunità di appartenenza, nell’interesse sia del singolo che della collettività. Il risultato quindi differisce notevolmente nella forma, ma non nella sostanza da quanto è
sempre accaduto in passato tutte le volte che l'umanità è riuscita a
configurare l’interazione tra individui della stessa comunità non
soltanto attraverso la conflittualità, ma anche attraverso la cooperazionee. È questa la strada indicataci per conciliare il nostro successo riproduttivo con la necessità di proteggere la vita in ogni sua
forma sul nostro Pianeta.
Sono consapevole che quanto testé riferito appartiene al mondo
rarefatto delle idee. Qualunque seguace del realismo in politica e in
sociologia avrebbe vita facile ad accantonare queste proposte come
sogni irrealizzabili – nella migliore delle ipotesi. Vorrei tuttavia obiettare a questo immaginario interlocutore che se vogliamo rimanere sul piano del sano e robusto realismo, le prospettive che ‘concretamente’ si affacciano sono tutto meno che rosee. Abbiamo visto
come la rete terroristica di piccoli gruppi ben determinati possa utilizzare le connessioni in rete e i sistemi di trasporto, per destabilizzare quanto resta di stabile e funzionante nei nostri assetti istituzionali e per dimostrare quanto poco efficaci e altamente costosi
siano i rimedi attuati; come i centri finanziari, i principali beneficiari delle tecnologie dell'informazione, siano in grado di trasmettere
in rete scelte egoistiche improvvisate, altamente dannose per l’economia reale e senza che si profili all'orizzonte il varo di provvedimenti volti ad impedire in futuro tali fenomeni dannosi. L’elenco delle minacce alla nostra convivenza è lungo, ma già i due
esempi potrebbero giustificare l’uso delle tecnologie della connessione da parte di governi con pochi scrupoli o di singoli individui
dissennati: nell'intento di abbattere gli ostacoli che si frappongono
alle loro ambizioni o alle loro fantasie, questi soggetti finirebbero
per chiudere definitivamente tutte le possibili vie di fuga che in passato la nostra famiglia è sempre riuscita a trovare per non essere
estinta in ogni sua specie. Cominciare a ricostruire il nuovo assetto
istituzionale da un sano e robusto federalismo strutturale con ele-
72
Sergio Ortino
menti di federalismo funzionale, potrebbe essere un buon risultato
verso la limitazione dei poteri a qualunque livello essi si trovino e
un passo sostanziale verso la nascita dell'individui simbiotico e
l’affermazione di una convivenza di livello superiore. Chiedere
questo non credo possa essere considerato utopistico, ma corrisponda piuttosto a un sano buon senso una volta che si accetta come
fatto irreversibile l'impotenza delle attuali strutture statali interne e
internazionali di un passato oramai irrecuperabile a risolvere i problemi delle nuove realtà. La verità è che l’alternativa a questo
nuovo governo plurale fondato sulla connessione di individui autodeterminantisi, è una lenta trasformazione dei tradizionali poteri
sovrani a meri centri capaci di esercitare esclusivamente la “tirannia
delle piccole decisioni”38, a causa della loro scarsa affidabilità ed
efficienza.
38
Guéhenno, The End of the Nation-State, pp. 84 e 74.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 73-118 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Pensare il federalismo: tra categorie
e costituzione
Giuseppe Duso
1. Il piano della riflessione
Una possibilità, che appare oggi particolarmente produttiva e anche
innovativa, di rispondere alla domanda su “Come pensare il federalismo”, è quella che non si riduce a ripercorrere una tradizione di
pensiero nota e consolidata (dalla quale si possono tuttavia trarre
spunti preziosi) o alla identificazione di una particolare forma politica che si ponga accanto alle altre. Credo che accostare Stato e
federazione, quasi fossero due tipi ideali o due modelli, corra il rischio di assumere fin dall’inizio la federazione all’interno di uno
schema formale e di un modo di pensare il nesso tra giuridico e politico che è proprio quello inaugurato dalla concettualità della
sovranità che sta alla base della forma Stato. Mi pare invece che
possa essere utile seguire un’altra via, quella che ravvisa nel federalismo una modalità di pensare la politica che tenta di superare le
aporie della forma politica moderna quale si è presentata nella versione dello stato nazionale, riuscendo insieme a comprendere la
realtà del nostro presente e a orientare le trasformazioni anche costituzionali necessarie per rispon-dere ai problemi che essa pone. Se
si intraprende questa via il federalismo, anche nel momento in cui è
pensato in una dimensione costituzionale, non mi sembra declinabile come una “forma politica”, qualora si prenda questo termine
nel senso determinato che viene a assumere nel moderno, cioè in
quello in cui la relazione comando-ubbidienza necessaria alla vita
della società viene concepita in una dimensione di autosufficienza,
quella in cui il potere appare legittimato dalla razionalità formale
che caratterizza alcuni procedimenti costituzionali (innanzitutto le
elezioni). Vedremo che un pensiero federalista implica il supera-
74
Giuseppe Duso
mento dello stesso concetto di potere legittimo e del dispositivo
formale che lo sorregge.
Quando parlo di superamento non mi riferisco ad un movimento
di pensiero consistente nel reperimento di un modello più vero o più
giusto che sostituisca la forma politica criticata, quella statale. Si
tratta piuttosto di comprendere che i concetti che caratterizzano la
forma politica moderna producono delle conseguenze di cui non c’è
consapevolezza e che appaiono contraddittorie nei confronti delle
intenzioni che sorreggono la genesi di quegli stessi concetti. Non
solo, ma si tratta anche di rintracciare strumenti per comprendere
quella realtà che i concetti fondamentali della costituzione formale
hanno contribuito a determinare, ma che non riescono più a farci intendere. Superamento della forma politica significa anche
superamento della pretesa autosufficienza della razionalità formale
che caratterizza la democrazia rappresentativa e che rischia di bloccare le trasformazioni costituzionali. Ma questa irriducibilità del
federalismo alla forma non significa che non abbia effetti nei confronti della forma costituzionale e non spinga a trasformazioni che
permettano di rispondere sempre più ai problemi che la realtà ci pone, al fine di indirizzare e guidare i processi in corso. Perciò risulta
particolarmente fecondo e importante l’incrocio con studi rilevanti
sulla costituzione della federazione quali quelli di Ortino e di Beaud1, che, sia pure con diversa accentuazione, cercano di pensare la
federazione oltre la forma dello Stato e il concetto di sovranità. In
relazione alle ricerche compiute, è da tenere ben presente che il mio
intervento non intende muoversi nella dimensione delle proposte
costituzionali – in questa direzione alla fine emergerà solo qualche
esigenza – ma piuttosto riflettere sui concetti e sulle categorie che
sono implicate e che appaiono fondanti l’organizzazione costituzionale della vita della società. Intendo cioè chiedermi se i concetti e i
valori accettati unanimemente siano adeguati ad intendere la nostra
realtà e diano luogo a procedure coerenti, oppure se i processi in
corso non richiedano altre categorie ed un altro modo di pensare la
politica, quello appunto che io nominerei come federalismo.
1
Mi riferisco soprattutto a S. Ortino, Introduzione al diritto costituzionale federativo, Giappichelli, Torino, 1993, e a O. Beaud, Théorie de la fédération, P.U.F.,
Paris 2007.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
75
Un primo tentativo nella direzione qui indicata è stato compiuto
all’interno di un seminario internazionale dedicato alla possibilità di
pensare la pluralità nell’ambito della costituzione, quale si è data a
partire dalle rivoluzioni moderne2. Nella convinzione – che mi pare
verificata dai lavori di quel seminario – che i concetti che costituiscono il dispositivo con cui nel moderno si è pensata la forma
politica non permettano di pensare la pluralità nella sua dimensione
politica, mi è apparso allora utile andare nella direzione espressa dal
titolo: Oltre il nesso sovranità-rappresentanza: un federalismo senza Stato?3. Le argomentazioni ivi contenute, saranno qui solo
richiamate, per cercare invece di approfondire e articolare la parte
più arrischiata del tentativo: quella cioè relativa non tanto alla evidenziazione delle aporie del nesso sovranità-rappresentanza, che
costituiscono il nucleo del modo statuale di pensare la politica,
quanto piuttosto al compito di pensare il federalismo. Credo sia necessario cercare di chiarire i punti che appaiono determinanti per
una concezione federalistica e che, qualora siano disattesi, rischiano
di farci ripiombare in quella logica dello Stato e del centralismo da
cui il federalismo intenderebbe uscire.
Mi sembra particolarmente utile seguire lo schema con cui è stato progettato il seminario che ha dato luogo al presente volume.
Innanzitutto si tratta di comprendere: 1) quale orizzonte di pensiero
sia richiesto come indispensabile per pensare la federazione. Si tratta cioè di comprendere se non sia da mutare la concezione della
società, della politica e dell’obbligazione che si è affermata attraverso la logica della sovranità. A questo proposito è anche utile
indicare quali siano gli autori che appaiono punti di riferimento rilevanti e quali invece quelli che rischiano di portarci fuori strada, in
quanto si muovono proprio all’interno di quell’orizzonte della sovranità che si tenta di superare. 2) Appare poi produttivo tentare di
delineare le categorie essenziali – oserei dire strutturali se non temessi di conferire a queste un carattere troppo formale e fisso – che
2
Per i risultati di questo seminario cfr. M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone, Ripensare la costituzione:la questione della pluralità, Polimetrica, Monza 2008
(www.polimetrica.com), volume questo da tenere presente, in quanto ha costituito
la base del compito ora affrontato di “Come pensare il federalismo”.
3
Ivi, pp.183-210.
76
Giuseppe Duso
permettono di pensare la federazione al posto dei concetti che sono
determinanti per la forma politica moderna. 3) Si può poi mostrare
che un tale pensiero del federalismo non configura una costruzione
teorica utopica o un modello che darebbe luogo ad una realtà ulteriore a quella moderna, ma piuttosto presenta una capacità di
intendere la realtà contemporanea; cosa che non riesce ai concetti
che sono normalmente usati per pensare la politica, sia che si ponga
ad oggetto della riflessione l’Unione Europea, sia la stessa realtà
statale. 4) Infine si può tentare di delineare in che direzione si possa
andare non solo per comprendere, ma anche orientare i processi che
si danno nella nostra realtà4.
2. Mutare l’orizzonte concettuale
Credo che la determinazione dell’orizzonte necessario per pensare
il federalismo non sia un risultato acquisito nel dibattito attuale, ma
piuttosto un compito che abbiamo ancora di fronte a noi. A questo
proposito ci possono essere di aiuto due considerazioni. Si pensi ad
esempio all’ampio dibattito che accompagna il problema della formazione dell’Unione Europea5. Il retroterra teorico sia dei cosiddetti euroottimisti, sia degli europessimisti rischia di essere tutto
costituito dalla concettualità dello Stato e della sovranità, come mostra l’alternativa tra la parte di sovranità che gli Stati devono cedere
e quella che rimane loro. Anche la preferenza dello strumento del
trattato o della costituzione ha questa base: o gli Stati restano sovrani e trovano nella loro sovranità un accordo tra loro, oppure si dà
luogo ad una nuova forma politica mediante la costituzione, nei
confronti della quale i singoli membri sono subalterni. Anche la
questione del deficit di legittimazione democratica che avrebbe finora l’Europa, in quanto fatta dai governi anziché dai popoli, porta
nella direzione della costituzione di un potere da tutti autorizzato e
4
Qualche indicazione in questa direzione è emersa in una iniziativa organizzata a
ridosso della pubblicazione di Ripensare la costituzione:cfr. M. Cacciari, G. Duso,
M. Bertolissi, G. Napolitano, La costituzione domani, Marsilio, Venezia 2008.
5
Significativo a questo proposito la raccolta L’Europe en voie de Constitution.
Pour un bilan critique des travaux de la Convention, a cura di O. Beaud, A. Lechenvalier, I. Pernice e S. Strudel, Bruylant, Bruxelles 2004.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
77
dunque sovrano6. Insomma, o si resta fermi alla sovranità degli Stati
o si pensa l’Europa come un nuovo mega-stato, che assorbe in sé i
membri che lo hanno costituito privandoli di dimensione politica e
decisionale. Il dibattito federalistico sull’Europa rischia di rimanere
in questo orizzonte, mediante la declinazione delle due possibilità
costituite dallo Stato federale o dalla Confederazione di Stati. Se è
vero che la realtà dei processi è altra e si configura secondo una
modalità, appunto federalistica, che va oltre questi due modelli7,
tuttavia è anche vero che i concetti usati nel dibattito non sono adeguati a comprendere questa diversa realtà.
Ma ancora più efficace appare una considerazione di tipo storico
che si può trovare nei lavori sia di Ortino che di Beaud: la quasi totalità delle realtà che avevano avuto una genesi federalistica hanno
finito per assumere la veste dello Stato con la sua logica centralistica e con la perdita della funzione della pluralità8. Per
comprendere la strada che è da imboccare, risulta particolarmente
importante comprendere il perché dell’esaurirsi quasi sul nascere
delle esperienze federalistiche. Senza avere la pretesa di spiegare la
storia, penso si possa avanzare una osservazione di tipo storicoconcettuale, ravvisando la difficoltà dell’affermarsi di esperienze
federalistiche nel fatto che non si è riusciti a pensare il comando e
l’obbligazione politica in modo diverso da quello di una legittimazione democratica ancora condizionata dal concetto di sovranità.
Per superare la concettualità che sta alla base dello Stato e che
ha il suo punto centrale nella sovranità9, bisogna però comprendere
quale sia la logica della sovranità e quali siano i presupposti che
hanno permesso la genesi del concetto. Tale comprensione rischia
di mancare se della sovranità si mette in luce esclusivamente
6
Cfr. Duso, Oltre il nesso sovranità-rappresentanza cit., pp. 183-190.
Come giustamente osserva Ortino, Introduzione cit, p. 331.
8
Cfr. Beaud, Théorie de la fédération cit., p. 424, Ortino, Introduzione cit. p. 23 e
31-32. Ma, sull’aspetto dinamico del federalismo e sulla perdita della potenza costituente con la pluralità che la caratterizza nel momento in cui si dà luogo alla
“macchina costituzionale, si veda A. Negri, Potere costituente, Sugarco, Gallarate,
1992 cap. IV, sp. p. 185.
9
Questo punto è ripetutamente ribadito da Beaud e costituisce quasi una premessa
del suo lavoro (si veda ad es. Théorie de la fédération, cit. p. 47). Per una sintetica
argomentazione di ciò rimando al mio Oltre il nesso sovranità-rappresentanza, e
per una maggiore articolazione, ai lavori che stanno alla base di questo saggio.
7
78
Giuseppe Duso
l’aspetto di assolutezza assieme alla direzione verticale che assume
il comando in relazione alla ubbidienza dei sudditi. Proprio su questa base si tende a ravvisare in Bodin il teorico della sovranità
moderna e ad accostargli Hobbes, come colui che ha perfezionato
questo meccanismo di assolutezza del comando e della decisione.
Si viene così a configurare uno schema storiografico assai diffuso
che abbina questi due pensatori come espressivi della verticalità
della sovranità e ad essi si contrappone Althusius e Rousseau come
autori emblematici di una concezione della fondazione del potere
dal basso e della sovranità non del principe ma del popolo.
Un tale quadro storiografico rischia di essere fuorviante10 e non
permette di comprendere come con Hobbes nasca un dispositivo
concettuale, quello della sovranità moderna, nel cui orizzonte pensa lo stesso Rousseau, mentre non solo Althusius, ma anche Bodin
– pure quest’ultimo nella tendenza alla concentrazione del comando, che certo ha avuto un suo ruolo per la nascita del concetto di
sovranità – si muovono, pur contrapponendosi tra loro, all’interno
di un modo diverso di intender la politica, che implica il principio
del governo e, con modalità e forma diverse, l’elemento della pluralità costitutiva della società. Ma ciò che maggiormente conta è
che con questo modulo storiografico si riscontra solo la manifestazione verticale del comando a cui i sudditi sono soggetti, ma
non si vede il segreto e la vera genesi di questa costruzione teorica. Se si riflette sulla novità del concetto di sovranità e si tiene
presente l’arco di storia del pensiero che va da Hobbes a Weber
10
È un lavoro di storia dei concetti che può mettere in crisi questo orizzonte storiografico. Non posso non rimandare ai numerosi lavori sui concetti politici
moderni; in particolare a La logica del potere, ora Polimetrica, Monza 2007
(www.polimetrica.com) , specialmente al capitolo III, “Fine del governo e nascita
del potere”; a G. Duso (a cura), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 20093, in particolare ai saggi di Scattola su Bodin, di Duso
su Althusius e di Piccinini su Hobbes; più schematicamente a G. Duso, Il potere e
la nascita dei concetti politici moderni, ora in S. Chignola e G. Duso, Storia dei
concetti e filosofia politica, FrancoAngeli, Milano 2008, dove si mostra (sp. pp.
161-169) come sia condizionata da questo quadro fuorviante la stessa trattazione
della voce Herrschaft dei Geschichtliche Grundbegriffe, Historisches Lexikon zur
politisch-sozialen Sprache in Deutschland, hrsg. O. Brunner, W. Conze, R Koselleck, Klett Cotta, Stuttgart Bd 3, 1982 pp. 1-102, che pure dovrebbe ispirarsi alla
lezione storico-concettuale dei suoi curatori.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
79
(quello che caratterizza l’arco dello jus publicum europaeum e di
quella che indicherei come la storia del concetto di potere), si può
intendere, da una parte che il potere nasce come negazione di quel
principio del governo che in modi diversi è presente in tutta la tradizione di pensiero politico che dai Greci arriva fino alla nuova
scienza del diritto naturale, e dall’altra che il segreto della assolutezza e della unicità del potere sta nell’espressione di volontà di
coloro che ubbidiranno, sta cioè nel ruolo determinante che viene
ad assumere il concetto di individuo assieme a quelli di uguaglianza e di libertà.
Non è qui possibile ricostruire le argomentazioni che portano a
questa conclusione11. Si può solo riassuntivamente dire che una tale logica è espressa nel nesso che fin dalla loro genesi lega tra loro
i concetti di sovranità e di rappresentanza: quest’ultimo come il
segreto del primo, in quanto mostra come sia possibile pensare
una persona artificiale, la persona civile, qualora si parta dalla nozione di individuo come fondante la società e la realtà politica. Il
concetto moderno di rappresentanza non mostra solo la modalità
di esercizio del potere politico, ma la procedura della sua genesi.
Il corpo politico a cui appartiene il potere è pensato attraverso un
processo di legittimazione in cui viene fondata l’autorità: è il processo di autorizzazione in cui tutti si fanno autori delle azioni che
compirà l’attore, il rappresentante, cioè colui che esercita il potere.
Ma proprio per il fatto che il potere appartiene al soggetto collettivo
da tutti costituito, ne deriva la conseguenza che nei suoi confronti
non ci può essere nessuna resistenza. Da ciò deriva che la forza assoluta del comando e la sua esteriorità nei confronti delle volontà
particolari di coloro che devono ubbidire – quella che si suole intendere come la dimensione verticale della sovranità – è stata resa
pensabile solo sulla base della fondazione dal basso di questo potere. La fondazione dal basso del potere (si badi bene: non una
trasmissione di volontà politica dal basso, ma un atto che autorizza
11
Si vedano i lavori indicati nella nota precedente e, in breve, Oltre il nesso sovranità-rappresentanza cit., sp. pp. 190-201. Ma si vedano soprattutto S. Biral,
Storia e critica della filosofia politica moderna, FrancoAngeli, Milano 1999, e da
ultimo la pubblicazione delle sue lezioni La società senza governo. Lezioni sulla
rivoluzione francese, Il Prato, Padova 2009, vol. I, sp. pp. 150 ss.
80
Giuseppe Duso
coloro che ne sono investiti ad esprimere il contenuto del comando)
è dunque il segreto della nascita della sovranità. Il concetto di libertà risulta in questo modo come il valore assoluto che è posto al
centro del pensiero della politica ai fini di dare una risposta univoca
e definitiva al perturbante ripresentarsi della questione della giustizia che costituiva, prima del giusnaturalismo moderno, la questione
fondamentale del pensiero politico. Se questo è vero, non sarà certo
una fondazione del potere dal basso a superare la sovranità e le sue
aporie; al contrario, ogni tentativo di liberarsi da un comando sulla
base della assoluta libertà dei singoli si tramuterà inevitabilmente
nella reiterazione della logica della sovranità.
Ho già cercato di mostrare come un tale dispositivo sia segnato
dal destino della coazione all’unità e dall’impossibilità di intendere
politicamente la pluralità, e comporti un processo di spoliticizzazione, in quanto proprio la procedura che giustifica il potere come
potere di tutti impedisce che il cittadino abbia una sua dimensione
politica e possa resistere o partecipare ad un potere che è il suo potere. Alla base di una tale situazione aporetica sta una concezione
della società che ha come poli gli individui e il soggetto collettivo.
In essa l’unità del soggetto collettivo, con il potere che la caratterizza, deve essere intesa come l’unità dei molti individui, e tuttavia
anche come necessariamente e irrimediabilmente altra e contrapposta alle particolarità che li caratterizza. È al di là di tale concezione
che bisogna andare se si vuole pensare la federazione in un modo
che non ricada nella logica unitaria e centralistica della sovranità.
Non è possibile in questa sede ripetere le argomentazioni che portano a queste conclusioni. Qui si intende piuttosto proseguire il
cammino iniziato nel saggio che proponeva un Federalismo senza
Stato, tentando di determinare ulteriormente in positivo questo pensiero della federazione, anche grazie alle riflessioni rese possibili
dai lavori di Beaud e di Ortino. Questo passo sarà ulteriormente arrischiato, per la sua natura di discorso positivo sulla politica12 e per
la facilità con cui un tale discorso può essere frainteso quasi si configurasse come una proposta giuridico-costituzionale.
12
Per la natura epistemica di questo aspetto propositivo e arrischiato della filosofia
politica rimando a Dalla storia concettuale alla filosofia politica, “Filosofia politica”, XXI (2007), n. 1, pp. 65-82.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
81
Ma prima di fare ciò, proprio nel tentativo di trovare punti di
forza per un tale nuovo orizzonte di pensiero, si può discutere la rilevanza che spesso è attribuita ad alcune elaborazioni teoriche,
recenti e lontane nel tempo. Penso innanzitutto a Carl Schmitt. Non
sono certo io a negare la rilevanza del giurista tedesco per pensare
la politica13. Ma credo che questa rilevanza non consista in una modalità realistica di pensare la politica e nemmeno nella comprensione di ciò che è originario nel politico o che può stare alla base di
una scienza politica, ma piuttosto nella comprensione radicale della
logica dei concetti politici moderni14. Questa comprensione non
porta tuttavia Schmitt oltre la logica dei concetti moderni, ragione
per cui egli appare ancora prigioniero della forma politica moderna
e per ciò inutilizzabile in positivo per un pensiero della federazione.
Se Schmitt radicalizza la concettualità politica moderna e la cifra
unitaria che caratterizza il nesso di sovranità-rappresentanza, intesa
quest’ultima non come Vertretung, ma come Repräsentation, rappresentanza dell’unità politica appunto, non si può dire che permetta di
pensare la politica oltre questo nesso. Non appare perciò guida utile
per pensare la politica nella direzione federalistica della rilevanza
della pluralità e della partecipazione15 e la sua trattazione della teoria
13
Si ricordi a questo proposito all’iniziativa che ha aperto un acceso dibattito in
Italia su questo autore, anche perché sconvolgeva le classiche distinzioni culturali
di destra e sinistra (gli atti del convegno in G. Duso (a cura), La politica oltre lo
Stato: Carl Schmitt, Arsenale, Venezia 1980) e inoltre ai saggi su Schmitt contenuti in Id., La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli,
Milano 20072.
14
Cfr. G. Duso, Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Carl
Schmitt, in La logica del potere cit. p. 189 ss.
15
Non è certo nella direzione della partecipazione che va quella manifestazione
popolare che si esprime nell’acclamazione e nel plebiscito. Il fatto che Agamben,
proprio nel momento in cui cerca di declinare il paradigma del governo come altro
nei confronti di quello della sovranità, si riferisca al Führer come ad una figura
tipica della funzione “pastorale e governamentale”, ravvisando così, nella concezione schmittiana della Führung una anticipazione “in uno scorcio vertiginoso”
della genealogia del “governo degli uomini” elaborata da Foucault a metà degli
anni ’70 (G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica
dell’economia e del governo, ora Boringhieri, Torino 2009, pp. 90-91), mostra come la sua caratterizzazione del governo, sia tutta interna alla logica della sovranità
e all’elemento carismatico in essa contenuto, come ben ha evidenziato la riflessio-
82
Giuseppe Duso
della federazione contenuta in Dottrina della costituzione, ne è conferma, in quanto, anziché aprire ad un nuovo pensiero della politica,
mostra le antinomie giuridiche e politiche della federazione, dovute
al fatto che in questa forma politica e costituzionale la questione della
sovranità risulta una questione non decisa16. Non è in compagnia di
Schmitt che è possibile pensare il federalismo, ma, al contrario, solo
superando la logica della forma politica moderna che trova nel giurista tedesco la più lucida e radicale comprensione.
Questo riferimento a Schmitt permette anche un’ulteriore osservazione. Se è vero che per pensare il federalismo bisogna andare oltre
l’orizzonte concettuale della sovranità e dello Stato, così come del nesso posto tra diritti dei singoli e potere politico, ciò significa che bisogna
andare anche oltre il quadro dello jus publicum europaeum, che è stato
storicamente segnato dalle vicende degli stati nazionali. Come si dirà
più avanti, è la nostra realtà ad avere superato e complicato quel quadro; ragione per cui il compito che si pone è quello di riuscire a
comprendere questa realtà al di là dell’orizzonte teorico dello jus publicum europaeum, che ha avuto la sua genesi nel giusnaturalismo
moderno. In questa direzione appare particolarmente produttivo il rapporto con un altro pensatore, Johannes Althusius, la cui concezione
della politica ci aiuta a pensare la federazione e l’ordine politico in
modo diverso dai concetti che stanno alla base dello Stato.
3. La rilevanza di Althusius per un pensiero della
federazione
Non è possibile soffermarsi sulla rilevanza e sulla complessità del
pensiero politico di Althusius17, una rilevanza che non si traduce
ne che sta tra Weber e Schmitt. Il nostro tentativo è di mostrare la radicale alterità
che connota governo e partecipazione nei confronti di quella logica.
16
Il modo in cui Schmitt tratta la federazione nella sua opera sulla Costituzione mi
sembra sia una verifica di come non sia possibile pensare la federazione se si rimane all’interno della concezione della sovranità e del potere (cfr. la mia nota Un
dialogo con Olivier Beaud sul federalismo, “Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno”, 38 (2009), sp. pp. 1888-91).
17
Si veda ora l’edizione critica della Politica (nella terza edizione del 1614), contenente sia la versione latina che la traduzione italiana, J. Althusius, La politica, a
cura di C. Malandrino, Claudiana, Torino 2009.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
83
nell’indicazione di un modello a cui ci si possa riferire; si può qui
solo richiamare schematicamente alcuni punti il cui attraversamento
risulta rilevante per l’esperimento di pensiero che ci proponiamo.
Innanzitutto è da ricordare che, se si ritiene il pensiero di Althusius
non accostabile mediante i concetti moderni – nel senso molto limitato e più volte specificato in cui il termine moderno connota i
concetti di quel dispositivo teorico che nasce nel giusnaturalismo,
diventa senso comune diffuso nel periodo della rivoluzione, costituisce la base delle costituzioni e caratterizza lo stato democratico –
ciò non significa che sia irrilevante per noi. Al contrario, proprio
per questo è rilevante, nel momento in cui quel dispositivo concettuale della sovranità appare incapace di comprendere e orientare la
nostra realtà politica18. Una tale rilevanza non rende però la sua
concezione un modello teorico per noi; sia per l’aspetto gerarchico
che la caratterizza, sia per gli elementi determinanti il suo orizzonte
(il buon diritto antico, i testi sacri le consuetudini e i costumi), sia
infine per il suo essere radicato in una realtà cetuale. Per pensare
oggi il federalismo bisogna certo attraversare il pensiero moderno
della soggettività e la realtà storica segnata dalla Rivoluzione francese e confrontarsi con i processi che hanno complicato la stessa
forma dello Stato e trovano nelle tematiche della globalizzazione e
della governance, punti essenziali di discussione. Tuttavia il nostro
attraversamento del suo pensiero ci permette di elaborare strumenti
categoriali utili – oserei dire indispensabili – per tentare di pensare,
noi oggi, la federazione19.
Bisogna riconoscere che, a differenza di qualche decennio fa,
Althusius non è certo ignorato nel dibattito contemporaneo, a causa
18
Cfr. G. Duso, Perché leggere oggi Althusius? in Il lessico della politica di Johannes Althusius, a cura di F. Ingravalle e C. Malandrino, Leo S. Olschki ed.,
Firenze 2005, pp. 39-60).
19
Una accentuazione invece della concezione federalistica di Althusius anche nella direzione della sua attualità si ha nei lavori di Hueglin, in particolare in Sozietaler
Foederalismus,Walter de Gruyter, Berlin 1991; una discussione della interessante proposta di Hueglin è in G. Duso, Althusius. Pensatore per una societa' postmoderna?, "
Filosofia politica" IV (1990), n. 1, pp. 163-175 e anche Althusius e l'idea federalista, in
"Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", 21 (1992), pp. 611622. Per la continuazione di questa discussione si veda Hueglin, Althusius in Question:
interpretation and relevance, e G. Duso, Perché leggere oggi Althusius? in Il lessico
della politica di Johannes Althusius cit., rispettivamente pp. 61-71 e 39-60.
84
Giuseppe Duso
del fatto che la situazione in cui ci troviamo sembra avere analogie
con una realtà complessa della prima età moderna, che ha poi trovato il taglio semplificante della forma politica moderna. Oggi il
diritto non è più riducibile all’unica fonte costituita dallo Stato, ma,
in un quadro di globalizzazione, manifesta una realtà che supera i
confini della sovranità statale, la quale appare minata da una complessità di poteri che si muovono ai livelli diversi20. Tuttavia mi
sembra che molti siano i rischi di fraintendimento che derivano
proprio dalla mancata consapevolezza della specifica modalità di
pensare la politica di Althusius e dall’uso più o meno conscio dei
concetti moderni per la sua interpretazione. Spesso è infatti inteso
come un precursore di Rousseau a causa della attribuzione degli iura maiestatis – che sono letti attraverso il concetto di sovranità - al
popolo, o come colui che delinea una forma di sovranità, plurale e
parcellizzata, che si pone accanto, come diversa, a quella che si è
affermata nel moderno21; oppure come il pensatore di una politica
20
Per questa complessa dimensione del diritto si veda M. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Bari 2006.
21
Gli iura majestatis potrebbero anche essere nominati come “diritti di sovranità”,
ma con la consapevolezza che si tratta proprio di un modo di pensare la politica
che il concetto di sovranità intende negare dalla radice (cfr. La maiestas populi
chez Althusius et la souveraineté moderne, in Penser la souveraineté à l’epoque
moderne et contemporaine, sous la direction de G-M. Cazzaniga et Y-C. Zarka, edizioni ETS Pisa e Vrin, Paris 2001, pp .85-106 e, per il significato e il ruolo che
vengono a svolgere i diritti di maestà, G. Duso, Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius: la dottrina del patto e della costituzione del regno,
“Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, n. 25 (1996), sp.
pp. 87-95: in questo numero si trova anche la dissertazione, rilevante per la genesi
del pensiero politico di Althusius, Disputatio politica De regno recte instituendo et
administrando). Quando si ricostruiscono storie ampie della sovranità, di cui quella
moderna sarebbe solo una variante, si rischia di compiere una operazione del pensiero fraintendente. Infatti le variazioni nel concetto si possono dare solo sulla base
di un significato unitario, che permette appunto di dire che le differenze riguardano
lo stesso concetto. Questo elemento unitario, che avrebbe modalità diverse, spesso
è inteso nella forma di una istanza decisionale ultima in relazione alla vita della società (si veda il saggio di Malandrino contenuto in questo volume). In questo modo
tuttavia si rischia di ipostatizzare proprio il concetto moderno di sovranità. Infatti
è cosa assai diversa se l’istanza che esercita il comando ha un insieme di punti di
riferimento e di vincoli sopra di sé (leggi naturali, divine, religione, costumi, diritto
ecc.), e la possibilità di essere giudicata e di subire resistenza, oppure se essa è decisione assoluta che esclude condizionamenti e la possibilità che l’ubbidienza
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
85
intesa in una dimensione orizzontale e cooperativa contro la verticalità della sovranità; o infine come colui che pensa un sistema del
potere formato e fondato dal basso. Non mi sembra che sia così e se
così fosse il pensiero federalista di Althusius ricadrebbe totalmente
nella logica della sovranità moderna, il cui segreto, come si è sopra
ricordato, risiede nella fondazione dal basso del potere.
Per indicare solo alcuni elementi preziosi per un pensiero della
federazione, si può ricordare che il punto di partenza della Politica
non consiste in un mondo di individui caratterizzati dalle nozioni di
uguaglianza e libertà: non si parte dall’astrazione del concetto di
individuo e dai diritti degli individui per pensare la politica e la società, ma piuttosto sono i singoli uomini ad essere pensati all’interno del diritto simbiotico. Non è che non ci siano i singoli uomini:
ovviamente sono solo essi che formano i raggruppamenti e costituiscono le associazioni, ma non sono intesi nel loro isolamento come
entità fondanti la società. Essi sono quello che sono solo nel rapporto, nella relazione, che non è il semplice prodotto della volontà di
individui autonomi, ma costituisce qualcosa di originario per gli
uomini: perciò la società è per natura, come mostrano esperienza e
ragione, il che non significa che sia un dato inerte, che non si strutturi mediante azioni consapevoli degli uomini. La consociazione,
modo con cui Althusius appella le aggregazioni umane – segna tutti
i livelli della vita sociale a partire dalla famiglia per finire al regno
o alla repubblica. Le consociazioni implicano il patto, a tutti i livelli, ma questo non ha il senso della creazione del comune a partire
dall’arbitrio delle volontà dei soggetti che lo stipulano, quanto piuttosto del loro ritrovarsi in una realtà comune, che insieme vengono
a determinare. Il patto22 è ciò che accomuna, che fa sentire tutti i sui
dipenda dal giudizio sul contenuto del comando. Quest’ultima modalità di intendere il comando è propria del concetto moderno di sovranità, ed ha come suo
fondamento l’espressione di volontà da parte degli individui che dovranno ubbidire. Ma questa concetto nasce con Hobbes proprio sulla base della nega-zione del
modo precedente di intendere il governo nella società e la politica.
22
Giustamente Malandrino ricorda che l’uso del termine foedus nella Politica, sulla base dell’uso del termine nell’ambito del diritto romano, riguarda la relazione tra
popoli, anche se si avvicina alla funzione del pactum a proposito della confederatio
plena. Ma, a prescindere dall’uso del termine, è nella concezione pattizia che implica la comunanza tra diversi – concezione che sarà radicalmente negata dalle
dottrine del contratto sociale moderne che, a partire da Hobbes producono infatti il
86
Giuseppe Duso
membri, certo volontariamente, in una comune realtà: in questa i
membri (che non sono individui, ma aggregazioni, consociazioni)
permangono con la loro identità, con le loro differenze e con il loro
protagonismo politico che ha la forma della partecipazione a ciò
che è comune e non quello della autonomia e indipendenza.
Si può comprendere come in una concezione politica di questo
tipo la prima legge della politica sia la cooperazione, la comunione
dei beni, la comunicazione, la ricerca continua dell’accordo. È questo l’aspetto che sta alla base di molte riprese contemporanee del
nostro pensatore politico. Ma spesso non ci si accorge che questo
lato della politica è necessariamente legato all’altro: che è razionale
e insopprimibile il fatto che nella società così intesa ci sia chi governa e chi è governato. La necessità di questo legame significa che
non è pensabile la cooperazione, cioè la dimensione orizzontale, se
manca la funzione del governo, e viceversa che non c’è effettivamente governo – ma solo dominio tirannico – se manca la presenza
politica e autonoma da parte di governati attraverso le consociazioni. Ciò è chiaramente espresso fin dal primo capitolo della
Politica, che riguarda i principi fondamentali e una delle ragioni
consiste in un aspetto che mi sembra caratterizzante e distintivo di
una dottrina della federazione quello secondo cui l’entità politica è
connotata dalla pluralità di parti differenti. Si tratta di una unità costitutivamente plurale, ciò che è impensabile nel quadro della
sovranità moderna.
È proprio in quanto il popolo è inteso come plurale, che si presenta la necessità di trovare costantemente l’accordo per il buon
concetto di sovranità – che si può riconoscere un elemento fondamentale per un
modo federalistico di pensare la politica. La presenza di una dimensione corporativa nel pensiero di Althusius (cfr. il saggio di Beaud contenuto nel presente
volume) non esclude la rilevanza del patto, ricorrente ai vari livelli della Politica,
in modo tale che la sua prima esposizione può essere riassunta in una dottrina del
patto (cfr. Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius cit.). È piuttosto la riduzione del patto alla assolutizzazione della volontà degli individui a non
essere presente. Ma questo mi sembra anche oggi da evitare – con modalità diverse
– in una concezione federalistica. Questo non significa che la concezione di Althusius, che ha certo una dimensione corporativa, possa essere per noi un modello o
possa essere proposta come una teoria per la postmodernità (questa la mia conclusione in Althusius pensatore per una società postmoderna? cit. p. 175, in cui il
titolo non esprimeva una proposta, ma appunto un interrogativo a cui rispondere).
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
87
funzionamento delle parti e del tutto. Ma le differenze che caratterizzano i membri plurali, mai cancellate nell’unità del corpo
politico, fanno sì che ci sia anche costantemente una tendenza alla
separazione e al conflitto. Perciò una entità costitutivamente plurale
non può esprimere un comando unitario che la rappresenti, perché
in questo caso le parti plurali scomparirebbero di fronte al comando
unico. Bisogna invece istituire una funzione di guida e di governo,
che, a livello del regno o repubblica, prende il nome di sommo magistrato; a lui è attribuibile il comando e non al popolo. A tutti i
livelli (corporazioni, città, province, regno) ci sono due istanze, una
collegiale, in cui si esprime la totalità della consociazione, e una di
governo, che esercita guida e comando. Questo non è un comando
che disponga di coloro su cui comanda, non è in quanto tale dominio dispotico (anche se certo lo può diventare perdendo la sua
natura di governo), non è un comando onnipotente; e chi governa
niente può fare senza lavorare all’accordo delle parti che rimangono
politicamente presenti e partecipi. È la prima di queste due istanze,
cioè l’organo collegiale che istituisce colui o coloro che governano,
ad essere la più alta: è il re per il popolo e non viceversa.
Al livello più alto, quello del regno o della consociatio universalis, è il popolo che costituisce la totalità del corpo politico, che
detiene i diritti di maestà e che si esprime nell’organo collegiale attraverso i suoi rappresentanti23. Esso è la grandezza politica mag23
Certo, si tratta di un modo di intendere la rappresentanza non solo diverso dal
concetto moderno di rappresentanza che nasce con Hobbes , ma tale da costituire
l’obbiettivo critico di quest’ultimo, proprio in quanto comporta la pluralità e le differenze, il rispecchiamento delle parti e non l’autorizzazione di chi deve esprimere
l’unica volontà del corpo politico. Se si legge la rappresentanza in Althusius come
un processo unitario e che ha il senso della moderna autorizzazione, si è tentati ad
immaginare una procedura di formazione dal basso del potere (che, come si è visto, è tipica della moderna concezione della sovranità); se invece si ravvisa nella
Politica di Althusius una duplicità di forme rappresentative, una prima identitaria,
espressa dagli organi collegiali, ed una seconda, cerimoniale e regale, espressa dal
sommo magistrato, si comprende come il quadro sia assai diverso e più complesso
in relazione al nesso sovranità-rappresentanza tipico della concezione politica moderna. Cfr. su ciò Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius cit. sp.
pp 107 ss., e soprattutto H. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre der frühen
Neuzeit. Zur Frage des Repräsentativprinzips in der “Politik” des Johannes Althusius, in Politische Theorie des Johannes Althusius cit., pp. 513-542 (lo stesso
saggio è anche in H. Hofmann, Recht, Politik, Verfassung, Metzner Verlag, Fran-
88
Giuseppe Duso
giore, ma, proprio in quanto è costitutivamente plurale, ha bisogno
di istituire un governante, il sommo magistrato (monarchico o poliarchico, e dunque anche democratico, che sia). Althusius si preoccupa di chiarire che non è una contraddizione che il popolo sia superiore e anche inferiore in quanto ubbidisce: che ponga cioè il
sommo magistrato sopra di sé e non sotto di sé24. Ciò è impensabile
se si resta nell’ottica del potere moderno, della sovranità, del potere
legittimo che esprime il comando unitario, da attribuire alla totalità
del corpo politico. È ben vero che nella Politica il secondo patto,
quello del popolo con il sommo magistrato si configura come patto
di sottomissione (pactum subjectionis et imperii), ma chi si sottomette resta superiore; o meglio, sono i singoli membri ad essere
sottomessi, ma la totalità del corpo politico, mediante l’organo collegiale che lo esprime, rimane superiore: istituisce il governante, lo
destituisce e può resistere, anche con l’uso della forza. Il popolo è
sottomesso finché il governo è giusto e assolve alla sua natura, ma
può opporsi, perché il comando espresso da chi governa non è il
comando della totalità plurale come avviene nella moderna sovranità del popolo, ma è attribuibile a colui che governa, di fronte al
quale sta il popolo.
Mi sembra questo un punto decisivo per il nostro problema: è
necessario il governo perché l’entità politica è plurale; il comando
non proviene rappresentativamente dalla totalità della federazione,
e proprio per questo la totalità plurale rimane politicamente presente di fronte a chi governa e al comando25.
Spesso si attribuisce il diritto di resistenza affermato da Althusius e dai monarcomachi ad un presunto concetto di sovranità del
kfurt am Main 1986, pp. 1-30) Si veda anche Id. Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Giuffrè, Milano 2007,
sp. pp. 435-454. Rimanendo in accordo con Hofmann, e dunque mantenendo il diverso senso rappresentativo del sommo magistrato, metterei in rilievo come non
rappresentativa la sua funzione di governo.
24
Assai significativi i passi della Politica, XVIII, 93-99.
25
È significativo che nel caso della democrazia, e dunque del governo democratico, la presenza del popolo non avvenga attraverso il governo, ma appunto gli
organi collegiali, che esistono anche nelle altre forme di governo (cfr. G. Duso, La
costituzione mista e il principio del governo: il caso Althusius, “Filosofia politica”,
1/2005, sp. “La costituzione mista, ovvero la supremazia del popolo contro la ‘democrazia’”, pp. 90-93.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
89
popolo26, ma non è così. In Althusius una decisione assoluta e sovrana è negata e appare non pensabile nella sua concezione della
politica27: e ciò riguarda non solo chi governa, che amministra solamente quegli iura maiestatis che sono da attribuire al popolo, ma
anche il popolo, che non è certo il soggetto assoluto della politica,
che possa prendere una decisione sovrana. Il diritto di resistenza ha
un’altra base, ed è concepibile all’interno di quell’orizzonte di pensiero che è negato dal concetto di sovranità. È possibile in quanto il
popolo è politicamente realmente presente di fronte a colui che
“governa” (di governo infatti si tratta e non di “uso del potere legittimo”); in quanto il comando è da imputarsi a chi governa e non al
popolo; e infine in quanto si riconosce un orizzonte con una validità
“oggettiva”, che non dipende dall’arbitrio della volontà, né di chi
governa né di chi è governato, e permette di giudicare il comando.
E il giudizio dei governati riguarda proprio ciò che la storia del potere moderno – e della forma politica – da Hobbes a Weber,
esclude, cioè il contenuto del comando. Come si vede qui, orizzonte
condiviso (costituito da leggi fondamentali, costituzione materiale
del regno, verità religiose e testi sacri, costumi e ethos comune, tradizioni del diritto), giudizio sul contenuto del comando e presenza
del popolo che giudica, determinano un quadro irriducibile al rapporto formale di comando-ubbidienza che caratterizza la forma
politica moderna che si concentra nel concetto di sovranità. Mi pare
che la lezione che ci viene da Althusius impedisca la riduzione della
federazione e dell’obbligazione politica ad una razionalità formale,
anche se ciò sembra perdere quella stabilità dell’ordine che il nesso
di diritto e forza inaugurato da Hobbes intende garantire.
Ho ricordato qui solo due elementi, che saranno rilevanti per
proseguire il ragionamento e che mostrano come si dia nel pensiero
di Althusius quella possibilità di pensare una unità costitutivamente
plurale e un modo ad essa consono di intendere il comando politico
che mi sembrano indispensabili affinché la figura della federazione
26
Cfr. I. Bouvignies, Monarchie mixte et souveraineté des états chez les monarcomaques Huguenots, in Le Gouvernement mixte. De l’idéal politique au monstre
constuitutionnel en Europe (XIII-XVII siècle) ed. M. Gaille Nicodomov, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2005, pp. 117-138
27
Cfr. Politica, XIX, 9-10.
90
Giuseppe Duso
non sia assimilata alla logica della sovranità e ai suoi concetti. Già
sulla base di queste poche cose dette su Althusius si può comprendere perché lo ritenga punto di riferimento essenziale per pensare la
federazione, mentre ritenga Pufendorf – che sempre ha denunciato
l’impero come un mostro, proprio a causa della pluralità che lo
connota, e che ha espresso nel modo più chiaro ed evidente il senso
di una unità della civitas che pur essendo l’unità dei cittadini si manifesta come radicalmente altra nei loro confronti (compie actiones
separatas), – come inserito piuttosto in quella scienza del diritto naturale che ha prodotto la forma politica moderna28.
4. Le categorie di una concezione federale
Una volta indicato come sia l’orizzonte dei concetti della forma politica moderna che bisogna superare per pensare il federalismo, si
può cercare di delineare le categorie fondamentali della federazione29. Come si è detto, il problema primario che si presenta è quello
della coesistenza di unità e pluralità. Se è vero che, affinché ci sia
una entità politica non si può non pensare l’unità, tuttavia, a differenza di quanto avviene nell’orizzonte della sovranità e del modo in
cui in essa aporeticamente si coniugano i molti e l’uno, bisogna che
questa unità sia pensata insieme alla pluralità: che cioè nell’unità la
pluralità che si pensa all’origine della federazione non venga annullata.
28
Cfr. Un dialogo con Olivier Beaud cit., p. 1890. Per il chiarimento di ciò rimando al confronto tra le posizioni di Althusius e Pufendorf contenuto in Alle origini
del moderno concetto di società civile in La logica del potere cit., pp. 123-156, a
La rappresentanza politica cit., sp. pp. 85-92, e soprattutto, a O. Mancini, Diritto
naturale e potere civile in Samuel Pufendorf, in Duso (a cura di), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, ora FrancoAngeli, Milano 20073, pp. 109148.
29
Preferisco parlare di categorie, anche senza dare un significato tecnico al termine, per marcare la differenza nei confronti del senso che il termine “concetto” ha
acquisito nella costruzione teorica hobbesiana e della funzione univoca e precisa
che i concetti (individuo, uguaglianza, libertà, popolo, rappresentanza, sovranità)
hanno assunto nella logica del dispositivo moderno della forma politica, dispositivo che caratterizza ancora ciò che si definisce legittimità democratica Cfr. Il potere
e la nascita dei concetti cit., sp. pp. 176-185.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
91
A questo fine è innanzitutto rilevante il ruolo che deve essere attribuito al concetto di individuo. Il problema non è certo quello di
mettere in questione quell’uguale dignità degli uomini e il toglimento degli ostacoli o dei divieti di ogni tipo in relazione alle
funzioni sociali e politiche dei cittadini. Al contrario, la concreta attuazione di questa uguaglianza mi sembra basilare per pensare oggi
il federalismo. Da questo punto di vista gerarchie e privilegi che
hanno caratterizzato l’ancien régime sono state superate, almeno
dal punto di vista della mera enunciazione teorica, come pure si è
affermato quello che Hegel ha indicato come il necessario passaggio attraverso la certezza della coscienza e la libertà soggettiva. Ciò
che deve essere messo in questione è invece il ruolo fondante che, a
partire dal giusnaturalismo, è venuto ad assumere il concetto di individuo per pensare la società e la politica: l’immaginazione cioè
che vede nell’espressione di volontà dell’individuo in quanto tale
sia il fondamento della obbligazione politica, sia la modalità di azione politica del cittadino.
Se il soggetto individuale rimane il termine fondante il soggetto
collettivo e dunque si pensa la comunità politica a partire dall’individuo considerato nel suo isolamento e nella sua assolutezza, e se
questa dimensione dell’individuo isolato viene tenuta ferma come
modalità di espressione politica dei cittadini (come avviene nelle
procedure elettorali), sembra difficile intravedere un esito diverso
da quello prospettato da Hobbes nel XVI capitolo del Leviatano. La
pluralità dei molti scompare così come la funzione politica delle loro differenze. Questo è l’effetto che ha nell’immaginario del
contratto sociale il concetto di uguaglianza, che sarà la base di un
processo che progressivamente relega le differenze determinate nella sfera non politica della società civile.
L’immaginario che fa da sfondo alle moderne costituzioni è caratterizzato dalla separazione di società civile e Stato. Nella prima
hanno spazio le aggregazioni, i gruppi, che non sono invece riconosciuti nella sfera politica, in cui la legittimazione del potere, a
partire dalla Rivoluzione francese, si basa su una logica che ha come protagonisti gli individui nel loro isolamento e nell’autonomia
della loro volontà e opinione. Come bene riconoscono alcuni costituzionalisti è proprio questa separazione che impedisce che la costi-
92
Giuseppe Duso
tuzione possa prevedere una pluralità di soggetti politici30. Come è
emerso già nei primi decenni del secolo scorso, sociale e politico,
processi economici e decisioni politiche non sono in realtà separabili. Ci aiutano in questa direzione sia un concetto concreto –
irriducibile alla carta costituzionale – di costituzione, in cui, come
ha indicato Schmitt, processi sociali, istituzioni e interventi politici
sono strettamente intrecciati e interdipendenti, sia le analisi storiche
della cosiddetta Verfassungsgeschichte, nel seno della quale è nata
la storia concettuale. In effetti l’immaginario che sta alla base della
carta costituzionale non impedisce il peso politico delle lobbies, dei
gruppi, dei sindacati; solo che tale influenza nelle decisioni politiche è surrettizia e la logica del politico impedisce di farla emergere.
Ora il federalismo è proprio il superamento di quella distinzioneseparazione, non tanto grazie ad una costruzione teorica, quanto
piuttosto alla comprensione della sua insostenibilità, sia al livello
concettuale, sia a quello della realtà costituzionale.
Per superare l’immagine della politica che si determina tra i due
poli del soggetto individuale e del soggetto collettivo, bisogna
comprendere che questi non sono termini originari, ma appunto
frutto di una costruzione teorica, termini astratti. L’individuo non è
mai fuori dalle relazioni e il soggetto collettivo non ha una sua realtà autonoma nei confronti della complessità dei processi in cui i
soggetti singoli concretamente sono, si muovono, operano. Per pensare la federazione sulla base di questa consapevolezza critica è
necessario riconoscere come membri della federazione non tanto gli
individui, i cittadini, ma gruppi e aggregazioni. Si può certo riconoscere che pensare la federazione oggi significa conferire alla
soggettività dei singoli una dimensione che non è certo quella che si
può rintracciare nello stato per ceti, che fa da sfondo al pensiero politico althusiano, ma tuttavia è necessario superare quella dimensione astratta del cittadino che sta alla base delle costituzioni democratiche. Per uscire dalla spoliticizzazione sopra denunciata bisogna
considerare la dimensione del gruppo e della aggregazione come
modalità di espressione politica dei cittadini. Solo così potranno
30
Cfr. D. Grimm, Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1991,
pp. 431 (tr. parz. Il futuro della costituzione, in G. Zagrebelsky, PP. Portinaro, J.
Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996, qui p. 157).
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
93
avere peso politico le differenze e dunque la pluralità; quando invece differenze e pluralità sono quelle innumerevoli, indefinite e
perciò indeterminate degli individui, esse non riescono ad avere ricaduta politica in relazione all’espressione unitaria della volontà del
soggetto collettivo.
La pluralità comporta dunque una serie di differenze determinate
e quindi anche momenti di identificazione delle differenze, assieme
ad aspetti di organizzazione, di autonomia e di autogoverno dei
gruppi. Ma non si tratta certo di identità in sé chiuse a cui sia da attribuire una decisione sovrana. Se è vero che il loro essere membri
attivi e non subalterni nei confronti dell’organo della federazione
comporta che abbiano una loro autonomia e (senza fraintendimenti)
forme di autogoverno, è anche vero che c’è federazione solo se, coerentemente con il senso di foedus, ci si riconosce parte di una
realtà comune. Non possono essere dunque pensati come indipendenti e sovrani i membri che danno luogo ad una federazione. Se la
federazione è considerata come il semplice frutto della decisione
sovrana degli Stati, senza che avvenga un radicale mutamento della
concezione della politica, allora le due possibilità che si pongono
sono quella del mantenimento della sovranità degli Stati o quella
della nascita di una nuova sovranità che annulla quelle particolari31.
Il mutamento del modo formale di pensare la politica comporta non
solo che i membri che si collegano nella federazione si intendano
come parte di una realtà comune, ma anche che si riconosca un orizzonte comune, nel modo di intendere la dignità degli uomini, la
giustizia, le regole della vita civile, insomma un insieme di valori e
di idee, all’interno del quale si pensa l’obbligazione politica e il vivere comune32. Questo è un punto fondamentale: pluralità, come
31
Mi sembra che anche la soluzione che si presenta nell’immagine dell’elissi che
ha due fuochi (cfr. M. Fioravanti, La forma politica europea, in Bertolissi, Duso,
Scalone, Ripensare la costituzione, p. 38) non riesca ad effettuare l’operazione che
lo stesso Fioravanti ritiene necessaria: quella di liberarsi dalla logica della sovranità a cui siamo stati abituati dalle vicende degli stati nazionali. È significativo che
Beaud ravvisi la necessità di superare una concezione bipolare della federazione,
come ricordo più avanti: mi sembra che, come vedremo, questo implichi la necessità di ripensare quella che comunemente si intende come la dimensione del potere
politico con la legittimità democratica che lo connota.
32
Declinerei in questo modo ciò che Ortino chiama omogeneità (Introduzione al
diritto costituzionale federativo, cit., p. 244), che non può essere scambiata con
94
Giuseppe Duso
pluralità di un tutto, è possibile solo se ci si riconosce in un orizzonte ideale condiviso, in un comune modo di intendere quella giustizia
che ha costituito la questione centrale della politica finché non è
stata soppiantata dal nesso formale di libertà e potere che caratterizza la forma politica moderna. È il concetto di volontà a non
svolgere qui una funzione decisiva e fondante. Può sembrare paradossale, perché è proprio il riconoscimento della dimensione
politica dei membri che distingue il federalismo dalla logica dei
molti-uno che caratterizza la sovranità, anche nella sua forma democratica. Ma appunto, mentre in quest’ultima la negazione di un
orizzonte comune e la riduzione del tentativo di pensare il giusto alla sfera delle opinioni fa nascere un meccanismo formale che
pretende una sua autonomia, nel federalismo l’accentuazione della
dimensione politica dei cittadini, e dunque delle loro volontà, va insieme alla necessità di determinare quell’orizzonte condiviso che
non è riducibile all’accordo arbitrario tra le parti in gioco, secondo
una concezione convenzionalistica della verità.
Al quadro qui delineato sembrano consone altre categorie; innanzitutto quella di solidarietà. Se i membri si riconoscono in una
realtà comune e in un orizzonte condiviso, allora è chiaro che il loro
bene non può essere perseguito a scapito degli altri membri, proprio
per l’interdipendenza delle parti di un tutto. Questo non significa
che il tentativo di realizzarsi al meglio per ogni membro abbia leggi, tempi e modalità identici, stabilite nell’ambito di una universalità astratta: al contrario le differenze comportano modi specifici e
diversi di agire; ma l’aiuto solidale appare qui non tanto un imperativo morale, quanto piuttosto una necessità costituzionale. Come si
vedrà più avanti, e come si è visto in Althusius, la presenza forte
della pluralità e delle differenze implica una funzione di unificazione che lavora appunto all’equilibrio delle diverse esigenze e anche
al loro accordo.
Altro elemento caratteristico di un pensiero federalistico è quello
della responsabilità. Molti sarebbero gli esempi concreti per mostrare
come la responsabilità sembri assente nella vita dello Stato e nella logica centralista che lo caratterizza. Correndo il rischio di apparire
troppo schematico e riduttivo (perché il problema è assai più coml’omogeneità che caratterizza schmittianamente la democrazia.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
95
plesso nelle trasformazioni che la democrazia ha avuto), ricordo come sia deresponsabilizzante, fin dalla sua nascita, il nucleo centrale
della forma politica moderna. Se il corpo collettivo è immaginato
come formato dai molti individui il legame costituito dalla rappresentanza rivela una struttura aporetica. Nel processo di autorizzazione
tutti si dichiarano autori di azioni che non compiranno mai e gli attori politici (corpo rappresentativo) compiono in realtà azioni che sono
da attribuire non a loro, ma a coloro che li hanno autorizzati, di cui
cioè sono responsabili coloro che non le compiono33. Certo, questo
schema logicamente semplice è poi reso molto più complesso, ma
non appare tuttavia annullato nelle democrazie contemporanee. Ci si
chieda ad esempio se, dal punto di vista del meccanismo decisivo
nella democrazia rappresentativa, la responsabilità di possibili leggi
che tendono a favorire interessi particolari di alcuni invece che la crescita del bene pubblico o la situazione di coloro che sono oggettivamente più svantaggiati, sia da attribuirsi a coloro che le hanno fatte, al parlamento e al governo, o piuttosto a coloro che hanno scelto il
corpo rappresentativo34. In una concezione federalistica invece, così
come è responsabile il governo, a cui sono imputabili le azioni che
compie, lo sono anche i membri, i quali restano sempre politicamente
attivi e responsabili del loro agire politico, che non è assorbito e risolto in una decisione unitaria presa a maggioranza. Essi restano
politicamente responsabili in quanto membri della totalità della federazione, e anche, come vedremo, di fronte al governo; lo sono infine
in relazione alla pratica di autoorganizzazione e di autogoverno che li
deve caratterizzare.
La dimensione di autonomia e di autogoverno che deve caratterizzare i membri plurali della federazione richiama una esigenza
che viene spesso nominata con il termine di sussidiarietà. Il modo
33
Si ricordi il riconoscimento weberiano della irresponsabilità strutturale del rappresentante in senso moderno Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, hrsg. J.
Winckelmann, Mohr, Tübingen, 19765, II Bd., p. 666 (tr. it. M. Weber, Economia e
società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano, ora 1981, vol.IV, p.
237).
34
Cfr. B. Karsenti, Elezione e giudizio di tutti, “Filosofia politica”, 3/2006, pp.
415-430. Lo iato della rappresentanza non sembra poi veramente superato attraverso la presenza dei partiti quanto piuttosto aumentato e reso più contorto: su ciò
vedi oltre.
96
Giuseppe Duso
in cui è emersa e si è consolidata la riflessione sulla sussidiarietà
non può non suscitare qualche perplessità in un’ottica storicoconcettuale. Esemplare a questo proposito il quadro delineato dal
noto lavoro della Millon-Delsol35 – nel quale “potere” e “sussidiarietà” sono identificati come concetti eterni ed universali del politico, che permettono di costruire una tradizione che risale fino ad Althusius e ad Aristotele. In realtà in questa operazione ci si muove
sul piano in cui l’elemento essenziale della politica sono gli individui e la dimensione del potere è appunto intesa come espressione
efficace della volontà. Perciò la preminenza dei livelli bassi dell’organizzazione politica si basa sull’immaginario della fondamentalità
della dimensione dell’individuo, a cui si contrappone il potere
dall’alto. Ma questo gioco di volontà è decisivo solo all’interno del
modo moderno di intendere la politica con il nichilismo che lo condiziona. Non è un caso che, nel momento in cui il termine è messo a
fuoco in modo specifico, come nella stessa enciclica Quadragesimo
anno del 1931, siano surrettiziamente accettati il terreno dello Stato
e la dimensione dell’individuo (non deve fare la comunità quello
che può fare l’individuo). La sussidiarietà dunque non mette in questione il dispositivo “moderno” di concepire la politica, il nesso di
soggetto singolo e soggetto collettivo, la razionalità formale della
legittimazione, la distinzione società-Stato: insomma tutto ciò che
caratterizza il dispositivo della sovranità che sta alla base della dottrina dello Stato. Il federalismo comporta non che sia fondamentale
e decisivo l’individuo o autosufficiente la dimensione della parte,
ma al contrario, che ci si ritrovi in un comune che appare più ampio
e originario. A tutti i livelli implica il superamento dell’autosufficienza e il riconoscimento della essenzialità dell’altro per la
propria realizzazione. Un’ottica federalistica non comporta né la
sovranità in alto né la indipendenza in basso, ma piuttosto il riconoscimento che la volontà non è indipendente né ha mai uno spazio
che sia absolutus dalle condizioni materiali e ideali in cui si muove.
Anche se un’ottica federale mi sembra più radicale dal punto di
vista costituzionale, resta tuttavia da sottolineare un elemento importante che si vuole evidenziare tramite il principio di sussi-
35
Cfr. C. Millon-Delsol, Il principio di sussidiarietà, tr. it., Giuffrè, Milano 2003.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
97
diarietà36, quello secondo cui le forme di aggregazione non dipendono per la loro vita organizzata dall’elemento centrale, ma hanno
pratiche di autogoverno. Abbiamo lasciato ancora non precisato
(ma questo è uno dei problemi più difficili) se i membri siano realtà
territoriali o abbiano anche altre caratteristiche legate alle varie
forme di aggregazione che si danno nella società. In ambedue i casi
tuttavia ci devono essere forme di autogoverno. Possiamo fare due
esempi, il primo di una entità territoriale quale è quella dei comuni.
Questi devono avere capacità in proprio di sostentamento economico e autonomia nell’organizzazione: insomma devono avere autogoverno. Ma autogoverno è necessario anche per settori specifici
come – per fare un esempio quello dell’Università –, la cui vita e
organizzazione non può dipendere da leggi che provengono da un
meccanismo in cui ci sono i rappresentanti eletti tramite i partiti a
poter decidere37. È un’aporia profonda che riguarda il modo in cui
oggi si pensa la democrazia il fatto che la cosiddetta partecipazione
politica avvenga attraverso un voto su persone che non si conoscono e su programmi fumosi e inattendibili e che questo abbia come
risultato delle decisioni governative che ricadono sugli ambiti di vita e di lavoro dei cittadini. In altri termini, il modo di partecipare
del cittadino è ora quello di autorizzare un altro a decidere, e non
quello di essere politicamente coinvolto per la formazione di quelle
decisioni in relazione al concreto del suo vissuto, alle sue competenze, esigenze e proposte.
Infine si può dire che è lo stesso concetto di costituzione, la sua
genesi e la sua funzione a mutare in relazione a quanto è avvenuto
dalla Rivoluzione francese in poi38. A ragione Fioravanti ricorda
36
Filippo Pizzolato, nel contributo contenuto nel presente volume, mostra con
molta efficacia e lucidità come le esigenze indicate attraverso il tema della sussidiarietà intersechino i problemi qui posti mediante il tema del federalismo e
comportino la problematizzazione di quel concetto centrale del pensiero politico
moderno e delle costituzioni che è la rappresentanza politica.
37
L’autogoverno qui indicato non si identifica certo con una autonomia che oggi è
in realtà lo scudo per comportamenti irresponsabili, ma al contrario richiede la capacità di dare ragione alla società del proprio fare, cioè di rendersi politicamente
responsabili nei confronti del tutto in cui si è inseriti.
38
Cfr. H. Hofmann, in particolare, Vom Wesen der Verfassung, HumboldtUniversität, Berlin 2002, e Riflessioni sull’origine, lo sviluppo e la crisi del concetto di Costituzione, in Sui concetti politici e giuridici della costituzione dell’Europa,
98
Giuseppe Duso
che ci può essere un’altra genesi della costituzione da quella della
rivoluzione e di un totale nuovo inizio. Gli Stati Uniti rappresenterebbero l’esempio più rilevante di una genesi della costituzione da
uno scenario di tipo federalistico attraverso lo strumento del trattato39. Ma ci si può chiedere quanto questo scenario incida sul modo
di pensare la costituzione e la sua genesi da un potere costituente.
Mentre la relazione tra potere costituente e realtà costituita che è disegnata da Sieyes si muove tutta all’interno della logica di un
soggetto sovrano e della sua possibilità creatrice, la funzione costituente nell’ottica federalistica appare dipendere da realtà già costituite e l’atto fondativo, lungi dall’apparire frutto di una volontà assoluta e incondizionata, appare condizionato da una serie di elementi di tipo materiale e ideale. Il potere costituente perde allora la
sua assolutezza e il condizionamento materiale e ideale comporta
un movimento della costituzione che richiede aggiustamenti continui in relazione ai processi reali e una modalità di trasformazione
che non dipende certo da una volontà unica e sovrana, ma dall’accordo di membri diversi e dal riconoscimento di un orizzonte comune.
5. Un punto decisivo: intendere il comando come governo
Ma affinché sia pensabile quanto è stato fin qui detto è necessario
insistere su di un punto: bisogna pensare il comando, insopprimibile
nella vita della società, in modo diverso da quello del potere legittimo inaugurato dal dispositivo della sovranità moderna. Il potere,
inteso come il comando da tutti autorizzato e imputabile al soggetto
collettivo, nasce da un concezione che intende valorizzare la volontà dell’individuo, ma produce invece la sua passività da un punto di
vista politico. Per superare questa aporia è necessario intendere il
comando nella forma del governo, che si pone così come categoria
essenziale per pensare in modo federalistico l’entità politica. Se si
riflette sul problema del governo, si vedrà emergere un risultato inaspettato. Mentre nella concezione del potere legittimo i cittadini
a cura di S. Chignola e G. Duso, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 227-237.
39
Fioravanti, La forma politica europea cit., p. 32.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
99
sono totalmente sottomessi, perché il potere a cui ubbidire è inteso
come il potere di tutti, mediante la categoria del governo i governati
acquisiscono uno status politico. Insomma, paradossalmente, solo
in quanto si riconosce di essere sottoposti ad un comando che è imputabile ad altri, si è dotati di azione politica. Pensare il governo
comporta l’impossibilità di ridurlo alla relazione tra l’attività del
governante e la passività del governato. Ma questo è solo un aspetto, quello che mostra il limite che il governo ha nella presenza
politica dei governati sotto di sé. Ma c’è un altro aspetto: pensare il
comando nella forma del governo, implica intendere quest’ultimo
come funzione della collettività politica, a cui è condizionato, dal
momento che dipende da quell’organo collegiale e plurale della federazione, che lo istituisce, detta le regole all’interno delle quali si
deve muovere, determina l’orizzonte da cui un comando legato alla
nozione di guida e governo non può prescindere; infine lo controlla,
proprio per il fatto che è istanza ad esso superiore.
Infatti, se la necessità del governo proviene dall’esserci di una
realtà plurale40, il governo è solo funzione necessaria ma derivata
da quella realtà, da cui dipende. Come si è visto a proposito di Althusius, il fatto che la realtà politica più alta sia sottoposta ad una
funzione che essa istituisce non è comprensibile se si resta all’interno della logica della sovranità (del concetto di potere), ma lo è
invece se si riflette su cosa sia governo. Se l’azione di governo è
necessaria a causa della pluralità della realtà politica, si capisce che
il governo deve essere dotato di una sua forza ed autonomia, e deve
avere un carattere unitario: è l’istanza unitaria che è necessaria alla
pluralità e non può dunque esso stesso essere caratterizzato dalla
pluralità. Ma quello che più rileva è che, anche se è vero che il go40
Come ben riconosce Brunner (La ‘casa come complesso’ e l’antica ‘economica’
europea”, e I diritti di libertà nell’antica società per ceti, in Per una nuova storia
costituzionale e sociale, a cura di P. Schiera. Vita e pensiero, Milano 20002, rispettivamente p. 146 e 202; tale testo traduce molti dei saggi apparsi in Neue Wege2der
Verfassung- und Sozialgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1968 ), e
come si può verificare in modo chiaro nel nesso che si pone tra l’idea di giustizia e
la necessità della guida e del governo di un’entità plurale (anima o polis) nella Repubblica di Platone (cfr. G. Duso, Platone e la filosofia politica, in La filosofia
politica di Platone, a cura di M. Chiodi e R. Gatti, FrancoAngeli, Milano 2008, sp.
pp. 20-21).
100
Giuseppe Duso
verno è istituito dalla realtà federata, la sua volontà e la sua azione
non esprimono rappresentativamente quella realtà: le sue azioni
non sono imputabili alla totalità del corpo politico e dunque a tutti i
membri, ma piuttosto a colui, o coloro che governano. Proprio per
questo i membri si trovano non espressi da chi governa, ma sempre
di fronte a chi governa: non da lui rappresentati, ma presenti di
fronte a lui.
Ne risulta che, se è vero che il governo per svolgere la sua funzione deve essere autonomo e forte, tuttavia deve continuamente
fare i conti con la realtà plurale del corpo politico, sopra e sotto di
sé, e niente può se non lavora all’accordo delle parti. Inoltre in questa concezione del governo è evidentemente l’organo che esprime la
federazione ad essere l’organo più alto, in quanto in esso si esprimono rappresentativamente i governati: sono i governati la grandezza politica maggiore in un modo di pensare la politica che implica la categoria del governo. Naturalmente si intende che qui,
come sopra si è cercato di indicare, il termine “rappresentanza” ha
un significato diverso dal concetto moderno di rappresentanza e
dalle procedure che questo attiva a partire dalla rivoluzione francese. In questo caso rappresentare non significa autorizzare un altro
ad esprimere un comando, sul cui contenuto io non intervengo e che
tuttavia a priori considero come il comando che io do a me stesso.
Piuttosto la rappresentanza rende presenti politicamente i cittadini
nel loro concreto, nelle differenze che li caratterizzano; ed è in relazione al loro concreto che i cittadini partecipano alla vita politica,
dunque non come singoli. Nell’organo collegiale sono le molteplici
realtà della società con le loro funzioni e i loro bisogni che vengono
a trovare espressione.
Se si considera come problema politico la relazione di governo,
si può comprendere non solo che il comando non possa essere imputato ai cittadini (secondo la strategia del meccanismo democratico), ma anche che, così come ci sono motivi di tensione e possibile conflitto tra le parti, ugualmente ci sia la possibilità continua
di tensione e di conflitto tra l’azione di governo e i governati, proprio perché il comando è attribuibile al governo e i governanti
hanno una dimensione politicamente attiva. Tuttavia quella di conflitto non è qui categoria determinante e originaria (lo è piuttosto in
una concezione della politica ridotta a razionalità formale: solo in
questa conflitto e ordine sono termini che hanno in quanto tali una
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
101
loro intelligibilità): esso prende piuttosto il suo significato e anche
il suo ruolo all’interno di un orizzonte in cui non solo i governati
hanno un punto di vista nei confronti di chi governa, ma si caricano
anche del problema del governo che è funzione dei governati nel loro insieme, nella loro totalità, attraverso l’organo federale. Allora,
assieme alla resistenza41, devono essere pensati anche accordo e cooperazione; ma, soprattutto, i governati si scoprono come costituenti quella realtà complessiva che istituisce il governo e da cui
quest’ultimo dipende.
6. Federalismo e trasformazioni della democrazia
rappresentativa
Nell’ottica del presente intervento il federalismo non è un modello
di costituzione, ma un modo per pensare la politica, necessario anche per comprendere la stessa realtà in cui viviamo. Questa
comprensione non appare possibile attraverso quelli che chiamiamo
i concetti moderni, quelli che danno luogo alla razionalità della
forma politica: insomma, quelli nati con il giusnaturalismo, diffusi
nell’illuminismo e recepiti alla base delle costituzioni moderne.
