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RICHIESTO ACCREDITAMENTO
SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA
VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA
SOCIETÀ FEDERATA ANMVI
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SCIVAC Secretary
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48o Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
2004
Rimini, Italia
Estratti delle relazioni - Lectures
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Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome del relatore.
Le relazioni di uno stesso autore sono elencate secondo l’ordine cronologico di presentazione.
Lectures are list in alphabetical order according to the last name of the speaker.
Lectures of a same speakers are listed according to the chronological order of the presentation.
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Acidi grassi polinsaturi in medicina veterinaria:
a che punto siamo?
Cristina Abba
Med Vet, Torino
Gli acidi grassi essenziali sono oggetto di grande interesse da diversi anni in medicina veterinaria in differenti ambiti, primo fra tutti la dermatologia: come già in medicina
umana, numerosi studi sono stati effettuati sugli acidi grassi
e le patologie cutanee infiammatorie e pruriginose. Più recentemente sono stati effettuati studi in altri ambiti fra i quali l’urologia e l’oncologia.
QUALI SONO GLI EFA
Gli EFA sono acidi grassi polinsaturi che non possono
essere sintetizzati dall’organismo ma devono essere obbligatoriamente assunti con la dieta; includono gli acidi grassi
delle famiglie ω- 3 ed ω- 6. In particolare sono essenziali
l’acido linoleico (LA, 18:2n-6) e l’alfa-linolenico (ALA,
18:3n-3), precursori rispettivamente della famiglia degli ω-6
e degli ω-3. Nel gatto una supposta carenza fisiologica dell’enzima d-6 desaturasi ed una limitata disponibilità della
delta 5 desaturasi lo renderebbe incapace di sintetizzare l’acido arachidonico (AA). In realtà di recente questa ipotesi è
stata messa in discussione, e si ipotizza che l’acido arachidonico sia essenziale solamente in particolari condizioni fisiologiche, come accrescimento e gravidanza.
I fabbisogni alimentari raccomandati dalle nuove tabelle
dell’NRC (National Research Council, 2004), espressi in
percentuale sulla sostanza secca (densità energetica della razione 4 kcal EM /g SS), sono:
- per il cucciolo: LA 1,3%; ALA 0,07%; AA 0,03%;
- per il cane adulto: LA 1,1%; ALA 0,044% (rapporto LA
/ALA deve essere compreso tra 2,6 e 26);
- per il gattino: LA 0,55%; ALA 0,02%; AA 0,2%;
- per il gatto adulto: LA 0,55%; AA 0,02%; non è riportato
un fabbisogno minimo di ALA.
Fonti di acido linoleico sono gli oli vegetali, molto ricchi
ne sono l’olio di girasole (circa 60 g%) seguito dall’olio di
mais e di soia (circa 50 g%). L’AA e l’ALA sono invece contenuto nelle carni, in particolare quelle degli organi viscerali.
FUNZIONI DEGLI EFA NEI TESSUTI
Gli EFA sono coinvolti in numerosi processi fisiologici a
livello dei tessuti organici di cui le principali sono la sintesi
e regolazione degli eicosanoidi, l’azione dinamico-funzionale a livello delle membrane biologiche e la modulazione del
segnale cellulare a livello dei canali ionici.
Sintesi e regolazione degli eicosanoidi
È la funzione degli EFA che maggiormente ne determina
l’utilizzo come terapeutici.
Gli eicosanoidi intervengono in diversi eventi fisiologici
tra i quali l’aggregazione piastrinica, i fenomeni infiammatori, l’ipersensibilità immediata, la contrazione della muscolatura liscia, la luteolisi e regolano l’attività dei linfociti T.
Molto spesso i fenomeni elencati sono regolati da un equilibrio tra le sollecitazioni antagoniste di diversi eicosanoidi.
La sintesi degli eicosanoidi avviene a partire da acidi
grassi polinsaturi liberati dalle membrane cellulari in seguito a stimoli di diversa natura (meccanici, immunitari, ormonali…). Gli acidi grassi, una volta liberati, possono seguire
differenti vie metaboliche, che portano alla formazione di
differenti eicosanoidi:
• Via delle ciclossigenasi: produce prostaglandine, prostacicline e trombossani.
• Via delle lipossigenasi: produce leucotrieni, idracidi grassi e lipoxine.
• Via del citocromo P-450: produce epossi e idrossi-metilati.
Le ciclossigenasi sono ubiquitarie mentre le lipossigenasi sono presenti so in alcuni tipi cellulari (granulociti, mastociti, monociti e macrofagi). I diversi gruppi di eicosanoidi vengono sintetizzati a partire dall’AA, diomo - -linolenico (DGLA) ed eicosapentenoico (EPA).
Gli eicosanoidi che derivano dall’AA sono proinfiammatori, immunodepressivi, proaggreganti piastrinici e sono potenti mediatori delle reazioni di ipersensibilità di tipo 1.
Gli eicosanoidi che derivano dal DGLA e dall’EPA sono antiinfiammatori ed inibiscono il rilascio di AA dalle membrane; inoltre i derivati dall’EPA hanno effetto antiaggregante piastrinico.
Effetti antinfiammatori degli EFA,
combinazione ω-6 ed ω-3
Alcuni EFA quali il DGLA e l’EPA hanno quindi effetto
antiinfiammatorio in quanto competono con l’AA per gli
stessi enzimi e ne inibiscono la liberazione, causando così
una maggior produzione di eicosanoidi antinfiammatori rispetto ai proinfiammatori.
L’effetto antinfiammatorio, particolarmente studiato a livello cutaneo, è ottenuto più efficacemente utilizzando la sinergia delle famiglie ω-3 ed ω-6. La somministrazione di soli
ω-3 in dosi antinfiammatorie e per lunghi periodi può causare
la comparsa di effetti collaterali (disordini della coagulazione,
aumento broncocostrizione) ma una piccola dose di ω -3 in-
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sieme ad alte dosi di ω-6 inibisce la trasformazione dell’DGLA ad AA potenziando gli effetti antinfiammatori. È importante ricordare che il GLA è precursore sia del DGLA sia dell’AA, ma la sua trasformazione a livello cutaneo si blocca al
DGLA (la cute è carente dell’enzima d-5-desaturasi): questo
consente di utilizzarlo come precursore antinfiammatorio.
È stato visto che il miglior effetto antiinfiammatorio si
ottiene con rapporto ω-6: ω-3 tra 5: a 10:1 senza causare effetti collaterali. Una considerazione importante va fatta in merito all’utilizzo degli EFA in generale: dal momento che sono
integratori dietetici somministrati a dosi stabilite per ottimizzarne l’effetto terapeutico, la dieta di base del soggetto deve essere tenuta in considerazione. Può essere inutile infatti integrare una dieta commerciale che contiene già sufficienti dosi di
EFA; può essere invece necessario modificare la dieta di base
o l’integrazione al fine di ottenere un dosaggio corretto.
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In quasi tutti gli studi è stata utilizzata una combinazione di ω-3 ed ω-6, ma in alcuni sono stati utilizzati i soli ω6. Gli ω-6 sono stati utilizzati a dosaggi variabili tra 44 e 386
mg/kg/die; gli ω-3,dove utilizzati, sono stati somministrati
in dosi variabili da 5 a 16 mg/kg/die. Quali siano i dosaggi
di EFA più efficaci è tuttora incerto ed le dosi raccomandate
dalle case produttrici di integratori sono piuttosto empiriche.
Gli ω-3 utilizzati per l’integrazione sono l’EPA e il
DHA, l’ω-6 utilizzato è il GLA (precursore del DGLA), talvolta associato a dosi limitate di LA. Alcuni studi sono stati
effettuati unicamente utilizzando diete commerciali appositamente integrate con alte dosi di ω-3 ed ω-6, ottenendo risultati analoghi agli studi con integratori di EFA..
L’utilizzo di EFA insieme ad altri terapeutici quali antiistaminici (clorfeniramina, clemastina,…) e cortisonici
(prednisolone) può potenziare l’efficacia dei farmaci e consentirne l’utilizzo a dosi inferiori.
EFA E DERMATOLOGIA
Gli EFA rivestono fondamentale importanza per il normale trofismo cutaneo. L’adeguata fluidità della membrana
cellulare, caratteristica essenziale per la sua corretta funzionalità, è garantita dalla presenza di acidi grassi polinsaturi
nel foglietto fosfolipidico. Una modificazione della composizione dei lipidi dell’epidermide influenza la fluidità di
membrana, la barriera idrolipidica ed il processo di desquamazione-proliferazione dei cheratinociti.
In condizioni di carenza di EFA vengono incorporati a livello delle membrane altri acidi grassi polinsaturi o monoinsaturi,
come ad esempio l’oleico (la cui disponibilità è generalmente
elevata), che rendono la membrana cellulare meno fluida ed
inefficace nel mantenere la barriera alla fuoriuscita di acqua.
Carenze di EFA, in particolare di LA, causano problemi dermatologici (cute squamosa, mantello secco e opaco, ipotricosi)
tuttavia sono improbabili in animali nutriti con alimenti commerciali. Possono però manifestarsi in animali nutriti con dieta
casalinga non adeguatamente integrata. È sufficiente addizionare olio di semi (preferibilmente di girasole o mais o soia) o utilizzare carne e grasso di pollo per evitare carenza di LA.
Inoltre la carenza di cofattori del metabolismo degli EFA, in
particolare di zinco (essenziale per l’attività della d-6-desaturasi), può causare o aggravare la carenza di acidi grassi essenziali.
Efa ed atopia canina
Gli EFA sembrano essere utili nella terapia dei pazienti atopici per i loro effetti antinfiammatori e immunomodulatori. Molti studi sono stati effettuati per comprovarne l’efficacia, tuttavia
i risultati sono difficilmente comparabili a causa soprattutto dei
differenti dosaggi utilizzati, della mancanza di una standardizzazione della dieta di base e delle differenti impostazioni degli studi stessi. In molti studi non è stato inoltre rispettato il rapporto
ω-6: ω-3 considerato ottimale (tra 5:1 e 10:1).
Nella maggior parte dei lavori comunque sono stati ottenuti risultati positivi per quanto riguarda il controllo del prurito ed il miglioramento delle condizioni di cute e mantello.
La durata dell’integrazione deve essere di almeno 2-3
settimane per consentire per consentire l’inclusione degli
acidi grassi plasmatici a livello cutaneo, ma una durata maggiore (6-8 settimane) ne aumenta gli effetti benefici.
Efa e seborrea canina
Come già sperimentato per la psoriasi umana, si suppone
che nella patogenesi della seborrea canina siano coinvolte alterazioni del metabolismo degli EFA, in particolare dell’LA. Applicazioni topiche di EFA possono essere utili associate all’integrazione alimentare, in particolare all’inizio del trattamento.
EFA ED ONCOLOGIA
Alcuni EFA (GLA ed EPA) sembrano avere effetti benefici in pazienti oncologici. Il GLA sembra avere effetti citotossici sulle cellule tumorali ma non su quelle normali, sia in
vitro sia in vivo.
Sugli animali domestici non vi sono ad ora molti studi, eccetto per alcuni studi su cani affetti da linfoma: alte dosi di GLA
e LA hanno avuto effetto linfolitico su cani affetti da linfoma
multicentrico; un’integrazione di EPA, DHA ed arginina in cani affetti da linfoma sottoposti a chemioterapia ne ha prolungato la sopravvivenza rispetto al gruppo di controllo.
In alcuni studi su roditori l’LA ha dimostrato di avere effetto carcinogenetico, tuttavia in studi su soggetti umani si sono ottenuti risultati opposti. In generale comunque, sembra che gli ω6 promuovano la crescita tumorale mentre gli ω-3 la inibiscano.
Gli EFA giocano un ruolo importante nella cachessia
neoplastica. È stato dimostrato che l’EPA purificato e ad alte dosi ha effetti antitumorali ed anticachettici, probabilmente legati all’azione soppressiva sul fattore catabolico circolante prodotto dalle cellule tumorali.
EFA E NEFROLOGIA
Gli ω-3(DHA ed EPA) sembrano essere un valido supporto
nei pazienti con insufficienza renale cronica in fasi iniziali permettendo di rallentare il progresso della patologia. In particolare giocano un ruolo nel controllo dell’ipertensione e dello stato
infiammatorio glomerulare oltre che dell’iperlipidemia.
Bibliografia disponibile a richiesta presso l’autore
Indirizzo per la corrispondenza:
Cristina Abba - [email protected]
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Caso clinico patologico
Alopecia multifocale generalizzata in un cane meticcio
Francesca Abramo
Med Vet, Pisa
Franca Galeotti
Med Vet, Firenze
Segnalamento: Cane meticcio, 8 anni, maschio intero.
Anamnesi: Il proprietario riferisce che da circa 2 anni il cane presenta lesioni dermatologiche caratterizzate da alopecia.
La perdita di pelo era iniziata sul dorso e nonostante numerosi
tentativi terapeutici l’alopecia si era diffusa al tronco, alle orecchie, alla faccia e ultimamente anche agli arti. Da altri colleghi
il cane era stato trattato sia con prednisone (0,3 mg/kg SID per
1 settimana) che con chetoconazolo (10 mg/kg SID per 20
giorni) per una sospetta micosi. Entrambi i protocolli terapeutici non avevano sortito nessun risultato. Anche un test sierologico per la ricerca di anticorpi anti-Leishmania aveva fornito
esito negativo. Al momento della visita il proprietario era in
possesso di un referto anatomopatologico ottenuto in seguito
all’effettuazione, l’anno precedente, di una biopsia cutanea.
Nel referto si leggeva quanto segue: “Biopsia caratterizzata da
notevole fibroplasia dermica, caratterizzata da atrofia degli annessi, con assottigliamento-assenza delle papille dermiche, aumento del grado di pigmentazione, fenomeni orto-paracheratosici con ritenzione di cheratina in sede infundibolare. Diagnosi: fibrosi dermica ed atrofia annessiale. Commento: si consiglia di effettuare un dosaggio del T3/T4 dato che il soggetto
potrebbe avere un quadro di ipotiroidismo.” A detta del proprietario l’esame del sangue per la determinazione del T4 era
risultato nella norma.
Esame clinico: Da un esame clinico generale il cane risulta in ottime condizioni di salute, mentre alla visita dermatologica si possono apprezzare: alopecia simmetrica generalizzata del
torace e dorso, alopecia delle aree perioculari e della parte dorsale della canna nasale, delle orecchie e interessamento anche
di tutti e 4 gli arti. Nelle zone alopeciche si notano iperpigmentazione e scaglie bianco-grigiastre aderenti alla cute. Sono evidenti due aree con ulcerazione cutanea, una a carico del cuscinetto digitale del 4° dito della zampa anteriore sinistra e l’altra
sulla cute dell’area toracica laterale destra. Il cane non mostra
prurito ne lesioni indotte da grattamento e/o lambitura.
Definizione del problema:
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Definizione dei problemi dermatologici:
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Lista di diagnosi differenziali:
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Procedure diagnostiche:
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Esame dermatopatologico:
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Trattamento proposto:
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Evoluzione clinica:
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Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Abramo
Dipartimento di Patologia Animale, viale delle Piagge,2
56124 Pisa - [email protected]
Franca Galeotti
Studio Veterinario Corsi-Galeotti - Viale Montegrappa 298/A, Prato
e-mail: [email protected]
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Caso dermatopatologico
Francesca Abramo
Med Vet, Pisa
Fabrizio Fabbrini
Med Vet, Milano
Segnalamento: Bracco tedesco maschio di circa nove
Procedure diagnostiche:
mesi.
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Anamnesi: il cane sin da cucciolo (2 mesi) presenta difficoltà a deambulare a causa di lesioni ulcerative particolarmente dolenti localizzate ai polpastrelli, talvolta accompagnate da febbre (40°). Da circa un mese, a seguito di terapia
antibiotica (enrofloxacina 5 mg/kg sid), pediluvi giornalieri
con permanganato di potassio e fasciatura, è meno sofferente e si muove di più. Ciò nonostante, ha sviluppato nuove lesioni in altre sedi (carpo, tarso, plica inguinale). Il cane durante il giorno vive all’aperto, di notte dorme in casa e riceve una dieta industriale bilanciata.
Esame clinico: E.O.G. presenza di lieve sciallorrea e di
lesioni ulcerative bollose sulla mucosa orale (lingua, labbra
e guance), presenza di notevole difficoltà a deambulare. Presenza di lesioni ulcerativo crostose ai cuscinetti podali, tarsi,
gomiti e pliche inguinali.
Definizione dei problemi dermatologici:
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Lista di diagnosi differenziali:
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Esame dermatopatologico:
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Trattamento proposto:
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Evoluzione clinica:
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Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Abramo
Dipartimento di Patologia Animale, viale delle Piagge, 2
56124 Pisa - [email protected]
Fabrizio Fabbrini
Clinica Veterinaria Papiniano, Viale Papiniano 50, 20123 Milano
mail: [email protected]
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Il caso più strano che abbia mai visto
Francesco Albanese
Med Vet, Dipl ECVD, Napoli
Franca Laura Salerni, Med Vet, Napoli – Salvatore Giordano, Med Vet, Napoli
Anamnesi: Cane, Boxer, maschio, adulto. Il cane era sta-
Procedure diagnostiche:
to trovato pochi giorni prima di essere portato in ambulatorio. L’appetito era ben conservato e le feci avevano una consistenza poltacea. A parte queste notizie non era stato possibile ottenere altre informazioni anamnestiche, pertanto l’anamnesi, per quanto riguarda le lesioni dermatologiche, era
da definirsi “muta”.
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Esame clinico: Il cane si presentava in scadenti condizioni di salute, magro e con la regione perianale imbrattata
di feci. All’esame dermatologico si osservava la presenza di
centinaia di noduli di dimensioni diverse (0,5 - 3 cm di diametro), alcuni dei quali si presentavano ulcerati. Detti noduli erano distribuiti su tutto il corpo (soprattutto collo, dorso
e cosce) e sulle mucose congiuntivali ed anale. Sulle labbra
e sulla mucosa gengivale erano presenti numerose neoformazioni con aspetto “a cavolfiore”. Sul corpo erano inoltre
presenti aree di alopecia focale caratterizzate dalla presenza
di scaglie ed iperpigmentazione.
Definizione dei problemi dermatologici:
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Lista di diagnosi differenziali:
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Trattamento proposto:
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Evoluzione clinica:
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Indirizzo per la corrispondenza:
Francesco Albanese
Clinica Veterinaria “L’Arca”
Via Salvator Rosa, 17/18
80135 Napoli
[email protected]
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Non unione dell’epicondilo omerale mediale (UME)
nel cane: un termine improprio per molteplici patologie
Giovanni Allevi
Med Vet, PhD, Bergamo
Carlo Maria Mortellaro, Med Vet, Milano – Aldo Vezzoni, Med Vet, SMPA, Dipl ECVS, Cremona
Mauro Di Giancamillo, Med Vet, Milano – Massimo Petazzoni, Med Vet, Milano
Rocco Lombardo, Med Vet, Milano – Roberto Pizzoli, Med Vet, Bergamo
L’evidenza radiografica di aree a densità calcifica localizzate medialmente all’interlinea articolare del gomito e/o caudalmente all’epicondilo omerale mediale del cane, ove prendono
inserzione i muscoli flessori del carpo e delle dita, è stata oggetto, nelle ultime quattro decadi, di numerose controversie circa l’origine di tali reperti.
Infatti vari Autori, per riscontri radiografici apparentemente
molto simili, hanno proposto nel corso degli anni teorie eziopatogenetiche estremamente differenti, dotando di volta in volta la
lesione di denominazioni diverse: “mancata unione dell’epicondilo mediale dell’omero” (UME - Ununited Medial Epicondyle), “avulsione dell’epicondilo omerale mediale”, “entesopatia dei flessori”, “calcificazione dei tendini flessori”, “anormale ossificazione del bordo distale dell’epicondilo omerale”,
“tenopatia inserzionale”, “calcificazione dei muscoli flessori” e
“calcificazione/ossificazione distrofica della capsula articolare”. La definizione “non unione” o “mancata unione dell’epicondilo mediale”, introdotta da Ljunggren e coll. nel 1966 ad
indicare una rara condizione displasica del gomito, è tuttora una
terminologia ampliamente utilizzata in letteratura, con riferimento a questa affezione, nonostante essa sottenda una teoria
eziopatogenetica discutibile: nessuno dei casi descritti in bibliografia, ne tantomeno quelli da noi osservati, mostrano una
mancata unione dell’epicondilo, ma bensì, quando presenti, solo “irregolarità” della sua parte più caudale, tanto che radiologicamente non è mai stato possibile evidenziare una linea epifisaria tra il condilo omerale mediale e queste aree di volta in volta calcifiche od ossificate.
Attenendoci alla nostra esperienza e alla casistica presente
in letteratura, possiamo sostenere che queste “isole di osso”
possono rappresentare l’esito di una frattura per avulsione della
porzione distale dell’epicondilo, cui comunque può conseguire
una calcificazione/ossificazione dei tessuti molli limitrofi.
Una seconda ipotesi, invece, potrebbe essere quella secondo cui un’attività fisica intensa, soprattutto in soggetti pesanti,
possa rendersi responsabile di microtraumi ripetuti o di un trauma acuto, cui conseguono disinserzioni/rotture parziali dei tendini flessori, indi disturbo vascolare locale con produzione di
tessuto fibroso che in seguito va incontro a calcificazione e/o
ossificazione.
La prime ipotesi sono rafforzate dal fatto che tale condizione viene riscontrata anche in cani appartenenti a razze non predisposte a displasia del gomito, come pure in cani fenotipicamente esenti e nel gatto. Sebbene in Medicina umana la frattura per avulsione venga ricondotta ad un’iperestensione violenta
del gomito, cui consegue la dislocazione del frammento/i di
epicondilo avulso/i che, per l’apporto trofico proveniente dai
tendini, poi continua ad accrescersi, a nostro avviso è più veritiera, nel cane, l’ipotesi che prevede un’iperestensione violenta
della mano in seguito ad una caduta o durante la corsa libera.
Una terza ipotesi vede tali reperti come il risultato di una
calcificazione distrofica con conseguente metaplasia ossea dei
tessuti molli del gomito, quali la capsula articolare ed i tendini
e muscoli flessori, secondaria ad alcune forme di displasia del
gomito (incongruenza articolare e/o frammentazione del processo coronoideo mediale dell’ulna) e/o all’artrosi che ad essa
consegue. La teoria dell’osteocondrosi, non intesa s’intende come mancata unione dell’epicondilo omerale ma, citando Bennett, come “anomala ossificazione del bordo distale dell’epicondilo”, predisponente all’avulsione di frammenti di cartilagine da tale struttura, appare senza dubbio una supposizione interessante che necessita però, prima di una sua convalida, di ulteriori e più significative conferme. Il riscontro da parte degli Autori della medesima lesione anche nel gatto, come precedentemente riportato, lascia credere che tali reperti possano comunque essere attribuiti anche ad altri meccanismi eziologici.
I cani in cui è stata segnalata la lesione generalmente appartengono a razze di media-grossa taglia: Pastore tedesco, Labrador e Golden retriever, Rottweiler, Terranova, Setter inglese,
Bovaro del Bernese, Alaskan Malamute, Airedale, Bracco tedesco, Pointers ecc…
Tale affezione si può manifestare clinicamente sia in giovane età (4-5 mesi) che in età adulta (4-6 anni), come pure può
rappresentare un reperto radiografico occasionale. Non sembrano esserci predisposizioni legate al sesso.
Generalmente la presenza di aree uniche o multiple, radiodense, nel comparto mediale del gomito, qualora sintomatica si
rende responsabile di una zoppia (I-III°/IV°) ad insorgenza progressiva, all’origine della quale a volte si associa un episodio
traumatico acuto. Caratteristica, anche se non costante, la presenza di una tumefazione di consistenza dura più o meno evidente a livello della faccia mediale del gomito. Non di rado vi è
inoltre una associazione con manifestazioni displasiche del gomito, soprattutto la frammentazione del processo coronoideo
mediale dell’ulna, l’incongruenza articolare e/o alterazioni artrosiche ad esse conseguenti: in tal caso, oltre ai sintomi sopra
citati, si possono associare quelli caratteristici di una displasia
del gomito complicata d’artrosi, cioè ectasia dei fondi ciechi articolari, rumori di crepitio alla flessione-estensione dell’articolazione e riduzione dell’escursione articolare. Tali reperti non
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sono mai stati riscontrati in associazione alla mancata unione
del processo anconeo dell’ulna.
L’esame radiografico vede di grande aiuto, oltre che le proiezioni radiografiche medio-laterali ed antero-posteriori, le proiezioni antero-laterali / postero-mediali ed antero-mediali / posterolaterali, che consentono di visualizzare meglio, in alcuni casi, tutti i frammenti presenti. Ancor più dettagliate risultano essere le
immagini ottenute mediante tomografia computerizzata.
L’approccio terapeutico per le lesioni sintomatiche può essere di tipo medico-conservativo o, in caso di insuccesso, di tipo chirurgico. La chirurgia si prefigge l’asportazione del/dei
“frammento/i”, i quali si localizzano per lo più a livello di tendini e muscoli flessori della falangi e/o del flessore ulnare del
carpo e/o flessore radiale del carpo. Va sottolineata l’importanza di rimuovere completamente le aree ossificate o i “frammenti” onde evitare che la lesione si ripresenti con conseguente recrudescenza della zoppia. La prognosi dopo exeresi chirurgica, nonostante venga spesso in letteratura considerata favorevole, deve sempre intendersi riservata, soprattutto se sono presenti concomitanti pregresse patologie a carico del gomito (displasia e/o artrosi).
L’esame istopatologico della lesione asportata è stata eseguita in letteratura solo in un numero limitato di pazienti, e comunque non ha mai fornito la chiave per la comprensione dell’eziologia; Ljunggren, riferendosi ai frammenti asportati, parla
di tessuto spugnoso unito all’omero da fibrocartilagine; Grondalen di trabecole ossee parzialmente coperte da cartilagine ialina; May di tessuto osseo circondato da cartilagine e connettivo fibroso; Zontine di tendinite ossificante con proliferazione
reattiva di nuovo osso; ancora Walker di avulsione del tendine
flessore delle falangi con calcificazioni distrofiche in un caso e
di ossificazione metaplastica dei tendini in un altro. Recentemente Snaps et al. descrivono un caso in cui il frammento
asportato, ritrovato a livello intrarticolare, era costituito da trabecole ossee ricoperte da tessuto fibroso e cartilagine.
Concludendo, nonostante l’evidenza radiografica di aree a
densità calcifica localizzate medialmente all’interlinea articolare del gomito e/o caudalmente all’epicondilo omerale mediale
sia stata considerata in passato tra le affezioni della displasia del
gomito nel cane, a tutt’oggi non vi sono prove obiettive che facciano classificare la lesione come una costante manifestazione
osteocondrosica né tantomeno, quindi, come una displasia.
Possiamo sostenere, sulla scorta della nostra eperienza e
dalla disamina della letteratura, che la lesione può sottendere
differenti meccanismi eziopatogenetici che condividono, sfortunatamente, lo stesso aspetto radiologico. In quasi tutti i casi
comunque generalmente si arriva, in tempi più o meno brevi, ad
una primaria o secondaria ossificazione di tendini e muscoli
flessori, terminologia che dovrebbe essere utilizzata qualora
non si riesca a trovare in via definitiva il meccanismo eziopatogenetico che sta alla base della lesione.
Una accurata anamnesi, con particolare attenzione verso
pregressi eventi traumatici, anche se non responsabili nell’immediato di zoppia, la visita ortopedica, e la diagnostica per immagini (radiografia, tomografia computerizzata, artroscopia,
etc.) devono indirizzare il clinico verso il meccanismo eziopatogenetico cui si può infine ricondurre, anche se non sempre
con certezza, la lesione.
Come per altre affezioni ortopediche, e tra queste la displasia del gomito, anche tali reperti possono rivestire il duplice
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aspetto di malattia sintomatica e malattia asintomatica (reperto
radiografico occasionale), e questo può complicare ulteriormente il procedimento diagnostico.
Sebbene alcuni Autori ritengano favorevole la prognosi dopo terapia chirurgica, a nostro avviso questa deve comunque intendersi riservata, soprattutto nei pazienti in cui sia presente una
concomitante grave artrosi/displasia del gomito; è infatti doveroso ricordare che, a dispetto di questo ottimismo, nessuno dei
lavori pubblicati annovera un numero di casi e soprattutto un
follow-up sufficienti a formulare un giudizio obiettivo e statisticamente valido. Oltretutto la non infrequente concomitante presenza di patologie displasiche del gomito, quali l’incongruenza
articolare e/o la frammentazione del processo coronoideo mediale dell’ulna e/o l’artrosi ad esse conseguenti, rendono ancor
più difficile la codificazione dei risultati ottenuti.
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Indirizzo per la corrispondenza: Allevi Giovanni
Med Vet, Dottore di Ricerca in Ortopedia degli Animali Domestici
via Lurano, 40 - Brignano G.A., 24053 - Bergamo
Tel cell 339 5726906 - Tel e fax 0363 814184
e-mail: [email protected]
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Alimentazione e patologie alimentari
nel coniglio da compagnia
Marta Avanzi
Med Vet, Castelfranco Veneto (TV)
La maggior parte delle patologie del coniglio da compagnia sono causate, direttamente o indirettamente, da errori alimentari. Il coniglio è un erbivoro stretto, con un apparato digerente ed una dentatura altamente specializzati,
che tollerano male una dieta inadeguata. La dieta ideale è
quella che più si avvicina a quella naturale, costituita da
erba e piante di campo, relativamente povera dal punto di
vista nutrivo, ricca di fibra e che richiede una masticazione prolungata.
L’alimentazione del coniglio pet dovrebbe essere rappresentata da fieno di erbe miste in quantità illimitata, erba e
verdure. Il pellet non è indispensabile, e va eventualmente
razionato alla dose di un cucchiaio circa per un coniglio di
media taglia. Un buon pellet deve essere composto di fieno
e piante e contenere almeno il 18% di fibra.
Saltuariamente si possono somministrare piccole quantità di frutta. Altri alimenti (pane, grissini, semi, cereali, dolciumi ecc.) devono essere completamente evitati. In un coniglio sano, la somministrazione di vitamine e lattobacilli è
inutile. Anche i blocchetti minerali sono inutili se non potenzialmente dannosi.
I conigli tenuti come pet vengono purtroppo alimentati
principalmente con alimenti commerciali del tutto inadeguati, costituiti da miscele di semi, fioccati, frutta secca, pellet
di cereali, il cui impiego comporta gravi effetti sulla salute
di questi lagomorfi.
Le conseguenze degli errori alimentari a lungo termine si
riflettono sulla dentatura, che nel coniglio è costituita da
denti a crescita continua. Mentre allo stato naturale l’alimento consumato, per la sua propiretà fibrosa e abrasiva, richiede una masticazione prolungata e consente quindi un
adeguato consumo della dentatura, ciò non si verifica con gli
alimenti commerciali (ad alta densità calorica e scarsamente
abrasivi). La situazione è aggravata dallo squilibrio del rapporto calcio-fosforo di questi alimenti, che porta ad un indebolimento dell’osso di sostegno dei denti.
Di conseguenza si determina con il tempo un’alterazione
di crescita dei denti e malocclusione, con incurvamento dei
denti, formazione di punte, allungamento delle radici, periodontite, ascessi (a carico della mandibola, della mascella o
dello spazio retrobulbare), osteomielite. La terapia di queste
patologie è complessa e richiede la limatura periodica dei
denti, l’estrazione di quelli coinvolti nella formazione di
ascessi, l’asportazione in blocco, quando possibile, degli
ascessi, o il loro trattamento secondo diverse tecniche dettate di volta in volta dalle loro caratteristiche. Senza intervento, le punte dentali lacerano i tessuti molli della bocca, impedendo al coniglio di alimentarsi. Una volta instauratasi, la
malocclusione è permanente e nella maggior parte dei casi
richiede trattamenti periodici di limatura dei denti.
Per impostare un corretto piano terapeutico è indispensabile un’accurata visita clinica e l’esecuzione di uno studio
radiografico della testa, per valutare le condizioni della dentatura oltre allo stato generale del coniglio.
Gli errori alimentari hanno importanti conseguenze
sull’apparato digerente, che per funzionare correttamente
necessita di una dieta con un’alta percentuale di fibra indigeribile (vale a dire di dimensioni tali da non poter essere assimilata dal coniglio). La fibra svolge nel coniglio
una duplice funzione: stimola una corretta motilità ciecocolica, e favorisce la presenza di una flora batterica adeguata, ostacolando lo sviluppo di batteri patogeni (E. coli
e clostridi). Il sistema digerente del coniglio elimina rapidamente la fibra grossolana, non digeribile (che forma i
pellet fecali). Sebbene non venga assimilata, la fibra indigeribile ha un’importanza critica nel mantenere la motilità
gastro-intestinale. Il rimanente alimento viene sottoposto
nel cieco a fermentazione da parte della flora ciecale, costituita da Bacteroides, bacilli non sporigeni gram negativi, altri batteri gram negativi, protozoi ciliati, e un lievito,
Cyniclomyces guttulatus. In seguito a questi processi di
fermentazione si formano vitamine, acidi grassi e aminoacidi, che in parte vengono assorbiti direttamente e in parte vengono espulsi sotto forma di ciecotrofo, che il coniglio ingerisce direttamente dall’ano assimilando così importanti elementi nutritivi.
In presenza di una dieta commerciale a base di semi e
fioccati il livello inadeguato di fibra causa un rallentamento
della motilità gastrointestinale, che può arrivare alla stasi
completa. Cessa l’assunzione di alimento e la defecazione e,
se non si interviene, con il passare dei giorni si ha un declino progressivo delle condizioni di salute, fino alla morte. Soprattutto nei soggetti obesi, il quadro clinico può essere aggravato da una lipidosi epatica, che nel coniglio si può instaurare già dopo un paio di giorni di digiuno, e che è rapidamente mortale.
La diminuzione della motilità intestinale ha anche un altro
effetto deleterio, poiché altera la composizione della microflora intestinale, favorendo la proliferazione di batteri patogeni come i clostridi ed E. coli. Questi batteri sono in grado di
causare enteriti ed enterotossiemie rapidamente mortali.
Altre patologie possono secondariamente causare stasi
intestinale: patologie epatiche o urinarie, dolori osteoarticolari, problemi dentali, e tutto ciò che può indurre stress o dolore. In tal caso è fondamentale identificare e correggere le
cause scatenanti della stasi.
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La terapia delle patologie gastrointestinali del coniglio si
basa su tre elementi fondamentali: reidratazione, sostegno
alimentare ed analgesia.
Le alterazioni della funzionalità gastro-intestinale causano disidratazione, che a sua volta aggrava la condizione,
creando un pericoloso circolo vizioso. La reidratazione può
essere effettuata per via orale e sottocutanea (contemporaneamente), e nei casi più gravi per via endovenosa o intraossea. La reidratazione è vitale non solo nelle enteriti, ma
anche in caso di stasi gastro-intestinale, per reidratare il contenuto gastrico. La quantità di liquidi da somministrare è di
100-120 ml/kg al giorno; è importante riscaldare a temperatura corporea i liquidi da somministrare per via parenterale.
L’apporto di alimento è importante per mantenere un bilancio calorico positivo, fornire un substrato alla flora intestinale benefica, stimolare la motilità gastro-intestinale e
prevenire la lipidosi epatica. A questo scopo si possono utilizzare vegetali frullati, alimenti vegetali per neonati o un
prodotto specifico, Critical Care Oxbow®, da somministrare mediante siringa.
I conigli sono molto sensibili agli effetti negativi del dolore, che induce immunodepressione, stasi gastro-intestinale, anoressia, e nei casi più gravi shock e morte. Tra i prodotti che si possono impiegare nel coniglio appare particolarmente sicuro ed efficace il meloxicam (0,1-0,3 mg/kg PO,
SC q24h). Altri prodotti che si possono impiegare sono buprenorfina (0,01-0,05 mg/kg SC, IM, EV q6-12h), butorfanolo (0,1-0,5 mg/kg SC, EV q4-6h), carprofen (2-4 mg/kg
SC, IM, PO q12h), flunixin meglumine (1-3 mg/kg IM, SC
q12-24h per non più di 3 giorni).
In caso di stasi gastro-intestinale si possono impiegare
altre misure terapeutiche. La stimolazione della motilità intestinale è favorita da farmaci procinetici; dopo il ritiro dal
mercato del cisapride è stato impiegato senza effetti avversi
e con apparente efficacia un prodotto analogo, il clebopride,
alla dose empirica di 0,1-0,15 mg/kg PO q12h. In caso di
meteorismo (evidenziabile radiologicamente), si somministra simeticone (Mylicon pediatrico® 1-2 ml per 2-3 volte a
distanza di un’ora, da ripetere secondo necessità). Una misura efficace per stimolare la ripresa della motilità intestinale è un delicato massaggio dell’addome, eseguito dopo la
somministrazione degli analgesici.
Il recupero della funzionalità intestinale può richiedere un
tempo variabile da uno a parecchi giorni, ed è dimostrata dalla ripresa dell’alimentazione spontanea e della defecazione.
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Il tradizionale approccio terapeutico a questa patologia,
che si riteneva causata da un’eccessiva ingestione di pelo e
formazione di tricobezoari gastrici, basata sulla somministrazione di lassativi ed enzimi proteolitici, è del tutto obsoleto. L’approccio chirurgico non è in alcun modo consigliabile in caso di stasi (comporta inoltre un’elevata incidenza di
complicanze, quali peritoniti e lipidosi epatica). Questa comune patologia va gestita invece con un aggressivo approccio medico, con eccellenti possibilità di guarigione.
L’enterite di origine alimentare è una condizione di gravità
variabile, dalla comparsa di feci più molli a diarrea profusa. In
caso di enterotossiemia, che si manifesta con depressione, anoressia e diarrea, la prognosi è riservata e talvolta sfavorevole,
ed è richiesto un aggressivo approccio terapeutico. Le forme
lievi di enterite rispondono spesso al semplice miglioramento
della dieta con un aumento della fibra alimentare e l’eliminazione degli alimenti inadatti. Nei casi di gravi disturbi intestinali si possono somministrare antibiotici (in particolare metronidazolo 20 mg/kg PO q12h). Sperimentalmente si è rivelata
efficace nel ridurre la mortalità la colestiramina alla dose di 0,5
g in 20 ml di acqua PO q8h.
Un’altra conseguenza dell’alimentazione sbilanciata è
l’obesità, che a sua volta predispone a patologie cardiache,
epatiche e renali e all’insorgenza di pododermatite. Per ottenere una riduzione di peso l’esercizio fisico è altrettanto importante di una dieta corretta.
La formazione di calcoli urinari e l’accumulo di cristalli di
calcio nell’urina (“sludge”) hanno una eziologica ancora in
parte oscura. È possibile che la causa non sia da ricercare in un
eccesso di calcio alimentare, ma altri fattori quali disidratazione cronica per mancanza di alimenti umidi, scarsa attività fisica, confinamento in gabbia che spinge il coniglio a trattenere
l’urina, infezioni urinarie croniche. Mentre la restrizione di calcio alimentare non sembra in grado di prevenire le recidive,
una misura più efficace consiste nell’aumentare l’assunzione
di acqua (eliminando gli alimenti commerciali, aumentando la
quantità di vegetali freschi e aromatizzando l’acqua con piccole quantità di succhi di frutta non dolcificati).
In conclusione, le frequenti patologie del coniglio da
compagnia (malocclusione, ascessi della testa, stasi intestinale ed enteriti) sono quasi totalmente prevenibili adottando
un’alimentazione naturale basata su fieno ed erba.
Indirizzo per la corrispondenza non disponibile
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La risonanza magnetica (MR)
nello studio del sistema nervoso centrale
Massimo Baroni
Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme, Pistoia
Nell’ambito della diagnostica neurologica, più che in altri campi, lo sviluppo di nuove metodiche di diagnostica per
immagini, ha costituito una vera e propria pietra miliare per
l’approfondimento della conoscenza di moltissime patologie e per la messa a punto di un efficace trattamento. In particolare Tomografia Computerizzata (CT) e Risonanza Magnetica (RM) hanno ormai una applicazione routinaria in
neurologia umana e trovano sempre più ampi spazi in campo veterinario, certamente ancora penalizzato dal costo elevato di tali attrezzature.
Lo scopo della presente trattazione vuole essere quello di
esporre i principi fondamentali su cui si basa la Risonanza
Magnetica e discutere le principali sue attuali applicazioni in
Neurologia Veterinaria.
RISONANZA MAGNETICA
Cenni sui Principi di base
All’interno di un organismo, i nuclei atomici che posseggono un diverso numero protoni e neutroni si comportano come piccoli dipoli magnetici. In particolare i protoni hanno un movimento particolare su se stessi chiamato
precessione. A seconda del campo magnetico a cui sono
sottoposti, la velocità di precessione, misurata come frequenza di precessione, cambia seguendo una legge fisica
particolare, l’equazione di Larmour (ω0 = γ B0, dove ω0
è la frequenza di precessione e γ è la costante giromagnetica). Se essi non sono sottoposti ad alcun campo magnetico, sono orientati in maniera random. Tra i vari, i protoni idrogeno sono quelli di maggiore importanza per l’applicazione biologica della MR.