Questi concetti hanno bensì prodotto modificazioni rilevanti nella
realtà, ma non permettono di comprendere la realtà stessa a cui
hanno dato luogo. Qui il discorso potrebbe divenire ampio, e potrebbe partire dagli effetti prodotti da concetti come quelli di
sovranità del popolo, di potere costituente, di rappresentanza politica, di uguaglianza e libertà, di società civile e Stato e dalla negazione della dimensione politica dei raggruppamenti sociali. Una
sterminata bibliografia si è esercitata sull’astrazione che questi concetti hanno in relazione alla realtà determinata della vita politica.
41
Mi sembra del tutto insoddisfacente quel modo di intendere il paradigma del governo e la governamentalità che la riduce a dominio, magari a dominio inevitabile,
e che vede come unica via per una soggettivazione che non sia prodotta dal potere
e dal dominio, la sottrazione e la resistenza. Un tal modo di pensare il governo lo
intende semplicemente come il riempitivo concreto del potere, l’altro lato del dispositivo del dominio e rimane all’interno della logica moderna del potere, senza
in realtà riuscire a porre il governo come problema. Pensare il governo comporta
sempre pensarlo dal punto di vista dei governati, ma questo deve condizionare anche il punto di vista di chi governa.
102
Giuseppe Duso
Mi limito qui ad indicare solo due punti – decisivi in relazione
alla forma politica moderna e centrali nella nostra realtà politica –
in cui gli effetti prodotti dai concetti e dalle procedure costituzionali
non sono compresi attraverso quegli stessi concetti, ragione per cui
il richiamo alla lettera della carta costituzionale, lungi dal riuscire a
guidare i processi, ha come effetto il suo opposto, cioè dà luogo a
realtà che sono in contraddizione con le intenzioni che hanno motivato quei concetti. Ambedue questi punti assumono oggi il loro significato determinato all’interno di una realtà che è segnata profondamente dalla presenza dei partiti, anche se la funzione effettiva che
questi sono venuti ad assumere nell’esercizio del potere è difficilmente determinabile sulla base della carta costituzionale.
Il primo punto riguarda il concetto di rappresentanza. Si è detto
che, propriamente, la rappresentanza politica è un atto di autorizzazione, in cui si rende un altro attore delle nostre azioni: ciò appare
chiaramente in quella figura, singolare da un punto di vista giuridico, che è il mandato libero. Si tratta di un aspetto decisivo del
moderno concetto di rappresentanza, che mostra lo scarto operato
dalla Rivoluzione francese nei confronti dell’ancien régime. Tale
aspetto viene ribadito dalla costituzione italiana, quando si dice che
il deputato è in Parlamento “senza vincolo di mandato”. Se è vero
che ciò caratterizza lo iato tra rappresentante e rappresentati, che
sopra è stato ricordato, tuttavia affermare che non ci sia proprio
nessuna relazione tra la concreta volontà dell’elettore e quella
dell’eletto può sembrare unilaterale ed eccessivo. Una vasta letteratura tende infatti a mostrare che c’è un altro aspetto della rappresentanza, quello della vicinanza tra rappresentante e rappresentato,
quello che spesso è nominato come “rappresentanza sociologica”, o
che si riferisce ad un sentimento di vicinanza tra elettore ed eletto42.
Ma ci si può chiedere come sia possibile questo legame, dal momento che nella scheda elettorale si indicano solo nomi, o partiti
che presentano nomi, mentre non si scrive nessuna esigenza o nes-
42
Cfr. ad esempio H. Pitkin, The Concept of Represetation, University of California Press, Berkeley 1967, 144-167, tr. it. La controversia mandato-indipendenza”,
in La rappresentanza politica, a cura di D. Fisichella, Giuffrè, Milano 1983, pp.
177-212 e P. Rosanvallon, La legitimité democratique. Impartialité, réflexivité,
proximité, Seuil, Paris 2008, sp. pp. 267 ss.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
103
sun dettato su quello l’eletto dovrà fare. Per chiarire in cosa consista o come sia possibile una relazione di volontà determinata tra
elettore ed eletto, bisogna necessariamente fare riferimento ai partiti, i quali presentano candidati sulla base di programmi che indicano
valori e atti politici che si intendono effettuare. Allora si potrebbe
dire che, eleggendo dei candidati sulla base dei programmi dei partiti, in qualche modo il cittadino esprima non solo una delega, ma
anche una sua volontà su quale dovrà essere l’azione politica nei
suoi contenuti: sembrerebbe così superata una razionalità meramente formale e quella mancanza di indicazioni che sembra caratterizzare il mandato libero.
Ma se si guarda ai programmi dei partiti e alla loro funzione si
possono nutrire dei dubbi sul fatto che essi possano costituire una
via per la partecipazione dei cittadini. Non solo infatti i contenuti
dei programmi sono poco indicativi di quello che effettivamente si
farà nell’esercizio del potere, ma progressivamente i programmi dei
partiti tendono ad identificarsi e ad essere sempre meno influenti, e
ciò per il semplice motivo che la funzione dei programmi è quella
dell’allargamento di ciò che viene, impropriamente, chiamato “consenso”43. Nella rappresentanza degli interessi della società il partito
ha un primo interesse basilare, quello alla propria sopravvivenza e
all’allargamento della propria base elettorale. In ogni caso, se è vero che c’è questo legame tra deputato e partito, al punto che vi è
grande scandalo nell’opinione pubblica se un candidato si comporta
in Parlamento in modo dissonante nei confronti delle direttive del
partito, significa che il presunto rapporto concreto di volontà tra elettore ed eletto dipende proprio da ciò che è negato dalla
costituzione, cioè che ci sia vincolo di mandato. Che cosa significa?
Che è ritornato un mandato imperativo? Non si tratta certo della
forma rappresentativa propria del medioevo o dello stato per ceti.
Piuttosto di una strana situazione in cui organi estranei alla articolazione della società e dotati di una loro organizzazione burocratica
43
Lasciamo qui da parte la considerazione che i programmi hanno sempre meno
influenza anche a causa della deriva mediatica che caratterizza le democrazie odierne e della conseguente personalizzazione che concentra l’attenzione degli
elettori sui leaders e sulle loro capacità di colpire l’immaginazione e di condizionare l’opinione.
104
Giuseppe Duso
che non coinvolge i cittadini, tendono ad agire politicamente attraverso quella forma rappresentativa che nella costituzione continua
tuttavia ad apparire caratterizzata dall’indipendenza. Questo intreccio di rappresentanza e funzione dei partiti da una parte non risolve
lo iato sopra indicato e dall’altra mostra una realtà che non è più descritta e normata dalla carta costituzionale.
Questa considerazione, in cui si riconosce che le decisioni del
corpo rappresentativo dipendono da organi esterni ed istituzionalmente estranei a quel Parlamento che avrebbe il compito di
esprimere la volontà sovrana del popolo, introduce un altro problema, ancora più sconcertante in quanto si riferisce a un elemento
centrale per la costituzione, quello della divisione dei poteri. Si può
ricordare che questo è un punto così decisivo da fare ritenere, fin
dall’epoca della Rivoluzione francese, che non c’è costituzione se
non c’è divisione dei poteri: in mancanza di questa non c’è stato costituzionale, ma dispotismo. Ora, tralasciando le considerazioni
relative al fatto che nella logica della sovranità non sono pensabili
poteri indipendenti, ma tutt’al più funzioni diverse di un potere che
non può essere che unico, se noi guardiamo alla odierna discussione
politica e costituzionale, possiamo notare che vengono manifestati
meraviglia e sdegno per il fatto che spesso sia il governo a legiferare contro appunto il dettato costituzionale della divisione dei poteri
e l’attribuzione della funzione legislatrice al Parlamento. A quel
dettato e a quella divisione spesso si richiamano oggi i costituzionalisti affinché vi sia un corretto esercizio del potere in una costituzione democratica.
Ma è proprio vero che una tale situazione è una eccezione in uno
stato determinato insieme da un’ottica centralistica, quella della sovranità e dalla presenza dei partiti organizzati? Se si tiene presente
che il governo è inteso come potere esecutivo, che dipende dalla
maggioranza parlamentare, il che significa, in realtà, dai partiti di
maggioranza, si può facilmente riconoscere che il governo costituisce il punto in cui, giorno per giorno, si verifica di fatto la
possibilità di stare assieme della coalizione che costituisce la maggioranza. Non appare strano dunque che ci sia una iniziativa legislatrice del governo, non solo attraverso l’uso dei decreti legge, ma
anche per quanto riguarda le leggi ordinarie. Infatti da una parte,
come si è detto, la possibilità di decisioni comuni da parte dei partiti, cioè la possibilità di espressione di una loro volontà unitaria, si
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
105
verifica nel luogo del governo, e dall’altra, proprio a causa di quel
legame tra deputati e partiti che è ritenuto ovvio, avviene che le decisioni del Parlamento siano in realtà prese al di fuori, cioè nelle
sedi dei partiti; cosa di cui ci ha resi avvertiti già Max Weber quasi
un secolo fa. Ciò può essere facilmente verificabile constatando
come le aule delle Camere siano spesso vuote, talvolta anche quando si discutono leggi rilevanti.
A questa si può accompagnare una seconda considerazione.
L’esecutivo procede con decreti legge perché ha bisogno di intervenire con tempestività per una efficace azione di governo. Forse il
problema non risiede tanto in questa esigenza, quanto nel fatto che,
se hanno riscontro nella realtà le cose qui ricordate, il governo, lungi dall’essere potere meramente esecutivo, rischia di essere il vero
potere, senza il contrappeso e il controllo che dovrebbe essere esercitato dal quel potere primario che si ritiene essere il legislativo. I
partiti che danno luogo all’esecutivo sono infatti i partiti che costituiscono anche la maggioranza parlamentare. Nei confronti di una
tale situazione il richiamo al dettato della carta costituzionale, cioè
ad un Parlamento che legiferi e ad un governo che sia potere esecutivo, non solo sembra non avere coscienza di questa realtà, ma
rischia di condurre ad un esito opposto a quello a cui si mira.
Nei confronti di una tale realtà il compito appare quello di ripensare questa divisione dei poteri, comprendendo insieme le prerogative che deve avere il governo e la necessità che, proprio perché
questo svolga al meglio la sua funzione, ci sia un organo che effettivamente sia ad esso superiore, lo controlli, non solo, ma determini
quelle regole o quelle leggi fondamentali, all’interno delle quali solo si può esercitare l’attività di comando e di governo. In questo
modo l’assemblea parlamentare potrebbe non solo essere un contrappeso, ma anche rappresentare la grandezza politica primaria. Mi
pare che un federalismo come quello su cui qui si riflette, offra
strumenti per comprendere questa realtà e nello stesso tempo per orientarla, in modo che ogni organo possa al meglio esprimere le sue
funzioni. A questo duplice scopo sembra più adeguato un organo
collegiale che abbia le funzioni che di seguito si indicheranno e una
funzione di comando intesa come governo, nel senso sopra indicato,
piuttosto che la tradizionale impostazione concettuale della relazione tra potere legislativo e potere esecutivo.
106
Giuseppe Duso
7. Un assetto costituzionale federale
Il fatto che alcune categorie fondamentali del federalismo siano qui
emerse proprio al fine di comprendere la realtà in cui siamo, permette di precisare il significato che ha nel contesto della presente
riflessione il tema dell’assetto costituzionale. Non si tratta tanto di
porre un modello idealtipico, quanto piuttosto di chiedersi in quale
direzione andare per pensare al meglio la realtà politica in relazione
alle categorie che sono emerse. Senza dunque pensare di indicare
un modello di costituzione federale, che è fuori dal piano storico
concettuale di questo intervento (oltre che dalle mie competenze), e
tenendo presenti le teorie di una costituzione federale che sono state
elaborate da Beaud e da Ortino, intendo solo esprimere alcune esigenze e alcuni problemi. E ciò in linea con Beaud, che supera la
tradizionale alternativa tra Stato federale e federazione di Stati (alternativa tutta segnata dal concetto di sovranità), e senza intervenire
sul livello specifico e sulla ampiezza della realtà considerata (regionale, statale, internazionale), sulla base della convinzione che, se ci
si pone in ottica federalistica, questa non possa non coinvolgere tutti i livelli della realtà politica44.
Innanzitutto mi sembra necessario operare una distinzione in relazione al tema della pluralità. Questa si deve manifestare sopra
l’istanza di governo, in quanto riguarda l’organo che deve istituire e
controllare il governo, ma anche sotto, in quanto il governo deve
confrontarsi continuamente con le innumerevoli istanze e aggregazioni presenti nella società. Nell’organo più ampio in cui si esprime
44
Certo è che, se si andasse nella direzione di vere e proprie proposte, l’esigenza
duplice, che qui si vuole mettere in luce, dell’agire delle parti nell’ottica della totalità, e di un governo che si confronti continuamente con le istanze presenti nella
società, dovrebbero trovare determinazioni diverse a seconda del livello in cui ci si
colloca. In ogni caso un modo di pensare federalistico riguarda tutti i livelli politici. Già ho cercato di mostrare che, se è necessario per pensare l’Europa come
entità politica, pensare la politica in modo diverso da quello che ha prodotto la
forma-stato, non è possibile poi mantenere la concettualità dello Stato per quelle
realtà che come Stati appunto si sono manifestate. (cfr. G. Duso, Tra Unione europea e forma-Stato: pensare il federalismo, in L’Europa e il futuro della politica, a
cura di A. Carrino, Società libera, Milano 2002, pp. 199-233, e L’Europa e la fine
della sovranità, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”,
31 (2002), pp. 109-139.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
107
la totalità dell’entità politica, la pluralità non può essere quella rappresentata dei partiti, perché la forma partito si è affermata proprio
nell’orizzonte della sovranità, con le difficoltà sopra evidenziate. Il
pluralismo dei partiti è tutto inserito nella morsa dell’unità politica
e nel centralismo che caratterizza lo Stato, e non è certo la via per
riconoscere una pluralità politica. Il problema consiste allora
nell’identificare le modalità e il senso che possono avere i membri
diversi e dunque la pluralità nell’organo collegiale.
Una prima determinazione a questo proposito è quella che può
apparire più ovvia in relazione alle esperienze che storicamente si sono date, quella cioè territoriale. Tralascio qui di indicare alcuni
problemi che sorgono a questo proposito, che riguardano sia la inadeguatezza, in relazione alla struttura di un pensiero federalistico, del
concetto di decentramento (che implica il centro come punto di partenza e non i membri federati), sia la riduzione della pluralità
territoriale alla dimensione regionale45. Sono piuttosto le autonomie
locali, in primo luogo i comuni, che dovrebbero essere valorizzati,
ma ciò appare assai difficile, specie in Italia nella situazione attuale,
in cui i tali entità sono in un numero elevatissimo e hanno dimensioni
assai diverse in relazione alla loro possibilità di autoorganizzazione e
relativa autonomia. Ciò richiederebbe allora uno sforzo di ripensamento e di riorganizzazione. Ma, in ogni caso, è da tener presente che
la dimensione territoriale da sola non è sufficiente, in quanto, sia pure
in un territorio più piccolo, si può continuare a pensare le relazioni
politiche (elezioni e esercizio del potere) sempre all’interno del dispositivo politico della sovranità, riproponendo le difficoltà nei confronti della dimensione politica del cittadino che sono state sopra ricordate. Tale aspetto della presenza di una pluralità di istanze e di
aggregazioni che si ripresentano all’interno delle realtà territoriali è
difficilmente pensabile nell’organo della federazione. Forse lo può
essere in modo indiretto, trovando espressione all’interno delle autonomie locali e dunque in quella che indicherei come la pluralità che
45
Sui problemi che sorgono se si intende risolvere il problema del federalismo in
chiave regionale, anche quello del riproporsi della logica partitica, si veda I. Ruggiu, Contro la camera delle regioni, Iovene, Napoli 2006.
108
Giuseppe Duso
dal basso interviene e agisce sul governo locale46. Attraverso l’articolazione territoriale potrebbe forse avere espressione quella presenza politica di gruppi e aggregazioni che deve caratterizzare un modo
federalistico di pensare la politica che renda possibile la partecipazione. Un problema può allora essere quello di come si possa pensare
la comunicazione e l’osmosi tra questa mobile pluralità e quella più
istituzionalizzata che coincide con l’organo collegiale della federazione.
In ogni caso la pluralità determinata (e non un pluralismo ideologico) deve caratterizzare l’organo collegiale, che rappresenta i membri
della federazione. È il riferimento a questa determinazione che muta
radicalmente il senso della rappresentanza nei confronti di quanto avviene nelle elezioni moderne. Si tratta cioè di rendere presente una
realtà determinata e non di autorizzare qualcuno ad esprimere (e qui
rappresentare significa dare forma a ciò che non è presente) la volontà del popolo. Ma proprio questa caratterizzazione, di una pluralità che
non può risolversi in una unità che faccia sparire la dimensione politica
dei membri, ci porta a riflettere su quale debba essere la funzione di tale organo. A ciò spinge anche la considerazione sopra ricordata e
condivisa da diversi autori, che in alcune esperienze federalistiche la
pluralità presente nel momento costituente sia poi andata persa a causa
di una strutturazione centralistica tipica della statualità. Tale funzione
non può essere intesa sulla base di quel potere costituente che, nella
costellazione dei concetti moderni è segnato da una pretesa di assolutezza ed onnipotenza, in quanto esprime il soggetto collettivo, il
popolo, da niente condizionato e perciò sovrano. Un tale potere sembra
segnato dalla morsa dell’unità, come pure dall’aporia che si manifesta
nel momento in cui si pensa l’agire determinatamente costituente di un
soggetto che non è costituito.
Ben altra è la funzione costituente in un’ottica federale. Da una
parte si basa su realtà plurali presenti, determinate e perciò costituite, che dunque possono esprimersi concretamente e agire. Il
compito che una tale unità plurale deve assolvere è quello di deter-
46
La funzione del governo è necessaria al livello unitario della federazione, ma anche all’interno dei membri, che si autogovernano, implicando a loro volta la figura
di chi governa, l’organo collegiale e le forme di aggregazioni che interagiscono
con il governo.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
109
minare, nella contingenza e nella concretezza del momento, cosa sia
un vivere giusto per la società, quali siano cioè le regole che vincolano il governo. Un tale organo può mantenere la dimensione
politica dei membri e non risolversi in una unità che cancelli la pluralità, se non è il soggetto a cui imputare il comando unitario
necessario per la vita della società politica, che è da attribuire al governo, ma mantiene la funzione di istituzione e controllo continuo
di quest’ultimo. Questa funzione non si esaurisce, ma continua in
relazione ai mutamenti che si danno nella realtà – si pensi al fenomeno della migrazione – e ai cambiamenti e alla maturazione del
senso etico diffuso nella società. Ma il compito di determinare le
regole di giustizia riguarda l’intera società e non può essere attribuito esclu-sivamente a quell’organo rappresentativo, che pur tuttavia
svolge a tale riguardo una funzione decisiva. La potenza costituente
non è mai riducibile a questa funzione costituente, ma riguarda la
totalità: perciò è di grande importanza la comunicazione (che deve
essere anche strutturale e costituzionale) tra quel movimento concreto in cui i diversi soggetti esprimono attività politica nell’ambito
delle autonomie territoriale (vedi § 8), e la funzione costituente
propria dell’assemblea federale. Solo riuscendo a mantenere aperta
la via dell’osmosi tra l’espressione di tutte le istanze che si manifestano nella società e l’organo rappresentativo, il federalismo può
costituire la modalità che maggiormente riesce a pensare insieme
potenza costituente e macchina costituzionale, senza ridurre la prima alla seconda.
Per determinare le leggi fondamentali un organo che vuole mantenere la pluralità non può procedere con semplici decisioni a
maggioranza, che impegnano tutti i membri pur potendo essere a
scapito di alcuni di essi. Spesso i costituzionalisti che tentano di delineare la forma della federazione ricordano come tipica di un’ottica
federale la regola dell’unanimità in luogo di quella democratica della decisione a maggioranza47. A volte questa indicazione trova un
suo chiarimento nel riferimento ad esperienze passate, come quelle
delle Diete, in cui i membri contano in quanto membri e non in re47
Cfr. Ortino, Introduzione cit. p. 296, anche se il discorso resta legato ad una federazione di stati. Ben si intende tuttavia che la decisone nella forma della
maggioranza tende ad annullare la pluralità di un organo.
110
Giuseppe Duso
lazione alla loro consistenza numerica, e la cui presenza politica
non può essere annullata da una decisione presa a maggioranza48.
Senza entrare nel merito della questione, se si debba cioè trattare di
vera e propria unanimità, o di larga maggioranza, di quale possa essere la funzione legislativa di questo organo e quali siano leggi
fondamentali e quali di minore rilevanza, credo sia da mettere in rilievo l’esigenza che questa indicazione dell’unanimità esprime e
soprattutto la differenza di ottica che si viene a determinare nei confronti del modo in cui si pensa oggi l’assemblea legislativa, che
funziona in modo dicotomico e dualistico, con un continuo scontro
tra maggioranza e opposizione, all’interno dell’immaginario che
contrappone destra e sinistra49. Se il fine è quello di determinare le
regole fondamentali, sia pure in una situazione in movimento, e di
contenere i conflitti in una dimensione produttiva, allora il compito
è quello della ricerca dell’accordo e non quello della affermazione
di una volontà che sarebbe unica pur non coinvolgendo parte dei
membri. Certo, se la pluralità è effettiva, l’accordo è difficile e la
conflittualità sempre presente, ma appunto, solo trovando questo
accordo è possibile la vita di una società politica e un vero controllo
dell’operare del governo.
La presenza effettiva e forte della pluralità pone l’esigenza di
una istanza che lavori all’accordo delle parti e sia di garanzia
dell’unità del corpo politico. Non solo allora sotto l’organo collegiale abbiamo l’istanza di governo manifestata nello spazio che ora
è indicato come quello del potere esecutivo, ma anche in relazione
all’organo plurale, e sopra di esso, è necessario che ci sia un’istanza
di unità. Come si è detto, la presente riflessione non ha la possibilità
e la capacità di dare indicazioni costituzionali: piuttosto vuole indicare come una serie di categorie fondamentali che modificano
l’assetto concettuale vada nella direzione di funzioni e procedure
politiche diverse da quelle attuali. Forse nella figura presidenziale,
che rappresenta anche verso l’esterno l’unità della entità politica federata, può essere ravvisata quella funzione unitaria che la pluralità
richiede. L’esigenza che qui si vuole porre è che tanto più forte è la
48
Cfr. Beaud, Théorie de la fédération cit. p. 351.
Sulla permanenza di questo immaginario si veda ora C. Galli, Perché ancora destra e sinistra?, Laterza, Bari 2010.
49
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
111
presenza politica della pluralità, tanto più necessaria è una istanza
di unificazione.
In questo contesto sono la stessa funzione dell’organo legislativo
e il concetto di legge a cambiare. Essa non coincide più con il comando del popolo sovrano, sia questo inteso come presente
immediatamente (ciò che è per altro impensabile), sia attraverso i
suoi rappresentanti. Si tratta piuttosto del riconoscimento di una
dimensione che non è riducibile né ad una volontà unica e sovrana,
né alla volontà arbitraria dei singoli membri50. Gioca certo un ruolo
la volontà dei membri, ma nel tentativo di dare determinazione alla
questione del giusto che a tutti si impone e che mostra perciò una
sua dimensione trascendente in relazione all’arbitrio della volontà
(dei singoli e del soggetto collettivo)51. Insomma è questo lo spazio
della ricerca dell’accordo tra diversi e non dell’imposizione di una
parte contro l’altra. La molteplicità continuamente variabile delle
leggi che di volta in volta manifestano il comando necessario alla
vita della società dipende dall’iniziativa del governo (ciò è evidente
anche nella realtà odierna dove numerose sono le leggi che variano
con il variare dei governi). Attribuire il comando al governo non significa accettare una dimensione di dominio. Se governo è inteso
nel modo sopra indicato, come mostra l’antica metafora del nocchiero, esso comporta direzione, fini e un orizzonte, che non
dipendono da chi governa. Questo orizzonte, caratterizzato da concrete realtà materiali (la costituzione del corpo politico) e da punti
di riferimento ideali, che potremo riassumere nel modo di intendere
la giustizia nella società e nella vita comune, non è deciso da chi
governa, ma determinato, sempre in modo contingente e provvisorio, dall’organo collegiale, nel quale si esprime l’insieme dei gover50
Si pensi alla nozione aristotelica di nomoi, secondo i quali solo si può dare un
comando nel senso del buon governo, o si pensi al senso che il termine di legge
viene ad avere nel medioevo (magistrale su ciò P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 20084).
51
Perciò un pensare in modo federalistico mi sembra consono alla questione della
teologia politica se questa è intesa come la struttura della prassi che implica, non
certo una realtà trascendente (il che costituirebbe un dualismo logicamente ingiustificabile), ma un movimento di trascendimento – che le è costitutivo – nei confronti della volontà arbitraria del soggetto e dello status quo della realtà politica
(cfr. Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica, in corso di pubblicazione)
112
Giuseppe Duso
nati. È così che si afferma la legittimità federativa. La legittimità
non consiste, come nel meccanismo della democrazia rappresentativa, in procedure che permettano di pensare che il comando
sia imputabile ai cittadini, ma piuttosto nel continuo intervento
dell’organo federale e dei cittadini attraverso di esso.
Mi sembra felice la mossa di Beaud, che critica una concezione
bipolare della federazione in favore di una tripartita, che prevede
l’organo in cui si manifesta la totalità della federazione, i membri
che la costituiscono e il governo centrale. Mi chiedo però, in relazione a quanto sopra detto, se non sia necessario intendere
quest’ultimo nella dimensione del governo anziché in quella del potere legittimo: in maniera tale cioè che gli atti del governo federale
non siano attribuibili sulla base di un suo “monopolio rappresentativo” alla federazione, ma proprio a chi governa52. Mi sembra che
solo in questo modo si possa mantenere la funzione di controllo da
parte dell’organo collegiale e la presenza politica dei singoli membri: se cioè, alla determinazione delle regole da parte dell’organo
collegiale, corrisponde una funzione di guida e di comando di un
governo da quell’organo istituito e controllato.
La pluralità è presente non solo sopra il governo, ma anche, possiamo dire, sotto. Infatti proprio per il fatto che questi non esprime
la volontà del soggetto collettivo, la sua azione ha continuamente a
che fare con quella pluralità di gruppi e aggregazioni che caratterizzano ciò che spesso si indica come società. Per essere efficace e per
svolgere la sua funzione, il governo non può non confrontarsi con
tutte le istanze presenti nella società. Questo modo di intendere il
governo non è proprio di una concezione organicistica e irenica. Al
contrario, è la conflittualità a mostrarsi sempre possibile, sia tra cittadini e governo, sia tra gli stessi gruppi di cittadini, per la
differenza dei bisogni e degli interessi. Tuttavia questa conflittuali52
Quando Beaud pensa che il governo federale esprima rappresentativamente la
volontà di quelli che sono chiamati gli stati membri (p. 160), mi sembra corra il rischio di ricadere nella logica della sovranità. Se fosse credibile la riflessione qui
avanzata non sarebbe nemmeno necessario usare – come fa Beaud - due modalità
di scrittura del termine Federazione, quella con la F maiuscola per la totalità. e
quella con la f minuscola per il governo centrale, in quanto i tre elementi della federazione senza ombra di confusione sarebbero l’organo collegiale (assemblea
federale), il governo unitario e i membri della federazione.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
113
tà, nelle due direzioni indicate, non ha significato di per sé, non fa
capire cosa sia il politico; tanto meno ne costituisce il concetto originario, come vorrebbe Schmitt. La conflittualità tra i gruppi e le
parti della società deve essere mantenuta in una dimensione produttiva e non dissolutiva dell’intero, affinché una entità politica possa
esistere: ciò vuol dire che prende il suo significato dal concreto in
cui si dà e da un orizzonte che la eccede.
In relazione poi al governo, i gruppi devono essere coinvolti politicamente, in modo tale che, attraverso di essi, lo siano i cittadini.
Così si supera il dualismo presente nella concezione odierna della
democrazia, tra decisioni del governo, che sono ritenute legittimate
democraticamente, e le manifestazioni di volontà da parte dei cittadini che sono connotate dall’atteggiamento di protesta. I cittadini
infatti non sarebbero allora presenti politicamente solo nella forma
della protesta, ma sarebbero coinvolti strutturalmente nelle decisioni politiche. Certo non deciderebbero secondo una loro propria e
incondizionata volontà: è proprio la complessità e la pluralità delle
istanze che richiede la decisione del governo. Ma questa decisione
non è quella che il concetto di sovranità comporta, connotata dalla
assolutezza e da un carattere creativo, primario. Si tratta piuttosto di
una funzione, necessaria ma contemporaneamente dipendente da
regole che ha sopra di sé e condizionata dalle pluralità di istanze e
di aggregazioni che ha sotto di sé. Ciò che allora caratterizza il gesto dei cittadini nei confronti della decisione di governo, non è solo
la resistenza (anche se permane una strutturale tensione che può
tramutarsi in resistenza), né una adesione che abbia il senso dell’acclamazione (in cui, come dice Schmitt, il popolo risponde e non
domanda). Una adesione di questo tipo ha caratterizzato la democrazia plebiscitaria, ma appare presente anche nella tendenza attuale
a pensare il coinvolgimento democratico dei cittadini nella forma
dell’assenso teatrale manifestato nei confronti di un leader. Il coinvolgimento ha piuttosto il significato di una partecipazione, in cui i
cittadini esprimono azione politica.
Un tal modo di intendere la pluralità e il suo significato politico
comporta il superamento di quell’immaginario della forma politica
che è determinato dai due poli costituiti dal soggetto individuale e dal
soggetto collettivo: solo così si può pensare la partecipazione: se
l’agire politico dei cittadini è concepito non nella dimensione dell’individualità, ma in quella del gruppo e dell’aggregazione, dell’agire
114
Giuseppe Duso
insieme con gli altri. Compito fondamentale mi pare essere quello di
responsabilizzare politicamente tutte le forme di aggregazione all’interno delle quali concretamente i singoli cittadini vivono, hanno bisogni, saperi, competenze. Qui si pone uno dei problemi di più
difficile soluzione: come dare carattere costituzionale ed efficace alle
aggregazioni senza tuttavia cristallizzare situazioni che sono fluide e
in continuo movimento. Al di là dell’organo collegiale della federazione è forse da pensare quale dimensione istituzionale dare alla
relazione continua che il governo deve avere con le varie componenti
presenti e attive nella società. Tutto ciò non può evitare di confrontarsi con il tema della rappresentanza politica.
8. Trasformazione della rappresentanza
Quanto è stato detto sugli effetti che la presenza dei partiti comporta in relazione alla rappresentanza potrebbe far pensare che il
problema consista nella alternativa o nell’incrocio dei due aspetti
che essa ha manifestato nella storia: quello dell’indipendenza e
quello del mandato; che si possa cioè sopperire allo iato determinato dal processo di autorizzazione, mediante la immissione di forme
di rappresentanza in cui più forte sia il legame di mandato tra rappresentato e rappresentante. Nella situazione odierna un tale intreccio non si può escludere troppo drasticamente53, ma tuttavia non
appare risolutivo in una realtà in cui la stessa rappresentanza non
riveste più la centralità che ha avuto nel passato. Inoltre è da ricordare che il singolo è tante cose insieme, che non si riducono ad una
sola appartenenza; perciò una rappresentanza legata solo ad un lato
della sua concreta esistenza, ad esempio quello del lavoro, non potrebbe essere la via per la sua partecipazione politica, Il compito è
forse allora quello di responsabilizzare politicamente tutte quelle
aggregazioni attraverso le quali si esprimono i diversi interessi, bisogni punti di vista che toccano la vita concreta del singolo:
attraverso queste ci potrebbe essere una sua partecipazione.
53
Così come non si può escludere l’esigenza di forme che implichino una relazione più identitaria tra rappresentati e rappresentanti, appare anche oggi difficilmente ipotizzabile una eliminazione di quella modalità di legittimazione-autorizzazione della classe dirigente che avviene attraverso le elezioni.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
115
In ogni caso, la concreta relazione che si determina tra il corpo
rappresentativo e l’insieme dei governati non si risolve nel voto, né
nella istituzione e nel mutamento del corpo rappresentativo. Come
ha notato Rosanvallon54, è da ricordare innanzitutto quella continua
forma di presenza che appare necessaria per rinnovare e verificare
la legittimazione espressa con il voto. È uno dei motivi per i quali la
politica è sempre più teatro continuo e si fa più in televisione e attraverso i media che nelle sedi appropriate. Questo aspetto mostra
l’accentuarsi della deriva mediatica che appare il destino di una
forma democratica in cui l’opinione e la formazione dell’opinione
vengono ad assumere una funzione decisiva, assieme alla rilevanza
dell’elemento personale costituito dalla figura del leader: è allora
tutto interno ad una forma democratica condizionata dal concetto di
sovranità. Ma è un altro l’aspetto messo in luce dall’autore che appare rilevante per il nostro tema. Quello delle continue interazioni,
di scontro e di resistenza, da parte dei cittadini nei confronti delle
decisioni politiche. Queste non sono accettate per il solo fatto che
sono legittimate dalle elezioni, e l’opposizione nei loro confronti
non coincide con la volontà di mutare i governanti e la maggioranza. Piuttosto, nelle manifestazioni di contestazione, resistenza e
verifica delle decisioni istituzionali, i gruppi di cittadini, tendono a
farsi sentire, ad essere presenti, a contare, ad avere effetti nei processi in corso: cioè ad esprimere azione politica, e ciò non
autorizzando qualcuno ad agire, ma proprio nella loro figura di governati.
Tale presenza dei cittadini non è facilmente riportabile a realtà
oggettive, che abbiano una connotazione fissa e determinata, basata
sull’esistenza di classi sociali e su settori stabili della società con i
loro bisogni. La società ha carattere complesso e mobile, come si
può notare da temi e modalità che connotano spesso le forme di aggregazione. I temi innanzitutto non sono riducibili a quelli che
hanno un fondamento in qualche modo oggettivo e strutturale, legato alla realtà e alle forme del lavoro, alle situazioni del territorio, a
bisogni determinati. Questi non possono essere messi da parte, e risultano rilevanti in un’ottica federalistica che voglia superare la
54
Cfr. cfr. P. Rosanvallon, La legitimité democratique. Impartialité, réflexivité,
proximité, Seuil, Paris 2008, sp. pp. 267 ss.
116
Giuseppe Duso
riduzione della pluralità al pluralismo ideologico e quell’assolutizzazione dell’opinione che sta alla base del meccanismo formale
della democrazia rappresentativa. Ma certo temi di aggregazione
sono anche esigenze ideali culturali, religiose. E anche se non si
può non tenere conto di esigenze “oggettive” e strutturali, bisogna
anche riconoscere che le aggregazioni vengono spesso ad assumere
il carattere di evento, che sfugge ad ogni possibilità di classificazione, previsione e inquadramento.
A questo proposito non si può non mettere in evidenza una modalità oggi assai rilevante del formarsi delle aggregazioni. Mi
riferisco al tema segnalato sia da Schiera che da Ortino della rete
informatica. Se è vero che, come giustamente afferma Schiera55, la
comunicazione e la conoscenza sono elementi – da sempre e sempre più – essenziali alla politica e alla costituzione materiale, ne
consegue che una trasformazione così imponente della comunicazione e della possibilità di acquisire conoscenze come quella offerta
dalla rete modifica radicalmente le capacità di informazione e di intervento. Questa annotazione non ha certo il significato che si
ritengano scomparsi gli arcana imperii e realizzata quella eliminazione del potere invisibile che Bobbio, in un suo famoso saggio,
denunciava come promessa “mancata” della democrazia56. Non è
cioè che, attraverso l’acquisizione di conoscenze e di nuove tecnologie per la manifestazione della loro volontà, i cittadini abbiano la
competenza necessaria e la possibilità di determinare le decisioni
politiche secondo l’ideale della democrazia diretta. Ma certo si determina un largo e immediato accesso ad un quadro immenso di
conoscenze e di informazioni, che facilitano la possibilità di intervento sulle scelte e sulle decisioni di chi governa. E soprattutto si
presentano modalità nuove di aggregazione e di intervento, che
sfuggono ad ogni cristallizzazione istituzionale e giustificano ulteriormente la convinzione che non sia quella di una rappresentanza
istituzionalizzata la via risolutiva.
Si pone allora il problema di come pensare a livello costituzionale tale presenza politica dei cittadini nelle diverse forme di
aggregazione. Queste sono da coinvolgere e responsabilizzare poli55
56
Si veda il saggio contenuto nel presente volume.
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi 1984, sp. p. 16.
Pensare il federalismo: tra categorie e costituzione
117
ticamente, con l’avvertenza di evitare il rischio di ingabbiare istituzionalmente la mobilità e la complessità delle istanze. Se è rilevante
la funzione di governo, essa non ha nessuna efficacia e realtà se non
in una continua interazione con queste forme di aggregazione: dunque la presenza politica di esse fa tutt’uno con la posizione del
problema del governo. Mi pare in questa direzione significativa una
indicazione, non certo recente, di Durkheim, che, ai fini di pensare
la democrazia, attribuisce una rilevanza decisiva alla comunicazione tra la società e il governo e all’estendersi della “coscienza
governativa”57, proprio nel momento in cui si oppone al mandato
imperativo e all’ideale di una forma di rappresentanza che tenda a
realizzare l’identità di governanti e governati. All’interno della presente riflessione questa indicazione non è intesa alla luce dell’immaginario della distinzione società e Stato che sta alla base delle
moderne costituzioni, ma piuttosto nell’ottica della relazione tra azione di governo e una pluralità, che non è “solo sociale”, ma
politica; e ciò suggerisce l’esigenza di trasformazioni costituzionali,
che sappiano pensare politicamente come strutturale tale interazione.
Nello spazio di questa relazione tra governo e protagonismo politico dei governati, in qualsiasi modo venga pensata (tavoli istituzionali, commissioni, conferenze), sono certo prevedibili forme di
rappresentanza, nelle quali però il termine intende indicare un ruolo che non ha certo il significato della autorizzazione del rappresentante né quello del mandato imperativo, quale è stato previsto in altri contesti storici. Piuttosto quello di permettere quel coinvolgimento nelle decisioni politiche di forme determinate e concrete di
intervento da parte dei cittadini, appunto presenti non tanto individualmente ma nelle forme di aggregazione.
57
Cfr. É. Durkheim, Leçons de sociologie, Phisique des moeurs et du droit (18981900), PUF, Paris 1950, p. 93. L’ideale per la democrazia non sta nella eliminazione del governo, che è sempre esercitato da alcuni, quanto piuttosto nell’estendersi della deliberazione, della riflessione e dello spirito critico, potremmo dire
della interazione e della partecipazione, nell’andamento degli affari pubblici:
quanto più si estende questa interazione, tanto più c’è di democrazia. Per la presente riflessione è anche significativa l’insistenza sui corpi intermedi, sia territoriali
che professionali (pp. 99 e ss.).
118
Giuseppe Duso
In ogni caso il mutamento dell’immaginario che distingue e pone in rapporto tra loro società civile e Stato mi sembra possa servire
al superamento di una situazione come quella attuale, in cui, da una
parte i soggetti della società civile sono autorizzati e spinti a presentare e perseguire unicamente i loro interessi, e dall’altra, sotto il
linguaggio del bene comune e della democrazia, passano in realtà
surrettiziamente interessi particolari e corporativi non responsabilizzati politicamente. Il federalismo si pone come superamento della
scissione di particolare e universale e nega il preteso ascetismo
dell’innalzarsi del cittadino all’universale negando il suo particolare, come pure il dualismo secondo cui l’individuo è pensato nelle
dimensioni di cittadino e borghese. È attraverso gli interessi che bisogna passare: ma pensare questi politicamente li muta radicalmente, in quanto fa emergere quella rete di relazioni nella quale solo essi hanno realtà e determinazione. In tal modo essi perdono la
loro autoreferenzialità e sono responsabilizzati e coinvolti nel compito di affrontare i problemi comuni.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 119-169 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Sviluppo di un nuovo paradigma
federalista-comunicativo nella prospettiva
di un’Europa federale
Corrado Malandrino
1. Premessa
Il concetto di democrazia cade nella prima metà del Novecento – in
coincidenza con l’apice della “età della crisi”, che giunge al massimo delle sue contraddizioni segnando, da un lato, una crisi
concettuale dello Stato moderno e, dall’altro, il suo più inaudito rafforzamento ideologico-militare nell’esperienza del totalitarismo –
in un’impasse di contrapposizioni tipologiche che si riflette nella
stessa impossibilità di una definizione coerente e univoca di essa. In
questo quadro, il rapporto che si instaura tra le concezioni federaliste e le idee di democrazia può fungere da indicatore della crisi
dell’idea democratica otto-novecentesca, dei limiti e delle sue possibilità di realizzazione. Viceversa, proprio il carattere di progressiva trasformazione dell’idea democratica può servire a mettere in
luce il particolare rapporto che nel Novecento viene sempre più posto da determinati pensatori tra l’idea della democrazia e l’idea
federale. Anche se occorre partire dal dato di fatto che non sempre è
chiaro, né risulta affermato in modo esplicito, questo legame di
fondo tra pensiero federalista e pensiero democratico, tra l’idea della democrazia e l’idea di base del federalismo.
Ciò premesso, mi sembra condivisibile l’affermazione che
l’esigenza della partecipazione in democrazia si intrecci al tema
della pluralità nel contesto del federalismo1. Aggiungerei che la
1
Cfr. la conclusione di G. Duso, Oltre il nesso sovranità-rappresentanza: un fede-
120
Corrado Malandrino
democrazia, nel senso di una costituzione politica democratica, ha
senso solo se a sua volta sia connaturata alla dimensione della pluralità e alla partecipazione. In questo significato, l’opinione dello
scrivente è che il federalismo – se ben definito – sia stato e sia nel
presente probabilmente l’unico modo di pensare la politica che rispetti appieno tale esigenza. Il federalismo infatti può consentire
l’applicazione meno distorta della democrazia e del costituzionalismo sui piani interno e internazionale (con particolare applicazione
al caso europeo), ossia dei valori dell’eguaglianza, della tolleranza,
della giustizia, nel metodo della libertà. Tuttavia, per sviluppare tale
tesi è necessario partire dalle domande: di quale federalismo parliamo e trattiamo? Di quale costituzione intendiamo occuparci?
Dell’uno e dell’altra esistono infatti molte versioni2.
Devo qui premettere ancora che questo mio tentativo trae spunto
da due esigenze diverse, ma convergenti: a) la constatazione dell’incapacità del “federalismo europeo” di essere adeguato a risolvere il
problema del ‘potere costituente’ in ambito europeo; b) l’insoddisfazione per una concezione meramente istituzionale del federalismo, in generale, nella sua posizione del tema della critica alla sovranità dello Stato moderno. Ciò premesso entro nel merito.
Mi pare evidente che ognuno dei coautori di questo volume ha in
mente un’idea diversa di federalismo e di costituzione, in particolare rispetto alla loro applicazione sul piano europeo. Lo stesso vale a
proposito dei concetti tra loro strettamente connessi di Stato e di
sovranità. Pur senza pretendere di arrivare a collimare perfettamente le stesse idee in proposito – cosa palesemente impossibile –, è
ralismo senza Stato?, in Ripensare la costituzione. La questione della pluralità, a
cura di M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone, Milano, Polimetrica, 2008, p. 210.
2
La bibliografia in entrambi i casi è immensa e non riproducibile in questa sede.
Probabilmente non è possibile né auspicabile che si possa mai arrivare a definizioni omogenee unificanti. Per un’opportuna introduzione tematica e bibliografica cfr.
almeno R. Ruffilli, Crisi dello Stato e storiografia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1979; L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno: nascita e crisi dello
Stato nazionale, Laterza, Bari, 1997, pp. 7-10 e 39-59; P. P. Portinaro, Stato, Il
Mulino, Bologna 1999, pp. 11-18 e 154-168; C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 131 ss.; A. Bolaffi, Il crepuscolo
della sovranità, Donzelli, Roma 2002. Sul federalismo, cfr. le centinaia di definizioni possibili in un gioco spinto all’estremo limite che risultano da L. M. Bassani,
W. Stewart, A. Vitale, I concetti del federalismo, Milano, Giuffrè, 1995.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
121
però auspicabile lo sforzo per divenire consapevoli delle differenze,
che per alcuni sono profonde, al fine di capirsi reciprocamente, e
accettarsi se possibile. Tale obiettivo mi sembra impossibile da raggiungere se si resta ancorati al terreno dei dogmi, delle astrazioni
che si assumono come uniche possibili. Intendo qui parlare dei
“dogmi della sovranità” e dello “Stato moderno” che mi sembrano
emergere – pur se per essere esclusi da una prospettiva federalista –
da interventi quali quelli di Duso e di Beaud. Intendo dire che mi
sembra inaccettabile la drasticità con la quale tali definizioni dogmatiche sono riportate all’unica forma della modernità.
È assodato che la critica federalista della sovranità dello Stato
moderno, dal Federalist fino ai teorici novecenteschi (come per esempio ne scrivevano criticamente Luigi Einaudi e Silvio Trentin3),
ha superato da tempo tali definizioni di sovranità e di Stato arrivando a formulare una sorta di paradigma critico preciso4. Secondo il
taglio interpretativo qui proposto (che tiene presente la teorizzazione fattane da Norberto Bobbio) si può configurare una sorta di
‘paradigma teorico di critica all’unicità e all’assolutezza della sovranità dello Stato moderno’ nel quale convergono con maggiore o
minore facilità tutte le varie espressioni federaliste tra fine Settecento e Novecento nel corso del loro attacco duplice alla sovranità
dello Stato: a) dall’alto o dall’esterno, alla sua facoltà di determinare autocraticamente i rapporti nei confronti dei suoi simili sul piano
3
Cfr. L. Einaudi, Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni, “Il
Corriere della Sera”, a. 43, n. 362, 28 dicembre 1918, p. 2, ristampato in Id., Lettere politiche di Junius, Bari Laterza, 1920, pp. 214 ss.; S. Trentin, La crisi del
diritto e dello Stato (1935), a cura di G. Gangemi, Roma, Gangemi ed., 2006, in
particolare pp. 208 e ss.; sulla crisi di questi dogmi, cfr. introduttivamente D. Quaglioni, Un dogma in crisi: il dibattito sulla sovranità nel pensiero giuspolitico del
Novecento, in AAVV., Temi politici del Novecento, a cura di A.M. Lazzarino Del
Grosso, Napoli, CUEN, 1997, pp. 13-36. Quaglioni ricorda la frase molto radicale
di Ferrajoli sulla sovranità moderna con la quale concorda tutta la critica federalista: “Il concetto di sovranità [...] deve essere radicalmente rimosso. È questa la
rivoluzione della coscienza culturale di cui abbiamo per prima cosa bisogno” (p.
14). Di Quaglioni è da tener presente a questo scopo il primo capitolo (La sovranità: passato e presente) del volume La sovranità, Bari-Roma, Laterza, 2004, pp.
3-18.
4
Su ciò cfr. C. Malandrino, Sovranità nazionale e pensiero critico federalista.
Dall’Europa degli Stati all’unione federale possibile, in “Quaderni Fiorentini”,
2002, n. 31, tomo I, pp. 169-244.
122
Corrado Malandrino
internazionale, ponendo viceversa il problema di un patto federale
sovranazionale; b) dal basso o dall’interno, alla sua facoltà assoluta
di determinare dal centro l’ordinamento interno, ponendo al contrario il problema di un patto di convivenza con le comunità territoriali
sul piano di un radicale decentramento autonomistico, che giunge
alla definizione federale interna dei rapporti fra centro e periferia.
Prima di sviluppare nella prima parte di questo contributo le argomentazioni a sostegno di questa affermazione (in posizione critica verso altre ipotesi teoriche affacciate nel volume), che è propedeutica alla seconda parte più propositiva, sembra necessario ribadire alcune proposizioni.
Se è ormai evidente e accettata la condizione che il federalismo
“moderno” implichi il superamento radicale della concezione assoluta ed esclusiva della sovranità dello Stato moderno5, ci si chiede:
forse che ciò esige il superamento – grazie al e nel federalismo – di
una qualunque forma di potere ‘sovrano’ (nel senso di sommo, supremo) possibile e di una qualunque forma di statualità possibile? È
chiaro che per autori come Duso e come Beaud – i quali si fondano
su una teoria del nesso Stato-sovranità strettamente hobbesiana il
primo, bodiniano-hobbesiana il secondo – sia proprio questo che
accade, come è possibile evincere dai loro molteplici contributi e da
quelli presenti in questa raccolta6. Secondo la loro tesi, proprio perché lo Stato moderno è connesso indissolubilmente con la concezione assoluta ed esclusiva della sovranità (una tesi che Beaud riprende anche dalla teoria del “dilemma di Calhoun”7), ogni pensiero federalista (o teoria della federazione) non può che svilupparsi a
partire dall’abbandono della statualità moderna e di ogni concetto di
potere sovrano sia sul piano del federalismo sovranazionale, sia su
quello infranazionale.
La radicalità di tali affermazioni e delle loro conseguenze, dallo
scrivente non condivise nella misura in cui non si tratti solo di un
5
Su ciò cfr. anche C. Malandrino, Federalismo. Storia, idee, modelli, Roma, Carocci, 1998, pp. 12-19 e 40-43.
6
Per Duso si rinvia alle proprie citazioni bibliografiche da lui stesso riprodotte nel
suo saggio; per Olivier Beaud cfr. Théorie de la fédération, Paris, PUF, 2007. Da
più passi di quest’opera (cfr. per es. p. 56) viene enunciata “l’inadeguatezza” della
categoria della sovranità per pensare il fenomeno federale.
7
Ivi, pp. 58 ss.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
123
sillogismo nominalistico (nel qual caso non sarebbe nemmeno discutibile), esige che si passi attraverso un momento di discussione
critica proprio per poter poi sviluppare in positivo la proposta alternativa di un abbozzo di paradigma federalista-comunicativo nella
prospettiva della costruzione di un’Europa federale.
2. Federalismo e critica della sovranità
È noto che la concezione della sovranità e dello Stato in alcuni teorici federalisti, come per esempio Carl J. Friedrich, è radicalmente
superata in favore di un disegno costitutivo sociale e istituzionale
federalizzante che non ammette la presenza della sovranità, ma solo
di una matrice di poteri di governo diffusi e condivisi. L’idea della
sovranità che Friedrich identifica per respingerla è in tali casi riconducibile al paradigma funzionale autoritario, assoluto e centralizzatore, unificatore e semplificatore della complessità sociale, che
ha radici in Bodin e addirittura, per confermarne il carattere di
sommo potere, ma per escluderla nella versione assolutista, nella
Politica di Althusius8.
8
Credo sia necessario ricordare che Althusius, La politica, a cura di C. Malandrino, Torino, Claudiana, 2009, vol. I, pp. 527-529, in IX, 25 dà la definizione del
diritto di sovranità inteso come sommo potere la cui origine va ricercata “nella
causa e nello scopo della consociazione universale, cioè nella utilità e nella necessità della vita umana associata. Secondo quest’ultima, la caratteristica e la natura
del comando e del potere sarà di occuparsi e curarsi della mera utilità e comodità
dei sudditi”. E al par. 26 viene ribadito “che il diritto di sovranità è il potere preminente, sommo e universale di disporre di ciò che pertiene collettivamente alla
salute e alla cura dell’anima e del corpo dei membri del regno, ovvero dello Stato”.
Pertanto l’idea althusiana di sovranità, propria del popolo e demandata provvisoriamente al magistrato, ammette i requisiti della unicità, incedibilità indissolubilità
e perpetuità, ma rifiuta nettamente quello dell’assolutezza. Dalla certezza della sovranità promana la certezza e l’efficacia del governo. Questa idea della sovranità è
ben diversa dalla “forma politica moderna” (per dirlo con Duso), ma mette in essere ugualmente poteri di definizione legislativa e certezza del diritto, poiché mette
in essere una forma di comando tipico di un governo che deve decidere in ultima
istanza sebbene sotto il controllo che deve verificare che esso non si scosti dalle
finalità sostanziali e costitutive della consociazione. Ovvero all’interno delle finalità
valoriali ben definite nella natura e nell’essenza del contratto di mandato che a sua
volta si iscrive nella natura e nella finalità del patto di costituzione della politía. I
controlli e i limiti non contraddicono il potere del magistrato di decidere e di espli-
124
Corrado Malandrino
Il concetto di sovranità statale che viene respinto dalla tradizione
federalista coincide con quella tipizzazione astratta di sovranità assoluta che trova la sua espressione estrema nella scuola di pensiero
pubblicistico tedesca tra fine Ottocento e inizio Novecento (che vede in Carl Schmitt e nella Verfassungsgeschichte alcune delle voci
più autorevoli)9, tipizzazione ripresa nella riflessione di Duso nelle
pagine di questo volume e identificata ipso facto come ‘la forma
moderna del politico’10. In quanto tale, essa elimina ogni pluralità in
nome dell’unità, e porta la stessa idea di costituzione democratica a
una inconsistenza totale. Perciò è evidente che non può aver nulla a
che vedere con qualunque concezione del federalismo. Certamente
il federalismo è “irriducibile” a questa forma della modernità, perché esso fa parte di “un’altra” modernità11. La tipizzazione ripresa
care con efficacia il suo governo, fino al punto in cui esso è santo, giusto e rivolto
al bene comune e alla giustizia. Il magistrato può anche decidere di attuare iniziative contrarie all’interesse di alcune parti per il bene comune, e tale iniziativa è
legittimata a maggioranza negli appositi consigli, non all’unanimità. Cfr. anche le
pertinenti osservazioni di D. Quaglioni, Majestas (Jura majestatis), in Il lessico
della Politica di Johannes Althusius, a cura di C. Malandrino e F. Ingravalle, Firenze, Olschki, 2005, pp. 215-229.
9
Cfr. su questi temi la limpida ricostruzione di C. Galli, Modernità. Categorie e
profili critici, Bologna, Il Mulino, 1988, in part. le pp. 107-132 dedicate allo Stato,
dalle quali traspare l’esigenza – diversamente dalla linea di pensiero prescelta da
Duso e dall’indirizzo padovano da lui guidato – del rispetto della permanente complessità e pluralità dei necessari riferimenti critici in materia di Stato e sovranità,
concetti che a suo avviso sono con grande difficoltà riconducibili a unità e che è
bene invece tenere separati (specie in rapporto agli indispensabili supporti storici)
in quanto sono “tali da determinare insolubili contraddizioni perfino nel suo massimo teorico, cioè in Hobbes” (p. 124); seguendo l’esposizione di Galli si evince
come invece l’interpretazione di Duso (da questi rivendicata in altri luoghi) derivi
dalla lettura “decisionistica” di A. Biral, alla quale si contrappone una interpretazione “neo-contrattualistica” di altri studiosi, come per es. l’editore italiano del
Leviatano T. Magri. Sulla materia cfr. anche G. Miglio, Le regolarità della politica, Milano, Giuffrè, 1988, in part. il saggio Genesi e trasformazioni del termineconcetto ‘Stato’ (1981), pp. 801-832. Tuttavia, nonostante le sue rigorose affermazioni, lo stesso Miglio finisce per parlare di ‘Stato’ anche rispetto all’antichità
greca (ivi, passim e in part. p. 171).
10
In verità Duso offre qui solo le conclusioni di una ventennale ricerca sui temi
dello Stato, della rappresentanza, della sovranità e della costituzione, effettuata,
inizialmente sulla scorta del magistero di Biral, nel suo ‘cenacolo’ padovano e riflessa in vari studi da lui puntualmente citati nel suo saggio.
11
Cfr. Th. O. Hüglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World. Althusius
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
125
da Duso, però, esiste solo come figura dogmatica astratta che è poco coerente con l’analisi storica e con la stessa analisi filologica di
vari testi politici della modernità, tra cui in parte quegli stessi hobbesiani.
Se si considera la dimensione storica del divenire della sovranità, in quanto concetto esistente prima della modernità12, che si
trasforma durante la modernità e dopo – cosa che certamente non è
ammissibile per Duso e per chi segue l’orientamento precitato, ma è
sostenuto da molti altri autori – le cose possono essere poste in modo diverso.
Mi pare che Quaglioni, per esempio, ponga questo problema distinguendo tra “tipizzazione” e “categoria storica” della sovranità.
Val la pena riprendere le sue parole: “[...] Si può pensare che la tipizzazione della sovranità sia oggi al centro di una crisi, e che
invece la categoria storica della sovranità, come elemento della storia costituzionale dell’Occidente, sia difficilmente eliminabile dal
nostro orizzonte concettuale? Ci si chiede sempre più spesso se un
primato della politica sull’amministrazione e sull’economia sia pensabile senza la nozione della sovranità; se un fondamento democratico della legittimità politica sia concepibile indipendentemente
dall’idea della sovranità popolare; se esista, infine, una forma di costituzione che possa assicurare a un tempo l’unità politica e il
dominio del destino dei popoli nelle entità postnazionali”13.
In altre parole, se possiamo essere d’accordo sulla entrata in crisi
del modello vestfalico di Stato moderno, e del suo attributo consostanziale che fu la sovranità assoluta ed escludente, e inoltre
sull’esigenza radicale del superamento di una concezione dello Stato sovrano (il Leviatano), che in verità ha avuto solo nello Stato
totalitario novecentesco (come coerentemente sostiene Trentin in
on Community and Federalism, Waterloo (Ontario), W. Laurier University Press,
1999; Id. e A. Fenna, Comparative Federalisme. A Systematic Inquiry, Toronto
(Ontario), Broadview Press, 2006.
12
È evidente che, sul piano filologico, i termini di sovranità e di Stato esistono ben
prima (e dopo) delle teorie bodiniane e hobbesiane, con significazioni solo in parte
diverse, come fa notare lo stesso Miglio. Su ciò cfr. l’esaustiva ricerca di Portinaro,
Stato, cit.
13
Cfr. Quaglioni, La sovranità, cit., p. 13.
126
Corrado Malandrino
Stato-Nazione-Federalismo14) una convincente e completa incarnazione, si dubita che tale superamento debba necessariamente implicare l’abbandono di ogni forma di potestà sovrana e di statualità.
Perciò pare più opportuno che si parli di “metamorfosi” della sovranità e di sviluppo federale della statualità. Se è da superare la
dimensione “assolutistica” della sovranità, non per questo sembra
da abbandonare la sua dimensione “legalitaria” e “legittimatrice”.
Un tal passo sembrerebbe comportare necessariamente una ricaduta negativa proprio su una concezione del federalismo capace di
assicurare legittimità e certezza di governo, scopo che è intrinseco
alla “modernizzazione” dello Stato nella prima modernità.
La concezione della sovranità si “modernizza”, infatti, sulla base
di una discussione e di una lotta plurisecolare che si sviluppa tra
medioevo e prima modernità, per dare alcune risposte di razionalizzazione, consolidamento del nesso comando-obbedienza (un nesso
esistente anche al di fuori della filosofia hobbesiana), unificazione e
legittimazione dell’iniziativa politica, rimediando alla confusione
dei poteri generata dal giusnaturalismo e dal costituzionalismo medievali. Ma ciò avviene, in modi diversi, già in Bodin e per alcuni
aspetti anche in Althusius. Lo sviluppo artificiale della figura del
potere sovrano data in Hobbes risponde alla stessa domanda e non
rende totalmente astratta – come si vorrebbe far credere – la concezione hobbesiana della sovranità statale. Lo stesso meccanismo
della rappresentanza tra autore e attore, in senso assolutista, non
avviene senza condizionamenti posti dallo stesso Hobbes, che viceversa pensa – sebbene per escluderla dalla sua scelta teorica – anche
alla possibilità di una rappresentanza non illimitata15. La scelta del
14
Il libro Stato-Nazione-Federalismo (edito postumo a Milano con una prefazione
di M. Dal Prà nel 1945 per i tipi de “La Fiaccola”) si può definire, citando il Bobbio dell’Introduzione a S. Trentin, Federalismo e libertà. Scritti teorici 1935-1943,
a cura di N. Bobbio, Marsilio, Venezia, 1987, p. XXIX, “una storia dello Stato
moderno, raccontata attraverso le vicende della monarchia francese, della rivoluzione francese, della formazione degli Stati nazionali durante il secolo XIX, con
particolare riguardo al processo di unificazione della nazione italiana”; ma anche
come “una storia delle dottrine che ne accompagnano la crescita e ne giustificano
la natura di ente sovrano, cioè dotato di un potere sommo che non riconosce al di
sopra di sé nessun altro potere”.
15
Cfr. T. Hobbes, Leviatano, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1982, p.
105, dove nel cap. XVI è scritto: “Ognuno concede individualmente al comune
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
127
patto di sottomissione di Hobbes è determinata dalla volontà di trovare una soluzione della sovranità statale che possa efficacemente e
stabilmente garantire protezione ai contraenti “in vista della pace e
della difesa comune”16. Nemmeno in Hobbes vi è un vero e proprio
dogma della sovranità, se non nella conclusione, in quanto soluzione necessitata dalla ricerca della pace e della difesa comune, che
sono gli obiettivi tolti i quali si rientra nello stato di natura.
Ad ogni buon conto, è chiaro che il concetto moderno ‘Statosovranità’ promanante da Hobbes (e da concezioni da questo derivanti) è escluso e superato dal federalismo proprio a partire dai
saggi del Federalist (che si qualifica appunto per l’abbandono di
una prospettiva di sviluppo all’europea delle ex-colonie in Stati leviatani e propone l’unione federale spartendo i poteri con gli Stati).
L’abbandono di questo modello implica che la riflessione sulla sovranità e sullo Stato preesiste e che, in generale, i concetti di
legittimazione, rappresentanza politica, di costituzione e di democrazia non promanano nella modernità esclusivamente dalla concezione hobbesiana e sono ben presenti nel Federalist17. È ben noto
rappresentante la propria autorità e fa proprie, nel caso che gli concedano autorità
illimitata, tutte le azioni da lui compiute; oppure, se lo limitano nella materia e nella misura della rappresentanza, nessuno degli autori riconosce come proprio nulla
più di quello che gli hanno dato delega di fare”.
16
Ivi, p. 112.
17
Non è nemmeno provata, ma è solo oggetto di controversia, la tesi che Duso accetta per buona, che nel sistema federale americano, e più in generale nei sistemi
federali, inevitabilmente si sviluppi una deriva centralistica tale da riproporre per
essi “la forma politica della modernità” (si legga del modello dello Stato-sovranità
hobbesiano), snaturando il federalismo stesso. Questa è per esempio la tesi di L.
M. Bassani, Dalla rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in
America 1776-1865, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009 (che non posso qui discutere, ma sulla quale sto elaborando una nota critica). Ora, è ben vero che vi sia
stata nell’Ottocento e nel Novecento, e perduri ancora, una dialettica unione-Stati
(o federazione-cantoni, Stato federale-Länder, ecc.) che tende ad affermare la supremazia del governo centrale. Ma tale tesi è contrastata, oltre che da me e altri
studiosi, dalla stessa storia americana (e degli altri paesi federali), nonché dalla resistenza delle istanze sociali e degli stessi Stati membri, per cui la vittoria del
modello centralistico non è assolutamente un dato acquisito né nella teoria, né nella realtà. Lo stesso è rilevabile nella Confederazione Elvetica. In Germania poi
vige un federalismo cooperativo molto forte. In Belgio si assiste al fenomeno opposto, ossia alla distruzione dello Stato unitario e alla costruzione di un forte Stato
federal-autonomistico. Lo stesso fenomeno si osserva in Spagna.
128
Corrado Malandrino
che i concetti di sovranità e di Stato sorgono già nel Cinquecento, e
insieme a quelli di legittimazione e di rappresentanza, di costituzione e di separazione dei poteri, del principio di maggioranza, hanno
un forte sviluppo in autori come Locke, Montesquieu, Kant, Tocqueville e Constant, dai quali si diparte un costituzionalismo liberaldemocratico che ha molto a che fare con la costruzione di uno
Stato moderno costituzionale e con il federalismo moderno. Ci si
chiede: c’è un altro concetto di poteri ‘sovrani’, intesi pur sempre
come poteri di governo di ultima istanza, che persiste nel costituzionalismo liberaldemocratico? E quindi: è pensabile una concezione della sovranità intesa nel senso delle parole di Quaglioni di cui
sopra? Una sovranità che valga come potere di decidere in modo
certo e in ultima istanza (e implicante il monopolio della forza legittima), come condizione della validità e dell’efficacia del diritto e
quindi come presupposto della possibilità stessa di impegnarsi per il
conseguimento del bene comune? È evidente che un simile processo decisionale deve escludere il criterio dell’unanimità, capace di
bloccare ogni certezza decisionale e ogni efficacia nel governo centrale della federazione. Mi sembra che le risposte a queste domande
siano importanti ai fini di pensare il federalismo come forma di una
futura Europa che possieda un legittimo potere di governo in determinate materie tradizionalmente rientranti già nei poteri sovrani
di uno Stato (si pensi alla moneta, alla politica estera, ecc.).
Per questo motivo non può essere condivisa la posizione di chi respinge o esclude la distinzione tra federazione e confederazione18,
che storicamente si sviluppa in modo pragmatico dall’esperienza statunitense tra il 1778 e il 1787, dalla costituzione degli Articoli della
confederazione alla Costituzione federale. Una distinzione ben delineata nel Federalist proprio allo scopo di fondare teoricamente il
concetto del governo comune che ha alcuni poteri ‘sovrani’ (in quanto poteri supremi di ultima istanza che è l’unico a possedere).
Sostenere l’estraneità radicale del federalismo alla categoria della ‘sovranità’ (nei termini storici e non astrattamente dogmatici),
porta di solito al rifiuto dello Stato federale e della federazione intesa come statualità federale sovranazionale: mentre in realtà ciò che
scompare è la sovranità assoluta, non ogni forma di sovranità intesa
18
Cfr. per es. Beaud, Théorie de la fédération, cit., passim e p. 69.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
129
come insieme di poteri sovrani “costituzionali”. La federazione invece mantiene, proprio rispetto ai problemi della costituzione (si
ricorderà en passant che la prima costituzione ‘rigida’ della storia è
proprio quella federale americana), di cui ci vogliamo qui occupare
nel secondo paragrafo, il problema del fondamento liberaldemocratico del potere popolare sovrano, che però è controllato orizzontalmente tramite la divisione dei poteri (Locke, Montesquieu, ecc.), e
per mezzo della divisione verticale tra gli stessi poteri come insegna
il Federalist (dualità della sovranità e della cittadinanza).
Perciò la distinzione tra federazione e confederazione – pur ammettendone lo scrivente una certa rigidità nei termini tradizionali e
di conseguenza la necessità di passare a un paradigma più evoluto
di tipo federalista-comunicativo –, è stata ribadita nel Novecento
dai più coerenti pensatori federalisti che pur respingono risolutamente il “dogma della sovranità statale”. Per tutti valga in questa
sede il richiamo a Luigi Einaudi19.
2.1. Excursus 1
La posizione di Luigi Einaudi sulla sovranità
Einaudi ritenne che la causa principale della prima guerra mondiale
dovesse esser ricercata non tanto nei motivi di competizione anarchica sul terreno economico, nell’imperialismo, come affermavano
le dottrine socialiste marxiste ortodosse, e neppure solo nell’aggressiva politica mondiale del militarismo tedesco. Queste erano concause. La guerra divenne però inevitabile, a suo avviso, per la stessa
situazione di divisione europea tra Stati nazionali la cui volontà di
19
Per una introduzione al pensiero di Einaudi cfr. almeno R. Faucci, Einaudi, Torino, UTET, 1986; U. Morelli, Contro il mito dello Stato sovrano. Luigi Einaudi e
l’unità europea, Milano, Angeli, 1990; C. Cressati, L’Europa necessaria. Il federalismo liberale di Luigi Einaudi, con un saggio introduttivo di R. Faucci, Torino,
Giappichelli, 1993; N. Bobbio, Luigi Einaudi federalista, comparso nella silloge
Alle origini dell'europeismo in Piemonte, a cura di C. Malandrino, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1993; C. Malandrino, L. Einaudi. A proposito di autonomie,
federalismo e separatismo, “Annali della Fondazione L. Einaudi”, XXVIII, 1994,
pp. 545-567; Id., L. Einaudi. Due scritti sulla federazione europea, ivi, XXIX,
1995, pp. 561-581; A. Giordano, Il pensiero politico di L. Einaudi, pref. di V. Zanone, Genova, Name, 2006.
130
Corrado Malandrino
potenza, fondata sul “dogma ancronistico e diabolico” della sovranità assoluta, era la responsabile principale del fallimento dell’equilibrio nel concerto europeo, dell’inevitabile logica bellica. Tale concezione della sovranità ergeva una barriera insormontabile all’idea
di una “società di nazioni” effettivamente funzionante che, viceversa, esigeva necessariamente – per poter esistere – il superamento di
tale dogma e di una concezione meramente confederale.
Sulla scorta di tale premessa, Einaudi distingueva acutamente,
sul piano teorico, i concetti di “federazione”, per la quale rimandava all’esempio della costituzione federale statunitense, e di “confederazione”, di cui faceva fede la millenaria tradizione europea.
Poiché la ragione strutturale che originava la guerra risiedeva
nella logica politica basata sulla sovranità assoluta ed esclusiva degli Stati europei, solo attraverso l’affievolimento di essa nell’unione
federale, grazie alla creazione di una sovranità e di un potere statali
più elevati (che lascerebbe sempre agli stati membri competenza
politico-amministrativa piena sulle materie interne), si sarebbe raggiunta un’epoca di pace.
È interessante notare che Einaudi afferma con forza tale posizione di principio anche nel secondo dopoguerra, sostenendo che gli
Stati europei non possono né devono sfuggire nel momento della ricostruzione alla decisione politica di unirsi, nel momento in cui le
condizioni storiche e l’omogeneità ideologica delle élites dominanti
lo permettono, quanto meno nella parte occidentale occupata dagli
alleati angloamericani. A suo avviso, le procedure funzionaliste,
messe in movimento dal lancio del piano Marshall e destinate nel
prosieguo, già nel 1951 con la CECA, alla creazione di comunità
economiche intermedie, pur essendo in sé positive forme di cooperazione progressiva, correvano il rischio di essere in realtà scappatoie per eludere in quel momento la scelta federale. Il sistema
delle “comunità economiche” avrebbe il suo sviluppo, ma – secondo lo statista di Dogliani, eletto nel frattempo primo presidente
della Repubblica – non avrebbe potuto evitare di riportare, in tempi
successivi, alle forche caudine della decisione sulla rinuncia alle
sovranità statali.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
131
La critica federalista di Einaudi alla sovranità statale è vivace
anche sul versante infranazionale20. Elaborando in simmetria con il
livello sovranazionale europeo la critica liberale al dogma dell’intoccabilità della sovranità statalnazionale anche al livello infranazionale, Einaudi scriveva frasi forti come: «Si potrà discutere sui
compiti da attribuire a questo o a quell’altro ente sovrano; e adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che
non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi
locali vivi di vita propria originaria non derivata dall’alto, urge distruggere l’idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non
temasi dalla distruzione alcun danno per l’unità nazionale»21.
In queste posizioni così nette vi è da sottolineare la motivazione
e l’inquadramento teorico rigoroso delle autonomie politiche locali
all’interno della dottrina federale dello stato e, nel contempo, la loro
delimitazione rispetto allo Stato nazionale. Einaudi asseriva che alle
regioni storiche italiane – a tutte, non solo a quelle sedi di movimenti particolaristici, centrifughi e perciò future destinatarie di
autonomie speciali – avrebbero dovuto esser riconosciute libertà e
sovranità comparabili a quelle dei cantoni svizzeri, in un quadro di
divisioni dei compiti tra Stato centrale ed enti locali corrispondenti
a criteri federalisti. «Ognuno dei due – affermava Einaudi – deve
esser sovrano nella propria materia»22. Nell’articolo La sovranità è
indivisibile?, scriveva magistralmente: «Come nessuno stato è pienamente sovrano nei rapporti internazionali, ma tutti gli stati
debbono assoggettarsi all’intervento altrui negli affari propri interni; così all’interno di ogni cosiddetto stato sovrano non vi è un solo
stato; ma gli stati sono parecchi, forse molti, e nessuno di essi è
20
Si pensi alla polemica antiaccentratrice, in puro stile cattaneano, sviluppata in
articoli come Via il prefetto!, qui cit. dalla riedizione nella raccolta Il buongoverno.