In una macchina per MR, è presente un magnete che determina un campo magnetico Bo parallelamente al quale si
orientano i piccoli dipoli magnetici presenti nell’organismo.
Un segnale a radio-frequenza (impulso) viene quindi emesso e determina un nuovo campo magnetico B1 cambiando
l’orientamento dei dipoli secondo la direzione del nuovo
campo. Quando cessa il segnale i dipoli tendono a riacquistare l’orientamento primitivo Bo, emettendo l’energia prima assorbita, la quale viene captata come radiosegnale. Una
percentuale costante (63.2%) del tempo che occorre ai dipoli per riacquistare l’orientamento primitivo viene chiamato
Tempo di Rilassamento T1: esso viene anche detto rilassamento longitudinale, in quanto il vettore che lo rappresenta
tende ad orientarsi secondo il vettore del campo magnetico
Bo. I campi magnetici determinati dai singoli protoni in precessione, normalmente sono orientati in vario modo e si an-
nullano fra di loro. Quando viene applicato un impulso a radiofrequenza, la precessione diventa sincrona ovvero i protoni sono “in fase”. Una volta tolto l’impulso, la sincronia
viene persa. Il 63.2% del tempo che occorre ai protoni per
perdere la fase viene definito Tempo di rilassamento T2 (rilassamento trasversale). Ogni tessuto, a seconda delle sue
caratteristiche, presenta un diverso tempo di rilassamento T1
e T2. Per esempio l’acqua ha lungo T1 e lungo T2, il tessuto adiposo ha corto T1 e corto T2. Le caratteristiche di un determinato tessuto non dipendono solo dalle sue caratteristiche di rilassamento T1 e T2, ma anche dalla densità dei protoni presenti in esso (densità protonica).
Le caratteristiche di un tessuto in termini di Densità Protonica, Rilassamento T1 e Rilassamento T2, sono utilizzate
da un computer per elaborare l’immagine. A seconda del tipo di radiofrequenza utilizzata verranno enfatizzate una delle tre caratteristiche, per cui avremo immagini T1, T2 e a
densità protonica.
Gli impulsi a radiofrequenza non vengono inviati singolarmente, bensì ad intervalli regolari. Il tempo che intercorre
tra un impulso o una serie di impulsi e l’altro, viene chiamato tempo di ripetizione (TR). Una serie di impulsi ad intervalli regolari viene chiamata Sequenza. Il tipo degli impulsi a radiofrequenza inviati caratterizza la sequenza. Una
delle sequenze più usate in RM clinica è la cosiddetta Spin
Echo. Nella sequenza spin echo viene inviato un primo impulso capace di ribaltare il vettore magnetico di 90° (impulso a 90°). Durante questo impulso si crea un vettore di magnetizzazione trasversale a 90° rispetto a Bo e tutti i protoni
sono in fase. Una volta tolto il primo impulso i protoni tendono a perdere la fase. Viene allora mandato un secondo impulso a 180° che provoca un rifasamento (Echo). Il tempo
che intercorre fra l’impulso a 90° e il picco del rifasamento,
viene definito Tempo di Echo (TE). La serie viene quindi ripetuta per x volte, intervallata dal tempo di ripetizione TR.
La scelta del tempo di ripetizione e di quello di eco sono i
criteri fondamentali per ottenere un’immagine “pesata” in
T1 o T2, nella sequenza spin Echo. In particolare un corto
TR (500-600 msec) e un corto TE (18-26 msec) caratterizzano immagini T1 pesate, Con un lungo TR (2800, 3000
msec) ed un lungo TE (80, 90 msec) si ottengono immagini
T2 pesate. Con un TR intermedio si esalteranno le caratteristiche di densità protonica del tessuto.
Nelle immagini T1, tutti i tessuti ricchi in acqua appaiono ipointensi (scuri), mentre i tessuti poveri in acqua appaiono iperintensi (bianchi). Quindi il CSF appare nero, la
sostanza bianca appare più intensa di quella grigia. Nelle immagini T2, avviene il contrario, per cui risultano iperintensi
il CSF e la sostanza grigia.
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Un’altra sequenza speso utilizzata è l’Inversion Recovery (IR). In questa sequenza si invia un primo impulso a
180°, seguito da un altro a 90° e quindi da un terzo a 180°.
Il tempo tra il primo impulso a 180° e quello a 90°, viene
detto Tempo di Inversione (TI). Un tipo particolare di sequenza IR, attualmente particolarmente usata, è la FLAIR
(Fluid Attenuated Inversion Recovery), in cui si sceglie
un TI tale da sopprimere il segnale del liquido cefalorachidiano e si pesa in T2 la sequenza. Tale sequenza è particolarmente utile per studiare lesioni situate in prossimità
del liquor.
Come per la CT, anche nella MR, il corpo del paziente
viene esaminato secondo scansioni di spessore variabile:
Tutti e tre i piani dello spazio, coronale, assiale e sagittale
possono essere direttamente esaminati.
Mezzi di contrasto paramagnetici vengono utilizzati per
enfatizzare alcuni tipi di lesione. Il mezzo più usato è un ione paramagnetico, il gadolinio, chelato con l’acido DTPA,
per abolire la sua tossicità. Il gadolinio ha la caratteristica di
accorciare il T1, aumentando il segnale (iperintensità) nei distretti dove si concentra. A livello di SNC tutte le lesioni che
determinano una rottura di bariera ematoencefalica, presenteranno un contrast enhancement. Le modalità e la velocità
con cui una lesione prende contrasto costituiscono elementi
importanti di diagnosi differenziale.
STUDIO DELL’ANATOMIA NORMALE
CT e MR
Anche in Neurologia Veterinaria sono ormai a disposizione varie fonti di Letteratura riguardanti la normale anatomia MR, la descrizione della quale esula dalla presente trattazione. È tuttavia necessario puntualizzare che solo una precisa e profonda conoscenza di essa, consente di avvicinarsi
correttamente alla diagnostica, motivo per cui si stimola il
lettore ad uno studio della letteratura suddetta prima di affrontare un approccio diretto con queste metodiche di diagnostica per immagine.
CT e MR NELLA DIAGNOSTICA
INTRACRANICA
Sebbene la CT rivesta ancora un ruolo molto importante nella diagnostica delle malattie intracraniche del cane e del gatto a causa del costo relativamente accessibile
rispetto alla RM, quest’ultima si è rivelata di gran lunga
più sensibile nella diagnostica delle malattie cerebrali e ha
quasi totalmente soppiantato la Tomografia computerizzata in medicina umana.
La CT è comunque idonea alla diagnosi di processi riguardanti la volta cranica o comunque i tessuti duri, compreso l’orecchio interno, le masse occupanti spazio ubicate
in fossa posteriore, le lesioni di tipo vascolare nelle loro primissime fasi, alcune lesioni infiammatorie occupanti spazio
(ascessi, GME), alcune anomalie (idrocefalo). Non è invece
sensibile nella diagnostica di lesioni ubicate in fossa posteriore a causa del notevole spessore osseo che causa perdita
di definizione.
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La RM offre una notevole sensibilità diagnostica sia nel
campo delle lesioni espansive che infiammatorie e degenerative oltreché nelle anomalie congenite. Permette una ottima visione delle strutture della fossa posteriore e dell’orecchio medio e interno. Non è idonea per la visualizzazione di
lesioni riguardanti i tessuti duri.
Protocollo di studio
Lo studio RM del cranio va standardizzato con l’utilizzo
costante di una serie si sequenze, ciascuna delle quali deve portare particolari informazioni. Uno studio classico si può considerare costituito da una sequenza Spin Echo T1 pesata sul piano traverso a cui segue una sequenza Spin Echo T2 pesata sempre sullo stesso piano e quindi altre due sequenze Spin echo T2
sui piani dorsale e sagittale. La sequenza T1 ci fornisce immagini con buona risoluzione ma è poco sensibile nell’evidenziare processi patologici, i quali spesso risultano isointensi. La T2
dà immagini meno definite, ma è altamente sensibile nell’evidenziare lesioni, qualunque sia la loro natura.
Se dopo l’esecuzione di queste sequenze, notiamo processi patologici o abbiamo sospetti, è indicato uno studio T1
dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico (gadolinio 0.2 mg/kg), eseguito sui tre piani dello spazio.
A questo studio base, a volte si aggiungono altre sequenze in grado di chiarire dubbi. A questo scopo una delle sequenze più utilizzate è la FLAIR, in grado di differenziare le lesioni(iperintense) dal liquido cefalo-rachidiano (ipointenso), qualora la patologia sia in prossimità del
sistema ventricolare.
Un parametro importante da tenere in considerazione
nello studio del cranio è lo spessore di strato, ossia lo
spessore cerebrale da cui la macchina attinge informazioni per ricostruire l’immagine di uno strato. Nei cani di
grossa taglia si può usare 5 mm, mentre in cani di piccola
taglia o gatti, si deve scendere a 4 o 3 mm.
Aspetto RM di alcune patologie
di frequente riscontro
NEOPLASIE
Alcuni tipi di tumori mostrano caratteristiche RM tipiche
che si rivelano spesso diagnostiche:
GLIOMI
Si mostrano come zone ipointense in T1 ed iperintense
in T2, a margini non definiti, a localizzazione intrassiale,
con “Contrast enhancement” ad anello o disomogeneo. Alcuni gliomi a basso indice di malignità non prendono contrasto. Esercitano solitamente notevole effetto massa.
MENINGIOMI
Hanno localizzazioni tipiche (meningiomi della volta,
della base cranica, della falce, dell’angolo cerebello-pontino), presentano margini molto netti, spesso con chiara
distinzione dal parenchima circostante, si presentano
isointensi in T1 e iperintensi in T2, hanno contrast enhan-
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cement intenso ed omogeneo che si estende spesso alle meningi adiacenti (meningeal tail). Spesso presentano aree
calcifiche.
TUMORI DEI PLESSI CORIOIDEI
Sono a localizzazione intraventricolare, sono ben definiti ed assumono intensamente ed uniformemente il contrasto.
ADENOMI, ADENOCARCINOMI IPOFISARI
A partenza dalla sella turcica si estendono verso il talamo. Hanno margini ben definiti e buona ed omogenea presa
di contrasto. Spesso è difficile una differenziazione con il
meningioma della base. A tale scopo può essere utile associare alla RM uno studio CT per la messa in evidenza di
eventuali calcificazioni, elemento che fa propendere la diagnosi verso il meningioma.
LESIONI INFIAMMATORIE
Le sequenze T2 sono solitamente le più sensibili nell’identificare le lesioni infiammatorie, le quali appaiono iperintense in queste sequenze, mentre appaiono isointense o
ipointense in T1. Decisa ipointensità si coglie in T1 nelle lesioni che portano a malacia. Il contrast enhancement delle
lesioni infiammatorie varia a seconda della gravità della rottura della barriera ematoencefalica.
Anche in caso di demielinizzazione, come avviene ad
esempio nell’infezione cimurrosa, si possono avere aree di
ipersegnale in T2 associate ad aree ipointense in T1.
LESIONI VASCOLARI
Nelle fasi iperacute di un’emorragia (prime 24 h) l’esame RM non trova grande applicazione, essendo più sensibile uno studio con CT. Nella fase subacuta l’RM diventa di
fondamentale importanza per monitorare l’andamento e l’evoluzione del focolaio emorragico. La capacità dell’RM di
monitorare l’evoluzione dell’emorragia dipende dalle diverse proprietà paramagnetiche dell’emoglobina nelle sue fasi
di degradazione (Tabella 1).
UTILIZZO DELLA CT E DELLA RM NELLA
DIAGNOSTICA MIDOLLARE
Ancora oggi la metodica diagnostica principale per lo
studio delle patologie midollari è la mielografia. La risonanza magnetica è usata in casi selezionati in cui la mielografia
non è riuscita a definire una diagnosi chiara e precisa. Questo uso selettivo della RM dipende da vari fattori: alto costo
dei sistemi MR, utilizzo di macchine situate in cliniche di
medicina umana con conseguente accesso limitato alla sera
tardi o alla mattina presto, difficoltà tecniche di esecuzione
maggiori rispetto all’uomo, considerando le piccole dimensioni del midollo spinale nel caso e nel gatto.
Nonostante tutto ciò, la RM può risultare di estrema utilità diagnostica in quasi tutte le patologie midollari e sarà sicuramente destinata a diventare la metodica di prima scelta
nello studio del midollo spinale in un futuro prossimo.
Protocollo di studio
Il posizionamento del paziente ha un’importanza fondamentale per ottenere buone immagini. In particolare bisogna
aver cura che il segmento midollare da studiare sia tutto sullo stesso piano, in modo tale da ottenere scansioni sagittali o
dorsali che taglino il midollo sempre allo stesso livello.
È inoltre importante curare il ritmo respiratorio del soggetto (soprattutto nello studio del tratto toraco-lombare) al
fine di evitare artefatti.
Il protocollo di studio più comune prevede l’esecuzione di
scansioni sagittali Spin Echo T1 e T2 pesate. Se si evidenziano alterazioni di segnale e/o morfologia, si eseguono sequenze
T1 e T2 pesate sul piano traverso, a livello della lesione. Lo
studio in T1, viene quindi ripetuto sia sul piano sagittale che
traverso dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico.
Soprattutto nelle scansioni sagittali, è opportuno usare
uno spessore di stato sottile (3-4 mm), considerando le piccole dimensioni del midollo spinale nei nostri pazienti.
Aspetto RM in alcune patologie midollari
ESTRUSIONI DISCALI
L’uso di RM per lo studio di estrusioni discali acute è limitato a quelle strutture che hanno un sistema RM in sede,
considerata la natura acuta della patologia. L’RM fornisce
immagini altamente diagnostiche in questa patologia e consente di delineare anche le complicanze associate all’estrusione (emorragia, contusione midollare, fenomeni infiammatori secondari).
Il segnale ottenuto dal materiale di compressione varia a
seconda del tipo di degenerazione discale, dal tempo trascorso dal momento dell’estrusione, dalla presenza di emorragia. In particolare possiamo avere:
1) materiale estruso fortemente ipointenso in T1 e T2: disco
calcifico
2) materiale estruso isointenso in T1 e ipointenso in T2: materiale degenerato non calcifico
3) emorragia associata (in T1: ipointensa in fase acuta, 1°
giorno, iperintensa in fase subacuta, dopo 48 h)
Tabella 1
Fase
Tempo
Marker
Immagini T1
Immagini T2
Iperacuta
1-6 ore
Ossi-Hb
Iso-ipointensa
Iperintensa
Acuta
6-48 ore
Deossi-Hb
Iso-ipointensa
Ipointensa
Subacuta 1
2-7 giorni
Intracellular Meta-Hb
Iperintensa
Ipointensa
Subacuta 2
2-3 sett.
Extracellular Meta-Hb
Iperintensa
Iperintensa
Cronica
> 3 sett.
Haemosiderin
Come CSF
come CSF con bordi ipointensi
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4) contrast enhancement del materiale estruso. Si verifica in
corso di discopatie subacute con sviluppo di tessuto infiammatorio.
PROTRUSIONI DISCALI
Lo studio RM fornisce immagini altamente diagnostiche
e dettagliate. Sicuramente la sensibilità è maggiore rispetto
a quella fornita da uno studio mielografico. Vengono fornite
informazioni riguardo al grado di degenerazione del disco,
all’integrità dell’annulus fibroso e del legamento longitudinale, al grado di sofferenza parenchimale midollare. Occorre avere notevole esperienza nel giudicare la significatività
delle protrusioni discali, in quanto l’RM tende a magnificare il grado di protrusione.
DEGENERATIVE LUMBO-SACRAL
STENOSIS (DLSS)
L’avvento della RM ha cambiato radicalmente i protocolli diagnostici per questa malattia, diventando la metodica
di scelta. Essa fornisce informazioni riguardanti il grado di
degenerazione del disco lombo-sacrale, eventuale presenza
di compressioni sulla linea mediana o lateralizzate (foraminali). Il protocollo di studio prevede l’acquisizione di immagini sul piano traverso e sagittale, T1 e T2 pesate. Solitamente non è necessario l’utilizzo di mezzo di contrasto
NEOPLASIE
L’utilizzo della Risonanza Magnetica è fondamentale nel
delineare morfologia ed estensione delle neoplasie midolla-
15
ri. Uno studio RM è assolutamente necessario se si vuole
eseguire un planning operatorio adeguato. La posizione delle neoplasia rispetto al midollo (extradurale, intradurale, intramidollare), il grado di coinvolgimento delle strutture vertebrali adiacenti, il tipo di contrast enhacement costituiscono i paramentri fondamentali su cui fornire una diagnosi differenziale riguardo al tipo di neoplasia.
SIRINGOMIELIA, IDROMIELIA
Vengono perfettamente delineate dalla RM. Possono essere espressione di malattia congenita (es. Malformazione
Arnold Chiari tipo 1) oppure possono essere secondarie a
patologie compressive croniche.
PATOLOGIE VASCOLARI
Patologie vascolari di tipo emorragico ed infartuale, diagnosticate spesso su base clinica e per esclusione di altre patologie su base mielografica, vengono precisate e delineate
dalla RM. Come abbiamo già visto, in corso di lesione emorragica, è possibile anche determinare lo stadio evolutivo del
focolaio emorragico e seguirne l’ulteriore evoluzione.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Massimo Baroni
Clinica Veterinaria Valdinievole
Via Nigra 123 - 51015 Monsummano Terme - Pistoia, Italy
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Trattamento chirurgico delle anomalie vertebrali
nel cane
Massimo Baroni
Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme, Pistoia
Numerosi tipi di malformazione congenita vertebrale
possono essere riscontrate nel cane. Alcune sono di piuttosto
frequente riscontro e spesso sono associate a particolari razze, altre sono reperite solo sporadicamente o sono addirittura molto rare. Non sempre le anomalie vertebrali si associano a lesioni a carico del midollo spinale con conseguenti segni neurologici; spesso non sono responsabili di disfunzione
midollare e vengono reperite durante indagini collaterali
(studi Rx) svolte per tutt’altra causa. In Tabella 1 vengono
riassunte le principali malformazioni della spina.
Tra le malformazioni elencate verranno qui trattate solo quelle di rilievo clinico e per le quali è possibile attuare una terapia
chirurgica in molti casi efficace. In particolare verrà presa in
considerazione l’emivertebra e la sublussazione atlanto-assiale.
EMIVERTEBRA
È il risultato della mancata formazione di parte del corpo vertebrale. Solitamente la vertebra malformata ha forma
a tronco di cono con la base più ampia rivolta verso l’alto o
su un lato. In dipendenza di questa peculiare forma si associano importanti deviazioni vertebrali, più spesso in cifosi,
qualche volta in scoliosi. A volte il corpo vertebrale difetta
della parte mediana, esitando due due distinti “nuclei ossei”,
uno per lato. In questo caso l’emivertebra viene anche definita “vertebra a farfalla”. L’emivertebra costituisce un reperto abbastanza frequente nelle razze brachicefale di piccola
taglia (vedi Tab. 1), tuttavia può essere associata a qualsiasi
razza. Alcune volte è del tutto asintomatica. In altri casi in
corrispondenza della deviazione vertebrale, si sviluppa stenosi del canale spinale con conseguente compressione mi-
dollare. La deviazione midollare patologica peggiora nella
sua gravità durante l’accrescimento causando un lento e progressivo peggioramento del grado di compressione midollare, a cui consegue un aggravamento della sintomatologia. La
stenosi del canale vertebrale presenta di solito due componenti biomeccaniche, una statica, l’altra dinamica, in quanto
l’emivertebra è spesso sede d’instabilità vertebrale.
La sede di più frequente riscontro è toracica con deviazione in cifosi di tale segmento vertebrale.
La sintomatologia clinica, quando presente, è rappresentata da una paresi posteriore lentamente ingravescente con
possibile esito in plegia. L’esordio dei degni clinici si verifica solitamente nel periodo sell’accrescimento, con una maggiore incidenza fra i sei e gli otto mesi di età. L’esame neurologico indica una localizzazione neuroanatomica toracolombare, con normo-iperriflessia posteriore. Raramente è
presente dolore vertebrale.
La diagnosi è confermata attraverso uno studio radiologico in bianco e con mezzo di contrasto (mielografia). Lo
studio mielografico deve comprendere proiezioni latero-laterali stressate, in maniera tale da rendere ben evidente l’eventuale componente dinamica della patologia compressiva.
Un ulteriore precisazione del grado di compressione e
dello stato di sofferenza focale midollare può essere fornita
da un’indagine RM del rachide toraco-lombare.
La terapia chirurgica dell’emivertebra sintomatica è stata affrontata solo sporadicamente in medicina veterinaria. Al
riguardo, la letteratura è pressoché assente. Molto genericamente alcuni autori indicano la possibilità di eseguire interventi di decompressione-stabilizzazione, ma la descrizione
di una tecnica dettagliata non è, ad oggi, rintracciabile.
Tabella 1
TIPO
INCIDENZA
PRESENZA SEGNI
NEUROLOGICI
RAZZE MAGGIORMENTE
COLPITE
Emivertebra
frequente
frequente
Carlino, Bulldog,
Bouledogue Francese
Vertebre a blocco
rara
Solitamente assenti
tutte
Lussazione
Atlo-assiale
frequente
frequente
Piccola taglia (Yorkshire T.,
Maltese, barboncino)
Occasionale grandi taglie
Chirurgica
Osteocondromatosi
rara
possibile
Tutte le razze
Chirurgica
Spina bifida
rara
possibile
Bulldog
Stenosi vertebrale
rara
possibile
Dobermann, Alano, altre
TERAPIA
Chirurgica
Chirurgica
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Nella pratica, gli approcci dorsali si sono rivelati molto
difficoltosi. La decompressione dorsale, usata come unica
procedura, provoca un aumento dell’instabilità con risultati
clinici disastrosi. La stabilizzazione in distrazione del rachide toracico è difficilmente effettuabile per via dorsale, a causa della inconsistente struttura degli archi vertebrali a questo
livello e del difficile approccio ai corpi vertebrali, quasi per
intero situati in cavità toracica e rivestiti da pleura.
Per tutti questi motivi, un approccio ventrale per via transtoracica, sembrerebbe più idoneo e di seguito viene descritto.
TECNICA
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grande (rottweiler). L’autore ha trattato tale malformazione
anche in pastore tedesco, dobermann, terranova.
Il difetto congenito alla base dell’anomalia consiste nall’aplasia del dente dell’epistrofeo o nell’aplasia- ipoplasia
del complesso legamentoso che unisce il dente dell’epistrofeo all’atlante. Ne risulta un’instabilità dell’articolazione
con compressione midollare focale.
I segni clinici si manifestano più frequentemente in accrescimento, tuttavia la patologia può rendersi evidente a
qualsiasi età. La sintomatologia varia da dolore cervicale in
assenza di deficit neurologici a forme gravi di tetraparesi.
La terapia è essenzialmente chirurgica. Varie tecniche sono
state descritte dettagliatamente in letteratura. L’approccio e la
stabilizzazione dorsale con filo metallico ha rappresentato per
lungo tempo la tecnica d’elezione. Recentemente è stata comunque quasi totalmente sostituita dall’approccio ventrale con
stabilizzazione ad opera di viti transarticolari. Quest’ultima
tecnica ha garantito buoni risultati, pur risultando di non sempre facile esecuzione, soprattutto in pazienti di piccolissima taglia (peso corporeo < 1 kg). In tali soggetti il teatro operatorio
è di dimensioni estremamente ridotte e il corretto posizionamento delle viti transarticolari risulta poco agevole. In particolare risultano estremamente frequenti i posizionamenti troppo mediani con coinvolgimento del canale spinale, o quelli
troppo laterali con scarsa tenuta delle viti.
Scopo di questa presentazione è quello di presentare una
tecnica di stabilizzazione fusione con approccio ventrale,
che sia di facile attuazione in qualsiasi tipo di paziente.
Si effettua una toracotomia laterale, possibilmente a livello
dello spazio costale corrispondente allo spazio intervertebrale di
massima deviazione spinale. Spostato il lobo polmonare caudale ventralmente, si identificano alcuni punti di repere fondamentali: 1) Emivertebra 2) arco aortico ed aorta toracica 3) vasi intercostali 4) tronco simpatico. I vasi intercostali a livello dell’emivertebra e lungo tre segmenti vertebrali cranialmente e caudalmente ad essa vengono cauterizzati. Si scolla quindi la pleura parietale dai corpi vertebrali e si identificano gli spazi discali.
Tra questi, quelli adiacenti all’emivertebra vengono aperti e curettati. Successivamente a questo livello si eliminano le placche
terminali vertebrali con idonea fresa pneumatica. Viene quindi
posizionata una vite per ciascun corpo vertebrale (due, tre viti
cranialmente e caudalmente all’emivertebra). Le viti, inserite nel
corpo vertebrale fino a comprendere due corticali, vengono lasciate sporgere in cavità toracica per almeno 5 mm. Sul secondo corpo vertebrale a partire dall’emivertebra, viene applicato,
cranialmente e caudalmente un filo di Kirschner (diametro 1.52 mm) su cui viene ancorato il distrattore vertebrale. Si applica
quindi una graduale distrazione al rachide fino ad eliminare o diminuire notevolmente la deviazione patologica.
A livello degli spazi intervertebrali precedentemente
aperti e fresati, si applica osso spongioso, precedentemente
prelevato a livello di testa omerale.
La fissazione in distrazione è quindi ottenuta con l’applicazione di polimetilmetacrilato.
La chiusura della breccia toracotomia avviene more solito.
I risultati fin qui ottenuti con questa tecnica sono incoraggianti. Sono stati trattati 7 pazienti (6 carlini, 1 Yorkshire
Terrier). Tutti i soggetti trattati erano affetti da grave paresi
posteriore. Un paziente è deceduto nel periodo perioperatorio per cause non connesse alla tecnica. In due pazienti si è
registrato miglioramento fino ad una deambulazione quasi
nella norma, caratterizzata da lieve atassia locomotoria. In 4
soggetti si è registrato deciso miglioramento con persistenza di paresi deambulatoria.
È opinione dell’autore che l’ottimizazione della tecnica
unita ad una maggiore precocità di riconoscimento della patologia e precocità di trattamento, porterà ad un ulteriore miglioramento dei risultati.
Si esegue un approccio ventrale con scheletrizzazione accurata dell’arco ventrale dell’atlante, del corpo dell’epistrofeo e dell’articolazione atlo-epistrofica. Quest’ultima viene gentilmente
aperta con uno scollaperiostio e, attraverso l’uso di fresa pneumatica, viene eliminata quanta più possibile cartilagine articolare. Si applicano quindi due viti a direzione ventro/dorsale e cranio/caudale sull’arco dell’atlante, a sede paramediana. Altre due
viti vengono applicate sul corpo dell’epistrofeo, questa volta a direzione cranio-caudale e medio-laterale. Il diametro delle viti varia a seconda della taglia: in soggetti di razza toy, viti di 2 mm di
diametro costituiscono la soluzione ottimale. Tutte le viti vengono lasciate sporgere dalla compatta dell’osso per 5-10 mm.
Si applica quindi osso spongioso a livello dell’articolazione atloepistrofica, a garanzia di una precoce fusione articolare a quindi si fissano fra loro le viti con l’applicazione di
polimetilmetacrilato. La chiusura della via di accesso ventrale al collo avviene more solito. La tecnica descritta garantisce una buona stabilizzazione, eliminando gran parte delle
difficoltà tecniche legate all’uso di viti transarticolari. È stata usata con successo dall’autore in soggetti di tutte le taglie,
tuttavia è soprattutto raccomandabile in pazienti di piccolissima taglia per la sua facilità e rapidità di esecuzione.
SUBLUSSAZIONE ATLANTO-ASSIALE
Indirizzo per la corrispondenza:
Tale malformazione colpisce soprattutto razze di taglia
piccola (barboncino, yorkshire terrier, maltese etc), tuttavia
in letteratura sono segnalati casi nel gatto e in razze di taglia
Dr. Massimo Baroni - Clinica Veterinaria Valdinievole
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TECNICA
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Anestesia nella chirurgia dell’apparato genitale:
piometra e parto cesareo
Roberto Bellentani
Med Vet, Modena
Introduzione
In questa trattazione concentreremo la nostra attenzione
su due interventi di chirurgia dell’apparato genitale che per
frequenza e gravità meritano una discussione a parte.
Inizieremo dal parto cesareo, poi ci occuperemo dell’intervento in caso di piometra.
Parto cesareo
La placenta non rappresenta una valida barriera al passaggio della stragrande maggioranza dei farmaci, inclusi gli
anestetici, perciò attualmente non è possibile evitare che i feti subiscano la loro azione; possiamo però ottimizzare al
massimo il nostro intervento sfruttando la differenza di diffusione fra i vari farmaci, il loro diverso metabolismo, la
possibilità di avere degli antagonisti, la diversa metodica e
sede di somministrazione.
Facciamo un breve accenno ad alcuni problemi che
potrebbero verificarsi nel corso dell’anestesia, in quanto
nella partoriente avvengono modificazioni della normale
fisiologia. Una prima difficoltà potrebbe essere la comparsa di ipossia, dovuta ad anemia relativa, diminuzione
della capacità polmonare residua, aumento del fabbisogno di ossigeno; sarà quindi utile somministrare questo
importante elemento appena possibile. Un altro problema
potrebbe essere l’insorgenza di vomito o rigurgito per aumento della pressione intragastrica, per una diminuzione
della motilità dello stomaco e della tenuta dello sfintere
cardiale per effetti ormonali. Una terza problematica potrebbe verificarsi in soggetti cardiopatici precedentemente non sintomatici: questi potrebbero andare incontro a
scompenso a causa della diminuzione della riserva cardiaca. Infine, è necessario tener conto che la condizione
di partoriente aumenta la sensibilità del soggetto agli
anestetici.
Detto ciò, iniziamo la parte pratica del nostro lavoro cercando di fare una rapida classificazione della nostra paziente in base al suo stato di arrivo in clinica: oltre alla sua salute, sarà utile determinarne condizioni caratteriali, perché
queste influenzeranno il nostro iter anestesiologico.
Per comodità creiamo tre categorie:
1° Soggetti molto tranquilli e fiduciosi oppure molto stanchi e debilitati, che comunque accettano senza problemi
le manualità prechirurgiche (inserimento cannula endovenosa, tosatura addome).
2° Soggetti abbastanza tranquilli, ma un po’ tesi, accettano
l’inserimento di una cannula endovenosa, tendono però
ad agitarsi col rumore della tosatrice e non sopportano il
decubito anche laterale.
3° Soggetti molto agitati, aggressivi, impauriti, reagiscono
alle manualità ed anche solo per inserire una cannula endovenosa è necessario contenere l’animale con decisione, o addirittura lottare.
Se il soggetto appartiene alla prima categoria dovremmo
essere in grado di espletare tutte le manovre prechirurgiche
con l’animale sveglio; è opportuno che le nostre manualità
siano dolci e prudenti e la presenza del proprietario in questa fase iniziale potrebbe essere d’aiuto.
A questo punto l’animale è sul tavolo operatorio e possiamo iniziare l’induzione e l’anestesia del soggetto; sceglieremo il nostro protocollo di induzione e mantenimento
prediligendo farmaci a rapido smaltimento o con possibilità
di antagonismo. Nella relazione vengono proposte alcune alternative che, a seconda dell’attrezzatura presente nella
struttura, della maggiore famigliarità con alcune manovre o
farmaci da parte dell’anestesista, possono essere convenientemente utilizzate. È ovvio che, potendo disporre di un’animale già preparato che possiamo anestetizzare ed operare
immediatamente, siamo nelle condizioni di mantenere una
delle regole fondamentali, cioè la massima rapidità della nostra procedura anestesiologica.
Passiamo ora a considerare la seconda categoria di partorienti: siamo riusciti ad inserire una cannula in vena senza
stressare troppo l’animale, ma esso non ci permette altre manovre perciò, per eseguire le manualità prechirurgiche, facciamo una sedazione endovenosa. Possiamo utilizzare varie
possibilità, considerando che comunque la nostra via di somministrazione già di per sé rappresenta un vantaggio. Alla fine della preparazione della paziente, passiamo alla conduzione anestesiologica come nelle pazienti della 1° categoria.
Infine, nei soggetti molto reattivi che collochiamo nella
3° classe, dovremo fare precedere a tutte le metodiche precedentemente elencate una premedicazione in muscolo, ad
esempio una associazione di midazolam, petidina e medetomidina, oppure al posto della medetomidina, se le condizioni
dell’animale ne sconsigliano l’utilizzo, inserire la ketamina.
Non si è accennato all’utilizzo dell’atropina in fase di
premedicazione: come in altre procedure anestesiologiche,
l’uso di questo farmaco è piuttosto controverso ed in particolare in questo tipo di anestesia, secondo molti autori, gli
svantaggi supererebbero i vantaggi. L’autore non la utilizza di routine.
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Finito l’intervento dobbiamo occuparci della gestione
del postoperatorio: la madre dovrebbe essere rapidamente in
grado di occuparsi dei cuccioli, ma dovremo fare maggior
attenzione rispetto ad un risveglio per altri tipi di chirurgia,
che le sue facoltà fisiche e mentali consentano una adeguata
gestione dei neonati. I cuccioli vanno rapidamente liberati
dalle membrane placentari, la bocca ed il naso devono essere puliti ed eventuali liquidi verranno aspirati, poi andranno
massaggiati delicatamente, asciugati e tenuti al caldo. Nel
caso siano stati somministrati alla madre farmaci antagonizzabili e si sospetti che i cuccioli siano ancora sotto il loro effetto, è possibile somministrare gli antagonisti specifici.
Piometra
In questi ultimi anni, la maggior disponibilità di un sensibile metodo di indagine delle patologie uterine come l’ecografo, ha sicuramente abbreviato e reso assai più preciso
l’iter diagnostico per questa malattia; ciò ha consentito di
vedere la patologia precocemente, spesso nelle prime fasi
del suo sviluppo. Per tal motivo accade sempre più spesso di
operare animali in buone condizioni con minime variazioni
del loro stato di salute. Però può avvenire che, per disattenzione o incuria da parte del proprietario, o per le caratteristiche di patologia subclinica che possono essere riscontrate in
alcuni soggetti o, infine, per incidenti che possono verificarsi, come la rottura dell’utero con peritonite, si arrivi ad operare animali in condizioni molto gravi.
Solitamente questi soggetti presentano problemi di
scompenso elettrolitico ed acido-basico e/o patologie da infezione generalizzata.
Una buona gestione anestesiologica di questi soggetti comincia prima dell’anestesia vera e propria: la paziente va
stabilizzata cercando di modificare con la fluidoterapia le alterazioni che sono state riscontrate con la visita e le indagini di laboratorio. In caso di sepsi anche la terapia antibiotica
andrà iniziata precocemente, prediligendo la via endovenosa. Di solito i soggetti in condizioni gravi si trovano già sotto infusione endovenosa, per cui potremo iniziare la somministrazione degli anestetici attraverso questa via: inizieremo
con un’analgesia-sedazione preoperatoria con un oppioide a
rapida azione come il fentanest, eventualmente alternato ad
un basso dosaggio di diazepam per scongiurare fenomeni eccitativi che si possono verificare con l’uso di questo farmaco in animali non premedicati. Poi si passa all’induzione,
evitando farmaci come i barbiturici, per le loro doti di depressione cardiocircolatoria protratta e predisposizione alle
aritmie; la scelta può ricadere sulla miscela diazepam-ketamina oppure sul propofol. I farmaci ipnotici ideali per il
mantenimento sono quelli gassosi, in particolare l’isofluorano, ovviamente con l’aggiunta di altre dosi di analgesico op-
19
pioide per garantire una adeguata analgesia chirurgica. Anche in questo tipo di anestesia, come per altro nel cesareo, è
possibile utilizzare i bloccanti neuromuscolari, in quanto per
alcuni autori questi farmaci sono in grado interagire con gli
ipnotici consentendone una riduzione del dosaggio; inoltre,
possono migliorare le condizioni operative rendendo più rapida e sicura la chirurgia, il tutto mantenendo sostanzialmente inalterate le funzioni cardiovascolari.
Conclusioni
L’assistenza anestesiologica che prestiamo in caso di chirurgia dell’apparato genitale femminile, può richiedere un
grosso impegno ed una notevole prontezza in quanto molto
spesso gli animali sottoposti a questi interventi sono fortemente stressati ed in condizioni non ottimali. In particolare,
nel parto cesareo, le nostre decisioni influenzeranno non solo la vita del paziente sottoposto ad anestesia, ma anche
quella dei nascituri.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Roberto Bellentani
Ambulatorio Veterinario Via Sant’Antonio 10 - 41043 Formigine (MO)
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Patologie gestionali nei rettili
Alessandro Bellese
Med Vet, Venezia
I rettili tenuti in cattività sono soggetti ad una serie di
problemi e patologie legati a vari fattori correlati strettamente a tale condizione. Tali fattori comprendono la gestione e
la realizzazione di un habitat adatto per ogni singola specie,
il rispetto delle caratteristiche fisiche, ecologiche, eto-psicologiche dell’animale, il corretto rapporto uomo-animale.
Cercheremo di puntualizzare i vari punti deboli nella gestione generale degli animali “da terrario” considerando la notevole variabilità tra le specie, di evidenziare i problemi derivanti dall’errore e di suggerire quindi le possibilità di prevenzione e terapia.
PARAMETRI AMBIENTALI DELL’HABITAT
ARTIFICIALE
La prima cosa da considerare nell’allevamento dei cosiddetti animali da terrario è che sebbene alcune specie siano riprodotte da varie generazioni, non possono essere considerati domestici, ma selvatici tenuti in cattività con caratteristiche fisiologiche peculiari che necessitano di vivere in un
microhabitat che riproduca il più fedelmente possibile i parametri ambientali che troverebbero in natura. I parametri
più importanti sono la luce, la temperatura e l’umidità ambientale.
Per quanto riguarda la luce bisognerà considerare il fotoperiodo, la qualità e quindi il tipo di radiazioni utili, l’intensità luminosa. Ogni specie è adattata a vivere seguendo un
determinato ritmo di luce circadiano che scandisce le varie
attività fisiologiche e comportamentali giornaliere. Inoltre la
variazione stagionale delle ore di luce ha un’importanza
estrema per la fisiologia ed il comportamento riproduttivo di
molte specie. Il tipo di radiazioni emesse dalle lampade utilizzate per l’illuminazione artificiale è d’importanza estrema
per alcune specie. Per molti rettili diurni i raggi UVB sono
indispensabili per la fotosintesi della vitamina D3 e quindi
per l’assimilazione del calcio. Anche i raggi UVA hanno una
notevole importanza, i rettili hanno la capacità di vedere nello spettro UVA, quindi lampade che emettono questa luce
portano a benefici psicologici (o meglio eliminano il problema di una visione permanentemente alterata), stimolano l’alimentazione e l’attività riproduttiva.
Riguardo alla temperatura bisognerà considerare quella
preferita per la specie, la realizzazione di un gradiente termico, la misurazione dei valori assoluti, la modalità di somministrazione ed assorbimento. È essenziale che ogni specie
abbia a disposizione un gradiente termico che permetta il
raggiungimento della temperatura corporea preferita che
può variare secondo il momento fisiologico. Da tenere pre-
sente che terrari di piccole dimensioni si riscaldano uniformemente non garantendo una corretta variazione di temperatura. La temperatura deve essere misurata in più punti del
microhabitat per evitare il mantenimento a temperature eccessivamente basse o alte. L’assorbimento del calore varia
secondo le specie, così un’iguana verde, sauro arboricolo
diurno preferirà riscaldarsi da una fonte radiante che imiti il
sole, mentre un serpente terricolo notturno troverà più fisiologico assorbire calore per conduzione dal substrato o da una
superficie riscaldata. Infine da non sottovalutare l’effetto
serra che si ottiene esponendo una teca in vetro alla luce solare diretta che può causare un surriscaldamento letale in pochi minuti.
Il terzo parametro essenziale è l’umidità, considerata come atmosferica dell’habitat d’origine della specie considerata, come condensa ed accumulo sulle pareti e sul fondo e
substrato, come umidità insufficiente, e come aree ad umidità diversa dal resto dell’ambiente. La scorretta gestione
dell’umidità ambientale può provocare problemi cutanei più
o meno gravi, come disecdisi e malattia vescicolare, problemi respiratori, renali e problemi legati all’aumento della carica batterica e micotica in ambiente caldo umido.
SISTEMI DI GESTIONE DEI PARAMETRI
AMBIENTALI
La luce e la temperatura sono fornite da sistemi d’illuminazione e riscaldamento, la cui gestione può essere essa
stessa fonte di problemi.
I cavi elettrici se aggredibili dagli animali possono causare elettrocuzioni. Le lampade ad incandescenza possono
causare ustioni. Le lampade neon emettitrici di raggi UVB
con il tempo diminuiscono l’emissione radiante e tale emissione è bloccata da vetro, plastica ed addirittura rete a maglie troppo fine, quindi la loro gestione corretta e la loro sostituzione periodica è importante nelle specie che necessitano di radiazione UVB.