Saggi di economia e politica (1897-1954), a cura di E. Rossi, Bari, Laterza, 1954,
pp. 58 ss.; Contro il mito dello stato sovrano (1945), ivi, pp. 625 ss.; La sovranità
è indivisibile?, in Einaudi, A proposito di autonomie, federalismo e separatismo,
cit., pp. 565-567.
21
Cfr. Einaudi, Via il prefetto!, cit., p. 58.
22
Cfr. la lettera al cattolico democratico valdostano Paul Alphonse Farinet del 29
maggio 1945 in Einaudi, A proposito di autonomie, federalismo e separatismo,
cit., p. 562.
Corrado Malandrino
132
pienamente sovrano, perché la sovranità di ognuno si arresta dinnanzi all’uguale sovranità degli altri e deve con questa convivere»23. Einaudi parla con linguaggio federalista di autonomie politiche locali basate sul fondamento di poteri originari comunali e
regionali, che sono da considerare originari e non frutto di decentramento politico-amministrativo più o meno ampio. A differenza
del modello federale svizzero o statunitense, dove dagli Stati o dai
cantoni si procede alla costituzione della federazione, occorre in
Italia seguire la via inversa. Scriveva nel 1946 nella relazione sullo
statuto della regione siciliana: «Noi dobbiamo partire da uno stato
centralizzato per arrivare a uno stato più sciolto, con funzioni attribuite alle singole regioni»24. Anticipando di cinquant’anni le
discussioni attuali sul principio di sussidiarietà, visto come il criterio dirimente per la distribuzione delle competenze tra le future
regioni e il governo centrale in Italia, Einaudi afferma che «il principio informatore della legislazione regionale è dunque che allo
stato centrale rimangono attribuite tutte quelle funzioni che esplicitamente non siano state assegnate alle regioni nell’atto in cui queste
sono costituite. Compiuta questa distribuzione, stato e regione devono risultare sovrani nell’ambito delle proprie competenze»25.
***
L’excursus einaudiano ha lo scopo di avvalorare e argomentare il
fatto che non ha senso (anzi è controproducente) ipotizzare una soluzione “federale” al di fuori di qualunque idea di ‘sovranità’ –
intesa al di fuori del dogma bodiniano-hobbesiano, ma pur sempre
come potere legittimante ed efficace di ultima istanza. Non mi pare
corretto affermare, pertanto, che federalisti come Einaudi stiano
dentro all’unico concetto di sovranità moderna possibile, vista nella
formulazione hobbesiana. Ciò contraddice la realtà. Ma neppure è
corretto escludere che esistano diverse declinazioni della sovranità,
al fine di escludere la sovranità tout court. Tale esclusione totale
della concezione della ‘sovranità’, in una forma condivisa, da un di-
23
Ivi, p. 565.
Cfr. L. Einaudi, Interventi e relazioni parlamentari, a cura di S. Martinotti Dorigo, Torino, Fondazione L. Einaudi,1982, vol. II, p. 226.
25
Ibidem.
24
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
133
scorso sul federalismo, lungi dal risolvere il problema del governo
federale sovranazionale renderebbe permanente una sorta di anarchia federale, che è quanto si verifica storicamente nel contesto
della confederazione.
3. Il problema della costituzione (e del potere costituente)
rispetto al federalismo (europeo)
Il costituzionalismo nasce con Locke in funzione antiassolutista26, e
in questo senso limita e riconfigura la forma dello Stato sovrano moderno (government). Poi prosegue con gli autori che riprendono il
modello del government rappresentativo inglese dei poteri separati e
bilanciati per adattarlo alla Francia (Montesquieu sul piano della separazione orizzontale dei poteri) e agli Stati Uniti (il Federalist, con
l’aggiunta della separazione ‘verticale’ tra Stati membri e federazione), proprio con lo scopo di salvare da una parte una idea di
sovranità statuale non assoluta, ma limitata, e di conciliarla con la
libertà dei singoli.
In questo quadro non viene meno l’esigenza (e la soluzione) dei
problemi di legittimazione e di rappresentanza dei poteri federali,
attraverso una visione duale sia della sovranità limitata e condivisa,
sia della cittadinanza27. La federazione mantiene proprio rispetto ai
26
In questa accezione Althusius è visto correttamente come un antesignano della
battaglia antidispotica e del costituzionalismo. Rinvio su questo a C. Malandrino,
La Politica methodice digesta di Johannes Althusius, saggio introduttivo all’edizione critica italiana di J. Althusius, La politica, a cura di C. Malandrino, Torino,
Claudiana, 2009, pp. 9-130. Sul costituzionalismo sono fondamentali i contributi
di Matteucci a partire dai saggi Dal costituzionalismo al liberalismo, in Storia delle idee politiche economiche sociali, diretta da L. Firpo, Torino, UTET, 1980, vol.
IV, tomo II, pp. 75-83, e Le origini del costituzionalismo moderno, ivi, vol. IV,
tomo I; la definizione del costituzionalismo è rifusa poi in Costituzionalismo, in
Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino,
Utet, 1983, pp. 270-282 e in una più recente pubblicazione, cfr. Id., Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 103. Cfr. anche l’introduzione al volume di C. H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, Il Mulino, 1990. Sul costituzionalismo federale i riferimenti sono Friedrich ed
Elazar, nelle opere già cit. e in particolare per Friedrich, i saggi contenuti in
L’uomo, la comunità, l’ordine politico, cit., pp. 141-256.
27
Mi pare importante, tra l’altro, sottolineare che il “federalismo”, anche come
134
Corrado Malandrino
problemi della costituzione, di cui ci vogliamo qui occupare, il problema del fondamento democratico del potere popolare sovrano,
controllato orizzontalmente tramite la divisione dei poteri e la divisione verticale tra gli stessi.
In questa posizione del problema vi è una impasse logica solo
per chi parte dal presupposto radicalmente “sovranista” che la sovranità sia solo quella assolutista di conio hobbesiano (più che
bodiniano), ovvero che accetta la tesi “sovranista” e il presupposto
che lo Stato “moderno” si presenti solo nel modello hobbesiano (di
tipo vestfalico); che non riconosce il fatto che la storia produce un
progressivo manifestarsi di varie forme di statualità. Il presupposto
dell’estraneità teorica assoluta tra sovranità-Stato e federalismofederazione, benché condivisibile per taluni aspetti già accennati e
sui quali mi soffermerò più avanti, nella sua radicalità pare eccessiva, perché rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca;
ovvero l’esigenza persistente “costituzionale e costituente” di un
potere democratico popolare e ‘sovrano’ nella federazione, pur in
forme diverse da quelle tipiche statalnazionali, se vuole acquisire la
legittimità per imporre in virtù di un principio di maggioranza ai
membri federati una decisione che essi in minoranza non vogliono
accettare. La federazione infatti mantiene il diritto-dovere di decidere e di far rispettare da tutti le decisioni, pur con tutte le garanzie
per i membri. Ciò presuppone sempre il problema del fondamento
popolare e costituzionale di poteri di ultima istanza.
Tuttavia il paradigma tradizionale federalista della critica della
sovranità assoluta ed esclusiva dello Stato moderno vestfalico, nel
suo portare direttamente all’elaborazione di una strategia “costituzionale” europea ha fatto e fa effettivamente registrare un’aporia
circa il problema del pilastro costituzionale e costituente del soggetto popolare. Di questo ci si deve occupare.
Il federalismo, all’interno del sopraddetto paradigma, si è configurato come recupero di maggiore democrazia interna allo Stato
termine, nasce in questo contesto storico e pertanto non è esatto – sul piano scientifico – usare questo termine dandogli i significati più arbitrari. Rinvio per un’analisi
filologica a Malandrino, Il federalismo, cit., pp. 12-19; Id., Discussioni su Althusius, lo Stato moderno e il federalismo, “Il Pensiero Politico”, XXXVII, 2004, n.
3, pp. 425-438.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
135
democratico centralizzato e come tentativo di realizzazione di una
democrazia internazionale, fini ottenuti entrambi attraverso una critica alla concezione della sovranità assoluta ed esclusiva dello Stato
nazionale. Il problema diventa, infatti, nel Novecento, che il sistema
sette/ottocentesco degli Stati non appare più in grado di garantire la
libertà e la democrazia sia dentro lo Stato nazionale, che si fa tendenzialmente autoritario e sempre più monolitico, dando forma a
vere statolatrie, sia in quella internazionale. Il tentativo federalista –
in particolare quello europeo che si è sviluppato a partire da autori
come John Robert Seeley e la scuola federalista britannica, Luigi
Einaudi e la scuola federalista italiana culminata nel Manifesto di
Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, e proseguita attraverso Mario Albertini nei maggiori rappresentanti dell’odierno
Movimento federalista europeo – si è perciò quasi sempre presentato come applicazione ‘diretta’, e non mediata, a questo problema
del modello costituzionale sopraricordato28. Il federalismo ha, insomma, inteso assumere la funzione di correttore dei difetti della
democrazia nazionale sia al suo interno, sia a livello del sistema internazionale. Tuttavia in questo tentativo si è manifestato un errore
che ha condotto alla sopraricordata aporia nell’individuare in un
‘popolo europeo’ non sufficientemente caratterizzato in senso proprio e diverso dal ‘popolo nazionale’: ciò dipende dall’aver applicato ‘direttamente’, traslandolo in modo meccanico, al processo unificatore della realtà continentale europea del sistema degli Stati il
modello costituzionale pensato per la realtà dello Stato nazionale
moderno e per una situazione decisamente non omogenea a quella
europea, come quella americana del XVIII secolo.
Di qui si è posto il problema, emerso anche in tutta la discussione degli anni Novanta del Novecento, inerente la base di legittimazione che avrebbe e darebbe il “popolo europeo” come soggetto costituente di una futura unione federale europea (da chi la
riceverebbe? attraverso quali forme?)29. Non si tratta a questo pro28
Rinvio su questi temi a Malandrino, Sovranità nazionale e pensiero critico federalista, cit., pp. 222-230; Un popolo per l’Europa unita, a cura di C. Malandrino,
Firenze, Olschki, 2004.
29
Sulla questione il testo di riferimento più approfondito (al quale si rinvia anche
per l’eccellente ricostruzione tematica e bibliografica del dibattito scientifico) è
quello di S. Dellavalle, Una costituzione senza popolo? La costituzione europea
136
Corrado Malandrino
posito tanto o solo di ingegneria giuridico-istituzionale, per quanto
urgente, ma di una discussione anche sui modelli costituzionali, federali, comunitari, confederali, di “governo multilivello”, al fine di
elaborare una convincente base politica e filosofico-giuridica adeguata al concetto stesso di “popolo europeo”, inteso come soggettopotere costituente, che come ipotesi è rigettata in radice da coloro
che sostengono l’impossibilità stessa della creazione di una sfera di
comunicazione pubblica europea30.
3.1. Excursus 2.
Il “paradigma federalista” e la proposta MFE del “popolo europeo”
La tematica della crisi dello Stato nazionale, riproposta sostanzialmente dai ‘federalisti europei’ nelle forme sopraddette e attualizzata
alla luce dell’aggravamento causato dai processi di globalizzazione,
mette in luce la necessità di un salto di qualità che sia tale da portare, tramite un passaggio costituente, a un vero e proprio Stato federale europeo prima che l’allargamento ai paesi dell’Est, del Mediterraneo ancora all’ordine del giorno, e le sempre più urgenti
esigenze di un più efficiente governo democratico continentale, non
alla luce delle concezioni del popolo come “potere costituente”, Milano, Giuffrè,
2002. Cfr. anche Il futuro della costituzione, a cura di G. Zagrebelsky, P. P. Portinaro, J. Luther, Einaudi, Torino 1996; Diritti e costituzione nell’Unione Europea, a
cura di G. Zagrebelsky , Roma-Bari, Laterza, 2003, tra i cui saggi in particolare si
segnalano J. H. H. Weiler, Federalismo e costituzionalismo: il “Sonderweg” europeo, pp. 22-42 e I. Pernice e F. Mayer, La costituzione integrata dell’Europa, pp.
43-68). Di Zagrebelsky ved. inoltre la raccolta, sempre da lui curata, Il federalismo e la democrazia europea, Roma, NIS, 1994. Cfr. inoltre A Constitution for the
European Union, a cura di U. Morelli, Milano, Giuffrè, 2005; J. Luther, Europa
costituenda, Torino, Giappichelli, 2007.
30
Tale posizione era presente soprattutto nel dibattito tedesco, che peraltro si appoggiava anche su una sentenza della Corte costituzionale federale del 12 ottobre
1992 che recitava: “Con il trattato di Maastricht non viene fondato uno Stato che
ha le sue radici nel popolo (Staatsvolk) europeo, ma una associazione di Stati (ein
Staatenverbund) attraverso cui diventa più stretta l’unione dei popoli europei statualmente organizzati”, cfr. in Rusconi, Patria e repubblica, Bologna, Il Mulino,
1997, p. 85. Sulle varie voci, anche discordanti, di D. Grimm, J. Habermas, A. von
Bogdandy, I. Pernice, si rinvia al libro di Dellavalle, Una costituzione senza popolo, cit., passim.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
137
conducano anche alla disgregazione del tessuto comunitario
dell’Unione e alla sua degenerazione in una sorta di mera unione di
libero scambio e di imbelle “società delle nazioni”.
L’erosione della “sovranità nazionale”, pur se accresciuta secondo i “federalisti europei” dall’interdipendenza economica e
militare a livello globale, non è stata accompagnata da un accrescimento di “sovranità europea”. Tuttavia, affermano i “federalisti
europei”, la sovranità nazionale non è affatto “evaporata” in una
sorta di “multilevel governance”, ma resta prerogativa degli Stati
nazionali, i quali cercano di guidare e sfruttare i processi di progressiva eliminazione delle barriere nazionali ai fini di un recupero
imprevedibile di influenza a livello sovranazionale. I “federalisti
europei”, sfumando i toni della condanna a tutto tondo del dogma
della sovranità esclusiva e illimitata dello Stato nazionale precedentemente affermata in un diverso contesto da Spinelli e Albertini,
denunciano piuttosto con preoccupazione il fatto che tale critica doverosa abbia in taluni autori portato paradossalmente alla denuncia
della scomparsa della sovranità tout court. Con la conseguenza di
far mettere in secondo piano che invece la sovranità – se correttamente intesa e condivisa – svolge compiti irrinunciabili di ordinamento, mantenimento e sviluppo sociale e civile. Essa ha pur sempre la funzione di legittimare i processi decisionali a livello
legislativo e di governo, di escludere cadute nell’anarchia, di fondare in democrazia la certezza del diritto e della solidarietà tra i
cittadini. Non alla distruzione della sovranità statale occorre mirare,
ma alla sua diversa dislocazione tra istanze europee e nazionali,
nell’epoca in cui la forma “Stato-nazione” manifesta crescenti incapacità di intervento a livello continentale e globale. In tal senso è da
intendere il superamento dello stato-nazione. Viceversa, chi sostenga l’avvenuta distruzione della sovranità in assoluto, in realtà
rischia di farsi paladino subordinato dell’unico “sovrano” nazionale
capace di interventi globali, ossia degli Stati Uniti d’America.
Lungi pertanto dall’accettare “il declino della statualità”31, il nodo da sciogliere è ancora e sempre quello dell’alternativa tra federa-
31
Cfr. Pistone, introd. all’edizione anastatica di Spinelli-Rossi, Il Manifesto di
Ventotene, Celid, Torino, 2001, p. XIX.
138
Corrado Malandrino
zione e confederazione32: “trasferire la sovranità” dagli Stati nazionali alla federazione europea significa accrescere e trasformare
qualitativamente l’embrione federale già presente nel tessuto comunitario dell’Unione Europea, che deve esser dotata di vera sovranità
federale, cosa che prevede la condivisione di questa con gli Stati
nazionali. Lo Stato federale europeo non dovrà essere un “superStato”, perché anzi “esso avrà caratteristiche diverse ed originali rispetto ai sistemi federali finora realizzati, perché si tratta, per la
prima volta nella storia, di federare tali Stati nazionali storicamente
consolidati e un continente caratterizzato da un pluralismo (che è
una grandissima ricchezza da tutelare e valorizzare) culturale, linguistico, religioso, economico-sociale che non ha eguali nel
mondo”33. Pertanto federalismo decentrato e sussidiarietà sono le
risposte ai timori di accentramento statalista a livello europeo. Si
tratterebbe in sostanza di fondere taluni aspetti dei modelli duale e
cooperativo del federalismo. Requisiti fondamentali della federazione europea dovranno essere: 1) competenza esclusiva in materia
di moneta, difesa e politica estera; 2) competenza concorrente su
tutte le altre materie in base al principio di sussidiarietà; 3) trasformazione del Consiglio dei ministri nella camera territoriale degli
stati e sua privazione della competenza legislativa esclusiva; 4)
competenza legislativa piena al Parlamento europeo, che la eserciti
su un piano di parità con la Camera degli Stati; 5) trasformazione
del Consiglio europeo nella Presidenza collegiale dell’Unione; 6)
trasformazione della Commissione nel governo dell’Unione, nominato dalla Presidenza collegiale e responsabile di fronte al Parlamento; 7) estensione del processo decisionale a maggioranza, tranne che in particolari materie di rilevanza costituzionale; 8) esclusione del diritto di secessione. Di particolare importanza è, secondo
i “federalisti europei”, la procedura costituente – in luogo di quella
intergovernativa finora seguita – per arrivare a cogliere tale obiettivo. Non è da escludere infine che, di fronte a insuperabili resistenze
32
Cfr. Pistone, Dopo l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale europea,
“Piemonteuropa”, XXVI, 2001, n. 3,, p. 11: “La dicotomia federazione-confederazione mantiene intatta la sua validità”.
33
Cfr. Pistone, introd. alla cit. edizione anastatica di Spinelli-Rossi, Il Manifesto di
Ventotene, p. XVIII.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
139
euroscettiche, si renda necessaria la combinazione di due momenti
successivi: la creazione di un “nucleo federale” ristretto, convivente
con l’Unione Europea più larga, nell’attesa che grazie a un’adeguata strategia che contemperi iniziative politiche con clausole e
formule già sperimentate (opting out, geometrie variabili, cooperazioni rafforzate) si creino le condizioni per l’ingresso degli altri
paesi nella federazione.
I “federalisti europei” si rendono conto che un simile obiettivo
non è realizzabile senza che si crei un presupposto forte di legittimazione finora mancante, ovvero un “potere costituente” che non
può provenire da operazioni di ingegneria costituzionale o da interventi governativi dall’alto. Occorre invece uno sviluppo inedito di
un’identità collettiva europea che superi il minimo denominatore
comune, culturale o economico, costruito nei secoli e nell’esperienza comunitaria, e si qualifichi in senso politico e sociale al fine
di determinare un consistente e sufficiente senso di appartenenza.
Insomma, essi pongono – non da oggi, ma dai tempi di Spinelli e
Albertini – il problema della definizione di un “popolo europeo”34.
Questo fu ed è compreso dai massimi dirigenti del MFE prevalentemente nel senso sociologico e storico-politico di “una comunità di
cittadini che [sono] gravemente danneggiati nei loro interessi materiali e nelle loro esigenze ideali dalla crisi storica degli stati
nazionali sovrani (i quali devono essere considerati illegittimi perché ormai strutturalmente incapaci di perseguire efficacemente i
compiti – benessere economico, sicurezza, libertà – in funzione dei
34
Cfr. M. Albertini, La nascita del popolo europeo, in “Europa federata”,
25.1.1956, ora in Id., Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, cit., pp.
85-90; L’Europe des états, l’Europe du marché commun et l’Europe du peuple fédéral européen, “Il Federalista”, IV, 1962, 2, pp. 187-193; Il censimento
volontario del popolo federale europeo, “Il Giornale del censimento”, 1966, 3, ora
in Id., Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 145-152; L’identità europea, “Il Federalista”, XIX, 1977, 3, pp. 180-183; L’Europa sulla soglia dell’Unione, ivi, XXVIII,
1986, 1, pp. 25-37; Un progetto di manifesto del federalismo europeo, ivi, XXXIV,
1992, 1, pp. 71-89; La strategia della lotta per l’Europa, ivi, XXXVIII, 1996, 1,
pp. 55-67. Per la ricostruzione della questione del “popolo europeo”
nell’esperienza del MFE cfr. l’Introduzione di S. Pistone alla ristampa anastatica
del periodico spinelliano “Popolo Europeo”, 1958-1964, a cura della Consulta Europea del Consiglio Regionale del Piemonte, Industria grafica ed Editoriale, Torino
2001, pp. 9-25.
140
Corrado Malandrino
quali sono stati costruiti) e che [aspirano], sia pure confusamente, al
superamento di questa situazione attraverso l’unità europea”35. Non
potendosi esprimere tale aspirazione nei limiti strutturali e procedurali nazionali, il compito dei “federalisti europei” è pertanto “di creare
degli strumenti di azione politica sopranazionale in grado di permettere al popolo europeo di prendere coscienza della necessità di
costruire la federazione europea attraverso il metodo costituente e di
far valere questa volontà al di fuori dei condizionamenti prodotti dalle istituzioni politiche nazionali”36. Il “popolo europeo”, in tale
accezione, è identificabile dunque potenzialmente con tutti i cittadini
europei (europeismo organizzabile), a partire però dall’avanguardia
dei più consapevoli eurofederalisti, che mobilità il corpo grosso di
coloro che non hanno “coscienza” di esserlo (europeismo organizzato, ovvero, con le parole di Albertini, “il popolo europeo ha la realtà
dell’azione politica dei federalisti che hanno capito”37). È evidente,
da tale impianto, la connotazione movimentista e ideologica che
tradisce sfumature di una sorta di “leninismo europeista”, nel senso
dell’avanguardia cosciente che dirige e organizza la spontaneità,
aspetto che d’altra parte è connesso con la formazione originaria del
primo fondatore del MFE.
In coerenza con quanto detto, si realizza l’impegno a mobilitare,
tramite campagne propagandistiche (a partire dall’iniziativa, poi
fallita, del “Congresso del popolo europeo” mirante a ottenere legittimità democratica e peso politico indispensabili per forzare i
governi alla convocazione della costituente europea) e referendarie
negli anni ’60 e ’70. Un movimento che trova nuova motivazione,
anche sul piano ideale, dall’obiettivo dell’elezione diretta del Parlamento europeo raggiunto nel 1979, una tappa che conferisce
visibilità inedita a una sorta di soggetto politico parzialmente rappresentativo, l’insieme degli elettori europei, che sembra dare
maggiore concretezza al discorso del “popolo europeo”. In conclusione, la concezione “federalista europea” del “popolo europeo” si
pone nei limiti della costruzione di un movimento sempre più vasto
35
Ivi, p. 15. Cfr. anche Publius, Una Costituzione federale per l’Europa, “Il Federalista”, XLII, 2000, 3, p. 302.
36
Ibidem.
37
Cfr. Albertini, La nascita del popolo europeo, cit., p. 90.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
141
e capace di maturare nel frattempo, grazie alla mobilitazione e
all’azione di chiarimento e di propaganda ideologica e politica, “un
vincolo di identità politica, sociale, culturale e il senso di appartenenza e di identificazione con un organismo comune avvertito come
tale e al cui sviluppo si sentano partecipi”38. Di qui lo sviluppo necessario di un ethos condiviso, la creazione di un demos a partire
dal dato consistente del corpo elettorale europeo da uniformare tramite l’istituzione di un sistema elettorale unificato e dall’estensione
dei diritti di cittadinanza, e di un ethnos che si consolidi grazie al
dialogo interculturale, scambi scolastici, programmi televisivi comuni, ecc. Tutto ciò, però, è ritenuto possibile solo a seguito
dell’istituzione di un livello di statualità europea che è conseguenza
dell’approvazione di una costituzione continentale: non esiste un
prima e un dopo, vi è un processo circolare, “Stato e popolo nascono insieme”. Come d’altra parte, si afferma, è avvenuto nel
processo di formazione degli Stati nazionali nell’Ottocento.
***
Da questa ricostruzione, per quanto succinta, si comprende come
sia presente nella posizione “federalista europea” una visione progressiva del “popolo europeo” sotto il profilo sociologico, storicopolitico, ideologico e movimentistico. A essa manca, però, un’impostazione e una soluzione convincente sul piano della giustificazione filosofico-giuridica e istituzionale, ai fini della legittimazione
del soggetto costituente europeo. Tale carenza non è casuale, ma
corrisponde a una più generale aporia caratterizzante il pensiero federalista tradizionale rispetto alla problematica europea. Ciò si
riflette sulle difficoltà che gli vengono poste, in quanto paradigma
positivo di superamento effettivo della sovranità statalnazionale,
dall’esistenza di forti identità nazionali e strutture statali che si oppongono tenacemente a passaggi decisivi in direzione di un livello
solido di federalità europea. Il meccanicismo insito nell’applicazione diretta della soluzione costituzionalista classica all’Europa
non è tollerato dal corpo europeo, per vari motivi. In primo luogo,
l’indicazione terminologica di “popolo europeo” fa riferimento al
38
Cfr. U. Morelli, La Costituzione europea: il modello federalista, in Diritti e costituzione nell’Unione Europea, cit., p. 75.
142
Corrado Malandrino
termine “popolo” (il “peuple” di Sieyès) che riveste invece un’ambiguità di fondo nelle diverse lingue e culture europee, richiamando
tradizioni identitarie irrimediabilmente non univoche e al contrario
eterogenee fra loro39. Occorrerebbe comunque ‘inventare’ termini
nuovi e più appropriati. Vi è poi, connessa a questo, la difficoltà
dell’intreccio ‘etnico-demico’ che determina la necessità di rielaborare una soluzione al tempo stesso di questo rispettosa e politicamente risolutiva. Ma il problema di fondo resta quello della impossibilità di applicare la procedura costituzionale classica al tema
dell’unità europea.
Ciò non significa però che non si possa in nessun modo implementare un modello costituzionale, e che occorra ricorrere a soluzioni
che escludono il meccanismo della rappresentanza e della legittimazione politica, come sostiene Duso attraverso la sua ingegnosa, ma a
mio parere non conclusiva e non convincente applicazione di un paradigma althusiano, sul quale ritornerò.
Il problema di fondare uno Stato federale sul continente europeo
– e in prospettiva mondiale –, anzi, resta sempre non solo aperto e
possibile, come ha scritto Silvio Trentin40, ma necessario se kantianamente si vuole realizzare una ‘pace perpetua’.
3.2. Excursus 3.
Critica trentiniana dello Stato nazionale moderno e nuovo Stato autonomista e federale nazionale, europeo e mondiale
Al termine di un profondo processo di ripensamento autocritico,
Trentin capovolse quel feticismo delle Stato nazionale unitario,
39
Cfr. Malandrino, Un popolo per l’Europa unita, cit., pp. 6-10; Id., Patriottismo
nazionale e patriottismo europeo: discorsi retorici o sostantivi?L’ipotesi del paradigma federalista-comunicativo, a cura di G. Manganaro Favaretto, Edizioni
Università di Trieste, 2005, pp. 375-406.
40
Per un inquadramento complessivo sul pensiero di Trentin, considerato trattarsi
di un autore non universalmente noto, non mi resta per brevità che rinviare a C.
Malandrino, S. Trentin, pensatore politico antifascista, rivoluzionario, federalista,
Piero Lacaita Editore, Manduria, 2007 e all’Introduzione apposta dal medesimo
autore al volume di S. Trentin, Le determinanti dialettiche e gli sbocchi ideologici
ed istituzionali della rivoluzione antifascista [europea], Lacaita, Manduria, 2007,
pp. 11-70.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
143
sostanzialmente centralista, che definiva una forma di “statolatria”
tipica di molti esponenti democratici della sua generazione. Si familiarizzò con l’impostazione pluralista dei problemi dello Stato e
della politica, in qualche modo riformulanti lo schema pattizio
giusnaturalista e capaci di dare più ampio respiro ai diritti degli
individui unitamente alla dimensione dei gruppi e delle comunità
intermedie poste tra l’individuo e lo Stato. Da tale acquisizione discese il ripudio della visione neoassolutizzante dello Stato, la cui
forma estrema Trentin preveggentemente chiamò “totalitaria”.
In Stato-Nazione-Federalismo (1940) Trentin ripercorse, partendo dal processo di disgregazione dell’universalismo medievale,
le tappe della formazione e dello sviluppo dello Stato nazionale
accentrato moderno, facendo riferimento alla storia di Francia,
Germania e Italia. Egli mise in rilievo il fatto che in ogni tempo,
all’affermazione dello Stato centralizzato aveva fatto da contraltare una persistente tensione pluralista e autonomista. La vittoria
aveva arriso alla tendenza unitaria e centralista, sia nel modello
dell’assolutismo, sia in quello dello Stato-nazione, sia infine nei
modelli dittatoriali fascista e comunista. La rivoluzione borghese
del 1789 e quella socialista del 1917 avevano finito per consolidare la struttura accentrata dello Stato finendo per soffocare le aspirazioni di ceti, gruppi, classi all’autonomia, di cui le stesse ideologie liberali, democratiche e socialiste spesso proclamavano il
mantenimento.
Lo Stato monocentrico (contro cui Trentin recuperava la tensione morale e politica non solo e non tanto di Proudhon, comunque da lui apprezzato, ma soprattutto della scuola federalista risorgimentale italiana di Cattaneo e di Ferrari) era passato quasi in
eredità dall’assolutismo alle democrazie contemporanee, grazie
soprattutto al processo di “universalizzazione” e di consolidamento dello Stato unitario monocentrico, sulla scorta del principio di
nazionalità elaborato dall’idealismo tedesco e poi fatto proprio dai
maggiori filoni ideologici ottocenteschi, fino alla consacrazione
dell’unità come legge suprema di organizzazione della vita sociale
e di uno specifico mito unitario nel corso della grande guerra.
Questo era il motivo principale per cui, nell’intervallo tra le due
guerre mondiali, secondo Trentin era stato relativamente facile
operare il passaggio dalla democrazia liberale alla dittatura in numerosi paesi, e le tendenze reazionarie si erano dilatate su tutta
144
Corrado Malandrino
l’Europa. Nello Stato nazionale monocentrico, unitario e autoritario, era infatti riposta la radice più profonda della tirannide. Lo
Stato nazista era, per Trentin, solo “l’espressione più estrema del
monocentrismo integrale”41.
Compito della rivoluzione – ché tale era per Trentin la Resistenza, rivoluzione morale, politica, istituzionale e sociale – sarebbe
stato perciò non di eliminare alcuni regimi dittatoriali e totalitari,
ma di estirpare la stessa mala pianta dello Stato nazionale monoliticamente unitario. La sua parola d’ordine sarebbe stata fondata sul
concetto di autonomia: "Autonomia, cioè: emancipazione brutale da
tutte le superstizioni a lungo intrattenute dalla menzogna nazionalistica: affrancamento definitivo dalla macchina-simbolo [...] dello
Stato-Leviatano”42. Sarebbe stata questa la condizione per rompere
un ciclo perverso della storia dei singoli paesi europei e dell’Europa
vista come insieme.
Trentin rovesciava così la visione che aveva negli anni Venti dei
rapporti tra il cittadino, le comunità e lo Stato ed era pronto a entrare nel merito delle forme nuove – istituzionali e sociali – che lo
Stato rivoluzionato avrebbe dovuto assumere. Le sue indicazioni –
la pars construens della sua critica allo stato moderno, di cui la denuncia del monolitismo dello stato centralista costituiva la pars
destruens – si risolsero appunto nella proposta del «socialismo integrale», ossia federalista, che avrebbe dovuto permeare la nuova
forma di Stato, posto all’interno di una federazione europea, che, ai
suoi occhi, rappresentava il presupposto e il traguardo finale della
rivoluzione in corso.
Nel trattato sulla Crisi del diritto e dello Stato43 egli chiarì che
ogni forma e livello di società esigeva un’organizzazione statuale
infra- e sovranazionale. Trentin chiamava «Stato particolare» quello
41
Cfr. Trentin, Stato-Nazione-Federalismo, cit., p. 153. O altrimenti detto: «È nello Stato totalitario che lo Stato unitario rinviene la sua ultima e più compiuta
espressione».
42
Ivi, p. 207.
43
Cfr. S. Trentin, La crise du droit et de l'État, L'Eglantine, Paris-Bruxelles, 1935,
pp. 185-188 e p. 478, dove Trentin scriveva: «Ugualmente, lo stato particolare non
può redimere le sue intemperanze, i suoi errori mortali se non superando se stesso,
se non integrando anche formalmente il suo ordinamento in quello dello stato vero,
lo stato degli stati».
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
145
corrispondente al piano della società nazionale. Lo «Stato particolare», ordinatore della «coesistenza delle autonomie», era da lui
concepito come un gradino verso lo «Stato universale», al quale incombeva l’organizzazione della società universale, cioè mondiale.
L’integrazione tendenziale dello Stato particolare nell’universale
non pregiudicava l’esistenza del primo in quanto «ordine d’integrazione parziale», non godente però più interamente degli attributi
sovrani conferitigli dall’ideologia statal-nazionale44.
Il nuovo Stato avrebbe dovuto configurarsi come «ordine degli
ordini»45 – e da questa definizione emerge con evidenza il suo carattere multipolare in luogo del monocentrismo. Trentin aggiungeva
che se esso avesse voluto realizzare un progresso sul piano dell’affrancamento dell’individuo e della salvaguardia della dignità della
persona, non avrebbe potuto esser altro che «federalista, nel senso
proudhoniano della parola». Ovvero federalismo politico e federalismo sociale «agricolo-industriale». Mescolando linguaggio giuridico e suggestioni biologiche, egli cercava di rendere più comprensibile l’operare dei principi di autonomia e federalismo sul tessuto
statual-sociale: “Bisogna restituire – scriveva – allo stato la sua costituzione naturale, la sua costituzione pluralistica, articolarlo sui
suoi centri vitali quali si sono spontaneamente creati attraverso il libero e variabile coagularsi delle forze sociali, ordinare il ritmo delle
molteplici sorgenti che concorrono al raggiungimento dei suoi fini
istituzionali. In qualsiasi raggruppamento umano provvisto di
un’organizzazione unitaria il tessuto sociale si suddivide in una serie innumerevole di cellule più o meno compatte, all’interno delle
quali l’individuo si trova incorporato come parte integrante e per la
mediazione delle quali si sforza di raggiungere i suoi fini, pur collaborando al mantenimento dell’equilibrio e dell’ordine nelle relazioni di convivenza. In seno al gruppo, l’individuo non vive mai isolato; coscientemente o incoscientemente è sempre portato a
partecipare con la sua attività, per valorizzarne tutte le possibilità e
44
Ivi, p. 460, p. 471, p. 486, p. 490.
Trentin, Liberare e federare, in Id., Scritti inediti, a cura di Paolo Gobetti,
Guanda, Parma 1972, p. 239
45
146
Corrado Malandrino
attitudini creatrici, a un’opera, a un’impresa, a una comunità solidale e organica”46.
Nel modello trentiniano i «nuclei di vita collettiva», di cui al
nuovo Stato competeva l’ordinamento rispettoso del pluralismo, ma
non la predeterminazione o la promozione, perché preesistenti a esso, erano fondati dunque sui concetti di «opera», di «impresa», di
«comunità». Su di essi s’imperniavano le «autonomie minori» o
«primarie», che promanavano direttamente dall’autonomia dei singoli individui. Essi formavano nel loro intrecciarsi le istituzioni di
base dell’«immensa piramide» dello stato federalista, venendo poi
raggruppate, all’interno di ogni circoscrizione territoriale (Trentin
parlava di comuni, province e regioni «nella misura in cui hanno di
fatto acquisito un’individualità e una personalità proprie, in cui determinino la nascita e garantiscano il mantenimento di un focolare
di vita unitaria, suscettibile di dare un’impronta caratteristica alle
relazioni tra le persone che coabitano il territorio ch’esse circoscrivono») nel quadro della funzione economica o tecnica o culturale di
cui assicuravano praticamente l’esercizio.
Le istituzioni di ogni ordine e grado funzionavano grazie al sistema dei consigli, diceva Trentin, riprendendo la direttiva gobettiana, già fatta propria dal gruppo torinese di Giustizia e Libertà.
L’ordine federativo assumeva dunque nelle conclusioni di Trentin
l’aspetto di un «regime che sbocca nella costituzione di un governo
dei consigli o collegi collegati insieme da un rapporto di compenetrazione e di interdipendenza reciproche e tutti, l’uno rispetto
all’altro, gerarchicamente ordinati»47.
Questo breve profilo del pensiero trentiniano mette in evidenza il
presupposto sostanziale del carattere democratico multipolare del sistema federale. In esso la sovranità dello Stato avrebbe perso i suoi
attributi di astrattezza e di assolutezza, nonché di unitarietà, tipici della concezione dello Stato nazionale moderno, per depotenziarsi e
diffondersi (ma non eliminarsi) in varie istanze interne ed esterne, inferiori e superiori.
46
47
Ivi, pp. 237-238.
Cfr. Trentin, Liberare e federare, cit., p 247.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
147
4. Nuove componenti del federalismo ai fini dell’elaborazione
di un paradigma federalista-comunicativo
Da quanto finora scritto emerge la necessità di abbandonare in parte
la strada tradizionale segnata dal paradigma federalista e di considerare nuove componenti da introdurre in un nuovo paradigma capace
di pensare una prospettiva costituzionale necessaria per legittimare
una federazione a livello europeo e mondiale. Se infatti appare necessario superare l’aporia – che non è solo logica, ma motivazionale
e costitutiva del federalismo stesso nell’epoca postmoderna – del
vecchio paradigma, ciò non vuol dire l’abbandono di ogni esigenza
di rappresentazione e legittimazione politica nella prospettiva federale universale (europea e mondiale).
A questo proposito, anche per trovare un’adeguata dimensione
motivazionale etico-politica48, sono utilizzabili materiali apprestati,
da un lato, dall’indirizzo di pensiero che si richiama al cosiddetto
covenantalism, che si muove sul terreno della centralità del foeduscovenant come momento motivazionale e costitutivo essenziale del
federalismo e di ogni movimento politico federalista (in questa corrente rientra anche uno specifico richiamo all’opera althusiana); da
un altro lato, si rivela preziosa la riflessione sul ‘paradigma comunicativo’ di Jürgen Habermas. Occorre pertanto, prima di delineare un
abbozzo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo relativo al
problema europeo, fornire una presentazione del covenantalism e del
paradigma habermasiano in funzione del progetto teorico che qui si
propone.
4.1. Il covenantalism
Nicola Matteucci, tra i primi in Italia, chiarì negli anni Settanta del
Novecento che il covenant è da considerare “un vero contratto sociale in base al quale si forma un’autonoma e indipendente
comunità politica, che pone a fondamento del suo esistere il princi-
48
Opportunamente Galli, Modernità, cit., p. 109, sottolinea che il problema della
legittimità statuale deve incontrarsi, per risolversi positivamente, con la dimensione “etica, o sentimentale”.
148
Corrado Malandrino
pio di un governo basato sul consenso della maggioranza”49. Sulla
base del concetto di covenant, che ha il suo incunabolo nella forma
del patto biblico tra Dio e gli uomini, nasce e si sviluppa
all’interno del calvinismo politico tra Cinque e Seicento una linea
di pensiero teologico-politico incentrata sulla cosiddetta teologia federale (federal theology) o teologia del patto (covenant’s theology)50.
Di questa linea di pensiero, nelle sue ricadute politiche nella modernità, vi sono vari studiosi e proponenti, tra i quali soprattutto
interessante mi pare la linea rivalutatrice di Charles McCoy, J.
Wayne Baker e Daniel J. Elazar51.
Il covenantalism rappresenta in generale, secondo Elazar, una
modalità importante del pensiero e della prassi politica nell’antichità e nel medioevo, tanto più per alcuni popoli, come per esempio gli ebrei, i celti, i germani, gli anglosassoni: tutti molto significativi anche per la formazione della civiltà occidentale moderna. I
concetti di covenant e covenantalism, così come scaturiti da epoche
49
Cfr. Matteucci, Dal costituzionalismo al liberalismo, cit., p. 75. Sul covenant puritano cfr. anche U. Bonanate, I puritani. I soldati della Bibbia, Torino, Einaudi,
1975, p. 12 (“[...] covenant, patto, stretto tra Dio e gli uomini scelti per essere salvati”) e pp. 90-97, laddove è riportata la posizione di Thomas Mockey sul “patto
della nazione”.
50
Su questo punto rinvio a C. Malandrino, Teologia federale, in “Il Pensiero politico”, 1999, n. 3, pp. 427-446 di cui sono ripresi qui alcuni ragionamenti.
51
Cfr. la sintesi di C. S. McCoy e J. W. Baker, Fountainhead of Federalism.
Heinrich Bullinger and the Covenantal Tradition, Louisville (Kentucky), Westminster/J. Knox Press, 1991; di Elazar si veda, dopo un grande lavoro di
elaborazione negli anni Ottanta, l’imponente quadrilogia contenuta in The Covenant Tradition in Politics , vol. I: Covenant & Polity in Biblical Israel; vol. II:
Covenant and Commonwealth. From Christian Separation Through the Protestant
Reformation; vol. III: Covenant and Constitution. The Great Frontier and the Matrix of Federal Democracy; vol. IV: Covenant and Civil Society. The Constitutional Matrix of Modern Democracy, Transaction Publishers, New Brunswick
(USA) and London (UK), 1995-1999. A presentazione e commento di quest’opera
cfr. C. Malandrino, Covenant e covenantalism premoderni nell’elaborazione di
Daniel Judah Elazar, in Prima di Machiavelli. Itinerari e linguaggi della politica
tra il XIV e il XVI secolo, a cura di G. Carletti, Pescara, ESA, 2007, pp. 107-128.
Di Elazar cfr. anche (con J. Kincaid), The Covenant Connection: Federal Theology
and the Origins of Modern Politics, Durham N. C., Carolina Academic Press, 1985
(cfr. anche a cura degli stessi la pubblicazione collettanea intitolata The Covenant
Connection: from Federal Theology to Modern Federalism, a cura di D. J. Elazar
and J. Kincaid, Lanham, Maryland, Lexington Books, 1999).
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
149
lontane, rappresentano un fondamentale tramite per la teorizzazione
del ‘patto’ teologico-federale nella Riforma e, per tale via, attraverso profondi cambiamenti, per la formazione del federalismo americano moderno e, in generale, per il pensiero federalista occidentale.
Nell’inglese corrente covenant vuol dire patto, convenzione, accordo e perciò oggi si usa indifferentemente come sinonimo di altri
termini come pact, compact, contract52. Ma, fa rilevare Elazar, non
è questa l’accezione originaria e prevalente nell’epoca medievale e
della prima modernità. Egli sottolinea la radice letterale, implicita
in covenant, del sintagma coming together, allineandola al latino
con-venire (che egli rende anche con con-gregation), applicabile sia
in senso fisico che intellettuale. Politicamente l’idea del covenant
(termine usato da teologi e giuristi, prima che da politici) illustra in
origine, scrive Elazar, “a coming together of basically equal humans who consent with one another through a morally binding pact
supported by a trascendent power, establishing with the partners a
new framework or setting them on the road to a new task, and
which can be dissolved only by a mutual agreement of all the parties to it”53. Covenant è, conferma Elazar, la più antica tra le parole
che hanno a che fare con la materia della formazione dell’ordine
politico attraverso il consenso manifestato per mezzo di un patto o
52
Secondo Elazar, solo dopo il Seicento hanno cominciato a imporsi termini quali
compact o contract, che hanno però, secondo Elazar, un rapporto ambiguo di sinonimia col primo e tra loro. Infatti, mentre covenant e compact hanno fin dall’inizio
del loro uso per lo più valenza pubblicistica e costituzionale, contract ha originariamente carattere privatistico. La differenza tra covenant e compact è invece più
sottile. Il primo termine ha maggior forza morale nel legare gli umani tra loro, afferma Elazar, perché ha in prima battuta carattere religioso, dietro di sé ha in
origine l’autorità di Dio, e la mantiene anche dopo il processo di secolarizzazione
avviato nella modernità. Il compact invece deriva la sua forza di legame unitario da
un atto più giuspolitico, è termine che indica un fenomeno secolarizzato. Prendendo appunto in esame il caso americano, Elazar nota come il primo termine sia
ampiamente usato nella prima epoca coloniale fino alla metà del XVIII secolo,
mentre il secondo si impone a partire dall’affermarsi della cultura illuminista nel
periodo della guerra rivoluzionaria per l’indipendenza. Contract, viceversa, è un
termine che viene importato in America, nell’accezione pubblicistica, a seguito
della fortuna del rousseauiano contrat social dopo la rivoluzione francese.
53
Cfr. Elazar, Covenant and Commonwealth. From Christian Separation Through
the Protestant Reformation, cit., p. 1.
150
Corrado Malandrino
di un analogo appropriato legame reciproco54. Essa è stata usata in
prevalenza, in questo senso, fino all’età della Riforma. In Calvino,
nel cui pensiero “viene assorbito l’insegnamento di Zwingli“55, Elazar sottolinea il formarsi di un’attitudine covenantal, prima ancora
che sul piano teologico, a partire dalla ‘professione di fede’ cui
vengono invitati gli abitanti di Ginevra, professione che rappresenta
la forma di un patto consensuale ecclesiastico coerente coi dettami
della legge divina e naturale. Il vero e proprio covenant politico è
illustrato invece, secondo Elazar, soprattutto nel sermone di commento a Samuele I, secondo cui “the citizens should join together in
a political covenant to affirm the city’s political and ecclesiastical
ordinances”56. Tale forma di covenant, suggerito dallo Spirito di
Dio, si sviluppa tra il popolo e il magistrato.
Covenant è il termine usato da molti autori, teologi e politici di
lingua inglese per tradurre le espressioni provenienti dalla Bibbia
ebraica e cristiana che indicano l’alleanza pattizia tra Dio e
l’umanità e, sul modello di questa, tra gli uomini fra loro: il berith
ebraico, correttamente tradotto in greco con syntheke e in latino con
foedus. La tesi di Elazar è che i covenants della Bibbia sono alla base della fondazione di buona parte del costituzionalismo antico e
medievale, quindi della teologia politica federale del protestantesimo riformato e, attraverso un processo di secolarizzazione che vede
l’opera lockiana in funzione di snodo essenziale, della civiltà costituzionale occidentale moderna57. Ciò è avvenuto grazie all’esistenza
di un covenantal stream che partendo dalla tradizione biblica ebraica arriva, “sotterraneo o semisommerso”, trasformandosi attraverso
54
Cfr. Elazar, Idee e forme del federalismo, cit., p. 5: “La comunità politica fondata su un patto implica l’unione volontaria di esseri umani come eguali per
costituire corpi politici, in modo tale che tutti riaffermino la propria eguaglianza di
fondo e conservino i propri diritti fondamentali. Perfino il patto (covenant) di
Hobbes – ed egli usa specificamente questo termine – che costituisce la base di una
comunità politica nella quale il potere è attribuito a un unico sovrano, prevede questa fondamentale eguaglianza, sebbene, in pratica, essa non possa coesistere con il
sistema di governo previsto da Hobbes”.
55
Cfr. Elazar, Covenant and Commonwealth, cit. p. 149.
56
Ivi, p. 182. Elazar cita oltre all’Istituzione della religione cristiana, anche le ordinanze e gli editti politici in quanto atti sostenenti la costituzione covenantal di
Ginevra fino a 1791.
57
Cfr. Elazar, Covenant and Commonwealth, cit., p. 3.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
151
l’antichità cristiana e il medioevo, fino al protestantesimo riformato
(il covenant rappresenta secondo Elazar il ‘principio architettonico’
della Riforma), e di qui influenza la prima modernità, da un lato
tramite l’esperienza religiosa della teologia federale calvinistapuritana, dall’altro tramite la teoria contrattualista secolarizzata di
Locke. Così la concezione del covenant diventa altresì base teorica
per il commonwealth repubblicano58.
Per usare una parola-simbolo di McCoy, il covenant teologico
sta alle concezioni politico-federali dei teorici calvinisti, anche di
Althusius, come una “root-metaphor”59, ovvero uno strumento metodologico “radicale” in grado di illuminare tali teorie, di dar conto
delle loro connessioni con il senso comune, di distinguerle da altre
teorie e di provveder loro i mezzi per giustificare la loro adeguatezza. Il covenant sta alla base di tale visione socio-politica, la stessa
natura umana è “covenantal”, e da esso dipendono le relative teorie
della sovranità limitata, della rappresentanza, e in definitiva la natura stessa dell’ordinamento politico. Wayne Baker e McCoy costruiscono in Fountainhead of Federalism una sorta di paradigma teologico-politico60 e una sequenza coerente di autori della tradizione
teologico-federale, nella sua successione e nel suo graduale qualificarsi da visione prettamente teologica a prassi politica. Il termine a
quo è posto nel 1534, anno della pubblicazione dell’opera di Bullinger, De testamento seu foedere Dei unico et aeterno, che le conferisce una prima forma sistematica. Lungo il corso del Reno, attraverso lotte teoriche, politiche e militari, tale tradizione si radica
nelle regioni tedesche tra Palatinato, Nassau, Assia e Vestfalia (con
diffusione anche a città del nord frisico, come Emden, o anseatiche,
come Brema), nei Paesi Bassi, trovando in Ursinus, Olevianus, Veluanus, Snecanus, Wiggertz, Althusius, Martini, Cocceius, i suoi
rappresentanti maggiori. Di qui il passaggio in Inghilterra e Scozia
tramite autori come Dudley Fenner e William Perkins, Robert Rollock e Samuel Rutheford. In Francia, esponente di spicco della
58
Ivi, p. 47.
Cfr. C. McCoy, The Centrality of Covenant in the Political Philosophy of J. Althusius, in Politische Theorie des Johannes Althusius, a cura di K.-W. Dahm, W.
Krawietz, D. Wyduckel, Berlin, Duncker & Humblot, 1988, pp. 191 ss.
60
Cfr. W. Baker - McCoy, Fountainhead of Federalism, cit., pp. 12-14.
59
152
Corrado Malandrino
teologia federale è nel Cinquecento Stephanus Junius Brutus, autore
delle Vindiciae, e nel Seicento Moïse Amyraut. Ma la vera e propria
sede d’elezione della trasformazione politico-federale in senso moderno è vista nella Nuova Inghilterra. È qui che, mentre in Europa
domina incontrastato lo Stato assoluto territoriale e i fermenti teologico-federali sono dispersi e dimenticati, s’afferma forte la concezione federale delle colonie, premessa alla fioritura federalista del
Settecento. Se il compact dei Padri Pellegrini a bordo del Mayflower (1620) mantiene intatta la sua suggestione (Baker e McCoy lo
descrivono come lo statement che sintetizza in origine, nel modo
più efficace, gli elementi di base della tradizione teologico-federale), è tuttavia nelle parole del magistrato John Winthrop, governatore della colonia del Massachusetts, che sono individuati i passaggi
più salienti del progresso federale. Dopo aver enunciato il covenant
teologico-federale a bordo dell’Arbella, il veliero che trasportava i
puritani nel 1630, nel discorso del 1645 davanti alla Corte Generale
del Massachusetts egli ne formula l’aspetto sociopolitico “con echi
althusiani”61: gli uomini godono di due tipi di libertà, quella naturale (che hanno in comune con gli animali) che è andata corrotta dopo
la caduta nel peccato, e quella civile o “federale”. La libertà naturale è incompatibile col sorgere dell’autorità, non può dar adito a un
patto con essa. L’altro tipo di libertà, “civile o federale”, può esser
denominata anche “morale” in quanto si riferisce sia al patto tra Dio
e gli uomini e alla legge morale, sia ai patti politici e alle costituzioni che vengono stabiliti dagli uomini tra di loro. In Winthrop si
assiste pertanto all’utilizzo in senso proprio del termine “federale”,
che viene collegato bilateralmente, da un lato alla concezione teologica, dall’altro alla sfera della politica. Tale conquista non è persa
tra Seicento e Settecento, ma attraverso autori come John Witherspoon arriva, secondo Wayne Baker e McCoy, alla generazione
della rivoluzione americana e ai teorici del Federalist. È questo il
termine ad quem della tradizione teologico-federale disegnata da
Baker e McCoy.
Occorre dire che non emerge con sufficiente chiarezza da tale
quadro, di per sé pregevole per la capacità di tessere una continuità
nel pensiero federale della prima modernità, il punto della necessa61
Ivi, p. 85.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
153
ria differenziazione sul piano dottrinario e istituzionale tra queste
prime elaborazioni federaliste e il salto di qualità impresso soprattutto dal Federalist e dalla costituzione federale americana allo
sviluppo moderno e contemporaneo del federalismo (si pensi alla
distinzione tra i livelli di rappresentanza e di sovranità tra federazione e Stato membro, alla separazione concettuale tra federazione
e confederazione, alla separazione dei poteri posti su piani diversi,
ecc.).
Tuttavia, il covenantalism così delineato dà conto efficacemente
dell’esistenza di una dimensione etico-religiosa profonda che preesiste nel pensiero politico di autori come Althusius e nel ‘protofederalismo’ della prima modernità. È il segnale di una maturazione
motivazionale interna al federalismo, ma prima ancora all’agire federale, di cui occorre tener conto allorché ci si impegna a pensare il
federalismo in termini più larghi e profondi di una sorta di ingegneria giuridico-istituzionale che, da sola, non è in grado di dare nuove
soluzioni, nuovi contenuti e nuove forme al problema che ci si pone. Non si vuole proporre qui, beninteso, di attribuire all’ispirazione
federalista una preminente dimensione etico-religiosa, né – come
propose Mario Albertini62 – una dimensione “ideologica” all’agire
federalista, ma affermare che non può nemmeno mancare del tutto
un riferimento ideale di questo genere. La debolezza motivazionale
del federalismo italiano ed europeo – che viceversa ha sviluppato la
propria energia a chiarire i dati meramente istituzionali e tradizionali della prospettiva federalista interna e sovranazionale – ha proprio
una delle sue origini in tale carenza storico-culturale. Uno dei grandi deficit che la storia europea ha messo in evidenza nell’epoca
moderna sta proprio nell’insufficiente operare nella sfera politica di
uno spirito covenantal.
Questa messa a fuoco del covenantalism dovrebbe permettere di
chiarire la ragione per cui si dissente da un mancato utilizzo (come
è in Beaud), e da un insufficiente e non convincente utilizzo
dell’opera althusiana (come avviene in Duso) per l’elaborazione di
un diverso pensiero federalista nell’epoca postmoderna (nel senso
elazariano).
62
Cfr. M. Albertini, Il federalismo. Antologia e definizione, Bologna, Il Mulino,
1979, p. 12.
154
Corrado Malandrino
La tesi di Duso sull’applicazione del pensiero di Althusius, in
estrema sintesi, fa perno sull’affermazione che Althusius non ha
una concezione moderna della coppia concettuale sovranità-Stato.
La sua soluzione di una unità politica (consociazione universale)
non eliminerebbe, anzi tiene in vita e valorizza la pluralità. Tale caratteristica si rivelerebbe utile nel pensare l’unione europea, visto
che esclude in radice la forma politica moderna (e quindi, secondo
Duso, l’ipotesi di una statualità europea) e, al contrario, metterebbe
in essere una sorta di unione funzionale in cui i soggetti confederati,
ossia gli Stati membri, restano veri contraenti e decisori del patto e,
perciò, pluralisticamente ‘presenti’ davanti all’istanza (o “potenza”)
costituente da cui dipende il “governo” esecutivo sovranazionale; a
tale suprema “potenza costituente” (immagino si intenda qui l’assemblea o consiglio europeo dei membri costituenti l’unione, che
detiene il massimo potere politico di indirizzo e decisionale) è negata da Duso la possibilità di una procedura decisionale a maggioranza, e concessa solo quella all’unanimità.
A me pare che questo tipo di soluzione non sia conclusiva in
quanto manterrebbe inalterati tutti gli elementi di debolezza politica
dell’unione (a mio avviso non ancora federale) e farebbe assomigliare sempre più l’unione europea all’immagine del Sacro Romano
Impero, cui andrebbero giustamente rivolte le parole di scherno del
Faust di Goethe, l’accusa di mostruosità di Pufendorf, nonché la
condanna senza appello di impotenza politica emessa da Hegel. Infatti tale prospettiva non garantirebbe alcuna certezza di un governo
efficace ed efficiente dell’Europa, non risolverebbe il vero problema di un’unione politica, consistente nel dare autorevolezza e legittimazione ai suoi poteri di governo. Un problema, questo, simile a
quello che si pose tra il 1778 e il 1787 ai rivoluzionari americani
guidati da Washington.
Pertanto, nella prospettiva di trovare una fonte di legittimazione
costituzionale all’unione europea, sarebbe molto più utile un utilizzo
althusiano che faccia perno, da un lato, sul presupposto del covenantalism e, dall’altro, sulla nozione data nella Politica (XVII capitolo)
di “confoederatio plena” in contrapposizione alla “confoederatio non
plena”63, nella quale ha funzione dirimente il concetto althusiano di
63
Cfr. in generale Malandrino, intr. ad Althusius, La politica., cit., pp. 68-80.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
155
sovranità (majestas). Occore infatti ricordare quanto accennato sopra:
ossia che, sebbene Althusius non elabori ovviamente un’idea di sovranità assoluta nel senso bodiniano, ciò non significa che non proponga un’idea di sommo potere (majestas) limitato e controllato nello Stato.
La non-plena confoederatio è in Althusius, invece, la forma istituzionale dell’alleanza stabile tra province o regni che non mette in
discussione il diritto dei singoli membri agli jura majestatis della
‘sovranità’, ma che è istituita a seguito di accordo per un tempo più
o meno prefissato, sempre con cerimonie solenni, al fine di recarsi
mutuo aiuto contro i nemici e mantenersi in relazioni di lealtà, pace
e amicizia reciproca. È insomma molto simile a quella che nel successivo linguaggio politico ‘moderno’, a partire dal Federalist, si
chiamerà semplicemente confederazione. Non vi è in essa alcuna
innovazione rispetto alla tradizione romana (o, volendo, anche rispetto a quella greca delle anfizionie). È interessante notare che
Althusius non fornisce particolari esempi storici di questo genere
ampio e debole di confederazione.
Ben diverso è il caso della «plena confoederatio». Recita il passo althusiano: «La confederazione con un popolo straniero o con un
altro corpo è di due tipi: piena o non piena, realizzata parzialmente
e fino a un certo punto. La consociazione e confederazione piena è
quella con la quale un regno straniero e i suoi sudditi, o una provincia, oppure qualsiasi altra consociazione universale, mettendo in
comune le leggi fondamentali del regno e i diritti di sovranità, vengono assunti e cooptati nel pieno e integro diritto e nella comunità
del regno, e, per così dire, si unificano e fondono in un medesimo
corpo, di cui sono come membra»64. Althusius, pur in un linguaggio
‘protofederalista’ coerente col suo tempo, è consapevole della differenza essenziale in tema di sovranità (jura majestatis) tra questa
speciale ‘confederatio plena’ e quella ‘non-plena’, e la sottolinea
subito: «Non si deve dubitare che questo diritto di stipulare il patto
64
Althusius, La politica, cit., par. 27, pp. 663-665. La definizione è rafforzata sulla
base di citazioni dalle Novelle, da Alberico Gentili, De jure belli libri tres, Hanoviae, Excudebat Gulielmus Antonius, 1598 (cfr. ora l’edizione italiana Il diritto di
guerra, introduzione di D. Quaglioni, trad. di P. Nencini, apparato critico a cura di
G. Marchetto e C. Zendri, Milano, Giuffrè, 2008) e Grégoire, De Republica.
Corrado Malandrino
156
vada ricondotto ai princìpi della sovranità […]». Proprio così: non
c’è dubbio che questo diritto di stabilire un patto federale vada ricondotto ai princìpi della sovranità. Questa differenza non è per
Althusius una novità dei suoi tempi. Infatti prosegue dicendo che
«tale patto e confederazione avveniva tra i Romani con l’intervento
del sacerdote feziale, con cerimonie solenni e tradizionali, prestando un giuramento e dopo aver recitato in pubblico le norme
convenute per il patto». Ovvero con procedure particolarmente solenni e impegnative, che incombevano al collegio dei feziali65, venti
sacerdoti cui era affidata la difesa del diritto internazionale, con la
recita di un giuramento e delle leggi che si mettevano in comune.
Gli esempi di tali «confederazioni piene» sono quelle antiche tra
Romani e Albani, tra Giudei e Gibeoniti, Idumei o Edomiti; e, tra
quelle del tempo althusiano, è citato il caso dell’unione tra Scozia e
Inghilterra, congiunte nella persona di Giacomo I nella dinastia
Stuart.
In sostanza, Althusius può essere utile per riproporre una visione
europea di communicatio jurium, nel senso inteso dalla “confederazione piena”, assistita dalla concezione “sussidiaria” nel rapporto
dei poteri a livello orizzontale e verticale, che costituisce un’altra
caratteristica fondamentale della politía althusiana66.
Questo richiamo – tradotto e mediato per un uso postmoderno –
induce a pensare anche sulla scorta del pensiero covenantalist althusiano alla possibilità di un federalismo per l’Europa in cui sia
più presente la volontà di arrivare a una unione sempre più intima
sul piano politico, perché si ritiene che tale sia il destino comunitario dei popoli europei che credono nella dimensione profonda del
patto da stringere. Inoltre, che tale patto debba essere consacrato da
una fusione più ampia e solida dei propri diritti sovrani. In questo
Althusius dà più di una indicazione.
***
65
Un particolare cultuale e sacrale che non viene riportato per l’altro tipo di confederazione.
66
Cfr. Malandrino, La “sussidiarietà” nella Politica e nella prassi antiassolutista
di J. Althusius a Emden, “Il Pensiero Politico”, XXXIV, 2001, n.1, pp. 41-58.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
157
Tutto ciò premesso, si può abbozzare un ‘paradigma federalistacomunicativo’ (in cui il termine “comunicativo” sia emblematico sia
della communicatio jurium althusiana, sia del ‘paradigma comunicativo’ habermasiano) che accetta la centralità del foedus-covenant, e
perciò l’impostazione del covenantalism, individuando una serie di
fasi elaborative: a) incontro nel foedus-pactum; b) creazione nel e attraverso il patto di un ordine di integrazione delle reciproche autonomie (Trentin); c) caratterizzazione di questo ordine, fondato sul riconoscimento reciproco del diritto, di una transizione allo Stato
universale (termine che in Trentin coincide con la federazione mondiale); d) mantenimento di un momento costituente e di un potere costituente ai vari livelli, dal locale al sovranazionale; e) costruzione di
una nuova identità e cittadinanza.
Occorre però prima brevemente dar conto del tipo di connessione che si propone col paradigma comunicativo habermasiano.
4.2. L’approdo federale derivante dal “paradigma
comunicativo” di Habermas
Proprio l’aporia sopraddetta nella posizione eurofederalista a proposito della fondazione e della definizione teoriche del “popolo
europeo”, e della conseguente lacunosità nel processo teorico di legittimazione di un “potere costituente” europeo, fa apprezzare il
tentativo di critica alla sovranità dello Stato-nazione e di elaborazione federaleuropeista proveniente dalla filosofia habermasiana
della comunicazione e dell’approccio discorsivo. Non voglio affermare che Habermas sia inquadrabile nella tradizione di pensiero
federalista. Tuttavia, soprattutto nelle opere dell’ultimo decennio
del Novecento67, il filosofo francofortese chiarendo bene quali limi67
Cfr. J. Habermas, Faktizität und Geltung, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1992 (trad. it.
Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a
cura di L. Ceppa, Guerini, Milano 1996); Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1996 (trad. it. L’inclusione dell’altro, a cura di L. Ceppa,
Feltrinelli, Milano 1998); Die Postnationale Konstellation, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1998 (trad. it. La costellazione postnazionale, cit.); Si, voglio una Costituzione per l’Europa federale, 2000, in http://www.caffeeuropa.it/attualita/ 112attualita-habermas.hatml; Warum braucht Europa eine Verfassung?, 2001, in
http://www.zeit.de/2001/27/Politik/200127-verfassung-lang-html (trad. it. Perché
158
Corrado Malandrino
ti incontri lo Stato nazionale – nell’epoca della sua crisi – dalla
doppia contestazione mossagli dal multiculturalismo all’interno e
dalla globalizzazione all’esterno –, arriva a chiedersi se all’interno
di tale forma politica esista ancora oggi “la possibilità di coniugare
«nazione dei cittadini» e «nazione etnica», ordine giuridico e cultura popolare”68. Di qui procede ad affermare la necessità di un non
impossibile allargamento della democrazia, oltre i confini dello Stato nazionale, nella federazione europea69. Questo approdo certamente lo colloca, pur con la sua peculiare argomentazione, in una
posizione convergente con l’europeismo federalista. A mio avviso,
il suo impegno si rivela particolarmente prezioso nel contrastare
l’euroscetticismo ricorrente in merito al problema del superamento
del deficit democratico europeo e dell’individuazione di un legittimo e coerentemente fondato soggetto costituente europeo. Per
illustrare tale opinione, vorrei qui utilizzare, in proposito, l’interessante e originale chiave di lettura del contributo filosofico-politico
habermasiano proposta da Sergio Dellavalle in relazione al problema del superamento del concetto esclusivo di cittadinanza statalnazionale, in collegamento con la problematica della “costituzionalizzazione” europea70. Nel libro di Dellavalle si può seguire l’elaborazione comparata degli elementi concettuali del “paradigma comunicativo” – che vi si fa sfruttando un ingegnoso schematismo che
contrappone i tre paradigmi fondamentali delle idee di nazione, cittadinanza e popolo: “l’olistico”71, “l’individualistico”72 e, appunto,
l’Europa ha bisogno di una Costituzione? in Diritti e costituzione nell’Unione Europea. La Carta dei diritti nell’ottica del costituzionalismo europeo, cit., pp. 6379).
68
Cfr. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., p. 130.
69
Cfr. Habermas, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, cit., p. 63: “In
effetti, la sfida non consiste tanto nell’invenzione di qualcosa di nuovo, ma piuttosto nella conservazione delle grandi conquiste dello Stato nazionale europeo anche
oltre le frontiere della nazione e in un altro formato”.
70
S. Dellavalle, Una costituzione senza popolo? La costituzione europea alla luce
delle concezioni del popolo come “potere costituente”, Giuffrè, Milano 2002.
71
Scrive Dellavalle, ivi, che, secondo l’approccio olistico (discusso alle pp. 94175), “il popolo nella sua totalità rappresenta un’entità ontologicamente diversa e
assiologicamente superiore rispetto alla somma degli individui che lo compongono” (p. 10). Di conseguenza alla base del modello olistico dev’esserci “una base
comunicativa condivisa” di valori sostantivi tra cui centralità assume la nazionali-
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
159
il “comunicativo” –, e delle conseguenze della sua applicazione
all’idea della costituzione europea. La tesi di Dellavalle è che il paradigma habermasiano è in grado di far superare i limiti sostanziali
o formali degli altri due, ed è capace di rispondere positivamente
all’esigenza fondamentale “di individuare un’arena specificamente
europea, la quale soddisfi i criteri di una comunicazione autenticamente politica, senza per questo dover ricadere sui contenuti
dell’identità culturale degli Stati-nazione o pretendere di creare – o
riscoprire – un’improbabile omogeneità europea”73. In sostanza, secondo Dellavalle, il “paradigma comunicativo” fornisce le basi
concettuali per separare in modo coerente il momento dell’interazione politica da quello dell’identità nazionale, culturale e religiosa,
ovvero la nazionalità dalla cittadinanza, rendendo possibile il processo di creazione di un soggetto, di un’identità e di una sfera di
tà, che i suoi sostenitori “identificano erroneamente in forma esclusiva con la comunità linguistica che sta alla base della nazione – quale presupposto non neutrale
per lo svolgersi corretto dei processi deliberativi che contraddistinguono la democrazia” (p. 11). Ne consegue l’opposizione euroscettica, “nostalgica” o “capziosa”
(p. 201) a sviluppi europei che oltrepassino la soglia di una confederazione di nazioni (“Europa delle patrie”) in direzione di una unità federale. Di qui la contrarietà
a che si parli di “potere costituente europeo”. In merito cfr. anche la discussione tra
D. Grimm (Una costituzione per l’Europa?) e J. Habermas (Una costituzione per
l’Europa? Osservazioni su Dieter Grimm) ne Il futuro della costituzione, a cura di
G. Zagrebelsky, P. P. Portinaro, J. Luther, Einaudi, Torino 1996, pp. 339-376.
72
Scrive Dellavalle, ivi, che, secondo l’approccio individualistico (discusso alle
pp. 176-205), “l’insieme socio-politico altro non è che la somma ordinata dei singoli che lo costituiscono” (p. 10). Secondo tale concezione, che vede nella
convivenza socio-politica una questione di mera opportunità, priva di dimensione
assiopoietica, uno sviluppo istituzionale verso l'unificazione europea, ovvero verso
la creazione di un grado di sovranazionalità europea, reso necessario dallo sfaldamento della statualità tradizionale, “va considerato come positivo nella misura in
cui ottimizza le possibilità di benessere dei singoli” (p. 11). È connaturato a tale
approccio, estrinsecantesi nella formazione di una “teoria della sovranazionalità”,
l’insufficiente “riflessione sulle condizioni di legittimità delle istituzioni europee,
la quale non può limitarsi alla garanzia del maggior numero possibile di opzioni
per i singoli, bensì deve basarsi sulla consapevole investitura da parte di una cittadinanza europea chiamata a esercitare il suo potere sovrano”. Se pur dunque i
sostenitori dell’approccio individualistico danno supporto concettuale alla formazione di un “potere costituente europeo”, ciò avviene “al prezzo di un grave
impoverimento della dimensione normativa della legittimità del potere politico”.
73
Ivi, p. 203.
160
Corrado Malandrino
attività politica finalizzati alla produzione di una costituzione unitaria europea non confliggente con le esigenze nazionali.
In estrema sintesi, il “paradigma comunicativo” afferma che
l’individuo, “visto come inserito in una rete di interazioni le quali si
estendono su tutta la sua sfera esperienziale e nelle quali si realizza
la sintesi tra il momento dell’individualità autoreferenziale e quello
dell’appartenenza sociale”74, grazie alla sua razionalità teleologica e
alla strategia comunicativa – che gli impone di confrontarsi con gli
altri sui fini e sui contenuti dell’agire attraverso un discorso che, per
realizzarsi positivamente, dev’esser rispettoso, tollerante, pronto a
riconoscere pari dignità e validità agli argomenti altrui – può raggiungere una verità consensualmente definita attraverso l’uso del
“principio del miglior argomento”. Questa concezione delle relazioni interpersonali, non escludente terzi in nome di chiusure
nascenti da appartenenze religiose, cultural-linguistiche o d’altro tipo, né tendente alla massimizzazione del vantaggio individuale
(perciò sfuggente ai limiti intrinseci dei primi due paradigmi), può
esser applicata pragmaticamente nell’ambito della politica, della
morale e dell’etica ottenendo risultati più o meno soddisfacenti. Il
punto cruciale, però, secondo Dellavalle, sta nel fatto che il “paradigma comunicativo” consente di distinguere chiaramente il “codice” interattivo che presiede ai vari tipi di “comunicazione” pratica,
ovvero politica, morale ed etica. Per cui, sottolinea Dellavalle,
“proprio questa attenzione nel tenere rigorosamente distinti i discorsi che, seppur storicamente sovrapposti, procedono concettualmente sulla base di codici diversi, ci permette di applicare con
profitto il paradigma comunicativo alla questione del costituzionalismo europeo e, in particolare, alla tematica dell’articolazione teorica dei fondamenti di quello che potrebbe esser definito un «potere
costituente europeo»”75.
Poste tali premesse, nella prospettiva della creazione di una fonte di legittimità per il soggetto europeo, si rende possibile
svincolare nella sfera dell’etica (che risponde alla domanda generale “come vogliamo vivere?”) il piano dell’integrazione di determinati gruppi e subculture nazionali e infranazionali da quello
74
75
Ivi, p. 206.
Ivi, p. 210.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
161
dell’astratta integrazione politica, che riguarda in modo uniforme
tutti i cittadini di un aggregato più vasto. Mentre sul primo piano
avviene l’interazione tra i membri di una comunità unita da valori
sostantivi (fede religiosa, tradizioni culturali, appartenenze linguistiche, ecc.), sul secondo si sviluppa il confronto tra semplici
cittadini per determinare consensualmente – pur sempre nel rispetto
dei valori predetti – le forme della convivenza politica, che si traducono nei valori che presiedono alle formule del diritto a partire dalle
norme costituzionali, e nelle istituzioni con queste coerenti. Tale distinzione rende possibile scindere la specificità dell’aspetto
nazionale da quella dello stato di diritto, l’appartenenza culturale
dalla cittadinanza. Rispetto allo stato nazionale, che storicamente
invece ha mescolato inestricabilmente questi due piani, ciò implica
un’inversione radicale di marcia (ma non un suo superamento, se
con tale termine si intende la sua sparizione). In realtà, come afferma Habermas, quel che è sempre più impellente fare – nella
situazione di avanzante multiculturalità e in un’Europa che vuole
mandar avanti il processo di unione sempre più intima previsto nei
preamboli dei trattati comunitari – è proprio la separazione della
miscela perversa di interazione politica e culturale, di identità, di
appartenenze nazionali e cittadinanza politica, al fine di arrivare a
definire un “popolo” di cittadini svincolato da legami prepolitici.
Gli individui del “paradigma comunicativo”, impegnati nell’interazione pragmatica sul piano etico, giungono così in ultima istanza a
costituire un “insieme di cittadini di una collettività politica, […]
cittadini dello stato democratico di diritto […], autori delle leggi,
nei confronti delle quali, in quanto destinatari delle medesime, sono
tenuti all’obbedienza”76. Il cemento che unisce un siffatto “insieme
popolare” non può naturalmente essere l’olistico patriottismo nazionale, ma il “patriottismo costituzionale” e, nella fattispecie, un
patriottismo costituzionale europeo. A questo genere di “popolo”
appartiene anche l’identità del “popolo europeo”, da cui può scaturire un nuovo potere costituente. Scrive Dellavalle: “Grazie alla
distinzione concettuale tra la dimensione dell’integrazione politica
dei cittadini e quella dell’appartenenza culturale, etnica e nazionale,
diventa cioè possibile ipotizzare una sfera politica europea, sostenu76
Ivi, p. 216.
162
Corrado Malandrino
ta dalle istituzioni di una crescente società civile integrata, il cui
codice comunicativo consista nella formulazione e legittimazione
delle norme che già oggi coinvolgono tutti i cittadini europei in
quanto tali”77. E verrebbe, per questa via, sanato il deficit democratico che affligge le istituzioni create nel corso del processo di
costruzione comunitaria e confederale dell’Unione Europea. In
conclusione, l’elaborazione habermasiana sarebbe l’unica capace di
fornire “una base normativamente accettabile all’individuazione di
un potere costituente specificamente europeo”78. In conformità con
essa, l’Unione Europea sarebbe considerata alla stregua di uno Stato federale sovranazionale, dotata di una propria specie di sovranità
con proprie istituzioni democratiche scaturenti dalla legittimazione
del “popolo dei cittadini europei”. In effetti Habermas ha sostenuto
con forza l’opzione federale europea all’interno di quella che chiama la “costellazione postnazionale” nell’epoca della globalizzazione.
5. Abbozzo di un paradigma federalista-comunicativo
funzionale all’unità federale europea
L’interessante punto di vista habermasiano, nell’indicare l’idoneità
del “paradigma comunicativo” in funzione della “costituzione” europea attraverso il “popolo europeo” inteso come potere costituente79, mi pare condivisibile per i nuovi federalisti, soprattutto per
le risposte che dà alle argomentazioni sottostanti ai paradigmi “olistico” e “individualistico”.
77
Ibidem.
Ivi, p. 217.
79
Già nelle pagine introduttive (p. 11), Dellavalle afferma che “soltanto l’apparato
concettuale che [il paradigma comunicativo] mette a disposizione permette infatti
di differenziare sufficientemente i modi d’essere del singolo, spiegandone l’appartenenza non contraddittoria a diverse realtà: alla comunità culturale e/o nazionale,
alla collettività politica e all’insieme di tutti gli esseri umani. Distinguendo tra
l’appartenenza culturale e/o nazionale e quella politica, il paradigma comunicativo
dischiude la possibilità di definire con precisione una sfera specificamente europea
dell’interazione politica, la quale va al di là della comunicazione nazionale, senza
per questo coincidere riduttivamente con la mera tutela prepolitica degli interessi
del bourgeois”.
78
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
163
Tutto ciò premesso, perciò, ci si dovrebbe domandare se non sia
plausibile e auspicabile una ridefinizione della critica federalista alla
sovranità statalnazionale, ferme restandone le finalità generali, ai fini
dell’implementazione della sua funzionalità rispetto alla tematica europeista. Penso che ciò si possa produrre a partire dall’elaborazione
di un nuovo paradigma federalista, più specifico e più coerente, quindi più condivisibile sul piano teorico, che riformuli e sfrutti adeguatamente i motivi ricavabili dalla letteratura presentata in questo saggio e li rielabori coniugandoli con il “paradigma comunicativo” e con
lo spirito della communicatio althusiana.
Parto dalla premessa che l’archetipo federalista sia dato dalla
convergenza nell’analisi delle esperienze qualificanti della modernità – tanto in quella sovrastatale centripeta del Federalist che
in quella del federalismo infranazionale centrifugo rinvenibile nella vicenda del girondinismo e, per esempio, nelle teorie anticentraliste di Proudhon e Cattaneo – di diverse correnti di pensiero
che però possono esser ricondotte a una teoria unitaria. Il contesto
teorico generale che tutte le ricomprende è quello del contrattualismo giusnaturalista, come si può constatare dalle teorie dei padri
della costituzione federale americana, di cui è stata mostrata in
modo convincente la filiazione dalle concezioni teologico-federali
dei primi coloni americani80. A mio avviso l’impianto federalista
che se ne può desumere è singolarmente vicino a quello “comunicativo” e ciò può spiegare la confluenza delle specifiche proposte
sul piano europeo. Vediamo allora come si può configurare tale
fondazione federal-comunicativa.
La radice semantica delle parole “federale” e “federalismo” si
trova nel vocabolo latino foedus, inteso come pactum. Fin dalle
origini, constatabili nella cultura latina e tramandate in quella europea occidentale, il fenomeno federale s'incardina sul concetto di
un rapporto politico convenzionale e pattizio basato sulla reciproca fiducia (fides) dei contraenti e non sulla forza. In linea di prin-
80
Cfr. anche C. S. McCoy, Die Bundestradition in Theologie und politischer Ethik.
Anmerkungen zum Verständnis von Verfassung und Gesellschaft der USA, in Konsens und Konsoziation in der politischen Theorie des frühen Föderalismus, a cura
di G. Duso, W. Krawietz e D. Wyduckel, Duncker & Humblot, Berlin 1997, pp.
29-46.
164
Corrado Malandrino
cipio, è la fede liberamente e mutualmente data che crea un’organizzazione comune e obbliga i membri di tale alleanza, più o
meno durevole, a comunicarsi prestazioni, aiuto, diritti. Come è
visto l’individuo capace di foedus-pactum e di fides? È un individuo-soggetto (persona individuale o gruppo formato da individui
distinti con interessi comuni) che è identificabile esclusivamente
dalla sua propensione e capacità positiva di contrarre e sottoscrivere un patto di fiducia con altri individui-soggetti. Ciò esclude
che possa esser concepito soltanto come una monade chiusa in sé
o prevalentemente egoista, poiché deve poter entrare in contatto
con altri interlocutori e intrattenere rapporti in cui concede e riceve fiducia allo scopo di sottoscrivere il patto. A tal fine è
necessario un confronto dialogico nel corso del quale sono portati
in discussione gli argomenti migliori da entrambe le parti e, al
termine, con la sottoscrizione del patto, vi sarà un riconoscimento
del risultato su una base di rispetto reciproco: il foedus-pactum
crea una comunità politica di eguali godenti pari dignità e riceventi pari soddisfazione degli interessi. In tal senso è creata anche una
comunità che vive nel segno della libertà e della giustizia.
Mi pare che la figura teorica così delineata possa suffragare
una immedesimazione tra l’individuo-soggetto federativo e quello
“comunicativo”, nel senso almeno che sia possibile affermare che
il primo è necessariamente anche coincidente con il carattere
“comunicativo” del secondo, mentre non si può dire altrettanto del
secondo, che nella versione habermasiana non necessariamente
deve predisporsi alla sottoscrizione di un patto federale per conseguire il suo scopo. Va da sé che l’individuo-soggetto federativo
non è pensabile nell’approccio individualistico (ed è evidentemente lontanissimo da quello olistico). Infatti l’individuo “individualistico”, nel suo impianto egoista, può avere generica propensione a stipulare patti politici, ma non ha predisposizione determinata al “patto di fiducia” covenantal e federale, e all’ingresso in
intense e fruttuose relazioni comunitarie, mentre tale caratteristica
è centrale per l’individuo federativo. L’individuo-soggetto federativo è teleologico nel suo agire in quanto vuol raggiungere lo
scopo di una vita comunitaria e sociale grazie al patto, che rappresenta il suo strumento di iniziativa strategica. La razionalità
teleologica e strategica dell’individuo-soggetto federativo si attua
dunque attraverso un confronto necessariamente verbale (la co-
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
165
municazione argomentata di volontà al fine della giustificazione
delle intenzioni e della legittimazione delle forme del patto) ed extraverbale (le relazioni personali in senso lato, le procedure del
patto stesso, ecc.). In conclusione: l’individuo-soggetto federativo
è necessariamente un soggetto che comunica al modo habermasiano, nel senso che, come scrive Dellavalle, “mira al raggiungimento di un accordo condiviso tra tutti i cointeressati, sulla base
di un confronto aperto sui fini e sui contenuti dell’agire”81. Rispetto ai limiti messi in mostra dal “paradigma comunicativo” sul
piano politico interno e internazionale82, però, quello federalista
può intervenire con maggiore efficacia sulla prassi politica, grazie
alla ricchezza pragmatica della teoria federalista (che si traduce anche nella teoria dello Stato federale), a partire appunto dall’esperienza americana fino a quelle ottocentesche e novecentesche, europee e globali. Ciò dimostra la maggiore pertinenza del punto di
vista federalista rispetto ai temi in discussione e la sua migliore applicabilità. Non a caso è cresciuto enormemente, come mostra
Elazar, il numero degli Stati inquadrabili in maggior o minor misura nel contesto istituzionale federale. Il patto federale, infatti,
non neutralizza gli interessi diversi, ma al contrario è concepito
per unire le diversità rispettandole, trovando un compromesso elastico, modificabile nello spazio e nel tempo, accettabile da coloro
che intendono partecipare all’unione tra eguali. Il cemento che unisce i membri del patto federale può esser un forte patriottismo
repubblicano e costituzionale unito a una dimensione eticopolitica derivante dalle aspettative circa le finalità di giustizia e di
raggiungimento del bene comune nell’unione. Il foedus-pactum è
la premessa della “carta” in cui vengono fissati valori e princìpi
fondamentali, diritti e doveri, che stanno alla base del patriottismo
federativo-costituzionale. Gli individui-soggetti federativi esplicano la loro attività nei vari livelli di esistenza che coincidono con
diversi piani di aggregazione sociale e politica, legandosi ai valori
culturali e sostantivi specifici di ognuno di questi, pur rimanendo
capaci di esperienze plurali e di appartenenze plurali. Dal loro vario e necessario entrare in rapporti pattizi su ognuno di tali livelli
81
82
Cfr. Dellavalle, Una costituzione senza popolo?, cit., p. 208.
Ivi, pp. 208-209 e 221-225.
166
Corrado Malandrino
si genera in questi una pluralità di patti federali, e di popoli federali, dai quali promana nel contempo una pluralità di poteri
costitutivi (o “costituenti”) federali infranazionali, nazionali e sovranazionali83. Di qui scorre la sorgente di legittimazione politica
per ognuna delle forme statuali costituibili corrispondenti ai rispettivi livelli di interazione politica. Gli individui-soggetti
federativi sono considerabili pertanto nella sfera individualepersonale e in relazione ai gruppi di appartenenza già costituiti e
legittimati: sono i “cittadini” presi singolarmente che, unitisi in
popolo per una decisione esclusivamente politica, grazie a un patto “costituzionale” divengono in determinati periodi e contesti
milanesi e parigini; piemontesi e bavaresi; italiani, francesi e tedeschi, ecc.; infine europei. Tutto ciò avviene senza che siano privati
della genetica capacità di appartenere identitariamente ai gruppisoggetti locali, regionali, nazionali o sovranazionali. Dal loro variegato e mediato complesso promana il “popolo” europeo, ovvero
83
D’altra parte una simile considerazione della cittadinanza in relazione al formarsi delle sovranità condivise sta alla base dell’approccio del federalismo moderno
derivante dall’esperienza americana, cfr. Friedrich, L’uomo, la comunità, l’ordine
politico, cit., p. 297: “[Il concetto nuovo di federalismo] poggia sull’idea che in un
sistema federale di governo ogni cittadino appartenga a due comunità, quella del
suo stato e quella della nazione; che questi due livelli di comunità debbano esser
nettamente distinti e che ognuno di essi debba essere provvisto del proprio governo; e che nella strutturazione del governo della comunità più estesa gli stati
componenti debbano giocare un preciso ruolo nella loro qualità di stati”. Cfr. anche
Elazar, Idee e forme del federalismo, cit., pp. 34-35: “In effetti il significato profondo della soluzione federale americana fu quello di escogitare un modo di
eludere il problema della sovranità esclusiva degli stati […] Invece di accettare le
concezioni europee del XVI secolo dello stato sovrano, gli americani considerarono che la sovranità appartenesse al popolo. Le varie unità di governo – federali,
statali e locali – potevano esercitare solo poteri delegati. Così era possibile che il
popolo sovrano delegasse i suoi poteri al governo generale e a quelli costitutivi
senza incappare, di norma, nel problema di quali di essi possedesse la sovranità,
eccetto che nel campo delle relazioni internazionali”. Per popolo Elazar intende il
“popolo federale” formato dall’unione dei cittadini-soggetti federativi. Tale circostanza è ricordata da Levi nel saggio introduttivo (La federazione: costituzionalismo e democrazia) alla riedizione del Federalista del 1997 (Bologna, Il Mulino,
p. 36), laddove ricorda l’affermazione del deputato James Wilson nella Convenzione della Pennsylvania di ratifica della Costituzione federale: “Il supremo potere
risiede nel popolo come fonte del governo Esso può distribuirne una parte ai governi degli stati e un’altra al governo degli Stati Uniti”.
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
167
l’insieme di tutti questi individui-soggetti federativi, che si può
concepire come “potere costituente” della futura federazione europea84.
Posto che sia accettabile tale impianto teorico, l’obiezione può
riguardare il posto e il ruolo che deve esser comunque detenuto
dagli Stati nazionali che sono ancor oggi i soggetti aventi il maggior peso (se non esclusivo) in termini di identità nazionale e
poteri sovrani in Europa. È evidente che non è ammissibile, per la
natura stessa del paradigma appena enunciato, alcuna ipotesi di
superamento che significhi emarginazione degli Stati nazionali,
così come delle realtà regionali o locali. È anzi da supporre
l’arricchimento dei loro aspetti etnico-culturali e sociali, nel mantenimento di precisi e limitati poteri nazionali di decisione di
ultima istanza (penso, per esempio, al potere di grazia) e di competenze politico-amministrative per tutto ciò che attiene al
territorio e alla popolazione di ognuno secondo un’ampia realizzazione del principio di sussidiarietà. Credo che il paradigma
federalista-comunicativo testé tracciato possa ammettere agevolmente tutto ciò. Ma nel presupposto necessario del venir meno
dell’esclusività e dell’assolutezza della sovranità nazionale, in
quanto: a) proclama l’intangibilità dei valori e degli interessi sostantivi propri di ciascun livello di aggregazione socioculturale,
84
Credo che non sia corretto, per le ragioni dette, contrapporre in assoluto la concretezza dei popoli fondati sull’identificazione nazionale all’astrattezza del
“popolo europeo” nella definizione qui enunciata. In realtà, alcuni popoli nazionali
europei (si pensi al Belgio) hanno un carattere di concretezza sostantiva non molto
superiore a quello di un ipotetico popolo europeo. Ma anche altri (pochi) popoli di
più sicure tradizioni e identità nazionali, come quelli francese e tedesco, subiscono
negli ultimi decenni una contestazione crescente da parte delle originarie componenti minori etnico-culturali e dalle nuove immigrazioni di diversa cultura che
chiedono di integrarsi e di contare politicamente. Per tutti gli stati nazionali vale
sempre più in ultima istanza il ricorso al “plebiscito” soggettivistico di Renan. Ma
mi chiedo: che cosa impedisce a un analogo “plebiscito” pensato in forma prevalentemente politica di applicarsi al caso europeo (magari in forma di referendum
cui sottoporre un’eventuale carta costituzionale europea)? Quale ostacolo si pone
al “popolo europeo” – nel più grande contesto globale – a concepirsi come costituito su una solidarietà fondata “sul sentimento dei sacrifici già fatti e di quelli che si
è disposti a fare”, sul passato di guerre dalle quali si vuol fuggire per sempre e sul
presente dell’integrazione economica, sul consenso e sul “desiderio espresso chiaramente di continuare la vita in comune”?
168
Corrado Malandrino
purché naturalmente questi siano posti in modo da evitare che
qualcuno di loro si trovi in conflitto irrimediabile sul piano politico con quelli di qualche altro livello di appartenenza; b) afferma la
cittadinanza contestuale e plurale, quindi non crea subordinazione
gerarchica tra le differenti forme in cui essa si esprime; c) sottolinea l’esigenza di un patriottismo costituzionale sia al livello
nazionale che al livello europeo, lasciando campo libero allo sviluppo di patriottismi culturali, nel presupposto ammissibile che i
secondi non si pongano in conflittualità con i primi; d) attesta, attraverso la teoria dello Stato federale, che agli Stati nazionali sia
dato un ruolo di primo piano sia nella fase di costituzione della
federazione europea con una presenza diretta, sia nella fase di istituzionalizzazione a regime, attraverso il modello parlamentare
bicamerale e la costituzione di una Camera degli Stati dotata di
ampi poteri legislativi e di controllo politico. Del pari, il paradigma federalista comunicativo non si pone in contrasto irresolubile
con le esigenze rappresentate nelle ipotesi di multilevel systems of
government, in quanto può contemperare il contributo di partecipazione e direzione della cosa pubblica proveniente da vari
soggetti pubblici e privati, statali e non, ai vari livelli di governo
della statualità federale infra- e sovranazionale, pur mantenendo i
caratteri di maggior definitezza istituzionale e di bilanciamento e
separazione dei poteri sui piani verticale e orizzontale che gli sono
propri.
Se il paradigma federalista comunicativo qui abbozzato può risultare plausibile, ci si deve domandare in quale relazione si
ponga con la tradizionale critica federalista alla sovranità dello
Stato nazionale e con la prospettiva di una costituzione federale
europea. La prima risposta è che in entrambi i casi è possibile
l’utile integrazione tra il nuovo e il vecchio paradigma. In effetti,
è intrinseca al nuovo una concezione relativizzante e pluralistica
delle sovranità statuali ai vari livelli, considerato il presupposto
dell’esistenza di realtà statuali infra- e sovranazionali. Rispetto al
vecchio, inoltre, il nuovo paradigma sopra delineato dà maggior
concretezza e individualità al soggetto e al processo costituenti europei con l’indicare precisamente, in accordo col “paradigma
comunicativo”, l’identità di un possibile “popolo europeo” (connotato politicamente e non affermato sulla scorta di asserzioni
Sviluppo di un nuovo paradigma federalista-comunicativo
nella prospettiva di un’Europa federale
169
meramente prepolitiche di natura etnico-culturale, morale, ideologica o movimentistica) nell’insieme dei cittadini europei85.
85
Per l’ulteriore elaborazione di questa impostazione cfr. C. Malandrino, Cittadinanza europea e nuova prospettiva federalista. Limiti istituzionali e potenzialità
teoriche, in La dimensione istituzionale europea. Teoria, storia e filosofia politica,
a cura di F. Sciacca, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 69-104.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 171-186 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Il federalismo tra comunicazione,
amministrazione e costituzione
Pierangelo Schiera
I. Sono reduce da due esperienze che vorrei porre alla base di questo
dibattito padovano, nel tentativo di portare avanti un mio discorso
personale, nella linea, però anche, aperta dalle stimolanti riflessioni
che Giuseppe Duso ci sta proponendo, dai tempi della sua riscoperta
di Altusio, attraverso la rivisitazione della costituzione come fenomeno “costituzionale”, fino ad un possibile federalismo come via di
fuga dalla crisi dell’esperienza storica dello “Stato moderno”.
La prima occasione è stata un’esperienza seminariale nel Dottorato internazionale di storia (Internationales Graduiertenkolleg,
finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, con la partecipazione delle Università di Frankfurt am Main, Innsbruck, Trento,
Bologna e Pavia) dedicato alla “Comunicazione politica” a cura di
Angela De Benedictis a Bologna. La seconda ha coinciso con il terzo atto di un grande convegno trentino, nella vecchia sede dell’Istituto storico italo-germanico, sul Ius publicum europeo, a cura di
Gerhard Dilcher e Diego Quaglioni.
Si tratta, come si vede, di tematiche a respiro assai ampio, risalenti addirittura al medioevo, cioè alla sorgente dell’esperienza
politica occidentale moderna.
Quest’ultima si è sviluppata, secondo me, in una successione (non
necessariamente cronologica, e neanche logica, ma direi di sostanza) e
di combinazione di “funzioni di governo” (ma qui sarebbe necessario
un confronto col pensiero di Biral e Duso in proposito e con i loro usi
terminologici) degli uomini su sé stessi. Esse sono, a mio avviso, le seguenti: POLITICA – COMUNICAZIONE – AMMINISTRAZIONE –
COSTITUZIONE.
A me pare che la serie si presenti e si legga al meglio così come
l’ho enunciata, anche se ritengo che per la sostanza di quel fenomeno storico, l’ordine dei fattori non modifica il risultato; anzi, a
seconda della lettura che se ne vuol dare, può essere possibile e
Pierangelo Schiera
172
conveniente alterare a piacimento sia punto di partenza che d’arrivo. Precisando che l’ottica da cui mi pongo è quella storica (cioè
non quella filosofica, né giuridica, né economica, né sociologica),
provo a illustrare brevemente i concetti che impiego.
•
Per POLITICA intendo la consapevolezza umana (che certi
uomini storici a un certo punto – tempo-spazio – hanno manifestato e messo in pratica) di “potere/sapere” risolvere con
soli mezzi umani (senza necessario rimando a interventi esterni, meta-fisici) i loro problemi di convivenza. Affermo
che, nonostante le grandi approssimazioni già raggiunte, su
questa strada, in epoca antica, tale evento si è compiuto a
partire dall’inizio del Secondo millennio dopo Cristo.
•
A rendere possibile ciò hanno contribuito in maniera decisiva
due circostanze storiche: la solidificazione del Cristianesimo
(lungo tutto il primo millennio ancora da considerarsi “fluido”
e quindi incapace di offrirsi come campo egemonico di produzione di valori anche sociali e politici) e la dotazione di
funzione sociale alla scrittura (intesa come nuovo medium
comunicativo “popolare”), grazie anche all’importazione della tecnica di produzione della carta, ma soprattutto in risposta
agli impellenti bisogni di registrazione di nuove attività economiche, amministrative e ordinamentali delle comunità
umane interessate. Nei due campi (quello civile – Regno e
Comuni – e quello ecclesiastico – Vizi e Virtù) si è avviato e
diffuso un processo di COMUNICAZIONE senza eguali nel
passato, in termini sia grafici che simbolici. La comunicazione è così divenuta il letto indispensabile alla politica perché
quest’ultima potesse esplicare la pienezza dei suoi contenuti.
•
Questi ultimi si possono sintetizzare nell’emergenza di “bisogni”, differenziati ma omogenei, di sicurezza, sia rispetto al
controllo dei conflitti propri di una convivenza dinamica che
rispetto al soddisfacimento di aspettative crescenti di buona
vita. L’affresco medio-trecentesco di Ambrogio Lorenzetti a
Siena è il maggiore testo celebrativo del “Bencomune”. Vi si
esprime (in particolare nel Gran Vecchio che tira i fili del dipinto) la forza d’urto dell’AMMINISTRAZIONE, intesa
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
173
come la prestazione di sicurezza di cui la convivenza politica
ha bisogno per legittimarsi in termini di successo. Secondo
me, tutte le forme che la convivenza assume, in Occidente,
per prestare tale “cura”, non sono altro che adattamenti storici
e culturali della principale funzione amministrativa.
•
Gli equilibri di volta in volta raggiunti nella composizione di
questi fattori costituiscono la “costituzione” della convivenza.
Ogni convivenza, se equilibrata, possiede una costituzione,
che merita di essere come tale considerata e studiata. Ma, nel
breve ambito della storia costituzionale occidentale moderna
(durante il Secondo millennio cioè), non si può negare vi sia
stato, rispetto all’elaborazione di questi fattori, un variegato
sviluppo (spesso elevato a forza storica e morale di progresso,
soprattutto in chiave storiografica: si pensi al whiggism inglese, principale responsabile dei molti equivoci sui differenti
percorsi storico-costituzionali nell’Isola e sul Continente). Ciò
è avvenuto grazie al raffinamento delle prassi politicocostituzionali applicate (istituzioni) ma anche (e pour cause!)
grazie all’approfondimento teorico delle dottrine relative: nei
campi della teologia, della filosofia, del diritto, dell’economia, della polizia-amministrazione e via dicendo. Da ciò è
derivata un’accumulazione d’interesse (teorico ma anche pratico, dottrinario e istituzionale insieme) sulla possibilità di
concentrare in una summa scritta, sintetica e coattiva gli elementi essenziali di sostanza e persistenza di ogni convivenza
organizzata. È emerso cioè, dentro al più vasto movimento
del costituzionalismo europeo-atlantico, il concetto moderno
di COSTITUZIONE.
II. Dopo questa breve introduzione, vorrei presentare criticamente
qualcuno dei termini usualmente più impiegati (in particolare anche
da me stesso) nel nostro ambito di discorso, compiendo un tentativo
di riscontro coi fattori appena descritti.
Stato (moderno)… Da molti anni lo definisco come «…forma storicamente determinata di organizzazione del potere…». Ma i dubbi
sono molti: forma, più precisamente, di che? Fu un modo, fra i tanti
possibili e i pochi storicamente realizzati, di “pensare” la politica? O
174
Pierangelo Schiera
un modo solo di “farla”? Certo la politica, allora, viene prima dello
Stato, e forse allora può continuare ad esserci anche dopo… E l’amministrazione?… E la comunicazione?… Per ora direi che la vecchia
definizione andrebbe perfezionata mediante l’aggiunta dell’aggettivo
“legittimo” al “potere” evocato. La ragione dell’aggiunta risulterà più
chiara in base a quanto dirò sulla “legittimazione” tra poco.
Ius publicum europaeum… È, per i giuristi (per gli storici del diritto), il campo di massimo esercizio di verifica della storicità
dell’esperienza politica europea, nella sua dimensione pubblica e statale. Ciò deriva, senza alcun dubbio, dal monopolio che i giuristi
(tedeschi ma non solo) hanno saputo esercitare sul tema “Stato” nel
corso dell’Ottocento. È una prospettiva che va superata, ma non è facile spezzare questa incrostazione giuridicistica. Eppure, già fin da
prima non c’era solo il diritto a comporre e condizionare il campo regolato della vita “pubblica” degli uomini riuniti in comunità: si pensi
alla religione ad esempio (dal livello alto della teologia a quello popolare della predicazione e della comunicazione simbolica); o anche
l’economia (mercanti)…; o la società (ordini sociali e ceti, con le loro
libertà e privilegi…); o più in generale la mentalità (soprattutto quella
risalente alla immemoriale antichità, alla Pocock…; ma anche sotto
forma di unità culturale (Weber, Sombart o Elias o Foucault…).
Sovranità… Se ne parla, oggidì, sempre più spesso in termini di crisi
Ma da quando? Solo dalla comparsa della costituzione “democratica”? O fin dal porsi (hobbesiano, come ritengono proprio Biral e
Duso) del nesso moderno tra autorità e rappresentanza politica? …in
una “logica” per cui una realtà politica unitaria può essere pensata solo se un’azione rappresentativa riduce la molteplicità (moltitudine?)
ad unità? Oppure, più terra-terra, a partire dal contrasto – sia istituzionale che dottrinario, come dimostra il caso inglese, che va
assolutamente recuperato alla comune storia costituzionale europea e
poi atlantica – fra Principe e Parlamento, a sua volta frutto dell’evoluzione dal Re-giudice (jurisdictio) al Re-amministratore (gubernaculum… Policey… vollziehende Gewalt…) al Re-legislatore (popolo… gesetzgebende Gewalt… “Berlusconi”)?
Legittimazione… È la grande novità che caratterizza, secondo me, la
politica moderna (a partire, cioè, sicuramente, dal Secondo millennio
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
175
di cui sopra) rendendola diversa da quella (che dunque mi piacerebbe
chiamare in altro modo) “antica” (greca e romana ad esempio…). Essa riguarda specificamente il ruolo occupato – in questa “nuova”
politica – dal potere (meglio “dominio”, come insistono a dire certi
brunneriani padovani? …Comunque Herrschaft: quindi la traduzione
italiana più corretta dovrebbe essere, mi pare, “signoria”). Essa significa, alla Weber, disposizione pronta e automatica ad accettare un
comando da parte dei suoi destinatari “previsti”. Essa è dunque, per
forza, un’evenienza successiva all’esistenza del comando stesso, il
quale ultimo rappresenta dunque la “cosa effettuale” da cui partire,
relativamente al modo di concepirlo, formularlo ed esprimerlo, per
esempio (anche per quanto riguarda l’ambito dei citati – e non certo
secondari! – destinatari. E come può avvenire ciò? In tanti modi, ma
per dar l’idea bastano anche quelli ideal-tipici di Weber: o per usurpazione… (carismatico), o per lenta sedimentazione… (tradizionale),
o per convinzione ideologica (legale). Ma poi, la regolare accettazione del comando – ovverossia la legittimazione – porta alla sua messa
in pratica: cioè la legittimazione non è un puro atto fine a sé stesso,
puramente speculativo, psicologico (vero o finto, individuale o di
gruppo, o di massa…) ma si compie (se no non c’è, per capirsi: non
sussiste proprio) in atti concreti e sanzionati. La legittimazione stessa
diventa perciò “cosa effettuale”, empiricamente verificabile e soprattutto produttiva di effetti materiali.
Ma, come sappiamo, questo è proprio affare dell’amministrazione… La quale, però, mi sembra rappresentare una struttura sottostante, capace di far da ponte da una legittimazione all’altra. Essa
c’era, cioè, già da prima, in quanto comunque serviva a mettere in
pratica il comando precedente, anche a prescindere dalla sua perdurante legittimazione. L’amministrazione, dunque, viene prima dello
Stato, prima della legittimazione, prima forse della stessa politica, nel
senso sopra detto. Ed è perciò qualcosa che permarrà anche dopo
l’esaurimento dello Stato, del principio di legittimazione, della politica stessa. È insomma ciò su cui preventivamente puntare per pensare
seriamente al FUTURO.
III. Il nesso legittimazione-comando-amministrazione è naturalmente
molto importante anche per i nostri problemi attuali; però considero
necessario non ridurre il quadro del ragionamento alla fase contemporanea dell’evoluzione politica, anche se è quello che c’interessa qui
176
Pierangelo Schiera
oggi particolarmente. Ciò che ci accomuna infatti (filosofi, giuristi,
economisti, politologhi che siamo qua riuniti a discutere di federalismo) è di ricorrere a riferimenti di tipo storico (e storiografico) per
compiere la ricognizione – che io riterrei però rientrante, più che in
banale quadro storiografico, in una vera “scienza della cultura” ben e
modernamente intesa, come fa ad esempio Otto Gerhard Oexle, che
spero di tradurre presto in italiano – dei fattori attualmente in formazione del quadro di riferimento politico di questo nostro mondo in
trasformazione (globale). Anche quest’ultima infatti resterebbe incomprensibile (proprio anche per quanto riguarda gli strumenti da
usare – concetti, Begriffe – per coglierla – greifen – nei suoi elementi
costitutivi) se non la si ponesse in raffronto con la situazione da cui
fuoriesce. A me pare, insomma che l’intera storia di cui tutti quanti ci
occupiamo sia iniziata assai prima, proprio muovendosi tra i miei
quattro paletti di partenza; ma anche, in particolare, costruendo adagio adagio e utilizzando con storica determinazione (che non vuol
dire necessariamente, in senso whiggish, predeterminato “progresso”)
gli strumenti che ho appena succintamente e criticamente presentato.
Altri ve ne sono senz’altro – e li possiamo ben trovare, a partire dalla
diversa specialità di ciascuno di noi – e sarei lieto che ciascuno contribuisse a fornire un suo piccolo elenco, in modo da metter insieme
un dizionarietto storico-concettuale che potrebbe essere assai utile
all’indagine comune.
Tutto ciò mi consente di arrivare finalmente al tema specifico del
nostro incontro. Ecco dunque l’ultimo termine-concetto da considerare.
Federalismo… Intendiamo anche qui, come per lo Stato, un modo
di pensare la politica? Un modo realmente nuovo, quindi incompatibile con ogni riferimentog agli Stati “nazionali-costituzionali” che
conosciamo? E anche con quelli “federali”, esistenti o esistiti (USA,
CH, Deutsches Reich, Impero austro-ungarico, ad esempio)? Oppure si tratta di una “cosa effettuale”, più profonda e strutturale, da
mettere in relazione con la legittimazione, con la politica, o addirittura con l’amministrazione?
Forse è meglio iniziare a vedere che rapporto c’è, o si può instaurare tra federalismo e Stato (moderno). Per Duso, sembrerebbe necessaria una «…concezione dell’unità di una entità politica e del comando necessario all’ordine, che siano strutturalmente diversi da quelli
che caratterizzano quella sovranità che sta alla base della dottrina e
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
177
dell’esperienza dello Stato». Il che equivale a dire che, attraverso un
«…comando come esprimente la volontà di tutti, si riesce a pensare
come strutturale la partecipazione attiva da parte dei membri della realtà federata, e attraverso essi dei cittadini”. Ma « …come concepire
un comando che non sia dominio sulle parti, né annullamento della
loro autonomia politica; ed una ubbidienza al comando che sia tuttavia compatibile con l’affermazione della supremazia della totalità
plurale di quei membri che pure ubbidiscono?».
D’altra parte, per Béaud «…Si può dire che il federalismo implica
un principio olista, solo se ci si emancipa dal significato che ha normalmente l’uso di questo termine, come cioè l’opposto dell’individualismo, perché è proprio dalla contrapposizione di soggetto individuale e soggetto collettivo che bisogna uscire». E Duso ribadisce
allora: «Insomma il problema logico che sta alla base di un pensiero
federalistico consiste nel pensare l’unità di una entità politica come
costitutivamente plurale, superando il rapporto molti-uno che è connaturato alla sovranità». Ma, aggiungerei io, anche allo Stato
(moderno) e all’idea moderna di legittimazione. E alla politica? E
all’amministrazione?
IV. La domanda è insomma la seguente: una tale nuova visione del
federalismo apre a qualcosa di diverso dalla progressione amministrazione-politica-legittimazione-Stato che ho appena proposto?
Oppure consente di rimanere all’interno di quella linea, insinuandosi in qualcuno dei passaggi che la caratterizzano? Aprirebbe, il
federalismo, solo a un’alternativa allo Stato, o anche inciderebbe
sul codice stesso della legittimazione, o della politica, o addirittura
dell’amministrazione? Essendo questi – secondo la mia proposta – i
passaggi della “civiltà politica” dell’Occidente moderno, mi chiedo
insomma se l’ipotesi federalista sia tanto rivoluzionaria da porsi oltre la civiltà politica occidentale stessa, offrendosi quindi come
possibile via di un incontro con altre civiltà umane o addirittura –
ma per altri profili, ovviamente diversi da quelli storicamente nostri
– “umanistiche”.
Una risposta a tale questione richiederebbe, preliminarmente, di
superare la concezione del federalismo solo come principio regolatore dei rapporti esterni tra comunità politiche. Questa è stata,
finora, l’idea di gran lunga prevalente, ma non porta più da nessuna
parte, vista l’impraticabilità dell’ipotesi di una federazione mondia-
178
Pierangelo Schiera
le, che si ridurrebbe alla proiezione a livello globale dello schema
dello Stato (moderno). L’instaurazione di Stati federali, infatti, non
ha potuto che riprodurre, allargata, la forma statale di organizzazione del potere, ricalcando il gioco obbligato tra centro e periferie in
una logica effettivamente tendente sempre a riprodurre e perpetuare
il “principio centralistico”. Il che non significa che non vi siano differenze, anche profonde, tra una strutturazione dell’apparato statale
di tipo semplicemente decentrato (mediante la cosiddetta amministrazione periferica di tipo prefettizio, per intenderci) piuttosto che
autonomistico (in base cioè ad autogoverno, a vera e propria amministrazione locale), ma senza però conseguenze sostanziali sull’unicità della decisione e sull’unitarietà del processo decisionale; come
pure, soprattutto, senza contribuire davvero alla reale partecipazione a quest’ultimo della pluralità dei cittadini.
Già da tempo vado sostenendo l’utilità di un nuovo concetto di
“autonomia”, che vorrei ora, qui, proporre come possibile risvolto
interno dell’idea federale, invece proiettata all’esterno. Dove, per
autonomia intendo la condizione di una comunità di base, nel suo
sistema di relazioni con altre comunità, sia in senso verticale (verso
l’alto o verso il basso della “gerarchia” di grandezza, in senso tanto
quantitativo che qualitativo) che – soprattutto – in senso orizzontale
e trasversale. Una condizione di titolarità e soggettività piena, alla
fine, paragonabile a quella di un nodo entro a una rete, che può essere insieme punto di recezione come di emissione di impulsi da e
verso tutti gli altri possibili nodi della rete stessa. La gestione
dell’insieme di questi impulsi richiede in effetti una capacità disciplinatoria e organizzatoria (sono i principi basilari del rugby, il
gioco che, insieme agli scacchi, meglio configura metaforicamente
l’azione politica collettiva) che supera di gran lunga quella – centralizzata – dello Stato (moderno) e della sua amministrazione. La
quale pure (non lo si dimentichi mai) a sua volta si era potuta affermare come vincente, rispetto al prima, grazie alla sua capacità
“prestazionale-leistungsfähig” (anche allora, per i tempi, organizzatoria e disciplinatoria) di offrire risposte adeguate (in quanto centralizzate, appunto) alle esigenze crescenti – e crescentemente disattese – di una società (quella tardo-medievale e primo-moderna) che
raggruppava in sé, sulla base di interessi condivisi, gruppi e comunità di troppo vario, ormai, ordine e grandezza.
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
179
Non può essere un caso che oggi esistano soluzioni tecnologiche
di gestione (anche a distanza) di dati (anche complessi) che sembrano
consentire il controllo di questa miriade di impulsi “comunitari” di
cui stiamo parlando e che la tecnica centralistica dello Stato “moderno” (pur nelle sue varianti contemporanee: nazionali/federalistiche,
democratiche/dittatoriali…, con tutte le possibili mescolanze…) non
sembra più in grado di padroneggiare. Lo sviluppo tecnologico non è
infatti mai spontaneo, come talora sembra apparire, ma è sempre il
frutto di bisogni latenti, ancor prima che presenti, nella cultura materiale di un dato tempo. La spinta tele-matica che sta caratterizzando il
nostro tempo attuale risponde certamente al bisogno basilare di produrre e ricevere impulsi sempre più frequenti e interrelati fra loro da
parte di “punti della rete” sempre nuovi e può ovviamente rappresentare, nello stesso tempo, una risposta a quel bisogno.
Si tratta di capire se, e in che modo, da queste evenienze tecniche
e sociali può venire anche una “cosa effettuale” che abbia rilevanza
politica per noi e per il FUTURO. Non ho tema di azzardare una risposta positiva, come pure di proporre che, sul piano politico, tale
risposta si possa tradurre in una nuova concezione di federalismo, nel
senso che stiamo esaminando in questo nostro incontro.
V. Un “federalismo” dunque rivolto all’interno dell’organizzazione
del potere, per articolarne l’intima pluralità, in una chiave PERO’ di
grande rispetto dei molteplici soggetti interessati e quindi anche di
stimolo alla partecipazione loro – diretta o indiretta – al processo
decisionale.
Siamo, naturalmente, nel regno dell’opinabile o anche, in certa
misura, nel regno fantastico dell’utopia. Già che ci siamo, allora, farei un altro passo avanti in questa direzione, a proposito della natura e
qualità dei soggetti plurimi che il nuovo federalismo qui ipotizzato
potrebbe esser chiamato a valorizzare.
Tutta l’impostazione di discorso praticata finora induce a ritenere
che sia superata o non più “sostenibile” (proprio nel senso anche sociologico-culturale e, perché no, anche ideologico che il termine ha
recentemente acquisito) la priorità assegnata all’individuo in termini
di soggettività politica e sociale. Intendo dire che, se quest’ultima va
intesa come titolarità di responsabilità condivise, rispetto anche ai discorsi “ di rete” che ho appena fatto, allora è più facile che ciò
riguardi soggetti collettivi (cioè GRUPPI) piuttosto che individuali.
180
Pierangelo Schiera
Già in un precedente mio intervento a Padova, attribuivo al costituzionalismo di oggi – come suo contenuto specifico – la “tutela
dell’individuo nella comunità”. Sostenevo là che, se la dimensione
(soprattutto in termini di mentalità) dell’individuo non può ormai
più essere abbandonata, in quanto entrata in modo irreversibile nella traccia culturale dell’uomo moderno (non solo quello occidentale, ma – attraverso l’egemonia svolta da quest’ultimo per qualche
secolo a raggio mondiale – anche tutti gli altri), essa è però ormai
stata (o va ancora, ma rapidamente) metabolizzata all’interno di
un’altra dimensione – essa pure storica, anzi ancora più risalente –
che è quella della corporation-trust (mi riferisco a Maitland, anche
nella sua recezione non priva di contrasti di Gierke: anche a tale
proposito appare urgente un superamento della separazione Inghilterra-Continente!). Questo è infatti il luogo in cui si può esplicare al
massimo grado una responsabilità condivisa da ciascuno dei membri per il bene comune.
Si tratta di temi molto delicati, di cui è difficile trattare senza cadere in semplificazioni vistose, o in retoriche vane. D’altra parte mi
pare necessario iniziare a parlare – o a riparlare – in qualche modo,
partendo da qualche parte, di queste cose, tra cui rientra anche il discorso che da un po’ sto iniziando a fare intorno alla SOLIDARIETA’, forma aggiornata e moderna (ma forse servirebbe un’altra
parola che non riesco a trovare) della più o meno rivoluzionaria
“fraternità” ottocentesca, così a cavallo tra le due grandi spinte, non
solo ideologiche, del costituzionalismo e del socialismo.
È troppo ipotizzare il lancio di un discorso che porti dalla sovranità alla solidarietà attraverso l’autonomia? Ed è eccessivo vedere in
ciò la traccia di una possibile rifondazione del federalismo? Nonché, in certa misura, anche di una rivisitazione aggiornata dello
stesso costituzionalismo? In termini anche di maggior peso dei
gruppi umani rispetto agli uomini individui?
Per precisare meglio, si tratterebbe allora non già dell’abbandono del
costituzionalismo tradizionale (che a sua volta non aveva certo significato l’abbandono delle vecchie form(ul)e costituzionali medievali e
pre-moderne) ma del suo superamento in qualcosa che per ora possiamo chiamare “nuovo” costituzionalismo, inteso in termini molto
più materiali che formali. Con la conseguenza di poter dedicare la
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
181
dovuta attenzione al tema dell’amministrazione, in cui si è manifestato un carattere fondamentale della storia costituzionale occidentale,
che è quello dell’intreccio costante di pragmatismo istituzionale (che
possiamo anche chiamare “riforma”) e di riflessione teorica, sistematica e formale (che è il campo delle “dottrine”, in un’accezione
“pratica” e applicativa, non solamente teorica e astratta). Infatti, intorno all’amministrazione sono state elaborate differenti miscele e
soluzioni sintetiche, a seconda della capacità culturale delle diverse
comunità di tenere uniti i due elementi: quello empirico e quello dottrinario. Migliori in assoluto i britannici, che sono andati più avanti di
tutti col loro innato e naturale – sembrerebbe – whiggism: e in ciò,
più che in aspetti di sostanza, sta, a mio avviso, la differenza della loro storia costituzionale rispetto alla nostra, dell’Europa continentale.
VI. Ho già più volte accennato al ruolo dell’amministrazione nel
mio ragionamento, sottolineandone la lunga presenza nella storia
costituzionale europea, anche rispetto alla (per i giuristi) più tradizionale e soddisfacente trattazione di essa in termini di ius
publicum. Ritengo infatti che quest’ultimo non vada ridotto solamente a una sequela più o meno genealogica di dottrine sui temi
della iurisdictio piuttosto che della sovranità, ma vada colto anche
nella sua capacità di regolare, con lo strumento del diritto, i diversi
campi emergenti della vita collettiva, da quello economico, a quello
militare, fiscale e via dicendo. Anche nell’ambito del ius publicum
europaeum, a tutto ciò ha dato risposta l’amministrazione-politiapolice-policey, vero motore per l’entrata in funzione della macchina
dello Stato (moderno).
La mia domanda è allora la seguente: può darsi che l’amministrazione sia (stia per essere) il probabile motore anche per
l’imminente (o già in corso?) “fuori-uscita” da quello stesso Stato, se
fosse vera e perdurante la sua crisi? Non so davvero rispondere, ma
rimando al saggio di Miglio del 1957 sulle Origini della scienza
dell’amministrazione, che tra poco verrà ripubblicato sulla “Rivista
trimestrale di diritto pubblico”, con qualche commento ulteriore da
parte mia sul ruolo rivoluzionario che, cinquant’anni dopo, mi pare si
possa attribuire all’amministrazione e alla sua “scienza” nel superamento – addirittura – della forma-Stato (su cui, peraltro, rimando
all’altro fondamentale saggio di Miglio dal titolo Genesi e trasforma-
182
Pierangelo Schiera
zioni del termine-concetto “Stato” del 1981, pur esso recentemente
ripubblicato).
L’altra volta, a Padova, facevo anche riferimento all’abuso che
non solo giornalisticamente si fa del termine governance. Reitero
l’invito a sociologhi e politologhi a non confondere mai, anche sul
piano storico, tra governance e government; ma allo stesso tempo richiamo anche noi storici-sociologhi-filosofi, ma anche giuristi ed economisti, a non sottovalutare questi processi semantici che chiamerei di “slittamento di senso” (apparentemente innocui o insignificanti o ritenuti solo fuorvianti) che talora pongono le basi di ciò a cui
dovrà riferirsi la “nuova” costituzione. Perché nessuna costituzione è
mai caduta dal cielo, bensì tutte sono sempre state “risposte” – più o
meno tardive o precoci, riformiste o rivoluzionarie, o entrambe le cose insieme, come il più delle volte è accaduto e ancora accadrà – a
bisogni precisi delle comunità umane interessate.
VII. Ciò che più conta è capire chi sono questi “interessati”: non intendo naturalmente quelli “vecchi”, che vengono superati dai nuovi
bisogni e quindi anche dalla nuova costituzione (che è risposta ai
bisogni “nuovi”), e neanche solo quelli immediatamente coinvolti
nel mutamento costituzionale in atto, ma possibilmente anche quelli
“futuri” (participio futuro del verbo “essere”!), quelli cioè che
“stanno per essere”. È lì (sui soggetti) che si giocherà – come sempre – il clou dell’intero processo, nel cleavage tra cittadini (passatipresenti-futuri) e schiavi. È lì che il potere costituente – se ancora
c’è o ci sarà – si rinnova davvero e torna ad essere protagonista della storia costituzionale.
Nei termini “federalistici” che sto proponendo, ciò tocca di nuovo
l’articolazione della società in comunità (al plurale). Riprendo di
nuovo e volentieri una bella e accurata definizione che Gianfranco
Miglio ha dato, per altri scopi, del termine ‘corporazione’, nell’accezione secondo lui tradizionale, intendendola come «collettività di
individui stabilmente organizzati per soddisfare un interesse comune
con mezzi forniti dagli stessi componenti e, in genere, mediante amministratori scelti dai medesimi». È un’accezione che presenta una
visione per così dire “sociale” del corporativismo, così come in senso
sociale sto cercando di riciclare io qui l’antico termine-concetto di
federalismo. Miglio parla anche, a un certo punto, di “pluralismo
corporato” e svolge la seguente considerazione: «È molto probabile
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
183
che la contraddizione, implicita nei regimi ‘rappresentativi’, appaia
oggi esasperata perché la crescita senza precedenti dei processi informativi fornisce ai singoli incessantemente stimoli ad aggregarsi, in
base a (pretesi) ‘interessi’ frazionali. Quando (quasi) tutti sanno (quasi) tutto di (quasi) tutti, in ogni potenziale ‘categoria’ o ‘sottocategoria’ sorgono senza fine occasioni e promotori di organizzazioni
‘corporative’. L’azione destabilizzante esercitata, in regime di ideologia ‘egalitaria’ , dal ‘corporativismo brado’ sulle istituzioni, sta nel
fatto che le ogni frazione dei cittadini pretende i privilegi delle altre,
ma senza rinunciare ai propri».
Come sempre in Miglio, c’è dentro tutto o quasi, ma occorre interpretarlo.
Occorre discernere. Che conta è, innanzitutto, la “contraddizione
implicita nei regimi amministrativi”, su cui non si può non essere
d’accordo; insieme al concomitante “regime di ideologia egalitaria”, su cui invece occorrerebbe, se ci fosse più tempo, soffermarsi.
In secondo luogo, è evidente – oggi ancor più che ai tempi di Miglio – la “crescita senza precedenti dei processi informativi”, su cui
bisogna però dire di più, perché nel frattempo quei processi stanno
diventando assai più che solo informativi e quindi molto più cogenti, da una parte, ma anche potenzialmente partecipativi, dall’altra; in
terzo luogo è importante il riferimento al “corporativismo brado”,
che in Miglio ha un significato degenerativo, perché l’espressione
presuppone evidentemente anche un corporativismo non brado, che
non si capisce bene se è uno che prima già c’era e poi è degenerato
(quello fascista?) o uno che ancora non c’è, ma bisogna impegnarsi
per costruirlo (quello fascista, nuovamente?). È probabile che per
Miglio valesse la prima ipotesi, o anzi meglio forse l’ipotesi che
nessun corporativismo va bene, perché, hobbesianamente, si tratterebbe comunque di un inquinamento dell’obbligazione politica
autentica. Per noi invece non dev’essere così, nella logica di discorso che stiamo seguendo: quella federalistico-sociale.
Il punto cruciale è dunque – ancora una volta – l’individuazione
degli interessi “comuni” che, al posto dei “(pretesi) interessi frazionali”, spingono uomini ad aggregarsi in corporazioni, che oggi si
potrebbe anche semplicemente chiamare “social groups”. Viene poi
il problema del senso che tali aggregazioni acquistano nell’articolazione della società: va verificato se il loro “bradismo” (è un termine che sul Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio di Mauro
184
Pierangelo Schiera
non esiste, ma corrisponde, nelle mie intenzioni, allo “stato brado” e
riguarda animali – spec. bovino o equino – ma anche il loro allevamento e si identifica con una condizione di “libero, selvaggio,
selvatico”, che ha come contrario “domestico”: insisto su ciò, perché
il termine mi sembra evocare lo “stato di natura” dei giusnaturalisti e
dunque anche dell’appena citato Hobbes) può essere portato a regolarità definita e accettata, se cioè può essere “addomesticato” e reso
socialmente utile (inutile dire che tale processo rientrerebbe nella
strutturale funzione di disciplinamento che ogni organizzazione umana presuppone).
Certo che spero e ritengo di sì (altrimenti non si sa dove si andrà
a finire, visto il carattere pandemico dell’associazionismo spontaneo, specialmente in web): allora mi devo chiedere se il risultato
della eventuale normalizzazione di questa “gruppolosità” – la quale
può e forse dev’essere in progress, ciò avvenire in continuo e non
una volta per tutte come nei vecchi “contratti sociali” – può aver a
che fare con quella funzione di “governo” che ho sempre visto, fin
qui, nell’amministrazione.
L’amministrazione, cioè, come aggregato delle due funzioni basilari (come nel rugby) dell’organizzazione e della disciplina.
VIII. Voglio dire che il corporativismo stesso, nel suo farsi e disfarsi reso possibile dai moderni mezzi gestionali, può essere già visto,
di suo, come amministrazione; al confine con l’altro versante amministrativo, che è quello della prestazione dei servizi che quello
stesso corporativismo reclama per poter esistere. Due facce della
stessa medaglia; un’amministrazione in senso attivo e una in senso
passivo; ma con un confine magmatico, com’è il delta di un fiume,
in cui gli stessi corpi esercitano funzioni amministrative dirette e rilevanti, fino a quella soglia di tecnicità e di generalità di prestazione
che richiede l’intervento dell’amministrazione passiva, quella
“pubblica” per intenderci.
Ecco qui un primo affascinante panorama di fusione tra federalismo e amministrazione, in nome di questi corpi che non dovremmo
avere timore a chiamare nuovamente GRUPPI, come ha fatto la sociologia moderna fin dal suo sorgere. Pensando che, per Montesqieu
e Constant per esempio, questi altro non erano che i famosi “corpi intermedi”, si potrà facilmente osservare che non c’è nulla di nuovo
Il federalismo tra comunicazione, amministrazione e costituzione
185
sotto il sole: ed è certamente vero. Ma è proprio così: sotto il cielo
non c’è niente di nuovo. In natura (anche in quella umana e sociale)
nulla si crea e nulla si distrugge. Cambiano le circostanze e anche gli
occhi dei viventi, cioè dei soggetti, così le stesse cose vengono viste
in modo diverso e danno luogo a diversi esiti. Perciò la “storia” non
può non essere la base di ogni “scienza sociale”, sempre, almeno in
Occidente. Ordini, ceti, corpi, états, ranks, Stände e via dicendo costituiscono da sempre l’ossatura e la struttura della società moderna.
Infinita ne è la letteratura, la rappresentazione (più o meno simbolica), la prassi istituzionale. Applichiamo anche noi il metodo –
fantastico in cucina ma anche nel campo dell’arte – del re-make del
“ri-uso”, e andiamo avanti: la théorie suivra.
Un solo esempio, per non scrivere sul tema un libro intero, che è
evidentemente prematuro. Proviamo a innestare su questo alberello
che ho appena mostrato, frutto già ibrido dell’incontro tra amministrazione e federalismo, intesi entrambi in senso sociale, il rametto (il
fattore) della felicità e, a rovescio, quello del rischio. Capiremmo allora subito, seguendo storicamente l’evoluzione di questo ibridismo,
da una parte a che punto siamo nel processo “degenerativo” dello
Stato (moderno) e della sua costituzione; ma dall’altro capiremmo
anche a che punto siamo nel saper cogliere e utilizzare in chiave costituzionale i bisogni e gli stimoli che le “scienze” odierne della
felicità e del rischio pongono in risalto come nutrimento basilare –
spesso attraverso raggruppamenti più o meno spontanei, certo instabili e provvisori, ma perenni nella loro tendenza aggregativa dell’esistenza umana – degli uomini, delle donne, dei bambini e dei vecchi di
oggi.
So anch’io che il dilemma a lungo persistente nella storia costituzionale dell’Occidente è stato quello tra unità politica e pluralità dei
soggetti e che la soluzione apicale dello Stato (moderno), quella a base hobbesiana, non è più attuale. Ma occorre trovare un’altra
soluzione (perfezionando la costituzione) o è meglio – o necessario –
spezzare gordianamente il dilemma? C’è davvero – ancora – bisogno
di unità politica? Questa non c’era prima dello Stato e potrebbe non
esserci più dopo.
L’unità non è una caratteristica indispensabile, una costante della politica, ne è solo una variante storica. Essa è stata inventata
quando è parso che non si potessero altrimenti contrastare i conflitti
che stavano provocando l’implosione di una società medievale che,
186
Pierangelo Schiera
per il resto aveva raggiunto tutti i più alti livelli di felicità – spirituale e materiale – dei suoi “cittadini”. Se il medioevo avesse
conosciuto il PC non sarebbe finito, ho detto una volta: non sarebbe
stato necessario ricorrere ai metodi di amministrazione centralistica
e archivistica dello Stato (moderno); il quale, a sua volta si è rivelato la forma politica di maggior successo del “moderno”, grazie
proprio a quei suoi caratteri tecnologici (statistica, esercito, diplomazia, polizia: attinenti tutti a un territorio confinato). Ora il PC
c’è: si deve tornare al medioevo, quello “prossimo venturo” di cui
si parlava, un po’ millenaristicamente, qualche anno fa? O semplicemente può tornare una conflittualità risolta in altro modo che
attraverso l’unità politica? Cioè appunto attraverso il PC?
Questa è la domanda che io mi sento di porre al federalismo. Ma
non solo per andare oltre la soglia – statale – della risposta unitaria,
bensì anche per andarci anche al di sotto e recuperare la dimensione
di base dell’esistenza umana individuale, che è necessariamente la
comunità, la simbiotica, il birthright su cui gli inglesi hanno costruito con Blackstone il loro fortunato Commonwealth.
È questa la via che già altre volte ho indicato come la via
dell’autonomia, che è pure, nuovamente, una via ibrida, foriera – o
già portatrice – di mostruosità, del tipo di quella attribuita da Pufendorf al declinante Sacro romano impero della nazione tedesca. Le
mostruosità sono effetto di degenerazioni, cioè degli scarti che nella
dinamica/Werdung costituzionale si producono continuamente (se
una comunità è viva e sana, sennò è bella che andata ed è inutile occuparsene!) tra costituito e costituente e in rapporto ai nuovi soggetti.
Si sta insomma creando, mi pare, un nuovo “ordine” che, come
sempre, è fatto di nuovi “ordini” al plurale (ah, Santi Romano!). Il
tutto ha(nno) bisogno di essere “ordinato” ex novo.
L’ordine dell’ordine (degli ordini) è il federalismo mi pare, a partire
dalla sua radice più profonda che è l’autonomia, vista – anche in termini di politica costituzionale, cioè verso il FUTURO – come RETE.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 187-216 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Sussidiarietà, autonomia e federalismo:
prime riflessioni
Filippo Pizzolato
1. Sussidiarietà ed azione sociale
Dopo essere stato a lungo dimenticato, pur essendo un’ispirazione
implicita della nostra Costituzione, il principio di sussidiarietà, anche grazie alla sua successiva esplicitazione nell’ordinamento
comunitario, è stato ora riscoperto, positivizzato dal livello costituzionale fino a pervadere l’intero ordinamento. Di esso si danno
molte letture, tra loro spesso contrastanti. Nella sua essenza, la sussidiarietà esprime un principio di autonomia1, intesa come riconoscimento della capacità dell’uomo e delle formazioni sociali di
prendersi cura del “bene comune”. Su questa autonomia e ad essa
servente si innesta l’azione complementare, rispetto all’interesse
generale, delle istituzioni politiche. Nella valorizzazione dell’autonomia sociale si rispecchia l’idea che la libertà sia un attributo inseparabile dalla dignità umana, e tuttavia la libertà che è esaltata dalla
sussidiarietà è quella capace di responsabilità e, per questo, idonea
a svolgere funzioni di interesse generale. Se questo è il senso ultimo
della sussidiarietà, essa, sin dalla sua originaria affermazione nella
dottrina sociale della Chiesa, esprime una forte carica etica prescrittiva, poiché la sua condizione d’inveramento è l’orientamento (qua1
L’autonomia, non a caso, è il cardine del pensiero di Proudhon, considerato un
riferimento sia per il pensiero federale, sia per quello della sussidiarietà (sul punto,
cfr. A. Danese, Il federalismo: cenni storici e implicazioni politiche, Città Nuova,
Roma 1995, p. 26 e, in termini generali, p. 103). Si pensi anche all’elaborazione di
Adriano Olivetti, federalista imbevuto delle idee dei personalisti Maritain e Mounier. Il legame tra Proudhon ed il personalismo di Mounier è evidenziato da G.
Goisis, Mounier e il labirinto personalista, Helvetia, Venezia 1988, p. 53 ss..
188
Filippo Pizzolato
si un’inclinazione teleologica) della libertà al bene comune2, e dunque non è in alcun modo identificabile con ideologie liberistiche
che pretendano di registrare una (non volontaria) convergenza degli
egoismi individuali verso l’utilità comune. La libertà che plasma la
sussidiarietà non è forza originaria e naturalmente assoluta, ma tiene insieme le dimensioni del diritto e del dovere perché è libertà
della persona, cioè dell’uomo già relazionato. Vi è infatti un legame strutturale tra la sussidiarietà ed un’antropologia di tipo personalistico secondo la quale la libertà individuale, in quanto generata
dalla relazione e dunque debitrice della solidarietà altrui, si svolge
nella società (le “formazioni sociali”) entro cui assume la responsabilità verso l’altro da sé e partecipa alla costruzione del bene comune.
Proprio la presenza di questa componente prescrittiva – l’orientamento al bene comune – offre all’autorità politica (livello sintetico)
il criterio discretivo necessario perché possa innestarsi in modo armonico sul (e non semplicemente “aggiungersi” al) corpo sociale
strutturato da questo sistema di relazioni3. Nel modo in cui avviene
questo innesto, la sussidiarietà segna una discontinuità rispetto ai
fondamenti dello Stato liberale della tradizione europea continentale4,
2
P. Ridola, Sussidiarietà e democrazia, in G.C. De Martin (a cura di), Sussidiarietà e democrazia. Esperienze a confronto e prospettive, Cedam, Padova 2008, p. 20.
Nella Caritas in veritate (2009), Benedetto XVI definisce (n. 57) il principio di
sussidiarietà quale “manifestazione particolare della carità e criterio guida per la
collaborazione fraterna di credenti e non credenti”. Essa “implica sempre finalità
emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione
di responsabilità”.
3
Nella Octogesima adveniens (1971), Paolo VI scrive (n. 24) che “ogni attività
particolare deve sistemarsi in questa società allargata (scil.: quella politica), e assumere, con ciò stesso, la dimensione del bene comune”; e (n. 46) “nel settore
sociale ed economico, sia nazionale sia internazionale, l’ultima decisione spetta al
potere politico. Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare
la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie
e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti, le
condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell’uomo, ivi compreso il suo fine spirituale”. Si v. anche Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2004, p. 102 (n. 188).
4
Per il legame tra individualismo e liberalismo, contrapposti al principio di sussi-
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
189
in quanto quest’ultima tendeva a negare rilievo politico al pluralismo
sociale, fino talora ad osteggiarlo. Tale è la distanza che, in alcune ricostruzioni, la matrice della sussidiarietà è presentata come agganciata al pensiero controrivoluzionario e, conseguentemente, posta in
aperta antitesi rispetto alla formazione dello Stato moderno che trova
nella rivoluzione francese un evento fondativo5. L’elemento di differenza è la pretesa, ricavabile dall’orizzonte concettuale in cui si
iscrive lo Stato moderno, di sterilizzare l’interesse generale dal contatto con il pluralismo sociale. A maggior ragione, la sussidiarietà
risulta incompatibile con ogni regime a vocazione totalitaria, che espunga cioè dai rapporti sociali la componente etica, e cioè la
relazionalità libera, per riconfigurarli secondo moduli predefiniti e rigidamente organizzati dall’autorità politica. Il totalitarismo dà vita ad
un pluralismo di Stato, organico ma non etico6, e dunque contraddice
il principio di libertà.
Da queste considerazioni iniziali, dovrebbe risultare chiaro che la
dimensione originaria ed indefettibile del principio di sussidiarietà è
quella che ora è chiamata orizzontale, riguardante cioè il grado di autonomia da riconoscere all’articolazione dei rapporti sociali rispetto
all’azione dello Stato, mentre derivato e strumentale è il profilo verticale, attinente al rapporto tra i vari livelli istituzionali dello Stato
stesso7. Se dunque si vuole indagare il possibile collegamento tra
principio di sussidiarietà e il ridisegno in senso federale della Repubblica, ci si deve muovere entro quel modo di pensare il federalismo
che è stato definito “integrale”8 e che attribuisce rilevanza politica
diarietà, v. A. Merkl, Dottrine di diritto pubblico nelle encicliche sociali, a cura di
V. Lattanzi, tr. it., Gangemi, Roma 1999, pp. 43-44.
5
È l’impostazione seguita da I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà. Profili
storici e costituzionali, Jovene, Napoli 2003, pp. 32 e 39, 375. Anche M. Luciani,
A mo’ di conclusione: le prospettive del federalismo in Italia, in A. Pace (a cura
di), Quale, dei tanti federalismi?, Cedam, Padova 1997, p. 250 giudica problematico il rapporto tra principio di sussidiarietà e disegno costituzionale democraticopluralista.
6
Si v. G. Leibholz, Il diritto costituzionale fascista, a cura di A. Scalone, Guida,
Napoli 2007, pp. 23 e 35.
7
In questo senso, cfr. anche M. Luciani, A mo’ di conclusione, cit., p. 241.
8
Per l’utilizzo di tale categoria, contrapposta al federalismo politico-istituzionale, cfr.
C. Malandrino, Federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma 1998, p. 19; A.
Danese, Il federalismo, cit., p. 13 parla di significato “social-teorico”del federalismo.
190
Filippo Pizzolato
all’articolazione complessiva del corpo sociale. Il cuore della sussidiarietà è dunque un progetto di rapporti tra società e istituzioni
politiche ed è in funzione di questo che, normalmente, l’istanza che
essa esprime si realizza anche mediante una articolazione territoriale
delle istituzioni politiche medesime. Questo accadrà se, e solo se, i
livelli di governo più vicini ai cittadini verranno giudicati maggiormente idonei a valorizzare l’autonomia personale e sociale. Una rete
capillare di istituzioni politiche radicate sul territorio non è ancora garanzia per la libertà d’azione dei cittadini, ben potendone essere
un’efficace e perfino soffocante macchina di controllo9. Il federalismo istituzionale è il completamento naturale di quello sociale se si
riconosce all’azione dei cittadini e delle formazioni sociali capacità
istituente10 e dunque l’attitudine a disegnare o a formare la sfera pubblica.
Ciò che veramente appare essenziale ad un pensiero della sussidiarietà è una filosofia dell’azione e cioè, di nuovo, la fiducia
nell’idoneità potenziale della persona, e cioè dell’uomo in società,
di prendersi carico, con la propria iniziativa, della “vita buona” degli uomini, trasformando lo Stato da provvidente a garante11.
L’azione istituzionale di quest’ultimo si svolge nel governare innestandosi sull’autonoma iniziativa sociale, rispettandone la precedenza, e garantendo in ultima istanza il bene comune. L’autorità po9
Si pensi alle pagine che Foucault dedica, sulla scia di Bentham, al “panoptismo”:
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it., Einaudi, Torino
1993, p. 213 ss.. Tra i costituzionalisti, M. Luciani, A mo’ di conclusione, cit., p.
243, problematizzando il nesso tra federalismo e libertà, ha sostenuto che “nulla
assicura che il modello federale sia più favorevole alla autoregolazione della società civile di quanto non lo sia il modello dello Stato accentrato”.
10
Interessanti considerazioni sociologiche in M. Magatti, Il potere istituente della
società civile, Laterza, Roma-Bari 2005.
11
C. Millon-Delsol, Il principio di sussidiarietà, tr. it., Giuffrè, Milano 2003, pp.
4, 25 e 30 e p. 104: “Il compito di interesse generale cessa di essere affare esclusivo dello Stato, che si fa comunque garante della sua realizzazione efficace e
completa. Ma non per questo diventa un affare privato. Diventa, più precisamente,
un affare politico nel senso di cosa di tutti”. Per T. Herr, La dottrina sociale della
Chiesa. Manuale di base, Piemme, Casale Monferrato 1988, p. 37, nella dottrina
sociale della Chiesa, “la società e la sua organizzazione statale devono essere strutturate in maniera sussidiaria, vale a dire esse devono costruirsi dal basso in alto,
per garantire la migliore affermazione del singolo uomo e delle sue facoltà, nonché
l’esistenza delle piccole comunità, quali la famiglia e le istituzioni private”.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
191
litica non può dunque disporre arbitrariamente dei rapporti sociali,
perché vi è un ordine naturale, e ciò nondimeno sociale12, da rispettare e da garantire attivamente. Poiché infatti la relazionalità è
costitutiva dell’identità, le formazioni sociali appartengono alla natura dell’uomo, socialmente aperta ed ordinata13.
Un altro importante corollario che si ricava dall’impostazione descritta è che la libertà d’azione dei cittadini singoli ed associati non
resta circoscritta al momento dell’esecuzione, ma abbraccia la definizione medesima, se non altro per via induttiva, dell’interesse generale.
Se infatti la sussidiarietà riconosce rilievo politico all’iniziativa sociale
per il bene comune, sarebbe contraddittorio pretendere che questa aderisse ad una preventiva e puntuale “tipizzazione” di azioni conformi
redatta dall’autorità, perché ciò significherebbe negare l’originale apporto della libertà sociale nell’inventare e sperimentare nuove dimensioni o forme di cura dell’interesse generale14.
12
Il pensiero della sussidiarietà si aggancia infatti ad un concetto di natura molto
diverso da quello di physis, di origine, su cui si fonda la tradizione del giusnaturalismo contrattualistico. La natura è qui intesa, aristotelicamente, come telos e cioè
come inclinazione allo svolgimento della personalità nella relazionalità e nella storicità. Per i termini filosofici di questa differenza rinvio a E. Berti, La legge
naturale come fondamento dei diritti dell’uomo, in Verifiche, 1980, p. 134. Per il
legame tra Costituzione e questo diritto naturale teleologico, rinvio a F. Pizzolato,
Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 34 ss.. Per I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit.,
p. 64 “La concezione dello Stato sussidiario presuppone dunque che le decisioni
«politiche» non siano in realtà che mere regole descrittive della natura delle cose.
Il compito della politica è solo quello di scoprire tale natura e poi di tradurla in regole di distribuzione di funzioni”. Nella concezione personalistica che sorregge il
principio di sussidiarietà, l’ordine è naturale ma sociale, e cioè espressione della
libertà della persona. Per una visione diversa dell’ordine naturale, che si presume
derivato dalla verità, cfr. D. Castellano, L’ordine politico-giuridico «modulare»
del personalismo contemporaneo, E.S.I., Napoli 2007; non a caso, l’A. ult. cit.
svolge una critica radicale al personalismo mouneriano (ibidem, p. 33 ss.). Cfr. anche M. Ayuso, L’ambigua sussidiarietà, in G.P. Calabrò-P.B. Helzel (a cura di),
La nozione di sussidiarietà tra teoria e prassi, Edizioni Scientifiche Calabresi,
Rende 2009, p. 39.
13
Sul punto insiste molto Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (2009),
nn. 53-55.