I vari sistemi di riscaldamento se non gestiti adeguatamente possono provocare ustioni e se non controllati sottopongono gli animali a temperature inadeguate. Come già
detto il tipo di sistema utilizzato per fornire calore deve essere compatibile con la modalità d’assorbimento della specie ed il comportamento termoregolatore. Rettili deserticoli
che sfuggono al calore sprofondandosi nella sabbia, probabilmente non apprezzeranno di trovarsi una serpentina riscaldante nascosta nel substrato.
I termometri in vetro possono essere rotti e provocare
traumi ed avvelenamenti da mercurio e piombo.
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ELEMENTI D’ARREDO E DELL’HABITAT
ARTIFICIALE
La teca o altro alloggiamento è dotato di vari elementi
d’arredo e d’utilità.
Il tipo d’arredo è molto importante per il benessere psicofisico dell’animale e dovrà naturalmente tenere presente
dell’habitat d’origine della specie. Anche se l’animale non è
tenuto in un vivario naturalistico dovranno essere rispettate
le esigenze minime ambientali, un rettile arboricolo dovrà
avere a disposizione dei rami in una teca sviluppata in altezza, uno deserticolo, delle rocce ed un substrato adatto.
Il substrato utilizzato ha una notevole importanza e nella
scelta vanno considerati diversi fattori come l’eco-etologia
della specie, la tipologia d’allevamento (vivario naturalistico, teca da allevamento “intensivo”), l’igienicità, la pericolosità in caso d’ingestione. In caso di gestione all’esterno
può essere importante la composizione del terreno (ad es.
sufficientemente drenante per specie di habitat aridi).
Importante è anche la disponibilità di un corretto substrato da deposizione per evitare problemi di distocia da indisponibilità del nido.
L’acqua è un elemento essenziale dell’habitat sia per
quanto riguarda la qualità dell’acqua di stabulazione nelle
specie acquatiche e semi acquatiche sia per quanto riguarda
l’acqua da bere ed in particolare le modalità di somministrazione, la sua qualità ed igiene.
Per molte specie è importante fornire dei rifugi adatti, in
mancanza dei quali si determina una situazione cronicamente
stressante. In molti casi è utile disporre più rifugi in varie zone
termiche e che abbiano all’interno diversi gradi d’umidità.
Altri elementi d’arredo come rami, pietre ed altri vanno
fissati stabilmente in quanto possono causare gravi traumi se
cadono sugli animali. Le superfici non devono avere porzioni traumatizzanti come spine o margini taglienti. I rami inoltre dovranno essere di dimensione adatta a sorreggere il peso dell’animale e posizionati in funzione della preferenza
delle specie, così in genere camaleonti ed iguane preferiscono rami orizzontali, mentre certi agamici strettamente arboricoli stanno preferibilmente su rami notevolmente inclinati
GESTIONE IN ESTERNO
Alcune specie possono essere allevate in esterno sia in
terreni recintati in vario modo sia in gabbie.
In questo tipo di gestione vanno considerati vari fattori
come le temperature stagionali, la corretta esposizione al sole, la presenza di rifugi e zone d’ombra, la disponibilità d’acqua, la corretta composizione del terreno, la protezione contro eventuali predatori, la possibilità di fuga, la delimitazione delle aree d’allevamento nei giardini, la corretta gestione
del letargo.
QUARANTENA
Importante l’instaurazione di programmi di quarantena
per i nuovi arrivi e la divisione in gruppi con priorità d’interventi gestionali in caso di patologie infettive in collezioni.
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CONVIVENZA CON ALTRI ANIMALI
Spesso nella gestione domestica vi è la compresenza di
altre specie animali. Queste possono essere rappresentate
da animali domestici classici e “nuovi” animali da compagnia come da altri “animali da terrario” sia della stessa specie sia di specie diverse. Per quel che riguarda i domestici
i problemi riguardano principalmente la predazione in particolare da parte dei carnivori come cane, gatto e furetto.
Quando sono alloggiati nello stesso terrario o situazione,
rettili di specie diversa, i problemi possono essere legati allo scambio di patogeni contro i quali il sistema immunitario di una determinata specie non è preparato oppure ad incompatibilità eco-etologiche (predazione, diverso habitat,
diversa alimentazione etc.).
Anche la convivenza d’animali della stessa specie spesso
è sconsigliabile e comunque deve tener conto delle caratteristiche di territorialità, dei rapporti sociali (sessuali, gerarchici ecc), della differenza di dimensioni, del rapporto numerico tra i sessi.
RAPPORTO CON L’UOMO
Spesso nella gestione dei rettili tenuti come pet vi è
una tendenza all’antropomorfizzazione ed alla considerazione dell’animale come un classico animale domestico,
sottovalutando o addirittura non considerando le peculiari
necessità ambientali di questi animali. Ci si trova quindi
spesso di fronte a situazioni tipo cheloni palustri o iguane
tenute come cagnolini in giro per la casa, condizione che
ovviamente non garantisce i parametri minimi d’illuminazione, temperatura ed umidità esponendoli tra l’altro a tutta una serie d’incidenti domestici.
La maggior parte delle specie inoltre mal sopporta la manipolazione che spesso questo tipo di considerazione del
“pet” comporta. Alcune sopportano meglio di altre, ma in
ogni caso solo dopo un approccio graduale e ragionato.
Drammaticamente spesso, molti di questi animali (vedi “tartarughine nane”, iguane, “draghetti”, e vari piccoli
ofidi) sono acquistati da o regalati a bambini o comunque
a giovani persone.
Nella maggioranza dei casi queste, se non educate
adeguatamente e supervisionate, non sono in grado di
comprendere adeguatamente il substrato cognitivo alla
base della gestione delle vite che si trovano ad avere tra le
mani.
Concludendo, l’approccio clinico, terapeutico e prognostico a questi animali deve tenere conto anche di una numerosa serie di fattori che vanno oltre la scienza medica ma che
abbracciano la biologia, l’ecologia, l’etologia e finanche la
psicologia umana.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alessandro Bellese
Ambulatorio SPINEA (VE), Via M. Buonarroti, 38
Tel. 041 5412007
e-mail [email protected]
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Alimentazione e patologie alimentari nel furetto
Fabrizio Benini
Med Vet, Treviso
Anatomia e fisiologia dell’alimentazione
Il furetto è un carnivoro stretto, che richiede una dieta
basata esclusivamente su proteine di origine animale. La
sua anatomia e fisiologia sono specializzate per un’attività
di tipo predatorio e il consumo e l’assimilazione di piccoli
animali.
La dentatura, costituita da denti affilati, è atta a catturare le prede con i canini acuminati e a lacerarle con i premolari e molari affilati. L’intestino è relativamente corto,
senza distinzione macroscopica tra tenue e colon, caratterizzato da una velocità di transito particolarmente elevata
(circa 3 ore), come adattamento ad un regime alimentare
basato esclusivamente su alimenti di origine animale. Questi alimenti, molto nutrienti e facilmente assimilabili, richiedono infatti un processo digestivo relativamente semplice e rapido. Il cieco, organo tipicamente deputato a processare la fibra, è assente nel furetto, e la flora batterica è
semplice e poco significativa, a ribadire la specializzazione di questa specie per un regime che non comprende alcun
tipo di alimenti di tipo vegetale, ad eccezione del contenuto gastrointestinale delle prede ingerite.
Il furetto richiede quindi una dieta basata esclusivamente su proteine animali di elevata qualità (altamente digeribili) e comprendente un’elevata percentuale di grassi
animali come fonte energetica. I carboidrati e le proteine
vegetali sono scarsamente assimilati e predispongono a diverse patologie, come verrà descritto in seguito. Anche le
proteine derivate dal pesce sono scarsamente tollerate, e
possono indurre vomito, e non dovrebbero quindi essere incluse nell’alimento del furetto.
Le diete commerciali per cani, le diete per gatti di scarsa qualità, e gli alimenti per furetti che non sono composti
principalmente da alimenti di origine animale sono quindi
inadatti all’alimentazione del furetto. Un buon alimento
per furetti deve contenere il 30-40% di proteine e il 1520% di lipidi; i primi tre ingredienti elencati nell’etichetta
delle caratteristiche nutrizionale devono essere di origine
animale, ad esclusione del pesce e derivati. Un furetto
adulto ingerisce, secondo il suo peso, da 20 a 40 g di crocchette al giorno.
Il mercato offre parecchie marche di alimenti confezionati per furetti, la cui qualità e rispondenza alle necessità di
questo mustelide sono tuttavia raramente soddisfacenti. È
sufficiente esaminare il cartellino per rendersi conto che tra
gli ingredienti principali figurano spesso alimenti inadeguati quali soia, mais, riso e avena, farina di pesce, grasso deidrogenato. Inoltre nelle etichette non viene indicata la dige-
ribilità, un elemento molto importante per giudicare la qualità del prodotto. Possiamo affermare che sono pochissimi i
prodotti confezionati veramente adeguati per questa specie
reperibili nei negozi per animali.
Alcuni autori sostengono in realtà che la dieta migliore per il furetto, quella che più risponde alle sue esigenze
fisiologiche, è costituita da prede intere quali topi, ratti e
pulcini, analogamente a quanto viene somministrato ai
rettili carnivori. Con questo tipo di dieta le feci si presentano piccole e consistenti, al contrario delle feci voluminose e morbide prodotte da animali alimentati con cibi
commerciali. Questo tipo di alimento, sebbene possa essere rappresentato da animali soppressi in modo indolore
e congelati, ha d’altra parte il forte svantaggio di comportare notevoli problemi di tipo psicologico alla maggior
parte dei proprietari.
Altri tipi di considerazioni possono riguardare l’aspetto igienico (possibilità di trasmissione di parassiti gastrointestinali, toxoplasmosi, salmonellosi, ecc.) e dello stato
di salute della preda (gli animali ammalati forniscono un
alimento di scarsa qualità). Non bisogna neppure sottovalutare i pericoli derivanti dalle ossa (azione perforante o
abrasiva) e da pelo e cute della preda (rallentamento sino
alla stasi con blocco intestinale).
Vanno completamente esclusi dalla dieta, od offerti al
massimo come premio occasionale (e per occasionale il
proprietario non deve intendere ogni 2-3 ore!) frutta, vegetali, dolciumi e bocconi per furetti di tipo commerciale. I
prodotti contenenti lattosio possono causare diarrea in alcuni soggetti.
Premi occasionali accettabili sono rappresentati da pezzi
di carne o uova, preferibilmente cotti, anche se il furetto appare molto resistente allo sviluppo di salmonellosi.
I furetti tendono a sviluppare forti preferenze alimentari
nei primi mesi di vita, rendendo in seguito molto difficile ottenere un cambiamento di regime alimentare. Pertanto è opportuno abituare il giovane furetto ad assumere diversi tipi di
alimento. In caso di necessità il furetto può essere costretto
a cambiare dieta eliminando bruscamente il vecchio tipo di
alimento e lasciando a disposizione solo quello nuovo. Fanno eccezione i soggetti affetti da insulinoma, per i quali un
periodo di digiuno superiore a 6 ore può precipitare una crisi ipoglicemica. In questo caso è consigliabile procedere ad
una modifica più graduale.
L’acqua deve essere sempre a disposizione, preferibilmente somministrata tramite un beverino a goccia, il cui corretto funzionamento deve essere verificato dal proprietario
almeno una volta al giorno.
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Gli errori alimentari e le loro conseguenze
Le proteine di origine vegetale favoriscono la formazione di urine alcaline e quindi la precipitazione dei cristalli di
struvite, predisponendo allo sviluppo di calcoli urinari. Questa condizione è rara in soggetti alimentati con proteine animali di alta qualità.
Diete contenenti proteine di scarsa qualità e carenti di
acidi grassi causano alterazioni a carico della cute e del pelo, con sviluppo di pelo opaco, forfora e alterazioni della
cheratinizzazione dell’epidermide fino alla formazione di ulcere. Questa patologia viene corretta dall’utilizzo di integratori a base di acidi grassi, in particolare linoleico, linolenico
e arachidonico.
Si ritiene che la presenza di fibra nell’alimento causi al
furetto alterazioni intestinali e diarrea. Diversi autori speculano che livelli eccessivi di fibra possano essere implicati
nell’insorgenza delle patologie infiammatorie croniche intestinali e dei tumori intestinali del furetto. La quota di fibra
nell’alimentazione del furetto idealmente non dovrebbe superare l’1,5%. Negli alimenti per furetti si trovano comunemente valori del 3% o superiori.
Si ipotizza anche che l’elevata quota di carboidrati presente in buona parte degli alimenti commerciali possa favorire lo sviluppo dell’insulinoma, patologia tumorale delle
cellule beta del pancreas, che nei furetti americani ha un’incidenza altissima (25-38%, secondo gli autori). L’eccesso di
carboidrati causerebbe una sovrastimolazione delle cellule
beta, che andrebbero incontro dapprima ad un’iperplasia e in
seguito ad una trasformazione tumorale. Quest’ipotesi è
rafforzata dalla constatazione che nei furetti alimentati con
prede l’incidenza dell’insulinoma è bassissima.
L’abuso di alimenti ricchi di carboidrati, la difficoltà di
razionamento dei fuori pasto e l’abitudine a non limitare
l’accesso al cibo favoriscono l’insorgenza dell’obesità, in
particolare se l’animale è costretto in gabbia per lunghi periodi. L’obesità è la patologia alimentare più frequente riscontrata nei furetti da compagnia. La riduzione di peso va
ottenuta preferibilmente permettendo al furetto di fare più
attività fisica e riducendo la quantità di cibo a disposizione.
La somministrazione di alimenti a basso contenuto calorico
per altri animali è da evitare, a causa dell’eccessiva percentuale di fibra che contengono.
L’eccesso alimentare di acidi grassi polinsaturi, eventualmente accompagnato da una contemporanea carenza di
vitamina E, può causare l’insorgenza di steatite. La correzione dell’alimentazione e la contemporanea supplementazione con vitamina E alla dose di 30 mg al giorno per dieci
giorni, seguita da 15 mg per i successivi 5 giorni e continua-
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ta con 10 mg per tutta la vita del furetto può portare al miglioramento della condizione.
I cibi umidi e/o zuccherini accelerano la formazione
della placca dentale destinata poi ad evolvere in tartaro.
Premolari e molari sono i denti maggiormente interessati
da questo problema.
Uno stato di prolungata malnutrizione nel furetto adulto provoca ipofertilità sia nel maschio che nella femmina,
e gravidanze con un numero ridotto di feti. I piccoli alla nascita risultano meno vitali; inoltre il latte materno insufficiente e carente degli elementi nutrizionali ne causa una
crescita stentata evidenziata da disidratazione, ipotermia e
ipoglicemia.
Anche se non è una patologia strettamente alimentare,
vale la pena citare, per la sua frequenza ed importanza in
questa specie, l’ingestione di corpi estranei. L’asportazione
di corpi estranei gastrointestinali è l’intervento chirurgico
più frequente nel furetto, dopo la sterilizzazione. Gli oggetti in gomma morbida, in particolare, vengono rapidamente fatti a pezzi ed ingeriti, se lasciati a disposizione, cosa che è da evitare accuratamente. La prevenzione di questa patologia si effettua sull’attenta gestione del furetto,
che non deve avere accesso a nessun oggetto pericoloso
quando viene lasciato libero in casa.
L’ingestione di materiale non alimentare può anche trarre origine da un’assenza di stimoli nei furetti trascurati e tenuti isolati in gabbia, che possono volgere le loro attenzioni
agli arredi, prima distruggendoli e poi, in parte, ingoiandoli.
Il furetto può sviluppare problemi legati allo sviluppo di
tricobezoari causati dall’ingestione di pelo, con conseguente
ostruzione intestinale. La somministrazione di lassativi (lattulosio o oli minerali) durante i periodi di muta aiuta a prevenire questa patologia. Alcuni autori sostengono che una
dieta costituita da prede intere permette al sistema digestivo
del furetto di liberarsi agevolmente dal pelo ingerito, senza
necessità di ricorrere a lassativi.
In conclusione, il regime alimentare migliore per il furetto è ancora oggetto di dibattito e probabilmente nessuna
dieta commerciale risponde perfettamente alle esigenze di
questo carnivoro, perfettamente adattato alla digestione di
prede intere.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrizio Benini
Via IV Novembre 13
Biban di Carbonera (TV)
Tel. 0422 445022 fax 02 700431175
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Perché non si pensa mai al sistema nervoso perferico?
Marco Bernardini
Med Vet, Dipl ECVN, Bologna
Le patologie del sistema nervoso periferico (SNP) sono
frequentemente sottostimate nella clinica dei piccoli animali. La sintomatologia può infatti essere facilmente confusa
con quella provocata da altre patologie del sistema nervoso
o di altri apparati.
Nelle forme acute, quali la poliradiculoneurite acuta
idiopatica o “coonhound paralysis” del cane, si assiste alla
comparsa di paresi sui quattro arti che spesso evolve in poche ore a tetraplegia flaccida. Rari casi sono segnalati anche
nel gatto. L’improvvisa perdita della stazione, difficilmente
accompagnata da altri segni chiaramente neurologici (il sistema nervoso sensitivo e autonomo non sono quasi mai
coinvolti, al pari dei nervi cranici e dell’innervazione dei
muscoli della coda e della respirazione) porta a considerare
spesso patologie metaboliche o cardiocircolatorie in grado di
causare debolezza, tralasciando l’ipotesi neurologica. In altri casi, l’interessamento contemporaneo dei quattro arti porta ad erronee localizzazioni neurologiche a livello cervicale,
se non addirittura intracranico.
In realtà, un buon esame neurologico potrebbe molte volte aiutare ad inquadrare il problema, vista la marcata ipo/ariflessia spesso presente. Gli studi elettromiografici evidenziano potenziali di fibrillazione o altri segni di denervazione, ma non sono utili per una diagnosi precoce, visto che
le alterazioni sono evidenziabili in quinta-sesta giornata. La
velocità di conduzione nervosa è spesso normale, principalmente perché il tratto di nervo esaminabile è distale al segmento principalmente coinvolto.
Più subdole da un punto di vista diagnostico sono le forme croniche, sia di natura infiammatoria (poliradiculoneurite cronica recidivante, polineuropatia cronica recidivante,
polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica), che
metabolica, ormonale, degenerativa o paraneoplastica. In
questi casi le manifestazioni cliniche hanno un esordio più
subdolo e graduale, lentamente progressivo e possono presentare periodi di remissione spontanea o indotta da terapie
sintomatiche. La debolezza e l’iporiflessia possono non essere molto marcate, specialmente nei primi periodi. L’atrofia
muscolare passa sovente inosservata per la gradualità con
cui si instaura o può essere mascherata da fattori esterni come, per esempio, il pelo lungo. Inoltre, viene spesso confusa con un dimagrimento dell’animale o attribuita a disuso.
Animali considerati pigri o precocemente invecchiati possono essere portatori di patologie del SNP. Alcuni soggetti deboli possono tendere a compensare la debolezza con un aumento in parte volontario e in parte riflesso del tono muscolare, mostrando un certo grado di spasticità che può portare
ad erronee localizzazioni. Altre volte, la forte debolezza è re-
sponsabile di andature stentate, barcollanti, che possono simulare una grave atassia.
Altri fattori che possono condizionare negativamente la
diagnosi di patologie del SNP possono essere riferibili a:
1. Scarsa conoscenza delle patologie. Molte sono rare, legate alla razza, su base degenerativa e/o ereditaria e poco segnalate in letteratura.
2. Assenza di familiarità con gli iter diagnostici.
3. Limitata diffusione delle apparecchiature necessarie.
4. Una certa invasività di alcune prove.
Con l’elettromiografia (EMG) si possono evidenziare
processi patologici a carico dei pirenofori degli α-motoneuroni, della radice del nervo, del nervo stesso e del muscolo.
L’equipaggiamento per l’EMG consiste di alcuni elettrodi,
un preamplificatore, un amplificatore, un monitor, un amplificatore audio e un altoparlante. Possono essere testati
tutti i muscoli innervati da nervi cranici e spinali: in base al
singolo caso clinico si deciderà quale muscoli esaminare.
Nel cane e nel gatto sono necessari circa 5 giorni perché una
qualsiasi patologia neuromuscolare sia svelabile attraverso
l’EMG. Con l’EMG raramente si arriva ad una diagnosi, ma
si ottengono ulteriori informazioni che indirizzano il clinico verso la risoluzione del caso: l’EMG permette di localizzare più precisamente l’estensione della lesione; è possibile
vedere, in associazione alla velocità di conduzione nervosa
e alla stimolazione nervosa ripetuta, quale parte dell’unità
motoria è coinvolta dalla patologia; è possibile avere una
valutazione oggettiva della patologia; i risultati ottenuti dopo esami ripetuti possono quindi essere confrontati per osservare il decorso della malattia e formulare una prognosi.
Parallelamente all’EMG, la misurazione della velocità di
conduzione nervosa (NCV) motoria e sensitiva permette di
valutare la presenza di assonopatie e/o quadri di demielinizzazione primitiva o secondaria. Risposte anormali a stimolazioni ripetute dello stesso nervo (RNS) potrebbero far
sospettare patologie della giunzione neuromuscolare (p. es.,
miastenia grave).
Il prelievo di campioni nervosi e muscolari è utile quando
costituisce la fase finale di un corretto approccio al SNP (esame neurologico, esami di laboratorio, elettrodiagnostica), altrimenti rischia di essere una procedura inutilmente invasiva.
Fondamentale è la collaborazione con un laboratorio veterinario in grado di interpretare correttamente i campioni ricevuti. Le biopsie muscolari sono indicate principalmente in
caso di miopatie, ma possono essere utili anche in caso di
neuropatie periferiche. Generalmente non presentano difficoltà di esecuzione. Per ottenere un campione significativo, si
consiglia di prelevarlo previo accesso chirurgico al muscolo
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prescelto, invece di usare trucut or punch. La scelta del muscolo dipende dalla sintomatologia presentata dall’animale,
dalla diagnosi differenziale e dai risultati dell’EMG. A seconda delle situazioni possono essere raccolti vari campioni,
dallo stesso muscolo o da più muscoli, che vengono conservati in soluzione fisiologica, in formalina o in glutaraldeide a
seconda del tipo di esame che si vuole effettuare. La biopsia
di un nervo periferico è indicata in caso di neuropatie periferiche e si abbina sempre ad una biopsia muscolare. La metodica consiste nell’evidenziazione chirurgica del nervo prescelto (di solito ulnare o peroneo) e l’asportazione di una sottile porzione longitudinale, della lunghezza di circa 3 cm. La
difficoltà maggiore, specialmente per nervi di piccolo calibro, consiste nel non asportare un fascicolo troppo grosso,
per non causare lesioni funzionali, nè troppo sottile, che ri-
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schia di essere costituito principalmente da connettivo epineurale. Una volta prelevate, le fibre devono essere mantenute stirate con un piccolo peso attaccato ad una estremità o fissandole ad un sottile pezzo di legno con due aghi. La quantità di campione prelevabile è sempre modesta, per cui, anche
se studi istologici e immunoistochimici possono essere a volte utili e giustificherebbero la fissazione in formalina, l’esame principale delle fibre nervose è ultrastrutturale e il campione deve essere conservato in glutaraldeide.
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Marco Bernardini
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Rare neoplasie del SNC
Marco Bernardini
Med Vet, Dipl ECVN, Bologna
Le neoplasie del sistema nervoso centrale (SNC) possono coinvolgere sia l’encefalo che il midollo spinale. In generale, un tumore può svilupparsi primariamente a carico
del tessuto nervoso o metastatizzare ad esso. Tumori a carico di tessuti circostanti possono causare compressioni sul
SNC o invaderlo localmente. Per ultimo, il SNC può essere
interessato a neoplasie del sistema linforeticolare, quasi
sempre nell’ambito di un quadro multisistemico.
L’età media di presentazione è di nove anni, ma si includono le neoplasie nella diagnosi differenziale di tutti i
soggetti con 5 o più anni di età. Segnalazioni in soggetti
giovani sono rare, ma possibili. Cellule parenchimali
(neuroni, glia), di rivestimento (meningi, ependima) o di
strutture vascolari (plessi corioidei) possono essere coinvolte nella trasformazione neoplastica. I tumori del SNC
non sono frequenti e vengono stimati nell’ordine di 14,5
cani e 3,5 gatti ogni 100.000. L’avvento di avanzate metodiche di indagine e l’allungamento dell’età media di vita rende la loro diagnosi sempre più frequente. Alcune di
queste neoplasie sono nettamente più frequenti di altre. I
meningiomi sono in generale le neoplasie più riportate
nel cane e nel gatto. In alcune razze di cani, specialmente nei soggetti brachicefalici, i gliomi sono ancora più frequenti, mentre vengono descritti raramente nel gatto. Altre neoplasie vengono invece riportate raramente o in maniera occasionale e quindi sono spesso tralasciate durante
la diagnosi differenziale. Fra questi ricordiamo metastasi
di melanomi, tumori venerei, seminomi, emangiosarcomi,
germinomi, adenocarcinomi polmonari e linfomi epiteliotropi cutanei. Condromi e fibromi aponeurotici si possono sviluppare all’interno della volta cranica, comprimendo l’encefalo. Sono segnalati anche localizzazioni al SNC
dell’istiocitosi maligna del Bovaro del Bernese, plasmocitoma, tumori a cellule granulari, leucemia linfoblastica
e i tumori rabdoidi. In altri casi il tumore si sviluppa in
strutture limitrofe al SNC e può invadere l’encefalo dopo
aver leso la scatola ossea, come nel caso degli adenocarcinomi nasali o più raramente in caso di mastocitomi faringei. Esistono segnalazioni anche riguardo ad angioendoteliomatosi, glioblastomi a cellule giganti, gangliocitomi, sarcomi indifferenziati, craniofaringiomi, teratocarcinomi. I linfomi colpiscono il SNC nel quadro di una localizzazione multicentrica. Raramente, vengono segnalati
linfomi primari.
Fra queste neoplasie ne esistono alcune che, pur infrequenti, non possono essere considerate aneddotiche e sono
state oggetto di studi approfonditi, quali gli ependimomi e
le neoplasie intradurali-extramidollari dei cani giovani.
Considerazioni sulle caratteristiche cliniche e anatomopatologiche di questi tumori costituisce il fine di questa presentazione.
Gli ependimomi si sviluppano a carico del sottile strato di cellule che riveste il sistema ventricolare e possono
manifestarsi sia a livello intracranico che midollare. Sono
neoplasie generalmente benigne, la cui crescita locale può
dare luogo a masse di notevoli dimensioni che possono essere responsabili di compressioni del SNC. Sono anche
stati descritti ependimomi maligni. A livello encefalico,
tali neoplasie tendono a svilupparsi all’interno dei ventricoli cerebrali, solitamente nel III e nel IV. A livello di midollo spinale, gli ependimomi si sviluppano a carico della
parete del canale centrale. Anche se classificabili, quindi,
come neoplasie intramidollari, esse tendono a guadagnare
facilmente la superficie del midollo stesso e a protrudere
all’esterno, diventando chirurgicamente aggredibili previa
durotomia.
Da un punto di vista clinico, la sintomatologia dipende
ovviamente dalla localizzazione della massa. A parte i sintomi locali, causati dalla compressione operata dal tumore
sul parenchima nervoso circostante, il coinvolgimento del
sistema ventricolare e del canale centrale del midollo spinale può comportare ulteriori sintomi nervosi dovuti all’aumento della pressione intracranica per alterato deflusso del liquido cefalorachidiano. Se tali sintomi precedono
quelli diretti, possono essere ipotizzate dal clinico localizzazioni erronee della lesione. Inoltre, sono state descritte
metastasi via liquido cefalorachidiano in altri punti del sistema ventricolare. Macroscopicamente, gli ependimomi
sono masse di colore grigio-rossastro ad aspetto lobulare.
Istologicamente, sono caratterizzati da cellule allungate
disposte intorno a vasi sanguigni dotati di sottili pareti,
che danno luogo a caratteristiche figure denominate
“pseudorosette”.
Nel midollo spinale, tra i tumori intradurali-extraparenchimali (35% dei casi), oltre ai menigiomi e alle neoplasie
dei nervi periferici si annovera un particolare tipo di neoplasie ad incerta classificazione. Gli aspetti istologici variano notevolmente, spesso ricordando un nefroblastoma,
nome col quale sono spesso definiti. Altre volte sono stati
descritti come neuroepiteliomi. Queste neoplasie presentano però una localizzazione costante tra T12 e L2 e sono riscontrabili in soggetti tra il primo e il secondo anno di vita. Per questi motivi vengono correntemente classificati come “neoplasie intradurali-extramidollari del cane giova-
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ne”. Comprimendo il midollo spinale causano una sintomatologia progressiva che spesso è sovrapponibile a quella di un’ernia discale. Non sono infrequenti i casi ad esordio acuto-subacuto. Sono masse singole, ma esiste anche
una segnalazione atipica della contemporanea presenza di
due tumori dello stesso tipo, per cui è stata ipotizzata una
metastatizzazione intradurale. L’esame del LCR può permettere l’evidenziazione di cellule neoplastiche, vista
l’ampia superficie a contatto con lo spazio subaracnoideo.
Le probabilità di quadri diagnostici sono comunque limitate. L’esame mielografico può trarre in inganno, perché le
immagini che si ottengono sono sovrapponibili ad una neoplasia intramidollare: aumento del diametro del midollo in
entrambe le proiezioni ortogonali senza i tipici aspetti a
“tee-golf”. Anche la risonanza magnetica può non risolvere il dubbio diagnostico, nonostante la migliore qualità delle immagini. La chirurgia è teoricamente possibile ed è stata segnalata. La massa appare macroscopicamente ben differenziabile dal parenchima nervoso e relativamente delimitata. Tuttavia, al momento della diagnosi il tumore ha
spesso già raggiunto considerevoli dimensioni, relegando il
tessuto nervoso ad un incompleto anello esterno. All’esame
autoptico si rimane generalmente sorpresi nel constatare
come soggetti con una compressione così grave del midollo spinale fossero ancora, seppur paretici ed atassici, in
grado di camminare.
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Le abiotrofie
Marco Bernardini
Med Vet, Dipl ECVN, Bologna
Le abiotrofie costituiscono un gruppo di malattie che
colpiscono animali di età differenti, a poche settimane di
vita o già in età avanzata, caratterizzate da degenerazione e
morte prematura di popolazioni neuronali localizzate
(esclusivamente o prevalentemente alla corteccia cerebellare) o sistemiche. Le abiotrofie cerebellari sono di gran lunga le più descritte in neurologia e costituiranno il tema di
questa presentazione.
Abiotrofie cerebellari sono state segnalate da tempo in
bovini Angus, Holstein Friesian o incroci Hereford, pecore
Merino e Charollais, cavalli Arabi e alci. Nei piccoli animali le prime seganalazioni risalgono alla fine degli anni ’70 e
sono rimaste per lungo tempo confinate a poche razze (Kerry
Blue terrier, Gordon setter); tuttavia, negli ultimi anni le descrizioni di singoli casi o studi genealogici di abiotrofia cerebellare compaiono con una certa frequenza. Risultano interessati soggetti di varie razze, elencate in seguito. Le abiotrofie cerebellari sono state riportate anche nel gatto.
L’età di insorgenza è molto variabile e permette una classificazione delle abiotrofie in:
1) neonatali o perinatali (Beagle, Podenco Portoghese, Samoyedo); i sintomi si manifestano non appena il cucciolo comincia a camminare e progrediscono con il tempo.
2) postnatali (Australian kelpie, Border collie, Labrador retriever): comparsa tra la sesta e la dodicesima settimana
di vita e rapida progressione.
3) giovanili (Schnauzer nano, Kerry Blue terrier, Airedale,
Collie a pelo ruvido, Barbone nano, Pointer): il cucciolo
è clinicamente normale fino al terzo-sesto mese di vita,
quando cominciano a comparire i segni della malattia. A
questo punto l’evoluzione può essere rapida, in pochi
mesi, o molto lenta, distribuita in parecchi anni. Nei casi
avanzati, nuclei encefalici possono mostrare segni di
abiotrofia.
4) adulte (Gordon setter, Bovaro del Bernese, American
Staffordshire terrier, Pitbull): il cane è clinicamente normale almeno fino al sesto mese di vita e può non presentare segni clinici fino al terzo-quinto anno di vita. L’evoluzione è generalmente molto lenta, per parecchi anni.
5) senili (Brittany spaniels): oltre i sette anni di età.
Le alterazioni metaboliche che portano alla morte cellulare sono generalmente di natura ereditaria. Nei soggetti giovani, le abiotrofie devono essere distinte da forme di
atrofia o ipoplasia. Nel caso delle abiotrofie si riscontrano
popolazioni cellulari normali alla nascita e nelle prime fasi della vita, che ben presto vanno incontro a degenerazione. Negli altri casi la patologia (di solito infettiva, quindi
non ereditaria, caso mai congenita) impedisce lo sviluppo
cellulare, per cui la patologia è già presente al momento
della nascita. L’implicazione clinica di tali concetti è che
nel caso delle abiotrofie gli animali nascono sani e in seguito cominciano a mostrare i segni di una patologia progressiva ad esito infausto; nelle atrofie gli animali nascono con i sintomi della patologia e col tempo possono compensare e quindi migliorare, anche notevolmente, la propria condizione clinica.
Solitamente, solo uno o due soggetti di una cucciolata
sono interessati al problema, essendo la modalità di ereditarietà autosomica recessiva. Nella forma che colpice il Pointer sembrano invece essere coinvolti i cromosomi sessuali.
La reale incidenza dell’abiotrofia cerebellare richiederebbe
studi approfonditi basati per lo meno sull’osservazione clinica degli animali e lo studio dei pedigree. Vari fattori pratici impediscono una corretta verifica.
La nomenclatura delle abiotrofie è confusa. Talvolta si è
dato peso al processo degenerativo osservato istologicamente, per cui al momento di dare un nome alla malattia si è deciso di sottolineare la presenza dell’abiotrofia stessa. Altre
volte si è preferito parlare più genericamente di degenerazione neuronale. In altre occasioni ancora ci si è soffermati
sulla localizzazione delle cellule colpite dal processo degenerativo, per cui si distinguono quadri puramente cerebellari e altri con interessamento di ulteriori aree del SNC.
All’esame generale non si apprezzano alterazioni extraneurologiche. All’esame neurologico, la sintomatologia è
caratterizzata da progressiva comparsa di atassia, aumento
della base di appoggio, frequente perdita di equilibrio,
ipermetria con andatura rigida e perdita di funzioni propriocettive. Nei maschi, la postura a tre zampe durante la
minzione diventa presto difficile. Il tremore del capo non è
un segno particolarmente prominente, specie nelle forme a
lenta evoluzione. Essendo coinvolto il solo cervelletto, lo
stato mentale e l’esame dei nervi cranici non risulta alterato, eccezion fatta per la reazione al gesto di minaccia, spesso dimunuita o assente.
Da un punto di vista clinico l’abiotrofia cerebellare è
tanto più facile da sospettare quanto più l’esordio avviene
in età adulta o matura e la sintomatologia è cronica e progressiva. Tuttavia, la diagnosi definitiva è solo post mortem. Immagini ottenute con risonanza magnetica possono
evidenziare, in alcuni casi, una diminuzione delle dimensioni del cervelletto che, ovviamente, non costituiscono in
sé una diagnosi definitiva. Istologicamente, l’architettura
della corteccia cerebellare può essere variamente alterata.
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Nella maggior parte dei casi si nota una forte diminuzione
delle cellule del Purkinje, mentre le cellule dello strato
molecolare e di quello dei granuli possono essere variamente coinvolti. Quadri di gliosi più o meno marcati possono essere presenti. Tuttavia, i quadri istologici possono
differire notevolmente come aspetto e presentari differenti coinvolgimenti cellulari. Alterazioni a livello dei nuclei
cerebellari o di altre strutture del tronco encefalico sono
state riportate in alcuni casi e tendono a coinvolgere strutture strettamente correlate dal punto di vista funzionale
con la corteccia cerebellare.
La sterilizzazione o comunque l’impedimento alla procreazione sono moralmente consigliabili per evitare il perpetuarsi del problema di generazione in generazione. Purtroppo, nei casi ad esordio tardivo, i segni clinici della malattia possono comparire dopo che il soggetto è già stato avviato alla riproduzione. Anche i genitori e i fratelli della stessa e di altre cucciolate dovrebbero essere esclusi dalla riproduzione, in quanto possibili portatori sani.
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Tecniche di salvataggio delle vie urinarie
Dale E. Bjorling
DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA
Le tecniche di salvataggio delle vie urinarie vengono messe in atto per ripristinare o rimpiazzare, temporaneamente o
permanentemente, l’attività dell’apparato urinario dopo che
una sua porzione è andata distrutta o ha perso la propria funzionalità. Rimpiazzare una porzione delle vie urinarie è spesso
problematico, data la natura altamente specializzata dei vari
tratti di questo apparato. Lo scopo primario di qualsiasi procedura di salvataggio in questo settore deve essere quello di mantenere la funzione normale o conservare un livello accettabile
di qualità della via sia per l’animale che per il cliente. La percezione della qualità della vita può variare con la disponibilità
del proprietario a gestire le complicazioni postoperatorie.
Rene
Le procedure di salvataggio del rene sono limitate a quelle che
possono essere effettuate per preservare la porzione funzionale di
un rene o quelle che costituiscono un’alternativa alla nefrectomia.
La riparazione delle lesioni dei vasi renali ed il reimpianto degli
ureteri possono essere estremamente difficili, soprattutto se vengono tentate senza mezzi di ingrandimento. Un’ischemia senza
raffreddamento per anche solo un’ora esita in una grave e potenzialmente irreversibile lesione del rene. Se il danno a carico dell’organo è limitato ad un solo polo, si può effettuare una nefrectomia parziale per mantenere il tessuto renale funzionale. Una
malattia diffusa del rene impone una nefrectomia totale. Le sonde da nefrostomia convogliano l’urina attraverso la parete corporea a partire dal bacinetto renale. Questi tubi vengono inseriti in
previsione della risoluzione dell’ostruzione ureterale, ma si tratta
di un intervento che viene effettuato con scarsa frequenza in medicina veterinaria. La maggior parte delle lacerazioni renali può
essere chiusa con una sutura continua o a punti staccati in materiale assorbibile 3-0 o 4-0. L’emorragia proveniente dal parenchima renale può di solito essere controllata con l’applicazione di
una pressione digitale o con la legatura dei singoli vasi.
La nefrectomia parziale viene facilitata dalla temporanea
occlusione dei vasi renali. La perfusione del rene non va impedita per più di 30 minuti. La porzione di rene da asportare viene identificata e rimossa. La vascolarizzazione del tessuto renale da rimuovere viene isolata e legata con materiale da sutura assorbibile. I difetti del bacinetto renale possono essere
chiusi con una sutura continua semplice in materiale assorbibile di piccolo calibro (4-0 o 6-0). Il parenchima esposto viene
ricoperto suturandolo al peritoneo parietale, sia in situ che realizzando un lembo sieroso muscolare. In alternativa, il parenchima esposto può essere ricoperto dall’omento o dalla superficie sierosa di un’ansa di intestino (rattoppo sieroso). In assenza di raffreddamento dell’organo, l’ischemia della durata
anche solo di un’ora esita nella perdita permanente di un certo
grado di funzione renale.
Uretere
Le procedure di salvataggio dell’uretere consistono nel riposizionamento dello stesso, del rene o della vescica per compensare una perdita di lunghezza ureterale, la realizzazione di
un lembo vescicale (Boari) o la sostituzione dell’uretere. Quest’ultima è stata effettuata con un segmento di intestino, materiale sintetico, tessuto vascolare o trapianto omologo, ma è risultata comunque decisamente infruttuosa.
L’anastomosi o il reimpianto del tratto prossimale dell’uretere è tecnicamente difficile. Le lesioni del terzo medio del
condotto vengono trattate preferibilmente mediante anastomosi, mentre per quelle del terzo distale si utilizza di norma il
reimpianto dell’uretere stesso in vescica (neoureterovescicostomia). Per compensare una perdita di lunghezza dell’uretere,
è possibile mobilizzare il rene e la sua vascolarizzazione dalle
loro inserzioni a livello del peritoneo e spostarli caudalmente.
Il rene può essere fissato in questa posizione suturando la sua
capsula alla fascia sottolombare. Una procedura analoga può
essere effettuata per spostare la vescica in direzione craniale
(ancoraggio ai muscoli psoas).
Vescica
Le indicazioni più comuni per la cistectomia totale o subtotale sono l’invasione dell’organo da parte di una neoplasia o
la perdita della funzione contrattile dovuta ad una prolungata
sovradistensione o ad una malattia neurologica. Le alternative
attualmente disponibili per la diversione urinaria dopo cistectomia totale o subtotale in medicina veterinaria non sono del
tutto soddisfacenti per periodi di tempo prolungati, principalmente a causa di problemi riferibili ad infezioni, incontinenza
e squilibri elettrolitici.