14
Il termine “interesse generale” è qui usato come categoria meno connotata e
dunque, in un contesto di discorso giuridico, più adeguata rispetto a quella di “bene
comune”. Tra i due concetti è però assunta una sostanziale equivalenza. Non si i-
192
Filippo Pizzolato
2. Sussidiarietà e principio di legalità
È lecito chiedersi cosa resti di questa caratterizzazione filosofica
quando il principio di sussidiarietà si innerva in un ordinamento
giuridico-costituzionale. La domanda si impone soprattutto in considerazione della espressa costituzionalizzazione del principio di
sussidiarietà nell’art. 118 della Costituzione italiana che attiene al
riparto delle funzioni amministrative e che dunque è, in applicazione della tradizionale teoria della separazione dei poteri, inerente al
momento dell’esecuzione e del perseguimento concreto di un interesse generale previsto dalla legge.
Se l’art. 118 fosse l’unica traccia in Costituzione della sussidiarietà, la sua introduzione nell’ordinamento si rivelerebbe causa di aporie
non trascurabili. Che questa – isolatamente considerata – sia una traduzione limitante, se non inibente le potenzialità della sussidiarietà
appare chiaro se si richiama la sua essenza di principio organizzante
dei rapporti sociali e cioè di criterio di definizione dell’interesse generale. Come ho in altra sede cercato di dimostrare in modo più
analitico15, la dimensione originaria della sussidiarietà è piuttosto
quella delle fonti, poiché essa allude alla costruzione dell’ordinamento dal basso e dunque si ricollega all’idea (istituzionalistica) della
socialità quale scaturigine del diritto. L’art. 114 Cost., ponendo lo
gnora tuttavia che questi termini hanno origine diversa, come ha messo in luce da
ultimo G. Piana, “Bene comune”: una categoria da ripensare, in Il Foglio della
pastorale sociale e del lavoro di Milano, 184, novembre 2007. Per l’A., il bene
comune è ciò che ciascuno deve perseguire per essere se stesso dentro la società;
ma nella visione ontologico-personalistica la realizzazione di sé passa solo per la
realizzazione dell’altro (della società, intrinseca all’uomo). L’“interesse generale”
sarebbe invece frutto di un’antropologia individualistica e dell’abbandono della
concezione naturale della politica a vantaggio di quella contrattualistica, per cui
ciascun individuo accetta l’imposizione di vincoli al proprio comportamento in
cambio dell’accettazione di vincoli da parte dell’altro. Perciò l’interesse generale
diventa il rispetto delle regole patteggiate. Nella dottrina giuridica, vi è anche chi
ha provato a distinguere tra “fare” e “dire” l’interesse generale, ascrivendo la sussidiarietà solo al primo momento, come contributo alla soluzione operativa di
problemi. Su questa linea, U. Allegretti, Democrazia partecipativa e processi di
democratizzazione, in www.astrid.eu , 2009, p. 9.
15
F. Pizzolato, La sussidiarietà tra le fonti: socialità del diritto ed istituzioni, in
Politica del diritto, 2006, pp. 385-409.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
193
Stato dopo i soggetti dell’autonomia, richiama questa concezione16.
Secondo questa idea, il modo in cui, grazie alla presenza ordinante
delle formazioni intermedie, si organizza e struttura il tessuto sociale
permette una prefigurazione, benché non messa a fuoco e non stabilizzata, di un ordine sociale ed esprime una “normatività” su cui,
come l’ordito sulla trama, si innesta l’ordinamento giuridico. In Assemblea Costituente, Giorgio La Pira aveva assimilato la funzione
dell’ordinamento giuridico ad una veste, che appunto deve aderire
ad un corpo (sociale) e magari – si può aggiungere – correggerne
alcune storture. L’azione del potere politico è come adagiata su di
un tessuto sociale che è intrecciato dal materiale proveniente dalla
cultura e dall’ethos e che, in quanto sedimento inesausto di una storia viva di relazioni interpersonali, è dotato di una sua consistenza e
resistenza17.
Il punto da sottolineare è che la sussidiarietà investe la sfera della normazione perché rinvia alla preesistenza di un ordine sociale
prodotto dal fitto intreccio di libertà relazionate e responsabili. Essa
ha a che vedere con un’autonomia più vissuta nell’esercizio di libertà collettive che manifestata da deliberazioni di una volontà
determinata; è ricollegata alla libertà dei fini dell’azione sociale e
non si accontenta del decentramento, operante in una fase di esecuzione, e nemmeno si soddisfa di una semplice funzione consultiva
rispetto al decisore politico. La sussidiarietà, se confinata nel solo
art. 118 Cost. e dunque rattrappita nella fase esecutiva, amministrativa in senso stretto, manifesta una tensione oppositiva e, non
casualmente, entra in corto circuito con il principio di legalità18. Se
non è re-interpretato19, il principio di legalità spinge in direzione
16
G. Berti, La giuridicità pubblica e la riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione, in Jus, 2002, p. 150.
17
In questa direzione sembra andare, seppur con un’impostazione non coincidente,
G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di giustizia costituzionale,
Il Mulino, Bologna 2008, pp. 22-23; per il rilievo dell’importanza della cultura per
l’ordinamento v. P. Haeberle, Potere costituente (teoria generale), in Enciclopedia
giuridica, XXIII, Roma 1990, p. 22 ss..
18
La Corte costituzionale ha cercato una ricomposizione di questa tensione
nell’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalla sent. 303/2003 con la quale, combinando legalità e sussidiarietà, ha esteso l’applicazione della sussidiarietà al
criterio di riparto delle potestà legislative tra Stato e Regioni.
19
Nella direzione suggerita da C. Pinelli, Le regole sulla qualità della legislazione
194
Filippo Pizzolato
opposta rispetto alla sussidiarietà. Il principio di legalità affonda infatti le sue radici nell’opposizione, concettualizzata dai teorici dello
Stato liberale, tra una società frammentata e caotica, e l’ordine che,
come forza esterna, ad essa viene imposto dalla legge e dalla conseguente azione dello Stato. La separazione tra Stato e società
diventa irrinunciabile se la seconda è vista come lo spazio informe
di un continuo conflitto, sprovvisto di criteri autonomi di composizione: solo la legge, scaturente dalla volontà del sovrano, può allora
dettare i criteri e le condizioni per assicurare un ordine20. Questa esclusiva caratteristica ordinante della legge è, nello Stato liberale
pre-democratico, accoppiata alla qualità del legislatore, selezionato
in base alla nascita o al censo21. Insomma, la legge è ordinante anche perché deliberata da un’élite “isolata” dalla volontà dei ceti
responsabili del disordine. Tocca dunque al legislatore, separato dal
disordine sociale, cogliere l’interesse generale, formalizzarlo nella
legge ed incaricare l’amministrazione pubblica di darvi esecuzione.
È chiaro che la persistenza di tale interpretazione del principio di
legalità inibisce il dispiegarsi della logica della sussidiarietà: esso
pretende una predefinizione, potenzialmente analitica, dell’interesse
generale che programmaticamente mortifica l’apporto creativo che
la libertà d’agire individuale e collettiva potrebbe offrire. Significativamente, “impacciata” da questa interpretazione della legalità, la
sussidiarietà non basta a liberare una compiuta espressione proprio
di quegli attori che pure essa vorrebbe maggiormente valorizzati: le
autonomie sociali (le formazioni sociali) e il Comune; sono questi
infatti i soggetti, privati e pubblici, sprovvisti di autonomia di grado
legislativo, perché i più vicini a quegli interessi particolari tra cui la
legge deve poter fare ordine.
Da queste considerazioni si intuisce tutta la complessità dell’impianto del principio entro l’ordinamento ed appare concreta la proe il principio di sussidiarietà, in Riv. Dir. cost., 2000, p. 73, sulla base di una convincente interpretazione del testo costituzionale.
20
P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001, pp. 48 e
75; G. Berti, Diffusione della normatività e nuovo disordine delle fonti, in Rivista
di Diritto Privato, 3/2003, p. 8.
21
G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, tr. it., Giuffrè, Milano 1989,
p. 386. Recentemente è tornato sul punto R. Bin, Che cos’è la Costituzione?, in
Quaderni costituzionali, 2007, p. 17.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
195
spettiva del rigetto. La difficoltà, con riguardo all’ordinamento italiano, nasce dalla mutilazione che, sin dall’origine, è stata inferta nei
fatti alla Costituzione di cui non è stata adeguatamente valorizzata
l’ispirazione personalistica e comunitaria, pur largamente riconosciuta e tuttavia lasciata in inoperosa giacenza. L’antinomia rilevata non è insanabile, purché progressivamente si perseguano quelle
interpretazioni della Costituzione, che ancora oggi suonano profetiche, che preconizzavano un rovesciamento necessario del rapporto
tra amministrazione e legge. Giorgio Berti, costituzionalista assai lucido nel cogliere la rilevanza della sussidiarietà per il sistema delle
fonti, ha scritto che “la democraticità dell’ordinamento si rivela sempre più nell’esperienza dell’amministrazione”, “là dove si colgono gli
interessi nella loro concretezza, dove cioè gli interessi sono rilevati e
confrontati nel rapporto immediato tra l’attore pubblico e le persone e
i gruppi”22.
Senza questo ripensamento, che coinvolga tra l’altro il principio
di legalità, la sussidiarietà è destinata a rimanere “posticcia”, “vino
nuovo in otri vecchi”, e non potrà esplicare appieno le sue potenzialità. Oppure il rischio concreto è che si arrivi alla sussidiarietà per
“fallimento” dello Stato-provvidenza e dunque per abbandono dei
suoi compiti e non a seguito di un processo di ridefinizione delle
sue funzioni e del suo ruolo non esclusivo in ordine al perseguimento dell’interesse generale23. Questa precipitosa ritirata, da sconfitto,
dello Stato-provvidenza lascia però sul campo una società sfilacciata e infiacchita e dunque un terreno assai poco propizio all’innesto
di una virtuosa sussidiarietà. Quando infatti le stesse formazioni sociali vivono uno stato di sofferenza, il disegno di “armare” la
sussidiarietà contro lo Stato rischia di minare uno dei residui elementi di coesione e tenuta sociale. La sussidiarietà non prospera in
una situazione di sconfitta o umiliazione dello Stato, ma aspira ad
una osmosi (o, quanto meno, ad un’alleanza) tra formazioni sociali
e sfera delle istituzioni che renda possibile quella flessibilità nella
22
G. Berti, La giuridicità pubblica, cit., pp. 158-159. Dello stesso Autore, si vedano gli spunti davvero anticipatori in Art. 5, in Commentario alla Costituzione.
Principi fondamentali art.1-12, a cura di G. Branca, Zanichelli-Soc.del Foro Italiano, Bologna-Roma 1975, pp. 288-289.
23
C. Millon-Delsol, Il principio di sussidiarietà, cit., p. 102.
196
Filippo Pizzolato
definizione delle reciproche competenze che è esigita dalla sussidiarietà medesima24.
3. Kosmos e Kaos
Il presupposto, ma anche la condizione sine qua non di pensabilità
della sussidiarietà è la capacità ordinante del tessuto delle formazioni sociali, relazionandosi nel quale sfere di libertà concorrono a
prefigurare un’organizzazione che, seppur non ancora perfettamente
politica, è ciò nondimeno ingrediente essenziale dell’ordine politico. Questa reciproca incompletezza di società civile e di istituzioni
politiche impone, nell’ottica della sussidiarietà, la loro alleanza. A
ben vedere, nell’art. 118 Cost., c’è il riconoscimento del momento
dell’autonomia (l’“autonoma iniziativa”) ma anche, implicitamente,
la definizione di un criterio discretivo disponibile al livello politico
(l’“interesse generale”). Ciò vale ad escludere la deriva liberistica
insita in una frettolosa ed automatica correlazione tra iniziativa sociale ed interesse generale medesimo. Lo si ripete: la sussidiarietà
non si realizza automaticamente, non è descrittiva, ma prescrittiva;
essa può trovare applicazione solo laddove si verifichino condizioni
che l’autorità politica non può, da sola, garantire. Frequente è, ad
esempio, il rilievo che la sussidiarietà sia incompatibile con un costume individualistico incapace di costruire un tessuto sociale
strutturato: “un gigante non può supplire un nano”25.
Se dunque la sussidiarietà (esige e) valorizza la capacità ordinante che i rapporti sociali esprimono, l’interesse generale non può
essere ricavato da un procedimento di neutralizzazione del pluralismo, ma di questo strutturalmente si alimenta. I rapporti sociali non
appaiono, come si poteva dedurre dalla declinazione del principio
di legalità accolta dalla tradizione liberale, il regno di un kaos inestricabile, ma sono la manifestazione, imperfetta o incompiuta, di
un kosmos. L’interesse generale diventa dunque perseguibile per via
24
C. Millon-Delsol, Il principio di sussidiarietà, cit., p. 63. Tale elemento di flessibilità si ritrova anche nell’idea di federalismo funzionale elaborata da S. Ortino,
Per un federalismo funzionale. Note introduttive e progetto di revisione della Costituzione italiana, Giappichelli, Torino 1994, p. 54.
25
C. Millon-Delsol, Il principio di sussidiarietà, cit., pp. 51-52.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
197
di “federazione”, senza perdere cioè la ricchezza delle articolazioni
che concorrono a strutturare il corpo sociale. Seppur rimanga lo
spazio della mediazione o della sintesi politica, questa non opera su
di una società azzerata, ma si innesta sull’azione sociale cui dunque
è riconosciuto rilievo politico nel momento in cui dimostra la responsabilità dell’interesse generale. In questo senso, la sfera pubblica diventa osmotica, aperta, partecipata. Le formazioni sociali, in
quanto risorsa di autonomia della società, sono infatti alleate naturali della sfera istituzionale.
Poste queste premesse, ci si può interrogare sui rapporti tra la sussidiarietà e la democrazia. Senz’altro, nelle formulazioni più risalenti
della dottrina sociale della Chiesa, la sussidiarietà “dice” il limite del
potere politico rispetto all’autonomia sociale e alla libertà; non immediatamente la democraticità della decisione politica26. E anche
quando, nella stessa dottrina sociale della Chiesa, si riconosce il primato della democrazia, la rilevanza dell’azione dei cittadini si
estende alla sfera istituzionale, ma la partecipazione politica non fagocita né sostituisce l’autonomia sociale ed economica27. Seppur non
si possa giungere a sostenere che non è essenziale, la democraticità
della struttura di governo di certo non basta alla sussidiarietà e in effetti questa dimensione si aggiunge – completandola – a quella
democraticità sostanziale che si esprime nella libertà d’azione individuale e sociale28. Si può anzi cogliere nel profilo verticale della sussi-
26
T. Herr, La dottrina sociale, cit., p. 36: “Un vero ordinamento democratico statale e sociale non è neppure pensabile senza struttura, organizzazione e divisione
delle competenze informate alla logica della sussidiarietà”. Ancora nel Radiomessaggio natalizio del 1944, Pio XII afferma che “la Chiesa non riprova nessuna delle
varie forme di governo, purché adatte a procurare il bene dei cittadini”; “la cura e
la sollecitudine della Chiesa sono rivolte non tanto alla struttura esterna della società politica, quanto all’uomo, come tale, che, lungi dall’essere un elemento
passivo della vita sociale, ne è invece il soggetto, il fondamento”.
27
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale, cit., p. 101 (n. 187): “L’esperienza attesta che la negazione della sussidiarietà, o la sua limitazione in nome di una pretesa democratizzazione o uguaglianza di tutti nella società, limita e talvolta anche annulla lo spirito di libertà e di
iniziativa”; v. W. Roepke, Democrazia ed economia. L’umanesimo liberale nella
civitas humana, tr. it., Il Mulino, Bologna 2004, pp. 167-168.
28
J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1977, p.
60 ss..
198
Filippo Pizzolato
diarietà, successivo e derivato rispetto a quello orizzontale, l’esigenza
di raccordare l’azione istituzionale a quella sociale, grazie alla maggiore e più diretta partecipazione che il livello locale rende possibile,
e dall’altro – come si vedrà – la preoccupazione di offrire alle autonomie sussidiate una garanzia (una sorta di controllo procedurale)
contro la tentazione onnivora o l’invadenza della sfera pubblica. La
sussidiarietà verticale sarebbe insomma, in ultima analisi, presidio di
quella orizzontale, affinché il livello politico-istituzionale resti anche
geneticamente agganciato a quei rapporti sociali rispetto ai quali si
pone come “ministeriale”.
4. Il ruolo delle istituzioni politiche
Il passaggio successivo è comprendere quale sia lo spazio sussidiario delle istituzioni politiche. Lo si articolerà qui sinteticamente.
Anzi tutto, ed è un topos di ogni discorso sulla sussidiarietà, una
filosofia siffatta, basata sulla capacità d’azione, riserva un ruolo integrativo alle istituzioni politiche laddove l’iniziativa sociale risulti,
contingentemente o strutturalmente, carente, insufficiente o inidonea.
Tale ruolo integrativo è svolto in modo legittimo se è proporzionato.
La proporzionalità è criterio che è costantemente affiancato a quello
di sussidiarietà, affinché le “mancanze” della libertà non offrano facile pretesto all’autorità per annientare le autonome e residue risorse
sociali d’attivazione per l’interesse generale.
Se poi la sussidiarietà è, come si è argomentato, criterio prescrittivo e non descrittivo, all’azione sussidiaria delle istituzioni politiche compete un ruolo delicato di discernimento delle articolazioni
in cui si struttura il rapporto sociale per individuare quelle meritevoli di essere sussidiate29. Non v’è infatti, nell’orizzonte della sussi29
Esprime questa lucida consapevolezza la stessa dottrina sociale della Chiesa: si
v. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale, cit., p. 228 (n. 418): “Lo Stato deve fornire una cornice giuridica adeguata
al libero esercizio delle attività dei soggetti sociali ed essere pronto ad intervenire,
quando sia necessario e rispettando il principio di sussidiarietà, per orientare verso il bene comune la dialettica tra le libere associazioni attive nella vita democratica. La società civile è composita e frastagliata, non priva di ambiguità e di contraddizioni: è anche luogo di scontro tra interessi diversi, con il rischio che il più
forte prevalga sul più indifeso”.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
199
diarietà, coestensione tra lo spazio della libertà associativa e quello
dell’azione sociale per l’interesse generale, e così anche nella Costituzione. L’art. 18 non pone alla libertà associativa pressoché alcun
limite, riconoscendole l’ampiezza della libertà del lecito per
l’individuo; l’art. 118 impone invece alla Repubblica, in nome della
sussidiarietà, di promuovere l’iniziativa individuale o sociale che
sia orientata alla cura dell’interesse generale30.
Coerente con la sussidiarietà è poi l’azione istituzionale finalizzata a garantire l’eticità dei rapporti sociali. Mi riferisco all’obiettivo di
mantenere gli ambiti plurali in cui si organizza la società come luoghi
di effettiva e libera relazione per i membri che vi prendono parte (eticità come “dialogicità” interna), prevenendo o espungendo cristallizzazioni di posizioni di potere privato31. Il principio di sussidiarietà
correla infatti l’autonomia dei corpi sociali alla loro qualità di luoghi
di svolgimento della personalità umana, ciò che, anzi tutto, si verifica
se quelli sono uno spazio di libertà di espressione. Anche con riferimento a questa giustificazione dell’intervento autoritativo, vale il
richiamo alla proporzionalità perché la democrazia politica non esaurisca e schiacci le forme plurali ed inedite della partecipazione
sociale. Tale schema esplicativo si applica a tutti i luoghi del sociale,
dalla famiglia al mercato, in cui, in misura graduata, la relazionalità
libera può essere compromessa dalla persistenza di posizioni di potere privato. Laddove ciò si verificasse, il riconoscimento pubblico di
autonomia coprirebbe l’esistenza di condizioni di disuguaglianza e di
soggezione e segnerebbe una contraddizione con il fine ultimo
dell’azione pubblica, e cioè la promozione della libertà e della dignità
delle persone. La relazionalità non comporta necessariamente l’adesione meccanica a modelli democratici di deliberazione interna. Nelle
formazioni sociali può infatti esservi posto per l’autorità (si pensi al30
Si usa distinguere, ad esempio, tanto nella dottrina sociale della Chiesa, quanto
tra gli interpreti della sussidiarietà costituzionale (si v., ad esempio, S. La Porta,
L’organizzazione delle libertà sociali, Giuffrè, Milano 2004, p. 64 ss.), l’attività
dei soggetti del terzo settore da quella delle imprese for profit.
31
H. Hofmann, Il modello della costituzione statale e i suoi punti critici, in M.
Bertolissi-G. Duso-A. Scalone (a cura di), Ripensare la costituzione. La questione
della pluralità, Polimetrica, Monza 2008, pp. 25-26. C. Millon-Delsol, Il principio
di sussidiarietà, cit., pp. 72-73 ha identificato come “la più grande critica contemporanea contro il principio di sussidiarietà” la tirannia di piccoli capi privati.
200
Filippo Pizzolato
la famiglia), ma essa si deve caratterizzare per la sua “ministerialità”
e speciale responsabilità, e cioè si giustifica se e quando la sua esistenza sia condizione di libero svolgimento delle componenti più
deboli che in quelle formazioni vivono.
Un’ulteriore giustificazione dell’intervento sussidiario del livello
politico si ricava come sviluppo di quanto appena rilevato. Non basta
infatti che l’ordinamento sussidiario operi perché le formazioni sociali siano “enti di relazione”, occorre anche che sia garantita la loro
apertura e responsabilità verso la dimensione politica (“dialogicità”
esterna). Tale cooperazione al bene comune si traduce essenzialmente nella necessità, su cui vigila il livello politico-istituzionale, che sia
garantita la cura (o quanto meno che non sia compromesso l’interesse) del “terzo” non incluso nell’ambito sociale cui l’ordinamento
riconosce autonomia e che dall’esercizio di tale sfera di autonomia
rischierebbe altrimenti di subire un pregiudizio. L’azione pubblica
opera allora in funzione non meramente integrativa, bensì correttiva
allorquando assista alla degenerazione corporativistica delle formazioni sociali e cioè al perseguimento di un interesse parziale insostenibile o apertamente conflittuale rispetto al bene comune; o anche,
più semplicemente, alla frequente generazione di “esternalità” e cioè
alla produzione, da parte di rapporti parziali, di effetti negativi su posizioni terze. L’intervento pubblico sussidiario vale dunque a prendere in carico, attraverso una strumentazione proporzionata, che privilegi la fissazione di regole, la cura del soggetto socialmente
escluso, in condizioni di maggiore debolezza, o la tutela del “terzo”
pregiudicato dall’accordo che si raggiunge entro la comunità intermedia. Su questa esigenza di giustizia ha significativamente attirato
l’attenzione Lévinas32, il cui pensiero pure assegna una centralità inedita ai rapporti di prossimità, quelli cioè che il principio di
sussidiarietà primariamente riconosce e valorizza. Questa idea – politica – di giustizia è coerente con quanto richiesto dal principio di
sussidiarietà perché estende la responsabilità dell’azione individuale
e sociale dal “volto dell’altro” al terzo assente, o anche al “tu generalizzato”, la cui domanda di cura è mediata dall’istituzione33.
32
E. Lévinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città Aperta, Troina
2008, p. 92.
33
A. Danese, Il federalismo, cit., pp. 102-103.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
201
Se dunque si segue – come qua si vuole fare – la sussidiarietà
per costruire un pensiero federale, si deve evidenziare una chiara
opzione per un modello di tipo cooperativo e solidaristico, mentre
non sembra rimanere spazio logico per una strategia secessionistica,
giacché questa rappresenterebbe la pretesa di un impossibile ritorno
ad un identico non relazionato34. È stato scritto che “il maggior nemico del federalismo è l’individualismo, che assolutizza la libertà e
la concepisce come liberazione da e non liberazione con e per gli
altri”35: la stessa conclusione può essere tratta per la sussidiarietà. E
questa coincidenza non stupisce, se all’origine è posta una medesima radice personalistica.
5. Sussidiarietà e rappresentanza
Si è dunque indicato lo spazio, residuo ma significativo, che il principio di sussidiarietà riserva alle istituzioni politiche. Tale spazio è anzi
tutto, in applicazione del principio di proporzionalità, occupato dalla
legge, il cui presidio (e la cui funzione essenziale) è garanzia del pluralismo sociale36. La legge si dirada e tende al principio per non comprimere lo spazio dell’autonomia sociale. È significativo osservare
che la dottrina giuspubblicistica ritiene utilizzabile il principio di sussidiarietà come canone di politica legislativa, e cioè per porre un
limite logico all’iper-regolazione. Se infatti il ricorso alla regolazione
pubblica non è scelta arbitraria, ma deve trovare giustificazione nella
sua necessità e proporzionalità, una sovrapproduzione legislativa può
essere indice di cattiva normazione37.
34
Cfr. A. Danese, Il federalismo, cit., pp. 105 e 124: “Senza solidarietà federalismo significa separatismi a catena, con un frammentarsi e rimpicciolirsi
controproducente per tutti, specie in un orizzonte europeo”. A. Deffenu, Forme di
governo e crisi del parlamentarismo, Giappichelli, Torino 2006, p. 195, riprendendo le analisi di Eisenstadt e Taguieff, osserva come la reazione al capitalismo
globale stimoli una “voglia di comunità” che gioca a favore di meccanismi identitari come sbocco istituzionale.
35
A. Danese, Il federalismo, cit., p. 125.
36
Sulla centralità del principio pluralistico, v. R. Bin, Che cos’è la Costituzione?,
cit., p. 24; P. Ridola, L’evoluzione storico-costituzionale del partito politico, relazione al XXIII Convegno annuale dell’AIC, Alessandria 17-18 ottobre 2008.
37
C. Pinelli, Le regole sulla qualità, cit., p. 70; I. Massa Pinto, Il principio di sus-
202
Filippo Pizzolato
Va ora messo a fuoco come avvenga questo passaggio, che la
sussidiarietà vorrebbe osmotico, dal pluralismo sociale allo spazio
della mediazione politica. In democrazia, il primato della legge discende dalla scaturigine di questa dagli organi rappresentativi,
attraverso un procedimento aperto di approvazione. Essenziale diventa definire chi partecipa alla formazione della legge e dunque
chi accede alla rappresentanza politica. È lecito porsi la domanda se
il principio di sussidiarietà offra indicazioni anche su questo punto,
e cioè, in ultima analisi, sulla composizione dell’autorità, o se riguardi solamente il rapporto tra autorità e libertà.
Per avviare una risposta a tale questione, si può partire dalla constatazione che i Costituenti, e soprattutto quelli culturalmente formati
alla tradizione personalistica della dottrina sociale della Chiesa che è
la matrice profonda della sussidiarietà, si erano posto il problema di
un ridisegno della rappresentanza. Ad alcuni di essi era già chiaro che
i partiti non potevano costituire l’unico canale della mediazione rappresentativa38. Data l’identità relazionale della persona, nelle istituzioni rappresentative doveva trovare sbocco e riflettersi la ricchezza
dell’articolazione della comunità statale in formazioni sociali. C.
Mortati, in particolare, nel prospettare i caratteri del bicameralismo,
sosteneva la necessità di “operare un’integrazione del suffragio tale
da far pervenire ad espressione tutti gli interessi socialmente rilevanti
e farli armonicamente confluire alla determinazione dell’indirizzo
politico”39. Da qui la proposta, concretizzatasi in una forma decisamente minore e parziale con l’istituzione del C.N.E.L., di una Camera delle formazioni sociali, entro cui peraltro venivano assimilati interessi socio-economici e territoriali.
sidiarietà, cit., pp. 156-157.
38
Si allude soprattutto alle posizioni di Mortati e La Pira. Rinvio a: F. Pizzolato-V.
Satta, I Consigli regionali dell’economia e del lavoro: fondamenti costituzionali e
percorsi d’attuazione, in C. Buzzacchi-F. Pizzolato-V. Satta, Regioni e strumenti
di governance dell’economia. Le trasformazioni degli organi ausiliari, Giuffrè,
Milano 2007, pp. 4-6.
39
C. Mortati, Il problema della direzione politica dello stato e il progetto di Costituzione della Repubblica italiana, in Idea, 1947 e ora in N. Antonetti-U. De
Siervo-F. Malgari (a cura di), I cattolici democratici e la Costituzione, III, Il Mulino, Bologna 1998, p. 1001; dello stesso Autore, si v. anche La seconda Camera, in
Cronache sociali, 9/1947, p. 3.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
203
Al di là delle soluzioni proposte, l’esigenza dell’articolazione plurale della rappresentanza appariva una conseguenza della visione dei
rapporti tra corpo sociale ed autorità politica segnata dal principio di
sussidiarietà. A differenza dei presupposti concettuali della rappresentanza moderna, per i quali la società è preda del kaos e del
conflitto, componibile solo da una sfera da questa separata, la sussidiarietà presuppone, come s’è detto, un ordine possibile e pluralisticamente articolato già nel corpo sociale. Se dunque l’unità deve essere raffigurazione e funzione di un ordine, poiché plurale ma
tendenzialmente ordinata è la realtà sociale, plurale deve esserne la
sua raffigurazione40. Anzi, per Mortati, l’estensione della rappresentanza agli interessi sociali svolge una funzione stabilizzatrice dell’indirizzo statuale, rispetto “alle fluttuazioni di opinioni troppo arbitrarie
e inconsiderate” ed “allo spiegarsi degli impulsi illiberali”41. Ad una
situazione di complessità (anche in termini di spazialità), non caotica,
ma ordinabile, corrisponderebbe una rappresentanza plurale o forse
anche una pluralità di forme di rappresentanza42. La rappresentanza
può essere dunque articolata in parti43.
Tale modo di intendere l’unità e, conseguentemente, la rappresentanza segna però una discontinuità rispetto alle premesse su cui
si fonda il dispositivo concettuale dello Stato moderno. In esso, a
partire da una tradizione che trova in Hobbes il suo primo interprete, la rappresentanza è fondata su un generale processo di autorizzazione degli individui all’unico potere sovrano44. Poiché nella
40
Enuncia, in termini generali, questo principio di corrispondenza G. Ferrara, Democrazia e rappresentanza politica, in L. Chieffi (a cura di), Rappresentanza
politica, gruppi di pressione, élites al potere, Giappichelli, Torino 2006, p. 51.
41
C. Mortati, Il problema della direzione, cit., p. 996. Peraltro questa è una valutazione ricorrente nella dottrina organicistica, come confermano, tra le altre, le
posizioni espresse da R. De la Tour du Pin, Des institutions représentatives (1896),
in Vers un ordre social chrétien. Jalons de route 1882-1907, Nouvelle Librairie
Nationale, Paris 1907, pp. 253 e 263.
42
U. Allegretti, Democrazia e rappresentanza nell’era della globalizzazione, in L.
Chieffi (a cura di), Rappresentanza politica, cit., pp. 83 e 85; I. Ruggiu, Contro la
Camera delle Regioni. Istituzioni e prassi della rappresentanza territoriale, Jovene, Napoli 2006, p. 73 ss..
43
Cfr. U. Allegretti, Democrazia e rappresentanza, cit., p. 84.
44
G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Polimetrica, Monza 2007, p. 73.
204
Filippo Pizzolato
società, anteriormente alla formazione contrattuale dello Stato, la
libertà e l’eguaglianza individuali sono continuamente esposte alla
violenza, occorre riconoscere che “non c’è istanza collettiva di
fronte a colui che esercita il potere”; il popolo, come unità e come
“volontà emerge solo attraverso la voce del rappresentante”45. Tale
meccanismo genetico appare incompatibile con la rappresentanza
degli interessi parziali poiché è il rappresentante, con la sua unicità,
il fautore di un’unità del popolo altrimenti inesistente. Non vi sono
dunque spazio e rilevanza pubblici per il molteplice e frammentario
panorama degli interessi e dei corpi sociali. Anzi, più gli interessi
sono consolidati, più minacciano l’unità e “la vita dell’intero”46. E,
in effetti, l’irruzione sulla scena della statualità degli interessi parziali, ma, significativamente, degli stessi partiti, ha creato non
piccolo imbarazzo concettuale ai sostenitori di questo dispositivo
dello Stato liberale, che hanno provato ad elaborare diverse vie di
uscita47. In questa opposizione alla frammentazione risultavano accomunati interessi sociali e territoriali48.
Alla base dell’elaborazione hobbesiana è stata colta l’impostazione nominalistica, presente in Occam, nonché il senso tragico
dell’umanità decaduta a cui sarebbe precluso l’accesso all’ordine
senza il ricorso al Leviatano49. La società naturale, caotica e instabile,
non offre un rifugio sicuro alla libertà ed all’eguaglianza degli individui, sicché solo il potere legittimo ed autorizzato del sovrano può
45
G. Duso, La logica del potere, cit., p. 104. Si v. sul punto la posizione di G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, cit., pp. 99-101.
46
G. Duso, Prefazione, in A. Scalone, Rappresentanza politica e rappresentanza
degli interessi, F. Angeli, Milano 1996, pp. 12-13.
47
G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, cit., pp. 161 ss. e 265 ha
addirittura colto un contrasto tra l’essenza della rappresentazione e le caratteristiche intrinseche dello Stato dei partiti. Per una rassegna sistematica e ragionata
delle posizioni espresse nel dibattito teorico nella giuspubblicistica tedesca weimariana, cfr. A. Scalone, Rappresentanza politica, cit., p. 17 ss.; cfr. anche I. Ruggiu,
Contro la Camera delle Regioni, cit., p. 17 ss..
48
I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni, cit., p. 14. L’A. mostra come solo
con Smend emerga, nella giuspubblicistica dello Stato liberale, la possibilità di una
conciliabilità tra l’interesse generale e la rappresentanza di interessi parziali e, nello specifico, di quelli territoriali (ibidem, p. 31 ss.).
49
Per una correlazione tra l’impostazione filosofica di Hobbes e l’“epoca turbolenta” che egli si è trovato a vivere si v. M. Villey, La formazione del pensiero
giuridico moderno, tr. it., Jaca Book, Milano 1985, pp. 511 e 549.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
205
ricondurla a quell’unità che è garanzia di pace50. È netto il rovesciamento che Hobbes opera rispetto alle premesse concettuali di Aristotele51.
La sussidiarietà riconosce rilevanza politica al pluralismo sociale. La soggettività dei corpi sociali non è confinata in un momento
meramente sociale, per poi sparire nel processo di autorizzazione in
favore del rappresentante52. La tensione, costante nel pensiero della
sussidiarietà, a portare la decisione al livello più prossimo ai cittadini pare porsi su di un piano diametralmente opposto alla versione
hobbesiana della rappresentanza che invece gli interessi sociali, in
quanto conflittuali, vorrebbe allontanare sino ad occultare53.
E tuttavia il revirement non è privo di problematiche concettuali54.
Intanto, come si è visto, l’idoneità delle organizzazioni sociali a
perseguire l’interesse generale, e dunque ad accedere allo spazio
pubblico, è inestricabile rispetto alla conformazione e alla vigilanza
sussidiaria su di esse operate dalla sfera istituzionale e politica. Le
parti non vantano un accesso immediato alla sfera istituzionale. Non
a caso, qualcuno recentemente ha parlato di “un sistema reticolare di
governi di interessi: spazi di regolazione pubblica e privata, distribuiti su più piani, reciprocamente autonomi ma subordinati alle condizioni di esistenza e di validità previamente stabilite dallo Stato, responsabile politico insostituibile di un ordine giuridico nuovo e più
50
G. Duso, La logica del potere, cit., p. 46; Id., Prefazione, in A. Scalone, Rappresentanza politica, cit., pp. 9-10; M. Villey, La formazione del pensiero, cit., p. 577;
P. Ridola, Sussidiarietà e democrazia, cit., p. 2.
51
Questo è il cuore del ragionamento di M. Villey, La formazione del pensiero,
cit., pp. 558 e 561; G. Duso, La logica del potere, cit., p. 45.
52
G. Duso, in S. Chignola-G. Duso, Storia dei concetti e filosofia politica, F. Angeli, Milano 2008, pp. 318-319.
53
I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit., pp. 220-222 e 289: “la rappresentazione degli interessi conflittuali nella loro immediatezza sociale, ossia la
tendenziale prossimità dei governanti ai governati, è la negazione della rappresentanza politica. Quanto più si esalta la prossimità della decisione pubblica agli
interessi particolari, tanto più ci si allontana dai fondamenti della tradizione politico-costituzionale moderna, che proprio del trascendimento di quegli interessi
aveva fatto il suo presupposto e il suo fine”; ibidem, p. 298. V. già M. Luciani, A
mo’ di conclusione, cit., p. 247.
54
Forse a questo alludeva la Millon Delsol, quando ha scritto che “è evidente che
la filosofia dell’azione e la rappresentazione dell’interesse generale si contraddicono” (Il principio di sussidiarietà, cit., p. 4).
206
Filippo Pizzolato
complesso”55. Il decisore politico deve restare “regolatore di sistema
– che disegna la fisionomia dei nuovi attori del diritto e ne articola il
futuro progetto normativo”56.
La rappresentanza delle parti si scontra inoltre con la difficoltà
obiettiva risultante dal fatto che gli interessi tagliano trasversalmente
le identità molteplici dello stesso individuo57. Essi non progrediscono
linearmente in un moto di crescente apertura, ma confliggono tra di
loro e lacerano le stesse individualità che vi trovano una tutela solo
parziale. Proprio in ragione di queste mobilità e settorialità degli interessi, la loro rappresentanza si risolve in un tentativo, sempre un po’
arbitrario, di ingabbiarne e cristallizzarne un assetto. Tale operazione
rischia di mutare la rappresentanza nell’organicismo, che è una malattia della sussidiarietà58 e non una sua attuazione. L’organicismo
infatti blocca il pluralismo sociale in una sua configurazione istituzionalizzata e, così facendo, subito nega o fortemente costringe quella relazionalità, espressione di libertà, che pure vorrebbe valorizzare.
Le difficoltà rilevate hanno alla radice una spiegazione comune nel
carattere artificioso – almeno nel senso di culturalmente, se non politicamente, mediato – e non naturale della stessa rappresentanza degli
interessi59. Il principio personalistico, da cui discende la sussidiarietà,
mira poi ad una valorizzazione politica delle formazioni sociali che
non sono interessi nudi, ma già – come si è osservato – conformati
secondo un’ottica di bene comune. E poi, ancora: se si assume il modello di una Camera dei “corpi” sociali, resta da definire quale
principio debba rappresentare la “prima” Camera e, ancora più radi55
G. De Minico, La partecipazione al rule-making delle Autorità Indipendenti:
rappresentanza politica o rappresentanza di interessi?, in L. Chieffi (a cura di),
Rappresentanza politica, cit., p. 448.
56
G. De Minico, La partecipazione al rule-making, cit., p. 447.
57
Un cenno in questa direzione in A. Merkl, Dottrine di diritto, cit., p. 55.
58
Rischio di corporativismo o ossificazione, presente anche in alcune elaborazioni
della dottrina sociale della Chiesa, come rilevato da C. Millon-Delsol, Il principio
di sussidiarietà, cit., p. 23. Con motivazioni differenti anche G. Duso (in S. Chignola-G. Duso, Storia dei concetti, cit., p. 319) scarta la strada della “rappresentanza corporativa”, e suggerisce quella della “responsabilizzazione politica di ogni
momento di aggregazione e anche di soggettivazione politica che nella società è
presente”.
59
È la tesi di fondo espressa da A. Scalone, Rappresentanza politica, cit., pp. 23,
156 (con riferimento al pensiero di Kaiser) e 203-204.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
207
calmente, il suo stesso criterio di legittimazione. Se rappresentare è
rendere presente l’assente, è lecito chiedersi quale senso abbia
l’affannosa ricerca di introdurre nello spazio istituzionale alcuni interessi60: non sono già resi presenti? Non si perviene ad un raddoppiamento di questa rappresentanza? E gli altri interessi? Queste domande restano aperte e la riscoperta della sussidiarietà in sé non
scioglie il nodo.
Si può anche sostenere che, nell’orizzonte concettuale tracciato da
quel principio, le formazioni sociali assumano un rilievo politico che
però non passa necessariamente per il loro ingresso nella sfera pubblico-istituzionale, essendo correlato allo svolgimento di funzioni di
interesse generale61. L’estensione della logica della sussidiarietà alla
rappresentanza appare dunque sostenibile, ma forse non necessaria e,
comunque, assai complessa. Nello spazio della rappresentanza abitano invece i partiti, benché la loro stessa legittimità sia stata e sia
tuttora, su basi diverse, contestata. La questione del rapporto tra rappresentanza e sussidiarietà si salda allora al problema del rapporto tra
i partiti e le formazioni sociali. Che sia un rapporto complicato lo rivela anche la circostanza che, quando si parla di sussidiarietà, non si
fa riferimento ai partiti, che pure, giuridicamente parlando, sono un
fenomeno sociale. Il partito è un’espressione sociale, ma, per così dire, di secondo livello, collocato a ridosso delle istituzioni e proiettato
nella funzione di produrre l’unità politica. Essi occupano pertanto
una posizione di cerniera62, riconosciuta dallo stesso art. 49 Cost.
Secondo la dottrina sociale della Chiesa, “i partiti sono chiamati ad
interpretare le aspirazioni della società civile orientandole al bene
comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di concorrere
alla formazione delle scelte politiche. I partiti devono essere democratici al loro interno, capaci di sintesi politica e di progettualità”63.
Anche in ambito europeo, si cerca di pervenire, a partire da una si60
Ad esempio il tentativo di rappresentare, mediante appositi organi, le generazioni future. Su questo, R. Bifulco, Rappresentare chi non esiste (ancora)?, in L.
Chieffi (a cura di), Rappresentanza politica, cit., p. 267.
61
Il problema a quel punto torna ad essere quello di una reinterpretazione del principio di legalità che faccia salva la natura creativa dell’azione sociale.
62
Tra gli altri: H. Hofmann, Il modello della costituzione, cit., p. 26.
63
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale, cit., p. 225 (n. 413).
208
Filippo Pizzolato
tuazione di obiettiva debolezza64, ad una effettiva dimensione transnazionale dei partiti, perché essi non si limitino a riprodurre la
sintesi politica raggiunta a livello nazionale65. L’art. 10 del TUE afferma che i partiti politici a livello europeo “contribuiscono a
formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà
dei cittadini dell’Unione”66.
6. La sussidiarietà contro la rappresentanza?
Date le difficoltà che l’incontro tra sussidiarietà e rappresentanza
produce, alcune proposte sembrano quasi voler tagliare questo nodo,
suggerendo soluzioni diverse e di discontinuità. Nell’ambito di una
traduzione organicistica e corporativistica della sussidiarietà, che è
implicita, ad esempio, nel pensiero di Maurras o di La Tour du Pin, la
rappresentanza delle formazioni sociali sostituisce quella politicogenerale, mediata dal sistema partitico67. A questa variazione, con64
Su cui S. Baroncelli, I gruppi parlamentari nell’esperienza del Parlamento europeo, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari,
partiti: il contesto europeo, I, Giappichelli, Torino 2001, pp. 10-12.
65
Sul tema cfr. C. Pinelli, Rappresentanza e democrazia nel Trattato costituzionale e nella recente esperienza dell’Unione, in L. Chieffi (a cura di), Rappresentanza
politica, cit., p. 102 ss..
66
Si veda il Reg. 2004/2003 attuativo dell’art. 224 TFUE.
67
Cfr. R. De la Tour du Pin, Des institutions représentatives (1896), in Vers un ordre, cit., p. 252: “On ne saurait (…) représenter des individus ni des foules, mais
seulement des collectivités ayant une vie propre et capables de formuler un mandat”; nella stessa raccolta di scritti si v. anche De l’organisation territoriale et de
la représentation (1906), pp. 411-412, 417 e soprattutto l’efficace sintesi di p. 418:
“si c’est le foyer d’un homme et son métier qui constituent son individualité politique, il ne peut être représenté par quiconque ne tient pas à lui par les mêmes
conditions. (…) Il faut donc rasseoir la représentation à la fois sur le domicile et
sur la profession, en un mot, faire le contraire de ce qu’a fait la Révolution”. Nella
impostazione di La Tour du Pin è il Re l’elemento di integrazione ad unità. La
concezione sussidiaria dello Stato, “fonctionnaire de la Société”, emerge chiaramente in C. Maurras, Mes idées politiques, Fayard, Paris 1937, pp. 121-122, così
come la critica alla dinamica conflittuale dei partiti, colpevole di lacerare lo Stato
(ibidem, pp. 188-189). Una forma di rappresentanza degli interessi caratterizza anche alcune esperienze di stato totalitario, come sottolinea C. Millon-Delsol, Il
principio di sussidiarietà, cit., p. 25 con riferimento al Portogallo di Salazar e, in
parte, al regime fascista di Mussolini. Organicismo e totalitarismo di stampo fascista restano però fenomeni molto diversi: l’organicismo valorizza società naturali,
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
209
cernente l’essenza del principio rappresentativo, si accompagna un
cambiamento della funzione stessa della rappresentanza. Si contesta
infatti che il suffragio democratico possa essere applicato alla direzione dello Stato, tanto da predicare la sconnessione tra “représentation” e “gouvernement”68. Il principio che integra ad unità non è infatti cercato nella funzione di una Camera politica rappresentativa,
espressione di partiti in concorso, ma neppure nel concorso sic et
simpliciter delle corporazioni. Sia La Tour du Pin sia Maurras fanno
ricorso al principio d’autorità, monarchica e dinastica, come criterio
di legittimazione della direzione politica dello Stato69. All’origine di
queste elaborazioni sta in effetti una contestazione dell’idea moderna
(rivoluzionaria) di eguaglianza. Ad esiti in fondo non dissimili perviene quell’approccio, che vorrebbe essere disincantato, realistico (o
elitistico), che pretendendo di squarciare il velo di ipocrisia del Parlamento come luogo di perseguimento dell’interesse generale, si
propone di immettere direttamente nell’arena decisionale pubblica gli
interessi, lasciando il compito unificante al Governo, inteso qui come
organo di indirizzo politico70.
benché tenda a cristallizzarle; nei fascismi trova spazio un pluralismo non etico,
bensì statizzato. Non a caso, il totalitarismo storicamente ha combattuto le formazioni sociali, perché forze ordinanti secondo un moto di autonomia concorrente
rispetto alla volontà del detentore del potere. Su questa differenza, cfr. anche I.
Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit., pp. 179-192.
68
C. Maurras, Mes idées politiques, cit., p. 167: “Nous n’avons jamais songé à
supprimer le suffrage universel. On peut dire que le suffrage universel doit élire
une représentation et non un gouvernement, sans vouloir supprimer ce suffrage, et
en voulant tout le contraire”, e p. 285: “Il faut revenir à un régime qui rétablisse la
distinction entre le Gouvernement, chargé de gouverner, et la Représentation,
chargée de représenter”. Maurras difende l’idea della monarchia come autorità
“indépendante, une, sans partage. (…) la monarchie française était absolue dès lors
qu’elle ne dépendait d’aucune autre autorité, ni impériale ni parlementaire, ni populaire: elle n’en était pas moins limitée, temperée par une foule d’institutions
sociale et politiques héréditaires ou corporatives, dont les pouvoirs propres
l’empêchaient de sortir de son domaine et de sa fonction” (ibidem, p. 283). Si v.
anche C. Maurras, Réflections sur la Révolution de 1789, Les Iles d’or, Paris 1948,
p. 45 ss..
69
Con particolare chiarezza, C. Maurras, Mes idées politiques, cit., pp. 39, 287 e
290. V. anche Id., Réflections sur la Révolution, cit., pp. 70-71.
70
È l’impostazione che pare emergere dalla ricerca del Gruppo di Milano, su cui la
ricostruzione di I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni, cit., p. 42.
210
Filippo Pizzolato
Se l’approccio testé ricordato non si richiama al principio di sussidiarietà, non ne manca una variante che a quel principio fa diretto
riferimento. Poiché infatti la sussidiarietà assegna al livello politico
una funzione strumentale, di ausilio alla società, a quel principio è
apparsa a taluno consona un’idea di democrazia dell’output, in cui
cioè le istituzioni si legittimano in virtù dei servizi arrecati all’organizzazione dei rapporti sociali, più che come luogo di partecipazione71. Sotto questa prospettiva, il ricorso ad esperti può apparire
una soluzione più funzionale rispetto al dispositivo della rappresentanza. In qualche interpretazione, anche l’emersione e lo sviluppo
delle autorità amministrative indipendenti trovano una giustificazione
simile72. Questo insieme composito di soluzioni comporta però che il
livello politico-istituzionale fuoriesca dall’alveo dei rapporti sociali e
diventi una sfera diversamente fondata, il cui principio di legittimazione è il cosiddetto problem solving. Naturalmente occorrerebbe
chiedersi, ma non è questa la sede, come avvenga la registrazione
della soddisfazione della “utenza” rispetto alle performances delle istituzioni politiche. Sembra cioè rimanere irrisolto il problema di
fondare un circuito di legittimazione della direzione politica alternativo a quello della rappresentanza.
Altre proposte sembrano valutare positivamente la tensione tra
sussidiarietà e rappresentanza e cercano, al contrario delle soluzioni
precedentemente ripercorse, di sfruttare le potenzialità della prima
per arricchire i processi partecipativi e democratici. La sussidiarietà è
qui declinata come stimolo alla partecipazione anche politica. Alludo
ai modelli, diversi ma imparentati73, della democrazia deliberativa e
71
Ripercorre queste teorie I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit., p. 312
ss. e 327-329. Per l’ambito comunitario, cfr. M. Picchi, Uno sguardo comunitario
sulla democrazia partecipativa, in Astrid Rassegna, 95/2009, pp. 7 e 16. Una critica a questa rilettura “esclusivamente funzionalistica ed efficientistica” della
sussidiarietà in P. Ridola, Sussidiarietà e democrazia, cit., p. 26.
72
Non a caso, parte della dottrina giuspubblicistica osserva, criticamente, che le
fonti normative delle autorità amministrative indipendenti, per quanto formalmente
secondarie, hanno assunto un rango sostanzialmente primario perché precedono (e
non seguono) il progetto politico che è solo incompiutamente consegnato nella
norma primaria. Così, G. De Minico, La partecipazione al rule-making, cit., pp.
426-427 e 447.
73
Un’efficace presentazione delle differenze in R. Bifulco, Democrazia deliberativa e democrazia partecipativa, in www.astrid.eu, 2009.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
211
di quella partecipativa. Chi condivide queste premesse va dunque alla
ricerca di soluzioni istituzionali che accorcino le distanze tra corpo
elettorale ed organi di indirizzo politico74. Di fronte alla proposta della democrazia partecipativa, si è rilevato il rischio che si finisca con il
togliere spazio o finanche con l’eludere i luoghi della sintesi e della
mediazione politica75; o che si inneschi una partecipazione cui però
non corrisponda una responsabilità che, anzi, risulterebbe accentrata
in capo al Governo76. Paradossalmente la sussidiarietà, attivata per le
sue virtù partecipative, rischia di trasformarsi in inopinata scorciatoia
per il potere, il cui detentore è liberato dalle angustie del dibattito e
del confronto parlamentari. Inoltre, appare semplicemente eluso o
rimosso il problema dell’esistenza e del ruolo dei partiti.
7. Conclusione
Come pensare il federalismo alla luce della sussidiarietà? Più che
pretendere di pervenire a conclusioni, in questa sede si forniranno alcune indicazioni. Del resto, il principio di sussidiarietà è interessato
alla salvaguardia di sfere di autonomie, piuttosto che alla configurazione puntuale di uno specifico assetto istituzionale. Si è però visto
che la sussidiarietà non ha una vocazione anti-istituzionale, né il suo
svolgimento deprime l’azione politica cui affida la garanzia sintetica
del bene comune. Laddove istituzioni politiche adeguate manchino,
essa ne richiede anzi la costituzione, come accade per l’ambito so-
74
Già Fraenkel aveva osservato che la delegittimazione di cui soffrono i partiti nella loro capacità di farsi portatori della domanda politica tende a travolgere in un
giudizio di inidoneità o di insufficienza le istituzioni rappresentative. Sul punto: A.
Deffenu, Forme di governo, cit., p. 87; I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni,
cit., p. 28; G. Sirianni, Etica della politica, rappresentanza, interessi: alla ricerca
di nuovi istituti, ESI, Napoli 2008, p. 18. Sulla concezione di Fraenkel in tema di
rappresentanza, cfr. A. Scalone, Rappresentanza politica, cit., p. 140 ss..
75
I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni, cit., pp. 62-63, 71-73, 411-412 la
quale argomenta pertanto la strada di rivitalizzare la rappresentanza politica. La
strada battuta è quella della rappresentanza, in organo apposito ma esterno al Parlamento, degli interessi territoriali, in quanto già mediati (ibidem, pp. 90-91, 347).
76
I pericoli per la democrazia di una sconnessione tra responsabilità e partecipazione sono stati lucidamente colti, in una prospettiva filosofica, da F. Riva,
Partecipazione e responsabilità. Un binomio vitale per la democrazia, Città Aperta, Troina 2007.
212
Filippo Pizzolato
vranazionale77. Il compito proprio della sfera pubblica consiste nel
sostenere l’autonomia sociale, contrastarne le propensioni corporative e aprire le solidarietà intermedie ad una responsabilità verso l’interesse generale. Ad essa spetta anche l’eliminazione del potere privato che inibisce la relazione libera. Siffatte responsabilità politicoistituzionali sono colte in chiave teleologica, ma non materiale, perché la definizione del “campo” dell’azione della sfera pubblicoautoritativa segue necessariamente un confine mobile.
La sussidiarietà non consente una rigida demarcazione materiale
delle competenze tra i vari livelli. Poiché però la mobilità e la flessibilità dell’intervento delle istituzioni politiche non offrono rassicurazioni circa il contenimento di queste entro il margine del proporzionato, la garanzia di un rapporto armonico tra sussidiario e sussidiati è ricercata in procedure decisionali di tipo cooperativo. La traduzione istituzionale della sussidiarietà valorizza procedure cooperative, entro cui la partecipazione dei livelli “inferiori” alla decisione
politica può espletare la funzione garantistica di tenere sotto controllo
le tensioni conformative e le tentazioni totalizzanti del livello politico
“superiore”78. Tale cooperazione investe sia le diverse articolazioni
delle istituzioni politiche, sia i rapporti tra queste ultime e le formazioni sociali. Nella sua attuazione nella giurisprudenza costituzionale
italiana ed in quella comunitaria, la sussidiarietà (verticale) è stata
declinata secondo moduli improntati alla leale collaborazione tra enti,
affinché la cooperazione – spinta talora sino alla codecisione – operi
come contrappeso all’attrazione verso l’alto delle funzioni (anche
legislative) che lo stesso principio di sussidiarietà, in applicazione di
77
Questa proiezione sovranazionale, universalizzante, della sussidiarietà è esplicita
nella Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII. Vedi anche Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale, cit., pp. 240-1, n.
441. Benedetto XVI auspica un governo della globalizzazione “di tipo sussidiario,
articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente”,
un’autorità “organizzata in modo sussidiario e poliarchico” (Caritas in veritate, n.
57); “una vera Autorità politica mondiale (n. 67)”.
78
In termini filosofici, il nesso tra cooperazione e federalismo personalistico è stato colto da A. Danese, Il federalismo, cit., p. 108 in Autori come Héraut e De
Rougemont. Secondo una logica garantistica in fondo simile, nella sua proposta
federale S. Ortino, Per un federalismo funzionale, cit., pp. 55 e 58 prevede che, ai
vari livelli territoriali, vi sia una seconda Camera rappresentativa dei livelli inferiori.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
213
un giudizio di adeguatezza, può senz’altro richiedere79. In questa direzione la sussidiarietà può incrociare il tema della rappresentanza.
La cooperazione qualifica quel federalismo che, costruito a partire
dalla sussidiarietà, rifugge l’obiettivo, peggio se degenerato in ossessione, di una sintesi che comporti l’indistinguibilità delle parti. Il
livello politico non è un “poi” in cui rimangono inghiottiti gli stadi
“primitivi” dell’aggregazione umana80. La sussidiarietà teme una democratizzazione che proceda per via di aspirazione entro una sfera
pubblica superiore delle articolazioni intermedie della vita sociale e
politica. L’unità politica deve essere pensata come processo cooperativo che esprima la tensione e partecipazione al bene comune delle
differenti ed autonome articolazioni sociali e politiche. In un federalismo che sia ontologicamente fondato sull’idea di persona (intesa
come l’uno già relazionato), “l’unità non ha per telos quello di annullare le differenze, ma di esaltare la vivacità degli scambi comunicazionali”81. Deve trattarsi, per usare una categoria di De Rougemont82,
di una “unità-diversità”, di un’unità cioè che porti “dentro” la diversità, la faccia convivere, permettendo che coesista e curando che
cooperi. La “soluzione federalista” consiste nel rispetto dei “termini
antinomici in conflitto”, rinunciando alla “riduzione dei (…) termini
ad uno” o alla “subordinazione dell’uno all’altro”83. Questo modo di
79
Cfr. I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit., pp. 102-105. In questa direzione si comprende il tentativo di procedimentalizzare il principio di sussidiarietà
dell’azione comunitaria con il Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam. Una
sintetica rassegna della giurisprudenza comunitaria applicativa del principio di sussidiarietà in L.P. Vanoni, Federalismo, regionalismo e sussidiarietà. Forme di
limitazione al potere centrale, Giappichelli, Torino 2009, p. 33 ss.
80
Simile la riflessione di G. Berti, Principi del diritto e sussidiarietà, in Quaderni
fiorentini, 2003, p. 391. In questo senso, come sottolinea P. Ridola, Sussidiarietà e
democrazia, cit., p. 22, la sussidiarietà incontra il federalismo nella contrapposizione ad un contrattualismo individualistico.
81
A. Danese, Il federalismo, cit., pp. 93-95 e 100 riprendendo pensatori federalistieuropeisti come Denis De Rougemont. Per l’A., “è proprio l’accettazione della non
solubilità del nodo teoretico dell’unità-pluralità che fa del federalismo la configurazione politica ottimale, di tipo orchestrale, in cui le dissonanze possono
contribuire all’armonia sinfonica” (p. 95).
82
D. De Rougemont, L’uno e il diverso. Per una nuova definizione del federalismo, tr. it., Lavoro, Roma 1995.
83
D. De Rougemont, L’uno e il diverso, cit., pp. 13-14. Con questa impostazione
bene si accorda, ci pare, la teoria del federalismo come processo dinamico, anziché
214
Filippo Pizzolato
intendere l’unità politica appare conforme all’antropologia personalistica, in analogia con la quale è costruito84 e per la quale perfino
l’identità personale si conquista in sistemi di relazioni di cui reca
tracce visibili. Per De Rougemont, in questo tentativo di mantenere e
comporre le diversità e perfino le realtà contrarie in una “tensione
creatrice” si riflette la specificità stessa della cultura occidentale e,
entro questa, del progetto europeo85.
Se dunque l’“uno” mantiene e tutela le parti che lo costituiscono,
affinché l’autonomia, nel passaggio al momento politico, non si trasformi in eteronomia, è necessario che il livello superiore sia “federazione” di parti, che rimangono visibili, o almeno prodotto e garanzia
della comunicazione delle stesse. Nella maniera in cui è organizzata
la rappresentanza politica, questa idea è già suggerita dalla presenza
dei partiti86. Un problema diventa la definizione dell’identità delle
parti chiamate a relazionarsi nella sfera pubblica. Con la sussidiarietà
la rappresentanza ha il compito di garantire e promuovere un ordine
già prefigurato e dunque di comporre un’unità plurale che sia luogo
di coesistenza pacifica delle parti.
Quali sono gli attori di questa composizione? Le stesse articolazioni della società in dialogo tra loro o/e anche un soggetto politico
come modello compiuto: per la delineazione di questa teoria occorre fare riferimento ai classici contributi di D.J. Elazar, Idee e forme del federalismo, tr. it.,
Giuffrè, Milano 1998 e C.J. Friedrich, Trends of Federalism in Theory and Practice, Pall Mall Press, London 1968. L’unità politica come luogo di coesistenza di
esigenze contraddittorie è colta da M. Cacciari, La città, Pazzini, Villa Verucchio
2006, p. 26 ss., anche in rapporto alla città, a cui si chiede di essere, al tempo stesso, “grembo” e “macchina”, luogo dell’otium e del negotium.
84
In D. De Rougemont, L’uno e il diverso, cit., pp. 16 e 32 il modello originario di
questa unità-diversità è però il Dio cristiano, uno e trino, Dio ed uomo.
85
D. De Rougemont, L’uno e il diverso, cit., p. 15; al contrario, per l’A. cit. (ibidem), “le metafisiche orientali decidono di sopprimere il conflitto riducendo uno
dei due termini – il diverso – ricorrendo ad una lunga, estenuante ascesi”. In ambito comunitario, l’art. 10 del Trattato sull’Unione Europea fonda il funzionamento
dell’Unione stessa sul principio della “democrazia rappresentativa” e articola lo
stesso in una diretta rappresentanza dei cittadini nel Parlamento europeo ed in una
degli Stati membri e dei rispettivi governi entro il Consiglio europeo ed il Consiglio dei ministri.
86
Ciò che determina un’autentica contraddizione, secondo la categoria della rappresentazione delineata da G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia,
cit., p. 382.
Sussidiarietà, autonomia e federalismo: prime riflessioni
215
“facilitatore” di dialogo? La prima soluzione sembra tradursi in moduli contrattuali che però richiedono una strutturazione del corpo
sociale secondo livelli sufficientemente identificabili e stabili; la seconda appare più compatibile con la situazione di un corpo sociale
debolmente o comunque precariamente organizzato, perché articolato
attorno ad interessi più che a formazioni intermedie87, e che pertanto
coesiste grazie ad un’istanza altra, produttiva della legge. La seconda
via appare oggi più realistica e tuttavia problematizza il punto d’avvio di un pensiero della sussidiarietà e cioè la prefigurazione di un
ordine autonomo da parte dei rapporti sociali. Quando tale ordine appaia instabile e fluido, perché non può contare su sintesi sociali
intermedie, è ancora sensato applicare la sussidiarietà o siamo tornati
a presupposti di fatto hobbesiani?
Forse per la percezione diffusa della fragilità dei rapporti sociali,
le proposte elaborate muovono per lo più nella direzione, che potrebbe apparire sincretistica88, di una complessificazione della rappresentanza, più che di un superamento di quest’ultima, affinché la decisione del livello politico sia preceduta da un ampio confronto con i
livelli intermedi (istituzionali o sociali) rappresentati, o di una sua integrazione a mezzo di processi partecipativi esterni alla rappresentanza politica. Qualcuno legge nella sussidiarietà il principio ispiratore di una trasformazione che affianchi alla rappresentanza
territoriale, indebolita ed ormai insufficiente, quella funzionale, con
cui si renda visibile l’idea di uno Stato “spongiforme”89.
Il tentativo di pensare istituzioni sussidiarie reclama l’apporto
di parti cooperanti, più che competitive, concorrenti più che escludenti. Possono ancora essere i partiti il soggetto facilitatore
di questa unità plurale o devono esserlo esperti, chissà come re87
Non basta la “esibizione diretta degli interessi”, acquisiti proceduralmente, ad
esautorare la funzione della rappresentanza politica cui spetta cercare una “composizione politica della misura della convivenza dei medesimi”, una “sintesi”: così G.
De Minico, La partecipazione al rule-making, cit., p. 428. V. anche ibidem, p. 432.
88
Un approccio critico al sincretismo che semplicemente affianca rappresentanza
politica e rappresentatività degli interessi in A. Scalone, Rappresentanza politica,
cit., pp. 21, 148 e 202; cfr. anche C. Pinelli, Rappresentanza e democrazia, cit., p.
112.
89
G. Sapelli, La democrazia trasformata. La rappresentanza tra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 137138 e 119-121.
216
Filippo Pizzolato
clutati? Entro questa domanda risuona quella, lasciata irrisolta,
del rapporto che deve intercorrere tra i partiti e le formazioni sociali. Seppur non si riesca a trarre dal principio di sussidiarietà
un’indicazione univoca al riguardo, sembrerebbe che i partiti,
per poter assolvere a questo compito, debbano approssimare il
modello-Kelsen, più che il modello-Schumpeter90. Nel secondo
caso, infatti, il carattere elitario e competitivo dei partiti sembra
precludere prestazioni di unità cooperativa91; nel primo caso, invece, i partiti sono i soggetti cui è affidata la ricerca dialettica
dell’unità, di un interesse generale colto non per sterilizzazione
delle parti, ma in termini relazionali, ermeneutici. È difficile nascondersi quanto i partiti siano lontani da questo modello; né
sappiamo dire se basterebbe a farli agire in modo cooperativo il
fatto che fossero, essi stessi, attraversati dal dialogo e dunque
espressione, nella loro stessa organizzazione interna, di democrazia92. Certo è che questa riforma dei partiti politici appare, per
la prospettiva che si è indicata, un passaggio ineludibile, ancorché non risolutivo. Per quanto organizzati secondo criteri
democratici, i partiti non potrebbero aspirare, al loro interno, le
autonomie sociali, sicché si porrebbe comunque il problema di
mantenere aperti canali di collegamento con queste ultime.
90
La distinzione è ripresa da A. Mastropaolo, Crisi dei partiti o decadimento della
democrazia?, in L. Chieffi (a cura di), Rappresentanza politica, cit., pp. 164 e 175.
91
A. Mastropaolo, Crisi dei partiti, cit., p. 176 parla, con riferimento a questo modello, di evaporazione della rappresentanza, che “diventa un legame che i
governanti tessono dall’alto verso il basso (così come è dall’alto verso il basso che
si costruisce il consenso di cui necessita l’autorità politica), salvo poi interloquire
intensamente con le lobbies attraverso cui ottiene rappresentanza, nell’accezione
sociologica del termine, e si fa ascoltare, chi dispone di mezzi sufficienti per condizionare gli stessi governanti”.
92
In un’ottica però di contrapposizione radicale tra rappresentazione politica e Stato dei partiti, la democraticità interna dei partiti era stata ritenuta fondamentale, tra
gli altri, da G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, cit., pp. 339 ss. e
394.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 217-232 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Dallo Stato federale allo Stato
multiculturale? Come “accomodare” la
diversità nelle società contemporanee
Ilenia Ruggiu
Sommario. 1. Il federalismo come risposta a rivendicazioni identitarie.
– 2. Breve storia dello Stato federale e dello Stato multiculturale. – 3.
Insufficienza dello Stato federale ad assorbire la diversità contemporanea e sua evoluzione multiculturale. – 4. Il ruolo del giurista e del
giudice di fronte alla diversità. Qualche riflessione sull’uso dell’argomento culturale da parte delle corti italiane.
1. Il federalismo come risposta a rivendicazioni identitarie
È da tempo nota la polisemia che il concetto di federalismo racchiude in
sé1. Dagli stessi contributi a quest’opera, il federalismo è stato letto alternativamente come forma di organizzazione del potere politico (Olivier
Beaud), come risposta ai problemi di gestione amministrativa di società
sempre più complesse (Pierangelo Schiera), come possibile risposta alla
crisi della rappresentanza (Giuseppe Duso), come meccanismo per rafforzare il centro (Giuseppe Gangemi), come luogo della sussidiarietà e
quindi fecondo habitat della “persona” intesa come sintesi tra individualismo e comunitarismo (Filippo Pizzolato) e via enumerando.
A fronte di tale vastità di significati, si farà qui riferimento ad
un’accezione ben circoscritta di federalismo che sarà letto limitatamente al suo ruolo di strumento di accomodamento della diversità,
di risposta a richieste identitarie, a rivendicazioni culturali generalmente avanzate dagli enti territoriali nei riguardi del centro.
1
Ex plurimis, L.M. Bassani, W. Stewart, A. Vitale, I concetti del Federalismo, Milano, 1995 e A. Vespaziani, Federalismo (diritto comparato), voce in Enciclopedia
giuridica Treccani.
218
Ilenia Ruggiu
Si usa ritenere che tale dimensione del federalismo corrisponda alla
sua versione più tarda ossia al federalismo centrifugo; ma, a ben vedere,
tale lettura non tiene conto di come anche i primi stati federali storici
avessero a cuore il problema della conservazione della diversità lato
sensu culturale (ad esempio linguistica, ma anche delle istituzioni o del
diritto precedente il foedus) degli stati che andavano unendosi. Ed ancora oggi, d’altra parte, i federalismi centripeti recano traccia di questo
dna. Ad esempio, se leggiamo il processo di integrazione europea come
un grande federalizing process, potremmo osservare come questo abbia
tra i suoi nodi costituzionali proprio la conservazione della pluralità culturale dell’Europa. Sin dal riferimento, nel Trattato fondativo, ai
“popoli” dell’Europa, per l’appunto al plurale, emerge tale dimensione
del federalismo attenta alla pluralità e alla diversità delle parti.
Scopo principale di questo lavoro è riflettere sulla idoneità del federalismo a rispondere alle richieste di diversità e di accomodamento
della stessa che promanano da società sempre più complesse. Si cercherà di dimostrare come tale idoneità sia attualmente messa in crisi
dalle trasformazioni che vivono le società post-moderne e postindustriali. Tali trasformazioni sono molteplici e, incidendo in primis
sulla ubicazione territoriale e temporale della diversità culturale, fanno
sì che gran parte di questa sfugga inevitabilmente al federalismo. Si
pensi ai flussi migratori che dislocano persone di una stessa cultura in
parti diverse di un Paese e che vedono gli stessi migranti spostarsi in
cerca di lavoro scardinando il concetto di “minoranza nazionale” stanziale e territoriale. Si pensi al diffondersi di soggetti che conducono le
proprie vite a cavallo tra molteplici nazioni e culture, portando
all’affermarsi di identità transnazionali o post-nazionali. Per riprendere
le parole di Sergio Ortino nel contributo al presente volume, così come
non siamo più di fronte al tradizionale “stato nazionale sovrano, territoriale e confinario”, allo stesso modo è la società che cessa di essere
territoriale e confinaria2.
A fronte di tali trasformazioni, a partire dagli anni ’80, sia pure
con un processo di affermazione lento, è emersa quella che potrebbe
2
Ciò non significa automaticamente che la società diventi aperta ed inclusiva, anzi
proprio le trasformazioni in atto hanno determinato la rinascita del concetto di comunità intesa come gruppo chiuso, dai confini ben determinabili. Sulla dialettica tra
i concetti di società e comunità si vedano F. Tönnies, Comunità e società (1887),
Milano, 1963 e K. Popper, La società aperta e i suoi nemici (1947), Roma 1974.
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
219
essere definita come una nuova forma di stato, in qualche modo concorrenziale a quella federale – o che, letta da un altro punto di vista,
ne rappresenta un’evoluzione forte – quanto a modalità di rispondere
a richieste identitarie: lo Stato multiculturale. Come ripensare il federalismo oggi, rispetto al suo nesso con questioni identitarie, significa
ripercorrere queste trasformazioni del pluralismo che non è più soltanto sociale, economico o politico, ma diviene anche culturale. Per
farlo può essere utile partire da un confronto tra federalismo e multiculturalismo, come modalità alternative o reciprocamente integrantesi, di accomodare la diversità.
2. Breve storia dello Stato federale e dello Stato multiculturale
Un confronto tra i concetti di federalismo e multiculturalismo può
iniziare con una ricognizione degli stati federali e multiculturali esistenti. Tale dato ci dà una serie di semplici, ma utili informazioni.
Com’è noto, per un lungo periodo la forma di stato federale ha
rappresentato un’eccezione rispetto alla forma di stato unitaria. Nel
XVIII secolo esisteva soltanto uno Stato federale: gli Stati Uniti
(1787). Nel XIX secolo questo numero sale a otto3. Nel XX secolo
continua a crescere4, arricchito, peraltro, dal fenomeno della diffusione degli Stati regionali che, secondo una impostazione friedrichiana5,
rappresentano federalizing processes destinati a consolidarsi6.
Attualmente il Forum mondiale delle federazioni ha censito 24 stati
classificabili come federali. Certo si potrebbe osservare che 24 stati sono pochi rispetto al panorama di oltre 190 stati esistenti al mondo.