Il flusso di urina può essere deviato verso la superficie cutanea
eseguendo una cistostomia mediante sonda, una cistostomia diretta o una traslocazione del trigono o degli ureteri sulla cute. Anche
se la cistostomia mediante sonda, la cistostomia e la ricollocazione cutanea del trigono esitano in un significativo rischio di infezione ascendente del tratto urinario, queste procedure (in particolare la cistostomia mediante sonda) offrono una valida alternativa
per la diversione urinaria temporanea, nel caso di animali affetti da
condizioni inoperabili o clienti che desiderano limitare i costi.. La
cistostomia o il trasferimento cutaneo del trigono sono accompagnate da una perdita completa della continenza urinaria e si possono verificare gravi ustioni da urina della cute adiacente all’apertura. Nel cane e nel gatto è stato anche descritto l’inserimento per via
percutanea di sonde da cistostomia. L’introduzione e la rimozione
di tali sonde applicate per via percutanea è stata accompagnata da
difficoltà e si può verificare comunemente una dislocazione prematura. L’autore preferisce inserire le sonde da cistostomia attra-
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verso un’incisione laparotomica utilizzando un tunnel sottocutaneo breve (2-4 cm) (anche se è stato suggerito l’uso di un tunnel
sottocutaneo di 15 cm). Come sonde da cistostomia per periodi di
tempo prolungati (superiori ad un anno) sono state utilizzate con
successo anche quelle da gastrostomia a basso profilo studiate per
l’impianto a lungo termine nello stomaco. La terapia antibiotica
cronica non è consigliata, a meno che non sia presente un’infezione sistemica, perché spesso esita nello sviluppo di ceppi batterici
resistenti ed è raro che riesca ad eliminare l’infezione del tratto urinario mentre la sonda da cistostomia è ancora presente.
È stato descritto un aumento della capacità vescicale dopo
cistectomia parziale mediante enterocistoplastica, ma l’assorbimento dei costituenti urinari, l’aumento della frequenza della minzione ed il costante sviluppo di infezioni limitano l’utilità di queste procedure in medicina veterinaria.
Varie porzioni del tratto gastroenterico, come lo stomaco ed
il piccolo e grosso intestino, sono state utilizzate come condotti
o serbatoi per l’urina nell’uomo e negli animali. A meno che non
venga adattato allo stoma un dispositivo apposito, è necessario
mettere in atto una procedura per garantire la continenza. Le valvole di sintesi non si sono dimostrate del tutto soddisfacenti. Tutte queste tecniche sono state associate ad un certo grado di assorbimento dei costituenti urinari. L’entità del riassorbimento
urinario da parte dei condotti e dei serbatoi intestinali viene determinata parzialmente dalla durata dell’esposizione dell’intestino all’urina. Di conseguenza, il riassorbimento urinario è minore nei condotti intestinali che si limitano unicamente a veicolare
l’urina verso la superficie ed hanno una scarsa capacità di serbatoio. La diversione dell’urina attraverso un segmento intestinale
isolato può esitare in iperazotemia, ipercloremia, ipokalemia ed
acidosi. Queste ultime due si possono avere meno frequentemente quando si utilizzano lo stomaco o il tratto inferiore del tenue. Altre complicazioni di questa forma di diversione urinaria
sono rappresentate da infezione del tratto urinario, secrezione di
muco e formazione di calcoli. Data la necessità di cateterizzazione intermittente per il drenaggio dell’urina, negli animali i
condotti intestinali isolati ed i serbatoi in genere non sono soddisfacenti per questo scopo. Recentemente, sono stati descritti
buoni risultati in seguito all’impianto degli ureteri nel moncone
uterino in cagne ovariectomizzate di proprietà. Tuttavia, questi
animali presentavano un’incontinenza urinaria completa. La trasposizione degli ureteri o del trigono nel tratto gastroenterico integro è la forma di diversione chirurgica dell’urina attualmente
utilizzata con maggiore frequenza in medicina veterinaria.
La diversione urinaria nel tratto gastroenterico integro offre
molti vantaggi per gli animali rispetto ad altre forme di deviazione del flusso: la vescica può essere completamente rimossa,
la continenza urinaria viene mantenuta, si offre all’animale una
vita di qualità ragionevolmente accettabile e si mantiene la funzione renale almeno per parecchi mesi dopo l’intervento. L’impianto degli ureteri nel tratto gastroenterico in posizione situata oralmente al colon è stato abbandonato nell’uomo a causa di
un relativo incremento dell’assorbimento dei componenti dell’urina dovuto ad un prolungamento della durata dell’esposizione all’urina stessa ed alle differenze fisiologiche fra grosso
e piccolo intestino. I problemi che derivano da questa forma di
diversione urinaria sono stati associati principalmente a disturbi metabolici dovuti all’assorbimento di urea, ammoniaca,
elettroliti e ioni e (nell’uomo) allo sviluppo di neoplasie del colon a distanza di parecchi anni dall’intervento chirurgico.
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Le due tecniche che sono state utilizzate con successo in ambito clinico in medicina veterinaria per la diversione dell’urina nel
tratto gastroenterico integro sono l’anastomosi trigono-colica e
quella ureterocolica. L’incidenza della pielonefrite a distanza di 130 mesi dall’anastomosi trigonocolica nei cani normali era simile
(33%; 4 cani su 12) a quella osservata 6 mesi dopo l’anastomosi
ureterocolica in cani normali (40%; 2 cani su 5). A causa della tendenza dei tumori maligni della vescica del cane ad invadere il trigono, l’impiego clinico dell’anastomosi trigonocolica è limitato al
trattamento delle disfunzioni neurologiche della vescica, dell’incontinenza intollerabile, delle malattie dell’uretra e dei traumi. Il
reflusso cronico di urina contaminata dopo l’anastomosi ureterocolica conduce invariabilmente a pielonefrite e perdita della funzione renale. Nessuna delle tecniche descritte per prevenire il reflusso di urina ha avuto un successo uniforme. Oltre all’infezione
del tratto urinario, dopo la diversione dell’urina nel tratto gastroenterico integro sono state osservate numerose complicazioni. Molti
proprietari trovano discutibile il cattivo odore e la consistenza acquosa delle feci. Occasionalmente si verifica la perdita della continenza fecale e ciò, in associazione con la modificazione dell’odore e della consistenza delle feci, può rendere l’animale del tutto insoddisfacente come soggetto da compagnia da tenere in casa. L’iperazotemia che si riscontra dopo l’anastomosi ureterocolica può
essere la conseguenza della disidratazione, dell’ostruzione ureterale, della disfunzione renale o dell’aumento dell’assorbimento dell’urea. Nei cani sottoposti ad anastomosi ureterocolica si è osservato lo sviluppo di disfunzioni neurologiche comprendenti atassia,
stupore, demenza, aggressività e maneggio, che possono essere
dovuti all’iperammoniemia da aumento dell’assorbimento intestinale di ammoniaca. L’acidosi metabolica accompagnata da ipercloremia costituisce un riscontro comune dopo l’anastomosi ureterocolica nel cane e nell’uomo ed è stata attribuita all’assorbimento di ioni idrogeno o ammonio in associazione con ioni cloro.
Uretra
Le affezioni dell’uretra vanno trattate preferibilmente con la resezione e l’anastomosi dell’uretra stessa o la realizzazione di un’uretrostomia prossimale alla lesione. Come già ricordato, se si è avuta la perdita della funzione uretrale si deve anche prendere in considerazione il ricorso, temporaneo o permanente, alla cistostomia
mediante sonda o diretta oppure alle tecniche di diversione dell’urina. Nel cane è stata descritta la sostituzione del tratto prossimale
dell’uretra con un lembo vescicale ventrale, ma a questa procedura è stata associata la comparsa di incontinenza (transitoria a prolungata). L’uso di sostanze di sintesi per la sostituzione dell’uretra
non ha avuto successo, principalmente a causa di problemi correlati al rigetto dell’impianto ed alla perdita di continenza dovuta all’assenza dello sfintere uretrale. Anche se l’uretra può essere rimpiazzata con un segmento isolato di intestino, è difficile mantenere
la continenza e consentire la minzione normale. Nei cani maschi,
si può prendere in considerazione l’anastomosi extrapelvica del
condotto. Tuttavia, se si dispone di un tratto di uretra prossimale di
lunghezza adeguata, l’uretrostomia prepubica resta l’opzione più
ragionevole nei cani e nei gatti (sia maschi che femmine).
Indirizzo per la corrispondenza:
Dale E. Bjorling, DVM, MS, Professor and Chair
Department of Surgical Sciences, School of Veterinary Medicine
University of Wisconsin-Madison, USA
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Ostruzione delle vie urinarie
Dale E. Bjorling
DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA
Valutazione iniziale
Alleviare l’ostruzione
Nella maggior parte dei casi, nella clinica dei piccoli animali l’ostruzione uretrale è dovuta ai calcoli nel cane o ad
una combinazione di cristalli di struvite e muco nel gatto
(una condizione comunemente indicata col termine di sindrome urologica felina o FUS). Il problema si può anche verificare come conseguenza di una neoplasia o dello spostamento della vescica attraverso un’ernia perineale o altri difetti della parete addominale caudale. Il carcinoma delle cellule di transizione che si sviluppa a partire dalla vescica o
dall’uretra è il più comune disordine neoplastico capace di
causare un’ostruzione delle vie urinarie. Le lesioni dell’uretra possono esitare nello sviluppo di tessuto cicatriziale che
porta all’obliterazione del condotto. In rari casi, all’ostruzione uretrale possono essere associate lesioni acute dell’uretra
o dell’osso del pene.
Le ostruzioni uretrali portano rapidamente a disturbi
metabolici che esitano in malattia sistemica; la condizione
è quindi un’emergenza assoluta. L’iperazotemia associata
all’ostruzione uretrale può causare vomito e gli animali
colpiti sono spesso disidratati. La ritenzione di ioni idrogeno determinata dal blocco delle vie di deflusso dell’urina e
la perdita di fluidi dovuta al vomito conducono ad un’acidosi metabolica. Questa è spesso accompagnata da iperkalemia. Il trattamento deve essere volto ad alleviare l’ostruzione uretrale e trattare la deplezione volumetrica e l’acidosi metabolica.
Negli animali con grave depressione e disidratazione, è
necessario avviare la correzione dell’acidosi metabolica e
della disidratazione prima ancora di trattare direttamente il
problema primario. Può sembrare che la somministrazione
di fluidi per via endovenosa sia controindicata nei soggetti
con ostruzione uretrale, ma si presume che questa venga alleviata o che l’urina venga drenata dalla vescica mediante
cistocentesi o cistostomia. Di conseguenza, si deve inserire un catetere endovenoso ed infondere una soluzione elettrolitica bilanciata. La fluidoterapia endovenosa va effettuata alla velocità iniziale di 90 ml kg/24 ore nel cane e 65
ml kg/24 ore nel gatto. La maggior parte degli animali con
ostruzione uretrale è iperkalemica, ma risolvendo l’ostruzione uretrale ed attuando la fluidoterapia endovenosa si
correggono gli squilibri elettrolitici, a condizione che la
funzione cardiovascolare e quella renale siano normali. La
diuresi postoperatoria è comune dopo la risoluzione dell’ostruzione delle vie urinarie e la somministrazione di fluidi
deve andare di pari passo con la produzione di urina, oltre
a rimpiazzare ogni eventuale deficit e soddisfare i fabbisogni di mantenimento.
L’inserimento di un catetere uretrale è il mezzo più
diretto per alleviare l’ostruzione uretrale. Sfortunatamente, spesso si rivela estremamente difficile. La sedazione con ketamina da sola (1-5 mg/kg IV) o con un’associazione di ketamina (1-5 mg/kg IV) e diazepam
(0,1-0,25 mg/kg IV) o xilazina (nel cane; 0,5-1,0 mg/kg
IV) può facilitare la cateterizzazione. In alternativa, si
possono somministrare propofolo o barbiturici per ottenere il grado desiderato di sedazione o un piano leggero di anestesia, oppure ci si può servire di una maschera facciale per somministrare un anestetico inalatorio
ed ossigeno.
Nei gatti maschi, si può riuscire a rimuovere un tappo mucoso dall’uretra peniena con il massaggio del pene. La cistocentesi decomprime la vescica e spesso allevia la pressione sull’ostruzione, consentendo il passaggio del catetere. In presenza di un’ostruzione uretrale,
con la palpazione di solito si riesce ad identificare facilmente la vescica, che viene immobilizzata contro la parete corporea dopo aver effettuato la tosatura del pelo
sul fianco o sulla parte ventrale della parete stessa.
Attraverso quest’ultima si introduce un ago raccordato ad una siringa o ad un deflussore, spingendolo nella vescica secondo un’angolazione tale da far sì che man mano che l’organo viene decompresso la punta dell’ago resti
comunque all’interno del suo lume. Nel cane, la vescica
eventualmente dislocata attraverso un’ernia perineale
spesso può essere riportata in cavità addominale, dopo
aver praticato la cistocentesi, applicando simultaneamente una pressione esterna ed inserendo un dito nel retto per
spingere il collo dell’organo in addome.
Nel gatto, se non è possibile introdurre un catetere, di
solito è preferibile eseguire molteplici interventi di cistocentesi piuttosto che ricorrere ad un’uretrostomia di emergenza.
È stato ipotizzato che nei gatti maschi l’ostruzione uretrale dovuta alla cristalluria da struvite ed ai tappi di muco possa essere alleviata con l’impiego di uno speciale
adattatore per gli apparecchi ad ultrasuoni normalmente
utilizzati per l’ablazione del tartaro dentale. Questa operazione esita nell’applicazione di una notevole quantità di
calore sulla superficie dell’uretra e va effettuata con molta cautela o non effettuata affatto.
Si può anche introdurre un catetere da cistostomia per
consentire la diuresi ed il ripristino di un normale stato
metabolico prima di anestetizzare il gatto per sottoporlo
ad intervento chirurgico.
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Uretrotomia nel cane maschio
Nei cani maschi, i calcoli si arrestano spesso nell’uretra
all’interno dell’osso del pene o in posizione immediatamente caudale ad esso. Mentre può essere difficile accedere chirurgicamente all’uretra all’interno dell’osso penieno, l’uretrotomia caudalmente allo stesso può essere effettuata con
una sedazione minima e con l’infiltrazione della cute con un
anestetico locale. Bisogna fare attenzione ad incidere l’uretra lungo la linea mediana, evitando i corpi cavernosi. La cateterizzazione può facilitare l’identificazione del condotto.
Si deve introdurre un catetere dalla punta del pene fino in vescica per accertare la pervietà dell’intera uretra. La decisione di chiudere l’uretrotomia suturandola oppure lasciarla
guarire per seconda intenzione viene lasciata alla discrezione del chirurgo, perché si ottiene una guarigione soddisfacente indipendentemente dal fatto che la breccia venga suturata oppure no. Tuttavia, in alcuni animali se l’uretrotomia
viene lasciata aperta si ha un’emorragia persistente.
Cistostomia e cistostomia mediante sonda
L’uretra può anche essere aggirata, realizzando una cistostomia o una cistostomia mediante sonda. Con una cistostomia si realizza un’apertura diretta fra la vescica e la superficie cutanea, che esita in un costante scolo di urina. Le
potenziali complicazioni sono rappresentate da cistite batterica, infezione ascendente e ustioni da urina della cute a livello dell’apertura cistostomica. Per queste ragioni, generalmente si sconsiglia la realizzazione di una cistostomia permanente.
Le cistostomie mediante sonda consistono nell’introduzione di un catetere attraverso la parete corporea e possono
essere utilizzate per deviare il flusso di urina su base temporanea o per parecchie settimane o mesi negli animali affetti
da malattie non suscettibili di un trattamento chirurgico diretto. Si pratica un’incisione dell’addome lungo il tratto caudale della linea mediana ventrale. Attraverso la parete corporea, a livello di un’incisione penetrante realizzata in posizione paramediana, si introduce un catetere di Foley o un catetere con la punta a fungo (Pezzar) di dimensioni appropriate (8-12 Fr). Nella parete della vescica si applica una sutura a borsa di tabacco in materiale monofilamento non assorbibile (polipropilene 3-0 o 4-0). Il catetere viene inserito
nella vescica attraverso un’incisione penetrante praticata al
centro della sutura a borsa di tabacco. Quest’ultima viene
serrata ed annodata. Fra la superficie sierosa della vescica ed
il peritoneo si applicano 4-6 suture in materiale assorbibile o
non assorbibile, in modo tale da circondare la sonda da cistostomia. Prima di serrare queste suture si applica l’omento intorno al tubo in modo da ridurre al minimo il rischio di
filtrazioni di urina. L’incisione addominale viene chiusa secondo la procedura di routine. Il catetere viene fissato alla
superficie cutanea e raccordato ad un sistema di raccolta
chiuso e sterile per ridurre al minimo il rischio di infezioni
ascendenti. In alternativa, può essere tappato per poi svuotare la vescica con cadenza intermittente (3-4 volte al giorno).
La ferita attraverso la quale il catetere fuoriesce dalla cute va
trattata quotidianamente con una pomata antisettica. Il cate-
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tere viene sfilato quando non è più necessario. Se la cistostomia mediante sonda è stata lasciata in posizione per non
più di due settimane, la parete vescicale di solito si chiude
senza bisogno di intervenire chirurgicamente. Se invece il
tubo è rimasto in posizione per parecchie settimane, è necessario effettuare la revisione chirurgica della parete stessa
e la chiusura primaria della breccia in anestesia generale.
Uretrostomia nel cane maschio
Come già ricordato, di solito è preferibile evitare di eseguire un intervento chirurgico prolungato (come un’uretrostomia) in un animale iperazotemico. Il danno permanente
dell’uretra può essere trattato mediante realizzazione di
un’uretrostomia.
Nei cani maschi, l’intervento può essere effettuato in sede perineale, scrotale, prescrotale o prepubica. Di solito si
preferisce la localizzazione scrotale, perché a questo livello
l’uretra è situata superficialmente ed ha un diametro sufficiente a consentire la realizzazione di un’apertura soddisfacente, e si incontra un’emorragia di minima entità. L’esecuzione dell’uretrostomia in sede perineale nel cane maschio
ha determinato un’elevata incidenza di ustioni da urina della parte posteriore degli arti. La localizzazione prescrotale
non comporta alcun particolare vantaggio, fatta eccezione
per la possibilità di conservare i testicoli. È necessario stare
attenti ad evitare che questi ultimi facciano ernia attraverso
l’incisione praticata per realizzare l’uretrostomia prescrotale. Le opzioni per l’uretrostomia nei gatti maschi sono limitate alla sede perineale ed a quella prepubica e solo quest’ultima può essere effettuata nelle gatte e nelle cagne.
Un punto chiave per la realizzazione soddisfacente di
un’uretrostomia in qualsiasi sede è l’inserimento delle suture fra la mucosa uretrale e la cute, che devono avere una tensione minima. Di solito, non si lascia alcun catetere uretrale
in sede dopo l’intervento. I proprietari devono essere informati del fatto che gli animali mostrano comunemente delle
emorragie dopo la minzione per i 10-14 giorni successivi all’operazione. Questo problema di solito diminuisce col tempo. Tuttavia, dopo la rimozione delle suture, per alcuni giorni si può osservare un’emorragia dopo la minzione. Il sanguinamento viene promosso dalla presenza dell’urochinasi,
un attivatore del plasminogeno nell’urina. Inoltre, il movimento meccanico dell’urina attraverso la linea di sutura può
determinare la dislocazione dei coaguli. L’emorragia è di solito autolimitante.
Uretrostomia nel gatto maschio
Nel gatto maschio, l’uretrostomia può essere effettuata in
sede perineale o prepubica, ma si preferisce la prima. Il gatto viene posto in decubito ventrale con il treno posteriore
sollevato. Intorno all’ano si applica una sutura a borsa di tabacco, si pratica un’incisione ellittica intorno allo scroto ed
al prepuzio e, nel caso dei gatti interi, si esegue la castrazione. Mediante dissezione con strumenti taglienti e per via
smussa, si libera il pene dalle sue inserzioni all’interno del
canale pelvico e si identificano i muscoli ischiocavernosi. È
34
necessario individuare l’origine di questi ultimi a livello dell’ischio e poi reciderli in questo punto. Ciò riduce al minimo
l’emorragia, che potrebbe essere profusa nel caso che l’incisione venisse praticata attraverso i muscoli stessi. Il pene è
unito al pube da tessuto fibroso, che deve essere scontinuato. L’organo viene isolato mediante dissezione per via
smussa e con strumenti taglienti; tuttavia, è necessario stare attenti a ridurre al minimo la dissezione nella parte dorsale, per preservare l’innervazione. Sulla faccia dorsale
dell’organo, si identifica e si asporta il muscolo retrattore
del pene (o i suoi residui nei gatti maschi castrati). La dissezione deve continuare in direzione craniale fino a che
non si identificano le ghiandole bulbouretrali. Prima di incidere l’uretra, è necessario effettuare una dissezione sufficiente a consentire di portare queste ultime sino a livello
dell’incisione cutanea senza che vengano retratte nel canale pelvico. Per facilitarne l’identificazione, si può introdurre nell’uretra un catetere.
L’uretra viene incisa lungo la linea mediana dorsale,
iniziando distalmente e procedendo verso le ghiandole
bulbouretrali. All’estremità craniale dell’incisione uretrale, il diametro del condotto deve essere di circa 4-5 mm.
La parete dell’uretra viene unita alla cute con una sutura a
punti staccati in materiale monofilamento non assorbibile
4-0 o 5-0 iniziando dall’estremità craniale dell’incisione.
Le suture devono essere poste alternativamente sul lato sinistro e sul destro per un tratto di circa 1-1,5 cm dall’estremità craniale dell’incisione uretrale. Il pene viene reciso in questa sede e la sua parte distale viene eliminata insieme allo scroto. Intorno al corpo dell’organo si può applicare una sutura da materassaio in materiale assorbibile
4-0 per controllare l’emorragia. La parte restante della ferita viene chiusa secondo le procedure di routine. Si toglie
dall’ano la sutura a borsa di tabacco e si applica all’animale un collare di Elisabetta per evitare l’automutilazione.
La complicazione più comune che si riscontra immediatamente dopo l’intervento è rappresentata dall’emorragia. Il
controllo di quest’ultima può richiedere la sedazione o
l’applicazione di una pressione diretta. A condizione che
dopo l’intervento venga eliminato un flusso di urina soddisfacente, non si deve far alcun tentativo per rimuovere i
coaguli di sangue che si formano a livello della sede dell’uretrostomia. Altre complicazioni che possono insorgere
entro giorni o mesi dall’intervento sono rappresentate da
infezioni, fuoriuscita di urina con conseguente necrosi tissutale, ernia perineale e formazione di stenosi con conseguente ostruzione uretrale. La formazione delle stenosi
nella maggior parte dei casi è dovuta al fatto che la porzione intrapelvica del pene non è stata adeguatamente liberata dalle sue inserzioni fibrose, per cui si verifica
un’eccessiva tensione delle suture applicate fra l’uretra e
la cute. Secondo l’esperienza dell’autore, questa evenienza è spesso associata alla mancata liberazione dei muscoli
ischiocavernosi dalla loro origine. La formazione di stenosi può anche dipendere da un’imprecisa apposizione
della mucosa dell’uretra alla cute. Fortunatamente, di solito è possibile effettuare la revisione chirurgica di una stenosi di un’uretrostomia in posizione perineale. Qualora
ciò fosse impossibile, si deve prendere in considerazione
l’esecuzione di un’uretrostomia prebubica.
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Uretrostomia prepubica
L’uretrostomia prepubica si effettua lungo la linea mediana ventrale nelle gatte e nelle cagne e in posizione paraprepuziale nei cani maschi. Per mantenere la continenza urinaria dopo l’intervento, è essenziale che l’innervazione del
collo vescicale e del tratto prossimale del condotto vengano
preservati e che si conservi la maggior quantità possibile di
uretra normale. Il proprietario deve essere informato prima
dell’intervento del rischio di incontinenza dopo l’operazione, benché questa non sia risultata una complicazione comune di questa procedura.
Si preserva la maggior quantità possibile di uretra intrapelvica e l’uretra viene fatta passare attraverso la parete addominale in modo da non formare brusche curvature, evitando di piegarla in modo acuto, perché ciò potrebbe ostruirla. La breccia nella parete addominale cranialmente e caudalmente alla sede dell’uretrostomia viene chiusa e si pratica un’incisione longitudinale (0,5- 1,0 cm) sulla faccia ventrale dell’estremità distale dell’uretra. I margini dell’apertura uretrale vengono uniti alla cute con una sutura a punti
staccati in materiale monofilamento non assorbibile 4-0, in
modo da realizzare la sede dell’uretrostomia. Per il resto, la
ferita cutanea viene chiusa secondo le procedure di routine.
Trattamento postoperatorio
Il trattamento chirurgico della FUS o della litiasi nel cane e nel gatto prevede di affrontare la presenza dell’ostruzione o dei calcoli e può diminuire il potenziale rischio di
ostruzione uretrale in un momento successivo, ma l’intervento chirurgico non tratta l’infezione né previene la formazione di calcoli in futuro. È quindi essenziale effettuare nel
corso dell’intervento un prelievo accurato di materiale da destinare agli esami colturali e trattare gli animali con un antibiotico efficace e con un’appropriata modificazione della
dieta. Il rigoroso rispetto della giusta dieta può praticamente
eliminare la formazione dei calcoli in alcuni cani e quella dei
tappi uretrali in alcuni gatti. Il proprietario deve essere informato della necessità di non offrire all’animale nulla di diverso dalla dieta prescritta. Sfortunatamente, al momento
non è disponibile alcuna formulazione che risulti costantemente efficace per rimpicciolire o prevenire la formazione
dei calcoli di ossalato di calcio. L’infezione del tratto urinario va trattata per un periodo minimo di due settimane con
un antibiotico che si sia dimostrato efficace sulla base dei risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi; inoltre,
per assicurarsi che l’infezione sia stata eliminata bisogna effettuare il prelievo di un campione di urina da destinare agli
esami colturali dopo che la terapia antibiotica sia stata sospesa da almeno 7 giorni.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dale E. Bjorling, DVM, MS
Professor and Chair
Department of Surgical Sciences
School of Veterinary Medicine
University of Wisconsin-Madison, USA
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Incontinenza urinaria e chirurgica
Dale E. Bjorling
DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA
Col termine di incontinenza urinaria si indica la ritenzione o emissione inappropriata di urina, anche se di solito l’espressione viene comunemente riferita ad un’emissione
inappropriata di urina o all’incapacità di ritenerla. In condizioni normali la continenza urinaria viene mantenuta da una
varietà di forze che agiscono sull’uretra, come il tono della
muscolatura liscia e striata, la tensione elastica all’interno
della parete uretrale, la pressione endoaddominale che agisce sulla superficie esterna del condotto e la lunghezza dello stesso. Questi fattori combinati costituiscono il meccanismo dello sfintere uretrale.1,2 Le fibre elastiche all’interno
dell’uretra nella cagna sono orientate in direzione longitudinale ed è stato ipotizzato che il tessuto elastico non contribuisca in modo significativo alla continenza urinaria nelle
femmine di questa specie animale. Nel cane, l’incontinenza
urinaria conseguente all’abnorme funzione del meccanismo
dello sfintere uretrale si ha più comunemente nelle femmine;
tuttavia, l’incompetenza di questo meccanismo è stata segnalata anche nei maschi.3,4
Come causa di incontinenza urinaria è stata ipotizzata la
riduzione della lunghezza dell’uretra,2 e questa condizione,
così come la diminuzione della lunghezza della porzione di
uretra attraverso la quale la pressione intrauretrale supera la
pressione vescicale a riposo, è stata correlata all’incontinenza
urinaria nelle cagne. Si ritiene che la dislocazione caudale del
collo vescicale nel canale pelvico (“vescica pelvica”) accorci
l’uretra e impedisca l’esposizione della parete uretrale alla
pressione endoaddominale; la condizione è stata correlata all’incontinenza urinaria in cani di entrambi i sessi.3,5 Benché
nel cane la vescica pelvica si possa osservare senza che sia
presente anche l’incontinenza urinaria, si ritiene che, nei casi
in cui le due condizioni sono concomitanti, a determinare l’insufficienza del meccanismo dello sfintere uretrale contribuisca in modo significativo la localizzazione intrapelvica del
collo vescicale e del tratto prossimale dell’uretra.5
Trattamento medico dell’incontinenza
urinaria
L’infezione del tratto urinario può contribuire a determinare l’irritazione della vescica e perciò in tutti gli animali
portati alla visita a causa di un’incontinenza urinaria si rende necessaria un’accurata valutazione per rilevare la presenza di questo problema. La vaginite cronica o la dermatite perivulvare (spesso associata a vulva introflessa) può contribuire ad un’infezione persistente del tratto urinario. Il processo infettivo va affrontato in modo aggressivo prima di iniziare il trattamento delle altre eventuali cause di incontinen-
za. L’incontinenza urinaria dovuta all’incompetenza del
meccanismo dello sfintere nelle cagne ovariectomizzate
spesso risponde alla terapia con estrogeni (DES 0,5-1,0
mg/die per 5-7 giorni, seguiti dalla stessa dose ogni 5-14
giorni), ed è stato ipotizzato che questi ormoni esercitino il
loro utile effetto aumentando la contrattilità della muscolatura liscia e la sensibilità alla stimolazione alfa-adrenergica
ed incrementando l’elasticità uretrale.2 Tuttavia, l’esatto
meccanismo con cui gli estrogeni intervengono positivamente nel trattamento dell’incontinenza urinaria nelle cagne
ovariectomizzate non è chiaro. Per trattare l’incontinenza
urinaria associata all’incompetenza dello sfintere uretrale
anche nelle cagne ovariectomizzate che non rispondono alla
terapia con estrogeni, sono stati utilizzati efficacemente gli
agonisti alfa-adrenergici come la fenilpropanolamina (1,53,0 mg/kg ogni 8 ore). Nei cani maschi, rispetto alle femmine, questa terapia risulta di gran lunga meno efficace per il
trattamento dello stesso problema. In alcuni cani sono stati
utilizzati gli anticolinergici come la ossibutinina (0,2 mg/kg
ogni 8-12 ore) per sopprimere le contrazioni vescicali spastiche che possono contribuire all’incontinenza urinaria. La
terapia medica dell’incontinenza urinaria non è priva di
complicazioni e in seguito alla somministrazione di DES in
alcuni cani sono stati segnalati casi di soppressione midollare fatale. La fenilpropanolamina può causare ipertensione,
diarrea o iperattività/ipereccitabilità. I potenziali effetti collaterali indesiderabili della ossibutinina sono rappresentati
da vomito, ileo, costipazione e ritenzione urinaria.
Trattamento chirurgico dell’incontinenza
urinaria
Il trattamento chirurgico dell’incontinenza urinaria nel
cane e nel gatto è stato volto ad aumentare la resistenza al
flusso di urina attraverso l’uretra con una varietà di tecniche,
nessuna delle quali ha ottenuto un successo uniforme. L’iniezione periuretrale di collagene è stata impiegata per trattare
efficacemente l’incontinenza urinaria nella donna, mentre
nelle cagne colpite dalla medesima condizione si sono ottenuti risultati incoraggianti in seguito all’iniezione periuretrale di collagene o di politetrafluoroetilene (Teflon) in pasta.
Tuttavia, questa tecnica non è stata valutata in modo estensivo in medicina veterinaria. Nelle cagne sono stati utilizzati a
livello sperimentale degli sfinteri artificiali che possono essere sgonfiati per consentire la minzione e poi reinsufflati per
mantenere la continenza, ma non sono pratici per l’impiego
clinico. Analogamente, nella specie canina è stata descritta
sperimentalmente, ma non valutata clinicamente, la realizza-
36
zione di uno sfintere uretrale con un lembo di tessuto prelevato dal muscolo gracile o dal sartorio. Le tecniche chirurgiche che sembrano avere la massima applicazione clinica per
il trattamento dell’incontinenza urinaria nel cane e nel gatto
sono rappresentate da colposospensione, applicazione di imbracature o suture per aumentare la resistenza al flusso di urina nell’uretra e procedure di allungamento uretrale.
Colposospensione
La colposospensione consiste nell’applicare delle suture
fra la parte craniale della vagina ed il tendine prepubico, in
modo da riportare il collo vescicale ed il tratto prossimale
dell’uretra in posizione endoaddominale, ed è stata effettuata per trattare nelle cagne l’incontinenza urinaria da incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale.6,7 Secondo quanto segnalato in letteratura, la colposospensione
risulta risolutiva in oltre il 50% degli animali trattati, mentre nella maggior parte dei casi restanti si riscontra un significativo miglioramento clinico.7 Si presume che i benefici effetti di questa procedura siano dovuti all’esposizione
del collo vescicale e del tratto prossimale dell’uretra alla
pressione endoaddominale, nonché all’allungamento dell’uretra ed al fatto che questa viene portata in prossimità del
pube. Tuttavia, il contributo relativo di ognuno di questi fattori non è chiaro.1 Esaminando gli effetti della colposospensione sul profilo della pressione uretrale immediatamente dopo l’intervento chirurgico, è stato rilevato che questa procedura aumenta significativamente la lunghezza del
tratto funzionalmente attivo del profilo e la pressione massima di chiusura uretrale e diminuisce significativamente la
percentuale di deviazioni pressorie al di sotto della pressione intravescicale a riposo. La colposospensione è parsa aumentare la lunghezza uretrale nella maggior parte delle cagne sottoposte all’intervento, ma questo risultato non è stato costantemente correlato all’esito funzionale.7
Prima di eseguire una colposospensione, si introduce in
vescica un catetere uretrale. Si pratica una laparotomia lungo il tratto caudale della linea mediana e si identifica la
giunzione fra uretra e vagina procedendo mediante dissezione per via smussa e con strumenti taglienti. Sulla faccia
craniale della vescica si può applicare una sutura di ancoraggio, da utilizzare per esercitare una tensione utile a facilitare la dissezione. Le pareti laterali della vagina, adiacenti all’orifizio uretrale vengono identificate ed afferrate con
pinze atraumatiche (Babcock). Se la parte craniale della vagina non può essere raggiunta attraverso l’approccio addominale, un assistente può introdurre una sonda smussa non
sterile nel lume dell’organo ed effettuarne il lavaggio cranialmente, in modo da consentire al chirurgo di afferrarla.
Fra la parte craniale della vagina ed il tendine prepubico, su
ciascun lato della linea mediana ventrale, si applicano preventivamente due suture in materiale non assorbibile monofilamento 2-0. Quando queste suture vengono strette ed annodate, si deve muovere il catetere uretrale per assicurarsi
che l’uretra non sia stata ostruita. L’addome viene chiuso
secondo la procedura di routine.
Nel periodo postoperatorio si può osservare un’ostruzione urinaria transitoria e può essere necessario inserire un ca-
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tetere uretrale per alleviarla.6 Qualora si dovesse verificare
un’ostruzione uretrale parziale, di solito è possibile rimuovere il catetere e lasciare che l’animale urini spontaneamente entro 3-5 giorni dall’intervento. In rari casi, può essere necessario rimuovere i punti di sutura applicati fra vagina e
tendine prepubico per trattare l’ostruzione uretrale persistente. Come già ricordato, secondo quanto riferito in letteratura, questa procedura, da sola o in associazione con la terapia
medica, determina nella maggior parte dei cani un significativo miglioramento dell’incontinenza urinaria.7
Cistouretropessi
Un altro intervento che è stato descritto per riportare il
collo vescicale ed il tratto prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale ed al tempo stesso aumentare la resistenza al flusso di urina attraverso l’uretra è la cistouretropessi.8,9 Si esegue una laparotomia ventrale e si applicano
preventivamente 4-10 suture orizzontali da materassaio in
materiale non assorbibile 2-0 o 4-0 attraverso il piano sieromuscolare del tratto prossimale dell’uretra e del collo della
vescica e la parete addominale (a tutto spessore), su ciascun
lato dell’uretra. Con un catetere uretrale in posizione le suture vengono strette ed annodate, dopodiché si inserisce un
catetere da cistostomia e si chiude la parete addominale. Nel
periodo postoperatorio, i cateteri uretrali vengono lasciati in
sede per almeno 24 ore e quelli da cistostomia possono essere utilizzati anche per mantenere la decompressione della
vescica. In uno studio su 10 cani, la maggior parte dei soggetti trattati ha manifestato segni di disuria, ma tutti sono
stati infine in grado di urinare spontaneamente. I risultati sono stati considerati eccellenti in due cani su 10 e buoni in 4
cani su 10.8 In un altro studio su 100 cagne trattate mediante uretropessi per incontinenza urinaria da incompetenza del
meccanismo dello sfintere, 56 casi sono stati completamente risolti mediante intervento chirurgico, 27 sono diventati
meno incontinenti e 17 non hanno risposto affatto (9 animali) o hanno mostrato un iniziale miglioramento della funzione urinaria, ma in seguito hanno presentato delle recidive (8
animali).9 Di questi 17 animali, 9 furono sottoposti ad un secondo intervento di uretropessi, che ha portato alla risoluzione del problema in 6 casi e ad un miglioramento negli altri 3. Complicazioni postoperatorie si sono osservate in 21
cani e sono state rappresentate da aumento della frequenza
della minzione (in 14), disuria (in 6) ed anuria (in 3). Come
per gli altri interventi finalizzati ad aumentare la tensione all’interno della parete dell’uretra, le complicazioni più comuni in entrambi questi studi sono state la disuria transitoria o
persistente conseguente all’ostruzione uretrale ed il mancato
miglioramento.
Imbracature uretrali
In associazione con la colposospensione, per aumentare
ulteriormente la resistenza al flusso attraverso l’uretra sono
state realizzate delle imbracature utilizzando materiali sintetici10 o lembi ottenuti a partire dalla parete vescicale11. I risultati di queste procedure erano simili a quelli descritti in
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seguito all’esecuzione della sola colposospensione e non è
chiaro se esista o meno un vantaggio nell’impiego della procedura combinata. Le tecniche di imbracatura sono finalizzate ad esercitare una forza compressiva sul tratto prossimale dell’uretra utilizzando materiale di sintesi o lembi vescicali per aumentare la resistenza al flusso di urina attraverso
il condotto e sono state anche utilizzatecome unico metodo
per il trattamento dell’incontinenza urinaria nel cane.
Allungamento uretrale
L’allungamento uretrale è stato descritto per il trattamento dell’incontinenza urinaria conseguente ad incompetenza
congenita del meccanismo dello sfintere uretrale nel gatto e
nel cane.12 Come già illustrato, si pratica un’incisione laparotomica ventrale e la si estende nel tratto prossimale dell’uretra. Sulla faccia ventrale della parete vescicale ventrale si
realizzano due lembi a forma di “V”. La punta di questa “V”
corrisponde all’estensione caudale dell’incisione nell’uretra
prossimale. L’incisione si allarga lateralmente su ciascun lato e la porzione ampia della “V” si trova approssimativamente a livello degli orifizi uretrali. Il difetto realizzato nella parete ventrale del collo vescicale e nel tratto prossimale
dell’uretra viene chiuso in modo da diminuire il diametro del
collo della vescica. I lembi vengono quindi suturati l’uno all’altro in modo da evitare una perdita della capacità vescicale. In 7 gatti su 8 trattati con questa tecnica sono stati segnalati risultati eccellenti o buoni, e sono stati descritti buoni risultati in un cane. L’allungamento uretrale mediante lembi di
parete vescicale è stato descritto per il trattamento dell’incontinenza urinaria anche nell’uomo; questa tecnica può meritare di essere ulteriormente presa in considerazione per il
trattamento della condizione nel cane e nel gatto.
Trattamento chirurgico dell’incontinenza
urinaria nel cane maschio
Per il trattamento dell’incontinenza urinaria da meccanismo dello sfintere uretrale nei cani maschi è stata descritta
37
una modificazione dell’intervento di colposospensione utilizzato nelle cagne.4 Questa procedura prevede l’impiego dei
dotti deferenti per fissare il collo vescicale e la parte prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale. I cani interi
vengono castrati ed i singoli dotti deferenti vengono fatti
passare per via smussa attraverso delle incisioni penetranti
praticate nella cute della parete addominale ventrale, su ciascun lato della linea mediana. L’estremità del dotto deferente viene afferrata con un paio di pinze e tirata attraverso la
parete corporea. La localizzazione del punto di passaggio
dei dotti attraverso la parete viene scelta in modo da esercitare una trazione sulla prostata in grado di riportare il collo
vescicale e la parte prossimale dell’uretra in una posizione
endoaddominale. In 6 cani maschi trattati su 7 sono stati segnalati risultati eccellenti o buoni ed il miglioramento è stato attribuito al fatto di riportare il collo vescicale ed il tratto
prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale.4 Questa
tecnica può essere presa in considerazione per il trattamento
chirurgico dei cani maschi con incontinenza urinaria da incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dale E. Bjorling, DVM, MS
Professor and Chair
Department of Surgical Sciences
School of Veterinary Medicine
University of Wisconsin-Madison, USA
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Trattamento delle rotture delle vie urinarie
Dale E. Bjorling
DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA
Valutazione iniziale
Nella maggior parte degli animali che sono stati investiti da un veicolo si verifica un certo grado di traumatismo dell’addome, anche solo rappresentato dalla comparsa di ecchimosi. Le lesioni del tratto urinario possono esitare in manifestazioni aspecifiche e durante le prime fasi della valutazione del paziente bisogna sempre prendere in considerazione
la possibilità che si sia verificato un trauma a carico di questo apparato, per essere certi di evitare ritardi nella diagnosi
e nell’attivazione di un trattamento efficace.
Possono essere molto utili le informazioni anamnestiche
fornite dal proprietario; tuttavia, il fatto che questi abbia osservato l’animale urinare dopo l’incidente, non esclude del
tutto la possibilità che la vescica o l’uretra siano lacerate.1 La
superficie corporea va esaminata accuratamente per rilevare
segni di ecchimosi e ferite e può essere necessario eliminare
gran parte del pelo che ricopre l’addome. Le fratture delle
costole, del bacino o degli arti posteriori sono fortemente indicative del fatto che l’addome ha subito un urto imponente.2 Il tragitto delle ferite penetranti, come si può ipotizzare
sulla base del loro aspetto esterno, può suggerire un trauma
a carico delle vie urinarie o di altri visceri addominali. Se
possibile, prima di iniziare la terapia si deve effettuare il prelievo di campioni di sangue. Una fluidoterapia aggressiva
può alterare i livelli ematici di urea, creatinina ed elettroliti.
Radiografia
L’esame radiografico è probabilmente il più utile metodo
non invasivo per la valutazione del tratto urinario nei cani e
nei gatti che hanno subito un trauma. L’urografia con mezzo
di contrasto positivo (urografia escretoria ed uretrocistografia) risulta utile per determinare le dimensioni, la localizzazione e l’integrità delle strutture dell’apparato. L’urografia
con mezzo di contrasto negativo è di scarsa utilità nella valutazione delle lesioni traumatiche delle vie urinarie, perché
fornisce poche informazioni sulla localizzazione delle lesioni. L’introduzione di aria all’interno della vescica degli animali traumatizzati è stata causa di embolie fatali, presumibilmente dovute alla captazione dell’aria da parte di vene lacerate presenti all’interno della parete della vescica distesa.
Se si esegue una cistografia con mezzo di contrasto negativo, è necessario utilizzare biossido di carbonio o azoto compresso. L’urografia escretoria (pielografia endovenosa) non
va effettuata negli animali sotto shock o disidratati. In questi
soggetti la gittata cardiaca e la perfusione renale sono spesso diminuite e si può ottenere un’immagine scadente. Inol-
tre, l’iniezione endovenosa del mezzo di contrasto ha determinato aritmie o arresti cardiaci nei pazienti disidratati e debilitati. L’urografia escretoria fornisce una stima grossolana
della funzione renale, ma non deve essere considerata un test definitivo per la valutazione della stessa. Per esaminare in
modo accurato la funzione renale, è necessario eseguire specifici test di funzionalità (clearance dell’inulina o della creatinina). Le radiografie vanno riprese entro 20 secondi dall’iniezione del mezzo di contrasto per evidenziare la vascolarizzazione renale.
Paracentesi addominale
e lavaggio peritoneale diagnostico
Se l’esame clinico o radiografico dell’addome evidenzia
la presenza di liquido all’interno della cavità, è necessario
effettuare il prelievo di un campione per analisi mediante paracentesi addominale o lavaggio peritoneale diagnostico. La
prima può essere eseguita servendosi di un ago ipodermico,
un catetere endovenoso o uno da dialisi peritoneale. Se si
utilizza un ago ipodermico, si raccomanda di ricorrere alla
tecnica di puntura nei quattro quadranti, per aumentare le
possibilità di riuscire a prelevare il fluido. La parete addominale ventrale viene suddivisa in quattro quadranti bisecando la linea alba con una linea passante attraverso l’ombelico. Si tosa il pelo al centro di ciascun quadrante e si prepara asetticamente la cute. Si inserisce un ago da 20 o 22 G
e si esercita una pressione negativa con una siringa. Se si ottiene un campione di fluido, la procedura viene interrotta ed
il liquido inviato all’analisi. Se non si riesce a prelevare un
campione utilizzando un ago ipodermico, bisogna prendere
in considerazione il ricorso ad un catetere endovenoso ad
ago interno fenestrato o ad uno da lavaggio peritoneale. Se
si utilizza il catetere endovenoso fenestrato, bisogna stare attenti che le aperture presenti nella sua parete non lo indeboliscano fino al punto da far sì che ne rimanga una porzione
all’interno della cavità addominale. I cateteri da dialisi peritoneale del tipo disponibile in commercio vanno inseriti lungo la linea mediana secondo le modalità descritte in seguito.
Questi cateteri presentano molteplici aperture nelle pareti,
diminuendo così la probabilità che vengano ostruiti dall’omento o da altri organi endoaddominali.
Se non si riesce ad ottenere un campione di liquido addominale mediante paracentesi, bisogna effettuare un lavaggio peritoneale diagnostico. Si elimina il pelo dalla linea mediana ventrale dell’addome, 1-2 cm caudalmente all’ombelico, e si prepara asetticamente la cute. Il punto previsto per l’inserimento del catetere, compresa la parete cor-
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porea, viene infiltrato di lidocaina. Per introdurre un catetere da dialisi si possono utilizzare due tecniche. È possibile praticare attraverso la cute e la parete addominale un’incisione con la punta di un bisturi ed inserire il catetere nella cavità peritoneale. In alternativa, si realizza un approccio chirurgico limitato alla cavità addominale e si incide direttamente il peritoneo. Il catetere da dialisi viene inserito
attraverso l’apertura realizzata nella parete addominale
procedendo in direzione caudodorsale. Se si riesce ad ottenere del fluido, il tubo viene sfilato e la ferita cutanea viene chiusa. In caso contrario, si può instillare in addome una
soluzione salina bilanciata riscaldata (Ringer lattato o soluzione fisiologica normale) ad un volume pari a 20 ml/kg
di peso corporeo. L’animale viene fatto delicatamente rotolare da un lato all’altro per assicurare la dispersione del liquido di lavaggio. Quindi, si ottiene un campione di fluido
mediante drenaggio per gravità ed il catetere viene sfilato.
Negli animali con lesioni traumatiche dell’addome è possibile lasciare la sonda in posizione per consentire il monitoraggio sequenziale del fluido endoaddominale o per drenarlo dall’addome.
È necessario determinare le caratteristiche citologiche
e le concentrazioni enzimatiche del fluido ottenuto mediante paracentesi addominale o lavaggio peritoneale diagnostico. Le concentrazioni di urea e creatinina nel liquido possono essere paragonate a quelle del sangue periferico per determinare la presenza di urina libera in addome.1,3
L’urea è una molecola di piccole dimensioni che raggiunge rapidamente (entro pochi giorni) l’equilibrio attraverso
il peritoneo, per cui negli animali con distruzione del tratto urinario di vecchia data la sua concentrazione nel sangue periferico può essere equivalente a quella del fluido
addominale. La creatinina è una molecola molto più grande, che tende a rimanere in cavità addominale ed è quindi
un indicatore più sensibile della presenza di urina libera
nella cavità stessa. Tuttavia, nei casi acuti di trauma delle
vie urinarie, la concentrazione dell’urea di solito non ha
raggiunto l’equilibrio attraverso il peritoneo ed il confronto fra i suoi livelli nel fluido addominale e nel sangue periferico mediante test rapidi consente di determinare in
modo accurato la presenza di urina in addome. Attraverso
la determinazione dei valori dell’ematocrito e della concentrazione di solidi totali nel fluido è possibile valutare
l’esistenza di un’emorragia endoaddominale ed il numero
e l’aspetto citologico degli elementi nucleati possono riflettere la presenza di un’intensa infiammazione. Il riscontro di materia organica, batteri o bilirubina indica la distruzione del tratto gastroenterico o biliare.
39
Trattamento
La presenza di urina libera all’interno della cavità addominale non indica necessariamente la necessità di un’immediata laparotomia esplorativa. Prima di indurre l’anestesia
necessaria ad eseguire questo tipo di indagine, bisogna stabilizzare le condizioni dell’animale. La presenza di urina
sterile nella cavità addominale per 2-3 giorni non comporta
dei rischi, a condizione che all’animale venga inserito un catetere uretrale e che nella cavità addominale sia introdotto un
catetere da dialisi per consentire il drenaggio dell’urina presente al suo interno.1 Con un drenaggio addominale appropriato, è possibile indurre la diuresi negli animali con rottura della vescica per correggere le anomalie elettrolitiche prima dell’anestesia.
Se possibile, l’esplorazione chirurgica e la riparazione
delle lesioni delle vie urinarie vanno rinviate fino a che l’animale non sia tornato ad uno stato metabolico relativamente normale. Non si deve eseguire la nefrectomia a meno che
un’urografia discendente non abbia indicato la normale funzionalità del rene superstite. Poiché l’anastomosi ureterale è
associata ad un’incidenza relativamente elevata di formazioni di stenosi, invece di questo intervento, se possibile, si deve eseguire il reimpianto dell’uretere in vescica. Le lacerazioni vescicali vanno sottoposte a revisione chirurgica e
chiuse secondo le modalità standard. Bisogna preservare il
trigono e la capacità vescicale aumenta col tempo dopo una
cistectomia parziale. Le lacerazioni incomplete della vescica
guariscono se il flusso di urina viene deviato attraverso un
catetere uretrale, ma quest’ultimo va mantenuto in sede per
2-3 settimane. Se si effettua la resezione/anastomosi dell’uretra, bisogna stare attenti a limitare la tensione attraverso la
linea di sutura, perché promuove la formazione di stenosi.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dale E. Bjorling, DVM, MS, Professor and Chair
Department of Surgical Sciences, School of Veterinary Medicine
University of Wisconsin-Madison, USA
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Complicazioni della castrazione
nel maschio e nella femmina
Dale E. Bjorling
DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA
L’ovaristerectomia (OHE) e la castrazione del cane e del
gatto sono gli interventi chirurgici effettuati con maggiore
frequenza dai veterinari per piccoli animali. Nella mente della maggior parte dei clinici e dei loro clienti sono considerati “di routine”. Di conseguenza, sia i clienti che i veterinari
hanno nei confronti di queste procedure delle aspettative ben
precise. I clienti desiderano che vengano effettuate ad un costo limitato, con complicazioni minime ed in un momento
che risulti comodo per loro. Dal punto di vista dei veterinari, queste procedure devono essere attuate rapidamente, con
un impiego minimo di attrezzature e complicazioni relativamente scarse. È utile ricordare che l’ovaristerectomia comporta la penetrazione in una cavità corporea, la legatura di
vasi importanti e la rimozione di organi e che la castrazione
prevede la legatura di vasi e l’asportazione di tessuti. L’apparato riproduttore della femmina è localizzato molto vicino
a quello urinario e ciò contribuisce ad aumentare il rischio di
danno iatrogeno involontario dei visceri addominali durante
l’ovaristerectomia.
Diversi fattori possono contribuire all’insorgenza di
complicazioni durante o dopo l’ovaristerectomia e la castrazione. Queste procedure vengono spesso programmate fra le
visite su appuntamento o subito prima e chi le effettua può
sentirsi spinto a portarle a termine rapidamente per evitare di
costringere gli altri clienti ad aspettare. Proprio a causa di
questo desiderio di concludere in breve tempo l’intervento, è
possibile che venga praticata un’incisione che non consenta
l’esteriorizzazione delle ovaie o della biforcazione dell’utero. Ciò può rendere difficile applicare saldamente le legature e rimuovere completamente le ovaie e le corna uterine.
L’impiego di una sutura semplice continua per chiudere la
parete addominale consente di praticare un’incisione più
lunga e di chiuderla senza un eccessivo prolungamento del
tempo necessario. Anche la scelta e la manipolazione del
materiale da sutura possono contribuire alle complicazioni.
Il catgut confezionato in grandi rocchetti può essere utilizzato con risultati soddisfacenti, ma va manipolato con cura.
Stringerlo troppo o torcerlo può determinare abrasioni o indebolimenti. Rispetto al catgut commercializzato in confezioni singole, nei rocchetti la robustezza del materiale da sutura presenta variazioni più significative lungo il filo ed inoltre è necessario scartare tutte le giunzioni fra i diversi tratti.
Le variazioni anatomiche fra i singoli animali o il riferimento anamnestico ad un precedente intervento chirurgico addominale possono complicare l’esecuzione dell’ovaristerectomia, in particolare se in addome è stata praticata un’incisione di piccole dimensioni.
Emorragia associata all’ovaristerectomia
Nella maggior parte dei casi, l’emorragia associata all’ovaristerectomia è la conseguenza di una dislocazione delle
legature. Eseguire l’intervento in un animale in estro può
esitare in un aumento dei gemizi dovuto ad una diminuzione
dell’adesione piastrinica, ma, in sé e per sé, non dovrebbe
esitare in un’emorragia fatale. L’intervento può richiedere
più tempo ed essere più complesso da eseguire perché il gemizio può oscurare il campo operatorio, ma se le legature
vengono applicate in modo appropriato, non si ha una significativa emorragia.
Il flusso ematico è più rapido attraverso l’utero che nei
vasi ovarici, ma in entrambi i casi un’emorragia non arrestata non dovrebbe portare all’insorgenza di segni di shock ipovolemico in meno di 2-4 ore. Spesso è difficile determinare
dopo l’intervento se si stia verificando o meno un’emorragia
significativa. La paracentesi addominale può evidenziare la
presenza di sangue nonostante il fatto che si sia verificata
un’emorragia di minima entità. Anche il riscontro di distensione addominale, aumento della frequenza cardiaca, diminuzione della perfusione periferica e concomitante calo dell’ematocrito e della concentrazione delle proteine plasmatiche suggeriscono un’emorragia significativa.
Il colore delle mucose riflette la perfusione periferica,
che può essere influenzata dalla pressione sanguigna, dalla
resistenza vascolare periferica e dall’ematocrito. Il dolore
provoca una vasocostrizione periferica che esita in pallore
delle mucose. Il tempo di riempimento capillare dovrebbe riflettere la pressione di perfusione; tuttavia, in animali morti
da poco si può osservare un tempo di riempimento capillare
normale (1-2 secondi). Queste osservazioni (colore delle
mucose e tempo di riempimento capillare) devono essere valutate alla luce di altri riscontri (frequenza cardiaca, ematocrito, ecc…).
Per valutare la presenza o meno di un’emorragia endoaddominale è necessario effettuare la misurazione e registrazione dei valori dell’ematocrito (HT) e della concentrazione delle proteine plasmatiche (PPC) in una serie di campioni di sangue prelevati in sequenza. Non è raro che l’ematocrito mostri un declino dopo un intervento chirurgico a
causa della somministrazione o ridistribuzione dei fluidi,
ma, se è in atto un’emorragia, entrambi i parametri citati diminuiscono costantemente nell’arco di 1-4 ore. Quando l’emorragia si arresta, non è raro che l’ematocrito possa continuare a diminuire per 1-2 ore, ma le concentrazioni di proteine plasmatiche si stabilizzano. Se si sospetta un’emorra-
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gia dopo un’ovaristerectomia, è necessario monitorare diversi parametri e valutare i risultati ottenuti per decidere se ricorrere o meno all’esplorazione dell’addome.
Occasionalmente, un vaso all’interno della parete uterina
si sfila dalla legatura e dalla vulva si osserva una significativa emorragia. Non è raro uno scolo di fluido emorragico di
minore entità che persiste per 5-7 giorni dopo l’ovaristerectomia; tuttavia, se attraverso la vagina si osserva la perdita di
grandi quantità di sangue, bisogna eseguire una laparotomia
per consentire l’applicazione di legature al tratto prossimale
del moncone uterino.
Se è necessario esplorare l’addome per valutare l’emorragia durante o dopo l’ovaristerectomia, l’incisione va prolungata in modo da offrire un adeguato accesso all’addome
e consentire l’osservazione diretta dei peduncoli ovarici e
del moncone uterino. È possibile afferrare il duodeno sulla
destra e scostarlo verso il lato sinistro dell’addome in modo
da esporre il peduncolo ovarico destro e si può usare il colon
discendente per lo stesso scopo a sinistra. Può essere necessario ribaltare ventralmente la vescica per esporre il moncone uterino. Bisogna stare attenti quando si applicano le pinze sui vasi ovarici o uterini, per evitare di afferrare inavvertitamente gli ureteri. Se si è verificata una grave emorragia,
è possibile prelevare il sangue dall’addome, miscelarlo con
un anticoagulante ed infonderlo nuovamente nell’animale
utilizzando un set da trasfusione che comprenda un filtro
(autotrasfusione). In alternativa, può essere necessario ricorrere al sangue di un animale donatore.
Persistenza dell’estro dopo
l’ovaristerectomia
Nella maggior parte dei casi, il permanere dell’estro dopo l’ovaristerectomia viene attribuito alla ritenzione di una
porzione di ovaia. Altre condizioni che possono far sì che le
cagne attraggano i maschi sono la cistite batterica e la vaginite. Prima di eseguire una laparotomia è quindi necessario
escludere l’esistenza di questi disordini.
A meno che durante l’intervento non venga aperta la borsa ovarica, di solito l’ovaio non viene ispezionato direttamente. Nel corso di una laparotomia esplorativa eseguita per
verificare l’eventuale ritenzione di tessuto ovarico, questo
può essere difficile da identificare. Il grasso che circonda le
formazioni cicatriziali del peduncolo ovarico caudalmente ai
reni deve essere asportato in blocco ed inviato alla valutazione istologica facendo attenzione ad identificare ed evitare gli ureteri.
Piometra del moncone uterino
L’infezione del residuo uterino (“piometra del moncone”) esita nella comparsa di segni clinici simili a quelli della piometra che si osserva negli animali interi. È estremamente raro che questo disordine si verifichi in assenza di tessuto ovarico ritenuto. Può darsi che la possibilità che la piometra del residuo uterino possa essere la causa dei segni clinici dell’animale non venga presa in considerazione perché
si parte dal presupposto che ciò non si verifica negli anima-
41
li ovariectomizzati. La presenza di questo disordine viene
suggerita dall’osservazione di una massa fra la vescica o l’uretra ed il colon nelle immagini radiografiche o ecografiche.
Il trattamento consiste nell’escissione del moncone uterino
fino alla cervice (possibilmente comprendendola nella massa asportata) e del tessuto ovarico ritenuto.
Reazioni alla sutura dopo
ovaristerectomia
Occasionalmente, il materiale da sutura utilizzato per la
legatura dei peduncoli ovarici va incontro a rigetto. Ciò si
verifica nella maggior parte dei casi quando si utilizzano materiali multifilamento non assorbibili o certi tipi di mezzi autostatici non destinati a questo impiego. Ciò esita nello sviluppo di un tragitto fistoloso non tendente alla guarigione in
posizione immediatamente caudale all’ultima costola ed il
tessuto di granulazione associato alla lesione può arrivare a
coinvolgere il rene e l’uretere ipsilaterali. Il trattamento consiste nell’esplorazione dell’addome con rimozione del materiale e del tessuto di granulazione associato e nell’escissione
in blocco del tragitto fistoloso.
Trauma ureterale associato
all’ovaristerectomia
Il danneggiamento degli ureteri durante l’ovaristerectomia si verifica più comunemente nelle gatte che nelle cagne.
Nelle gatte gli ureteri sono situati molto vicino al legamento
largo, se non al suo interno. Il trauma subito da queste strutture nella maggior parte dei casi è dovuto al fatto che vengono inavvertitamente comprese nel tessuto afferrato in
prossimità del corpo uterino. Se gli ureteri vengono semplicemente legati e l’evento viene rilevato subito dopo che si è
verificato, è possibile riposizionare le legature. Se l’ostruzione ha determinato un idrouretere/idronefrosi, può essere
necessario rimuovere il rene e l’uretere. Se quest’ultimo viene reciso, va reimpiantato in vescica.
Complicazioni delle ferite dopo
ovaristerectomia
La più comune complicazione delle ferite dopo ovaristerectomia è la comparsa di un sieroma. I fattori che contribuiscono alla sua formazione sono rappresentati da trauma
tissutale (compresa un’eccessiva dissezione sottocutanea),
attività dell’animale e applicazione di molteplici suture sottocutanee nella gatta. I sieromi di solito si risolvono senza
ulteriore trattamento.
La deiscenza della ferita addominale può essere la conseguenza del fatto che le suture non sono state applicate saldamente nella fascia esterna del muscolo retto dell’addome,
i nodi sono stati stretti male o il materiale da sutura è stato
danneggiato. Se la parete addominale viene chiusa con una
sutura continua semplice, si deve utilizzare un materiale assorbibile di sintesi di dimensioni appropriate (gatte e cagne
< 7 kg: 3-0; 7-17 kg : 2-0; > 17 kg : 0).
42
Anche se è stato ipotizzato che agli animali sottoposti ad
ovaristerectomia si debbano somministrare di routine degli
antibiotici, questa pratica va scoraggiata data la bassa incidenza di infezioni ed il rischio di selezione di batteri antibioticoresistenti.
Emorragia dopo castrazione
Se le legature vengono dislocate dai vasi spermatici dopo la castrazione, si può avere un’emorragia all’interno dei
tessuti sottocutanei situati cranialmente allo scroto o in addome. Un’emorragia non controllata dai vasi spermatici può
essere fatale. La valutazione dell’emorragia endoaddominale si effettua secondo le modalità descritte per l’ovaristerectomia. Se si verifica un’emorragia dopo castrazione, può essere necessario identificare e legare i vasi spermatici mediante laparotomia esplorativa.
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Ernia o infezione dopo castrazione
L’ernia dei visceri addominali attraverso gli anelli inguinali dopo la castrazione è un’evenienza rara nel cane e nel
gatto. Nel cane la condizione viene diagnosticata identificando con la palpazione una massa dura ed eventualmente
riducibile nello spazio sottocutaneo situato cranialmente e
lateralmente allo scroto.
Le infezioni scrotali di minore entità conseguenti alla castrazione possono essere trattate con l’apertura della ferita
per consentirne il drenaggio. Le infezioni più estese possono imporre l’escissione del tessuto colpito mediante ablazione scrotale.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dale E. Bjorling, DVM, MS, Professor and Chair
Department of Surgical Sciences, School of Veterinary Medicine
University of Wisconsin-Madison, USA
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La gestione delle patologie gastrointestinali nel gatto
Andrea Boari
Med Vet, Teramo
Carla Civitella, Med Vet, Teramo
Le malattie del tratto gastrointestinale (GI) del gatto rappresentano uno dei più frequenti motivi di visita nella pratica clinica
veterinaria. Nel gatto i segni clinici osservabili nei disordini dell’apparato gastroenterico sono assolutamente aspecifici e comuni
a numerose patologie extraintestinali. Pertanto nell’approccio diagnostico, bisogna affidarsi ad una dettagliata raccolta anamnestica, ad un accurato esame clinico e ad indagini collaterali adeguate. In merito alle forme croniche, queste appaiono quelle più problematiche sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico.
L’approccio ai disordini acuti si basa innanzitutto sul riconoscimento delle forme autolimitanti (24-36h) da quelle potenzialmente fatali (parvovirus, ostruzioni intestinali, alcune forme batteriche). Segni clinici quali depressione, anoressia, debolezza,
disidratazione, febbre e melena possono indirizzare verso la presenza di una forma grave che necessita di un approfondimento
diagnostico e di un’idonea terapia intensiva. Più frequentemente
siamo di fronte a forme autolimitanti che migliorano indipendentemente dal trattamento essenzialmente basato su una terapia
sintomatica che prevede fluidi rivolti alla correzione delle alterazioni idroelettrolitiche, acido-basiche e al riposo del tratto GI. È
consigliato un digiuno di 12-48h con susseguente passaggio a
piccoli quantitativi di acqua e quindi la somministrazione di piccoli pasti 6-8 volte al giorno incrementando la quota di alimento fino ad arrivare a far ricoprire, nell’arco di 3-4 giorni, i fabbisogni energetici giornalieri distribuiti in 2-3 pasti/die. L’alimento deve essere altamente digeribile, ipoallergenico, senza glutine, a basso tenore di grasso e lattosio, contenente proteine ad alto valore biologico, bilanciato in vitamine liposolubili, minerali
(potassio) e acidi grassi polinsaturi. L’uso di antibiotici non è indicato se non in caso di grave danno mucosale che può predisporre allo sviluppo di batteriemia, setticemia o endotossiemia
come si può verificare nelle forme enteriche emorragiche. Fra gli
antibiotici e chemioterapici consigliati ricordiamo: trimethoprim-sulfonamide, l’associazione aminoglicosidici e β-lattamici
quali ampicillina sodica o cefalotina sodica con gentamicina solfato e le cefalosporine di terza generazione. In caso di grave alterazione acuta della permeabilità intestinale è opportuno alimentare il gatto con la cosiddetta dieta “sacrificale” che prevede
l’introduzione di una nuova proteina per 3-6 settimane, per poi
tornare gradualmente alla dieta originaria. La nuova proteina
non dovrebbe più far parte della dieta di quel soggetto per evitare possibili manifestazioni di ipersensibilità alimentare. La terapia farmacologica prevede anche l’uso di gastroprotettori (sucralfato), inibitori delle secrezioni acide quali farmaci H2-antagonisti (cimetidina, ranitidina, famotidina), inibitori della pompa protonica (omeprazolo/lanzoprazolo), farmaci antiemetici e
regolatori della motilità GI (clorpromazina e metoclopramide).
Nelle malattie croniche intestinali è fondamentale un pia-
no diagnostico accurato per identificare la sede del problema
(grosso o piccolo intestino), la presenza di una enteropatia
proteino disperdente (meno frequente nel gatto rispetto al cane), di una malattia malassorbitiva e se quest’ultima consegue a maldigestione la cui causa è l’insufficienza pancreatica
esocrina (IPE) o a malassorbimento conseguente a problemi
dietetici, batterici, parassitari, a malattie infiltrative infiammatorie (IBD) o neoplastiche (linfoma).
La causa più comune di manifestazioni gastroenterologiche
croniche è l’IBD che rappresenta un’infiltrazione idiopatica
della parete gastrointestinale da parte di cellule infiammatorie o
immunocompetenti. Tali lesioni derivano probabilmente da una
risposta immunitaria appropriata ad uno stimolo abnorme o ad
una risposta prolungata e anomala ad uno stimolo “normale”.
La diagnosi di IBD origina dall’esclusione delle malattie infiammatorie GI ad eziologia nota (dieta, batteri, parassiti, funghi, neoplasie) e solo dopo aver eseguito un esame istologico.
La terapia è mirata essenzialmente all’eliminazione di cause
primarie che promuovono l’infiammazione quali allergeni dietetici e batterici. Per tale motivo la gestione include principalmente l’uso di una dieta controllata e secondariamente l’utilizzo di farmaci antinfiammatori, immunosoppressivi e antibiotici. La dieta deve essere iperdigeribile e a basso residuo, eventualmente integrata con acidi grassi polinsaturi opportunamente bilanciati. La fonte proteica ad elevata digeribilità deve essere nuova ed ipoallergenica. Lo scopo principale della terapia è
quello di portare ad una riduzione dello stimolo antigenico. In
tal senso, sono in commercio numerose diete opportunamente
preparate e indicate per le malattie del tratto GI e alcune contengono idrolizzati proteici con peso molecolare inferiore a
3000 dalton considerati non allergenici, che vengono indicati
nelle forme gravi di IBD (z/d Hill’s). Vista la riportata frequenza di carenze vitaminiche (soprattutto di folati e di cobalamina)
nei gatti con IBD è consigliabile effettuare un’opportuna integrazione della dieta con queste vitamine per via parenterale ed
anche di notevole ausilio appaiono aminoacidi, quali l’arginina,
e la carnitina. Tali misure portano ad un significativo miglioramento della risposta alla terapia farmacologica. Per quanto riguarda quest’ultima, il farmaco d’elezione è il prednisone (5
mg/gatto bid os; 2-3 mg/kg/die bid os solo nei casi gravi di IBD
ed in caso di enterite eosinofilica). Tale corticosteroide viene
metabolizzato a prednisolone a livello epatico e i suoi principali effetti sono di tipo antinfiammatorio e immunosoppressivo.
Nei casi refrattari alla terapia dietetica e corticosteroidea si può
associare il clorambucile (0,25-0,33 mg/kg q72h os). Altri farmaci quali azatioprina e ciclofosfamide per i gravi effetti collaterali sono da sconsigliarsi nel gatto. L’antibiotico di prima scelta è il metronidazolo (10-25 mg/kg q12-24h os) o, nei casi re-
44
frattari di IBD, la tilosina (20-40 mg/kg bid os). In presenza di
un’IBD ad esclusiva localizzazione del grosso intestino la terapia corticosteroidea è controindicata, mentre l’integrazione di
fibra appare al momento controversa. Tuttavia, l’aggiunta di
modeste quantità di fibra alimentare solubile o insolubile allo
scopo di aumentare la massa delle feci ed allo stesso tempo garantire un apporto di butirrato quale fonte energetica per i colonociti appare utile nel trattamento dei soggetti colpiti da tale patologia. In commercio esistono diverse diete ad elevato contenuto di fibra. Dal momento che non è possibile prevedere gli effetti delle diverse diete (fibra vs ipoallergenica) nei confronti
delle colonopatie croniche del gatto, si consiglia l’adozione di
accurati e adeguati trial dietetici. L’uso di farmaci contenenti 5aminosalicilato è raramente consigliato nel trattamento dell’IBD del colon nel gatto, data la sua ben nota sensibilità ai salicilati. Pertanto l’uso della sulfasalazina nel gatto è consigliata
esclusivamente nei soggetti che non rispondono alle altre terapie e solo utilizzando dosaggi ridotti (10-20 mg/kg q8-24h os
per un massimo di 10 giorni).
Nel gatto l’IBD può talora non rappresentare un’entità
patologica unica ma può associarsi a pancreatite cronica,
rientrando nel cosiddetto quadro della triadite (IBD, colangioepatite, pancreatite). Da un punto di vista clinico la sintomatologia della pancreatite è aspecifica e variabile da grave (soggetto in stato di shock) a lieve (asintomatica o paucisintomatica) e la diagnosi rappresenta ancora oggi una sfida.
Recenti studi hanno proposto l’utilizzo del fPLI (feline Pacreatic Lipase Immunoreactivity) nella diagnosi della pancreatite felina che ha dimostrato una sensibilità e specificità
più elevata rispetto ai test considerati tradizionali (fTLI o feline Trypsin-Like Immunoreactivity ed ecografia). Una volta raggiunta la diagnosi occorre procedere all’“eliminazione” della causa (tenendo presente che circa il 90% delle pancreatiti nel gatto sono idiopatiche) e ad un trattamento di
supporto caratterizzato da fluidoterapia (cristalloidi, plasma). La sospensione della somministrazione di cibo, acqua
e farmaci per via orale necessaria nel cane, è controindicata
nel gatto poiché tale provvedimento può predisporre a lipidosi epatica. Quindi in caso di anoressia per più di 24h è necessario ricorrere ad una alimentazione enterale o parenterale. È inoltre consigliato l’uso di analgesici quali patch transdermici di fentanyl. Gli antibiotici sono indicati solo in caso di pancreatite suppurativa. La somministrazione di dopamina (5 µg/kg/min) sembra ridurre la flogosi migliorando la
circolazione pancreatica e diminuendo la permeabilità del
microcircolo. I corticosteroidi sono consigliati solo in caso
di shock o di concomitante IBD. La pancreatite cronica può
causare nel gatto l’IPE che porta, a seguito della carenza degli enzimi pancreatici, a una sindrome da maldigestione. La
terapia dell’IPE prevede la supplementazione di enzimi pancreatici in polvere o di pancreas di suino (fresco o congelato) da aggiungere ai pasti. È inoltre consigliabile la supplementazione parenterale di folati e vitamina B12 per correggere le carenze vitaminiche frequentemente osservate nei
gatti con IPE. La dieta da suddividersi possibilmente in più
pasti deve essere iperdigeribile, a basso contenuto di fibre e
con proteine di elevata qualità.
Altro disturbo frequente del tratto GI del gatto è la costipazione, tale condizione può essere indotta da svariati fattori quali: cam-
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biamenti dietetici o ambientali, ingestione di corpi estranei, ostruzioni intra-extraluminali, ileo, patologie neurologiche, terapie farmacologiche, disidratazione. La costipazione cronica esita in megacolon che può anche essere d’origine idiopatica. Il trattamento
della costipazione comprende l’identificazione e l’eliminazione
della causa, il ripristino dello stato di idratazione, l’uso di clisteri
di acqua tiepida e di lassativi. Occorre porre attenzione ai lassativi osmotici (lattulosio) e a quelli emollienti (docusato di sodio/calcio) che possono risultare irritanti per la mucosa intestinale, quindi controindicati in presenza di uno stato infiammatorio del tratto
GI e prima di procedure endoscopiche. Non bisogna utilizzare
lassativi catartici contenenti magnesio e clisteri contenenti fosfati poiché questi possono indurre stati di iperfosfatemia o ipermagnesemia potenzialmente fatali nel gatto. I lassativi migliori sono
quelli che aumentano la massa fecale (psillium, metilcellulosa) e
i lubrificanti (vaselina). I lassativi stimolanti (bisacodile) sono indicati nei gatti con costipazione cronica o con megacolon in stadio precoce. Agenti procinetici quali la ranitidina e la nizatidina
possono dimostrarsi utili nei casi refrattari alla dieta e ai lassativi
e trovano quindi indicazione per aumentare le contrazioni della
muscolatura liscia e quindi nel trattamento di gatti con ileo, costipazione cronica o megacolon idiopatico. L’utilizzo di diete ricche di fibra insolubile, che porta ad aumento della massa fecale,
si dimostra utile nel trattamento della costipazione, sempre che lo
stato di idratazione del gatto sia buono.
Un altro capitolo importante in medicina felina è la gestione delle reazioni avverse al cibo dovute ad una risposta abnorme su base immunitaria (allergia o ipersensibilità) e non
(intolleranza e errori) all’alimento ingerito o ad un additivo.
Nel gatto la contemporanea presenza di segni GI e dermatologici indirizzano verso una sospetta allergia alimentare ed, in
questo caso, la dieta rappresenta sia un mezzo diagnostico che
terapeutico di fondamentale importanza. Sono state prodotte
diverse diete commerciali ipoallergeniche o a limitato potere
antigenico, formulate utilizzando un’unica fonte di proteine e
carboidrati. La diagnosi comporta notevoli difficoltà, soprattutto perché la prova di eliminazione dura 6-12 settimane ed è
caratterizzata dall’utilizzo di una dieta ipoallergenica di “eliminazione” volta a dimostrare la scomparsa dei sintomi clinici
a seguito della rimozione dell’agente scatenante e a provare la
ricomparsa dei sintomi quando al paziente viene ripresentata la
dieta originale. Qualora si sia individuato l’elemento scatenante la reazione avversa, si prescriverà una razione equilibrata
priva di tale alimento o additivo, o in alternativa il paziente
continuerà a ricevere la dieta ipoallergizzante.
Letture consigliate
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Indirizzo per la corrispondenza:
Andrea Boari, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Università degli Studi di Teramo, Viale F. Crispi 212, 64100 Teramo
Tel 0861 266972 - fax 0861 266971 - e-mail [email protected]
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La gestione del diabete mellito del gatto
Andrea Boari
Med Vet, Teramo
Francesca Rocconi, Med Vet, Teramo
Il diabete mellito (DM) è una delle più comuni endocrinopatie nel gatto, ed è segnalato soprattutto in soggetti di età
superiore ai 9 anni con una media di 10 anni. Nella popolazione felina si riscontra con maggior frequenza nei maschi
piuttosto che nelle femmine e tale rapporto, considerando i
maschi castrati, raggiunge 1,5:1. Il termine DM racchiude
un disordine metabolico a genesi multifattoriale caratterizzato da iperglicemia cronica e alterazioni del metabolismo
glucidico, lipidico e proteico. Conoscere a fondo la patogenesi del DM felino è un passo fondamentale per comprendere i limiti della terapia e approntare una corretta gestione
del paziente. L’attuale classificazione divide il DM in insulino-dipendente (IDDM o tipo 1), non insulino-dipendente
(NIDDM o tipo 2), DM transitorio e DM secondario (o tipo
3). Nel gatto la differenziazione tra IDDM da quello
NIDDM risulta in pratica impossibile al momento della diagnosi, per cui spesso il clinico si deve affidare alla risposta
ottenuta a seguito della terapia. In base ai caratteri istologici
delle isole pancreatiche, alla mancanza di anticorpi β cellulari, al comportamento clinico della patologia e ai fattori di
rischio, fra cui sono annoverati obesità, inattività fisica, farmaci e patologie intercorrenti, il NIDDM sembra essere la
forma più comune nel gatto. Questo si caratterizza fondamentalmente dalla compromissione della secrezione insulinica e da insulinoresistenza da parte dei tessuti bersaglio.