Tuttavia, se consideriamo che al loro interno vive oltre il 40% della popolazione mondiale, tale forma di organizzazione del potere politico
3
Il Venezuela (1811), la Svizzera (1848), il Canada (1867), la Germania (1871), il
Messico (1824-1917), l’Argentina (1853), il Brasile (1891).
4
Costituendosi a stati federali: il Sudafrica (1909), l’Australia (1901), l’Austria
(1920), la Nigeria (1946-1989), l’India (1950), la Malesia (1963), la Tanzania
(1964), gli Emirati Árabi Uniti (1968), il Pakistan (1973), il Comoro (1975), la
Russia (1991), il Belgio (1993).
5
C. Friedrich, Federal Government, voce in Encyclopoedia Britannica, 1962.
6
Si pensi agli stati a regionalismo forte quali la Spagna (1978-2006), l’Italia
(1948-2001), il Regno Unito (1998), il Camerun o in cui sono state realizzate forme di decentramento quali il Portogallo (1976), il Perú (1993), la Francia (2003).
220
Ilenia Ruggiu
appare ampiamente diffusa. Negli attuali stati federali, il federalismo
serve ad assorbire parte delle rivendicazioni identitarie interne agli stati.
Volendo ripercorrere la storia e l’evoluzione dello stato multiculturale il panorama muta decisamente. Innanzitutto, se lo stato federale
nasce, in pratica, con il costituzionalismo – rientrando sin dal modello
statunitense nella teoria della Costituzione come limite al potere – lo
stato multiculturale ha una formazione molto più recente che matura,
più che dentro la teoria dei poteri, all’interno della teoria dei diritti,
come lotta alla discriminazione che di fatto la cultura dominante, pur
professandosi neutrale, perpetua nei confronti di altre identità.
La parola multiculturalismo fu coniata dal primo ministro canadese
Troudeau nel 1971. Essa rappresentava un tentativo di andare oltre il
poco inclusivo termine “bi-culturalismo” fino ad allora utilizzato nel dibattito canadese per descrivere la contrapposizione tra le due nazioni
fondatrici del Canada: la popolazione francofona del Quebec e quella
anglofona, discendente dagli immigrati britannici, del resto del Canada.
La sostituzione del termine biculturalismo con quello di multiculturalismo serviva, nella visione di Troudeau, per dimostrare che la
conversazione costituzionale non poteva limitarsi a tali due gruppi, in
quanto molte altre culture costituivano il Canada: quella dei popoli nativi precedenti all’arrivo degli europei e, successivamente, quelle di
tutti gli immigrati. La maggiore inclusività del termine multiculturalismo, con l’esplicito “riconoscimento” di tutti i gruppi costitutivi la
società canadese, rappresenta la prima presa d’atto ufficiale della diversità culturale sempre più crescente che caratterizza gli stati attuali.
Politiche multiculturali vennero adottate anche dall’Australia nel
1974. Ma si deve attendere il 1982, con l’emanazione della Costituzione canadese, per trovare la prima menzione costituzionale di tale
termine. In particolare, la Costituzione canadese afferma che il multiculturalismo rappresenta un patrimonio nazionale di tutti i canadesi.
Se la prima Costituzione federale risale al 1787, la prima costituzione multiculturale, dunque, è di 200 anni successiva. Volendo fornire
un conteggio delle costituzioni multiculturali attualmente vigenti,
l’operazione non è semplice. Oltre 50 costituzioni al mondo inseriscono al loro interno clausole di protezione di gruppi culturali, visti
come minoranze rispetto alla più ampia popolazione, ma soltanto 6 ar-
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
221
rivano a costituzionalizzare il multiculturalismo7. Peraltro, è interessante notare come tali costituzioni siano anche costituzioni federali.
L’accettazione del multiculturalismo e dei nuovi concetti che ad
esso si accompagnano (diritti culturali, diritti collettivi, comunità,
cultural defense nelle corti, eccezioni al principio di uguaglianza etc.)
non è, peraltro, un processo pienamente compiuto nel costituzionalismo che ha, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, maturato
un tabù nei riguardi dell’identità e della comunità viste come manifestazione di un reazionario organicismo, nemico dei diritti individuali.
Così, ad esempio, è ancora incerto lo stato dei diritti culturali: sono
diritti? Se sì, sono diritti umani universali che rappresentano una
quarta generazione rispetto a quelli civili, politici e sociali o rappresentano diritti speciali posti, comunque, in una posizione gerarchicamente inferiore rispetto ai “veri” diritti fondamentali?
Tale tabù identitario può essere meglio compreso per l’impostazione sostanzialmente liberale del concetto di individuo/persona posto al centro delle Costituzioni. Come evidenzia l’intervento di Filippo
Pizzolato in questo volume, il concetto di persona ammette molteplici
declinazioni, che vanno oltre il paradigma liberale puro e nella stessa
Costituzione italiana il riferimento alle formazioni sociali costituisce
prova di ciò. Tuttavia, è vero che quella individualista-liberale costituisce una delle matrici del costituzionalismo che ha reso difficile l’apertura al concetto di identità e comunità.
Piuttosto che utilizzare clausole multiculturali, gli stati nazione preferiscono, come accennato, ricorrere al riconoscimento di singoli diritti
culturali per singole minoranze. Ma se dalle costituzioni statali ci spostiamo alla conversazione costituzionale che ha luogo nel diritto
internazionale e in Europa, è facile osservare come acquisti senso parlare dell’emersione di una nuova forma di stato multiculturale in
quanto va sempre più affermandosi l’idea che il rapporto tra autorità e
7
In base ad una mia ricerca queste sono attualmente soltanto sei, oltre al Canada, il
Brasile che dal 1988 riconosce l’identità dei “vari gruppi” che compongono il Brasile e parla di tali identità come “patrimonio culturale”; l’Argentina che dal 1994
protegge la “pluralità culturale” del Paese; la Costituzione dell’Ecuador del 1998
che qualifica lo stato come interculturale ed afferma l’eguaglianza tra culture; la
Costituzione del Messico del 2001 che inserisce il termine pluriculturale. Ammesso e non concesso che l’Unione Europea sia uno stato, anche il Trattato è espressione di un progetto multiculturale.
Ilenia Ruggiu
222
società debba tenere conto del carattere culturalmente composito di
quest’ultima.
Se questo è il quadro normativo esistente, possiamo ora interrogarci
in che senso federalismo e multiculturalismo costituiscono risposte diverse alla questione della diversità e del pluralismo culturale.
3. Insufficienza dello Stato federale ad assorbire la diversità
contemporanea e sua evoluzione multiculturale
Se volessimo visualizzare lo stato federale e quello multiculturale in
relazione alla collocazione della diversità questi potrebbero essere i
risultati:
Figura 1. Lo Stato federale.
Nello Stato federale (o regionale) la diversità è territorializzata e
l’accomodamento della stessa avviene riconoscendo ai soggetti portatori di differenze (normalmente minoranze nazionali) porzioni di potere normativo identificate per competenza materiale e per territorio.
L’autonomia, il conferimento di un proprio ordinamento giuridico alle
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
223
parti, la distribuzione del potere normativo è il modo in cui viene risolta la questione della diversità8.
Tuttavia questo schema non riesce sempre ad assorbire tutta la diversità esistente nella società. Una più attenta analisi dello stato federale
rivela, infatti, come al suo interno vi sia una notevole parte di identità,
diverse da quelle regionali, che sfuggono all’accomodamento realizzato
tramite l’autonomia9, come emerge nella visualizzazione che segue:
Figura 2. Stato federale, identità regionali, altre identità.
8
Autonomia, com’è noto non significa, se non nel federalismo duale, completa separazione. Le parti, infatti, sono ciascuna titolare di un proprio ordinamento
giuridico, ma si raccordano con il centro, tramite eventuali organi di cooperazione
(Camera delle Regioni, sistema delle conferenze) o bilateralmente. Normalmente,
gli enti territoriali realizzano forme di raccordo anche tra loro, tramite organi di
cooperazione orizzontale o tramite incontri periodici non istituzionalizzati.
9
Senza andare lontano, un esempio italiano servirà a dar conto di come la diversità
linguistica, protetta nel nostro ordinamento dall’art. 6 Cost. trova un pieno accomodamento dentro lo schema federale/autonomista nel caso del Trentino Alto
Adige, ma non, ad esempio, nel caso della Sardegna, che ha dovuto attendere la l.
488/1999 sulle minoranze nazionali per veder riconosciuto il sardo come lingua
minoritaria nazionale, mentre altre regioni come il Veneto hanno soltanto una forma di auto-riconoscimento tramite i propri statuti. Vi è poi il caso delle lingue rom
e sinte, che non sono state riconosciute neanche nella legge 488/1999 sulla base
dell’argomento che si tratta di popoli non allocati territorialmente.
Ilenia Ruggiu
224
La figura di cui sopra rivela, nell’ultima linea, i soggetti che restano
fuori dall’accomodamento federale: gli immigrati, i popoli indigeni,
eventuali minoranze nazionali non riconosciute magari perché non territorializzate, i nomadi, i popoli post-coloniali e via enumerando.
Come, dunque, pensare un’unità plurale in un contesto in cui la pluralità non è più incarnata soltanto dai territori, ma è costituita da un grande
sub-strato di soggetti che lentamente si accingono a portare avanti proprie battaglie per il riconoscimento e che, peraltro, incarnano diversità
spesso molto più radicali rispetto a quelle degli enti territoriali che sono
pur sempre integrati in un comune tessuto culturale?
Lo schema lineare ed ordinato dello Stato federale che dà vita a
diversi ordinamenti giuridici separati, ma coordinati, è, dunque, travolto nello stato multiculturale in cui l’atteggiarsi della diversità
potrebbe essere visualizzato in questo modo:
Figura 3. Lo Stato multiculturale.
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
225
In conclusione, è possibile osservare che parte della diversità, soprattutto quella che resta territorializzata, può continuare ad incanalarsi
con richieste di maggiore autonomia, altra sfugge al federalismo, per
lo meno nelle forme classiche in cui lo conosciamo. Il contatto culturale (migranti, spostamenti globali), l’acquisizione di coscienza
politica di nuove soggettività (popoli indigeni, popoli ex coloniali)
travolge lo schema ordinato del federalismo nell’accomodare la diversità. Se a ciò aggiungiamo i fenomeni (richiamati dagli interventi
di Pierangelo Schiera e di Giuseppe Gangemi in questo volume) di
assimilazione e di centralizzazione che stanno vivendo alcuni stati
federati osserviamo come le prestazioni di diversità del federalismo
possono risultare notevolmente attenuate. Allo stesso tempo le dinamiche tra stato federale e stato multiculturale sono complesse da
descrivere: stiamo, infatti, ponendo l’accento sul carattere concorrenziale delle due forme di stato, ma forse è ugualmente plausibile il
fatto che il multiculturalismo rappresenti una evoluzione del federalismo. Non è un caso, come sopra richiamato, che le poche costituzioni
che hanno formalmente riconosciuto il multiculturalismo come tratto
distintivo della propria forma di stato siano prevalentemente costituzioni federali. Che si accolga l’una o l’altra tesi, ad ogni modo, il
cuore del problema è che l’evoluzione della diversità oggi implica
diversi cedimenti nell’impianto teorico del federalismo e anche nella
sua capacità pratica di offrire prestazioni di accomodamento alla
nuova complessità sociale.
Ad esempio, la diversità culturale è difficile da canalizzare nelle
forme classiche della rappresentanza10: a che cosa corrisponde, infatti, ad una rappresentanza di interessi? Ma come possiamo parlare
di interessi per chi semplicemente rivendica il diritto ad essere quello che è, ad esprimere la propria identità11? La dottrina ha già
ampiamente messo in luce le aporie della rappresentanza politica
che anche lo Stato federale porta con sè12, l’incapacità del parla10
A. Scalone, Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Milano,
1996.
11
Può, infatti, essere considerato questo il nucleo duro dei diritti culturali non a caso definiti anche diritti di identità. Sul punto G. Bascherini, Immigrazione e diritti
fondamentali: l'esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee,
Napoli 2007.
12
Si vedano le riflessioni contenute in M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (a cura
226
Ilenia Ruggiu
mento di essere luogo di espressione della pluralità. Ugualmente
sono state esplorate vie istituzionali a tale crisi: la rivitalizzazione
dei partiti, il rilancio della sussidiarietà, l’abbandono del modello
camera delle regioni a favore di un più fluido sistema delle conferenze per fare solo qualche esempio. Il dibattito è vastissimo e non
può essere che richiamato, tuttavia, a ben vedere, questo stesso dibattito è in qualche modo viziato da una prospettiva etnocentrica,
che non tiene conto di come il discorso sulla pluralità vada oggi rideclinato inserendovi non solo il pluralismo interno alla società
(pluralismo politico, etico, economico etc.), ma anche quello che
proviene dal contatto con culture altre. Forse ciò non sempre accade
perché quello che era lo schmittiano terrore degli interessi organizzati che facevano pressione sullo Stato sgretolandolo, diviene oggi
il timore delle molteplici identità e culture che chiedono riconoscimento. Ma anche quando non lo chiedono – normalmente perché
troppo deboli per farlo – la semplice presenza di tali identità chiama
in causa le nostre concezioni della giustizia. Così le domande che
travagliano lo stato federale si trasformano e arricchiscono: non sono più soltanto quelle “dove e con chi parlano i territori”? ma
divengono: dove trovano espressione le molteplici identità che caratterizzano le società contemporanee? Se il federalismo strutturale
non basta più, potrebbero esserci vie per applicare il federalismo
funzionale13 al tema dell’identità culturale? Forse ciò potrebbe essere ottenuto tornando ad un particolarismo giuridico e ad un
pluralismo normativo? Oppure le vie vanno cercate fuori dal paradigma federale, magari puntando ad un legislatore e ad un giudice
sensibile alle particolarità? Si tratta di rinunciare al principio di uguaglianza14 o di valorizzare il ruolo del giudice e del giurista?
Di seguito esploreremo le diverse strade di evoluzione del federalismo al fine di dare risposta alla crescente diversità.
Una prima strada potrebbe essere quella di far coesistere accanto
all’autonomia lo strumento del riconoscimento di un pacchetto di
di), Ripensare la Costituzione. La questione della pluralità, Milano 2008.
13
S. Ortino, Per un federalismo funzionale, Torino, 1994.
14
F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, Padova, 2007, 1: “se per secoli il costituzionalismo si è dovuto occupare
della costruzione dogmatica dell’uguaglianza, oggi a questo si affianca la necessità
di predisporre un efficace diritto costituzionale della differenza”.
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
227
diritti culturali nei confronti delle minoranze. Il diritto costituzionale ha intuito che il federalismo non può da solo assorbire tutta la
diversità presente in società ed ha elaborato il concetto di minoranza culturale come gruppo che può ottenere trattamenti in deroga o
diritti speciali anche al di fuori di una autonomia normativa territoriale. Si potrebbe dire che, almeno in riferimento alla problematica
della diversità culturale, il concetto di minoranza sia un concetto in
qualche modo servente alla realizzazione di forme di federalismo
identitario di tipo “funzionale”. Laddove il federalismo “strutturale”
classico non è riuscito ad assorbire tutte le rivendicazioni identitarie, il costituzionalismo ha pensato a forme di autonomia per gruppi
anche svincolate dal classico legame territoriale proprio tramite il
concetto di minoranza15.
Tuttavia le trasformazioni che sta vivendo la società dimostrano
come anche il concetto di minoranza sia in molti casi ormai debole
per accomodare tutto il flusso di diversità che si riverbera nella società. Che fare, ad esempio, con le minoranze che non hanno ancora
ottenuto un riconoscimento normativo?
Se ripercorriamo, sia pure brevemente, la conversazione costituzionale multilivello che sta avendo luogo tra Stati costituzionali,
Europa e diritto internazionale, ci accorgiamo di come sia in corso
una profonda trasformazione dei concetti classici del diritto costituzionale.
Negli Stati si continua a ragionare intorno al concetto di minoranze culturali e solo qualche eccezione ha introdotto quello di
multiculturalismo. L’Europa ricorre spesso al concetto di minoranze,
ma sta anche costruendo la diversità come bene pubblico, dell’intera
società (europea)16. Afferma, ad esempio, la Corte EDU: “esiste un
consenso internazionale tra gli Stati del Consiglio d’Europa nel riconoscere gli speciali bisogni delle minoranze e un obbligo di proteggere la loro sicurezza, identità e stile di vita… non solo allo scopo di
salvaguardare gli interessi delle minoranze stesse ma per preservare
una diversità culturale che ha valore per l’intera comunità”17. A livel15
J. Tully, Strange multiplicity. Constitutionalism in an age of diversity, Cambridge University Press, Cambridge, 1995.
16
F. Cerutti, Un’anima per l’Europa. Lessico di un’identità politica, ETS, Pisa, 2006.
17
Si tratta della sent. 27238/95 Chapman v. the United Kingdom, CEDU, 18 gennaio 2001.
228
Ilenia Ruggiu
lo internazionale è, invece, ormai pienamente assodato il concetto di
etno-sfera, mutuato dall’antropologia, e di eguaglianza tra tutte le
culture come dimostra, tra l’altro, la Dichiarazione universale della
diversità culturale del 2001.
Tale concetto della diversità come bene pubblico potrebbe essere letto come un’espressione di quell’“individuo simbiotico” di cui
parla Sergio Ortino e non a caso è in qualche modo mutuata dal
pensiero post-liberale, ma anche post-comunitarista che potremmo
definire come pensiero relazionale o dell’agency del soggetto. Mentre nel liberalismo l’identità del soggetto si forgia come quella di un
Robinson Crosue onnipotente e prevale l’identità personale; mentre
nel comunitarismo l’individuo è sempre situato e la sua identità
personale altro non è che il prodotto dei gruppi in cui si inserisce;
nel pensiero relazionale le dinamiche di interazione tra identità personale e collettiva sono molto più dinamiche. Il soggetto è, infatti,
munito di agency con cui si relaziona con il gruppo, lo trasforma,
senza però vivere di vita propria, ma essendo appunto frutto di relazioni, essendo in simbiosi con il mondo che lo circonda.
Quella di riconoscere la diversità come nuovo valore costituzionale, come bene pubblico, potrebbe essere una strada che il federalismo
potrebbe percorrere: in tal modo, infatti, si realizzerebbe una sorta di
riconoscimento generalizzato e una tantum di tutte le minoranze e in
un certo qual senso si smetterebbe di sentirsi minoranza.
Tuttavia, in attesa di trovare una precisa risposta istituzionale e
normativa alla questione, nuove domande di giustizia si fanno avanti dai casi concreti ed è principalmente il giudice ad essere investito
del compito di trovare accomodamenti alla diversità.
4. Il ruolo del giurista e del giudice di fronte alla diversità.
Qualche riflessione sull’uso dell’argomento culturale da
parte delle corti italiane.
Anche negli ordinamenti in cui non si fa affermazione alcuna di
multiculturalismo e che continuano a professarsi costituzionalmente
neutrali di fronte alle diversità etniche è ormai divenuto frequente
trovare soluzioni o, comunque, attenzione alla questione della plu-
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
229
ralità culturale. Una di queste è il ricorso dell’argomento culturale
nelle corti18 che non a caso va diffondendosi anche in Italia, paese
dove nemmeno esiste la categoria dei diritti culturali (se non nella
limitata variante dei diritti linguistici di cui all’art. 6 cost.).
Per argomento culturale si intende l’introduzione da parte del giudice nelle motivazioni alla decisione di valutazioni che tengano conto
di come l’agire del soggetto sia inserito in una cultura diversa in cui
un fatto assume un significato non coincidente con quello della cultura ospite. Il giudice in considerazione dello stretto legame tra cultura
e identità del soggetto lo ritiene, pertanto, non assoggettabile alla
stessa regola dell’ordinamento ospite, che va sospesa o modificata
nella sua applicazione per tenere in considerazione il punto di vista
altro.
In questo rinnovato ruolo del giudice si insediano, però, molti rischi.
Per approfondire la riflessione, ci soffermeremo su alcuni casi emblematici che di recente hanno visto la Corte di Cassazione italiana e
alcuni tribunali di primo grado confrontarsi con l’uso dell’argomento
culturale. Verranno prima brevemente riportati i casi, per poi soffermarci su quelli più rilevanti per denunciare alcune insidie sottese al
ricorso all’argomento culturale.
Un uomo della religione rastafariana viene trovato con un quantitativo di marijuana idoneo a preparare circa 70 dosi. Condannato
dalla Corte d’appello, il giudizio viene annullato dalla Cassazione
che impone al giudice la riconsiderazione dell’elemento culturale.
Secondo tale religione, infatti, la marijuana rappresenta l’erba sacra,
è usata a fini meditativi e se ne consumano fino a 10 grammi al
giorno (sent. 923/2008).
Un indiano della religione Sikh si reca al supermercato con un
coltello appeso al collo. Denunciato da altri clienti viene assolto con
la motivazione che il coltello è portato in questo caso per “un giustificato motivo”. Dopo un accurato scambio di informazioni con il
consolato indiano, infatti, il giudice di primo grado scopre che il coltello ha una funzione rituale – in particolare ha una funzione apo18
Su cui F. Basile, Immigrazione e reati “culturalmente motivati”. Il diritto penale
nelle società multiculturali europee, CUEM, Milano, 2008; M.C. Foblets, A. Dundes Renteln (ed.), Multicultural Jurisprudence. Comparative Perspectives on the
Cultural Defense, Hart Publishing, Oxford and Portland Oregon, 2009.
230
Ilenia Ruggiu
tropaica, di protezione dal male – rappresentando uno dei cinque
simboli o amuleti che vanno indossati secondo la religione Sikh.
Una donna di etnia Rom viene trovata più volte a mendicare con
il proprio bambino di 4 anni. La corte d’appello la condanna per riduzione in servitù. La corte di cassazione annulla la sentenza con
tre motivazioni: la donna mendicava per necessità e soltanto in certe ore della giornata consentendo nelle altre la socializzazione e il
gioco del figlio; mendicare è una pratica culturale dei rom e pertanto non può essere criminalizzata (sent. 44516/2008).
Un uomo del Marocco è condannato per violenza sessuale e lesioni arrecate in danno alla moglie. L’avvocato impugna la sentenza
chiedendo alla Cassazione di fare da mediatore culturale e di considerare come le percosse per far assolvere il “debito coniugale”
rappresentano parte della cultura di riferimento dell’imputato. La
Corte risponde dicendo che, in questo caso, non può tenere in conto
l’argomento culturale in quanto ha valori più alti cui assolvere,
quelli della tutela dei diritti fondamentali di fronte ai quali le pratiche culturali soccombono.
Nei primi tre casi l’argomento culturale viene utilizzato per costituire un’eccezione alla regola dell’applicazione uguale della legge.
Nell’ultimo caso, viceversa, il ricorso all’argomento culturale viene
respinto in nome di una gerarchia tra diritti.
Ci soffermeremo sugli ultimi due casi esaminati nei quali il riferimento alla diversità culturale degli imputati è stato, a nostro avviso,
effettuato in modo improprio.
Pur con tutte le lodevoli intenzioni del caso (evitare che la madre
Rom perdesse la potestà genitoriale sul figlio e prendere una posizione di fronte ai crescenti casi di razzismo nei confronti delle
popolazioni Rom in Italia) la sent. 44516/200819 ha erroneamente
identificato nel manghel un elemento culturale. La prima prova di
questo errore si rinviene nel fatto che neanche le popolazioni Rom
vi si sono riconosciute. Le stesse hanno salutato con favore la sen19
Per un’analisi della sentenza R. Cherchi, I diritti dello straniero, in R. Cherchi,
G. Loy (a cura di), Rom e Sinti in Italia. Tra stereotipi e diritti negati, Roma, Ediesse, 2009, 111 ss. e S. Niccolai, I. Ruggiu, Se un bambino va con la mamma a
mendicare: qualche riflessione sull’“argomento culturale” e le responsabilità della giurisdizione, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, (a cura di), Scritti in
onore di Lorenza Carlassare, Napoli, Jovene Editore, 2009, 1459 ss.
Dallo Stato federale allo Stato multiculturale?
Come “accomodare” la diversità nelle società contemporanee
231
tenza, ma hanno puntualizzato che mendicare appartiene alla storia
delle popolazioni rom, non alla loro cultura.
Il problema dell’individuazione corretta di una pratica culturale
implica sempre una domanda: chi parla per la minoranza? In questo
caso ha parlato il giudice, ma senza andare alla ricerca dei fondamenti di quella pratica che non a caso, nella sentenza, è detta culturale
senza alcuna motivazione che spieghi da dove deriva, perché si può
ritenere parte della cultura Rom etc. (argomentazioni e dati che, viceversa, sono stati tutti accuratamente forniti nelle sentenze sul coltello
dei Sikh o sull’erba sacra dei rastafariani). Il primo dovere del giudice sarebbe stato – se ne era davvero convinto – andare alla ricerca del
fondamento culturale della pratica del manghel20, perché la mera diffusione di un comportamento non è sufficiente per dire che appartiene a quella cultura.
Nel caso del marocchino che picchia la moglie la Corte di Cassazione non ha ricorso di sua spontanea volontà all’argomento
culturale. Questo, infatti, era stato evocato dalla strategia difensiva.
Tuttavia la Corte di Cassazione sembra condividere la lettura culturalista data dalla difesa, semplicemente in questo caso non la può
accogliere. Analogamente a quanto è accaduto nella sentenza sul
manghel dei Rom, anche in questo caso si accetta come pratica culturale un comportamento sul quale si può seriamente discutere se
costituisca un tratto essenziale della cultura marocchina o araba.
L’errore commesso dalla Corte di Cassazione nel rispondere
all’avvocato difensore con il suo stesso linguaggio, a non disinnescare l’effetto stereotipante presente nell’uso di questo argomento,
si coglie bene quando i ruoli si invertono e, dall’altra parte, siamo
noi ad essere trattati e letti come culturalmente predisposti alla violenza contro le donne. Mi riferisco alla sentenza di un giudice
tedesco, che ha ridotto la pena per maltrattamenti ad un sardo nei
confronti della compagna, in cui si legge: “si deve tenere conto del20
Qualcuno l’ha trovato nella questua che le popolazioni dell’India, la terra di cui i
Rom sono originari, ancor oggi praticano, affidandosi a Dio per la sussistenza. Oppure si potrebbe dire che il mendicare si collega alla concezione del tempo dei
popoli Rom: l’idea che il tempo non si possa “vendere” è una delle cause che spingono i Rom a rifiutare il lavoro salariato. In realtà, in un momento storico in cui la
loro economia basata su lavori artigiani è collassata, il mendicare è apparso come
una conseguenza inevitabile per sopperire allo stato di bisogno.
232
Ilenia Ruggiu
le particolari impronte culturali ed etniche dell’imputato. È un sardo. Il quadro del ruolo dell’uomo e della donna, esistente nella sua
patria, non può certo valere come scusante ma deve essere tenuto in
considerazione come attenuante”. La sentenza ha suscitato acerrime
reazioni nelle istituzioni italiane.
In entrambi i casi il giudice si è improvvisato etnografo, ma non
ha compiuto una seria indagine sull’altrui pratica culturale (qui sorge il problema di “chi parla per la minoranza?”), ma si è piuttosto
limitato a proiettare sull’altro uno stereotipo della maggioranza: il
marocchino per gli italiani è più propenso a maltrattare le donne,
così come gli italiani o i sardi lo sono agli occhi di un tedesco; i
rom sono propensi al mendacio, ma forse che gli italiani poveri non
mendicano o che il mendacio non è un fenomeno che tocca trasversalmente più culture? Sarebbe bastata questa constatazione, a ben
vedere, per disinnescarne la natura “culturale”.
La diversità interna alle nostre società può essere un efficace
strumento per rigenerare il diritto (la legge e l’interpretazione) e per
problematizzare le domande di giustizia che provengono dai casi,
ma per farlo ha necessità di essere portata in modo trasparente e
corretto nella sfera pubblica. E ancora una volta la categoria della
rappresentanza non aiuta. In questo senso un’apertura generalizzata
all’uso dell’argomento culturale nelle Corti, che tenga in considerazione la diversa identità del soggetto, potrebbe rappresentare una
valida alternativa ma soltanto se, come accade nel diritto comparato, si elaborano test culturali sicuri e certi.
In conclusione possiamo osservare come il problema di come
pensare un’unità plurale si complica nelle società contemporanee
per il fatto che la diversità è sempre più deterritorializzata e mobile.
Per il momento il primo risultato immediato dell’incapacità della
rappresentanza a dare risposta a queste trasformazioni è l’espansione del potere e delle prerogative del giudice. Forse il federalismo
e il suo apparato teorico concettuale è ancora in grado di fornire una
risposta: la strada è quella di evolversi in stato multiculturale e di
accettare la complessificazione delle identità al suo interno.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 233-252 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Federalismo e decentramento fra Schmitt e
Kelsen
Antonino Scalone
1. Il presente contributo non intende certo affrontare l’insieme dei
problemi sistematici e interpretativi connessi alla riflessione sul federalismo di Carl Schmitt e Hans Kelsen. Si propone soltanto di
indicare un attraversamento possibile di alcuni luoghi della produzione scientifica dei due autori onde trarne indicazioni e spunti che
si spera possano risultare utili ai fini di una migliore determinazione
del tema del federalismo così come si configura nel dibattito attuale.
Il contributo non seguirà un andamento rigidamente cronologico:
affronteremo prima alcuni luoghi della schmittiana Verfassungslehre
(1928) per poi rivolgere la nostra attenzione a due scritti kelseniani:
l’Allgemeine Staatslehre (1925) e L’esecuzione federale (1927).
La tesi che sosterremo è che nella trattazione schmittiana del federalismo emergono con chiarezza alcuni aspetti strutturalmente
aporetici della logica politica moderna – vale a dire della logica che
sta alla base del modo di pensare lo Stato – e che la riflessione kelseniana mira a rispondere a tali aporie attraverso la riformulazione,
per non dire il tentativo di superamento, di alcuni concetti centrali
di quella logica – sovranità e rappresentanza in primis – e attraverso
la proposizione di una concezione dell’unità politica federale basata
sul principio della tripartizione.
2. A leggere il cap. I della Verfassungslehre1, il pensiero costituzionale di Schmitt sembrerebbe articolarsi in modo diametralmente
opposto rispetto ad ogni ipotesi federalistica. Qui infatti Schmitt afferma risolutamente, in polemica con Kelsen, che la costituzione di
1
C. Schmitt, Dottrina della Costituzione (1928), trad. it. Milano 1984.
234
Antonino Scalone
Weimar e “l’unità del Reich tedesco” non sono spiegabili in termini
di “legge fondamentale” o di “norma fondamentale”, ma vanno piuttosto ricondotti ad un fondamento extra normativo di carattere
esistenziale, “la volontà del popolo tedesco”, la cui decisione fondamentale è quel principio – e, a un tempo, quella circostanza materiale
storicamente determinata – che, proprio per le sue caratteristiche e
per la sua irriducibilità a “mera” norma, consente di superare d’un
colpo “tutte le contraddizioni sistematiche, le sconnessioni e le oscurità delle singole leggi costituzionali” e “fonda l’unità politica e di
diritto pubblico” (p. 24). Rispetto a questa unità politico-esistenziale,
assunta come fondamento concettuale, ma anche come principio politico e come valore, tutte le articolazioni sociali, politiche e territoriali
sembrano costituirsi in qualche modo come impedimento, se non
come patologia2. Da un lato vi è la costituzione intesa come “decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente, cioè in
una democrazia del popolo” (p. 41), dall’altro vi sono – da un punto
di vista formale nello stesso testo, ma da un punto di vista concettuale
su un piano gerarchicamente subordinato – “dichiarazioni e programmi” privi di ogni carattere decisionale e frutto piuttosto dei
compromessi dilatori posti in essere dai vari partiti nell’impossibilità
di addivenire ad un accordo (p. 50). Come si vede, si istituisce qui,
secondo un modo di procedere caratteristico dell’argomentazione
schmittiana, una polarità polemica non priva di sfumature morali3 fra
la decisione politica, espressione unitaria e diretta del popolo tedesco,
e la pratica dilatoria, compromissoria, incapace di decidere e dunque
non autenticamente politica, delle “parti”. La costituzione di Weimar
è tale perché, al di là delle formule compromissorie – tipiche, nota
Schmitt, quelle sui rapporti fra Stato e Chiesa e fra Stato e scuola (cfr.
p. 53) – vi sono alcune decisioni politiche fondamentali – sulla forma
di Stato, sulla “democrazia costituzionale” (p. 51), sull’adesione ai
2
Sul carattere patologico delle parti nella riflessione schmittiana, cfr. C. Schmitt,
Staatsethik und pluralistischer Staat (1930), in Id. Positionen und Begriffe. Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt 1940, pp. 133-145. Sull'argomento ci
permettiamo altresì di rimandare al nostro Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Milano, Angeli 1996, pp. 43-57.
3
Cfr. L. Strauss, Note sul “concetto di politico” in Carl Schmitt (1932), trad. it. in
Id., Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell'Occidente, Torino, Einaudi 1998, pp. 379-399.
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
235
principi dello “Stato di diritto borghese” (ibd.) e della proprietà privata – immediatamente riconducibili alla volontà unitaria del popolo
tedesco4. Senza queste decisioni, che ne costituiscono in senso proprio la “sostanza”, la costituzione di Weimar non esisterebbe e “il suo
valore sarebbe veramente illusorio” (p. 56).
Tuttavia Schmitt non può certo fare a meno di confrontarsi con
la realtà costituzionale del suo tempo e questa realtà gli dice che la
forma costituzionale riconducibile alla decisione esistenziale del
popolo tedesco inteso nella sua unità è quella federale. È proprio
questa circostanza a indurlo a prender sul serio – se così si può dire
- l’ordinamento federale, in quanto espressione di un’autentica e unitaria decisione politica. È quanto avviene nel cap. IV della
Verfassungslehre ove si afferma risolutamente la riconducibilità
dell’ordinamento federale vigente al potere costituente. L’ordinamento federale, infatti, trova la sua ragion d’essere nel perseguimento del fine dell’esistenza politica – è questo il punto cruciale –
dei membri che lo costituiscono: “Il contratto federale – scrive
Schmitt – è un contratto di specie particolare, cioè un contratto costituzionale5. La sua stipulazione è un atto del potere costituente. Il
suo contenuto è contemporaneamente il contenuto della costituzione federale e un elemento della costituzione di ogni Stato membro”
(p. 480).
Tuttavia, l’idea di federazione presenta necessariamente tre antinomie che a giudizio di Schmitt – come ci accingiamo a vedere –
sono risolubili solo facendo ricorso ad una nozione che parrebbe e4
Per una critica puntuale di questa interpretazione, cfr. F. Neumann, Die soziale
Bedeutung der Grundrechte in der Weimarerer Verfassung (1930), in Id., Wirtschaft, Staat, Demokratie. Aufsätze 1930-1954, Frankfurt a. M., Suhrkamp 1978,
pp. 57-75. In tale saggio Neumann contesta in particolare la pretesa di intendere
come assoluta la garanzia costituzionale del diritto di proprietà. Assoluta, a suo avviso, è piuttosto la garanzia della “libertà sindacale (Koalitionsfreiheit)”: infatti,
scrive Neumann, né una legge regionale, né una legge del Reich può limitare in
qualsiasi modo il contenuto del diritto di associazione” (p. 70). Sull’argomento ci
permettiamo di rimandare al nostro La partecipazione economica nella Costituzione di Weimar, “Foedus” a. 2009, n. 25, pp. 13-29
5
Con l'espressione “contratto costituzionale” pensiamo si possa intendere un contratto fra parti pre-esistenti capace di esprimere un'autentica decisione politica,
cioè capace di garantire l'esistenza a un tempo dei soggetti costituenti e del soggetto – la federazione – che con tale contratto viene costituito.
236
Antonino Scalone
stranea all’ambito concettuale del federalismo stesso e parrebbe
piuttosto (e contraddittoriamente) appartenere a quello dello Stato
unitario: la nozione di omogeneità.
La prima antinomia riguarda il fatto che se la federazione persegue il fine della conservazione delle parti che la costituiscono,
tuttavia, in quanto tale, ovvero in quanto forma in qualche modo
sovraordinata alle parti che la costituiscono, rappresenta necessariamente anche una limitazione di quell’autonomia che dovrebbe
preservare. Ciò si vede soprattutto con riferimento allo jus belli:
“La federazione persegue l’autoconservazione, cioè la conservazione dell’autonomia politica di ogni membro. D’altro canto, l’appartenenza ad una federazione porta con sé una diminuzione di questa autonomia, giacché essa conduce ad una rinuncia allo jus belli,
al mezzo essenziale dell’autoconservazione, alla rinuncia all’autodifesa. Questa antinomia quindi tocca il diritto di autoconservazione
di ogni membro della federazione” (p. 483).
La seconda autonomia – concettualmente legata alla prima – riguarda il fatto che se da un lato il contraente entra nella federazione
allo scopo di garantirsi “indipendenza” e “autodeterminazione”,
dall’altro la federazione – per perseguire i propri scopi e “nell’interesse della sua stessa sicurezza” – non può rinunciare a “prendere in
considerazione gli affari interni dei suoi membri”. È questo il caso
della cosiddetta “esecuzione federale”, della quale si occupa diffusamente anche Kelsen: “ Ogni federazione porta ad interventi. Ogni
esecuzione federale è un’intromissione tale che sopprime l’autodeterminazione del tutto indipendente dello Stato toccato dall’esecuzione” (p. 484).
Infine, la terza antinomia riguarda il fatto che ogni federazione
ha “una volontà complessiva ed un’esistenza politica” (p. 484) necessariamente diversa e distinta da quella degli Stati membri, né
questa duplicità può mai essere eliminata: anche questa antinomia
dunque, come le prime due, è relativa alla difficoltà, per non dire
all’impossibilità, di pensare insieme due forme diverse e coordinate
di esistenza politica senza che questo si configuri o come limitazione dell’autonomia e della libertà di quella subordinata (vale a dire
della parte contraente) (cfr. p. 483) o come vanificazione di quella
sovraordinata.
Se la federazione può sussistere solo come “unione sostanziale”
ed “equilibrio” fra istituzioni federali e soggetti contraenti – po-
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
237
tremmo dire, per usare un termine poco amato da Schmitt, come
compromesso – essa sarà soggetta ad una strutturale “instabilità” e a
conflitti che però – qui Schmitt si riferisce implicitamente alle proposte kelseniane che esamineremo più avanti – non possono essere
risolti “per via giurisdizionale” o tramite un’“istanza mista”. Nel primo caso, infatti, l’istanza chiamata a decidere potrebbe essere o un
“ufficio della federazione” o “l’ufficio di uno o più Stati membri”; in
ogni caso presenterebbe sempre i caratteri della parte. Nel secondo
caso le controindicazioni sarebbero ancora maggiori: “Anche un’«istanza mista» – scrive infatti Schmitt – sarebbe impensabile di fronte
ad un vero conflitto politico perché incapace di decidere a causa del
suo carattere paritetico”. Se invece fosse in grado di decidere, lo potrebbe fare “non in forza di una norma che vale in modo eguale per
entrambe le parti, ma in forza della sua esistenza. Questa istanza sarebbe quindi essa stessa sovrana” (p. 485).
Tali antinomie appaiono irresolubili, giacché alla loro base stanno il problema della sovranità e l’eventualità che, per decidere chi
ne sia il titolare in ultima istanza, possa aprirsi un conflitto dissolutivo dell’unità federale: “In ogni molteplicità di entità autonome,
esistenti politicamente, questo conflitto esistenziale è sempre possibile e la questione della sovranità, cioè della decisione esistenziale
ultima, rimane perciò sempre aperta” (p. 486). E poco più avanti:
“Il concetto di una unità politica composta di Stati, permanente e
che non abbandona il suo fondamento pattizio appare comunque
come qualcosa di sommamente contraddittorio” (p. 489).
Tuttavia, in un quadro concettuale che attribuisce molto valore
alla dimensione esistenziale, la circostanza della concreta esistenza
di una federazione e, pertanto, la sua riconducibilità ad una concreta
decisione politica del potere costituente non possono non rivestire
un’importanza cruciale. Se esiste una federazione, evidentemente
essa esprime un’omogeneità capace di assorbire ogni conflitto e di
arrestarlo al di sotto del limite, o del caso critico, che ne produrrebbe la dissoluzione: “La soluzione delle antinomie della federazione
[di tutte e tre] consiste nel fatto che ogni federazione si basa su un
presupposto essenziale, ossia sull’omogeneità di tutti i suoi membri,
cioè su una affinità sostanziale, che fonda un accordo concreto, effettivo degli Stati membri e fa sì che il caso estremo di conflitto non
abbia luogo all’interno della federazione” (p. 490). Quel che non
può essere risolto sul piano teorico – da questo punto di vista fede-
238
Antonino Scalone
razione e parti contraenti letteralmente non stanno insieme – trova
la sua soluzione sul piano politico esistenziale, viene deciso dal potere costituente.
Tutto ciò produce importanti conseguenze sul piano dell’esecuzione federale: in primo luogo, “nell’esecuzione federale, che necessariamente spetta alla federazione in quanto tale, la federazione si
presenta davanti allo Stato membro6, contro il quale l’esecuzione si
rivolge, come un’istanza di diritto pubblico e rivolge direttamente
comandi alle autorità degli Stati membri” (p. 496); in secondo luogo,
per questo suo “carattere pubblicistico” il diritto della federazione
deve necessariamente prevalere su quello del Land (p. 497), così come prevede la Costituzione di Weimar.
Come si sa, per Schmitt la forma di Stato democratica è caratterizzata dall’elemento dell’omogeneità che, nel caso specifico, si
manifesta attraverso una serie di identità7 (ma sarebbe forse meglio
dire identificazioni, per esprimerne appieno l’aspetto processuale,
aperto, conflittuale e mediato). Essa dunque ha in comune con la
federazione questo carattere, il che, laddove una federazione sia
composta da Stati democratici, tende a produrre una sorta di traslazione – naturale la definisce Schmitt – fra federazione a base democratica e Stato democratico: “Tanto la democrazia quanto la federazione si basano sul presupposto di un’omogeneità (…) Se si forma
una federazione di Stati democratici, la conseguenza necessaria è
che l’omogeneità democratica confluisca con l’omogeneità federale. Per questo nel naturale sviluppo della democrazia si verifica che
l’unità omogenea del popolo passi oltre i confini politici degli Stati
membri e abolisca a favore di una completa unità l’indeterminatezza della coesistenza della federazione e degli Stati membri
6
Si noti: per Schmitt l’esecuzione federale è sempre della federazione nei confronti dello Stato membro; vedremo che per Kelsen le cose stanno in modo del tutto
differente.
7
Cfr. C. Schmitt, La condizione storico-spirituale dell'odierno parlamentarismo
(19262), trad. it. Torino, Giappichelli 2004, pp. 36-7: “Dal punto di vista logico tutti gli argomenti democratici riposano su una serie di identità. In questa serie vanno
messi: identità di governanti e governati, dominatori e dominati, identità di soggetto e oggetto dell'autorità statale, identità del popolo con la sua rappresentanza in
parlamento, identità di Stato e popolo al momento votante, identità di Stato e legge, infine identità del quantitativo (maggioranza numerica o unanimità) con il
qualitativo (giustezza della legge)”.
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
239
politicamente autonomi” (p. 507). È questo il caso tanto degli USA
quanto della Repubblica di Weimar; queste formazioni politiche
non sono più una federazione, ma piuttosto appartengono “ad un tipo peculiare ed autonomo di organizzazione statale, allo Stato
federale senza fondamento federativo” (ibd.), ovvero uno Stato nel
quale, dal punto di vista organizzativo, vi sono “elementi” tratti “da
una precedente organizzazione federale” (p. 508). Ma non si tratta
di mera questione formale, giacché essa riposa pur sempre su una
decisione politica relativa all’esistenza politica dello Stato in questione: “Formazioni politiche come gli Stati Uniti d’America o il
Reich tedesco della costituzione di Weimar non sono più una federazione. Se ciononostante essi si devono ancora definire come Stati
federali, ciò è sulla base della loro costituzione, che in forza della
decisione positiva sulla specie dell’esistenza politica (art. 2 cost.)
vuole conservare il carattere statale federale” (ibd.). Peraltro, “con
il concetto democratico del potere costituente di tutto il popolo è
abolito il fondamento federativo e con questo il carattere federale.
L’organizzazione statale federale, che ciononostante può essere ancora mantenuta, è allora una parte dell’organizzazione costituzionale di tutto quanto lo Stato e fonda una specie particolare di
Stato” (ibd.), vale a dire, appunto, lo Stato federale senza fondamento federativo. “Nello Stato federale senza fondamento federativo c’è solo un unico popolo. Il carattere statale degli Stati membri precedenti è quindi abolito” (ibd.).
Nonostante riguardi ‘soltanto’ l’aspetto organizzativo, però,
l’assetto federale non può essere mutato se non con un “atto del potere costituente del popolo tedesco” (p. 511), giacché è ad esso che
risale la scelta nei confronti di quel tipo di organizzazione statuale.
Poiché l’assetto federale deriva da qualcosa che di per sé è incompatibile col ‘fondamento’ federativo e deve la propria istituzione e
permanenza a quella volontà, in radice estranea allo Stato federale
inteso come composizione di più volontà statuali e di più popoli, lo
Stato federale senza fondamento federativo sembrerebbe dunque
essere una variante (organizzativa) dello Stato unitario democratico,
basato sul principio dell’omogeneità. D’altro canto, però, essendo
pur sempre il prodotto di un’autentica decisione politica del potere
costituente, esso rappresenta una concreta e sempre attuale ‘variante’ istituzionale, un modo, fra gli altri, di produrre un’unità politica.
Da questo punto di vista, com’è stato acutamente osservato, non si
240
Antonino Scalone
può attribuire a Schmitt la convinzione della “compiuta ed inevitabile obsolescenza della struttura federale e quindi della fatale
affermazione di quella unitaria”, quanto piuttosto la consapevolezza
che l’ordinamento federale – almeno nella forma depotenziata dello
“Stato federale senza fondamento federativo” – costituisce “una
delle possibilità cui si apre la res dura e la novitas delle condizioni
politico-costituzionali della Germania weimariana (ma anche della
realtà politica contemporanea)”8.
3. Nella Allgemeine Staatslehre9, Kelsen affronta il tema del federalismo all’interno della più ampia “teoria dell’accentramento e del
decentramento”. Egli parte dalla critica nei confronti della nozione
di Stato unitario: essa di solito trascura la questione delle partizioni
dello Stato medesimo e la circostanza che anche nelle formazioni
statali più accentrate vi è sempre una qualche articolazione dei poteri che ne complica e compromette la semplice unitarietà. Da
questo punto di vista, scrive Kelsen, “quasi mai uno Stato positivo
ha corrisposto allo Stato unitario, così come all’idea di accentramento” (p. 164). Sicché le nozioni di accentramento e decentramento hanno solo una funzione ermeneutica, valendo piuttosto come tipi ideali (cfr. p. 164); di fatto, ogni Stato concreto presenta
tratti dell’uno e dell’altro modello.
Il decentramento può essere di tipo spaziale o di tipo “dinamico”, relativo cioè non al “räumliche Geltungsbereich”, ma agli
“organi che pongono le norme” (p. 167)10. Sotto questo profilo va
tenuto presente che vi sono innanzitutto “due livelli di norme fra loro sovrapposte: norme che valgono per tutto il territorio e norme
che valgono solo per una parte del territorio; e, correlativamente,
una comunità territoriale complessiva che comprende le comunità
territoriali parziali; e vanno pertanto distinti gli organi della comunità complessiva e gli organi delle comunità parziali”. Si tratta di
8
M. Surdi, Faida, contratto, patto. Scritti sulla capacità costituente, Torino, Giappichelli 2001, p. 108.
9
H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Berlin, Springer 1925.
10
Per una limpida esposizione di questo passaggio, cfr. O. Pfersmann, Hans Kelsen et la théorie de la centralisation et de la décentralisation: le cas de la
supranationalité, “Revue d'Allemagne et des pays de langue allemande”, avril-juin
1996, pp. 178-9.
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
241
una distinzione che “gioca un grosso ruolo” quando si parla di “unioni di Stati (Staatenverbindungen)”. Occorre dunque capire “in
quale senso si possa parlare di organi complessivi e organi parziali,
il che in senso proprio significa che un organo appartiene ad un determinato ordinamento o rispettivamente ad una comunità giuridica
costituita attraverso l’ordinamento, quando questo viene qualificato
come organo ‘proprio’ di un determinato ordinamento o rispettivamente di una comunità giuridica costituita attraverso questo ordinamento” (p. 171).
In particolare Kelsen affronta il caso in cui “l’ordinamento da
cui l’organo è insediato (eingesetzt) e l’ordinamento che è posto
dall’organo stanno dal punto di vista dei limiti spaziali di validità
nel rapporto del tutto con la parte” (ibd.). La distinzione per Kelsen
è solo di grado e non qualitativa (cfr. ibd.) e l’appartenenza di un
determinato organo all’ordinamento complessivo o a quello parziale
non è assoluta, ma dipende dal punto di vista o dal criterio che si
assume. La cosa è chiarita con un esempio: “Si possono considerare
i parlamenti degli Stati membri o parlamenti regionali – costituiti
conformemente alla costituzione federale – come organi federali,
giacché sono previsti (bestellt) dalla costituzione federale; o come
organi degli Stati membri e, rispettivamente, delle regioni, giacché
essi pongono norme giuridiche con ambito di validità solo per lo
Stato membro, per l’ordinamento giuridico parziale dello Stato
membro. Del tutto analoghe sono le cose per l’organo legislativo di
una provincia autonoma che, con riguardo alla sua designazione da
parte della costituzione statale viene indicato come organo dello
Stato e con riguardo alla sua funzione di organo provinciale viene
indicato come organo della provincia” (p. 172).
Alla domanda se sia possibile che “l’ordinamento vigente solo
per un ambito parziale, e rispettivamente la comunità parziale costituita attraverso esso, insedi (einsetzt) un organo per porre norme
che valgono per un ambito complessivo, rispetto al quale l’ambito
di validità prima nominato dell’ordinamento che pone l’organo è
solo un ambito parziale, cosicché la comunità globale venga costituita attraverso organi che in qualche modo direttamente sono solo
organi della comunità parziale o, rispettivamente, delle comunità
parziali”, Kelsen risponde negativamente. Si giungerebbe qui ad un
risultato logicamente inaccettabile giacché per questa via l’ordinamento parziale, autorizzando a porre a norme valevoli per l’ordina-
242
Antonino Scalone
mento complessivo, perderebbe automaticamente il suo carattere
parziale, trasformandosi in ordinamento complessivo: “L’ordinamento parziale che autorizza a porre norme che devono valere
per una sfera che va oltre l’ambito di validità dell’organo delegante,
comprendendo quest’ultimo come ambito parziale, diventa per ciò
stesso ambito complessivo, estende la sua sfera di validità oltre
l’ambito di validità nella misura in cui la norma delegante stessa
procede con pretesa di validità per l’ambito complessivo. Se
l’organo viene visto come appartenente a quell’ordinamento che insedia l’organo, il tutto non può essere costituito attraverso organi
della parte, ma solo, al contrario, la parte attraverso organi del tutto” (ibd.).
L’importanza di questo ragionamento appare evidente se si riflette sul fatto che spesso, errando, la dottrina dominante afferma
che organi propri di unioni di Stati non vadano intesi come organi
propri di quell’unione, ma solo come organi degli Stati membri. È
questo uno dei tratti distintivi che permettono di parlare da un lato
di federazione di Stati (Staatenbund) e dall’altro di Stato federale
(Bundesstaat). Il primo è privo di organi propri, il secondo li ha; il
primo non ha alcun potere separato da quello degli Stati membri,
nessuna personalità separata, nessun ambito federale, nessun popolo
federale: “Gli organi della federazione di Stati sono organi degli
Stati membri, organi comuni agli Stati membri, così come anche il
potere della federazione di Stati è solo il potere riunito degli Stati
membri” (p. 172). Ma Kelsen considera quest’idea unhaltbar, insostenibile e spiega il suo punto di vista con un esempio.
Si ponga il caso di una ristretta alleanza di Stati che per fini comuni di politica estera e guerra istituisca, con una “costituzione
federale (Bundesverfassung) posta attraverso un trattato di diritto
internazionale” un determinato organo, finalizzato al perseguimento
di quegli obiettivi, composto dai capi di Stato o dai ministri degli
esteri degli Stati membri e denominato Bundesrat (p. 173). Questo
organo è composto dunque da organi degli Stati membri; si supponga altresì che possa decidere solo all’unanimità: sembrerebbe
allora lecito parlare di una “federazione (Bund) [che] senza avere
organi propri, è costituita dagli organi dei membri” (ibd.). Ma le cose non stanno così. Infatti “il Bundesrat così costituito è un organo
inserito (eingesetzt) solo ed esclusivamente nella costituzione federale che forma il contenuto di un trattato di diritto internazionale.
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
243
Questa costituzione federale sorge fin dall’inizio, precisamente come trattato di diritto internazionale, con validità per tutti gli ambiti
dei singoli Stati, riunendo tutti questi ambiti in un’unità così come
nessuna legge di un singolo Stato potrebbe fare” (ibd.). Nulla cambia per il fatto che i membri di quest’organo federale siano al tempo
stesso organi dei singoli Stati: “Questo fatto costituisce soltanto
un’unione personale fra il tutto e le parti, la federazione e gli Stati
membri. Non vi è altro che l’identità del titolare psico-fisico
dell’organo, ma non identità dell’organo” (ibd.). E poco più avanti:
“Mai gli organi del tutto possono essere visti come organi unicamente della parte. Gli organi della federazione sono tali non solo
giacché sono insediati dalla costituzione, valida per l’intero ambito,
che istituisce la federazione, ma anche nel senso che essi sono
chiamati alla posizione di norme valide per l’intero ambito della federazione” (ibd.).
Anche nel caso in cui per la validità delle deliberazioni sia richiesta l’unanimità e i componenti dell’organo federale siano i ministri
degli esteri degli Stati membri, sempre l’organo federale è irriducibile ad essi, “sempre vi è un organo composto, distinto dai membri
dell’organo il quale è solo in unione personale con gli organi dei
membri. Questo tipo di decentramento corrisponde non solo alla federazione di Stati, ma ad ogni comunità contrattuale di tipo internazionalistico e in generale alla comunità internazionale” (p. 174).
In un quadro politico-giuridico plurale e multilivello come quello
descritto da Kelsen, il concetto tradizionale e “formale” di sovranità,
quello relativo al suo carattere supremo, unitario e indivisibile, non
risulta più utilizzabile. Occorre piuttosto servirsi di un concetto di sovranità riferito “all’idea del contenuto possibile dell’ordinamento,
delle competenze oggettive” (p. 198), capace di dar conto del frazionamento e della diffusione della sovranità – vale a dire, in questo
contesto, delle competenze – che si attua nello Stato federale fra i livelli diversi dell’Oberstaat e dei Gliedstaaten. Tra l’altro, dal punto
di vista concettuale, rileva Kelsen, “nulla impedisce di estendere questa concezione anche alla federazione di Stati” (p. 199).
La distinzione fra federazione di Stati e Stati federali è uno degli
obiettivi polemici del ragionamento di Kelsen: poiché essa non è
fondata dal punto di vista logico-concettuale, potrà essere spiegata
244
Antonino Scalone
solo con ragioni di tipo politico, surretiziamente presentate come
scientifiche11. Se si abbandona il concetto formale di sovranità, in
favore di un concetto “materiale”, la predetta distinzione risulterà
priva di senso e con essa la distinzione ulteriore, propria della dottrina dominante, secondo la quale federazione di Stati e Stato
federale si differenzierebbero fra loro in ragione dell’atto fondativo:
contratto di diritto internazionale per la prima e costituzione per il
secondo. Ma contratto e costituzione non sono per Kelsen concetti
reciprocamente escludentisi, “giacché il contratto ha a suo contenuto la costituzione del Bund e – di fronte agli obbligati attraverso
contratto – proprio la legge, cioè la norma obbligatoria, è la lex contractus. Così lo Stato federale può fondarsi assolutamente sulla
costituzione e tuttavia essere sorto attraverso contratto, allo stesso
modo in cui la federazione di Stati ha la sua costituzione, quindi si
fonda sulla costituzione ed è sorta attraverso contratto” (p. 195). Se
ci si libera dalla concezione formale e assoluta di sovranità questa
distinzione viene necessariamente a cadere: “L’obiezione che attraverso la legge di uno Stato non possano sorgere nuovi Stati – Stati
membri di uno Stato federale o federazioni di Stati – è altrettanto
poco convincente di quella che attraverso un contratto di diritto internazionale non possa sorgere alcuno Stato – lo Stato federale.
Ambedue le obiezioni si basano sul presupposto che lo Stato è un
11
S. Ortino, Introduzione al diritto costituzionale federativo, Torino, Giappichelli
1993, p. 25 scorge nella negazione della “legittimità della distinzione di principio
tra confederazione di Stati e Stato federale” uno degli elementi di concordanza fra
Kelsen e Schmitt. Se, come ci accingiamo a vedere, il primo riduce la distinzione
ad una differenziazione di grado all'interno della comune appartenenza all'unico
ordinamento di diritto internazionale, il secondo “partendo dalla concezione della
unità politica di un popolo quale categoria fondamentale del mondo del diritto in
base alla quale ritiene possibile in uno Stato federale che molteplici unità politiche
possano sussistere (quelle degli Stati membri e quella dello Stato comunitario) insieme in un equilibrio unificante, considera irrilevante, nel procedere alla
costruzione dogmatica di tale tipo di ordinamento politico, la distinzione tra confederazione di Stati e Stato federale”. Ambedue le teorie aiutano in modo diverso,
ma con pari rilevanza “a cogliere l'essenza dell'ordinamento federativo, la prima
per quanto riguarda la sua natura di ordinamento composito statale in costante equilibrio instabile e in potenziale conflitto, la seconda per quanto riguarda la natura
e la qualità delle competenze che vengono assegnate ora all'ente comunitario ora
agli enti partecipanti e che determinano la configurazione concreta di un ordinamento federativo” (p. 28).
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
245
ordinamento assolutamente supremo e in questo senso sovrano, il
cui sorgere, proprio per questo, non possa essere compreso giuridicamente” (p. 196).
Nel quadro della generale teoria del decentramento e dell’accentramento, federazione di Stati e Stato federale risulteranno allora
essere differenti fra loro non per sostanza, ma semplicemente per
grado, costituendo appunto due gradi successivi di un medesimo
ordine logico-giuridico, caratterizzati rispettivamente da un maggiore e da un minore grado di decentramento: “Che questa distinzione fra Stato federale e federazione di Stati sia di principio e non
soltanto di grado, può essere spiegato solo da ciò, che soltanto il
concetto di Stato, assolutizzato, rappresenta l’unità giuridica. Che
all’«interno» di uno Stato possano darsi ancora degli Stati, è certo
altrettanto impossibile come che all’«esterno» vi siano ancora Stati
che con esso vengano coordinati e che con esso vengano uniti in
una qualche comunità senza che sia presupposto un tutto superiore
e comprensivo che dia agli elementi uniti il carattere di membri e
con ciò assuma il carattere di tutto supremo. Ma se si svincola il
concetto di ‘Stato’ dal significato di un tutto assoluto, se si relativizza il senso che si collega a questa parola, allora deve nuovamente scomparire la differenziazione di principio fra Stato federale
e federazione di Stati che la dottrina tradizionale ricerca. E allora
l’analisi del problema si deve indirizzare al momento la cui graduale differenziazione produce la differenza dei due tipi indicati come
Staatenverbindungen: il decentramento” (p. 194).
A questo punto, liberate le nozioni di Stato federale e confederazione di Stati dal legame con la tradizionale concezione assoluta
della sovranità, che appare quindi inutilizzabile per la loro comprensione, Kelsen introduce la nozione tripartita dell’ordinamento
federale, quella su cui Olivier Beaud ha così opportunamente richiamato l’attenzione12. “Se un ordinamento giuridico, come quello
12
Cfr. O. Beaud, Théorie de la fédération, P.U.F., Paris 2007, p. 146 sgg. Sul punto si vedano anche Pfersmann, Hans Kelsen et la théorie..., cit., p. 179 sgg. e E.
Wiederin, Kelsens Begriffe des Bundesstaates, in S.L. Paulson – M. Stolleis, Hans
Kelsen. Staatsrechtslehrer und Rechtstheoretiker des 20. Jahrhundert, Tübingen,
Mohr Siebeck 2005, p. 242 che giudica la Drei-Kreise-Theorie “il tentativo analiticamente meglio definito ed euristicamente più fruttuoso per mediare fra le due
posizioni estreme – qui la giustapposizione priva di relazioni fra Bund e Länder; lì
246
Antonino Scalone
dello Stato federale – scrive Kelsen – è costituito da norme con ambiti territoriali di validità differenziati – allora vanno distinti tre
elementi: la Costituzione, attraverso cui è costituita l’unità dell’ordinamento complessivo. (…) Questa Costituzione complessiva è
necessariamente diritto positivo, non può assolutamente essere un
puro presupposto logico-giuridico. Sulla base della Costituzione
complessiva e da essa delegate, vi sono due ulteriori cerchie normative (Normenkreise) che – di fronte alla Costituzione complessiva
delegante – risultano ordinamenti parziali delegati: un ordinamento
con validità spaziale per l’ambito complessivo e più ordinamenti
con validità spaziale per ambiti parziali. Anche se si designa il primo come Oberstaat e gli ultimi come Stati membri, di fatto sono
ambedue reciprocamente coordinati e fra i due non esiste di fatto
alcun rapporto di delega. Dunque i cosiddetti Stati membri non sono subordinati allo Oberstaat e di conseguenza questo porta a torto
il proprio nome” (pp. 199-200). È dunque la Costituzione complessiva a occupare il vertice e a disegnare le competenze dei due
ordinamenti subordinati e parziali che, in quanto egualmente sotto
ordinati ad essa, fra loro risultano essere posti su un piano di totale
eguaglianza.
Il tema della tripartizione, a differenza di altri, come quello della
critica all’interesse generale, rinvenibile nella produzione del giurista
austriaco fin dalle primissime prove, è il frutto di un lungo processo
di acquisizione: ancora in un saggio apparso nel 1923-24, intitolato
Le giurisdizioni costituzionale e amministrativa al servizio dello Stato federale13, esso, pur risultando in filigrana, non appare esplicitato
in modo esaustivo14. Ma una volta concettualizzato, costituirà una
la subordinazione senza condizione degli Stati membri allo Oberstaat. Essa è in
grado di spiegare l'unità giuridica nello Stato federale senza tradire il federalismo”.
13
Trad. it. in H. Kelsen, La giustizia costituzionale, Milano, Giuffrè 1981, pp. 345.
14
Esso non appare presente nemmeno nello scritto kelseniano che a giudizio di
Wiederin, Kelsens Begriffe des Bundesstaates, cit, p. 242, può essere considerato il
primo consistente tentativo del giurista viennese di mettere a tema la questione dell'ordinamento federale: H. Kelsen, Legge del Reich e legge del Land nella
Costituzione austriaca (1914), trad. it. Torino, Giappichelli 2006. Qui, scrive Wiederin, Kelsen aderisce alla dottrina dominante sia sostenendo “l'indivisibilità della
sovranità nello Stato federale”, sia attribuendo la titolarità della sovranità in via esclusiva al Reich, sia, infine, affermando il primato delle prescrizioni giuridiche
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
247
delle chiavi di volta della riflessione federalistica di Kelsen. In particolare, ritornerà con vigore e con particolare lucidità nell’ultimo
scritto kelseniano che intendiamo prendere in esame: L’esecuzione
federale. Contributo alla teoria e alla prassi dello Stato federale, con
particolare riguardo alla Costituzione del Reich tedesco e alla Costituzione federale austriaca, risalente al 192715. In questo saggio
Kelsen esordisce sostenendo l’attualità e l’utilità del modello federale, assumendolo, peraltro con un discutibile approccio attualizzante, come una sorta di modello perenne di organizzazione politica: “Il tipo di Stato federale, conosciuto fin dall’antichità, si è
ancora di recente dimostrato una forma di organizzazione assai utile” (p. 75). Centrale, nella teoria dello Stato federale, è la questione
della Bundesexekution, questione che, fra l’altro, costituisce uno dei
punti di maggiore differenziazione fra l’assetto federale tedesco e
quello austriaco. L’analisi dell’istituto, inoltre, può permettere a giudizio di Kelsen di mostrare quanto la “teoria dello Stato e del diritto
internazionale” sia malauguratamente dipendente da “postulati politici” (ibd.) che ne inficiano la scientificità. L’esecuzione è un atto
coercitivo nei confronti di un membro della federazione che ne violi
l’ordinamento. Per una giusta comprensione del problema, Kelsen
suggerisce di spogliarsi della tradizionale immagine antropomorfa
dello Stato, da lui così aspramente criticata in molti luoghi della sua
produzione16, e della stessa nozione di potere. Compiuta quest’operazione, sarà possibile riconoscere come l’esecuzione possa compiersi
tanto nei confronti di uno degli Stati membri, quanto nei confronti
dello Stato centrale: “Se si elimina la personificazione dello Stato e lo
si riconosce come ordinamento giuridico o personificazione di
quest’ultimo, lo Stato federale e la confederazione si presentano co-
del Reich rispetto a quelle degli Stati membri (cfr. p. 225). A suo giudizio, Kelsen
oscilla fra l'affermazione del principio lex posterior derogat priori e quella della
“rapporto di delegazione” fra l'istanza centrale e quella periferica, senza riuscire a
trovare fra essi un'accettabile sintesi e fallendo “nel tentativo di concettualizzare
uno Stato federale in cui il diritto dello Stato centrale e il diritto dello Stato membro possano reciprocamente derogare l'un l'altro” (p. 228).
15
Trad. it. in Kelsen, La giustizia…, cit., pp. 73-141.
16
Sul punto ci permettiamo di rimandare al nostro Una battaglia contro gli spettri,
Diritto e politica nella Reine Rechtslehre di Hans Kelsen (1905-1934), Torino,
Giappichelli 2008, in particolare pp. 53-91.
248
Antonino Scalone
me ordinamenti decentrati, sicché, sulla base di una costituzione totale (Gesamtverfassung) che assegna le competenze, cioè l’ambito
oggettivo di validità, e per delega della medesima, vigono due specie
di ordinamenti parziali (Teilordnungen): un ordinamento parziale
con validità spaziale per tutto il territorio (parziale perché competente solo per un oggettivo ambito parziale) e più ordinamenti parziali
con validità limitata a parte del territorio” (p. 79). Stato centrale e
Stati membri sono fra loro coordinati e non vi è rapporto di subordinazione fra il primo e i secondi. Quello e questi sono parimenti
soggetti alla “costituzione totale: la quale coordina fra loro lo Stato
totale e gli Stati-membri. La costituzione totale (….) forma la comunità totale (Gesamtgemeinschaft)” (ibd.). La sovrapposizione fra
Stato centrale e Stato federale, oltre che dalla scorretta pratica di intendere lo Stato antropomorficamente come persona, deriva dal fatto
che la costituzione totale, “di regola designa, per la modifica o il perfezionamento propri, – e quindi della costituzione totale – il medesimo organo cui competono la modifica o il perfezionamento dell’ordinamento parziale indicato come ‘Stato centrale’, ‘federazione’,
‘Reich’” (p. 80). Si tratta però, come abbiamo già visto
nell’Allgemeine Staatslehre, soltanto di un caso di unione personale
che non deve in alcun modo nascondere la differenza sostanziale fra i
due ordinamenti e il carattere subordinato del secondo rispetto al
primo17.
Una volta posto in chiaro il carattere necessariamente tripartito
dell’ordinamento federale, sarà agevole comprendere come possano
esservi violazioni di esso tanto da parte degli Stati membri, quanto
da parte dello Stato centrale e come “violazioni della costituzione
totale s[ia]no possibili, peraltro, non solo mediante atti di legislazione, ma anche mediante atti di esecuzione, nei limiti in cui questi
ultimi siano disciplinati direttamente dalla costituzione totale; e si
può trattare, anche qui, di atti sia degli Stati-membri che della federazione” (p. 87).
17
“Questa unione personale tra ordinamento totale e ordinamento parziale, comunità totale e comunità parziale, li fa apparire entrambi – direi quasi per una
riduzione di prospettiva – come un solo ordinamento, una sola comunità e conferisce pertanto all’ordinamento parziale della federazione o del Reich che sta al di
sopra degli Stati-membri o degli Stati singoli, quella appunto di Stato centrale”(p.
80).
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
249
Peraltro, l’esecuzione non si presenta come un istituto particolarmente raccomandabile: esso, analogamente alla guerra, costituisce una forma di responsabilità collettiva e, come la guerra, è una
“tecnica primitiva” di risoluzione dei conflitti (p. 108). Ora, se si
concepisce il diritto in modo corretto, vale a dire come “uno specifico strumento tecnico-sociale per realizzare o mantenere una
situazione socialmente desiderabile” (p. 115), allora si vedrà che lo
sviluppo del diritto come tecnica sociale a partire dallo “stato primitivo” muove essenzialmente in due direzioni. La prima è quella
dell’affermazione della responsabilità individuale e della correlativa
progressiva limitazione della responsabilità collettiva. La seconda è
quella dell’affidamento dell’esecuzione non direttamente alla persona che ha subito un danno determinato, ma “ad un organo
professionale, ad un individuo che, essendo diverso da entrambe le
parti interessate, agisce quindi obiettivamente in tutti i casi d’illecito” (p. 116). Se si tengono presenti queste questioni generali di
“politica del diritto”, allora l’esecuzione federale non potrà che apparire “una soluzione tecnica del tutto arretrata e non rispondente
alla nostra coscienza giuridica” (ibd.), mentre più razionale e giuridicamente ‘evoluta’ sarà quella di affidarsi ad un organo della
costituzione totale di tipo giudiziario. Da questo punto di vista la
Costituzione di Weimar e quella austriaca appaiono fortemente divergenti e la seconda appare preferibile alla prima proprio perché in
Austria “il principio della responsabilità individuale e per colpa ha
coscientemente sostituito la responsabilità collettiva ed oggettiva
connessa con l’esecuzione federale” (p. 132)18 e perché lì si attua
“una devoluzione di competenza in favore della Federazione e la
cassazione di atti illegittimi ad opera di tribunali centrali di diritto
pubblico”, la cui composizione “mostra chiaramente la consapevo-
18
In particolare, nota Kelsen,“per quanto riguarda l’amministrazione federale indiretta da parte del Land, la Costituzione federale non stabilisce, neppure sul piano
terminologico, un «dovere del Land» come tale, ma esclusivamente doveri di talune persone direttamente e individualmente determinate nella Costituzione federale,
che agiscono altrimenti come organi del Land: il capo del Land, i suoi sostituti e
taluni membri del governo del Land che, secondo il regolamento interno di tale
governo, siano incaricati dall’amministrazione federale indiretta (art. 103)” (p.
131).
250
Antonino Scalone
lezza del loro carattere di organi che stanno al di sopra delle comunità parziali della Federazione e dei Länder” (p. 133).
4. La ricostruzione che abbiamo offerto non fa naturalmente giustizia della complessità dell’argomentazione kelseniana, soprattutto di
quella dispiegata nel saggio sull’esecuzione federale. Tuttavia, insieme a quanto detto a proposito di Schmitt, potrà forse bastare a
fornire alcuni elementi di riflessione finale.
Innanzitutto ci sembra di poter dire che la concezione monista
dell’unità politica e la concezione assoluta della sovranità, così come si presentano in Schmitt, non permettono di pensare in modo del
tutto adeguato le questioni della pluralità e del federalismo, rispetto
alle quali non a caso Schmitt parla di antinomie. Esse possono venir
governate sul piano politico, possono essere decise, ma non possono trovare una risoluzione sul piano teorico. Costituiscono piuttosto
un elemento perturbante che contraddittoriamente, ma significativamente, riemerge in alcuni punti cruciali della logica giuridicopolitica della modernità, così come la intende Schmitt sulla base
della propria interpretazione del pensiero di Hobbes: la riflessione
sul federalismo, come si è visto; il potere costituente e l’opinione
pubblica19.