Tra le situazioni che possono pregiudicare la liberazione di
insulina rientrano un’alterata funzione β cellulare, il fenomeno della glucotossicità e la deposizione di sostanza amiloide (IA) a livello di insule pancreatiche. La glucotossicità
è una condizione che induce desensibilizzazione dei glucosensori β cellulari, nei confronti del glucosio, e quindi porta
ad una ridotta secrezione insulinica in risposta allo stimolo
“iperglicemia”. Tale condizione può anche essere reversibile
in rapporto all’entità dell’iperglicemia e alla sua durata. La
IA è costituita da amilina, proteina cosecreta con l’insulina,
che in condizioni di iperglicemia è prodotta in maniera abnorme dalle cellule pancreatiche. Questa si deposita a livello insulare determinando danni irreversibili a carico delle
cellule β quali degenerazione, morte per apoptosi e successiva sostituzione con IA. Per quanto riguarda l’insulinoresistenza, recenti studi hanno evidenziato come i gatti diabetici risultino circa 6 volte meno sensibili all’azione dell’insulina rispetto ai sani. L’obesità è il maggior fattore di rischio
per lo sviluppo di NIDDM nell’uomo e nel gatto. Questa induce uno stato di insulinoresistenza reversibile, riducendo la
sensibilità all’insulina da parte dei recettori cellulari. Questa
situazione determina un aumento della richiesta insulinica
che a lungo termine porta all’“esaurimento β cellulare”. Una
volta emessa diagnosi di DM non scompensato sulla base
dei segni clinici e dei reperti di laboratorio (iperglicemia persistente, glicosuria, fruttosamine >400 µmol/L) e valutati
eventuali fattori e patologie concomitanti (pancreatiti, insufficienza renale, endocrinopatie, ecc.), si procede ad instaurare la terapia. Questa è volta alla risoluzione dei segni clinici,
al mantenimento di un peso corporeo adeguato e ad evitare
l’insorgenza di complicazioni. I punti cardine della gestione
prevedono la terapia insulinica o con ipoglicemizzanti orali,
la dieta e l’esercizio fisico. Fino a qualche tempo fa si tendeva a trasporre le conoscenze nutrizionali relative al cane
alla specie felina, in realtà nel corso degli ultimi anni è emerso come queste due specie siano profondamente diverse tra
loro. Il gatto infatti in quanto carnivoro in senso stretto utilizza in maniera prioritaria quali fonti energetiche le proteine e i grassi. In uno studio condotto su 9 gatti diabetici si è
evidenziato come una dieta ricca di proteine e a basso contenuto glucidico e di fibra abbia ridotto di più del 50% le richieste di insulina, consentendo l’interruzione della terapia
insulinica in 8 soggetti. In base a questi presupposti attualmente il panorama delle diete indicate nei gatti con DM
comprende diete caratterizzate da elevato tenore proteico e
basso quantitativo di fibra e carboidrati (DM Purina, m/d
Hill’s), accanto ad alimenti caratterizzati da alto tenore in
grassi e basso in carboidrati e proteine (Kitten Hill’s) e infine diete ad elevato tenore di fibra e moderato contenuto in
carboidrati e grassi (w/d Hill’s). Non essendo prevedibile la
risposta del paziente ad un tipo di dieta piuttosto che ad un
altro, la scelta iniziale si basa essenzialmente sulla risposta
alla terapia. Una ulteriore diversità rispetto al cane, è che nel
gatto il picco glicemico postprandiale è lieve e protratto nel
tempo da cui la possibilità di alimentarlo più volte nell’arco
della giornata. La frequenza di somministrazione dell’alimento è stata oggetto di alcuni studi negli ultimi anni, sulla
base dei quali è emerso come l’alimentazione ad libitum determini una maggior richiesta insulinica che, in soggetti predisposti, contribuisce all’“esaurimento β cellulare”; al contrario l’alimentazione fornita una volta al dì risulta vantaggiosa in gatti predisposti ad alterata tolleranza al glucosio o
al diabete. Quest’ultima soluzione tuttavia non risulta ragionevolmente attuabile viste le naturali abitudini alimentari del
gatto che lo spingono a cibarsi con piccole quantità più volte nell’arco della giornata. Occorre inoltre sottolineare che
sia l’obesità che la malnutrizione sono condizioni che determinano uno stato di insulinoresistenza per cui vanno corrette con opportuni presidi dietetici. Gli Autori si raccomanda-
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no di impiegare diete commerciali formulate appositamente
per il gatto e di procedere al cambio della dieta in modo lento e graduale in quanto, nei soggetti diabetici, si assiste ad un
rallentamento della motilità intestinale che predispone all’invaginamento. L’elevata incidenza del NIDDM nel gatto
impone la scelta tra insulina e ipoglicemizzanti orali. La
scelta dell’uno piuttosto che dell’altra dipende in teoria dalle condizioni generali del paziente e quindi dalla gravità dei
segni clinici, dall’assenza di chetoacidosi e dalla disponibilità del proprietario. In linea generale gli Autori consigliano
di utilizzare sempre prontamente la terapia insulinica e, solo
laddove il proprietario rifiuti di effettuare iniezioni di insulina, impiegare gli ipoglicemizzanti orali. Tra questi la glipizide risulta l’unico farmaco dimostratosi realmente efficace
nel gatto. Tuttavia, vista l’esigua percentuale (20-40%) di
gatti che risponde favorevolmente all’uso di glipizide e l’impossibilità di distinguere soggetti affetti da IDDM da quelli
con NIDDM, se ne sconsiglia l’utilizzo. Bisogna inoltre considerare che il meccanismo d’azione di questo farmaco si attua attraverso la stimolazione del pancreas a produrre insulina per cui è essenziale che esista attività residua pancreatica
(massa funzionante). Tale secrezione tuttavia può promuovere ulteriormente la deposizione di IA accelerando la progressione della malattia. Instaurare precocemente la terapia
insulinica (meglio se associata a una dieta idonea) offre l’indubbia opportunità di “salvare” quante più cellule β possibili, invertendo, talvolta, il fenomeno della glucotossicità, o
comunque limitando la deposizione di IA. In questo modo
nel paziente, terminata l’azione dell’insulina esogena, le poche cellule β funzionanti assicureranno una produzione basale di insulina che consentirà un miglior controllo limitando le fluttuazioni glicemiche. La scelta iniziale del tipo di insulina cade in prima battuta su quella lenta di origine animale (Caninsulin, Intervet) o in alternativa si può utilizzare
il tipo ultralento ricombinante umano. È preferibile iniziare
la terapia a dosaggi bassi per poi adattarli alle necessità del
paziente. Si consigliano 0,5 UI/kg BID se la glicemia ≥ 360
mg/dl o 0,25 UI/kg BID se è < 360 mg/dl; alcuni Autori consigliano 1 UI/gatto BID a prescindere dal peso corporeo. Il
proprietario deve essere istruito attentamente sulle modalità
di conservazione, preparazione e somministrazione dell’insulina, sul riconoscimento di eventuali segni di ipoglicemia
e sulle misure per contrastarla. La terapia prevede inizialmente una fase di stabilizzazione, in cui il paziente è valutato settimanalmente, poi, ottenuto un buon controllo glicemico a due monitoraggi successivi, si passa alla fase di mantenimento con controlli ogni 3-6 mesi. Il monitoraggio clinico
si attua mediante un accurato esame fisico, l’esecuzione di
curve glicemiche, il dosaggio delle fruttosamine ed eventuali esami collaterali atti a meglio valutare lo stato generale
dell’animale. Un fattore condizionante il monitoraggio am-
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bulatoriale del gatto è l’iperglicemia stress indotta che può
fuorviare il clinico nelle scelte terapeutiche. In base a questa
peculiarità si consiglia di limitare l’esecuzione delle curve
glicemiche ai soggetti che presentino scarso controllo e di
affidarsi all’opinione del proprietario per ottenere informazioni riguardo la persistenza o la ricomparsa di segni clinici,
il mantenimento di un peso costante e l’attitudine dell’animale a interagire con l’ambiente con altri animali e persone
eventualmente presenti. Recentemente è sempre più frequente l’esecuzione domiciliare di curve glicemiche effettuate direttamente dal proprietario, tramite l’impiego di glucometri, prelevando il sangue capillare dall’orecchio. Valutando l’efficacia, la durata di azione e il nadir si pondera la
risposta del soggetto alla terapia insulinica. Qualora ci si affidi al dosaggio delle fruttosamine per il monitoraggio del
paziente bisogna evitare di operare correzioni della terapia
sulla base di questo valore in quanto la risposta terapeutica
dipende da numerosi fattori tra i quali l’insulina ne rappresenta solo uno. Parallelamente alla gestione clinica va effettuata quella domiciliare istruendo il proprietario sul monitoraggio dell’animale in particolar modo controllando i segni
clinici, valutando settimanalmente il peso e la glicosuria e
annotando poi i dati riscontrati. In una certa percentuale di
gatti (20-40%) con un buon controllo glicemico, si assiste alla remissione della patologia, in genere dopo 1-4 mesi di terapia, a seguito della riduzione dell’obesità o della scomparsa degli effetti di un precedente trattamento farmacologico.
Bisogna prestare attenzione a questi soggetti in quanto una
volta ripresa la funzionalità β cellulare, si possono scatenare
gravi episodi di ipoglicemia che a volte nel gatto possono
portare ad un falso scadente controllo glicemico (Fenomeno
di Somogyi).
Letture consigliate
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Indirizzo per la corrispondenza:
Andrea Boari
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Università degli Studi di Teramo, Viale F. Crispi 212, 64100 Teramo
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Trauma dentale e terapia endodontica
Dea Bonello
Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino
Classificazione dei traumi
I traumi oro-facciali sono un evento piuttosto frequente,
e possono comportare lesioni più o meno gravi ai denti, alle
ossa ed ai tessuti molli.
In seguito a tali traumi possono presentarsi i seguenti
quadri clinici:
• Lesioni dei tessuti duri del dente e della polpa
− Infrazione di corona
− Frattura di corona non complicata
− Frattura di corona complicata
− Frattura di corona e radice non complicata
− Frattura di corona e radice complicata
− Frattura di radice
• Lesioni del tessuto parodontale
− Concussione
− Sublussazione
− Lussazione intrusiva
− Lussazione estrusiva
− Lussazione laterale
− Avulsione completa
• Lesioni della gengiva e della mucosa orale
− Abrasione
− Contusione
− Lacerazione
• Lesioni dell’osso di supporto
− Frattura di una parete dell’alveolo
− Frattura del processo alveolare
− Frattura comminuta dell’alveolo
− Frattura della mandibola
− Frattura del mascellare (Fort I, II, III)
L’esame radiografico è comunemente usato per rilevare
i traumi facciali, ma in particolare è l’esame strumentale
più usato per diagnosticare i traumi alveolo-dentali.Le lesioni degli elementi dentari coinvolti in un quadro clinico
di trauma oro-facciale richiedono sempre un piano di trattamento endodontico-conservativo, ad eccezione delle fratture verticali complete di radice che richiedono obbligatoriamente l’estrazione.
Questo sia al fine di preservare l’elemento dentale, sia
per ristabilire una corretta funzionalità dell’apparato ortognatodontico una volta guarito il trauma. Le connessioni tra
i denti ed il loro apparato di sostegno (parodonto) rivestono
infatti un ruolo di primaria importanza nella fisiologia dell’osso alveolare, in quanto le sollecitazioni meccaniche trasmesse dal legamento alveolo-dentale sono alla base del
meccanismo di rimodellamento a cui è continuamente sottoposto il tessuto osseo.
Il dente reagisce con un meccanismo infiammatorio agli
insulti gravi, che prende il nome di pulpite (infiammazione
dei tessuti della polpa). Spesso la pulpite degenera nella necrosi della polpa, quando l’edema comporta lo strozzamento dei vasi sanguigni ed una progressiva ed irreversibile riduzione degli scambi metabolici a livello dei tessuti pulpari.
Le conseguenze patologiche della pulpite si ripercuotono
sempre sul parodonto.
In caso di sublussazione e di lussazione del dente si verifica ad esempio uno stiramento del fascio vascolo-nervoso
che attraversa il delta apicale, e in determinate circostanze
l’emorragia può essere di entità tale da provocare la necrosi
della polpa per obliterazione dei vasi. In caso di avulsione
invece, se la radice non è completamente formata (denti immaturi) la sopravvivenza della polpa dentaria può essere del
30-40% dopo 10 anni, mentre nei denti maturi la percentuale di sopravvivenza è pari a zero.
Reazione della polpa all’esposizione
della dentina
Anche in assenza di danno diretto alla polpa (fratture non
complicate) si può sviluppare una pulpite, reversibile o irreversibile. Infatti quando i tubuli dentinali vengono aperti ed i processi degli odontoblasti esposti, le terminazioni nervose ed i
fluidi contenuti all’interno trasmettono lo stimolo irritativo alla polpa. Se questa supera lo shock infiammatorio e rimane vitale, il danno viene riparato tramite la deposizione di dentina
terziaria da parte degli odontoblasti contenuti all’interno dei tubuli dentinali, diversamente si ha necrosi pulpare (morte del
dente). Per poterne diagnosticare la vitalità, il dente deve essere monitorato nel tempo tramite l’esame radiografico.
La polpa può risultare variamente traumatizzata, sempre
in assenza di esposizione diretta, anche da una serie di procedure odontoiatriche, quali ad esempio la preparazione di
cavità, la monconizzazione, l’utilizzo di materiali altamente
irritanti per i tessuti vitali (l’acido ortofosforico, etc.), e non
ultime tutte quelle situazioni in cui l’utilizzo degli strumenti, provocando attrito contro i tessuti duri del dente, genera
calore. Tutte queste situazioni devono essere distinte, almeno da un punto di vista prognostico, da quei casi in cui il
consumo dello smalto prima, e della dentina poi, è così lento da concedere il tempo agli odontoblasti di produrre dentina terziaria in quantità sufficiente da proteggere costantemente la polpa dal rischio dell’esposizione (consumo eccessivo provocato dall’uso improprio della dentatura, precontatti associati alle malocclusioni).
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Esposizione della polpa
Quando si ha esposizione della polpa, la frattura del dente viene definita complicata. Segni clinici sono l’emorragia
pulpare ed il dolore acuto. In poco tempo però i batteri invadono il tessuto ed i vasi vengono obliterati dalla pressione
esercitata dall’infiammazione, provocando la necrosi della
polpa. Un tappo di materiale organico essiccato occlude la
cavità pulpare e questa condizione, essendo nel frattempo
cessato il dolore, può rimanere inalterata per lungo tempo.
Prima o poi, però, l’infezione che alberga nella cavità
pulpare si diffonde nei tessuti periapicali attraverso il delta
apicale, causando una paradentite periapicale, che evolverà
con il tempo in un granuloma apicale o in un ascesso apicale. In questo caso la condizione diventa nuovamente dolente
e si può manifestare anche gonfiore localizzato.
La patologia periapicale si presenta in radiografia come
una zona di lisi rotondeggiante localizzata intorno all’apice
della radice.
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si intende la rimozione di parte della polpa coronale ed il suo
successivo rivestimento con un materiale biocompatibile. Di
qui anche il termine di pulpotomia vitale, mentre per incappucciamento diretto della polpa si intende il semplice atto di
medicare la polpa che risulti accidentalmente esposta durante una procedura dentistica. Per incappucciamento indiretto
della polpa si intende invece la medicazione della polpa che
risulta però ancora protetta da un sottile strato di dentina.
Quando la pulpotomia vitale viene praticata su di un dente immaturo, il risultato che si vuole ottenere è lo sviluppo
normale della radice e la chiusura dell’apice. Questo processo fisiologico prende il nome di apexogenesi. Quando invece lo stesso scopo lo si vuole raggiungere su di un dente immaturo non vitale, la particolare procedura che bisogna eseguire prende il nome di apecificazione.
Infine, l’apicectomia è quella procedura chirurgica, detta
anche infatti terapia canalare chirurgica, che prevede la creazione di un accesso all’apice della radice attraverso l’osso alveolare, l’amputazione dell’apice, la rimozione del tessuto
periapicale patologico e lo riempimento canalare retrogrado
(dall’apice verso la corona).
Lesioni combinate endo-parodontali
Spesso lesioni endodontiche e lesioni parodontali coesistono nello stesso dente. In questo caso la polpa contenuta
all’interno di una o più radici è necrotica, mentre all’esterno
il legamento parodontale è distrutto, dal solco gengivale fino
all’apice (o allo sbocco di un canale accessorio).
Le lesioni combinate endo-parodontali predispongono
alle fratture patologiche, soprattutto se a carico dei denti della mandibola, in quanto privano progressivamente il dente
dell’osso alveolare di sostegno, e conseguentemente indeboliscono la struttura ossea nel suo insieme. Queste lesioni si
risolvono con l’estrazione del dente affetto, perché la terapia
conservativa presenta una prognosi riservata e tempi di attuazione molto lunghi.
La terapia endodontica
L’endodonzia è quella branca dell’odontostomatologia
che studia la fisiopatologia ed il trattamento delle affezioni
della polpa dentaria e dei tessuti periapicali.
Per terapia endodontica o canalare si intende l’insieme
dei trattamenti possibili in caso di esposizione della polpa e
di necrosi pulpare. Qualora non fosse possibile eseguire il
trattamento adeguato, l’estrazione del dente è obbligatoria.
La terapia o cura canalare convenzionale consiste nella
rimozione completa della polpa del dente attraverso un accesso praticato nella corona. Un altro termine che definisce
in maniera appropriata questo intervento è quello di pulpectomia totale, mentre per pulpectomia parziale, o pulpotomia,
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dea Bonello
Centro veterinario Torinese, Lungo Dora Colletta 147, Torino
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Decision-making nella cura delle patologie
del cavo orale: il confronto tra clinico
e patologo nell’interesse del paziente
Dea Bonello
Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino
Massimo Castagnaro
Med Vet, PhD, Dipl ECVP, Padova
“Imparare ad apprendere tramite lo studio dei problemi.
Acquisire le basi sulle quali costruire il ragionamento clinico che porta alla diagnosi ed al piano di trattamento”. Sono
questi gli obiettivi che ogni medico veterinario dovrebbe
perseguire nell’esercizio della propria professione, al servizio e nell’interesse del paziente, avvalendosi di tutti gli strumenti culturali e tecnici.
La cura delle patologie del cavo orale, per un suo corretto svolgimento, necessita non solo di una adeguata conoscenza delle singole tecniche chirurgiche, ma anche di una
sintesi tra conoscenze di anatomia topografica distrettuale,
eziopatogenesi delle più comuni patologie, impostazione di
una corretta diagnosi e di un adeguato piano di trattamento.
Il dialogo tra clinico e patologo è un momento importante del processo di apprendimento che accompagna l’analisi e
la soluzione dei problemi specifici clinico-pratici.
Esso comporta però la coscienza dei limiti intrinseci della conoscenza e la capacità critica.
Se si escludono quelle patologie del cavo orale che sono
di natura spiccatamente oncologica, un esempio significativo di quanto premesso è rappresentato dalla Gengivo-Stomatite Cronica Felina.
La gengivostomatite cronica (FCGS) è una delle patologie del cavo orale del gatto di più frequente riscontro. Nonostante diverse cause siano state via via citate dalla letteratura, dagli stati di immunodepressione ad infezioni virali e
batteriche, il meccanismo patogenetico di questa malattia rimane tuttora poco conosciuto. L’età media dei soggetti colpiti è di 7,5 anni, con un range ampissimo, e sembra non esista alcuna predisposizione verso la malattia legata al sesso o
alla razza dell’animale. Occasionalmente i gatti colpiti sono
anche FIV o FeLV positivi.
La diagnosi di FCGS è fondamentalmente clinica. I gatti affetti da FCGS presentano sintomi tipici quali alitosi, scialorrea,
difficoltà nella prensione del cibo e nella masticazione, disfagia,
anoressia nei casi più gravi e sempre perdita di peso.
Alla visita clinica si osservano lesioni eritematose, ulcerative e/o proliferative della gengiva, della mucosa vestibolare, delle labbra, del faringe ed occasionalmente della lingua. Solitamente è presente anche linfoadenopatia regionale,
malattia parodontale di vario grado con accumulo di placca
e tartaro sui denti, e lesioni odontoclastiche da riassorbimento (FORL).
Il protocollo diagnostico della FCGS prevede anche l’esecuzione della biopsia delle lesioni più significative da un
punto di vista clinico. La biopsia incisionale infatti, oltre che
nei casi in cui la diagnosi clinica presuntiva sia dubbia, è
particolarmente indicata in tutti i casi in cui la descrizione
istologica della lesione risulti fondamentale per indirizzare
la scelta terapeutica più idonea. Anche in letteratura infatti
viene spesso ribadita l’importanza della risposta infiammatoria ed immunitaria nella progressione della malattia.
Pur essendo il trattamento della FCGS sostanzialmente
chirurgico (estrazione di tutti i premolari ed i molari presenti, nonché di tutti quei denti per i quali la prognosi è sfavorevole), spesso si deve accompagnare ad una terapia medica
mirata alla completa eliminazione dell’infezione e/o infiammazione. In questi casi il protocollo terapeutico deve essere
sempre impostato sulla base delle informazioni fornite dal
referto istopatologico.
Queste devono essere di natura puramente descrittiva,
qualitativa e quantitativa, e la loro interpretazione rappresenta la chiave di lettura dell’eziologia, del meccanismo patogenetico e delle modalità di progressione della patologia.
In tutti i casi di FCGS osservati dagli Autori era presente
il classico, diffuso, intenso infiltrato linfo-plasmacellulare
(LPI). Le plasma cellule frequentemente esibivano corpi di
Russell nel loro citoplasma. In alcuni casi LPI era l’unica risposta infiammatoria presente. Tuttavia, in presenza di lesioni ulcerative, in associazione a LPI si reperivano anche un infiltrato neutrofilico da focale a diffuso, exocitosi ed una marcata spongiosi epiteliale. In molti campioni sono stati anche
osservati numerosi eosinofili sparsi e mastociti in grande numero. L’interessamento dell’osso alveolare, caratterizzato da
un infiltrato infiammatorio misto e da alterazioni litiche della struttura ossea, era presente nel 22% circa dei casi.
In una chiave di lettura che consideri esclusivamente le
varie tipologie cellulari presenti, i rilievi istopatologici descritti indicano che la FCGS è sempre associata ad una intensa, persistente stimolazione immunitaria. In associazione,
è frequente osservare ulcerazione dei tessuti con conseguente infiltrazione diffusa di neutrofili (lesione cronica attiva).
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La frequente presenza di eosinofili suggerisce invece la concomitanza di un fenomeno di ipersensibilità o di una reazione iperergica. Osservando invece la distribuzione stratigrafica delle varie componenti cellulari, è possibile distinguere le
forme superficiali da quelle profonde, ipotizzare l’origine
della risposta infiammatoria ed immunitaria e stimare il grado di aggressività della malattia.
In questa fase della gestione del caso clinico, a cavallo
tra la formulazione del piano di trattamento e l’emissione
della prognosi, il clinico deve obbligatoriamente fare un passo indietro e rivalutare in maniera critica il proprio pensiero
sulla base delle osservazioni fatte dal patologo. Idealmente il
confronto tra l’opinione del clinico e quella del patologo dovrebbe essere un momento di estrema sintesi deduttiva, prodromico alla miglior risoluzione possibile del caso clinico.
Qualsiasi divergenza deve essere appianata possibilmente
modificando il punto di vista del primo in favore del secondo, per il semplice motivo che questi ha una visione puramente oggettiva del caso.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dea Bonello
Centro Veterinario Torinese, Lungo Dora Colletta 147, Torino
Massimo Castagnaro
Dipartimento di Sanità Pubblica
Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria
Università degli Studi di Padova
Viale dell'Università, 16 - 35020 Legnaro (PD)
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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Differenti presentazioni citologiche
in corso di neoplasie epiteliali
Ugo Bonfanti
Med Vet, Milano
Le neoplasie epiteliali, che sono spesso caratterizzate dalla presenza di aggregati più o meno compatti di cellule in monostrato o tridimensionali, possono assumere aspetti architetturali differenti: disposizioni acinari, alveolari, papillari, trabecolari, “a palizzata” e cordoniformi. Inoltre, le cellule delle
neoplasie di origine epiteliale possono presentare caratteristiche citomorfologiche estremamente eterogenee. La suddivisione in neoplasia benigna o maligna si fonda, talvolta, su caratteri citomorfologici che non sempre consentono, però, una
classificazione sicura del tipo di processo patologico. Si riconoscono infatti, ad esempio, alcune neoplasie epiteliali maligne i cui caratteri citologici non sono assimilabili a quelli comunemente descritti nei carcinomi, nonché, carcinomi ben
differenziati talora difficilmente distinguibili da neoplasie epiteliali benigne o da fenomeni iperplastici.
Tra i caratteri citologici specifici delle neoplasie epiteliali
sono riportati l’esfoliazione di cellule in aggregati compatti,
l’adesione intercellulare mediante desmosomi, la forma tondeggiante o poligonale delle cellule, spesso con margini citoplasmatici ben distinguibili, la presenza di nuclei tondeggianti o ovalari. Occorre comunque ancora sottolineare come alcune eccezioni possano non infrequentemente essere presenti
e caratterizzare esse stesse la neoplasia epiteliale oggetto di
approfondimento. Si prendono di seguito in considerazione, a
titolo d’esempio, i caratteri citologici di alcune neoplasie epiteliali provenienti da organi e tessuti differenti.
NEOPLASIE EPITELIALI PRIMARIE
CUTE
Carcinoma squamocellulare: le cellule epiteliali neoplastiche che lo compongono, singole o in aggregati, sono caratterizzate da citoplasma cheratinizzato, talora contenente granuli
di cheratojalina, e nucleo presente, spesso con caratteri di atipia. Possono manifestare differenti gradi di differenziazione.
Neoplasia delle cellule basali: le cellule che la compongono
sono raccolte in aggregati fortemente coesi e sono spesso caratterizzate da disposizione architetturale “ a palizzata” o “cordoniforme”; sono caratterizzate da dimensioni ridotte ed
uniformi, elevato rapporto N-C e dall’assenza di caratteri di
evidente atipia citologica. Adenoma sebaceo: le cellule, caratterizzate da ampio citoplasma schiumoso e da piccolo nucleo
centrale, senza caratteri di atipia citologica, sono organizzate
in aggregati coesi e spesso tridimensionali. Neoplasia delle
ghiandole perianali: si caratterizza per la presenza di voluminosi aggregati di cellule epiteliali di medie dimensioni, di
aspetto simile agli epatociti, con nucleo tondeggiante spesso
nucleolato e citoplasma basofilo, finemente granulare. Adenocarcinoma delle ghiandole apocrine dei sacchi anali: le cellule che lo compongono, in aggregati a coesività lassa, sono
spesso raccolte in strutture microacinari, posseggono margini
citoplasmatici indistinti ed atipie citologiche di modesta entità.
APPARATO RESPIRATORIO - Polmone
Carcinomi ed adenocarcinomi bronchiali, bronchiolari e
bronchiolo-alveolari possono manifestare disposizioni citoarchitetturali differenti (solidi, papillari, acinari). Spesso si
rilevano aggregati di dimensioni differenti, e, raramente, cellule singole; pleomorfismo cellulare, nuclei tondeggianti con
irregolarità del contenuto cromatinico e nucleoli prominenti,
basofilia citoplasmatica e microvacuolizzazioni in sede perinucleare, rappresentano criteri citologici spesso presenti in
corso di neoplasie epiteliali maligne primarie polmonari.
Neoplasie epiteliali primarie polmonari e metastatiche possono comunque essere citologicamente indistinguibili.
Tabella 1
Criteri citologici comunemente impiegati per identificare cellule maligne di origine epiteliale
Ipercellularità
Aumentata esfoliazione per riduzione della adesività tra le cellule
Anisocitosi e Macrocitosi
Variabilità di dimensione tra le cellule; aumentate dimensioni cellulari
Pleomorfismo
Variabilità di forma e dimensione tra le cellule di uno stesso tipo
Anisocariosi e Macrocariosi
Variabilità di dimensione del nucleo; aumentate dimensioni nucleari
Variazione del rapporto N-C
Aumentato rapporto N-C suggerisce malignità
Nuclear molding
Deformazione nucleare causata da altri nuclei della stessa cellula epiteliale o di cellule epiteliali adiacenti
Irregolarità del contenuto cromatinico
Cromatina nucleare non omogeneamente distribuita, tendenzialmente grossolana
Anisonucleoliosi
Variabilità di forma e dimensione dei nucleoli della cellula epiteliale
Mitosi atipiche
Improprio allineamento dei cromosomi in corso di processo mitotico
52
CAVITÀ ADDOMINALE
INTESTINO: Carcinomi ed adenocarcinomi intestinali,
che possono manifestare disposizione citoarchitetturale “ a
palizzata”, manifestano spesso i comuni caratteri di atipia citologica delle neoplasie epiteliali: pleomorfismo, anisomacrocitosi, anisomacrocariosi, nucleoli prominenti, basofilia
citoplasmatica e vacuolizzazioni citoplasmatiche.
FEGATO: Adenoma epatocellulare:gli epatociti che lo
compongono manifestano lieve anisocitosi ed anisocariosi; citologicamente risulta indistinguibile dalle cellule che si possono rilevare in corso di iperplasia nodulare. Carcinoma epatocellulare: nelle forme ben differenziate caratteristica è la citoarchitettura trabecolare in cui si repertano aggregati spesso voluminosi e tridimensionali di epatociti privi di caratteri di atipia,
da cui si dipartono elementi cellulari che tendono ad unirsi ad
aggregati limitrofi; nelle forme meno differenziate, invece,
maggiori sono i caratteri di atipia citologica frequentemente riportati in corso di altre neoplasie epiteliali maligne: elevato rapporto N-C, irregolarità della membrana nucleare e nucleoli prominenti. Colangiocarcinoma: le neoplasie dei dotti biliari esfoliano cellule ad elevato e costante rapporto N-C, raccolte in aggregati compatti di dimensioni differenti con citoarchitetture “a
palizzata” ed acinari; rari sono i caratteri di atipia citologica.
RENE: Carcinoma renale tubulare: si caratterizza per
l’elevata cellularità, con aggregati in monostrato di cellule
lassamente coese, scarsamente pleomorfe, a margini spesso
indistinti e citoplasma variamente vacuolizzato; i nuclei sono tondeggianti o ovalari e la cromatina finemente punteggiata. Carcinoma squamocellulare: ha origine dall’epitelio
di transizione della pelvi e possiede i caratteri citologici comuni ai carcinomi squamocellulari.
VESCICA: Carcinoma transizionale: le cellule, spesso a
margini citoplasmatici ben distinti con reminiscenza dell’originaria citoarchitetture pavimentosa o mosaiciforme, manifestano moderato pleomorfismo cellulare e spesso gravi caratteri di malignità citologica nucleare; non infrequentemente
alcuni carcinomi transizionali manifestano caratteri di metaplasia squamosa e ghiandolare, quest’ultima sotto forma di
vacuoli intracitoplasmatici contenenti materiale intensamente eosinofilo e con disposizione citoarchitetturale acinare.
PROSTATA: Adenocarcinoma: le cellule neoplastiche,
spesso in aggregati tridimensionali, manifestano numerosi
caratteri di malignità citologica nucleo-citoplasmatica; frequentemente presenti vacuolizzazioni intracitoplasmatiche.
MAMMELLA
Adenocarcinoma: in corso di adenocarcinoma mammario le
cellule neoplastiche, oltre a mostrare spesso evidenti caratteri di
malignità citologica, possono manifestare citoarchitetture acinari, alveolari e papillari più o meno evidenti; in corso di carcinoma infiammatorio le cellule, spiccatamente pleomorfe ed atipiche, sono spesso singole o raccolte in piccoli aggregati.
SISTEMA ENDOCRINO
Carcinoma tiroideo: le cellule epiteliali a margini citoplasmatici indistinti presenti nei carcinomi tiroidei, spesso raccolte
in citoarchitetture acinari ed alveolari, manifestano scarsi caratteri di malignità citologica; talora presenti granuli scuri di tirosina, intracitoplasmatici, e materiale eosinofilo intercellulare rosa-
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to (colloide). Insulinoma: i campioni provenienti da neoplasie
endocrine pancreatiche sono caratterizzati da elevata cellularità,
numerosi nuclei nudi, e dalla presenza, nelle cellule intatte, di
numerosi piccoli vacuoli a margini netti; come nelle altre neoplasie di origine endocrina i caratteri di malignità citologica sono inconsistenti. Chemodectoma: i campioni provenienti da queste neoplasie neuroendocrine sono spesso costituiti da numerosi
nuclei nudi tondeggianti, contenenti, di solito, un singolo nucleolo prominente, con anisocariosi moderata, e tendenza alla
formazione di citoarchitetture acinari.
NEOPLASIE EPITELIALI METASTATICHE
Neoplasie epiteliali possono metastatizzare in numerosi
organi e tessuti; in particolare più frequentemente possono
essere coinvolti polmoni, fegato, rene, cute, linfonodi; poiché non è sempre facile differenziare citologicamente cellule derivanti da una carcinoma primario, da quelle derivanti
da una forma metastatica, in particolare per quanto riguarda
il polmone, la possibilità di esaminare le cellule provenienti
dall’eventuale neoplasia primaria e confrontarle con quelle
che si presuppone possano essere metastatiche, rappresenta
spesso la chiave diagnostica definitiva.
VERSAMENTI
Nel liquido contenuto nelle cavità corporee, formatosi a seguito di un processo neoplastico, si possono reperire cellule provenienti da tumori epiteliali; tali cellule spesso mantengono disposizioni architetturali e caratteristiche citologiche simili a quelle della neoplasia primaria. In particolare, ad esempio, in corso di
mesotelioma, le cui cellule appaiono morfologicamente come cellule epiteliali benché l’origine sia mesodermica, si rilevano spesso
cellule singole o in piccoli aggregati, spesso binucleate e giganti
multinucleate, talora con “finestre” intercellulari e rilevanti caratteri di atipia citologica. In corso di adenocarcinoma metastatico a
pleura o peritoneo, gli aggregati cellulari sono spesso di maggiori
dimensioni, ed il citoplasma abbondante, spesso microvacuolizzato. Infine, in corso di adenocarcinoma ovarico, dall’analisi del versamento si rilevano spesso voluminosi aggregati tridimensionali
con citoarchitetture papillari di cellule neoplastiche esfoliate dalla
neoplasia primaria o dalle metastasi da essa derivanti.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Ugo Bonfanti Clinica Veterinaria Gran Sasso
Via Donatello 26, 20131, Milano, Italy
Tel: +39-2-2665928. Fax: +39-2-2362048 - Email: [email protected]
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Stato dell’arte sulla terapia dell’insufficienza cardiaca
nel cane
Michele Borgarelli
Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Torino
L’insufficienza cardiaca (IC) rappresenta una condizione
fisiopatologica nella quale una anomalia della funzione cardiaca è responsabile della insufficienza del cuore a pompare
il sangue in quantità adeguata alle richieste metaboliche dei
tessuti, oppure ci riesce solo ad una pressione di riempimento elevata 1.
Negli anni 50 le conoscenze sull’IC e di conseguenza le
sue modalità di trattamento differivano poco da quelle del
19° secolo. Tali conoscenze consideravano l’IC come una
condizione di esaurimento della pompa cardiaca e il suo trattamento era principalmente volto ad alleviare la sintomatologia e ridurre l’eccessivo accumulo di acqua e di sodio cercando di mantenere o incrementare la funzione sistolica.
L’IC era quindi trattata con riposo a letto, con una dieta rigorosamente povera di sodio, con la somministrazione di digitale ai limiti della tossicità e di diuretici mercuriali (gli
unici allora disponibili) per via intramuscolare 2. Nel corso
degli ultimi 40-50 anni le conoscenze sui meccanismi fisiopatologici e sul trattamento dell’insufficienza cardiaca si sono accresciute continuamente. Il riconoscimento del ruolo
svolto dall’attivazione neuro-ormonale in corso di IC, ed in
particolare modo di quello svolto dal sistema renina angiotensina aldosterone (RASS) e dal sistema nervoso simpatico
ha stimolato una grande mole di studi sperimentali e trial clinici che hanno evidenziato come, sia nell’uomo, sia negli
animali, la modulazione di questi sistemi attraverso farmaci
quali gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) e i β-bloccanti consenta di migliorare la
qualità della vita e i tempi di sopravvivenza dei pazienti con
IC 3,4,5,6,7,8. D’altro canto altri studi hanno evidenziato come
farmaci considerati essenziali in passato per il trattamento
dell’IC, come gli inotropo positivi (es. digitale), in realtà
possano essere farmaci pericolosi e dannosi se utilizzati nelle terapie a lungo termine 9.
Più recentemente, alcuni studi hanno evidenziato l’importanza, nella patogenesi dell’insufficienza cardiaca, di numerosi mediatori chimici dell’infiammazione (Teoria delle
citochine), descrivendo una vera e propria sindrome che si
manifesta con uno squilibrio fra l’azione delle citochine proinfiammatorie (α-TNF, IL-1, IL-6, ecc.) e delle citochine antiinfiammatorie (IL-10, ecc.) 10. Questi studi hanno evidenziato come nei pazienti affetti da IC i livelli circolanti e tissutali di citochine pro-infiammatorie risultino cronicamente
elevati ed in quantità proporzionale alla gravità della sintomatologia e, come questi innalzamenti siano determinati
dall’attivazione del RAAS. Sotto questo aspetto appare logico pensare che l’utilizzo di farmaci ACE-inibitori (ACE-i)
possa portare ad una ridotta sintesi di queste citochine proinfiammatorie e che quindi i loro effetti positivi nei pazienti
affetti da IC siano da ricercarsi anche in questa loro azione.
Di recente scoperta è anche l’azione antiinfiammatoria
svolta dagli inibitori della fosfodiesterasi III ed in particolare dal pimobendan 11. Studi in vivo hanno infatti dimostrato
che questa molecola diminuisce le lesioni infiammatorie (infiltrati cellulari e necrosi del miocardio) e diminuisce la produzione intracardiaca di IL-1β, IL-6, α-TNF e ossido nitrico
(NO). Secondo i lavori effettuati, il pimobendan può essere
utile nella terapia dell’insufficienza cardiaca soprattutto per
gli effetti di inibizione dei livelli tissutali e plasmatici delle
citochine pro-infiammatorie, che contribuiscono in modo significativo alla progressione dell’IC. Altri studi hanno infine
dimostrato che la somministrazione a lungo termine di pimobendan determina una diminuzione dei livelli plasmatici
di noradrenalina e del peptide natriuretico atriale (ANP).
Deve comunque essere ricordato che, al momento attuale, le
esperienze cliniche del trattamento dell’IC con pimobendan
nel cane sono limitate e, a causa dei suoi potenziali effetti
proaritmici, questo farmaco deve ancora essere testato in studi con una più ampia casistica 12.
Sebbene le conoscenze concernenti i meccanismi fisiopatologici e le modalità di trattamento dell’IC siano progredite in modo significativo negli ultimi 20 anni, questa condizione continua a rappresentare una delle principali cause di
morbidità e di morte sia nell’uomo sia negli animali da compagnia, in particolare nei soggetti anziani. Tuttavia, la disponibilità di nuovi farmaci nonché le aumentate conoscenze
dei loro effetti sulla regolazione neuro-ormonale consentono
oggi di trattare pazienti con IC grave in modo tale da ridurre la sintomatologia garantendo una adeguata qualità di vita
e nell’uomo di prolungare anche le aspettative di vita. Nel
cane invece esistono dati ancora contrastanti concernenti la
spettanza di vita dei pazienti in terapia per IC. Sotto questo
punto di vista appare quindi fondamentale che in futuro si
consideri la possibilità di testare le terapie per il trattamento
dell’IC attraverso studi multicentrici che permettano di arruolare un numero elevato di pazienti.
Data la complessità dei meccanismi fisiopatologici attivati nel corso dell’insufficienza cardiaca la terapia dei pazienti affetti deve essere basata su una associazione di farmaci che permettano di ridurre l’eccessiva ritenzione idrica
e modulino l’attivazione neuro-ormonale. In base alle considerazioni sopraesposte la terapia dell’IC nel cane oggi dovrebbe essere basata sulla combinazione di un ACE inibitore, di uno o più diuretici, e nei pazienti in grado di tollerar-
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
lo, di un ‚-bloccante. Per quanto concerne il pimobendan esso rappresenta al momento un farmaco molto promettente
per il trattamento dei pazienti sintomatici, ma i dati della letteratura sono ancora scarsi per trarre conclusioni definitive
al riguardo.
Va ricordato comunque che l’ottimizzazione della terapia
dell’IC richiede da un lato che ogni paziente affetto sia considerato attentamente come singolo, e dall’altro una conoscenza approfondita dell’azione dei farmaci impiegati, nonché dei meccanismi alla base delle diverse patologie cardiovascolari.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Michele Borgarelli
Dipart. Di Patologia Animale
Via Leonardo da Vinci 44
10095 Grugliasco (To)
tel. 011 670 9082
fax 011 670 9083
e-mail: [email protected]
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L’integrazione dell’omeopatia nella pratica ambulatoriale
e ospedaliera per gli animali da compagnia
Andrea Brancalion
Med Vet, Treviso
Introduzione
L’approccio omeopatico al paziente comprende sia la pratica convenzionale (segnalamento, anamnesi, visita clinica,
esami eventuali, diagnosi e prognosi) che la pratica non-convenzionale (interrogatorio omeopatico e raccolta dei sintomi
modalizzati, repertorizzazione, diagnosi omeopatica, prognosi omeopatica e terapia secondo la Legge di Similitudine, Similia similibus).
Tale approccio, dunque, non solo non è riduttivo, ma addirittura aggiunge altri elementi, cosicché non si può parlare
di controindicazioni metodologiche ed anzi, le premesse invitano a considerare seriamente gli aspetti integrativi della medicina omeopatica (MO) nella struttura veterinaria.
In quest’ottica si ritiene utile tracciare delle linee guida per
l’integrazione della MO in ambito ambulatoriale ed ospedaliero, esaminando le varie possibilità applicative.
La MO nelle malattie croniche e
nelle malattie infettive a decorso cronico
Solitamente, è questo il campo che viene indicato, spesso
dall’utenza, ma purtroppo anche da alcuni medici, come “l’ultima spiaggia”, cioè “se non si può fare altro, proviamo con
l’omeopatia”. Va precisato che è concettualmente da rifiutare
tale significato passivo dell’intervento terapeutico omeopatico, dal momento che, una volta riconosciuta la patologia, non
sarà mai con lo spirito di chi “tenta” una terapia il modo coerente di affrontare il problema; questo dovrebbe ovviamente
essere chiaro al medico, ma dovrebbe essere reso comprensibile anche all’utente con un’opportuna informazione.
Nelle malattie croniche, comprese quelle multifattoriali, di
competenza non chirurgica, la MO ha il vantaggio di non aggravare ulteriormente i parenchimi eventualmente già coinvolti,
considerando inoltre che i farmaci allopatici possono solo controllare tali patologie da un punto di vista esclusivamente sintomatologico, o palliarle, ma non guarirle, come invece il rimedio
omeopatico corretto può riuscire qualche volta a fare.
La possibilità della cura effettiva di tali patologie, come dimostra un’esperienza clinica ormai decennale, è dovuta a due
principali fattori: il primo, soggettivo, riguarda la reversibilità o
meno delle lesioni in organi vitali del soggetto; il secondo, oggettivo, riguarda il medico, la sua preparazione, la sua capacità
e possibilità di indagine, non solo clinica ma anche omeopatica. Rispetto a quest’ultimo fattore potremmo affermare con decisione che non è mai la MO a fallire, ma il medico.
Alcuni esempi delle patologie croniche risolvibili con la
MO sono il diabete, la sindrome da malassorbimento, le febbri di origine sconosciuta, l’epilessia, ecc.1, 4
Nelle malattie infettive a decorso cronico, si sa come molti soggetti mal sopportino i protocolli terapeutici ufficiali, come avviene spesso a proposito della leishmaniosi del cane8,
ma anche nella miriade di casi clinici che colpiscono per la loro irregolarità e, quindi, per la loro peculiare caratteristica di
sfuggire ad un logico inquadramento in un modello di evoluzione patologica noto o già descritto.
Altri esempi sono le malattie virali del gatto FIV, FELV,
FIP2, 3, per le quali il suggerimento ufficiale è solo la possibilità di un sostegno farmacologico ed alimentare.
La MO come correttivo costituzionale
Dobbiamo qui considerare due diversi aspetti. Il primo riguarda le richieste specifiche da parte dell’utenza: oggi sempre più persone si affidano alla MO per le loro cure (si calcola che siano circa 9 milioni gli utenti della medicina non-convenzionale) e richiedono lo stesso trattamento per il loro pet.
In tali occasioni, se si tratta di una prima visita, che difficilmente dura meno di un’ora, è indicato il consulto per appuntamento, da intendersi come un vero e proprio intervento specialistico, allo scopo di ricercare il rimedio costituzionale del
paziente che, nel linguaggio omeopatico, viene comunemente
identificato come simillimum. Se invece si tratta di una visita
di controllo, molto più breve della prima, l’operatività può
rientrare nella normale routine ambulatoriale.
Il secondo aspetto riguarda i casi di difetto costituzionale
del paziente, quindi di risposte inattese ai protocolli terapeutici o profilattici standard, alle lacune lasciate dalla super-specializzazione, alla mancanza di una terapia specifica o all’impossibilità di attuarla nel caso sia conosciuta (per es. quando
l’utente non accetta i costi elevati di certe prestazioni). La MO
dovrebbe essere qui considerata come “arma” supplementare
a disposizione della struttura per risolvere situazioni che non
possono altrimenti trovare sbocco.
Dovremmo pensare a quei disturbi provocati, dalle vaccinazioni, alle quali non si vuole rinunciare, che possono essere
prevenuti con un opportuno trattamento con il rimedio omeopatico costituzionale del soggetto; oppure dalle intolleranze
alimentari, che a volte è troppo difficile e costoso indagare e
che quasi magicamente non si presentano più dopo aver agito
sul “terreno” predisposto; oppure dai farmaci, pur necessari,
ma mal tollerati o non tollerati affatto, che vengono “antido-
56
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
tati” meravigliosamente grazie al suggerimento costituito dagli stessi disturbi che hanno indotto nel paziente.
grave, viene concessa una dilatazione, spesso insperata, del
tempo a disposizione dei medici per superare le fasi critiche.
Il rapporto della MO con la chirurgia
e la medicina d’urgenza
Conclusioni
La chirurgia rappresenta un altro interessante aspetto circa
l’integrazione della MO nella struttura veterinaria.
Negli interventi di tipo ortopedico5, la riabilitazione postchirurgica può risultare estremamente più rapida; in particolare, risulta particolarmente efficace in quei casi in cui i tragitti
nervosi sono stati offesi dal trauma precedente l’intervento o
dall’intervento stesso e potremmo riferirci, per esempio, alla
paresi del nervo radiale, o a quella dello sciatico, o a quella totale del treno posteriore a seguito di trauma della colonna o di
ernia discale e conseguente laminectomia, o alla paresi degli
sfinteri a seguito di trauma o di intervento in regione paranale
o perineale. Molti e utilissimi rimedi abbiamo a disposizione
per queste condizioni post-traumatiche.
Ancora, abbiamo potuto constatare come si riesca ad agire
positivamente sulla canalizzazione ed il recupero della funzione alimentare dopo un intervento sul tratto gastro-intestinale e
sappiamo quanto importante sia risolvere precocemente questi
tipi di problemi, che altrimenti costringono al prolungamento
del ricovero del paziente e della relativa operatività.
Sorprendenti risultati si ottengono anche nel controllo della
coagulazione in un animale il cui profilo sia risultato alterato all’analisi pre-operatoria o che presenti problematiche nel postchirurgico: il sostegno del rimedio omeopatico corretto, a seconda della modalità dell’emorragia, se venosa o arteriosa, e della sua eziologia, quando le misure atte a garantire l’emostasi non
risultano sufficienti, a volte, equivale alla vita del paziente.
Molti esempi si potrebbero ancora citare, ma non si può
non sottolineare quanto vantaggio si possa ottenere con la MO
anche in campo anestesiologico, proprio per la rapidità d’azione che certi rimedi hanno nella rianimazione, molte volte
superiore a quella dei farmaci ufficiali, e nell’antidotare gli effetti indesiderati degli anestetici in soggetti ipersensibili.
Il problema di avere un antidoto per ogni farmaco impiegato è un ideale da sempre, soprattutto in campo anestesiologico ma, farmacologicamente parlando, può essere risolto solo parzialmente, mentre con la sinergia del rimedio indicato si
amplificano enormemente le possibilità.
Non ultima per importanza l’integrazione della MO in sede di medicina d’urgenza e pronto soccorso dove con i rimedi, a volte da soli, a volte in azione combinata a quella dei farmaci previsti dai protocolli ufficiali, si possono registrare successi rapidi ed inattesi.
Risulta difficile pensare di poter allestire in fretta una terapia omeopatica in queste situazioni eppure, paradossalmente,
per il medico preparato i sintomi del paziente in urgenza sono
spesso molto più chiari ed indicativi dei sintomi di un paziente
qualsiasi ed il rimedio salta all’occhio nei primi brevi istanti
dell’esame obiettivo. Se c’è un omeopata in pronto soccorso, la
somministrazione del rimedio omeopatico avviene quasi sempre prima di ogni altra operazione sul paziente, quasi immediatamente, ed i vantaggi, in caso di efficacia della terapia, non sono pochi: la stabilizzazione che si ottiene, se non ci sono lesioni importanti, spesso è duratura e definitiva, mentre se il caso è
Tutte le possibilità per le quali, a nostro avviso, la MO assume significato di specializzazione, sono in realtà già state
evidenziate in molti ospedali e cliniche per l’uomo fin dagli
albori dell’omeopatia, ma sono state dimenticate o accantonate, in parte, con l’affermarsi prepotente delle molecole di sintesi e con l’instaurarsi di una medicina che tende a parcellizzare sempre più il paziente.
Non è obbligatorio fare omeopatia ma, se si fa, occorre essere in grado di farla con scienza e coscienza ed il suo studio
è impegnativo e difficile, come lo studio di altre discipline cosiddette “ufficiali”. Anche per essa, come atto medico a tutti
gli effetti, non dovrebbero essere ammesse improvvisazioni
autodidattiche per ovvi motivi di correttezza professionale e
deontologica, mentre invece, grazie anche al disinteresse della maggior parte della Comunità Scientifica, rimane ancora
preda di superficialità e spoglia di quell’aura di dignità che a
nostro avviso merita.
Speriamo sia vicino il giorno in cui pronunciare la parola
“omeopatia” non ci faccia il più delle volte passare per medici estrosi ed un po’ sui generis o, peggio ancora, bersaglio di
equivoci servizi televisivi, ma ci identifichi come semplici ed
onesti professionisti.
La grande opportunità offerta oggi al veterinario omeopata è quella di confermare l’efficacia della MO in virtù della
maggiore libertà d’azione di cui ancora gode rispetto al medico in campo umano e fungere da traino per una medicina integrata più rispettosa di ogni essere vivente.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dott. Andrea Brancalion - Medico Veterinario
Via L. Sartorio, 3 - 31100 Treviso
Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica
“Dott. Rita Zanchi” - Cortona (AR)
Ospedale Veterinario “S. Francesco” - Castagnole (TV)
Direttore della Sezione Omeopatica
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57
Cure neonatali
Sandra Brau
Med Vet, Maisons-Alfort, Francia
Esistono numerose definizioni del periodo neonatale. Secondo gli studiosi del comportamento il periodo neonatale
corrisponde ai primi 15 giorni di vita (pressappoco fino all’apertura delle palpebre e delle orecchie). Per i fisiologi si
prolunga fino allo svezzamento. Questa definizione si basa
sulle caratteristiche di immaturità fisiologica del cucciolo
con meno di sei settimane.
Rispetto ad altre specie (puledro, vitello) il cucciolo alla
nascita presenta una immaturità fisiologica che lo rende particolarmente vulnerabile. Per immaturità si intende:
• immaturità epatica (incompetenza dei sistemi enzimatici
e gluconeogenesi ridotta)
• immaturità renale (filtrazione glomerulare e secrezione
tubulare ridotta)
• incompetenza immunologica
• immaturità della barriera cutanea
• immaturità cardiovascolare
La mortalità neonatale è piuttosto rilevante, sopratutto
negli allevamenti dove c’è un numero elevato di soggetti.
Nonostante il fatto che il momento con massimo rischio sia
quello delle 48 ore dopo il parto anche i primi 15 giorni rappresentano un periodo critico. Daltronde alcuni cuccioli con
difficoltà iniziali, debilitati, sono più soggetti alle infezioni
nel periodo dello svezzamento, che costituisce il secondo periodo critico.
Distinguiamo le cause principali di mortalità neonatale
in cause non infettive e cause infettive.
CAUSE NON INFETTIVE
1-Cause non infettive legate
all’immaturità del cucciolo
1-1 Ipossia
L’ipossia è legata al fatto che durante la vita fetale il polmone non è funzionale e gli scambi gassosi avvengono tramite la placenta. Prima del parto si instaura una ipossia causata dalle contrazioni uterine che determinano uno scollamento della placenta e durante il passaggio del cucciolo nel
canale del parto si ha uno schiacciamento del cordone ombelicale con conseguente apnea. Questo comporta una diminuizione del ph sanguigno, della tensione di ossigeno e
un aumento della CO2, che nell’insieme agiscono sul centro della respirazione stimolando il primo atto respiratorio.
In caso di espulsione prolungata (atonia uterina) o nel caso
in cui la cagna non apra gli invogli fetali il cucciolo inspira
liquidi con conseguente instaurarsi di uno stato di ipossia
che può portare a morte nel caso in cui non si intervenga
tempestivamente. Il trattamento consiste nella liberazione
delle vie respiratorie, nell’utilizzo dell’ossigeno ed eventualmente nell’uso di analettici respiratori.
1-2 Ipotermia
L’ipotermia è dovuta principalmente alla scarsità di tessuto adiposo, assenza di vasocostrizione periferica e alla superficie corporea troppo estesa rispetto al peso, il che determina una eccessiva dispersione di calore. L’ipotermia è limitata in caso di cucciolate numerose. La temperatura normale del cucciolo alla nascita è di 32°-33° C, aumenta fino
a 34°-35° C nelle ore successive. Temperature inferiori a 34°
C causano una diminuizione del riflesso di suzione con il rischio di false deglutizioni, rallentamento della funzionalità
digestiva con mancata eliminazione del meconio e stasi del
latte nello stomaco. Per evitare l’ipotemia occorre controllare la temperatura ambientale che deve essere di 30°-32° C
nelle prime 24 ore, 28° C la prima settimana, 26° C la seconda e 24°-25° C nelle settimane che seguono. Il trattamento di un cucciolo ipotermico consiste nel riscaldarlo gradualmente (1-3 ore) tramite borse d’acqua calda, lampada ir
o l’incubatrice.
1-3 Disidratazione
Il cucciolo neonato è molto sensibile alla disidratazione,
in quanto l’acqua costituisce l’80% del suo peso corporeo, lo
strato cheratinizzato dell’epidermide è quasi assente ed è
presente una immaturità renale. Infatti alla nascita il rene fetale deve subire ancora tre fasi di sviluppo prima di acquisire le caratteristiche di un rene adulto. L’urina è trasparente
come l’acqua (ps 1,006) poiché il rene non è in grado di
concentrarla. Una delle cause della disidratazione a parte
una patologia in corso è spesso l’uso di lampade infrarossi
da parte dell’allevatore ad una distanza ravvicinata. Al fine
di limitare la disidratazione occorre regolare l’umidità dell’ambiente che deve essere intorno al 55-65% ed è importante non superare questo valore in quanto si creerebbe un
ambiente favorevole alla moltiplicazione batterica.
1-4 Ipoglicemia
Sempre legata all’immaturità fisiologica il cucciolo va
spesso incontro a episodi di ipoglicemia. Questo è dovuto all’immaturità dei meccanismi di controllo della glicemia, dell’insufficiente gluconeogenesi epatica e delle basse riserve
in glicogeno. Il cervello del cucciolo ha elevate necessità di
58
glucosio perciò una ipoglicemia potrebbe causare dei danni
cerebrali non indifferenti. Tra le cause dell’ipoglicemia a
parte un digiuno prolungato c’è l’ipotermia in quanto il cucciolo utilizza le sue riserve energetiche per combattere il
freddo. Il substrato glucidico è all’inizio di origine epatica e
in seguito proviene dalla componente grassa del colostro
perciò la sua assunzione è fondamentale.
2-Legate alla madre
Certe cagne soprattutto le primipare non si occupano dei
loro cuccioli alla nascita. Non liberano il piccolo dalla placenta perciò il cucciolo muore di anossia. Altre se ne occupano fin troppo, infatti può succedere che al momento della
recisione del cordone provochino delle ernie ombelicali o
asportino l’integrità del cordone e addiritura la vescica (che
in periodo neonatale si trova nella regione ombelicale subito
sotto la parete addominale) portando a morte l’animale nei
primi giorni di vita. L’agalassia o ipogalassia è una causa di
mortalità neonatale se non si passa all’alimentazione artificiale e si ha soprattutto in seguito a un cesareo (frequente
nel bulldog).
La malnutrizione della cagna durante la gestazione può
dare la nascita di cuccioli più piccoli della norma che vanno
incontro a ritardi di crescita.
Traumi come lo schiacciamento, il leccamento in situazione di stress che hanno tendenza anche a spostare in continuazione i loro piccoli.
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1-2 Onfalite
È l’infiammazione del cordone ombelicale causata da
batteri che contaminano il cucciolo durante il taglio del cordone da parte della cagna se questa presenta del tartaro per
esempio, oppure provenienti dall’ambiente esterno facilitato
dal fatto che i cuccioli nei primi giorni di vita sono a stretto
contatto con il suolo.
Sia la sindrome del latte tossico che l’onfalite se non
trattate in tempi brevi possono dare origine a una setticemia
e morte dell’animale non dotato ancora di un sistema immunitario in grado di reagire adeguatamente.
2-Virali
L’incidenza delle malattie virali durante il periodo neonatale è molto limitata grazie alla protezione passiva materna
(nelle cagne correttamente vaccinate) perciò le malattie virali
si manifestano piuttosto dopo lo svezzamento che nei neonati.
2-1-Herpesvirus
L’herpesvirus presenta oltre a un tropismo genitale e respiratorio un alto potere patogeno per il cucciolo neonato per
la sua ipotermia in quanto si replica preferenzialmente a
temperature inferiori a 37°C dando mortalità nelle prime 48h
di vita.
Bibliografia
1.
3-Cause congenite
Alcune facilmente visibili come la palatoschisi, l’idrocefalia, l’imperforazione dell’ano, la sindrome del cucciolo
nuotatore… altre praticamente non identificabli nel neonato
e non tutte danno mortalità.
2.
3.
4.
5;
CAUSE INFETTIVE: BATTERICHE E VIRALI
1-Batteriche
1-2 “Syndrome del latte tossico”
In seguito a metriti o mastiti di origine batterica (E. Coli, streptococchi, stafilococchi) il cucciolo può andare incontro a una diarrea profusa, disidratazione, perdita di peso e
morte.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Sandra Brau
[email protected]
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Anestesia e idratazione nei cheloni?
Non più un problema
Leonardo Brunetti
Med Vet, Pistoia
Introduzione
In tanti anni di esperienza nella chirurgia dei cheloni ho
maturato in modo sempre maggiore l’esigenza di disporre di
un’anestesia sicura, efficace, ma soprattutto di facile somministrazione e, se necessario ripetibile, da usare anche per il
mantenimento in quelle specie, mi riferisco ai cheloni terrestri, per i quali la somministrazione di un anestetico gassoso
è complicata dalla vicinanza della biforcazione tracheale alla
laringe (il rischio è, infatti, quello di intubare un solo bronco;
è superfluo dire, inoltre, che la capacità di questi animali di
trattenere il respiro anche per ore rende totalmente inutile l’uso di una maschera). Per raggiungere tale scopo è necessario
un farmaco dalla breve durata e dalla rapida clearance, che
sopperisca il più possibile alla lentezza con cui i rettili metabolizzano tutti i farmaci, anestetici compresi.
Se, da un lato, il diffondersi dell’uso del propofol nella
pratica anestesiologica veterinaria ha messo a disposizione
anche dei veterinari di animali esotici un farmaco dalle notevoli potenzialità, in special modo per i rettili, dall’altro lato credo che tale potenzialità rischi spesso di rimanere inespressa per quell’unica limitazione legata al fatto che l’anestetico in questione deve necessariamente essere somministrato per via endovenosa, a volte in più dosi ripetute, ad effetto, limitazione presente paradossalmente soprattutto per i
rettili ed in particolar modo per i cheloni. Infatti la scarsa accessibilità delle vene in tali specie costringe spesso non solo
i colleghi inesperti a ripiegare sulla “vecchia” ketamina per
via intramuscolare, oppure ad eseguire un’anestesia incompleta con il solo bolo di propofol somministrato in vena grazie ad un colpo di fortuna purtroppo non ripetibile.
Senza avere la pretesa di giudicare tutta la letteratura sull’argomento, devo affermare che almeno nei testi principali
di medicina e chirurgia dei cheloni la via intraossea, quando
considerata, è stata sempre relegata agli ultimi posti fra le
possibili scelte di somministrazione di farmaci, classicamente rappresentate dalle vene giugulari, dal plesso ascellare e cervicale e dalla vena caudale dorsale.
Nell’ambito della scelta di usare la via intraossea, consigliata dai maggiori autori principalmente per l’infusione
continua di fluidi, la sede d’elezione raccomandata è sempre
stata il canale midollare della tibia o del femore, in analogia
con i sauri.
È intuitivo come tale indicazione per la fluidoterapia risieda nella stabilità del catetere, che può essere tenuto in sede anche per qualche giorno, ma presuppone che l’animale
sia fortemente debilitato o già sedato/anestetizzato perché si
riesca ad accedere agevolmente al canale midollare della ti-
bia o del femore; va inoltre aggiunto che per dimensioni,
spessore della cute, del canale midollare e della corticale
dell’osso, esiste grandissima differenza fra l’arto posteriore
di un sauro e quello di un chelone.
Se però pensiamo alla corazza come a qualcosa di vivo,
quale è immediatamente sotto lo strato corneo, non è difficile
renderci conto che abbiamo a disposizione una valida e più
semplice alternativa al piantare un ago spinale nell’osso di un
arto obbligandolo a condividerne necessariamente tutti i movimenti, le pressioni e le trazioni: l’alternativa è rappresentata dal
tessuto osseo sottostante lo strato corneo della corazza.
In questo lavoro cercherò di esporre nel modo più chiaro
possibile come sia semplice e rapido, con un minimo di attrezzatura, accedere al comparto venoso di un chelone attraverso tale via.
Richiami di anatomia e istologia
La corazza, caratteristica distintiva di tutti i cheloni, si
compone di una parte dorsale, il carapace, ed una ventrale,
il piastrone. La porzione che collega le due parti prende il
nome di ponte. Ciascuna parte, in sezione, deriva dalla sovrapposizione di due strati: uno più esterno di natura cornea
e uno interno, osseo, frutto della modificazione delle vertebre, delle coste, del cinto scapolare e pelvico, nonché della
deposizione di matrice ossea da parte degli osteodermi, cellule derivate dal tessuto dermico.
La corazza ossea è suddivisa in placche ossee unite fra
loro dalle suture, mentre le placche che compongono lo
strato corneo si chiamano scuti o scudi sono anch’essi uniti da suture mai sovrapposte tuttavia a quelle delle placche
ossee sottostanti.
Gli scuti hanno varia forma e disposizione secondo la sede. Nella specie Testudo distinguiamo:
nel carapace:
- s. vertebrali o centrali (5)
- s. costali o laterali (4 paia)
- s. marginali (numero variabile)
- s. nucale
- s. sopracaudali (2)
nel piastrone:
- s. gulari (2)
- s. omerali (2)
- s. pettorali (2)
- s. addominali (2)
- s. femorali (2)
- s. anali (2)
60
Cenni sul propofol
È un derivato fenolico commercializzato in un’emulsione acquosa al 1%, di colore bianco latte, composta da 2,6 diisopropilfenolo (10 mg/ml), olio di soia (100 mg/ml), lecitina di soia (12 mg/ml), glicerolo (2,5 mg/ml) e idrossido di
sodio come tampone.
Peculiari caratteristiche dell’anestesia con P. sono, come
noto, la rapida insorgenza, la breve durata ed il rapido e
dolce risveglio del paziente.
È attualmente considerato il farmaco d’elezione per l’induzione dell’anestesia nei rettili, con i limiti cui si è già accennato precedentemente. Molti autori consigliano la ventilazione intermittente a pressione positiva (IPPV) previa introduzione di un tubo endotracheale subito dopo l’induzione, ed il mantenimento con isofluorano.
La metodica di somministrazione da noi sperimentata lo
propone come farmaco utilizzabile anche per il mantenimento dell’anestesia nei cheloni.
Anestesia nei rettili: generalità
Indipendentemente dal protocollo scelto, anche per l’anestesia di questi animali esistono ovviamente delle regole che
andranno osservate sempre e che qui di seguito ricorderemo:
1. Prevenire, per quanto possibile, e trattare l’ipotermia prima, durante e dopo l’intervento (nei cheloni anche per le
24 ore successive), riscaldando in primo luogo l’ambiente dove si opera, immergendo il paziente in una vasca con
qualche cm di acqua tiepida prima dell’intervento (procedura utile anche per correggere lievi stati di disidratazione) e quindi la superficie dove esso sarà collocato con
tappetini riscaldati, che tuttavia non andranno mai posti
a contatto diretto con il corpo dell’animale.
2. Correggere l’eventuale disidratazione del soggetto e prevenire l’ipovolemia con cateteri intraossei (vedi oltre).
3. Provvedere al monitoraggio continuo dell’attività cardiaca, con ECG o doppler, della temperatura corporea
con sonde rettali e della respirazione.
Idratazione
Il fabbisogno giornaliero di fluidi in un rettile è stimato da
15 a 30 ml/kg/24 ore; possiamo somministrare, secondo Divers:
• Due parti di soluzione destrosio 2,5% e NaCl 0,45%, una
parte di RLS (soluzione ringer lattato) o soluzione elettrolitica equivalente; oppure
• Una parte di soluzione destrosio 5% e NaCl 0,9%, una parte RLS, una parte acqua per preparazioni iniettabili; oppure
• Nove parti NaCl 0,9%, una parte acqua per preparazioni
iniettabili; oppure
• Soluzione 0,18% NaCl e 4% glucosio.
Qualsiasi tipo di fluido si decida di infondere andrà somministrato ad una temperatura compresa fra i 25° ed i 35°C.
La velocità d’infusione e/v o i/o sarà compresa fra 0,8 e 1,2
ml/kg/h per la reidratazione, mentre in caso di shock, grave
disidratazione o durante la chirurgia può aumentare anche a
5 ml/kg/h per un massimo di tre ore.
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ANESTESIA E IDRATAZIONE
INTRAOSSEA NEI CHELONI
Materiali
1. Trapano elettrico o pneumatico con punta da 1 mm
2. Cannula metallica modificata con manico, mandrino ed
ostio a becco di clarino Ø 2 mm
3. Sol. fisiologica
4. Siringa 2,5-5 ml
5. Propofol
Tecnica
La procedura consiste nel praticare un piccolo foro d’invito in particolari punti del piastrone con il trapano, quindi
nell’introdurre la cannula metallica fino allo spazio midollare/spongiosa dell’osso posto sotto lo strato corneo per somministrare l’anestetico, non prima, ovviamente, di aver verificato il reale raggiungimento di tale comparto: la fuoriuscita di una goccia di sangue all’estrazione della punta di trapano ci potrà mettere sulla buona strada, che accerteremo
definitivamente posizionando il catetere, sfilando il mandrino e provando ad inoculare una piccola quantità di sol. fisiologica, cosa che dovrà avvenire con una modica resistenza della siringa e senza dispersione di liquido. Una resistenza eccessiva o totale indicherà che non abbiamo raggiunto
l’osso spongioso (e siamo quindi ancora nella corticale), oppure che il foro d’invito è ostruito (e in tal caso potremmo
provare ad aprirlo con un lavaggio); una resistenza minima o
nulla dovrà al contrario farci sospettare di aver raggiunto del
tessuto molle o una cavità del corpo, nel qual caso riproveremo in un altro punto e/o con una diversa angolazione.
Punto cruciale per l’intero procedimento è l’individuazione della sede di trapanazione nella corazza del soggetto:
osservando sezioni praticate su cadaveri congelati di Testudo
spp. possiamo facilmente renderci conto che lo spessore dello strato osseo nel piastrone è maggiore che nel carapace,
quindi la sede d’elezione sarà rappresentata da quei punti in
cui il piastrone è più spesso ed insieme più facilmente perforabile tangenzialmente con il minimo rischio di raggiungere
organi o vasi sovrastanti. Tale punto ho riscontrato essere situato a livello della porzione craniale delle placche gulari
del piastrone.
Nei cheloni acquatici, come ad esempio Trachemys spp.,
il concetto sopra esposto non è assoluto, ed è possibile che
s’incontri maggiore osso spongioso perforando tangenzialmente il ponte nella sua porzione più caudale, le placche femorali o quelle anali.
Il propofol può essere somministrato con relativa sicurezza in boli iniziali che vanno da 14 a 30 mg/kg, per ottenere una narcosi completa la cui durata può variare dai 10 ai
60 minuti.
Indirizzo per la corrispondenza:
Leonardo Brunetti, Clinica Veterinaria Brunetti-Stroscio
Via Bonellina, 236, 51100 Pistoia
Tel. e fax: 0573-382344 - E-mail: [email protected]
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Anestesia nel paziente pediatrico
Antonello Bufalari
Med Vet, PhD, Perugia
Enrico Bellezza, Med Vet, Perugia
–
Antonio Di Meo, Med Vet, Perugia
Introduzione
Per paziente neonatale si considerano animali fino a 4
settimane di vita, mentre per pediatrico si intendono animali fino a 12 settimane. Questi soggetti, oltre a presentare dimensioni ridotte, sono anche caratterizzati da immaturità
della maggior parte dei sistemi organici che ha un effetto significativo sulla capacità di mantenere una adeguata omeostasi nel periodo peri- e post-operatorio.
Differenze fisiologiche
Apparato cardiocircolatorio: Il muscolo cardiaco dei
pazienti pediatrici ha una minore massa cardiaca contrattile
ed una inferiore distensibilità ventricolare, pertanto il volume sistolico è fisso e si ha una inferiore riserva cardiaca.
Questo implica che la gittata cardiaca è in gran parte legata
alla frequenza cardiaca che, in corso di anestesia, dovrebbe
essere sempre mantenuta su livelli vicini a quelli normali.
Nel pediatrico, inoltre, la perdita di ridotte quantità di sangue (5-10 ml/kg), può provocare una significativa anemia
(Hosgood, 1998) dato che i livelli di emoglobina sono particolarmente bassi (8-9 gr/dl) (Tab. 1).
Apparato respiratorio: Il paziente pediatrico ha una richiesta di ossigeno 2-3 volte superiore a quella dell’adulto
con frequenze respiratorie particolarmente elevate (Tab. 1).
La risposta all’ipossia appare ridotta, ciò denota una attenuata sensibilità dei chemorecettori periferici. Gli alveoli sono ancora di piccole dimensioni e hanno una minore capa-
Tabella 1
Principali parametri del paziente pediatrico
(Seymour C., Gleed R, 1999)
Parametri
Temperatura °C
Valori Normali
35,4-36
Frequenza cardiaca (battiti/minuto)
Oltre 200
Frequenza respiratoria (atti/minuto)
20-35
Pressione sanguigna (mmHg):
Sistolica
Diastolica
Media
70
45
60
–
Flavia Attili, Med Vet, Avezzano (AQ)
cità funzionale residua (FRC) e una ridotta distensibilità che
si associa ad una parete toracica maggiormente estensibile
(Hosgood, 1998).
Sistema epato-renale: I sistemi enzimatici epatici sono
funzionalmente immaturi alla nascita e rimangono inadeguati nelle prime 4 settimane mentre la piena funzionalità si
raggiunge solo verso le 5-8 settimane (Hosgood, 1998). Anche la funzionalità renale è incompleta prima della terza settimana, e le capacità di concentrazione e diluizione sono inferiori a quelle dell’adulto (Poffenbarger, 1990). Infatti, l’escrezione renale dei farmaci, è alterata, dal momento che la
capacità di filtrazione glomerulare è completamente matura
solo tra la II e la III settimana, mentre quella di secrezione
tubulare tra la IV e l’VIII.
Sistema metabolico: Rispetto agli adulti, i pediatrici
hanno una minore riserva d’acqua intracellulare, un maggior
rapporto tra superficie e peso corporeo, un’energia relativa
ed un fabbisogno di liquidi superiore. La più ampia superficie corporea comporta una maggiore perdita di calore per irradiazione ed evaporazione, richiedendo una più intensa produzione di calore ed un superiore consumo d’acqua rispetto.
Ne consegue un maggior fabbisogno di liquidi rispetto all’adulto e non bisogna privarli d’acqua per tempi superiori ad
un’ora prima dell’intervento, né di alimento.
Sistema termoregolatore: I soggetti pediatrici sono particolarmente sensibili alle condizioni di ipotermia a causa
dell’immaturità del sistema termoregolatore, della minor capacità di tremare e dell’esiguità del grasso sottocutaneo (Hosgood, 1998). L’ipotermia è causa di bradicardia la quale riduce la gittata cardiaca, induce ipotensione e prolungamento del risveglio per rallentata eliminazione dell’anestetico
(Hosgood, 1998).
Considerazioni preoperatorie
La visita preanestetica riveste un ruolo primario per un
corretto approccio all’anestesia del paziente pediatrico. È
quindi importante sapere che i valori normali dei principali
parametri nei giovani sono sensibilmente differenti da quelli degli adulti (Tab. 1).
Premedicazione
In molti casi, la premedicazione con agenti sedativi in
animali con meno di 12 settimane può non essere necessaria.
62
Per motivi di spazio nella stesura dei proceedings questa
parte sarà trattata più ampiamente in sede di presentazione.
Anticolinergici: La preponderanza del sistema nervoso
parasimpatico, predispone i pazienti pediatrici alla bradicardia e dato che la gittata cardiaca è dipendente dalla frequenza cardiaca, la somministrazione di un anticolinergico (atropina 0,02-0,04 mg/kg, IM, EV) è sempre raccomandata
quando sono usati agenti anestetici (Hosgood, 1998).
Tranquillanti/sedativi: Le benzodiazepine (diazepam
0,2-0,4 mg /kg EV; e midazolam 0,1-0,2 mg/kg, IM, EV),
sono i sedativi di scelta nel pediatrico in quanto producono
un buon rilassamento muscolare con minima depressione del
sistema cardiovascolare.
L’acepromazina, anche a basse dosi (30-50 µg/kg, IM)
può causare una depressione pronunciata e prolungata del sistema nervoso centrale nei giovani che presentano una funzione epatica immatura. Essendo un ottimo vasodilatatore
periferico, causa ipotensione e potenzia l’ipotermia peri- e
post-operatoria.
Sedativi/analgesici: Gli α2-adrenocettori agonisti (medetomidina 3-10 µg/kg, IM, EV) garantiscono miorilassamento, analgesia e sedazione, ma causano depressione del
sistema cardiocircolatorio caratterizzata da bradicardia, riduzione della gettata sistolica e ipotensione. Il concomitante
uso di un anticolinergico è quanto meno consigliato. Metabolizzati a livello epatico, non sono raccomandati in animali al di sotto delle 8 settimane (Hosgood, 1998).
Oppiacei: La bradicardia è un effetto collaterale possibile dopo somministrazione degli oppiacei. La buprenorfina
(10-15 µg/kg, IM) o il butorfanolo (0,2-0,4 mg/kg, IM, EV)
procurano moderata analgesia, buona sedazione e minima
depressione cardiopolmonare (Seymour, 2003). Quando sono usati gli oppiacei agonisti puri (morfina 0,1-0,2 mg/kg,
IM; fentanil, 2-4 µg/kg, IM, EV), che sono tra i più potenti
agenti analgesici oggi disponibili, è buona norma attuare un
attento monitoraggio della funzione respiratoria e intervenire con una ventilazione assistita/controllata qualora si verificasse una ridotta ventilazione alveolare.
Induzione
L’induzione con maschera è il metodo di scelta negli animali che hanno meno di 8 settimane o che pesano meno di
2-3 kg. L’induzione con un anestetico intravenoso, è da preferire per gli animali con sofferenza respiratoria (problemi
respiratori, ernia diaframmatica, etc.) o quando si voglia ottenere un rapido controllo delle vie aeree.
Anestetici iniettabili: Il tiopentone (4-6 mg/kg, EV) ha
un’azione ultrabreve, privo di azione analgesica, che deve essere impiegato solo per la fase d’induzione in soggetti in buone condizioni cliniche e, comunque, di età superiore alle 8 settimane per evitare che l’incompleta funzionalità epatica prolunghi la durata d’azione e ritardi il risveglio (Hosgood, 1998).
Il Propofol (2-4 mg/kg, EV) è un agente anestetico intravenoso a breve azione, che può essere usato per l’induzione
od il mantenimento dell’anestesia. La depressione respiratoria e l’ipotensione sono due dei maggiori effetti che si possono riscontrare dopo la sua somministrazione. La somministrazione lenta (30-40 sec) riduce il rischio di apnea.
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Ai dosaggi raccomandati, la ketamina (1-2 mg/kg EV; 510 mg/kg, IM) non compromette le funzioni cardiopolmonari. La durata degli effetti dipende, nel gatto, prevalentemente dalla capacità emuntoria renale e, nel cane, dalla degradazione epatica, pertanto la ketamina deve essere usata
con cautela al di sotto delle 6-8 settimane. Dosi addizionali
dovrebbero essere evitate, a causa dei fenomeni di accumulo che comportano ricoveri prolungati. Il riflesso laringeo è
solo parzialmente abolito durante l’anestesia dissociativa,
mentre può ancora verificarsi l’aspirazione di materiale rigurgitato, pertanto l’intubazione endotracheale è sempre
raccomandata (Hosgood, 1998).
Anestetici inalatori: L’induzione anestetica con agenti
inalatori ha molteplici vantaggi rispetto a quella iniettabile e
rimane la metodica da preferire nel paziente pediatrico. Alotano, isoflurano e sevoflurano sono gli agenti normalmente
impiegati a questo scopo. L’isofluorano è potenzialmente
meno ipotensivo dell’alotano e subisce solo un minimo metabolismo epatico. L’alotano più potente e meno irritante per
le vie aeree dell’isoflurano, può, però, favorire l’insorgenza
di aritmie cardiache ed ha una quota di metabolizzazione
maggiore. Il sevoflurano è al momento da considerarsi l’agente inalatorio di prima scelta in pediatria veterinaria.
Metodiche di intubazione
Quando possibile, tutti i pazienti pediatrici dovrebbero avere la possibilità di essere intubati per via orotracheale adottando queste accortezze: 1) impiegare tracheotubi trasparenti e
morbidi con cuffia a bassa resistenza e alto volume; 2) Il diametro del tracheotubo dovrebbe avere il maggior diametro possibile al fine di ridurre la resistenza respiratoria e la possibilità
di ostruzione da parte delle secrezioni; 3) i tessuti faringeo e laringeo sono alquanto delicati e particolari attenzioni devono
essere poste durante l’inserimento del tracheotubo. Un’intubazione difficile o traumatica può risultare in edema laringeo e
ostruzione postoperatoria delle vie aeree [(consigliabile l’uso
di metilprednisolone (20-30 mg/kg)]; 4) evitare l’impiego di
tracheotubi troppo lunghi (accorciarli) per non aumentare eccessivamente lo spazio morto strutturale e la quota di gas esalato rirespirato. Se l’intubazione orotracheale fosse impraticabile, l’anestesia inalatoria può essere attuata con maschere di
piccole dimensioni, trasparenti ed aderenti per minimizzare lo
spazio morto, consentire la visualizzazione delle mucose ed
evitare il diffondersi del gas nell’ambiente.
Scelta del circuito anestetico e metodiche
di ventilazione
Nei soggetti pediatrici di peso inferiore a 6-8 kg, i sistemi semiaperti (Magill C, Bain, T di Ayre modificato da Jackson-Rees, etc.) sono da preferire in ventilazione spontanea in
quanto consentono di ridurre la resistenza ed il lavoro respiratorio. Un flusso di ossigeno elevato (200-300 ml/kg/min)
evita la rirespirazione dei gas esausti. Questo alto flusso di
ossigeno, però, contribuisce in modo significativo all’ipotermia e alla perdita di vapore acqueo e quindi di fluidi corporei. La possibilità di riscaldare i tubi e il pallone respiratorio
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con materassini termici o borse d’acqua calda può contribuire a ridurre il grado di ipotermia. Per i pazienti che pesano
oltre i 9-10 kg può essere usato anche un sistema circolare di
tipo pediatrico con i tubi più corti e di diametro minore (1214 mm). Questi sistemi impiegano flussi di ossigeno con un
range compreso tra 30-80 ml/kg/min e riducono la perdita di
calore e vapore acqueo. La ventilazione controllata (manuale o meccanica) garantisce un’adeguata ventilazione e ossigenazione nei soggetti al di sotto delle 8-10 settimane. La
ventilazione controllata deve prevedere pressioni non inferiori a 12-15 cm H2O ma non superiori a 18-20 cm H2O.
Per motivi di spazio nella stesura degli Atti, le considerazioni sull’analgesia, il supporto perioperatorio, il
monitoraggio clinico e strumentale, nonché il risveglio,
saranno trattati in sede di presentazione.
63
Bibliogrfia
1.
2.
3.
4.
Grandy JL, Dunlop CI, (1991), Anesthesia of pups and kittens, JAVMA, 198: 1244-1249.
Hosgood G, Hoskins JD, (1998), Small animal paediatric medicine
and surgery, Butterworth-Heinemann, Oxford.
Poffenbarger EM, Olson PN, et al., (1990) Canine neonatology. Part
I. Physiologic differences between puppies and adults.” Comp Cont
Educ Practicing Veterinarian, 12: 1601-1609.
Seymour C, Gleed R, (2003), Anestesia e Analgesia. UTET, Torino.
Indirizzo per la corrispondenza:
Antonello Bufalari
Sezione di Clinica Chirurgica, Università di Perugia
Via S. Costanzo, 4 - 06126, Perugia
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Diagnostica per immagini
in corso di neoplasie cardiache nel cane
Claudio Bussadori
Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Med Chir, Milano
Sebbene le neoplasie cardiache non siano patologie di
frequente riscontro, è importante conoscerne le caratteristiche (localizzazione più frequente, aspetto ecografico, sede
delle possibili metastasi) ai fini prognostici ed, eventualmente, terapeutici (chemioterapia o terapia chirurgica).
Nell’uomo, si riscontrano più frequentemente tumori
cardiaci benigni (69-98,6%) rispetto a quelli maligni: il
mixoma rappresenta il 36,5-97% delle neoplasie cardiache.
Nel cane riscontriamo con maggiore frequenza: emangiosarcoma, chemodectoma, carcinoma ectopico della tiroide, mesotelioma pericardico. È stata osservata una predisposizione di razza nella maggior parte di tali neoplasie: ad
esempio il chemodectoma è più comunemente osservato in
soggetti di razze brachicefaliche, l’emangiosarcoma nel pastore tedesco, ecc.
L’impiego della diagnostica per immagine ha considerevolmente incrementato la possibilità di identificare e localizzare i tumori cardiaci. Il sospetto diagnostico può essere
indotto dal riscontro radiografico di una o più anomalie a carico della silhouette cardiaca, dei campi polmonari e/o dalla
posizione della trachea. Ad esempio, in caso di abbondante
versamento pericardico, l’ombra cardiaca appare arrotondata e ben delineata oppure la presenza di un tumore alla base
del cuore disloca dorsalmente la trachea prima della sua
biforcazione. Tuttavia, seppure di facile esecuzione e di
maggior diffusione, l’esame radiografico presenta numerose
limitazioni nella diagnosi di questo tipo di patologie e perciò, in presenza di dati anamnestici o di sintomi clinici riferibili a neoplasie cardiache, tale esame dovrebbe sempre essere integrato da altre indagini diagnostiche (in particolare
l’ecocardiografia e la risonanza magnetica) che consentono
la visualizzazione delle lesioni o delle masse a livello cardiaco, la valutazione delle arterie e delle vene e la presenza
di metastasi in altri organi. Quasi tutti i tumori possono essere identificati dall’ecocardiografia, particolarmente quelli
intracardiaci. Quando l’esame ecocardiografico non è in grado di valutare correttamente i limiti della massa cardiaca,
l’impiego dell’ecocardiografia transesofagea può fornire
preziose informazioni. Nell’uomo, è disponibile la risonan-
za magnetica sincronizzata con il ciclo cardiaco che consente lo studio dettagliato del torace e quindi anche di aree che
non potrebbero essere visualizzate mediante esame ecocardiografico.
La diagnostica per immagini è necessaria per la guida
chirurgica: la chirurgia cardiaca di questo tipo di tumori è
nata con l’introduzione dell’esame ecocardiografico.
In seguito all’individuazione di una lesione neoplastica
in sede cardiaca è sempre raccomandabile eseguire un accurato esame ecografico dell’addome per escludere la presenza di neoplasie primarie o di metastasi in altri organi (soprattutto se si prospetta la possibilità di intervenire chirurgicamente).
Bibliografia
Guarda F., Bussadori C., Scotti C. Sulla patologia dei tumori della base
del cuore. Atti del XLIV Congresso Nazionale SISVET – Stresa,
settembre 1990.
Guarda F., Bussadori C., Scotti C., Appino S., Amedeo S. Patologia dei
tumori della base del cuore (HBT) nel cane. Veterinaria: 1.1992
(31-48).
Domenech O., Bonfanti U. Lubas G. Del Piero F, Bussadori C. ECHOCARDIOGRAPHIC PHATOLOGIC AND IMMUNOHISTOCHEMICAL STUDIES ON CANINE CARDIAC TUMORS. Proc. 12th
ECVIM-CA/ESVIM CONGRESS MUNICH 2002 156.