19
Non possiamo in questa sede affrontare in maniera analitica i problemi relativi
alla concezione schmittiana del potere costituente e dell'opinione pubblica. Ci limitiamo soltanto a ricordare che nella Verfassungslehre, trattando del potere costituente, Schmitt afferma che uno dei modi in cui la volontà del popolo si palesa direttamente è quello dell'acclamazione. La cosa interessante è che essa, intesa come
“naturale e necessaria manifestazione vitale di ogni popolo”, nei “grandi Stati moderni (…) si manifesta come opinione pubblica” (p. 120). Dunque l’opinione
pubblica è tanto poco riducibile all'ambito meramente privato della discussione, da
risultare direttamente connessa con quella realtà eminentemente politica e indeterminabile che è il potere costituente: “L’opinione pubblica – scrive Schmitt –
nasce e rimane non-organizzata” (p. 323). Ma essa, oltre a mani-festare un carattere irriducibilmente politico, tanto da potersi rivolgere, “in periodi critici”, persino
“contro una costituzione esistente” (mentre nei periodi di pace si configurerà come
tacita “approvazione permanente della costituzione esistente”, p. 120), si presenta
al suo interno come articolata e plurale. Essa, infatti, è inevitabilmente “influenzata
e anche fatta da partiti o dai gruppi” (p. 323). Si tratta di una condizione inevitabile
(“in ogni democrazia ci sono sempre partiti, oratori e demagoghi”, p. 324) e non
normalizzabile: “Tutto ciò si sottrae a una completa disciplina” (ibd.). La conclusione, per qualche verso stupefacente se si tien conto della diffidenza schmittiana
Federalismo e decentramento fra Schmitt e Kelsen
251
In Kelsen la possibilità di pensare il federalismo sembra direttamente dipendente dalla capacità di liberarsi della nozione di sovranità
(nelle ultime righe de Il problema della sovranità Kelsen afferma che
“il concetto di sovranità deve essere radicalmente rimosso” e indica
questa come una vera e propria “rivoluzione della coscienza culturale”)20, o per lo meno della “sovranità assoluta” e prima ancora dello
stesso linguaggio del potere. È significativo che Kelsen rivendichi con
orgoglio a suo merito il fatto che nella costituzione austriaca del 1920
il termine potere sia stato espunto a favore di quello di diritto. Ma rinunciare al linguaggio del potere, sottrarsi alla sua logica, significa
negare il principio dell’autorizzazione che ne costituisce la base e il
meccanismo rappresentativo attraverso cui l’autorizzazione si produce21. Non è un caso che proprio alla negazione della rappresentanza,
intesa come effettivo trasferimento di potere dal popolo (altra nozione
radicalmente criticata da Kelsen) al sovrano siano dedicate alcune delle
pagine più importanti della Allgemeine Staatslehre, che per questo motivo appaiono strettamente collegate sul piano concettuale a quelle
dedicate al federalismo.
Kelsen ovviamente non nega i rapporti di sovra e sott’ordinazione:
questi costituiscono a suo avviso una necessità ineludibile in ogni
società non primitiva. Il suo tentativo – di cui la riflessione sul federalismo è tanta parte – è appunto quello di pensare tali rapporti
oltre, e per alcuni versi contro, la logica moderna del potere, di immaginarne una diversa articolazione, nella quale le parti non
vengano cancellate e depoliticizzate dal meccanismo di produzione
dell’unità politica.
Lasciando impregiudicato se e in che misura tale tentativo possa
dirsi riuscito, sembra essere questo uno dei motivi dell’interesse che
nei confronti delle parti e della sua impostazione monista, è la seguente: “Non c'è
nessuna democrazia senza partiti, ma solo perché non c'è nessuna democrazia senza opinione pubblica e senza il popolo sempre presente” (p. 324).
20
H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale.
Contributo per una dottrina pura del diritto (1920), trad. it. Milano, Giuffrè 1989,
p. 469.
21
Su questo passaggio concettuale, che qui non può essere esplicitato, rimandiamo
alle tesi sostenute in G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci 1999 e in Id., La logica del potere, Monza,
Polimetrica 2007.
252
Antonino Scalone
la sua riflessione ancor oggi suscita e dell’importanza che crediamo
possa rivestire per l’odierno dibattito sull’ordinamento federale.
G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 253-278 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy
e kehillah, tra costituzione formale e
costituzione materiale
Giuseppe Gangemi
1. Il concetto di polity e la sua difficile interpretazione
Polity e Kehillah sono concetti importanti nella cultura ebraica. Il
secondo indica un concetto, quello di comunità, che esiste in italiano ed è quindi facilmente comprensibile, anche se possono
coesistere varie alternative (cioè corrispondenti a differenti punti di
vista) definizioni di essa. Il che ci permette di astenerci dal fare
ulteriori fatiche per poterlo contestualizzare nella nostra storia e
nella nostra cultura. Il primo, invece, indica un concetto che, secondo molti scienziati della politica, non esiste nella lingua Italiana,
tanto è vero che viene direttamente utilizzato il termine inglese,
senza nemmeno tentarne una traduzione. Questa circostanza non
permette, a mio avviso, una reale comprensione del significato del
termine. Ed infatti, il termine viene usato non sempre a proposito,
oltre che in dipendenza di diversi punti di vista o chiavi di lettura
adottate.
Questo, sempre a mio modo di vedere, significa che, per la comprensione del concetto di polity, che è uno dei concetti cardine della
teoria federalista di Elazar, è fondamentale trovare un modo per
contestualizzarlo nella storia e nella cultura di un pubblico italiano.
Ma cominciamo con ordine: si dice che, dal concetto di polis, la
lingua italiana abbia derivato un solo termine, quello di politica (vedremo che non è proprio vero: in effetti ha derivato due concetti
racchiusi in un unico termine); dallo stesso concetto, la lingua inglese ha, invece, effettivamente costruito tre diversi concetti: politics,
policy (plurale policies) e polity. Poiché si sostiene, a mio avviso er-
254
Giuseppe Gangemi
roneamente, che anche il termine policy non abbia un corrispettivo
italiano, gli scienziati della politica italiani utilizzano anche in questo caso i termini inglesi per il singolare e per il plurale. Infatti,
nella lingua italiana, politics corrisponde a quello che viene chiamata “la politica”, mentre policy corrisponde a quello che in lingua
italiana si dice essere “una politica” (e policies, ovviamente, corrisponde a quello che in lingua italiana si dice siano “le politiche”).
Ecco, quindi, che, nella nostra lingua, e non da adesso, ma da almeno un secolo, il termine policy e il plurale policies hanno sempre
trovato un termine corrispondente adeguato e diverso da “la politica”. Infatti, in un volume del 1922, Giuseppe Capograssi utilizza
correttamente il termine “politiche”, esattamente nello stesso senso
in cui gli anglosassoni utilizzano policies, cioè nel senso che il termine assume all’interno del paradigma della teoria dell’azione. Il
che non meraviglia affatto, se si pensa che anche Capograssi condivideva una versione, di derivazione tedesca, dello stesso paradigma.
Capograssi, infatti, utilizza il concetto di politiche per indicare
un certo tipo di processi e ne porta ad esempio uno. Nel passo in cui
usa il termine politiche, egli sostiene che, ridotto il diritto alla sostanza, il riconoscimento del diritto del singolo, operato attraverso il
diritto naturale, è il primo passo per procedere alla scoperta della
vera realtà giuridica. Per questa sua naturalità, il diritto privato può
rimanere a lungo inalterato (e in effetti l’organismo logico e tecnico
del diritto romano è rimasto usualmente applicato nei millenni successivi alla sua formulazione). “Ben diversamente vanno le cose nel
diritto pubblico” (Capograssi 1959, p. 417) dove la volontà non si
manifesta, come nel privato, nella sua incorrotta volontà individuale, ma si manifesta nel risultato della sua azione. Solo perdendo la
sua natura individuale e personale, la volontà riesce a trovare spazio
nel diritto pubblico. La volontà del diritto pubblico deve fare i conti
con gli effetti non intenzionali che nascono dall’interazione,
nell’azione, di più volontà. “È stato il fatto di una lunga e grave lotta di interessi diversi e spesso contraddittori, di tentativi faticosi di
molte forze e di molte volontà, per conseguire scopi loro del tutto
particolari, sforzi egoistici di questa e di quella classe effetto di
transazioni e di accomodamenti e anche di sopraffazioni e di violenza, risultato insomma di un immenso incrocio di egoismi e di
particolarismi, che hanno fatto l’essere concreto e l’ordinamento
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
255
vigente dello Stato. Dalla pratica e dall’industria interessata, violenta, accanita degli uomini di Stato della grande aristocrazia inglese, è
nato il sistema di gabinetto, divenuto centro e anima dello Stato
moderno” (Capograssi 1959, p. 419). Nei confronti del gabinetto si
è creato un sistema di obbligatorietà e inderogabilità che hanno obbligazione giuridica e che vanno distinte “da tutte le altre posizioni,
azioni, situazioni, che formano la intera trama del concreto e che
solitamente vanno sotto il nome vago di ‘politiche’”(Capograssi
1959, pp. 419-20). Da queste affermazioni si deduce che, secondo
Capograssi, tutto ciò che non assume carattere di obbligatorietà e
inderogabilità è una politica e che il sistema di obbligatorietà e inderogabilità nasce dall’istituzionalizzazione di queste politiche. Il
che è esattamente quello che gli studiosi anglosassoni, che condividono il paradigma della teoria dell’azione, intendono quando usano
il termine policies.
Vediamo, quindi, se il concetto di polity è solo apparentemente o
anche sostanzialmente assente dalla lingua italiana (certamente è
assente un termine derivato da polis, che abbia lo stesso significato
di polity, ma bisogna vedere se non si utilizzi, per indicare la polity,
una espressione composta da più termini indicanti qualche cosa che
caratterizza la natura sociale della polis o, almeno, una certa visione
di essa). Cominciamo, però, con il contestualizzare il concetto
nell’uso che ne fa Elazar e poi cercare analoghi contesti italiani in
cui lo stesso concetto potrebbe essere utilizzato. Questo richiede,
per lo meno, tre diverse operazioni:
‰
individuare il senso che il concetto ha per Elazar e per la
cultura anglosassone, da cui egli lo deriva come termine, e
cercare di recuperare il concetto ad esso più vicino
all’interno di una tradizione culturale italiana (ed io ritengo
che questa tradizione sia costituita da quella tradizione che
ha elaborato quel particolare concetto di costituzione materiale proposto da Fedele Lampertico). Questa tradizione
costituisce una chiave di lettura di un filone di pensiero che
comincia con Machiavelli e finisce, di fatto, con Silvio Trentin e Giuseppe Capograssi, passando per Giovanbattista Vico
(attraverso l’interpretazione che ne forniscono, dopo il 1799,
Vincenzo Cuoco e Giandomenico Romagnosi) e per Antonio
Serbati Rosmini;
Giuseppe Gangemi
256
‰
prendere atto del fatto che, con questo concetto, polity, Elazar intende sottolineare, ma soprattutto una diversa concezione della sovranità, l’identità tra la concezione della democrazia in U.S.A. e la concezione ebraica della democrazia, e servirsi di quella parte della tradizione culturale italiana che gli stessi anglosassoni hanno utilizzato per spiegare la
radice stessa della propria democrazia (vedi il neorepubblicanesimo che i vari John Pocock e Quentin Skinner fanno
derivare dalla tradizione romana, il pensiero di Cicerone e
Sallustio, ma anche Tito Livio, come letto e riproposto da
Nicolò Machiavelli, in particolare, ne I Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio, e Tacito, come letto e interpretato
da Giovanbattista Vico, oltre che l’interpretazione del diritto
romano fornita dallo stesso Vico nel De Uno);
‰
cercare anche di individuare alcune “pratiche di polity” che,
derivando da alcune istituzioni giuridiche dell’antica Roma, si
sono affermate, anche acquistando un senso nuovo per motivi
che si dirà, nel periodo che va sotto il nome di Rinascimento e
che, magari, hanno avuto un ruolo importante anche in momenti più vicini della storia della nostra penisola. In
particolare, mi riferisco al concetto di “deditio ad unum” con
cui “un popolo si sottoponeva per sua volontà e dissolveva il
proprio diritto in quello del vincitore” (Menniti Ippolito 1986,
p. 13). La deditio ad unum era una resa incondizionata che
non serviva a garantire la sicurezza dei vinti al momento della
resa, ma che permetteva di avere garanzie e diritti per il futuro. La caratteristica di questa “deditio” era che si era evoluta
nel tempo, diventando, dalla fine del XIII secolo una “dedizione” o “sottomissione spontanea” che dà origine, nello stesso momento in cui viene accettata, a patti e garanzie reciproche. Queste dedizioni, che come vedremo sono “pratiche di
polity” diventano strumenti politici importanti a partire dal
XIV secolo, con Gian Galeazzo Visconti, duca di Lombardia,
e caratterizzano momenti ancora più importanti della storia
della Serenissima (dopo la prima ondata di dedizioni alla Serenissima che fondano lo Stato da Tera portando i confini fino
al Mincio, la seconda ondata di dedizioni alla Serenissima che
portano i confini dello Stato da Tera fino all’Adda, la terza
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
257
ondata di dedizioni nella Romagna che portano papa Giulio II
a costituire la Lega di Cambrai contro Venezia). Questa pratica di polity viene riproposta nel 1797, ma inutilmente (niente
sa o vuole sapere Napoleone del diritto romano) e, a mio avviso, anche nella concezione che Daniele Manin ha della
Società Nazionale da lui stesso fondata (con Giorgio Pallavicino Trivulzio).
Tutto questo perché, e sottolineo ancora, a mio parere, la definizione
del concetto di polity, nell’uso che ne fa Elazar può essere pienamente compresa soltanto se si ricostruiscono, da una parte, le posizioni di
Elazar, soprattutto quelle che più generano perplessità ai nostri occhi
di Europei, e dall’altra se si individuano, nella riflessione politica e
nella storia d’Italia, degli esempi che possono essere meglio compresi
nel loro significato ricorrendo al concetto di polity.
Questa complessa strategia di indagine mi ha, naturalmente, impegnato per anni e non è possibile riferirne per intero il percorso
(che non sempre è stato lineare, più spesso è sembrato o è stato tortuoso). La sintesi che proporrò di questo percorso sarà, per poter
essere presentata come una ricerca coerente, frammentaria, in quanto, da una parte, quello che ho appreso fino ad ora, su questo tema,
è stato ottenuto con il metodo della “prova ed errore”, dall’altra, la
ricerca è appena agli inizi e non tutti i vuoti sono stati colmati.
La prima direzione di ricerca (che abbia portato a un qualche risultato utile) è consistita nel cercare qualcuno che avesse concepito o che
concepisse, in Italia, il federalismo come è concepito da Elazar che lo
considerava strettamente connesso al tema dell’amministrare (questa
ricerca è derivata dall’avere scoperto che Elazar, nel tessere l’elogio
funebre di Aaron Wildavsky, che ha avuto un ruolo importante nel
contribuire a costruire una nuova visione della scienza dell’amministrazione e delle politiche, ha definito quest’ultimo “un federalista”
molto vicino al proprio pensiero federalista). In conseguenza di questa
“scoperta” sono andato alla ricerca di quegli studiosi italiani che non
hanno fatto o fanno del federalismo un problema esclusivamente o soprattutto giuridico o politico, ma hanno collegato il tema del federalismo al problema dell’amministrare. Mi è sembrato, in questo senso,
che i due studiosi più interessanti siano stati due: Gianfranco Miglio e
Silvio Trentin. Il primo, Miglio, concepiva il federalismo in riferimento al problema del decentramento della decisione amministrativa e
258
Giuseppe Gangemi
politica. Miglio ha definito il federalismo come “una struttura per decidere”. Anche Silvio Trentin collegava il tema del federalismo al
problema dell’amministrare. Solo che egli concepiva il federalismo
come “una struttura per partecipare”.
Quindi, sia Miglio che Trentin ritenevano che amministrare in
un sistema federale significasse soprattutto amministrare in un modo diverso da come si amministra in un sistema centralizzato.
Miglio suggeriva anche la possibilità che il federalismo potesse essere uno strumento per ridurre la corruzione politica nel nostro
Paese, spostando quella spicciola verso gli enti locali, dove presumibilmente, date le decisioni di minor peso e, quindi, le minori
risorse e i minori interessi che venivano messi in gioco, poteva
essere meglio controllata. Questo, concludeva, avrebbe permesso
anche di lasciare al Parlamento gli aspetti più nobili della politica.
Ma anche l’idea del federalismo come struttura per partecipare viene considerata come un mezzo per ridurre l’incidenza della
corruzione nella vita politica e, di conseguenza, per rilanciare il
tema della virtù della classe politica.
Un altro aspetto della teoria federalista di Elazar è costituito dal
fatto che egli concepisce il covenant, cioè il patto su cui si fonda
l’autonomia reciproca delle realtà federate (e quindi delle polities) tra
di loro e rispetto alla federazione (la polity), come un processo e non
come un fatto formale (in questo mostrando di condividere la distinzione tra costituzione formale e costituzione materiale rapportando il
federalismo a quest’ultima e non alla prima). In particolare, Elazar
sostiene che, se non esiste già una forma mentis federalista, nessuna
riforma costituzionale può realmente far nascere un federalismo concreto. La cosa sarà ancora più chiaramente esplicitata da John
Kincaid, allievo ed erede scientifico di Elazar, il quale distingue, appunto, tra federalismo de jure e federalismo de facto, per affermare
che il secondo è più rilevante del primo. Anche qui, se si vuole trovare qualcosa di analogo nella cultura italiana, si può citare Fedele
Lampertico che, per primo e ben prima di Costantino Mortati, ha introdotto la differenza tra costituzione formale e costituzione materiale. In uno scritto del 1886, Lo Statuto e il Senato, Lampertico ha
sostenuto, di fatto, una posizione molto simile a quella di Elazar
quando ha sostenuto che “Lo Statuto è legge fondamentale, e come
tale, è fondamento di tutto l'edificio costituzionale ma non è tutta la
Costituzione. La Costituzione non è nello Statuto solo o nelle leggi
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
259
che lo accompagnano: la Costituzione è nel sentimento pubblico, nella consuetudine, nei precedenti, in tutta la legislazione, in tutta la
storia del Risorgimento nazionale” (Lampertico 1886, p. 102).
Insomma, più studio Elazar e più mi convinco che egli è perfettamente comprensibile alla cultura italiana attraverso la mediazione
di una concezione del federalismo che ho definito del “federalismo
antropologico”. La caratteristica di questa concezione italiana del
federalismo è che essa è stata prodotta, congiuntamente, da laici,
cattolici ed esponenti della cultura ebraica, convertiti al cattolicesimo o ancora credenti nella religione ebraica o laicizzati. I maggiori
esponenti di quello che ho chiamato federalismo antropologico sono stati, infatti: Daniele Manin, nato Daniele Medina, di cultura
ebraica e che ha acquistato il nome di Manin per avere avuto come
padrino di battesimo Ludovico Manin, fratello dell’ultimo Doge di
Venezia; Giuseppe Zanardelli, laico e massone, cittadino di quella
Brescia che ha praticato la dedizione sia a favore di Gian Galeazzo
Visconti che, anni dopo, della Serenissima; Angelo Messedaglia,
cattolico praticante e veronese, altra città che si è spontaneamente
sottomessa a Venezia ricorrendo all’istituto giuridico della “dedizioni”; Fedele Lampertico, cattolico praticante e vicentino, città che
si è sottomessa a Venezia attraverso “dedizione”; Emilio Morpurgo,
esponente di spicco della cultura ebraica, rettore dell’Università di
Padova, città che, dopo la sconfitta e l’uccisione brutale dei Carraresi, si è sottomessa a Venezia con atto di “dedizione”; Luigi
Luzzatti, laico veneziano proveniente da una famiglia di cultura e
religione ebraica; Silvio Trentin, laico e massone, oltre che antifascista in esilio dal 1926 ed eroe della Resistenza sia francese che
italiana. Ci sembra, quindi, di poter concludere che la comprensione
del concetto di polity possa realizzarsi al meglio proprio a partire
dai concetti adottati da questi esponenti del federalismo antropologico e soprattutto dall’ultimo (Trentin), il più grande e consapevole
di tutti.
Cominciamo, quindi, con il concetto di polity come utilizzato da
Elazar. Nel 1969, per la prima volta, Daniel Elazar scrive un saggio
specifico sul tema della polity: The Rediscovered Polity: Selections
from the Literature of Jewish Public Affairs. Nel saggio, parla di
una riscoperta del termine che viene operata nella cultura ebraica
degli ultimi anni, immediatamente dopo la guerra dei sei giorni con
la quale gli Israeliani legittimarono, con la forza, la loro presenza in
260
Giuseppe Gangemi
Palestina e, nello stesso, tempo, dovettero giustificare il senso di
questa presenza e dello Stato che ne era conseguito.
Elazar torna a parlare di polity, questa volta per un pubblico americano, nel 1973, attraverso la rivista Publius fondata pochi anni
prima, con uno scritto tendente a collegare il concetto di polity con
il concetto di federalismo: “The Federal Polity” che è il titolo di un
numero monografico a cura di Elazar e Kincaid (1973).
Nel 1976, Elazar introduce, con un volume specifico, il tema del
rapporto tra comunità e polity nella azione della cultura ebraica in
terra americana: Community and Polity: the Organizational Dynamics of American Jewry. Per quanto riguarda il termine polity,
Elazar sente l’esigenza di mettere in prima pagina, subito dopo la
copertina, le definizioni di Community e Polity secondo l’Oxford
English Dictionary. Comunità: un corpo di popolo organizzato in
una unità politica, municipale o unità sociale. Polity: una particolare
forma di organizzazione politica; una società organizzata. La particolare forma di organizzazione che Elazar chiama polity si basa sul
presupposto che la sovranità dello Stato non esiste e che la vera sovranità è la sovranità del pubblico (e qui il concetto di pubblico va
inteso, chiaramente, nel senso in cui lo si trova descritto nell’opera
di John Dewey).
Oltre alla caratteristica della sovranità, la polity manifesta anche
la caratteristica di contrapporsi al system, in quanto il sistema è da
concepire come una realtà formale e rigida e la polity come una realtà informale e continuamente in mutamento e flessibile. In questo
senso il concetto di polity era stato utilizzato, nel costruire le fondamenta del paradigma cui Elazar di fatto, quasi un secolo dopo, si
contrappone, da Woodrow Wilson in un importante saggio che, praticamente, ha fondato la tradizionale scienza dell’amministrazione
negli U.S.A. Wilson, più di un secolo fa, appunto, indicava con polity qualcosa di naturale e spontaneo e ancora in via di definizione.
Dal suo punto di vista, questo tipo di società non istituzionalizzata
era un fenomeno legato alla premodernità e destinato a sparire sotto
l’impatto della modernità. Per questo, egli contrapponeva la polity
al system, dando la preferenza al system, termine che, per lui, ben si
adattava a indicare il sistema democratico americano e indicando
con polity il sistema feudale e i suoi residui nella realtà politica inglese. Quella che segue è, esattamente, la frase con cui Wilson
proponeva questa contrapposizione: “Nel parlare del governo euro-
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
261
peo io non includo, naturalmente, l’Inghilterra. Essa non ha rifiutato
di cambiare con i tempi. Essa ha semplicemente temperato la severità della transizione da un ordinamento [polity] di privilegio
aristocratico a un sistema [system] di potere democratico attraverso
lente misure di riforma costituzionale che, senza prevenire una rivoluzione, hanno richiuso [il Paese] dentro percorsi di pace” (Wilson
1887, p. 202).
Ovviamente positiva è l’idea di polity di Elazar che collega questo concetto a una diversa concezione del pubblico che egli
concepisce, alla John Dewey, come il prodotto del continuo divenire delle interazioni sociali. A proposito della tradizione U.S.A.,
Elazar sostiene che “La tradizione è una tradizione di pubblico e
non di istituzioni statali, con tutte le distinzioni semantiche che questo implica. Di conseguenza gli Stati Uniti hanno avuto piccola
difficoltà nel riconciliarsi con l’esistenza di molti pubblici, intrecciati insieme in partenariato per certi scopi mentre preservano le
loro separate identità per altri. Il federalismo americano è basato
sulla costituzionalizzazione di quella premessa territorialmente, e i
pluralisti americani si sono sforzati di estendere qualche porzione di
quella legittimazione costituzionale a gruppi non territorialmente
fondati. C’è poco dubbio che l’apertura della società americana agli
ebrei è in non piccola misura dovuta a questo aspetto del carattere
americano. Allo stesso tempo, gli stessi Ebrei portavano con loro
una tradizione completamente compatibile con la cultura americana
in evoluzione e persino convergente con essa in alcuni significativi
modi. La concezione ebrea della polity non ha mai riconosciuto la
sovranità statale, mantenendo che tutta la sovranità fosse investita
nel Sovrano dell’universo e che le polity terrene – al minimo le
buone, come la polity ebrea – erano essenzialmente partenariati dei
loro membri, che hanno delegato i poteri alle neces-sarie istituzioni
soltanto fin quando necessario, una visione le cui pratiche conclusioni erano aderenti a quelle cercate dai fondatori degli Stati Uniti,
molti dei quali ricavavano la loro ispirazione dalle stesse fonti bibliche” (Elazar 1995, p. 7). Detto in termini più semplici: la
concezione della democrazia statunitense, costruita su una concezione informale del pubblico, è molto simile alla concezione
ebraica ed è per questo che gli ebrei sono stati così facilmente accettati negli U.S.A.: gli statunitensi avevano meno difficoltà a
262
Giuseppe Gangemi
capirsi con loro perché molto simili, se non identiche, erano le loro
concezioni della democrazia e della sovranità.
Qualche anno dopo, la rivista Publius fondata da Elazar tratta
ancora il tema della polity in un volume monografico, sempre a cura di Elazar e Kincaid (1980), il suo allievo ed erede. Il volume esce
con il titolo Covenant, Polity, and Constitutionalism. Nella premessa congiunta dei due curatori, viene riportata una lunga citazione di
un’affermazione, fatta, nel 1954, dal teologo cristiano statunitense
H. Richard Neibuhr: “Uno dei grandi comuni modelli che hanno
guidato gli uomini nel periodo in cui la democrazia americana si
formò, che era presente sia nel loro intelletto che nella loro azione,
e fu usato in psicologia, sociologia e metafisica come in etica, politica e religione, è il modello del patto (covenant) o della teologia
federale. Uno può sollevare la questione se la nostra vita comune
possa essere stata istituita, possa essere stata mantenuta e se essa
possa durare senza la presenza della convinzione che noi viviamo in
un mondo che ha la struttura morale di un patto (covenant)…” (Elazar and Kincaid 1980, p. 7). Anche questo è un argomento per
sostenere le similitudini che esistono tra la concezione della democrazia statunitense e quella della democrazia ebraica (entrambe
basate sul concetto di covenant che viene ripreso dal Vecchio Testamento).
Dopo la fine della guerra nel Vietnam e lo scandalo del Watergate, in America si è sviluppata una importante ricerca sulle radici
della democrazia americana e della sua maggiore qualità. In questo
contesto di ricerca di un rilancio della specificità statunitense, acquista molto credito, negli U.S.A., il neorepubblicanesimo, che
considera centrale per la democrazia il concetto e la pratica della
virtù, e la riflessione teorica di Elazar. Per questi studiosi, la crisi di
valori seguita al Vietnam ed emersa con la richiesta di impeachment
di Nixon (seguite alle dimissioni del vicepresidente Spiro Agnew
che hanno prodotto il risultato di un Presidente, John Ford, non eletto dal popolo, bensì dal Parlamento) doveva produrre una reazione
teorica e pratica finalizzata a riportare la società Americana alla necessità di ripensare le proprie origini e alla necessità di rifondarsi. Il
concetto di virtù per il neorepubblicanesimo e la teoria del patto
(covenant) per Elazar offrono opportunità importanti a questo scopo. E, come si cercherà di mostrare, non vi è virtù pubblica, di
cittadini e di governanti, se non all’interno di una concezione del
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
263
patto come covenant, cioè come primo diritto naturale (un diritto
che, secondo Otto von Gierke [1974], fondamentale interprete del
pensiero di Althusius, si è affermato in Italia nel XIII secolo proprio
nell’evoluzione che ha avuto l’istituto della “dedizione”). Questo
primo diritto naturale, che sarà poi negato da Hobbes e da quanti
negheranno il valore del concetto di diritto naturale, è alla base sia
del giusnaturalismo, sia del federalismo (perlomeno nella versione
di Elazar e, a mio avviso, anche in quella dell’Italiano Silvio Trentin), sia del neorepubblicanesimo.
Tornando ad Elazar, nel primo saggio del numero monografico
di Publius, egli sostiene che l’idea di covenant, cioè del patto in
senso biblico, “definisce la giustizia politica, modella il comportamento politico, e dirige gli umani appropriatamente verso una
sintesi civica delle due. Come tale, covenant è una idea la cui importanza è affine alla legge di natura nel definire la giustizia, e al
diritto naturale nel delineare le origini e le istituzioni adatte della
società politica” (Elazar 1980, p. 3). In altri termini, la virtù dei governanti non è una concessione o una forma di benevolenza, ma
nasce dall’idea che i governati mantengono un importante diritto
naturale, da loro collettivamente esercitato in quanto polity e garantito dal covenant, cioè dal patto tra sovrano e polity in quanto
titolare della sovranità.
Prima di passare oltre, vorrei sottolineare un altro aspetto della
riflessione teorica di Elazar: in tutte le sue opere, Elazar ci teneva a
sottolineare che questo insistere sulla forma mentis o sul de facto
non era uno svalutare il valore della Costituzione, ma era un rivalutare quello che c’era intorno alla Costituzione e che faceva che la
Costituzione fosse usata in un certo modo invece che in un altro.
Elazar ripeteva costantemente “noi crediamo nelle nostre Costituzioni” e con quel noi intendeva sia gli americani che gli ebrei (il
termine “nostre” stava anche a indicare sia la Costituzione federale
che quelle statali degli U.S.A.; soprattutto queste ultime egli le ha
lungamente studiate nella loro evoluzione). Il sottinteso era che altri, per esempio gli Europei, non ci credessero o ci credessero
meno. La sua idea, il suo insistere sulla forma mentis e sul fatto che
bisogna credere nella Costituzione, significava che “la Costituzione
è l’uso che se ne fa” (argomento che riporta alla costituzione materiale, perlomeno nella definizione che di questo concetto ne ha dato
Fedele Lampertico nel 1886). Gli statunitensi credono alla loro Co-
264
Giuseppe Gangemi
stituzione, spiega Elazar, perché pragmaticamente la usano cercando di portarla verso i loro interessi e in questo modo la interpretano,
la rendono dinamica, la modificano sul piano sostanziale e non
formale. Una costituzione formale univocamente interpretata, una
costituzione formale che non ha bisogno di una costituzione materiale a suo favore, cioè di attori che si attivano in suo favore, è
semplicemente una costituzione morta o che contiene un Grande
Disegno non realizzabile, se non sulla carta.
La Costituzione è l’uso che se ne fa. Ma anche una teoria, o un
concetto, come quello di covenant, è l’uso che se ne fa. I concetti
acquistano senso nella pratica. I concetti si modificano nella pratica.
2. Il federalismo antropologico italiano, le sue radici e i
suoi collegamenti più recenti
Nel 1984 avevo iniziato una ricerca sul politico bresciano Giuseppe
Zanardelli accedendo direttamente alle sue carte depositate
all’Archivio di Stato di Brescia. Leggendo degli “Appunti di statistica” che erano il suo corso di lezioni che teneva per i suoi studenti
in qualità di maestro privato per l’Università di Pavia, avevo scoperto che malgrado fosse considerato un mazziniano, egli era
invece un federalista, di un particolare tipo di federalismo sul quale
non mi soffermo rimandando a due mie pubblicazioni: La questione
federalista. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani del 1994 e
La linea lombarda del federalismo del 1999. Nel corso di questa
indagine avevo avuto modo di scoprire una lettura ottocentesca di
Vico e di Machiavelli che era precedente a quella poi fornita, con
l’inizio del Novecento, da Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Questa lettura, accreditata da Giandomenico Romagnosi e da un
suo allievo Andrea Zambelli, introduceva immediatamente a una
forma di federalismo antropologico che si era affermato nelle aree
governate dall’ex Serenissima. Infatti, ben presto mi ero accorto che
posizioni molto simili a quelle di Zanardelli (con la differenza che
l’insegnamento di Romagnosi veniva avvicinato, nel Veneto, a
quello di Antonio Serbati Rosmini) erano sostenute anche in Veneto. Nemmeno su questa scoperta mi soffermo ulteriormente avendo
trattato questo problema in due precedenti pubblicazioni: La linea
veneta del federalismo, del 2001, nella quale avevo presentato il
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
265
pensiero di Angelo Messedaglia, allievo di Zambelli, e di Fedele
Lampertico, Emilio Morpurgo e Luigi Luzzatti, allievi di Messedaglia, e La crisi del Diritto e dello Stato, di Luigi Trentin (autore che
ha costituito il culmine della riflessione federalista di quel filone di
federalismo che ho definito antropologico).
Entrambe le due espressioni del federalismo antropologico,
quella radicale e laica bresciana e quella moderata veneta, si rifacevano al, e per molti versi derivavano dal, Patto di Abnegazione a
favore di Casa Savoia proposto, da Parigi, nel 1855, dall’esule veneto Daniele Manin, ex Presidente della Repubblica di Venezia
insorta nel 1848-49. Sto lavorando all’ipotesi che la proposta di patto avanzata da Manin andrebbe interpretata nel senso di una
“dedizione” e non di una semplice sottomissione, come poi viene
interpretata da Pallavicino e altri.
Dal momento che Manin è morto nel 1857, prima di vedere la
concreta applicazione del Patto di Abnegazione da lui proposto, ho
pochi elementi sui quali condurre specifiche ricerche e dispongo solo dei seguenti tre argomenti per accreditare questa mia ipotesi:
•
l’appartenenza di Manin alla cultura veneta che ancora nel
1797 mostrava di avere mantenuta intatta la memoria delle
“dedizioni” (e aveva provato a differenziare il destino delle
città venete di terraferma, dal destino scelto da Napoleone
per Venezia);
•
la sua appartenenza alla cultura ebraica dove la logica e la
memoria del covenant aveva mantenuto, rispetto al mondo
cattolico, ancora più salde radici;
•
un passo di una sua lettera di cui parlerò subito.
La proposta di Manin nasce da una serie di interventi sulla stampa
europea che lo portano, quasi per caso, ad assumere un ruolo importante tra gli esuli italiani. Tutto nasce, infatti, il 13 marzo del 1854,
quando lord John Russel ebbe a dichiarare, alla Camera dei Comuni
inglese, che se gli Italiani se ne stavano tranquilli potevano ottenere
di prosperare sotto l’Austria. Daniele Manin scrisse una lettera a La
Presse, che aveva pubblicato la dichiarazione, nella quale sosteneva
che gli Italiani volevano semplicemente che l’Austria se ne andasse.
A questa prima lettera, che fece molto scalpore, se ne aggiunsero al-
266
Giuseppe Gangemi
tre con le quali Manin cominciò a delineare un programma politico
alternativo a quello del partito monarchico (costituito dai favorevoli
all’annessione al Piemonte) e a quello del partito repubblicano (costituito dai favorevoli all’insurrezione predicata da Mazzini). Il
programma era enunciato in modo semplice e attraverso discorsi
abbastanza elementari, che venivano costantemente ripetuti, più o
meno, in questa forma, sui quotidiani nazionali e stranieri: “Accetto
la monarchia, purché sia unitaria: accetto la casa di Savoia, purché
concorra lealmente ed efficacemente a fare l’Italia, cioè a renderla
indipendente e una. – Se no, no – cioè, se la monarchia piemontese
manca alla sua funzione, cercherò di fare l’Italia con altri mezzi, ed
anche ricorrendo, ove bisogni, a idee divergenti dal principio monarchico” (Carrano 1859, p. 129).
Una seconda volta, Manin intervenne quando il Siècle pubblicò,
il 20 maggio 1855, un articolo nel quale si sosteneva che l’Austria
stava entrando da riformatrice sulla via del progresso e protestò per
il giudizio. Infine, intervenne il 15 settembre dello stesso anno, con
una lettera al Times, poi tradotta per il Siècle, quando si ventilò
l’ipotesi di porre un Murat sul trono di Napoli dichiarando che questo avrebbe significato la definitiva divisione dell’Italia e una
inaccettabile soluzione per tutti gli Italiani. Con queste tre lettere ottenne il grande risultato di far schierare parte della stampa straniera,
francese e inglese, a favore di una ipotesi di unità italiana attorno a
Casa Savoia.
Sulla base di questo successo attraverso la stampa, cominciò a
svilupparsi l’idea di rivolgersi, attraverso i giornali favorevoli,
all’opinione pubblica Italiana per far passare l’idea di mediazione
tra l’obiettivo del partito monarchico e quello del partito repubblicano che era stata lucidamente pubblicata, per la prima volta in
forma completa, sul Times: “Il partito repubblicano, sì acerbamente
calunniato, fa nuovo atto di abnegazione e di sacrificio alla causa
nazionale. Convinto che anzi bisogna fare l’Italia, che questa è la
questione precedente e prevalente, egli dice alla casa Savoia: ‘Fate
l’Italia e son con voi. – Se no, no. E dice ai costituzionali: Pensate a
fare l’Italia, e non ad ingrandire il Piemonte, siate Italiani e non
municipali, e sono con voi. – Se no, no’” (Carrano 1859, p. 122).
Essendo nata attraverso i mezzi di comunicazione del tempo, ed
essendo partito interamente d’opinione, più che di organizzazione,
anche se poi ne nacquero circoli più o meno segreti, che operavano
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
267
soprattutto nel 1859-60, Manin intendeva di stare contribuendo a
far organizzare, in modo diverso, rispetto a come era organizzata
prima attraverso due partiti contrapposti, quella che Elazar avrebbe,
poi, chiamato polity. Lo dimostra anche una dichiarazione fatta da
Manin a proposito della eventuale, futura, proclamazione del Regno
d’Italia: Manin sostiene che è “discutibile se giovi che la proclamazione del Regno d’Italia preceda o sussegua l’adesione al Piemonte.
A me sembrerebbe preferibile che precedesse, per le ragioni che
t’ho già dette, e che spiegherei più ampiamente se l’antipatia dei
lettori italiani non mi chiudesse la bocca” (Carrano 1859, pp. 5556). Si tratta di una questione puramente formale, ma mostra chiaramente che Manin considera sovrana la polity, cioè la cittadinanza
che si attiva per la realizzazione dell’unificazione, in quanto fa proclamare a questa il Regno d’Italia e non al governo e al Parlamento
regio che avrebbe poi governato e amministrato l’Italia così costituita.
Questo dovrebbe far considerare con più attenzione anche il fatto che il nome dell’organizzazione voluta da Manin non è quello di
Partito, bensì quello di Società (anche se a volte Manin si rivolge a
indicare la nascente società come un partito, ma solo per constatare
che, comunque, nel panorama politico italiano, la Società rimane
una parte e che rimangono in attività anche altre parti, come il partito monarchico e il partito repubblicano). Notare che, nella pubblicazione delle lettere, ad opera del Senato piemontese allargato ad
altre regioni dell’alta Italia, nel dicembre del 1859, il piano della
pubblicazione viene così strutturato: la pubblicazione delle lettere
private a Pallavicino Trivulzio, nella prima parte, e, nella seconda
parte, la pubblicazione, come Documenti, delle lettere pubblicate
sui giornali o anche scritte a Pallavicino e ad altri deputati o personaggi politici, ma di valore immediatamente pubblico. Questa
lettera, di valore esclusivamente politico, in cui si parla di proclamare prima il Regno d’Italia e poi fare l’annessione al Piemonte,
viene pubblicata nella prima parte, come lettera privata (ma non lo
è affatto in quanto tratta un tema cruciale e fondamentale per comprendere il senso dell’abnegazione che egli propone nei confronti di
casa Savoia e che, naturalmente, era già stato violato nel 1859 con
le prime “dedizioni” dei ducati di Mantova, Modena, Parma e di
Toscana, oltre che delle città dell’Emilia Romagna).
268
Giuseppe Gangemi
Come che sia, la Società Nazionale Italiana venne fondata nell'agosto 1857, ed ebbe come presidente Daniele Manin, che tuttavia
morì poco dopo (22 settembre 1857), mentre Giuseppe La Farina ne
era il segretario. La formazione viene fatta risalire a due lettere di
Manin a Giorgio Pallavicino Trivulzio, del 22 gennaio 1856 e del
29 maggio 1856. Dopo la morte del Manin, ne divenne presidente
Giorgio Pallavicino Trivulzio, in passato portavoce di Daniele Manin in Piemonte, e come vicepresidente onorario fu scelto Giuseppe
Garibaldi. Il vero ispiratore dell'associazione, dopo la morte di Manin, diventa, di fatto, il conte di Cavour e, con questo, il patto di
abnegazione smette di essere patto di “dedizioni” e diventa patto di
gratuite spontanee sottomissioni. Anche a causa della crisi del partito d’azione mazziniano, la Società nazionale si diffuse in tutta
Italia, clandestinamente nella maggior parte degli Stati preunitari italiani e alla luce del sole nel Regno di Sardegna. Raggiunta l’unità
d’Italia (1861), con una proclamazione che seguì l’annessione al
Piemonte, diversamente da come si augurava Manin, l'associazione
declinò lentamente, in quanto il programma dell'associazione era
stato fatto proprio dal governo italiano, e nel 1862 l'associazione
venne sciolta.
Quando, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, si comprende
che il nuovo sovrano (e la classe politica piemontese) considera
l’Italia come un allargamento del Piemonte e non come il risultato di
dedizioni (il nuovo sovrano si chiama Vittorio Emanuele II re
d’Italia, ma il primo Vittorio Emanuele era un re piemontese; le leggi
piemontesi vengono semplicemente estese a tutto il territorio nazionale; funzionari piemontesi vengono posti alla guida delle amministrazioni locali; etc.), alcune realtà dove l’esperienza delle dedizioni è
stata assente, o quasi del tutto assente, vedi il Meridione, si adagiano
nella nuova situazione facendosi guidare dal centro. Invece, in altre
realtà, dove l’esperienza delle dedizioni aveva costituito una forma
mentis meno subalterna, la stessa classe politica locale tenta strade originali di sviluppo (costituendo, nel tempo, realtà macroregionali
culturalmente omogenee, come la sottocultura bianca del NordEst e
la sottocultura rossa del CentroNord) strutturando e rafforzando la
dimensione della polity, cioè la capacità della società di costituire sinergie locali finalizzate allo sviluppo (attraverso l’istruzione elementare a contadini e artigiani, banche di credito per le categorie imprenditrici, le cattedre ambulanti e i preti agronomi, etc.).
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
269
Come dirà lucidamente uno studioso veneto come Matteo Manfrin, che insieme al padre aveva partecipato alle lotte per l’Unità
d’Italia e che sarà molto critico dello Stato realizzato dai Savoja, arrivando a parlare di arbitrio amministrativo e, persino, di tirannide
burocratica, ma che sarà, tuttavia, incapace di uscire dalla pars destruens per proporre una pars costruens paragonabile a quella del
federalismo antropologico, il tipo di burocrazia che si è affermata in
Piemonte era adatta ad un piccolo Paese nel quale si era consolidato
nel tempo un forte sentimento di fedeltà e una conseguente devozione al sovrano, ma non poteva affermarsi in altri Paesi in cui il
rapporto con il titolare della sovranità non era basato sulla fedeltà,
bensì sul patto.
La sua tesi, espressa con maggiore maturità nel volume Tirannia
Burocratica, è semplice: ci sono voluti secoli perché si affermasse,
nella Savoja e nel Piemonte sabaudo, un sistema di fedeltà al sovrano e un sistema amministrativo costituito su piccole strutture e
regolamenti rigidi, con un corpo di funzionari locali e devoti al Re.
Questo aveva reso possibile l’instaurazione di un sistema di controlli formali che, fin quando durava questa fedeltà, avrebbe funzionato
correttamente. Il sistema di controllo formale consiste nel fatto che
il vertice amministrativo della capitale nazionale o della Regione
invia un formulario al Comune di cui vuole controllare l’attività
amministrativa. Se in questo Comune esiste un funzionario o un dirigente ligio al dovere e devoto al sovrano, sia esso un Re o un
Parlamento, e se le popolazioni locali condividono con esso lo stesso principio di fedeltà, egli compilerà oggettivamente il questionario e segnalerà correttamente pregi e difetti della propria azione
amministrativa e di quella dei politici che amministrano il Comune.
Quindi, questo sistema di controlli formali, basato sulla fedeltà, di
funzionari e sudditi, ha funzionato bene nei territori sabaudi dove,
però, si era affermato gradatamente nel corso di secoli e perché i
Savoja erano stati, in passato, molto attenti a non cercare di acquisire popolazioni non abituate alla devozione al sovrano e non
disponibili nei loro confronti.
Mi riferisco a quando i Savoja avevano ricevuto la Sicilia, nel
1712, e con essa la corona regale. Essi si erano resi conto che i loro
metodi di governo non funzionavano e nel corso di pochi anni
scambiarono la più ricca, ma turbolenta, Sicilia, con la più povera,
ma tranquilla Sardegna (dove, ugualmente, non riuscirono a instau-
270
Giuseppe Gangemi
rare mai un sistema di fedeltà paragonabile a quello esistente in
Piemonte).
Nel resto d’Italia, un sistema di fedeltà o di devozione al sovrano non si era affermato allo stesso modo, o non si era affermato
affatto. Per esempio, nel Regno di Napoli, poi Regno delle Due Sicilie, gli amministratori si inserivano in un sistema in cui non
esisteva un gran rapporto di fiducia e di fedeltà tra il Sovrano e i
sudditi e, quindi, la devozione al sovrano degli amministratori finiva per diventare una forma di complicità a danno dei cittadini. In un
contesto di questo genere, infatti, il corpo dei funzionari finisce per
mettere in secondo piano i criteri dell’efficienza, per mettere in
primo piano i criteri dell’autoreferenzialità. L’attività principale degli amministratori, in un contesto di assenza di devozione dei
cittadini al sovrano, consisteva soltanto nel trovare, attraverso il sistema dei controlli formali, una giustificazione legale per qualsiasi
atto il sovrano, o il delegato del sovrano, volesse compiere. In questo contesto, il sistema dei controlli formali si stacca dal sistema dei
controlli sostanziali, in quando non si richiede più di applicare la
legge con rigore e secondo giustizia, ma solo di interpretare e piegare la legge per ottenere il risultato prestabilito. In un contesto di
questo genere, l’ispezione straordinaria, finisce per diventare solo
uno strumento per controllare che il sistema di fedeltà del funzionario amministrativo sia rivolto al sovrano o, in democrazia, alla
persona o al partito giusto e non si sia distratto in altre direzioni.
In altri Stati del Nord, invece, per esempio in uno Stato come
quello della Serenissima, o nelle terre della Romagna formalmente
soggette al Papa, il sistema della devozione al sovrano non si era
mai affermato, mentre si era affermato il principio che la sovranità
fosse la conseguenza di un patto, di una negoziazione che poteva
essere seguita a una conquista, ma più spesso a una “dedizione”. In
un contesto di questo genere, e la Serenissima Repubblica lo dimostrava con tutta la sua storia, il sistema dei controlli formali non
funzionava ugualmente, ma per altri motivi. L’unica cosa che poteva funzionare era l’ispezione, intesa in modo non formale, ma come
inchiesta (vedi la pratica delle relazioni, cioè dei rapporti sulla congruità delle scelte amministrative operate con il contesto in cui
vengono calate). L’inchiesta prevede non soltanto colloqui con i
funzionari amministrativi, ma anche con le categorie sociali che
praticano una attività legata al problema in questione (vedi il ruolo
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
271
importante dell’ascolto dei marinai, dei pescatori e di quant’altri si
muovono nella Laguna per prendere decisioni di lungo periodo finalizzate al mantenerne l’equilibrio).
Il fallimento amministrativo dell’Italia sabauda ebbe origine
dall’aver considerato come estendibile a realtà diversissime un sistema di controlli che aveva dimostrato la propria efficienza
innestandosi in un sistema di fedeltà e di devozione che proveniva
dal medioevo per caratterizzare profondamente una componente
importante, ma non l’unica, della modernità statale. Questo fallimento non ha avuto conseguenze gravi soltanto in quelle aree (le
cosiddette sottoculture bianca e rossa) nelle quali la società si è organizzata informalmente intorno ad istituti per l’istruzione dei cittadini (che hanno così potuto ottenere il diritto di voto impostato
dalla riforma Zanardelli del 1882 sulla capacità di leggere e scrivere) e per il sostegno della capacità di intraprendere dei migliori (le
banche di credito locali, le cattedre ambulanti, le cooperative, etc.).
Il fallimento amministrativo dell’Italia sabauda fu, in parte, ridimensionato dal federalismo antropologico, nella versione moderata
prima e cattolica poi e nella versione repubblicana prima e marxista
poi.
Un contributo importante allo sviluppo del federalismo antropologico viene dato, perlomeno nella sottocultura bianca, anche dalla
filosofia politica di Rosmini che aveva esaltato, in quel testo discusso e messo all’indice, Le cinque piaghe della Chiesa, la forma
organizzativa delle prime comunità cristiane che era basata sullo
stesso principio ebraico di autonomia dalle istituzioni dell’Impero
Romano. Un ruolo importante nella formulazione delle pratiche di
federalismo antropologico ha avuto anche il filosofo napoletano
Giovanbattista Vico, soprattutto per quel concetto di factum che
egli recuperò, reinterpretandolo, dall’opera di Thomas Hobbes. Anche qui un chiarimento è necessario perché, come è noto, e come ho
già spiegato in un altro testo (Gangemi 2008, p. 175) Elazar ha sostenuto che i Padri Pellegrini hanno recuperato la loro concezione
della democrazia da Thomas Hobbes e non, come ci sembrerebbe
più ovvio, da John Locke. Ho già spiegato (Gangemi 2008) che
questo è dipeso dal fatto che Hobbes usa il concetto di covenant,
che si trova nella Bibbia, e che questo era il libro dei Padri Pellegrini, mentre Locke usa il concetto, già più laico, di compact. Adesso,
vorrei spiegare il debito che, per alcuni versi, Vico ha nei confronti
272
Giuseppe Gangemi
di Hobbes e come il pragmatismo americano possa avere attribuito
a Hobbes proprio quella concezione pragmatica del patto che è assente da Hobbes, ma che è invece presente in Vico e da questi
trasmessa al federalismo antropologico italiano.
Vico riprende dal De Homine di Hobbes il tema del verum
factum, che così enuncia in un passo famoso del De Ratione: “le cose
della geometria le conosciamo perché le facciamo; se potessimo dimostrare anche quelle della fisica, faremmo anche quelle” (Vico
2008, p. 83). Un passo molto simile si trova presente nel De Homine
di Hobbes; un passo che è stato segnalato da Eugenio Garin (sulla base di una precedente segnalazione di Nicola Abbagnano, virgolettata
ma senza citazione della fonte) nella Introduzione alla edizione italiana del volume di Arthur Child, Fare e conoscere in Hobbes, Vico e
Dewey. Il passo recita così: “Pertanto, agli uomini è stata concessa
una scienza con quel tipo di dimostrazione a priori solo nel caso di
quegli oggetti, la cui generazione dipende dall’arbitrio degli uomini
stessi. Dimostrabili sono pertanto molti teoremi circa la quantità, la
cui scienza si chiama geometria. Poiché infatti le cause delle proprietà che le singole figure hanno risiedono nelle linee che noi stessi
tracciamo, e le generazioni delle figure dipendono dal nostro arbitrio,
non si richiede, alla conoscenza di qualsiasi proprietà di una figura,
nulla più della considerazione di tutti gli elementi che conseguono alla costruzione che noi stessi facciamo delineando la figura. Quindi,
che la geometria sia ritenuta e sia dimostrabile dipende dal fatto che
noi stessi creiamo la figure. Di contro, poiché le cause delle cose naturali non sono in nostro potere, bensì nella volontà divina, e poiché
la loro massima parte, cioè l’etere è invisibile, non possiamo dedurre
le loro proprietà dalle loro cause, dato che noi non le vediamo. Ci è
invece concesso procedere deducendo le conseguenze da quelle stesse proprietà che vediamo, fino a poter dimostrare che le loro cause
abbiano potuto essere tali o talaltre. E questa dimostrazione si chiama
a posteriori, e la scienza stessa fisica [...]. Anche l’etica e la politica
d’altronde, cioè la scienza del giusto e dell’ingiusto, dell’equo e
dell’iniquo, si possono dimostrare a priori; in quanto che i principi
grazie ai quali si conosce cosa siano il giusto e l’equo, e per contro
l’ingiusto e l’iniquo, cioè la cause della giustizia, e precisamente le
leggi e i patti, li abbiamo fatti noi. Infatti, prima della istituzione dei
patti e delle leggi, non vi era alcuna giustizia né ingiustizia, né alcun
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
273
genere di bene e di male pubblico tra gli uomini, più che tra le bestie”
(Hobbes 1658, X, 4-5; 1970, pp. 143-5).
Non solo il già citato passo di Vico, ma persino il capitolo XI, su
“La Giurisprudenza”, nel De Ratione, sembra quasi un commento a
questo passo del De Homine. In un punto Vico sembra addirittura
riprendere l’ultima parte del passo di Hobbes. Dice, infatti, Vico:
“E nella repubblica libera, riguardo a queste cause, una sola era la
prudenza per il triplice diritto [pubblico, privato e sacro]: la quale
era definita ‘conoscenza delle cose divine ed umane; conoscenza
del giusto e dell’ingiusto’; così che fossero comprese ‘nelle cose
umane’ sia le pubbliche che le private, e con la parola ‘giusto’
s’indicasse tutto ciò che fosse apertamente garantito dalle leggi”
(Vico 2008, pp. 123-5).
Una volta che si è mostrato che Hobbes ha anticipato Vico sul tema del verum et factum, per evitare di schiacciare la visione di Vico
su quella di Hobbes e per poter permettere di comprendere la radicale
differenza tra i due, bisogna vedere che tipo di factum i due intendessero. L’indicazione giusta ce la fornisce Max Harold Fisch che, nel
1944, nella propria traduzione dell’autobiografia di Vico aveva segnalato la presenza di un’affermazione sul verum factum anche nella
lettera di dedica delle Six Lessons to the Professors of Mathematics
di Hobbes: “La geometria quindi è dimostrabile, poiché le linee e le
figure dalle quali ragioniamo sono disegnate e descritte da noi; e la
filosofia civile è dimostrabile perché noi stessi facciamo il commonwealth” (Hobbes 1997, p. 184). In altri termini, il factum dell’uomo
è, per Hobbes e per Vico, sia il factum della matematica, il mondo
convenzionale dentro cui sono state individuate le regole della matematica (da ciò la sua scelta a favore di una logica naturale), sia il
factum del sistema politico (ed in questo i due hanno posizioni molto
simili, se non identiche); la differenza tra Vico e Hobbes sta nel fatto
che il factum del sistema politico, che è convenzionale come la geometria per Hobbes, non è affatto convenzionale per Vico. Il factum di
Vico è, infatti, il factum dell’azione e l’azione ha regole di svolgimento che producono conseguenze attese e non attese che non sono
convenzionali. L’indagine su azioni e interazioni, per Vico, deve tenere conto del fatto che sono naturali (nel senso che non sono, a
differenza della geometria, nel pieno controllo dell’uomo). Azioni e
interazioni sono, infatti, guidate da logiche che non sono in controllo
dell’uomo e che, nel bene, possono essere guidate dalla Provvidenza
274
Giuseppe Gangemi
e, nel male, fino a produrre la “seconda barbarie”, da gravi errori
umani (in particolare quelli compiuti da classi dirigenti e da intellettuali).
Da quanto detto, potevano nascere, e sono nate, due conseguenze: 1) se si parte da Hobbes e si crede nella Provvidenza come
creatrice del bene e nell’uomo non illuminato dall’Onnipotente come potenziale creatore di barbarie, si può arrivare alla stessa
conclusione cui è arrivato Vico, un secolo dopo Hobbes; 2) la cultura filosofica statunitense ha seguito un percorso parallelo a quello
della cultura europea di scuola vichiana. Questo permette, oggi, di
interpretare Vico non come proponeva Croce come anticipatore di
Hegel, bensì come anticipatore della teoria dell’azione. Questa tesi
è stata sostenuta anche da studiosi americani. Per esempio, nel
1953, da Arthur Child che ha pubblicato un volume dal titolo Fare
e conoscere in Hobbes, Vico e Dewey. In questo lavoro, vengono
evidenziati i rapporti di Vico con Hobbes, ma sempre viene sottolineato l’ancora più interessante legame tra Vico e Dewey.
Successivamente, nel 1969, Max Harold Fisch ha dedicato uno
scritto al rapporto tra Vico e il pragmatismo e, quindi, non solo a
Dewey, ma anche a Charles S. Peirce (Vico and pragmatism).
Questo permette di collegare il pensiero di Vico, e lo stesso federalismo antropologico che ne è derivato, al pragmatismo americano e alla recente rivoluzione paradigmatica che si è operata, a
partire da Vita Activa di Hannah Arendt, ma anche alla più recente
rivoluzione della scienza politica americana operata da autori come
Daniel J. Elazar, Aaron Wildavsky, Theodore J. Lowi, etc. e soprattutto a quanti hanno messo in primo piano il tema dell’azione. Un
tema, quest’ultimo, che già Giuseppe Capograssi aveva messo in
evidenza nella sua lettura della filosofia di Vico e che porterebbe a
collegare la filosofia vichiana con la recente rivoluzione paradigmatica intervenuta negli U.S.A. (a partire dagli anni Sessanta) che ha
coinvolto tutto il settore delle politiche pubbliche.
Questo, soprattutto, permette di sostenere, con argomenti fondati
sul piano filosofico, la forte similitudine che può essere affermata
tra il concetto di ordine degli ordini (o ordine delle autonomie) di
Silvio Trentin, grande esponente di una cultura italiana che sviluppa
le intuizioni di Vico, e il concetto di polity di Elazar e di altri che si
collegano a posizioni pragmatiste, vedi il concetto di pubblico, alla
Charles S. Peirce e alla John Dewey.
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
275
Conclusione
Elazar sostiene che una polity è un pubblico, sia territorialmente
fondato, sia di gruppi non fondati territorialmente. Questi pubblici
si intrecciano tra loro “in partenariato per certi scopi, mentre preservano la loro separata identità per altri” e le polity “hanno delegato i poteri alle necessarie istituzioni fin quando necessario” (Elazar 1995, p. 7). Allo stesso modo, per Silvio Trentin, ogni autonomia ed ogni ordine è autonomo, anzi autarchico, e questo significa che per le questioni di propria competenza si regola da solo;
tuttavia, quando le cose sono di competenza di più di un ordine (allo stesso livello di autarchia) il regolarsi autarchico di tutti significa
che tutti devono pervenire a una decisione che è il frutto della decisione e della partecipazione di tutti.
Ma, e questo è il punto che differenzia la democrazia rappresentativa dalla democrazia deliberativa, questa decisione e partecipazione
non si realizza attraverso il voto, nel quale ogni singolo individuo è
isolato ed esprime una soggettiva opinione, lasciando al politico il
compito di operare una sintesi che abbia valore collettivo. La partecipazione è differente, nella sostanza, dall’idea di democrazia rappresentativa: quest’ultima dà rilevanza alla individualità, libertà e segretezza del voto, oltre che al concetto di opinioni individuali la cui
somma genera l’opinione pubblica; la partecipazione presuppone una
società organizzata, l’ordine degli ordini o la polity, perché solo
l’organizzazione degli ordini o autonomie produce la sintesi dei bisogni collettivi (e questa organizzazione può essere il risultato del
processo di partecipazione, ma può anche essere la premessa al processo stesso, perché la partecipazione comincia nelle associazioni di
volontariato, cioè nella polity). Nella democrazia rappresentativa, infatti, il cittadino rimane isolato di fronte all’opinione e la sintesi viene
realizzata dal rappresentante eletto; nella democrazia deliberativa, invece, la sintesi viene operata nella polity, cioè nell’interazione tra
quanti partecipano. Quindi, solo il cittadino nella polity partecipa, in
quanto parte da o arriva a questa sintesi dei bisogni collettivi e, solo
allora, il processo a cui prende parte è un processo di partecipazione;
se non ci arriva, per sua incapacità, sta prendendo parte ad altro, che
non è democrazia deliberativa o partecipazione. I gruppi di cittadini
che partecipano si devono costituire come stakeholder collettivi e, in
questa forma, diventano parte del processo di partecipazione.
276
Giuseppe Gangemi
Una seconda linea di differenza (tra democrazia rappresentativa
e partecipazione) sottolinea il fatto che, mentre nella democrazia
rappresentativa la partecipazione al voto e il tipo di voto espresso
viene interpretato come consenso dato alla totalità di un programma, nella partecipazione, esserci vuol dire portare l’attenzione
a un singolo problema o a un fascio di problemi connessi tra loro.
Nel primo caso, l’amministrazione deve dimostrare la capacità di
sapere e volere realizzare le promesse che ha fatto in campagna elettorale. Nel secondo caso, invece, l’amministrazione deve dimostrare di avere sensibilità e capacità di farsi carico del problema o
del fascio di problemi, di recepirlo dalla cittadinanza attiva e di trovare le forme di interazione necessarie alla co-gestione, al comanagement o alla cooperazione tra amministratori e amministrati.
La classe politica è tenuta a cooperare con la polity (o le polities)
sul tema della decisione (power) sul quale quella polity porta
l’apporto fondamentale della propria esperienza (advice) o può contribuire ad esercitare il controllo nella fase di implementazione
(audit). Per i concetti tra parentesi di power, advice e audit, rimando ad un mio scritto recente (Gangemi 2009).
Perché la polity o l’ordine degli ordini è quanto una data società
riesce a mobilitare nei processi di costruzione del senso (regolazione cognitiva), nei processi di costruzione delle identità individuali e
collettive (regolazione comunitaria), nei processi di produzione e
scambio di beni materiali o relazionali (regolazione economica) e
nei processi di mobilitazione attraverso i partiti e attraverso i movimenti collettivi (regolazione politica).
Il non rispetto del patto con gli elettori si può facilmente sanare,
attraverso una successiva elezione che può decidere di condannare
(non confermando) o assolvere (riconfermando) un gruppo dirigente
(in entrambi i casi risolvendo la questione); invece, il non rispetto del
patto con la polity produce effetti gravi che possono arrivare fino alla
“seconda barbarie” di cui parla Vico. La polity produce, infatti, gran
parte del capitale sociale e certamente lo indirizza verso l’equilibrio
tra la quota di capitale bridging e quella bonding (per questo concetti,
cfr. Gangemi 2002) e il non rispetto del patto con la polity produce,
come conseguenza immediata, la distorsione del capitale sociale con
lo squilibrio della dimensione bonding rispetto a quella bridging.
Questo squilibrio è quello che produce l’ambiente per lo sviluppo abnorme delle organizzazioni segrete, delle organizzazioni criminali,
Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah,
tra costituzione formale e costituzione materiale
277
della corruzione, del clientelismo, della “concussione ambientale”
(come veniva chiamata al tempo dell’inchiesta di Mani Pulite), etc.
Ma questo è un altro problema. Quello che qui ci interessava
mostrare erano due questioni: 1) quale fosse il significato di polity
nella concezione del federalismo di Elazar; 2) quale fosse, se esisteva, il concetto più vicino a polity elaborato nella cultura italiana
(e ci è sembrato di averlo individuato nel concetto di ordine degli
ordini di Silvio Trentin).
Il fatto che polity (cioè il concetto cardine della nuova interpretazione del federalismo americano) e ordine degli ordini (cioè il punto
di arrivo della teorica del federalismo antropologico) siano concetti
molto simili, ci permette di descrivere certi “appelli alla polity”, per
esempio le elezioni primarie per selezionare un candidato, che, apparentemente, sembrano maldestre imitazioni di pratiche americane,
come un recupero e uno sviluppo ulteriore di pratiche di repubblicanesimo che non si sono praticate per molto tempo in Italia perché
sono state bloccate dallo sviluppo dei partiti ideologici e dal fascismo. Adesso, con la crisi delle ideologie, esse stanno ritornando in
auge recuperando una memoria di pratiche che, almeno in alcune aree, non si è mai spenta.
Sul tema, appena sfiorato, del rapporto tra pratiche di federalismo
e pratiche di amministrazione, basta concludere che, dopo la riproposizione del concetto di polity da parte di Elazar, questo concetto è
stato recuperato da studiosi importanti come James G. March e Johan
P. Olsen (1984) che hanno avuto un ruolo fondamentale nel rinnovamento degli studi americani ed europei di teoria dell’organizzazione e di scienza dell’amministrazione. Il che permette di utilizzare ampiamente questo concetto, anche in Italia, per descrivere un
nuovo modo di amministrare, basato sulla partecipazione – alla condivisione di power, audit e/o advice (cfr. Gangemi 2009) –, rispetto a
quello tradizionale basato sul comando.
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G. Duso, A. Scalone (eds), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, 279-307 ©2010 Polimetrica International Scientific Publisher
Monza/Italy
L’identità italiana tra federalismo e nuove
forme della cittadinanza.
Appunti per un liberalismo politico e sociale
Agostino Carrino
1. L’identità italiana
Trattare dell’identità italiana dal punto di vista della struttura giuridica delle sue istituzioni non comporta, com’è ovvio, di riandare
con la memoria al diritto delle popolazioni latine, italiche, celtiche
ed etrusche dei secoli precedenti l’era volgare, anche se alla fine farò un cenno a questa ‘archeologia giuridica’. È del resto noto ai
giuristi, e in particolare agli storici del diritto, che «nell’Europa
medievale e dell’età moderna non esistevano ordinamenti giuridici
nazionali. La gente viveva secondo le consuetudini locali o secondo
i due sistemi sopranazionali universali – il diritto della Chiesa e
quello romanistico delle università (noto come il “diritto scritto,
comune”, o ius commune). Per molti secoli fu impensabile che ogni
Paese potesse avere un proprio sistema normativo, impermeabile alle influenze esterne. La contaminazione era all’ordine del giorno,
poiché il diritto era visto come una immensa sala del tesoro dalla
quale sovrani e nazioni potevano scegliere ciò che era più idoneo a
soddisfare le esigenze locali»1. In effetti, la coscienza etnica è solo
un prodotto, a volte anche molto tardivo, dello sviluppo, mentre il
fenomeno delle immigrazioni, delle contaminazioni e della installazione di ‘stranieri’ sul proprio territorio è un fatto accertabile già
nella Roma dell’VIII secolo a.C.
1
Raoul C. van Caenegem, I sistemi giuridici europei, trad. it. di E. Bertucci, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 9-10
280
Agostino Carrino
Questa caratteristica è anche alle origini di alcuni paradossi: il
common law inglese ha origini continentali e specialmente francesi;
la struttura del Code Napoleon deve molto alle tradizioni giuridiche
consuetudinarie germaniche; il BGB, il Codice civile Tedesco del
1900, al quale si è ispirato anche il Giappone per la sua propria
normazione, deve molto alla tradizione romanistica, che stranamente proprio in quegli anni era attaccata dagli esponenti della così
detta Scuola germanica (si spiega così che l’art. 19 dello Statuto
della NSDAP prevedesse la lotta al diritto romano2).
Oggi, quindi, le strutture giuridiche di un paese non sono quelle
più atte a individuare una qualche vocazione o identità specificamente nazionale. Si lavora meglio, da questo punto di vista, con i
grandi sistemi giuridici, i quali sono sostanzialmente, per quanto riguarda l’Occidente, due, quello di common law anglo-americano e
quello europeo-continentale. Tutti sanno d’altra parte che questi sistemi tendono ad avvicinarsi, perché quello continentale –
specialmente sotto l’influsso del diritto europeo e delle sentenze
della Corte Europea del Lussemburgo – rivela tratti sempre più
‘giurisprudenziali’, mentre il diritto anglo-americano si compone in
misura sempre crescente di leggi scritte (sia federali sia dei singoli
Stati); persino la Gran Bretagna, che continua a non avere una costituzione scritta, ha recepito la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo del 1950, che funziona in qualche modo da ‘legge superiore’, se non anche direttamente costituzionale.
Per di più, i processi di globalizzazione hanno evidenziato una
nuova fonte di diritto, nota col nome di lex mercatoria, che è il diritto dei contratti delle società transnazionali, che secondo gli
ideologi della globalizzazione giuridica starebbe determinando la
obsolescenza dei diritti nazionali e delle sovranità statuali.
Non è questa la sede per discutere di globalizzazione del diritto,
di crisi e trasformazione della sovranità3. È però impossibile non fare riferimento a fenomeni che stanno trasformando non soltanto i
dati empirici, ma i modi di pensare dei giuristi, degli scienziati della
2
Cfr. C. Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea, trad. it. di L.
Cimmino, a cura di A. Carrino, Roma, Pellicani, 1996.
3
Cfr. A. Carrino, Il problema della sovranità nell’età della globalizzazione, Napoli, Guida, 2010 (in corso di stampa).
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
281
politica, degli economisti e dei sociologi. Poiché qui devo solo suggerire elementi e spunti per un dibattito, mi limito a sottolineare che
questi processi, anche se indubbiamente reali nelle loro dinamiche,
si accompagnano a vere e proprie sovrastrutture ideologiche, che in
parte ne nascondono la sostanza politica profonda, in parte vogliono
orientare le scelte politiche dei governi nazionali in un senso invece
che in un altro.
È certamente compito del pensiero mettere in evidenza tutto ciò,
al fine anche di non far passare l’idea di una presunta naturalità di
quelli che sono invece movimenti in buona parte voluti o auspicati e
di regola falsati da discorsi tutt’altro che oggettivi.
L’Italia è certamente parte di questo processo di trasformazione,
lo è in quanto terra d’Europa e in quanto paese mediterraneo4. Lo è
poi per la sua storia, come culla del diritto romano e anche come
patria di giuristi che si sono riconosciuti in quell’illuminismo giuridico che è alle origini della storia recente del diritto. Penso qui, per
esempio, a due scrittori illustri, Gaetano Filangieri e Cesare Beccaria (ma sul tema specifico della Costituzione un riferimento va fatto
anche a Mario Pagano5).
Tuttavia, è significativo che questa dimensione non caratterizza
specificamente l’Italia, perché il napoletano Filangieri e il milanese
Beccaria sono pensatori propriamente e tipicamente europei. Non è
vero che l’Europa deve essere fatta, l’Europa deve essere ri-fatta,
perché l’aggettivo ‘europeo’ era classicamente universale negli
scritti dei filosofi, dei giureconsulti e degli economisti europei prima della Rivoluzione francese; per questo un pensatore classico
della contro-rivoluzione, Joseph de Maistre, poteva esclamare:
“muoio con l’Europa”.
Il grande vanto dell’Italia è dunque quello di avere albergato i
semi del pensiero giuridico occidentale, di essere stata la culla, già a
partire dal diritto romano in quanto diritto propriamente indo-
4
Il tema “Mediterraneo” sta acquistando vieppiù importanza, specialmente da
quando Sarkozy ha lanciato la sua idea di una “Unione per il Mediterraneo”. Da
vedere è il classico Braudel, Mediterraneo, trad. it., Milano, Bompiani, 2002, ma
anche G.E. Valori, Mediterraneo tra pace e terrorismo, Milano, Rizzoli, 2008.
5
Sul quale cfr. M. Battaglini, Mario Pagano e il progetto di Costituzione della Repubblica napoletana, Roma, Archivio Guido Izzi, 1994.
282
Agostino Carrino
europeo6, dei valori dell’ordine, della giustizia, dell’eguaglianza e
della libertà. E poi dei valori del primato della legge, della tolleranza intesa come convivenza di diversi, del pluralismo delle genti e
delle religioni, della valorizzazione e del rispetto delle realtà locali.
Questo nel mondo della Roma classica, ma poi anche, non ostante
tutto (non ostante, intendo, una certa intolleranza propria delle religioni monoteiste), nel mondo cristiano. Fino almeno alla grande
trasformazione rappresentata dalla Rivoluzione francese, rispetto alla quale occorre avere consapevolezza di quanto di grande vi è in
essa e nelle sue conseguenze, accanto a tanto di negatività.
Una delle conseguenze negative della Rivoluzione francese è
stata la riduzione di tutto il diritto a legge, innalzata a sacra fonte
della vita nazionale7, e il disprezzo di tutto ciò che era particolarità
locale, abbassato a particolarismo. La legge della nazione era quanto di più sacro un popolo doveva venerare e attraverso questa
sacralità della legge, espressione della sovranità nazionale, doveva
essere regolata la vita degli individui, non più membri di formazioni
sociali (quelle riprese dall’art. 2 della Cost. italiana), ma entità astrattamente sovrane in se stesse. Ovviamente, questa legge sacra
era quella voluta dalla rappresentanza politica, che di fatto si sovrapponeva al sovrano puramente formale, il popolo. Non v’era
storia, non v’era consuetudine, ma solo volontà, Kürwille, direbbero
i sociologi tedeschi. Questo positivismo normativo, alle origini per
esempio della Scuola dell’esegesi francese, faceva sì che la legge
potesse essere soltanto spiegata, mai veramente interpretata in maniera creativa. La legge dello Stato, separato dalla società, prevaleva sullo spirito del popolo, sulle tradizioni, sui diritti, le consuetudini e i privilegi. Tutti conoscono la controversia tra Hegel e
Savigny, o tra questi e Thibaut, in Germania8, dove il filosofo idealista vantava i pregi della pubblicità delle leggi, della loro razionalità interna, rispetto alle contraddizioni (certamente oramai non più
6
Cfr. i lavori di B.W. Leist, Alt-arisches Recht, Jena, Fischer, 1888.
Cfr. Jean Ray, L’idea di legge nella Rivoluzione francese, trad. it. a cura di M.A.
Cattaneo, Roma, Edizioni Lavoro, 1990.
8
Nella imponente bibliografia cfr. almeno G. Marini, Il rapporto Savigny-Hegel
nella storiografia recente, “Quaderni fiorentini”, 1980, pp. 114 ss.
7
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
283
solo apparenti) delle consuetudini, degli usi, di un diritto che doveva essere ‘scoperto’ e non soltanto ‘fatto’.
L’Italia è stata, da questo punto di vista, la vittima di un dogmatismo giuridico che da sùbito ha voluto porre le basi di una legge
nazionale unitaria che doveva rispecchiare questa esigenza di unificazione oltre le differenze, oltre le tradizioni, gli usi e i costumi
delle popolazioni locali. Io credo che se anche, forse, la scelta del
legislatore, all’indomani dell’unificazione, poté apparire necessitata, inevitabile, oggi noi dobbiamo mettere in discussione questa
scelta, da un punto di vista intellettuale, per comprenderne gli sviluppi a mio avviso contraddittori rispetto ad un fatto evidente allora
come oggi, che l’Italia era davvero un’espressione geografica, nel
senso che una coscienza politica nazionale non esisteva in quanto
coscienza nazionale italiana, mentre radicate erano (e secondo me
ancora sono) le identità locali, che sole possono fondare e costituire
il punto di partenza per il raggiungimento di una nuova coscienza
politica sia italiana sia europea.
Non si tratta di un dato soltanto italiano. È sbagliato contrapporre
questo pluralismo italiano alla forte coscienza nazionale degli altri
paesi europei, come pure siamo soliti fare quando esercitiamo il nostro forte – e spesso esagerato – senso autocritico. Se si chiede ad un
abitante di Würzburg se è tedesco, egli risponderà sorridendo che è
bavarese, anzi della Franconia, e che sì, è tedesco, perché un francone
deve essere bavarese e un bavarese non può non essere anche tedesco. Chi ha letto Nietzsche sa bene quanto polemico egli fosse con i
‘tedeschi’, per questa mancanza di sostanza dell’essere tedesco in
quanto tale.
Ebbene, dal punto di vista giuridico-politico, è utile non dimenticare che l’unità d’Italia è stata fatta in un certo modo, ma poteva
essere fatta anche in un altro e diverso modo. Il dato che dev’essere
sottolineato, perché è quello discusso alle origini del processo unitario (in particolare per quanto riguarda l’unificazione amministrativa)
ed è tornato di attualità oggi, è che l’unificazione degli Stati preunitari in un unico Regno, attraverso finti plebisciti che erano vere e
proprie annessioni, si è realizzata nel rifiuto della possibile scelta federale e in un progetto di unificazione giuridica che doveva accompagnare e per così dire rispecchiare il processo di unificazione politica.
L’ideologia giuridica dell’Italia unificata parte dal rifiuto delle tesi
anticodicistiche della Scuola storica di Savigny; l’idea era quella di
284
Agostino Carrino
procedere rapidamente alla cancellazione delle legislazioni preunitarie, che sopravvissero per qualche tempo e in qualche ambito
civilistico in Toscana e nel Regno delle Due Sicilie, e di introdurre
una legislazione unitaria su tutto il territorio del Regno, omologando
anche tutto quello che omologabile non era.
Unità dello Stato e unità del diritto statale si tengono sin
dall’inizio della storia unitaria italiana. Tuttavia, questo processo di
unificazione dall’alto e dal centro non può occultare del tutto la presenza di altre possibilità, alcune certamente astratte, come quelle che
si incentrano sull’idea di un common law giurisprudenziale alla maniera britannica, ma altre assai più concrete e realistiche. È un dato di
fatto che la legislazione degli Stati preunitari era non di rado assai
avanzata, come ad esempio nel Granducato di Toscana, ma anche nel
Regno di Napoli relativamente a molti istituti del diritto civile. Per di
più il ceto giuridico era in Italia frammentato: mentre i piemontesi
guardavano al diritto francese, formalistico e per sua natura centralistico e burocratico, i giuristi toscani, o quelli di Napoli e di Parma,
avevano una visione pluralistica del diritto. Lo stesso per quanto riguardava i giuristi lombardi, che avrebbero preferito conservare le
loro consuetudini e rimpiangevano, nient’affatto a torto, il vecchio diritto amministrativo austriaco.
Su tutto prevalse la paura, anzi l’ossessione, propria dei Piemontesi, ma anche di molti liberali per così dire piemontesizzati, che la
formazione di una coscienza nazionale unitaria doveva mettere da
parte ed anzi abrogare alla radice ogni municipalismo, ogni tendenza
regionalistica.
È noto a tutti che di contro a questa visione accentratrice, burocratico-legalistica, che faceva calare dall’alto una coscienza nazionale
italiana che non esisteva da nessuna parte, se non in élites numericamente ridottissime, si alzò la voce di Carlo Cattaneo, il quale nel
1860 già scriveva un brano profetico:
«Il Piemonte […] ebbe la disgrazia di apportare ai popoli, come
un beneficio, nuove leggi ch’essi accolsero come un disturbo e un
danno. Li assennati riputarono un vituperio che il popolo preferisse
le leggi austriache alle italiane e non si avvidero che il vituperio era
che le leggi italiane potessero apparire peggiori delle austriache.
Ogni mutazione di leggi, che non sia un vero miglioramento, è un
delitto perché sospende il rapido corso delle transazioni; diffonde
una dubbiezza universale; rende insufficienti tutte le cognizioni pra-
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
285
tiche; costringe gli uomini a rifar da capo tutti i loro giudizi e calcoli». Non escludo che buona parte delle vicissitudini dell’Italia unita,
trascorso il periodo della destra storica e dei suoi uomini (perché gli
uomini contano…), sia anche la conseguenza di una legislazione
calata dall’alto su realtà profondamente diverse.
Si dice che la posizione federalistica di Cattaneo fosse estranea allo spirito dell’epoca. Può anche essere vero, ma personalmente
ritengo che le scelte di politica legislativa fatte tra il 1860 e il 1865
siano state tutt’altro che la conseguenza inevitabile di una logica delle cose. Credo anzi che un’altra via era possibile e legittima, quella
appunto del rispetto delle differenze legislative pre-unitarie in quanto
espressione di differenze più profonde. Anche Giuseppe Mazzini era
un federalista convinto, sostenitore di una federazione di regioni (ne
proponeva dodici), entro le quali avrebbe agito il «nucleo primitivo»
della struttura italiana, il Comune9. La famosa frase del Principe di
Metternich sull’Italia come “espressione geografica” non era affatto
spregiativa, come ci hanno insegnato a scuola, ma era soltanto la descrizione di una verità confermata proprio dalle scelte del ceto
politico e giuridico dominante, quelle di calare dall’alto una forma
giuridica su situazioni diverse, di ‘mettere-in-forma’, in un’unica e
uguale forma, contenuti differenti.
Ciò dimostrava però, paradossalmente, quanto vera fosse
l’affermazione “abbiamo fatto l’Italia, bisogna fare gli Italiani”, che
evidentemente semplicemente non c’erano. La scelta di fare gli Italiani attraverso un meccanismo di unificazione normativa era in
verità anche l’esito della struttura mentale di coloro che avevano
propugnato l’unificazione, cioè di intellettuali che si erano formati
nello spirito della Francia, giacobina e napoleonica, che aveva rifiutato preliminarmente ogni regionalismo e ogni differenziazione
localistica. I codici del 1865 sono quindi l’esito giuridico di una politica patriottica che aveva negato le differenze in nome di una
visione centralistica del potere e del diritto, che aveva fatto prevalere l’idea di nazione su quella di popolo, anzi di popoli, la speranza
di poter trasformare l’essere attraverso il puro e astratto dovere.
9
G. Mazzini. Dell’unità italiana, (1861), in Scritti politici, a cura di T. Grandi e A.
Comba, Torino, Utet, 1972, p. 946.
286
Agostino Carrino
Io credo che è opportuno che si abbia consapevolezza di questa
vicenda non per fare il contrario, perché oramai anche questa è storia, quanto perché sono convinto che la sostanza di quell’errore,
forse allora inevitabile, è oggi al centro di un dibattito. Non si tratta,
com’è ovvio, di ricostruire il Regno di Napoli, ma di ripensare la
struttura istituzionale e costituzionale dell’Italia all’altezza di una
consapevolezza nuova delle sue tradizioni, proprio perché queste
tradizioni sono assai risalenti nel tempo.
Facevo riferimento all’archeologia preromana. Non a caso. Intorno all’Università “La Sapienza” di Roma si possono leggere i nomi
di strade intitolate ai Sabini, ai Volsci, ai Sabelli, ai Sicani e via dicendo. È certo che nelle vene degli Italiani moderni c’è sangue misto,
ma anche l’Italia antica non è mai stata né un tutt’unico né monoteista. Direi anzi che il politeismo, in tutti i sensi in cui è spiegabile il
termine, è la sostanza dell’essere italiano. Probabilmente per questo
uomini come Mazzini pensavano al popolo italiano come avanguardia degli Stati Uniti d’Europa. L’Europa plurale di Strabone forse si è
rispecchiata già nell’Italia plurale della Lega latina, dei Comuni medioevali, degli Stati preunitari, rispetto ai quali un potere centrale
forte e autorevole avrebbe dovuto essere un potere di tutela e non di
sopraffazione burocratica, come purtroppo in parte è stato.
Siamo ancora in tempo per ripensare la realtà in una fase di trasformazioni e di passaggi. Poiché il federalismo non ha nulla a che
vedere con le secessioni e le disgregazioni, ma è anzi il loro esatto
contrario, io credo che federalismo e presidenzialismo, in Italia e in
Europa, possano essere la grande, rivoluzionaria novità del XXI secolo. I princìpi classici della libertà, dell’autorità, di gerarchia, ordine, giustizia, possono essere in effetti ripensati e ‘rimodulati’ soltanto
entro un pensiero che sappia fare tesoro delle lezioni della storia e
adeguarsi alle trasformazioni del presente prima per comprenderle e
poi per governarle. La libertà è minacciata dalla banalizzazione
dell’idea stessa di libertà (chi, oggi, non è liberale?); la democrazia è
diventata una parola vuota, preda dei nuovi, anomimi sovrani del
mercato globalizzato; la pace è sempre già minacciata sia dal terrorismo internazionale sia dall’internazionale dei pacifisti; la povertà si
espande; la morale si sgretola; la cultura si impoverisce. Eppure
grandi sono anche, al tempo stesso, le possibilità nuove che si aprono
per un pensiero ed una politica rinnovate.
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
287
Si tratta, in effetti, di porre le basi per un progetto dichiaratamente ambizioso, che sappia pensare le sfide della modernità senza
rifugiarsi nel passato delle radici, ma guardando al futuro che certo
è vitale solo se è consapevole della sua storia e delle sue tradizioni,
vitali solo perché continuamente rinnovate. Si pensi al ruolo della
città. L’aria della città rende liberi, si disse agli albori di questo fenomeno, del resto tipicamente italiano. Chi direbbe lo stesso oggi?
E invece si tratta proprio di ripensare la città per farne nuovamente
un luogo di libertà, non di disperazione, di emarginazione e di violenza. Non è vero, ha osservato giustamente Vittorio Gregotti, che
la città europea è immobile, essa è invece «in via di rapido deterioramento» e questo perché si è affermato una sorta di avanguardismo
estetico senza fondamenti. L’invenzione è necessaria, ma un’invenzione senza rapporto con le storie (al plurale) della città, dov’è il
senso della libertà ma anche il luogo di manifestazione della bellezza quale momento di comunitarizzazione della vita dei singoli,
un’invenzione semmai funzionale agli interessi privati è un regalo
fatto al degrado, favorito dal culto dell’esistente, che sembra avere
valore solo perché esiste. Il modo attuale di vedere i ‘beni culturali’,
anche per ciò che traspare dai codici in materia, è espressione di
una visione puramente contemplativa del bene stesso e della città,
fatti per converso strumenti di profitto (molto più avanzata, per quei
tempi, era la legge Bottai del 1939); si tratterebbe invece di rovesciare il rapporto tra oggetto e godimento, facendo della città un
luogo di esperienza concreta ed effettiva della bellezza, della funzionalità, della semplicità del vivere. È stato scritto che l’architettura è diventata oggi «essa stessa tutta decorazione transitoria
della società di massa»10; rispetto a questa architettura occorre che
questo specialismo rivendichi la sua autonomia e la sua dipendenza,
la sua autonomia dall’effimero e dal contingente e la sua dipendenza da un progetto, politico in senso ampio, di civiltà.
La politica ha oggi, proprio rispetto ad un tema come la ‘città’,
funzioni e còmpiti immani: la città non è soltanto, infatti, il luogo
dove si vive, ma è stata e dovrebbe tornare ad essere il simbolo, il
luogo di manifestazione e di espressione di una sostanza, che è il
modo d’essere di un popolo, che sul teatro della storia propone il
10
Vittorio Gregotti, Dentro l’architettura, Torino, Bollati, 1991, p. 63.
288
Agostino Carrino
suo proprio contributo all’arricchimento della cultura. Le città europee si assomigliano sempre più, come luoghi omologati del
degrado e della disperazione; occorre allora tentare di ridare ad ogni
città il suo proprio, unico ed ineguagliabile significato. Qui torna il
tema della diversità, delle cento città, di una tradizione tipicamente
italiana, che ha visto la bellezza rifrangersi in tanti specchi diversi.
E tornano i temi della differenza, della pluralità, della molteplicità,
del politeismo entro un’idea coerente di civiltà della convivenza.
Piacerebbe a molti tornare a ‘costruire’ città; si tratta di un’idea
seria, ma il problema, oggi, è prioritariamente quello di ridare senso
alle città che abbiamo. Anche da questo punto di vista, quindi, il
progetto di un federalismo delle differenze e delle responsabilità,
associato ad un presidenzialismo dallo sguardo fermo, coerente e
solidale, si rivela, a mio avviso, necessario per un rinnovamento
della politica italiana. «L’arte è la facoltà di creare il vero con riflessione», scriveva Aristotele. Potremmo parafrasare l’espressione
e dire che anche la politica è la facoltà di creare l’arte con l’azione.
L’autonomia della politica, infatti, deve essere rivendicata per farne
il luogo della creatività sociale e civile. La città è il luogo della politica, come dice il termine stesso. Vogliamo una nuova città
politica, una città della partecipazione e della responsabilità.
E tuttavia, la città politica, se non vuol restare nel limbo delle astrazioni impraticabili, deve fare i conti con il degrado della sua
“materia prima”, ovvero il popolo, che sempre più si disgrega in elementi qualitativamente sfaldati. Da parte di teorici della sinistra
estrema si parla con insistenza di “moltitudine” (Toni Negri) e finanche di “plebe” (Paolo Virno), da contrapporre ad un popolo
oramai incapce di essere il soggetto legittimante del potere costituente; a parte la vocazione “insurrezionale” di queste impostazioni,
che pretendono falsamente di individuare nelle “moltitudini” nuovi
soggetti politici11, esse colgono però un processo disgregativo della
nozione di “popolo”, senza il quale non v’è processo di legittimazione della sovranità né fondamento per una città democratica, per
11
«Nulla prova, tuttavia, che la moltitudine designa una nuova soggettività politica
al di là del popolo, piuttosto che una ricaduta della classe nella massa e del popolo
nella plebe»: così Daniel Bensaïd, Éloge de la politique profane, Paris, Albin Michel, 2008, p. 39.
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
289
una polis partecipata. Per questo il lavoro politico deve fare molto
sul tema dell’identità, che non è un’eventualità residua rispetto ad
altre possibilità, bensì proprio la condizione per un ritorno della politica, della vita civile, della partecipazione, della democrazia e
quindi della capacità di sentirsi elementi attivi di un tutto che non
calpesta il singolo, ma anzi lo esalta proprio nel momento in cui il
tutto – per esempio l’identità “nazionale”, ma potrebbe persino essere la “classe”, in ottiche diverse – rivendica diritti assoluti. In
definitiva, si tratta di immaginare una “città futura” che coniughi diritti del singolo e diritti della comunità, doveri del cittadino e
obblighi della collettività verso i suoi cittadini. Riconquistare la dignità al popolo in quanto tale mi pare, da questo punto di vista, la
via per garantire non soltanto le libertà dei singoli, ma anche per garantire quel minimo di “giustizia sociale” senza la quale non v’è
libertà possibile, ma diseguaglianza ingiusta e arbitraria, prevaricazione e disprezzo. È sufficiente, da questo punto di vista, rileggere
Hegel, semmai quel passo della Rechtsphilosophie dove parla appunto dello sfaldamento dell’elemento “popolo”: «Il decadere di
una grande massa al di sotto della misura d’un certo modo di sussistenza, il quale si regola da se stesso come il modo necessario per
un membro della società, – e con ciò il decadere alla perdita del
sentimento del diritto, della rettitudine e dell’onore di sussistere
mediante propria attività e lavoro, – genera la produzione della plebe, produzione che in pari tempo porta con sé d’altro lato una
maggior facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate»12. Mai come oggi questo brano appare vero, nel momento in
cui il mondo, l’Europa, l’Italia sembrano preda di brame onnivore
di impossessamento e di arricchimento senza freni, che calpestano
la dignità di popoli ed individui, nel momento in cui i poveri sono
sempre di più e sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi.
Questa ‘città futura’ sarà il luogo dove l’identità del popolo italiano (ma il discorso vale anche per altri popoli), riportato alla sua
dignità di popolo e non di plebe o di moltitudine, si dispiegherà nella sua molteplice e differenziata realtà, dove la diversità, ogni diversità, sarà apprezzata per quanto è in grado di portare di suo al rinHegel, Filosofia del diritto, trad. it. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza 20044, §
244, p. 188.
12
290
Agostino Carrino
novamento dell’identità italiana, all’essere e voler essere italiano, a
riconoscersi nella nostra storia e nel nostro progetto. Per questo non
si tratta di negare o reprimere identità culturali diverse dall’identità
‘tradizionalmente’ italiana; ciò che occorre è impedire che si costituiscano, per citare un politico italiano intelligente ed aperto come
Gianfranco Fini (Corriere della Sera, 25 ottobre 2006), «identità
culturali separate e chiuse», che minacciano «alla radice il pluralismo e la società aperta». Qui, personalmente, non penso soltanto al
fondamentalismo islamico, ma ad ogni fondamentalismo o integralismo che si chiude preliminarmente al dialogo con l’altro, alla
convivenza e al rispetto, che implicano l’accettazione di regole
condivise. Negli Stati Uniti i fondamentalisti evangelici vorrebbero
imporre nelle scuole l’insegnamento ai bambini e ai giovani del
creazionismo e l’idea che il mondo ha circa 7000 anni, quanti ne sarebbero passati dal giorno della creazione. Ci troviamo qui su un
livello analogo a quello delle pratiche di chi, richiamandosi al Corano (interpretato a modo proprio), pretende di poter picchiare
impunemente la moglie o di quei fondamentalisti ebrei che fanno
lavorare le mogli per passare il loro tempo a leggere il Talmud.
La laicità non è il laicismo, è la rivendicazione del civis romanus
sum, ovvero della rivendicazione della propria libertà che scaturisce
dall’accettazione degli obblighi che discendono dall’idea stessa di
cittadinanza. Un’idea di cittadinanza non burocratica, anagrafica, ma
intesa come consapevole rivendicazione di una appartenenza ad un
progetto di civiltà, entro il quale sia possibile essere cristiani, ebrei e
musulmani, ma anche buddisti e massoni, senza che questo significhi
altro che un reciproco arricchimento entro l’accettazione di regole
condivise, di un diritto vitale e vigente per tutti, ovvero di una sovranità politica restaurata nei privilegi necessari e civilizzatori della
governamentalità come bisogno di ogni civiltà e di ogni popolo.
I diritti appartengono ai singoli e solo gli individui possono essere titolari di diritti; ma anche soltanto i singoli possono essere
titolari di obblighi e di doveri. È in questo intreccio di obblighi e di
diritti che si individua non certo l’ipostatizzazione dei gruppi, che
diventerebbero soggetti di diritti ed obblighi, ma la sottolineatura di
qualità proprie di alcune persone rispetto ad altre; si pensi alle lingue minoritarie, il cui rispetto e la cui salvaguardia in Italia e in
Europa è momento di civiltà in senso forte, di contro ad una tradizione giacobina e violenta che volle invece uniformare il pensiero,
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
291
le idee, ed anche i comportamenti e le lingue. Anche qui la risposta
adeguata mi appare la prospettiva federalista, specialmente se il federalismo è inteso non soltanto come federalismo fiscale, ma anche
e sopra tutto come federalismo culturale; del resto la politica federalista, per citare un autore come Denis de Rougemont, «non è altro
che la politica pura, la politica per eccellenza»13.
Il federalismo è l’idea della libertà individuale entro un contesto
sociale e politico; significa riconoscere contemporaneamente l’individuo e la comunità e quindi ipotizzare una feconda contaminazione
di due opzioni che al momento l’ideologismo contemporaneo ritiene
ancora opposte. Il federalismo, in quest’ottica, pur senza sopravalutarne gli effetti, è lo strumento congruo a quell’idea di libertà rappresentata dalla nuova concezione della cittadinanza come riconoscimento e rivendicazione di libertà fondata sulla propria dignità. La
mia proposta di un federalismo come sintesi feconda e superamento
del clivage individuo/comunità è l’altra faccia dell’idea di un liberalismo politico e sociale (che metta quindi da parte l’apoliticità del
liberalismo tradizionale) capace di proiettarsi su un progetto di Europa custode, non matrigna e negatrice delle caratteristiche dei popoli,
delle nazioni e delle entità subnazionali.
In quest’ottica non nascondo tutti i miei dubbi, di natura storica
e politica, sul concetto di ‘nazione’, il cui uso specifico e particolare
nella politica degli ultimi duecento anni, a partire dalla Rivoluzione
francese, non ha evitato interpretazioni di tipo puramente esclusivista. Ora, se è indubbio che il concetto di cittadinanza non può
implicare nessuna visione universalistica, in quanto presuppone
qualità, caratteristiche, storie e dimensioni proiettate sull’orizzonte
proprio della determinatezza classica, essa si riallaccia al tempo
stesso ad un concetto di identità di cui non è possibile mettere da
parte l’evidente problematicità nel mondo contemporaneo, alle prese con mutamenti e processi di ridefinizione che impongono a tutti
di fare uno sforzo al di fuori delle idee tramandate, all’altezza di
sfide complesse che non a caso, per esempio, hanno messo in ombra il significato oramai superato dell’opposizione destra/sinistra.
Sono evidenti, oramai, delle vere e proprie patologie dell’identità,
che devono essere riconosciute per adeguarsi ad un concetto per
13
D. de Rougemont, Vita o morte dell’Europa, Milano, Comunità, 1949, p. 60.
292
Agostino Carrino
l’appunto problematico di identità, che sia in grado non soltanto di
escludere – com’è stato in passato ed è ancora nel concetto negativo
di identità –, ma anche di includere, al fine di determinare contaminazioni feconde e vitali.
Come ha osservato Alain de Benoist, «le patologie dell’identità,
purtroppo, hanno sicuramente un futuro nel mondo attuale. La globalizzazione suscita affermazioni identitarie convulsive, parossistiche,
che sono altrettante reazioni contro una minaccia di uniformazione
planetaria. Omogeneizzazione del mondo e ripiegamento etnocentrico vanno di pari passo. Si generano e si confortano reciprocamente,
con logiche inverse, ma strettamente dipendenti l’una dall’altra»14. Si
tratta per l’appunto di rompere questo intreccio perverso, cosa non
facile. Qui serve certamente l’Europa, un’Europa che nel rispetto delle identità dei popoli che la compongono osi un dialogo con le altre
parti del mondo per un rapporto di reciproca utilità (penso qui al tema
dei flussi migratori, che devono essere regolati da entrambe le parti).
In definitiva, nella crisi complessiva che attanaglia il mondo della
globalizzazione, l’Europa burocratizzata, l’Italia della politica debole,
si evidenzia un bisogno di modernità e di rinnovamento dei concetti e
delle categorie. La politica ha un futuro a patto di accettare queste
sfide e di rispondere con un progetto adeguato a queste sfide, un progetto che, all’altezza della complessità di quella che è stata definita
una “seconda modernità”, sappia coniugare con rinnovata efficienza
due concetti che non si contrappongono, bensì si richiamano, la tendenza all’unità e dentro questa il rispetto delle differenze e delle
pluralità locali, una visione contemporaneamente unitaria e decentrata in senso autonomistico dello Stato. Una politica seriamente federalista, al di là delle terminologie, spesso fallaci o imprecise.
2. Stato unitario e federalismo
Se in Italia il dibattito sul federalismo, dopo una breve ripresa di interesse nel secondo dopoguerra15, da un lato impone ripensamenti e
autocritiche sulla spaventosa carenza di riflessione scientifica sul
14
A. de Benoist, Identità e comunità, Napoli, Guida, 2005, p. 71.
Cfr. N. Bobbio, Federalismo vecchio e nuovo, 1945, in Id., Tra due repubbliche.
Alle origini della democrazia italiana, Roma, Donzelli, 1996, pp. 15 ss.
15
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
293
tema (o, meglio, sui temi sia teoretici sia storici16, posti dal federalismo e dalle forme dello Stato federale), producendo frutti di differenti livello, prospettiva, intenzione, dall’altro assume toni e colori
sempre piú variopinti e fantasiosi, che fanno ancor piú risaltare la
differenza con altre esperienze storico-culturali, dove questo tema
viene trattato con la competenza e la serietà dovute ad un problema
strettamente connesso con il futuro dello Stato costituzionale e democratico, ma anche studiato con lo scetticismo dovuto e la
consapevolezza necessaria della ambiguità e della polivalenza del
problema ‘federalismo’, che se in origine segnala una procedura,
ovvero un rito di origine indo-europea di cui si hanno tracce già nel
territorio dell’antico Lazio, sembra oggi essere diventato, specialmente in certe aree, quasi soltanto un termine polemico e di scontro
politico contingente, nel quale si è del tutto dimenticata quello che
Michael Walzer ha addirittura definito il “programma eroico” del
federalismo17. Il federalismo moderno nasce come una sfida, teorica
e istituzionale, tesa a progettare un sistema di forte governo centrale
a partire dall’esistenza di una pluralità di entità politiche territorialmente “minori”; è questa la genesi, com’è noto, del federalismo
degli Stati Uniti d’America (“e pluribus unum”)18.
16
A tal proposito segnalo qui l’utile antologia storica curata da Claudia Petraccone, Federalismo e autonomia in Italia dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1995,
pp. 337. Il volume raccoglie, commentati, scritti sulle problematiche dello Stato
italiano dall’unità ad oggi, ovvero da Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari alle discussioni recenti sul federalismo fiscale e si segnala per una sua utilità anche
didattica. Un accenno merita anche l’agile ricostruzione storico-teorica di A. Danese, Il federalismo. Cenni storici e implicazioni politiche, con scritti di M.L. Bassi e
S. Ceccanti e un’intervista ad Alexander Marc a cura di C. Maniaci, Roma, Città
Nuova, 1995, pp. 207.
17
M. Walzer, Sulla tolleranza, trad. it. di R. Rini, Roma, Laterza, 1998, p. 31. ‘Eroico’, scrive Walzer, «giacché mira a mantenere la coesistenza di tipo imperiale
senza i relativi burocrati e senza la distanza che ne ha fatto degli amministratori piú
o meno imparziali».
18
Nella storia delle istituzioni politiche moderne il termine ‘federalismo’ è associato, innanzi tutto, alle vicende degli Stati Uniti e all’attività politica di quei
giuristi e uomini politici che scrissero poi ‘Il federalista’ a difesa della Costituzione federale degli USA. Tra questi, in primis, Madison, principale autore di quella
teoria che chiamiamo federalismo e che consiste nel razionalizzare «una grande
repubblica dinanzi all’idea prevalente che soltanto i piccoli Stati potessero funzionare; era una teoria che giustificava un forte governo centrale dinanzi alle paure di
294
Agostino Carrino
Naturalmente, non è un caso che esempi della serietà scientifica di
cui dicevo siano numerosi nell’area culturale tedesca, dove il processo di unificazione nazionale, a differenza della Francia e dell’Italia, si
è svolto sui binari del federalismo, sia pure di tipo ‘egemonico’19,
ovvero della formazione di uno Stato federale, il quale, è bene dirlo
súbito, è soltanto una forma dello Stato unitario. Si pensi, per comprendere a pieno questa peculiarità, che in fondo la stessa “dottrina
generale dello Stato” nasce come disciplina scientifica ed accademica
proprio in riferimento ai problemi posti dalla formazione del Reich
tedesco dopo il 1871. Persino il tema oggi tanto discusso, dopo Maastricht, della sussidiarietà trova antecedenti proprio nella Allgemeine
Staatslehre di uno dei massimi esponenti, della scienza giuspubblicistica moderna, Georg Jellinek20.
Se si vuole contribuire, in qualche misura, a far chiarezza sulla
questione degli ordinamenti federali, occorre, preliminarmente, segnalare due caratteristiche di fondo: innanzi tutto, il fatto che nessun
federalismo teorico è ‘puro’, ‘unico giusto’ ecc. e che in realtà l’essenza della soluzione federalista – ove adottabile e adottata – risiede
nella flessibilità della struttura istituzionale, nella capacità di trasformazione della compagine costituzionale21. Federalismo e ‘Verfassungswandlung’ si presentano, in questa prospettiva, come concetti
simbiotici. Ed ancora, che, data la flessibilità degli ordinamenti federali, essi o sono mutevoli o non sono, proprio come un ordinamento
molti Stati che il potere centrale significasse tirannia» (S. Elkins & E. McKitrick,
The Age of Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, New York, Oxford, 1993, p. 83)
19
Sullo Stato federale egemonico, come formatosi con il II Reich tedesco (18701919), a egemonia politica e costituzionale della Prussia cfr. P. Pernthaler, Allgemeine Staatslehre und Verfassungslehre, Springer, Wien-New York, 1986, p. 432.
20
Cfr. G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, Berlin, Verlag von Härig, 1913, pp.
259 e 263. Su Jellinek cfr. ora S.L. Paulson und M. Schulte (Hrsg.), Georg Jellinek
– Beiträge zu Leben und Werk, Tübingen, Mohr, 2000.
21
Come ha scritto Peter Häberle, Die Schlußphase der Verfassungsbewegung in
den neuen Bundesländern, (1992/93), in Id., Das Grundgesetz zwischen Verfassungsrecht und Verfassungspolitik, Baden-Baden, Nomos Verlag, 1996, p. 391,
«ogni Stato federale si legittima unicamente a partire dalla unità e pluralità della
cultura, dalla omogeneità e pluralità, dalla identità e differenza. Perciò la sovranità
della cultura è la “riserva” delle regioni, dei cantoni, perciò in Germania la concorrenza delle singole politiche culturali è espressione dell’“élan vital” del federalismo».
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
295
unitario è spesso (anche se non sempre) un ordinamento ‘rigido’. La
mutevolezza o flessibilità dell’ordinamento federale è la conseguenza
della dialettica tra i due poli che caratterizzano la scelta federalistica,
ovvero l’unità e la diversità22, o anche, come si suole dire, l’omogeneità e la differenziazione23; i sistemi federali sono sistemi ‘di equilibrio’, necessariamente instabili e quindi bisognosi di continui
aggiustamenti. Poiché la scelta è la mediazione tra unità e diversità,
nella necessaria salvaguardia di entrambi24, e poiché nessuna scelta
politica nei vari campi di intervento giuridico può mai essere sempre
totalmente equidistante, di volta in volta il sistema federale pretende
nuovi interventi per cosí dire ‘riparatori’ di uno dei principi-base violati dalla scelta effettuata. Il sistema federale è per sua natura un
sistema ‘dinamico’25, che vive programmaticamente nella storia e
nelle sue trasformazioni, e ciò sopra tutto dopo le esperienze complesse che gli ordinamenti federali hanno dovuto subire.
Questa dinamicità dell’ordinamento federale – dove, tra l’altro,
ciò che sempre piú assume il ruolo prevalente è la componente ‘funzionalistica’ del sistema, cioè l’aspetto teleologico e non strutturale,
22
Come è stato osservato dal massimo esperto internazionale di federalismo e suo
ardente sostenitore, lo scopo di ogni sistema federale è quello di creare e di conservare “simultaneamente” unità e diversità: D. Elazar, Exploring Federalism,
Tuscaloosa, The University of Alabama Press, 1987, p. 64 (trad. it. a cura di L.M.
Bassani: Idee e forme del federalismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, p. 53).
Cfr. anche R.O. Schultze, Föderalismus als Alternative? Überlegungen zur territorialen Reorganisation von Herrschaft, in “Z. Parl.”, 1990, pp. 475 ss., 476 ss. Sul
punto sono però da vedere anche le dense pagine di D. de Rougemont, L’uno e il
diverso. Per una nuova definizione del federalismo, a cura di G. Goisis, Roma, Edizioni Lavoro, 1995.
23
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, 1928, pp. 370 ss.; F. Ermacora, Über das Wesen des österreichischen Bundesstaates in Theorie und Praxis, “JBl”, 1957, pp.
522 ss.; P. Pernthaler, Lo stato federale differenziato. Fondamenti teorici, conseguenze pratiche ed ambiti applicativi nella riforma del sistema federale austriaco,
trad. it. di F. Palermo, Bologna, Il Mulino, 1998.
24
È palese che se venisse data la preferenza al valore dell’unità il sistema politicogiuridico diventerebbe centralistico, cosí come la scelta per la diversità pretenderebbe la secessione o comunque la separazione radicale in piú Stati.
25
Fondamentale, in proposito, A. Benz, Föderalismus als dynamisches Konzept:
Zentralisierung und Dezentralisierung im föderativen Staat, Opladen, Westdt. Verlag, 1985; vedi anche M. Bothe, Föderalismus – Ein Konzept im Geschichtlichen
Wandel, in T. Evers (Hrsg.), Chancen des Föderalismus in Deutschland und Europa, cit., pp. 19-31.
296
Agostino Carrino
che fa saltare vecchie impostazioni teoretiche normativistiche e strutturalistiche – è basata sul fatto che il federalismo è in definitiva,
com’è stato detto, “a question of degree”26 e sempre un equilibrio tra
forze integrative (centripete) e disgregative (centrifughe ovvero ‘secessioniste’).
Già il carattere della flessibilità segnala il fatto che un sistema federale non può sopravvivere se non sul presupposto di una radicata
cultura democratica e di un livello alto di educazione generale, sicché
un federalismo adeguato, ancor prima che “cooperativo”, “solidale”,
“fiduciario”, deve essere culturale. Intendo per “federalismo culturale” un federalismo che ridia centralità e primato alla politica e quindi
ad una democrazia organica contro la presunta democrazia “dell’efficienza”, cui oggi si richiamano, per esempio, i teorici dell’autolegittimazione delle “autorità amministrative indipendenti”27. Il federalismo non è ‘cosmopolitismo’, ma non è nemmeno particolarismo
26
Cosí A.W. MacMahon, Federalism – Mature and Emergent, Garden City, 1955,
p. 4.
27
Chi ha cercato infatti di razionalizzare entro il sistema giuridico il fenomeno delle autorità amministrative indipendenti ha elaborato una categoria, quella della
democrazia dell’efficienza, che vorrebbe in qualche modo e misura dare risposta al
dubbio che le AAI rappresentino una violazione della democrazia e della sovranità
popolare. La democrazia dell’efficienza è la autolegittimazione che questi nuovi
poteri si danno direttamente nei confronti del corpo elettorale in base alla capacità
di dare soluzioni a questioni tecniche e amministrative che coinvolgono direttamente i cittadini-utenti (servizi di comunicazione, finanziari, tutela della privacy
ecc.). Si tratta, com’è stato osservato, di un «passaggio da sistemi istituzionali di
governo, prevalentemente fondati sulle istituzioni della rappresentanza (partiti e
parlamenti) e orientati alla centralità delle funzioni di inputs, a sistemi di governo
orientati alla rivalutazione di modalità d’azione più orientate all’efficienza e
all’efficacia degli outputs» (G. Giraudi/M.S. Righettini, Le autorità amministrative
indipendenti, Roma, Laterza, 2001, p. 202). Il tema dell’efficienza non è in verità
un tema neutro, nel senso che l’efficienza è una variabile dipendente: la si può sacrificare in nome di altri principi o valori, la si può, sempre in nome di questi altri
principi o valori, porre al primo posto. In altri termini, il posto dell’efficienza dipende da una scelta politica e quindi là dove la politica è debole l’efficienza si
impone essa stessa come valore, sacrificando il principio della sovranità popolare.
Ciò vuol dire che il nuovo rapporto tra politica e amministrazione dipende dalla
politica e non da astratti primati dell’elemento tecnico, amministrativo, presunto
“imparziale”. Nelle cose umane non v’è nulla di imparziale, ma tutto è soggetto a
scelte e decisioni. Non a caso le stesse “autorithies” andrebbero finalmente ripensate entro una riforma complessiva della struttura e della forma dello Stato.
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
297
ed oggi una prospettiva di associazione esige, per l’appunto, una coscienza civica elevata, ovvero anche (e forse sopra tutto), una
strutturazione giuridica consapevole delle mediazioni istituzionali,
cioè delle strutture politiche che devono organizzare in senso teleologico gli strumenti adeguati a far fronte ai processi piú recenti, sia in
campo economico (penso qui al fenomeno della cosí detta ‘globalizzazione’) sia nell’àmbito della traduzione istituzionale delle esigenze
di valore che si pongono in qualunque forma di convivenza umana.
La necessità di una riflessione teorico-giuridica discende proprio dal
fatto che il terreno giuridico si pone come il terreno centrale della riflessione sul federalismo, che, quale che sia la sua origine (ideologica, filosofica, politica, economica), alla fine può esser soltanto un
istituto giuridico, la Confederazione di Stati (Staatenbund) o lo Stato
federale (Bundesstaat, Eidgenossenschaft, Commonwealth o come si
voglia chiamare questa struttura giuridica), concetti che a mio avviso
conservano un significato non ostante il rifiuto che molti operano,
oggi, della distinzione tra Stato federale e Confederazione, sostanzialmente bollata quale mascheramento di un approccio pregiudiziale
a favore dello Stato unitario28, dimostrando cosí una confusione
(spesso voluta) e ignorando che Stato federale e Confederazione di
Stati sono sempre forme dello Stato moderno, il quale è per sua natura e tendenza uno Stato unitario.
Questo carattere di flessibilità degli ordinamenti federali segnala
un dato importante in ogni riflessione seria sul problema, ovverosia
la impossibilità di una costruzione artificiosa di uno Stato federale
(come, del resto, di ogni istituzione), un dato che va tenuto in particolare considerazione per quanto riguarda il caso italiano, dove le
richieste di federalismo non riescono a trovare un autentico fondamento di legittimazione, oscillando tra “patrie padane” e richiami
pseudo-moralistici alla corruzione “romana” (la corruzione, in Italia, è un fenomeno che, purtroppo, non conosce barriere regionali).
Il dilemma ‘ragione-storia’ si presenta in forma drammatica per
quanto riguarda il discorso federalistico: il federalismo nasce su
presupposti storici forti, carichi di esperienza concreta, e non da di-
28
Obbligatorio, a questo proposito, il rinvio al classico lavoro di L. Le Fur, État
fédéral et Confédération d’États, Paris, Marchal et Billard, 1896.
298
Agostino Carrino
scussioni astratte condotte a tavolino29; nasce, per fare un esempio
su grande scala, ovvero quella della prospettiva dell’integrazione
europea, dalla tragedia che Francia e Germania hanno vissuto per
piú volte nell’arco di meno di un secolo, dalla guerra francoprussiana del 1870 alla seconda guerra mondiale. Non è un caso che
dopo gli entusiasmi degli anni Ottanta e Novanta il progetto di
un’Europa ‘carolingia’ si stia raffreddando, forse anche per lo sbiadirsi dei ricordi della seconda guerra mondiale. Comunque, solo
dopo che i popoli sono stati toccati a fondo nella propria carne il
problema del federalismo assume i toni che ha assunto in, e tra,
questi due Paesi negli ultimi anni30.
Ma l’esigenza federale è anche il risultato di convenienze storiche a lungo saggiate nell’esperienza dei popoli, pur senza che
questa abbia mai assunto la dimensione del dramma o della tragedia. Una cosa però è certa, cioè che queste ‘convenienze’ non sono
mai – né possono esserlo – delle convenienze puramente economiche, che possono esserci oggi e non piú domani pur restando tutto il
resto immutato (a parte il fatto che l’interesse economico, nei sistemi capitalistici, è raramente ‘centrifugo’, ma tende piuttosto alla
unificazione dei mercati ed è quindi di regola anti-federalistico,
come dimostra, tra l’altro, la storia del ‘modello federalistico per
eccellenza’, gli Stati Uniti d’America31). Il federalismo è invece
sempre il risultato di esigenze culturali, connesse in particolare alla
29
Penso qui alle artificiose costruzioni in Italia prima delle regioni stesse, escogitate nell’Ottocento senza una vera e propria corrispondenza alla realtà socioculturale delle popolazioni locali, poi delle cd. ‘macro-regioni’, funzionali non tanto ad un processo di rinnovamento autonomistico, quanto alla destrutturazione
dello Stato unitario. Le “macro-regioni” possono avere un senso, però, se poste entro un progetto di rinnovamento e di semplificazione complessivo, che vada oltre
l’art. 114 Cost. attualmente vigente dopo la riforma del 2001. L’appello alla soluzione federalistica, vista spesso come una panacea di tutti i mali possibili, si va
però diffondendo: cfr., ad esempio, il saggio di Yan Jiaqi, China’s national minorities and federalism, in “Dissent”, Summer 1996, pp. 139 ss.
30
Significativo, a questo proposito, l’iter di un intellettuale come Jünger, approdato, dai terreni del nazionalismo, ai lidi dello ‘Stato universale’: cfr. E. Jünger , Lo
Stato mondiale, trad. it. di Q. Principe, Parma, Guanda, 1998.
31
Vedi il saggio sul fallimento del federalismo americano, nel volume curato da J.
Kramer, di M. Rosenfeld, The Failures of Federalism in the United States, pp.
247-265.
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
299
consapevolezza della propria tradizione (di lingua, di costumi, di
tradizioni): «il federalismo è “federalismo culturale” o non è», scrive Peter Häberle nel suo saggio dedicato al caso tedesco32. La
cultura – non l’economia (come insensatamente si sostiene in Italia33) – è il fondamento di una eventuale scelta federalista. Dal
punto di vista dell’economia la prospettiva federalista non ha fondamento né futuro, in quanto i processi di globalizzazione e uniformizzazione economici richiedono ad esempio con sempre maggior
forza (e razionalità) una legislazione comune, unitaria e, sopra tutto,
unificante. Qui è istruttivo l’esempio (e il fallimento) del federalismo americano, dove appunto il criterio della efficienza (calcolo
costi-profitti) del mercato ha portato alla eliminazione di tutti gli ostacoli locali o regionali, e spesso di tradizioni culturali specifiche.
Come scrive Michel Rosenfeld: «(…) sembra intuitivamente vero
che se la creazione e la conservazione del mercato economico nazionale piú efficiente possibile sono le preoccupazioni fondamentali
del Governo, sarebbe necessario creare e mantenere una uniformità
di condizioni nel Paese che richiederebbe un livellamento di tutte le
differenze locali e regionali. Cosí, i poteri tradizionali dello Stato su
questioni come la regolazione dei rapporti interni delle imprese, dei
rapporti di lavoro, della protezione dei consumatori, della responsabilità civile, della ‘product liability’ e persino del diritto criminale,
32
P. Häberle, Die Entwicklung des Föderalismus in Deutschland - Insbesondere
in der Phase der Vereinigung, in Jutta Kramer (Hrsg.), Föderalismus zwischen
Integration und Sezession. Chancen und Risiken bundesstaatlicher Ordnung, cit.,
p. 213. Nella ricca produzione di Häberle cfr., sul tema, anche i saggi raccolti in
Id., Das Grundgesetz zwischen Verfassungsrecht und Verfassungspolitik, BadenBaden, Nomos Verlag, 1996. In senso analogo anche, tra gli altri, G. Miglio, Ex
uno plures, in “Limes”, 1993/4, p. 177: «La base di aggregazione di questo assetto
neofederale sarà di carattere culturale. Sarà soprattutto una scelta di civiltà a tenere
insieme le aggregazioni umane del futuro. Il modo di stare insieme […] è culturale,
non è razziale. La razza è un’eredità del vecchio nazionalismo. Non è il colore della pelle a decidere dello stare insieme o del dividersi. È la comune civiltà, il modo
di comportarsi, di vivere, di mangiare…».
33
Non è solo oggi che ciò avviene; già alla fine dell’Ottocento settori politicoeconomici lombardi sostennero soluzioni federalistiche (se non separatiste) sulla
base di ragionamenti economici: cfr. sul punto i testi raccolti nel volume curato da
Claudia Petraccone.
300
Agostino Carrino
dovrebbero essere eliminati in quanto ostacoli al raggiungimento di
una completa uniformità delle condizioni di mercato»34.
Se il criterio dell’efficienza può apparire un criterio non necessariamente corrispondente alle esigenze della cultura, e quindi valere
contro lo Stato unitario, quest’ultimo rivela invece la sua propensione
‘progressiva’ in settori e questioni di grande rilievo, come ad esempio la protezione delle minoranze, che appaiono garantite dallo Stato
federale solo quando esse si presentano in spazi omogenei e chiaramente determinabili, ma che invece possono trovare un punto di
riferimento ed una salvaguardia proprio nello Stato unitario (nella
Federazione, nel ‘Governo centrale’) tutte le volte che si tratta di minoranze disperse sul territorio (come nel caso dei neri degli Stati
Uniti d’America). Ma anche là dove le minoranze sono disperse e
diffuse il federalismo può assolvere alla sua funzione se vi sono ragioni storiche decisive ed una forte realtà empirica a fondamento
della scelta federalistica; si pensi, qui, all’Impero absburgico, con le
sue moltitudini di lingue, religioni, popoli e ciò, quindi, anche in
mancanza di una struttura democratica come la intendiamo noi oggi35.
Ciò che però è essenziale per un funzionamento reale di uno Stato
federale è che la scelta federale sia di tipo, come si dice, ‘cooperativistico’, secondo il modello della Repubblica Federale Tedesca o anche
dell’Austria36 – ma un precedente significativo e poco considerato è
la legge sul commercio degli Stati Uniti d’America37 –, anche se
un’analisi disincantata dei processi reali degli Stati federali rivela con
chiarezza che anche il cosí detto federalismo cooperativo deve cedere
34
M. Rosenfeld, The Failures of Federalism in the United States, cit., p. 262.
Cfr. R.A. Kann, Die Habsburger Monarchie und das Problem des übernationalen Staates, in A. Wandruska und P. Urbanitsch (Hrsg.), Die Habsburger
Monarchie 1848-1918, Wien, 1975, pp. 33 ss.
36
Sul federalismo cooperativo austriaco cfr. P. Pernthaler, Bundesstaatsreform als
kooperativer Einigungsvorgang. Die “Forderungsprogramme der österreichischen
Bunteilung in Österreich, in B.-C. Funk/J. Marko/P. Pernthaler (Hrsgg.), Die innerstaatliche Umsetzung der Vergaberichtlinien der EG, Wien, 1992, pp. 47 ss.;
K. Weber, Österreichs kooperativer Föderalismus am Weg in die Europäische Integration, in J. Hengstschläger u.a. (Hrsgg.), Für Staat und Recht. Festschrift für
Herbert Schambeck, Berlin, Duncker & Humblot, 1994, pp. 1041 ss.
37
Cfr. E.S. Corwin, La costituzione degli Stati Uniti nella realtà odierna, trad. it. a
cura di R. Oriani, Pisa, Nistri-Lischi, 1959, pp. 53 ss.
35
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
301
il passo alle svolte della storia, com’è accaduto con il passaggio a
quello che Peter Häberle ha definito il federalismo “fiduciario”38,
conseguenza del processo di riunificazione tedesca. D’altro canto non
è possibile ignorare che il federalismo cooperativo trova la sua legittimazione in una situazione di disparità (economica, sociale,
culturale) che può essere superata soltanto con strumenti di fatto disomogenei rispetto all’idea federalista originaria. È infatti inevitabile
che la politica del ‘cooperativismo’ federalista esalti alla lunga il ruolo del centro rispetto alla periferia, rompendo la dialettica
omogeneità/differenziazione tutta a favore del primo aspetto, con
conseguenze rilevanti anche sulla costituzione economica dello ‘Stato federale’ nel suo insieme. Ha osservato a questo proposito
Pernthaler: «Le procedure di compensazione e conciliazione a livello
politico e costituzionale hanno (…) prodotto una forte tendenza
all’unificazione e all’accentramento e quindi alla compressione e ad
un progressivo svuotamento del pluralismo dello Stato federale»39. È
tuttavia significativo che lo stesso Autore, poco dopo, proprio sul tema del federalismo cooperativo, pur sottolineandone anch’egli gli
aspetti centralistici, ne evidenzi una possibile dimensione favorevole
alle autonomie quando la cooperazione parta dal basso e non venga
imposta – in via autoritativa – dall’alto, ovvero quando attraverso
l’impiego di strumenti di diritto privato si realizzi una coordinazione
tra le differenti Regioni o Länder40.
La verità è che se, da un lato, la cultura, nei suoi slanci piú ideali
ed anche utopici, sembra esigere una prospettiva federalistica, che
vorrebbe significare multiformità, pluralismo (pluralità), rispetto
della ‘diversità’, la realtà richiede unitarietà della scelta, centralizzazione della decisione, nel rispetto delle competenze costituzionalmente stabilite e di una autentica (possibile) divisione delle funzioni
(per intenderci: una magistratura che non abbia la necessità di supplire, con effetti a volte perversi, alle carenze del potere legislativo
ed esecutivo) che non sia alibi per l’insorgere di quelle che Min-
38
Cfr. L.M. Bassani e. a., I concetti del federalismo, Milano, Giuffrè, 1995, pp.
200-1.
39
P. Pernthaler, Lo stato federale differenziato, cit., p. 38.
40
Cfr. ivi, p. 83.
302
Agostino Carrino
ghetti chiamava le «ire borghigiane»41, determinate dalla ristrettezza degli argomenti e da tutto ciò che di negativo v’è nel mero
provincialismo ammantato di autonomismo.
In questa consapevolezza, che si sbarazza facilmente delle ipotesi di passaggio da uno Stato unitario ad uno federale, sottolineando
come questi passaggi o sono gattopardismi o anticamere della separazione (secessione o espulsione che sia, come dimostrerà prima o
poi il tanto – a torto – ammirato caso belga42, che certamente non è
paragonabile, per la sua estrema artificialità genetica, al caso italiano), emerge il problema autentico degli Stati europei d’oggi, quello
di una decentralizzazione delle competenze che avvicini di fatto il
momento decisionale alle realtà esistenti, purché queste realtà vengano individuate come tali, cioè riconosciute e non escogitate o
inventate. Cosí il decentramento autonomistico italiano dovrebbe
partire innanzitutto dalla tradizione municipalista che è la forza della nazione italiana, rinnovando poi, su strade diverse da quelle percorse finora, l’esperimento finora sostanzialmente (a mio avviso)
negativo43 delle Regioni, notoriamente enti (assai spesso) inutili (se
non dannosi), facendone delle realtà giuridiche e politico-culturali
conformi al loro retaggio storico44 e rispondenti alle esigenze concrete dei cittadini, di sensibilizzazione politica e di responsabiliz41
M. Minghetti, I partiti politici, (1882), ristampa Napoli, Esi, 1996, p. 249.
Sui reali rischi di disgregazione di questo Stato, frutto di un freddo calcolo e
modello del capitalismo della prima metà dell’Ottocento, cfr. D. Schümer, Das Gefühl, vom eigenen Staat betrogen zu werden, in “Frankfurter Allgemeine Zeitung”,
28 September 1996. Sulle vicende del Belgio, dallo “Stato unitario centralizzato”
allo “Stato unitario composto” cfr. le accurate ricostruzioni, con risvolti teoretici
significativi, di R. Bifulco, La cooperazione nello Stato unitario composto. Le relazioni intergovernative di Belgio, Italia, Repubblica Federale di Germania e
Spagna nell’Unione Europea, Padova, Cedam, 1995, pp. 123 ss.
43
L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, se da un lato veniva effettuata in
ossequio al dettato costituzionale, dall’altro, per il quadro politico complessivo nel
quale sono state inserite, ha di fatto soltanto moltiplicato le disfunzioni del ‘centro’, ovvero gli apparati burocratici. Qui va detto che il ‘federalismo’, se deve
avere un senso, va inteso innanzi tutto come idea nuova di governo, cioè idea di un
governo di per sé più leggero a tutti i livelli.
44
Rinvio, a questo proposito, all’importante lavoro di R. D. Putnam, La tradizione
civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993, fondato sulla distinzione
tra “capitale economico” e “capitale sociale”, un concetto tornato all’attenzione
degli osservatori dopo la campagna elettorale che ha visto la vittoria di Obama.
42
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
303
zazione del potere centrale (statale)45. Da questo punto di vista
l’Europa delle regioni dev’essere l’altra faccia delle macro-regioni,
che a mio avviso dovrebbero portare ad una abrogazione delle città
metropolitane (anche se fino ad oggi non ancora istituite), ad un ripensamento dell’ente Provincia (che potrebbe continuare a
funzionare in una dimensione territoriale più ampia di quella attualmente prevista, quindi con una riduzione consistente del loro numero) e al riconoscimento del ruolo centrale – in una politica ispirata
realmente al principio di sussidiarietà – che devono svolgere i Comuni, in una prospettiva attenta alle necessità e ai bisogni concreti,
di sviluppo e di ricchezza, delle singole realtà municipali. Un dinamismo pluralistico a due direzioni, per cosí dire, dal basso verso
l’alto e dall’alto verso il basso. Probabilmente, queste nuove province potrebbero essere esse le unità di base – le nuove regioni –
dell’Unione Europea, appunto se non si vuole irrigidire la realtà storico-spirituale in forme giuridiche astratte e dogmatizzate, ma dare
spazio anche ad una dialettica diritto-realtà sociale della quale si
avverte sempre piú l’esigenza.
In quest’ottica, che potrebbe essere rivoluzionaria in quanto aperta a nuove possibilità, oltre la diatriba federalismo sì/federalismo
no, senza nemmeno sapere bene cosa sia il federalismo, un ruolo
assume una riflessione sul principio di sussidiarietà, in particolare
sul principio di sussidiarietà solidaristico-comunitario, sia pure corretto, che da Aristotele a Tommaso arriva ad Altusio e alla dottrina
sociale della Chiesa46, un’idea di sussidiarietà opposta a quella in45
Una valutazione del sistema delle autonomie locali del nostro ordinamento in
questo senso in C. Mortati, La persona, lo Stato e le comunità intermedie, Torino,
Edizioni Radio Italiana, 1959, p. 141: «Comuni, Provincie e Regioni sono da apprezzare quali parti preminenti nel sistema delle controforze sociali che
circoscrivono il potere dello Stato togliendogli quella onnipotenza che potrebbe
condurre ad opprimere le libertà dei cittadini, e nello stesso tempo si pongono come tre stadi offerti alla progressiva espansione della coscienza del cittadino ed alla
comprensione delle esigenze via via più complesse della vita associata».
46
In particolare, deve essere sottolineato il testo dell’Enciclica là dove si legge che
«l’autorità suprema dello Stato» deve rimettere «ad associazioni minori ed inferiori
il disbrigo degli affari e delle cure di minore momento» (Lettera Encliclica Quadragesimo Anno, Torino, 1991, p. 28), affinché essa, ovvero l’autorità suprema
dello Stato possa eseguire «con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a
lei solo spettano, perché essa solo può compierle, di direzione, cioè, di vigilanza, di
304
Agostino Carrino
dividualistico-libertaria, che si limita ad impedire l’intervento dello
Stato.
In una prospettiva politica realistica la riflessione sul federalismo si rivela ovviamente necessaria, sulla base preliminare di una
conoscenza obiettiva del significato storico-teorico del termine e
delle concrete esperienze storiche, dove di regola il federalismo si è
anche associato a forme di egemonia ovvero di ‘Stati dominanti’ o
meglio ‘dirigenti’47. Questa prospettiva realista relativa al federalismo deve tornare ad essere quella dominante, non perché il
federalismo in senso ideologico-morale non abbia un suo valore,
quanto perché esso non riesce a mio avviso ad ergersi al di sopra di
una prospettiva ottativa, restando incapace di prospettare una concreta struttura istituzionale. Chi voglia avere un’idea di questi
“federalismi” moraleggianti può leggere il volume su I concetti del
federalismo, curato da alcuni studiosi della problematica federalistica48.
Si tratta di un volume, pubblicato alcuni anni fa, strutturato in una
raccolta di concetti esemplificati e discussi di regola attraverso citazioni di autori in un autentico progetto culturale a sostegno del
federalismo, visto come contraltare dello Stato moderno. Il federalismo, qui, è l’altro dalla sovranità moderna, sicché esso non deve
essere confuso con lo Stato federale, che resta innanzi tutto Stato
moderno, e quindi tendenzialmente centralizzatore. La crisi di
quest’ultimo, ad avviso degli autori del volume, alimenta il federalismo, che nulla ha a che fare con concetti quali ‘Stato regionale’,
‘Stato delle autonomie’ e via dicendo, essendo in realtà la sostanza
stessa della vita politica in quanto tale. È difficile dar conto in dettaglio di questo volume, la cui utilità ed originalità gettano ombra sulle
perplessità suscitate dal progetto teorico, come si può facilmente intuire da tutto ciò che si è detto fin qui. Si rafforza in chi scrive, ad
ogni buon conto, l’idea che, non ostante accenni di realismo politico,
incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità».
47
Sul fenomeno rinvio al noto volume di H. Triepel, Hegemonie. Ein Buch von führenden Staaten, Stuttgart, 1938, trad. it. di G. Battino: L’egemonia, Firenze,
Sansoni, 1949, che si sofferma in particolare sul ruolo della Prussia nel processo di
unificazione tedesca e successivamente, dal 1871 al 1918.
48
L.M Bassani, W. Stewart, A. Vitale, I concetti del federalismo, Milano, Giuffrè,
1995, pp. 562.
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
305
il federalismo – eccezion fatta per il significato originario, di natura
militare49 – resta una nebulosa vaga, un termine polisenso, dai risvolti
utopici, dietro il quale tutto è dicibile e nulla è definibile con esattezza: si leggano a questo proposito, in un altro libro, le considerazioni
di un sostenitore del federalismo personalista e integrale, quale Alexandre Marc, dove pare a volte di trovarsi dinanzi ad un’anima bella,
più che a un teorico coerente50. Il lettore ha comunque, in questo testo, la possibilità di rendersi conto ictu oculi delle tante stramberie e
fumisterie che dietro il termine ‘federalismo’ possono nascondersi
(specialmente nella letteratura americana): si leggano, a mo’ d’esempio, tra tante altre, le voci “federalismo di quartiere” o “federalismo
situazionale”.
Di contro a queste prospettive sostanzialmente o anti-moderne o
neo-liberali meritano invece attenzione altre impostazioni, in particolare quelle che si inseriscono nel filone del federalismo cristiano,
ovvero “personalista e solidale”, anche perché esse contribuiscono a
far maturare l’idea, a mio avviso fondamentale, secondo cui il federalismo, in sé, non ha la sostanza di una idea autonoma, ma che ha
bisogno di essere sostenuta su altre idee, su altri valori e altri princìpi. Proprio leggendo autori cristiani si capisce che il federalismo
acquista un suo spessore teorico-politico solo se associato ad
un’altra, autonoma idealità politica e culturale, anche se si conferma
che questa idealità può essere la piú diversa, certamente quella cattolica fondata sul principio della “sussidiarietà”51, ma anche quella
49
Il federalismo, dal punto di vista storico e quindi nella sua essenza propria, è «in
prima linea un principio di integrazione e di unione geopolitico», ovvero di significato militare (K. Schubert, Föderalismus im Spannungsfeld von Politik und
Wissenschaft, in T. Evers (Hrsg.), op. cit., p. 36) ed in secondo luogo esso ha un
ruolo verticale, analogo a quello svolto, in senso orizzontale, dal principio della
separazione dei poteri.
50
Cfr. l’antologia di brani dai suoi scritti: A. Marc, Europa e federalismo globale,
a cura di R. Cagiano de Azevedo, Firenze, Il Ventilabro, 1996.
51
Com’è noto, il principio di sussidiarietà è proprio del magistero della Chiesa.
Nell’enciclica Quadragesimo anno, del 1931, Pio XI scriveva (§ 35) che «come è
illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e
l’industria propria per affidarlo alla comunità, cosí è ingiusto rimettere ad una
maggiore e piú alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare
(…) Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni
minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle
306
Agostino Carrino
laico-libertaria che caratterizza il federalismo americano o anche
quella organicistico-conservatrice di un C. Frantz52 o di un O. von
Gierke, con la “nostalgia premoderna” – ma anche, certamente, con
la vocazione anti-assolutista – del primo e la riscoperta dello “Stato
composito” da parte dell’altro.
Per questo il federalismo deve essere ripensato con serietà sulla
base di due condizioni; la prima è la struttura giuridico-istituzionale, concretamente pensabile nella storia, la seconda una prospettiva ideale e di politica del diritto, per esempio proprio quel
“presidenzialismo” al quale il federalismo si è naturalmente assoquali essa del resto sarebbe piú che mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con
piú libertà, con piú forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano, perché essa
sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a
seconda dei casi e delle necessità». Ed ancora Giovanni Paolo II (nella enciclica
Centesimus annus del 1991 (§ 48): «una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue
competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene
comune».
L’origine cattolica di questo principio non deve però limitarne in alcun modo le
potenzialità progettuali in senso generale, anche se bisogna sottolineare che non è
mancato chi ha voluto mettere in discussione il valore univoco del principio di sussidiarietà. Penso qui a G. Zagrebelsky, Presentazione a Aa. Vv., Il federalismo e la
democrazia europea, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994, p. 22: «Un esempio
dei rischi e delle ambiguità è rappresentato dal principio di sussidiarietà, al quale
tanto ci si affida per evitare una “statizzazione” accentratrice delle forme istituzionali dell’Europa. Eppure, proprio questo principio, come è dimostrato dalle
discussioni recenti, contiene in sé la negazione del suo spirito originario, potendo
trasformarsi da garanzia del pluralismo contro l’accentramento livellatore in strumento di spostamento del baricentro politico verso l’alto, a scapito degli equilibri
complessivi». Sul principio di sussidiarietà rinvio comunque al volume di Josef Isensee, Subsidiaritätsprinzip und Verfassungsrecht, Berlin, Duncker & Humblot,
1968. Cfr. anche N. Wimmer u. W. Mederer, Das Subsidiritätsprinzip und seine
Entdeckung durch die Europäischen Gemeinschaften, “ÖJZ”, 1991, pp. 586 ss.
52
C. Frantz è forse tra i piú coerenti (e meno studiati) sostenitori dell’idea federalistica intesa quale “unità nella molteplicità”; per una sintesi del suo pensiero cfr. G.
Salomon-Delatour, Moderne Staatslehren, Neuwied a.R. und Berlin, Luchterhand,
1965, pp. 631 ss. Cfr., per uno sguardo generale, C. Frantz, Deutschland und der
Föderalismus, Stuttgart u. Berlin, Deutsche Verlags-Anstalt, 1921, con una Introduzione di E. Stamm. Frantz sosteneva l’idea di una federazione della Mitteleuropa, quale unico antidoto al rischio di una guerra civile europea: cfr. J. Le Rider,
Mitteleuropa. Storia di un mito, trad. it. di M.C. Marinelli, Bologna, Il Mulino,
1995, p. 49.
L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza
307
ciato nella sua genesi americana. Il federalismo, se pensato e ripensato con serietà e realismo, oltre le fughe utopistiche di alcuni o gli
usi strumentali che ne fanno altri, può a queste condizioni costituire
un terreno di riflessione politica alta e di prassi politico-giuridica
concreta in grado di dare risposta – o di contribuire a dare risposta –
a molti dei problemi dell’Europa contemporanea (e anche del mondo contemporaneo).
In definitiva e per tirare le somme, il problema del federalismo
ha senso soltanto se esso viene impiegato come concetto ausiliario
di altre proposte politiche e ideali. Là dove si chiede il federalismo
senza altri aggettivi ci si trova dinanzi, sempre e solo, o ad una richiesta di forte unità o ad una richiesta di separazione, anche di
secessione.
Il federalismo non è un’ideologia autonoma, non ostante quanto
ne hanno detto i suoi teorici; si tratta al contrario di uno strumento
per raggiungere fini di varia natura. Per quanto riguarda l’Italia, il
problema di questo paese non è il federalismo alla Bossi, né un centralismo di cui forse il più schietto esponente sarebbe proprio la Lega
ove ci fosse una separazione del Nord. Il problema è la governabilità,
la decisione politica, ma una decisione politica responsabile che, fondata sul principio di sussidiarietà ascendente/discendente, possa
controllare senza amministrare direttamente.
Il problema centrale è dunque uno: quali possono e devono essere
i livelli e i canali di decentramento/comunicazione nello Stato unitario? Possiamo restare fermi alle Conferenze Stato/regioni? Come
realizzare un autonomismo e una sussidiarietà efficaci? In questa
prospettiva io credo che si debbano mettere in discussione tutti i livelli attualmente esistenti, salvaguardando i comuni (aggregando
quelli cd. ‘polvere’), ma discutendo su quale livello porre un potere
autonomo e responsabile verso i cittadini del territorio ma anche,
contemporaneamente, verso l’interesse nazionale, di cui qualcuno
deve pur essere depositario e titolare. Qui c’è dunque molto lavoro da
fare.
Autori
Olivier Beaud è professore di diritto pubblico nell’Università Paris II
e direttore dell'Institut Michel Villey. Fra i suoi lavori: La puissance
de l'État (1994), Théorie de la Fédération (1997).
Agostino Carrino è professore ordinario di Istituzioni di diritto
pubblico nell’Università di Napoli Federico II. Ha fondato e diretto
le riviste “Diritto e cultura” e “Leviathan”. Fra i suoi ultimi lavori:
L'Europa e il futuro delle Costituzioni (2002); Oltre l'Occidente.
Critica della Costituzione europea (2005); Stato di diritto e democrazia nella Costituzione del Liechtenstein (2008); La destra e le
libertà (2010).
Giuseppe Duso è professore ordinario di Storia della filosofia politica nell’Università degli Studi di Padova, direttore del CIRLPGE e
codirettore di “Filosofia politica”. Fra i suoi lavori: La rappresentanza politica (2003; Berlin 2006), La logica del potere (20072),
Ripensare la Costituzione. La questione della pluralità (a cura di,
insieme a M. Bertolissi e A. Scalone, 2008).
Giuseppe Gangemi è professore ordinario di Scienza dell'amministrazione nell’Università di Padova e direttore della rivista
“Foedus”. Fra i suoi lavori: Trentin, il diritto naturale e la libertà
come autonomia, in S. Trentin, La crisi del diritto e dello Stato (a
cura di G. Gangemi, 2006), vol. I, pp. 7-40.
Corrado Malandrino è professore ordinario di Storia delle dottrine
politiche nell’Università del Piemonte orientale, Preside della Facoltà
di Scienze Politiche e Cattedra Jean Monnet di Storia dell'integrazione europea. Fra i suoi lavori: Federalismo. Storia, idee, modelli
310
Autori
(1998), Silvio Trentin pensatore politico antifascista, rivoluzionario
federalista. Studi trentiniani (Manduria); ha curato l’edizione critica bilingue (italiano-latino) della Politica di Althusius (2009).
Sergio Ortino è professore ordinario nell'Università di Firenze, ove
insegna Diritto dell'economia. Fra i suoi lavori: Introduzione al diritto costituzionale federativo (1993), Il nuovo nomos della terra
(1999), La struttura delle rivoluzioni economiche (2010).
Filippo Pizzolato è professore associato di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Milano Bicocca. Fra i suoi lavori: Il sistema
di protezione sociale nel processo di integrazione europea (2002),
Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi (2004).
Ilenia Ruggiu è ricercatrice di Diritto costituzionale nella Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari. Ha pubblicato, fra
l’altro, la monografia Contro la Camera delle Regioni. Istituzioni e
prassi della rappresentanza territoriale (2006).
Antonino Scalone è professore associato di Istituzioni di diritto
pubblico nell’Università di Padova. Fra i suoi lavori Una battaglia
contro gli spettri. Diritto e politica nella Reine Rechtslehre di Hans
Kelsen (2008) e Ripensare la Costituzione. Il problema della pluralità (a cura di, insieme a M. Bertolissi e G. Duso, 2008).
Pierangelo Schiera è professore emerito di Storia delle dottrine
politiche nell'Università di Trento. È stato direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino. Fra i suoi lavori: Specchi della politica:
disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno (1999), Lo
Stato moderno: origini e degenerazioni (2004).
Collana di Filosofia Politica
a cura di Giuseppe Duso
Maurizio Merlo (2006), La legge e la coscienza, Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-032-8
Giuseppe Duso (2007), La logica del potere. Storia concettuale come filosofia
politica, Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-067-0
Giuseppe Duso, Jean-François Kervégan, sous le direction de (2007), Crise de
la démocratie et gouvernement de la vie, Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-092-2
Mario Bertolissi, Giuseppe Duso, Antonino Scalone, eds (2008), Ripensare la
costituzione. La questione della pluralità, Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-119-6
Jean-Christophe Goddard, Jacinto Rivera de Rosales, éds (2008), Fichte et la
politique, Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-133-2
Alessandro Arienzo, Gianfranco Borrelli, eds (2009), Anglo-American faces of
Machiavelli. Machiavelli e machiavellismi nella cultura anglo-americana
(secoli XVI-XX), Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-141-7
Giuseppe Duso, Antonino Scalone, eds (2010), Come pensare il federalismo?
Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Polimetrica Publisher, Italy.
ISBN 978-88-7699-193-6