Bussadori C., Biasi, Quintavalla C., Pradelli D. DIAGNOSTIC IMAGING
FOR THE IDENTIFICATION OF CARDIAC TUMOURS IN HUMANS AND DOGS, Proceedings 13th Ljudevit Jurak International
Symposium on Comparative Pathology, Zagreb 2002 in Acta Clinica
Croatica 155 vol 41 n°2 2002.
Pradelli D., Quintavalla C., Domenech O Bussadori C. TROMBO NEOPLASTICO A PROGRESSIONE ENDOLUMINALE DIRETTA
“VENA CAVA CAUDALE - ATRIO DESTRO” IN UN CANE CON
NEOPLASIA SURRENALICA. Atti SISVET, Volume LVI, 319-320,
Giardini Naxos, 26-28 Settembre 2002.
Indirizzo per la corrispondenza:
Claudio Maria Bussadori
e-mail [email protected]
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Trattamento chirurgico tradizionale e radiologia
interventistica del dotto arterioso persistente
Roberto Bussadori
Med Vet, Milano
Durante la vita fetale, il Dotto Arterioso di Botallo
(PDA), rappresenta la connessione attraverso la quale la
maggior parte del sangue venoso che giunge dall’arteria polmonare, passa direttamente in aorta bypassando il circolo
polmonare che presenta resistenze notevolmente più elevate.
In questa fase l’ossigenazione fetale avviene a livello di placenta. Al momento della nascita l’aumento della pressione
sistemica (dovuta al distacco della placenta) e la diminuzione delle resistenze polmonari in seguito ai primi atti respiratori e all’apertura del letto vascolare polmonare, determina
una perdita di funzione del Dotto di Botallo. In questa fase
infatti il sangue venoso proveniente dall’arteria polmonare
deve essere ossigenato dagli alveoli polmonari e non deviato direttamente in aorta. Nelle ore successive alla nascita
normalmente si assiste ad una vasocostrizione indotta dall’inibizione di prostaglandine locali a sua volta indotto dall’aumento della PO2 del sangue arterioso (chiusura funzionale). L’obliterazione anatomica avviene successivamente
grazie all’intervento di fenomeni di trombosi, proliferazione
intimale e fibrosi che determinano la trasformazione del dotto in legamento arterioso.
Alcuni fattori, per lo più di ordine genetico, sono alla base della mancata chiusura del dotto e del conseguente quadro patologico. Generalmente lo shunt avviene tra l’aorta e
l’arteria polmonare (shunt sinistro-destro) e la quota di sangue è direttamente proporzionale alle dimensioni del dotto
ed inversamente proporzionale alle resistenze polmonari. La
conseguenza principale dello shunt sinistro-destro è l’instaurarsi di un iperafflusso al circolo arterioso polmonare che induce a sua volta un sovraccarico diastolico dell’atrio e del
ventricolo di sinistra, determinandone l’ingrandimento. Col
progredire di forme lievi o nelle situazioni particolarmente
gravi (dotti di grandi dimensioni), la patologia può rendersi
evidente con segni di un’insufficienza cardiaca sinistra manifesta con dilatazione atriale e ventricolare sinistra, rigurgito mitralico, dovuto alla dilatazione dell’anello valvolare, ed
ipertensione venosa polmonare che può evolvere fino all’edema alveolare. La terapia medica ci consente il controllo,
entro certi limiti, del sovraccarico nel circolo polmonare e di
eventuali aritmie, ma è ormai di comune riscontro che l’unica terapia risolutiva consiste nella chiusura del dotto mediante intervento chirurgico.
Le tecniche chirurgiche prevedono una legatura classica,
invasiva, attraverso toracotomia e una tecnica mini-invasiva
percutanea che si basa sull’utilizzo della radiologia interventistica.
La legatura chirurgica classica viene effettuata con toracotomia a livello del IV spazio intercostale sinistro; dopo
aver retratto caudalmente il lobo polmonare craniale, si individuano l’aorta, l’arteria polmonare ed il nervo vago che viene isolato e retratto dorsalmente. Si inizia quindi la dissezione per via smussa della parte caudale del dotto con una
pinza passafili, partendo per poi passare a quella craniale.
Una volta isolato il dotto, il filo per la legatura (seta o nylon di grosso calibro) viene passato nel tunnel ricavato nei
tessuti adiacenti.
Eseguita la legatura completa del dotto, si riposiziona il
lobo polmonare craniale e si richiude la breccia operatoria
more solito.
La chiusura chirurgica sopra descritta è una tecnica sicura, che, se eseguita correttamente, permette l’obliterazione del dotto in un’unica seduta, ma è ovviamente invasiva. Attraverso la radiologia interventistica è invece possibile ottenere lo stesso risultato con un minore traumatismo sul paziente.
L’obliterazione del dotto è possibile in questo caso o attraverso embolizzazione tramite coil, che vengono rilasciati
in situ da un dispositivo inserito attraverso la arteria femorale, o tramite un dispositivo di Amplatzer.
La prima metodica permette la chiusura di dotti di diametro inferiore o uguale a 5 mm, mentre la seconda permette la chiusura di dotti di dimensioni maggiori, ma a costi più elevati.
Indirizzo per la corrispondenza:
Roberto Bussadori: [email protected]
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Trattamento della Leishmaniosi canina
Jordi Cairó Vilagran
Med Vet, Girona (SP)
Attualmente l’utilizzo dei farmaci classici, antimoniato
di N-metilglucamina ed alopurinolo, per il trattamento della leishmaniosis canina offre i migliori risultati clinici, aumentando il tempo di sopravvivenza e diminuendo la frequenza e l’intensità delle recidive. Questo aumento dell’efficacia terapeutica è dovuto ad una gestione clinica adeguata e dipende da:
Diagnosi precoce della malattia.
Più ampi protocolli di diagnosi differenziale delle malattie associate.
Politerapia: antimoniato di N-metilglucamina, alopurinolo, antibiotici, ramipril, omeprazol, solfato ferroso,
shampoo dermatologici.
Aumento del tempo e dell’intensità delle terapie mediche.
Maggiore collaborazione dei proprietari.
Aumento del numero di esami clinici e di laboratorio;
prima, durante e dopo la terapia.
Maggiore conoscenza della biologia dei flebotomi, come
dei focolai di alta prevalenza.
Utilizzo di metodi di lotta nei confronti del vettore.
Per instaurare una terapia efficace nei confronti della leishmaniosi canina, dobbiamo partire da una diagnosi di laboratorio univoca, basata su una delle tecniche seguenti:
Visualizzazione del parassita nella preparazione microscopica di aspirato di midollo osseo o linfonodale,
impressione dal derma, o aspirazioni ad ago sottile
dei noduli.
Biopsia di un tessuto organico valutata con tecniche inmunoistochimiche (inmunoperossidasa).
Visualizzazione del parassita nella citologia dei liquidi
organici (sinovia, toracico, addominale, seme,
L.C.R).
Coltura ed isolamento del parassita.
Quando non sia possibile basarsi sulle tecniche di laboratorio sopra citate la diagnosi consisterà nella valutazione
della presenza di sintomi clinici compatibili e nella la valutazione dei livelli di anticorpi di fronte a Leishmania infantum utilizzando tecniche di I.F.I o Elisa. Inoltre si verrà sempre eseguito proteinogramma prima di iniziare il trattamen-
to che verrà utilizzato successivamente come aiuto nel controllo dell’evoluzione post-trattamento, insieme alla scomparsa dei sintomi clinici. È difficile stabilire un solo protocollo terapeutico di fronte alla leishmaniosi canina per diversi motivi:
I cani sviluppano differenti tipi di risposta immunitaria di
fronte alla Leishmania infantum.
In forma sporadica, si verificano cure risolutive spontanee senza ricevere alcuna terapia medica.
Esistono variazioni razziali e familiari.
Ci sono differenze tra l’infezione naturale e quella sperimentale.
Si presenta con una certa frequenza associata ad altre
malattie.
La leishmaniosi canina si manifesta nelle varie fasi di
sviluppo e con sintomatologie cliniche diverse. Esistono differenti manifestazioni organiche. Qui esporremo il protocollo terapeutico in quattro di esse, ponendo speciale enfasi su
quelle che colpiscono il rene.
A - Leishmaniosis cutanea localizzata (L.C.L). Ulcera di
inoculazione.
B - Leishmaniosis generalizzata (L.G), senza complicanze organiche.
C - Leishmaniosis generalizzata con insufficienza organica moderata (Proteinuria).
D - Leishmaniosis generalizzata con insufficienza organica grave (Uremia).
I criteri che si utilizziamo al momento di stabilire il protocollo terapeutico si basano su una anamnesi dettagliata, in
funzione dell’esplorazione fisica, la sintomatologia clinica
ed i risultati di laboratorio delle urine, delle feci e del sangue
(ematologia, biochimica). Inoltre, è di grande importanza il
protocollo che si utilizza per realizzare la diagnosi delle malattie che si presentano associate alla leishmaniosi canina.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Jordi Cairó Vilagran, Hospital Veterinari Canis Girona
Avda. Lluis Pericot 17, 17002 Girona (Spain)
Tel. 0034972218668
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• Aggiornamenti sulle leucemie nel cane e nel gatto
• Il magico mondo dei leucociti
Marco Caldin
Med Vet, Padova
RELAZIONI NON PERVENUTE
È possibile scaricarle dal sito web: www.sanmarcovet.it
Indirizzo per la corrispondenza:
Marco Caldin - Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Via Sorio n. 114/c, 35141 Padova
tel 049 8561098 - fax 02 700518888
e-mail: [email protected]
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Citologia veterinaria: cosa c’è di nuovo?
Mario Caniatti
Med Vet, Dipl ECVP, Milano
La citologia diagnostica veterinaria è una disciplina relativamente giovane. Infatti i primi lavori di un certo significato, come del resto i primi testi di citologia diagnostica, datano la fine degli anni settanta. Solo negli ultimi dieci-quindici anni si è però assistito a un crescente interesse nei confronti di questa materia e ciò è testimoniato dal crescente numero di pubblicazioni sull’argomento sia sotto forma di articoli su riviste specializzate che sotto forma di testi atlante.
Non siamo ancora arrivati ad avere riviste veterinarie che si
occupino solo di citologia diagnostica, come invece accade
in medicina umana (es. Acta Cytologica, Diagnostic Cytopathology…), ma articoli inerenti temi citologici sono comunemente riportati da molte riviste veterinarie, soprattutto
quelle che abbiano un taglio clinico. Fra tutte spicca senz’altro “Veterinary Clinical Pathology” che negli ultimi anni è
quella che, fra tutte le riviste veterinarie, inserisce sempre in
ogni numero uno o più lavori di citodiagnostica, soprattutto
sotto forma di case report o short comunication. Non bisogna poi dimenticare le fonti di interesse citologico legate a
internet sotto forma di due diverse entità: “Pubmed” e i siti
in cui si parla di citologia diagnostica.
Pubmed è la più autorevole fonte di informazioni bibliografiche per chi cerca in rete articoli e abstract, mentre un
qualunque buon motore di ricerca (es. Google) ci permette di
trovare ogni giorno nuovi siti che si occupino di citopatologia diagnostica sia medica che veterinaria.
Interessante rilevare come, consultando Pubmed, si possa avere la prova di come negli ultimi anni il numero di articoli inerenti la citologia diagnostica veterinaria sia notevolmente aumentato.
È proprio dalla consultazione della bibliografia e dei siti
dedicati alla citologia diagnostica che si possono avere le
informazioni più recenti su tutto quanto di nuovo gravita attorno alla citologia diagnostica veterinaria. Quella che segue
sarà una carrellata di alcune delle più interessanti notizie disponibili negli ultimi 5 anni, ma con un po’ di tempo e pazienza è possibile trovarne numerose altre senza troppe difficoltà. Altre notizie che verranno date riguardano lavori su
quali ci stiamo dedicando in questi anni all’interno del servizio di Citologia Diagnostica della Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviare della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano.
1-Aspetto citologico di malattie fungine,
protozoarie, virali e batteriche poco comuni
È indubbio che la messe di articoli inerenti argomenti
citologici recentemente apparsi su varie riviste ha eviden-
ziato aspetti citologici riferiti a patologie infettive e infestive poco o niente descritte nel passato (es. coccidiosi epatica nei conigli, pseudomicetoma equino, tripanosomiasi
nel cane, criptosporidiosi nei serpenti, dracunculiasi nel cane ecc.). Non bisogna sottovalutare il fatto che i microrganismi sono assai meglio visibili nei campioni citologici rispetto a quelli istologici a causa della distensione del materiale dovuta alla fissazione all’aria, mentre la fissazione
in formalina utilizzata in istologia ottiene l’effetto opposto
di contrazione delle strutture.
2-Alcune note sulle colorazioni usate
in citologia
Benché storicamente le colorazioni usate in citologia
veterinaria siano state quelle di tipo Romanowsky (es.
May-Grünwald-Giemsa, Wright, Leishman ecc. nonché le
loro più comuni varianti commerciali tipo Hemacolor® o
Diff-Quik®), negli ultimi anni sono apparsi alcuni articoli
che fanno utilizzo anche di colorazioni più comunemente
usate in citologia umana (es. Papanicolaou, EmatossilinaEosina). Queste ultime colorazioni, benché richiedano una
fissazione con alcool o cytospray, possono anche essere
utilizzate su campioni citologici fissati all’aria purché
questi ultimi siano reidratati attraverso immersione in fisiologica entro 30 minuti dalla loro preparazione. Si può
attendere comunque fino a 24 ore, ma i risultati non sono
sempre soddisfacenti. I vantaggi della reidratazione risiedono in: possibilità di valutare meglio i dettagli nucleari a
causa della scarsa affinità dell’Ematossilina per l’eucromatina (utile per la diagnosi di alcune neoplasie). Con la
reidratazione non va sottovalutata neanche l’emolisi degli
eritrociti che permette di avere un fondo pulito del vetrino
senza che i globuli rossi oscurino strutture diagnostiche.
In compenso i campioni reidratati tendono a perdere una
certa quota delle cellule che si staccano dal vetrino. In
ogni caso si ricorda come Ematossilina-Eosina e Papanicolaou siano decisamente superiori alle colorazioni tipo
Romanowsky nel caso della valutazione di frammenti tessutali in quanto capaci di penetrare grossi ammassi di cellule (strisci spessi) e quindi di valutarne meglio le caratteristiche architetturali. L’indicazione ideale sarebbe quella
di usare sempre entrambi i tipi di colorazione. Colorare alcuni vetrini con colorazioni tipo Romanowsky assicura
una buona visualizzazione del citoplasma e della sostanza
intercellulare, mentre Ematossilina-Eosina o Papanicolaou
garantiscono una miglior definizione delle strutture e del
dettaglio nucleare.
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Un’interessante recente articolo di medicina umana su soggetti immunocompromessi, mette in luce la possibilità di valutare la presenza di Micobatteri che, in campioni citologici colorati con Papanicolaou, mostrano autofluorescenza quando ovviamente il preparato sia osservato in fluorescenza. Ciò aumenterebbe la specificità della diagnosi citologica di micobatteriosi.
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In sostanza lo studio indica una certa discrepanza tra il
significato delle frasi usate per la diagnosi citologica e suggerisce la necessità di introdurre una terminologia standardizzata.
Non solo, viene indicata l’importanza di definire ulteriori studi che determinino come i clinici interpretano queste
espressioni in termini di probabilità e quindi di impatto della diagnosi citologica sul destino del paziente.
3-La terminologia nei referti citologici
Un interessante studio dal titolo: “clinical pathology expression of probability in cytologic diagnosis” presentato lo
scorso settembre Da Christopher e Hotz al Congresso annuale della European Society of Veterinary Clinical Pathology (ESCVP), prende in considerazione l’uso che i patologi clinici fanno di termini descrittivi per indicare la probabilità di una diagnosi citologica. Lo studio è stato condotto
su 96 (su 195 contattati) citologi certificati ACVP (American College of Veterinary Pathology) e con esperienza variabile da 1 a 29 anni. Soltanto tre di questi davano diagnosi suffragate da un dato percentuale, mentre tutti gli altri
preferivano termini descrittivi per definire la probabilità
della diagnosi citologica. Diciotto erano i termini usati nel
complesso. Undici di questi termini erano usati spesso o
qualche volta, mentre 7 erano usati raramente o mai da parte di più del 50% degli aderenti all’indagine. Naturalmente,
data la numerosità dei termini usati, c’era anche un certo
grado di sovrapposizione tra le percentuali di probabilità assegnate a termini diversi fra loro. Due dati preliminari sono
interessanti: patologi di laboratori privati erano statisticamente più inclini a definire il campione “sospetto per” rispetto ai loro colleghi universitari. Le citopatologhe di sesso femminile sono più inclini a dare un risultato “diagnostico per” rispetto ai loro colleghi di sesso maschile.
Le espressioni per esprimere livelli di probabilità diagnostica dallo 0 al 100% erano in totale 68 delle quali 26 indicavano “probabilità 0”. In ogni caso un gruppo di 10 termini era preferito dalla maggior parte degli intervistati con
le seguenti probabilità diagnostiche:
100%- “diagnostico per”
95%- “decisamente compatibile con”, “fortemente suggestivo di”
75-95%- “compatibile con”, “probabile”
50-75%- “suggestivo di”
25-50%- “possibile”
5-25%- “non può essere escluso”
5%- “improbabile”
0-5%- “non evidenza di”
In ogni caso la cellularità e la qualità del campione erano i fattori più importanti che condizionavano la probabilità
citologica.
Un altro rilievo interessante è che gli intervistati con
maggiore esperienza (>10 anni) non ritenevano molto importanti per la diagnosi le “ulteriori informazioni diagnostiche sul paziente”.
4-Studi su serie di campioni citologici
per valutarne parametri di accuratezza
del test diagnostico
Benché numerosi siano gli articoli dedicati alla citologia diagnostica veterinaria, relativamente pochi sono ancora gli studi dedicati a serie di casi citologici, con relativo
controllo istologico, per definire gli indici di accuratezza
diagnostica. Un lavoro in preparazione da parte di varie
persone afferenti al nostro Dipartimento, con in testa il dottor Ghisleni, fa riferimento a 292 campioni citologici di
neoformazioni cutanee con relativo controllo istologico.
Quarantanove casi erano definiti inconclusivi (campione di
qualità insufficiente, di solito a causa di scarsa cellularità)
e quindi eliminati dalla casistica. Il concetto di cellularità è
molto importante in citologia e un controllo della cellularità del campione subito dopo il prelievo sarebbe determinante nell’abbassare la quota dei campioni definiti “inconclusivi”. Degli altri campioni, 176 erano definiti citologicamente come neoplastici. Di questi, 175 si rivelavano “veri positivi” (istologia positiva per neoplasia), mentre un caso risultava invece come “falso positivo” in un gatto con
una lesione cutanea infiammatoria diagnosticata citologicamente come una neoplasia di origine linfoide. Tra le forme neoplastiche, mastocitomi e emangiopericitomi sono
senz’altro le entità più comunemente e facilmente diagnosticabili con l’esame citologico. Sessantasette casi erano
classificati come negativi per neoplasia. Di questi 46 erano
in accordo con l’esame istologico (“veri negativi”), mentre
negli altri 21 l’istologia evidenziava una forma neoplastica
(“falsi negativi”). Sulla base di questi dati l’indagine ha
avuto una sensibilità del 89%, una specificità del 98%, un
valore predittivo dei risultati positivi del 99% e un valore
predittivo dei risultati negativi del 69%. Nel complesso si
osservava un’accuratezza di accordo fra diagnosi citologica e istologica pari al 91% (221/243 casi).
Indirizzo per la corrispondenza:
Dipartimento di Patologia Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria
Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviare
Università degli Studi di Milano
Via Celoria, 10 - 20133 Milano Tel. 02-50318114
Fax 02-50318106
[email protected]
70
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Diagnosi endoscopica e trattamento intraorale
della malocclusione dentale nel coniglio
e nei roditori da compagnia
Vittorio Capello
Med Vet, Milano
Summary
Besides other diagnostic procedures (clinical exam, radiology) oral endoscopy is a very important tool for the
diagnosis of dental diseases and other related oral lesions
in pet rabbits and pet herbivorous rodents. Moreover, it is
a very useful aid for intraoral treatment of malocclusion.
This article will describe the istruments necessary to
perform a thorough endoscopic examination; and normal
and pathologic patterns of oral cavity of per rabbits and
rodents. Main procedures for intraaoral treatment of malocclusion will be also described.
INTRODUZIONE
A fianco di altre procedure diagnostiche quali l’esame
clinico e l’esame radiografico eseguito in sedazione con
proiezioni multiple, l’esame endoscopico della cavità orale
rappresenta uno strumento diagnostico molto importante nei
confronti delle patologie dentali e di altre lesioni intraorali
caratteristiche del coniglio e di altre specie erbivore di roditori. La visione endoscopica fornisce inoltre un supporto
estremamente utile per il trattamento di queste patologie.
L’ispezione della cavità orale del coniglio e dei piccoli roditori prevede l’utilizzo di strumenti particolari per
queste specie.
Oltre all’apribocca e al divaricatore guanciale più comuni per il coniglio, sono disponibili un divaricatore
guanciale di piccole dimensioni utile per i roditori come la
cavia e il cincillà, e un apribocca particolare, denominato
“table top mouth gag”, costituito anche da una piattaforma
inclinabile per il posizionamento del paziente in decubito
sternale (Fig. 1).
Oltre che per il coniglio, questo strumento può essere
utilizzato anche nei roditori di taglia medio/grossa (cavia,
cincillà, cane della prateria).
Per quanto riguarda lo strumentario necessario alla riduzione coronale dei denti molariformi nel coniglio e nei
roditori caviomorfi, oltre che un micromotore specifico
per manualità dentistico con manipolo e frese accessorie,
può essere utilizzato con ottimi risultati anche un trapano
da hobbystica, con accessori particolari. I più importanti
sono costituiti da un manipolo di piccolo calibro e dal
controllo a pedale del motore del trapano. Quest’ultimo
rende possibile una migliore precisione sia non posizionamento della fresa che della regolazione della velocità di
rotazione.
STRUMENTARIO
Lo strumentario indispensabile per eseguire l’esame endoscopico nel coniglio e nei roditori è di due tipi: il primo
gruppo è rappresentato dall’attrezzatura endoscopica vera e
propria; il secondo dagli strumenti di tipo dentistico per l’ispezione della cavità orale del coniglio e dei roditori.
Nell’ambito dello strumentario endoscopico, l’utilizzo
della videocamera rappresenta un ausilio indispensabile
per l’esecuzione dell’esame. In questo modo, l’operatore
non è costretto ad osservare le immagini direttamente nel
mirino dell’endoscopio rigido, ma le immagini stesse possono essere visualizzate sul monitor, consentendo all’operatore manualità più agevoli, e di condividere la visione
delle immagini con altre persone. Collegando opportunamente un dispositivo di stampa o di registrazione (computer, stampante, videoregistratore o camcorder), le immagini endoscopiche possono essere conservate per la documentazione personale e per la refertazione.
FIGURA 1 - Coniglio nano in anestesia generale posizionato sul “table top
mouth gag”.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
71
PROTOCOLLO ANESTESIOLOGICO
La trattazione dei protocolli anestesiologici relativi al
coniglio e ai roditori esula dallo scopo di questo articolo.
Tuttavia, il protocollo utilizzato più frequentemente dall’autore nel coniglio prevede l’induzione mediante associazione di Ketamina (30 mg./kg.) e Medetomidina (100
µg./kg.) entrambe somministrate per via intramuscolare, e
di Butorfanolo al dosaggio di 0.3-0.5 mg./kg. per via sottocutanea. Il mantenimento viene ottenuto attraverso la somministrazione di miscela di Ossigeno e Isofluorano all’1%3% mediante mascherina.
Nei roditori caviomorfi il protocollo è analogo, fatta eccezione per i dosaggi di Ketamina e Medetomidina, rispettivamente di 20 mg./kg. e di 50-70 µg./kg.
QUADRI ENDOSCOPICI NORMALI
FIGURA 2 - Particolare dell’arcata dentale dei molariformi inferiori di sinistra nel coniglio.
Tra le particolarità anatomiche degne di nota relative ai
denti molariformi dei roditori caviomorfi (cavia, cincillà, degu), ricordiamo che la cavia presenta l’inclinazione mediale
delle arcate dentali inferiori, e laterale di quelle superiori. Il
piano occlusale è quindi normalmente inclinato in senso latero-mediale e supero-inferiore.
Il cincillà e il degu presentano invece una superficie occlusale quasi orizzontale. Quest’ultima specie (Octodon degus), deve il suo nome al caratteristico aspetto della superficie
occlusale dei denti molariformi, (a forma appunto di “8”).
L’esame endoscopico è utile anche nelle specie di roditori (criceto, ratto, scoiattoli, cane dellaprateria) che non
possiedono, come le specie caviomorfe, denti molariformi a
crescita continua, bensì denti molari di tipo brachiodonte,
cioè a crescita determinata. In particolare, nel criceto l’esame endoscopico è utile non solo per l’ispezione della cavità
orale, ma anche delle tasche guanciali, duplicature cutanee
poste lateralmente alla cavità orale stessa.
QUADRI ENDOSCOPICI PATOLOGICI
I denti molariformi del coniglio e dei roditori caviomorfi possono sviluppare anomalie di crescita e di direzione che vengono genericamente definiti come malocclusione dentale. Questa patologia può presentare diversi aspetti.
Nel coniglio, il più precoce è rappresentato da un allungamento delle corone e da una differenza di lunghezza fra
denti adiacenti che determinano a carico della superficie
occlusale un andamento “a saliscendi” (“wave mouth”) o
“a gradini” (“step mouth”).
La crescita eccessiva dei denti determina quindi un incurvamento dell’asse longitudinale del dente, con una direzione mediale per i denti molariformi inferiori e laterale per
quelli superiori. L’insufficiente consumo rende più acuto il
margine mediale dei denti inferiori, con la formazione di
punte o cuspidi dirette verso la lingua, che possono causare
anche lesioni alla lingua stessa (Fig. 3).
La malocclusione dentale della cavia presenta aspetti simili a quelli descritti per il coniglio, accentuati dalla naturale inclinazione mediale del piano occlusale inferiore.
FIGURA 3 - Cuspide a carico di un dente molariforme e relativa ulcera linguale.
FIGURA 4 - Fresatura dei denti molariformi nel coniglio.
72
Nel cincillà le irregolarità sono meno evidenti, e più frequentemente a carico dei premolari superioriLa diagnosi endoscopica prevede anche la valutazione di
altre lesioni a carico dei tessuti molli quali ulcere della mucosa buccale, gengivale o della lingua, e di processi infiammatori conseguneti ad infezioni periapicali.
TRATTAMENTO INTRAORALE
DELLA MALOCCLUSIONE DENTALE
Il trattamento intraorale della malocclusione dentale nel
coniglio e nei roditori caviomorfi prevede la riduzione delle
corone e delle cuspidi mediante fresatura (Fig. 4). In altri casi, in concomitanza con altre lesioni quali infezioni periapicali, può essere indicata l’estrazione del dente molariforme,
previa lussazione messsa in atto con il lussatore di Crossley
per i denti molari.
La visualizzazione fornita dall’endoscopia nell’esecuzione di queste manualità è estremamente utile.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
- consente una visione notevolmente ingrandita delle
strutture anatomiche intraorali sia normali che patologiche riducendo al minimo il rischio di omissioni diagnostiche, possibili soprattutto nel caso dei roditori;
- rende molto più agevole la visione in caso di manualità
terapeutiche intraorali.
L’’utilizzo di una videocamera accessoria consente all’operatore un’esecuzione più agevole; la possibilità di condividere la visione con altre persone; la possibilità di registrare immagini video e fotografiche sia per la documentazione
scientifica personale che per la dimostrazione al proprietario
agevolando al medesimo la comprensione di patologie in
certi casi piuttosto singolari.
Bibliografia
1.
2.
3.
CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI
4.
L’esecuzione dell’esame endoscopico della cavità orale
dei piccoli mammiferi erbivori (coniglio, roditori caviomorfi), e di altri piccoli roditori (miomorfi, sciuromorfi) riveste
una notevole importanza per i seguenti motivi:
- non richiede particolare abilità o specializzazione;
- consente l’ispezione completa e dettagliata della cavità
orale;
- è estremamente utile in caso di intubazione endotracheale (qualora essa sia considerata indispensabile);
Capello V.: “Dental diseases and surgical treatment in pet rodents”.
Exotic DVM 5.3: 32-37 (2003).
Murray M.J.: “Application of rigid endoscopy in small exotic mammals”. Exotic DVM 2.3: 13-18 (2000).
Taylor M.: “Endoscopy as an aid to the examination and treatment of
the oropharyngeal disease of small herbivorous mammals”. Sem.
Avian Exotic Pet Med. 8(3): 139-141 (1999).
Taylor M.: “Endoscopic techniques”. Sem. Avian Exotic Pet Med.
3(3): 126-132 (1994).
Indirizzo per la corrispondenza:
Vittorio Capello
Clinica Veterinaria, S. Siro, Milano
Clinica Veterinaria, Gran Sasso, Milano
Tel. 339/1003260
e-mail: [email protected]
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Benessere animale e dimensioni
della pet relationship
Maria Chiara Catalani
Med Vet, Senigallia (AN)
Introduzione
Nel 1979 sono state definite le “Cinque libertà” che garantiscono il benessere animale: 1) libertà dalla fame, sete e
malnutrizione; 2) disponibilità di un riparo appropriato e
confortevole; 3) prevenzione, diagnosi e rapido trattamento
delle lesioni e patologie; 4) libertà di attuare modelli comportamentali normali, 5) libertà dalla paura e dallo stress.
Nell’ambito della relazione uomo-animale d’affezione, il
benessere animale può essere notevolmente condizionato
dalla dimensione di relazione ovvero dalle attività che la caratterizzano e dal tipo di interazioni che hanno luogo. Poiché
i pet sono frutto della domesticazione dell’uomo, questo dovrà assumersi la responsabilità di fornire al compagno animale condizioni di vita adeguate alla sua specie.
Il medico veterinario – quale tramite tra uomo e animale
d’affezione – ha il compito di intervenire come consulente di
zooantropologia applicata valutando tutti i parametri di benessere e fornendo gli strumenti per equilibrare e/o indirizzare le dimensioni di relazione uomo-animale a garanzia del
benessere di quest’ultimo.
Per questa ragione, se nelle relazioni ordinarie il medico
veterinario è chiamato a limitare le possibili interazioni negative proprietario-animale, nella zooantropologia applicata
dovrà effettuare un’attenta programmazione ed analisi della
attività di pet-relationship.
Dimensioni di pet relationship:
caratteristiche e punti critici1-2
Con la dimensione di pet-relationship definiamo le
caratteristiche di una PR (attività di pet-relationship) e
della PO (relazione animale-proprietario) ed i processi
d’interazione-relazione che si attivano tra uomo e animale. La coppia zooantropologica, infatti, variando secondo la dimensione prevalente, può perdere valore in
situazioni di devianza, influenzando il profilo comportamentale del pet ed il suo benessere. Ogni relazione,
infatti, si costruisce su motivazioni differenti e su dimensioni che sono influenzate dal tipo di attività che
uomo e animale compiono insieme e dal il tipo di vita
che condividono. Perciò, definendo i punti critici di ciascuna dimensione, possiamo provvedere attraverso la
consulenza zooantropologica ad evitare che la PR o la
PO cadano in devianze dannose per entrambi i partner,
animale ed umano.
La dimensione ludica, fondata sul gioco tra pet e partner
umano, se da un lato procura divertimento, contagio emozionale, distrazione e rapporto simpatetico col pet, dall’altro
rischia di richiedere a questo un eccesso di arousal (attivazione emozionale), performances ad alti livelli, forte impegno cognitivo o può portare alla banalizzazione e infantilizzazione dell’animale, pericolose per il suo benessere. D’altro canto, la dimensione epistemica, costruita sulla “stimolazione alla conoscenza” che l’animale induce, può contribuire nell’uomo ad uscire dal sé e costruirsi una storia di condivisione; tuttavia, può richiedere al pet di sopportare morbosità e relazioni affilitive che non gli consentono un’espressione comportamentale adeguata. La dimensione affettiva, invece, pur essendo l’area dimensionale di maggiore
importanza giacché contribuisce all’autostima, alla sicurezza, alla condivisione e all’alleanza uomo-pet, può rischiare
di rendere la relazione morbosa, vicariante e poco stimolante e produrre iperprotettività sull’animale. La dimensione
edonica, d’altronde, prevede che la relazione sia stabilita
sulla base del piacere che lo stesso appeal dell’animale esercita sulla persona per la capacità di distrarre, stupire e ridurne l’ansia. Tuttavia, può richiedere al pet un eccessivo livello di arousal e indurre nel partner umano una difficoltà nel
distacco o portare ad una visione dell’animale quale “oggetto di piacere”. La dimensione sociale, infine, descrive una
relazione in grado di aprire l’uomo verso rapporti sociali in
cui il pet risulta essere un tramite ed un partner di attività.
Quest’ultima, però, può richiedere un’esperienza e competenza del pet-partner che, se inadeguate, provocano difficoltà nell’animale di comprendere le richieste del compagno
umano con uno stress da relazione pressoché costante.
Pet relationship ed interventi a favore
del benessere animale3-4
La relazione uomo-animale è distinta in due categorie:
A) pet-relationship (PR), strumento di lavoro della pet therapy e della zooantropologia didattica, in cui la relazione ha
luogo senza proprietà dell’animale; B) pet-ownership (PO)
ovvero la relazione animale-proprietario, nella quale si dovrebbe instaurare un equilibrio dimensionale.
Attraverso la consulenza zooantropologica, il medico veterinario è chiamato a valutare il rapporto tra le dimensioni
di relazione e i bisogni dell’animale, al fine di contribuire al
benessere del pet con interventi diversi a seconda dei casi,
valutando tutti i parametri utili a questo scopo (Tab. 1).
74
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Tabella 1
Parametri per il benessere
Valutazione parametri “spia”
Prevenzione e controllo
Condizione genetica
L’inbreeding e la selezione su criteri morfologici
causano patologie ereditarie per l’espressione di
caratteri recessivi che si discostano dalla naturale
selezione genetica
Alterazioni fisiche o
comportamentali ereditarie
Valutazione dei criteri di scelta dei riproduttori
in allevamento e della presenza di patologie ereditarie.
Prevenzione: consulenza e formazione degli allevatori,
esclusione dalla riproduzione dei soggetti portatori di
alterazioni genetiche
Stato di salute
• assenza di malattia
• fisiologia
• welfare animale (repertorio di standards minimi e
vincolanti rispetto ai bisogni fisiologici, ecologici
e comportamentali della specie)
• monitoraggio epidemiologico
• interventi di profilassi
• parametri metabolici
• EOG e valutazione delle grandi
funzioni organiche
• Valutazione degli indicatori di welfare
Valutazione medica del pet prima, durante e dopo
le attività di PR e della PO.
Valutazione dell’idoneità del soggetto animale per la
relazione richiesta
Aspetti fisiologici
• caratteristiche di dimensioni, sicurezza, igiene
e microclima dell’habitat offerto all’animale
• gestione dell’alimentazione e adeguamento allo
stato fisiologico (età, gravidanza, allattamento,
attività, etc.)
• Sintomi gastro-enterici, genito-urinari,
neurologici, dermatologici,
cardio-respiratori, endocrini
• Alterazione dei parametri emato-chimici
• EOG che includa i parametri comportamentali.
• Esame dei parametri metabolici
• Valutazione dell’ecologia ambientale offerta al pet
Aspetti comportamentali
• rispondenza ai fondamentali bisogni e alle
motivazioni di specie
• ginnastica funzionale adeguata
• sviluppo ontogenetico (relazioni parentali e
zooantropologiche, stimolazioni precoci,
educazione)
• metodo educativo applicato
• orizzonte motivazionale di specie,
grado di socialità, modalità comunicative
• Segni clinici di alterazioni
comportamentali ed inserimento
dei problemi comportamentali
nella valutazione delle d/d
• Segnali di stress
• Segnali di richiesta d’interruzione
dell’interazione da parte del pet
(calming signals, etc.)
• Consulenza pre-adottiva
• Puppy parties, puppy class, consulenza cuccioli-gattini
• Consulenza e terapia comportamentale
• Screening accurato dei parametri di benessere
• Intervento per l’equilibrio della PR, e il controllo
dimensionale
• Intervento sulle devianze di PR
Nelle attività di PR (zooantropologia applicata) è necessario verificare l’idoneità del pet in base allo stato dell’animale (età, salute, assenza di zone algiche, difficoltà
performative, sensibilità, sopportazione), alle attitudini
(specie, socievolezza, docilità, corretta ontogenesi, socializzazione, assenza di alterazioni comportamentali, collaboratività) e alle capacità (centripetazione, gestibilità,
comandi, concetti e conoscenze di base). Inoltre, è fondamentale monitorare periodicamente lo stato di salute, valutare le disposizioni (sicurezza, equilibrio, livello di
stress), la performatività (assenza di disturbi, di dolori,
buon livello di fitness). Infine, poiché nelle attività di
zooantropologia applicata si stabilisce un indirizzo dimensionale utile agli obiettivi del progetto, è necessario
assicurarsi preventivamente che questo sia perseguibile
nel rispetto dei parametri di benessere, che il soggetto
animale sia adeguato alla specifica dimensione sulla quale si lavorerà e che questo non sia sottoposto a tempi di
lavoro eccessivamente lunghi.
Nelle relazioni di PO, invece, è importante valutare
l’aspetto motivazionale del pet-owner, informarlo sulle
caratteristiche e necessità etologiche dell’animale, fare
prevenzione e diagnosi precoce delle patologie comportamentali e di eventuali devianze della relazione, verificando i requisiti di responsible pet-ownership. Inoltre, nella
PO per favorire l’equilibrio di relazione ed evitare derive
dannose è necessario fornire una consulenza al pet-owner
per esaminare le dimensioni di relazione prevalenti e implementare, attraverso attività specifiche, le dimensioni
carenti.
Conclusioni
Le dimensioni di pet relationship, influendo notevolmente
sul profilo comportamentale dell’animale, possono indurre in
questo situazioni di disagio e stress. Pertanto, è necessario che
le attività di pet-relationship si svolgano senza che le dimensioni attivate incidano negativamente sui parametri di benessere
dell’animale; diversamente, l’intervento nelle pet-ownership
mira ad equilibrare tutte le dimensioni di relazione attraverso
l’educazione del pet-owner, affinché sia raggiunto un rapporto
corretto e positivo per entrambi. Concludendo, in tutte le forme
di pet-relationship e pet-ownership è fondamentale verificare,
attraverso la consulenza zooantropologica veterinaria, quali siano le dimensioni di pet-relationship attive e che il profilo comportamentale dell’animale, così come il suo stato fisiologico-sanitario, non risentano in alcun modo della relazione.
Bibliografia
1.
2.
3.
4.
Marchesini R., Catalani M.C., Battaglia L., (2003), Atti del Convegno
“Pet-therapy, il valore della relazione con l’animale”, Ed. dalla Provincia di Reggio Emilia.
Marchesini R., Andersen K., (2003), Animal Appeal, Ed. Hibris, Bologna, 33-48, 79-105.
Marchesini R., (2001), Bioetica e scienze veterinarie, Ed. Scientifiche
Italiane, Roma, 63-96.
Carlson N.R., (2002), Fisiologia del comportamento, Ed. It. a cura di
Petrosini L., De Gennaro L., Guariglia C., Ed. Piccin, Padova, 595603, 608-621.
Indirizzo per la corrispondenza: Dott.ssa Maria Chiara Catalani
Strada del Giardino - S.Angelo 164, 60019 Senigallia (AN)
E-mail: [email protected]
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75
Ipercalcemia nel gatto
Dennis J. Chew
DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA
Patricia A. Schenck, DVM, PhD, East Lansing, Michigan, USA
Introduzione
Il calcio totale (tCa) comprende quello ionizzato (iCa),
quello complessato e quello legato alle proteine. Nel gatto, i
valori sierici di tCa ed iCa sono più bassi che nel cane. Nella maggior parte dei laboratori, viene documentata un’ipercalcemia quando i livelli sierici di tCa sono > 11,0 mg/dl ed
iCa è superiore a 5,5 mg/dl nel gatto. Nei felini, rispetto al
cane, l’ipercalcemia è stata tradizionalmente considerata poco comune, ma questa convinzione è stata mutata dall’aumento del riconoscimento dell’ipercalcemia idiopatica e di
quella associata ad insufficienza renale nel gatto.
Negli animali clinicamente normali, l’iCa sierico è tipicamente proporzionale al livello sierico di tCa (iCa = 5060% di tCa). Negli animali malati, l’iCa sierico NON è proporzionale al tCa e non può essere previsto sulla base del valore di quest’ultimo. In uno studio condotto su 434 gatti, il
valore del calcio totale non è stato in grado di prevedere accuratamente la concentrazione di quello ionizzato nel 40%
dei casi. In tutti i gatti, utilizzando la misurazione di tCa è
stata sottostimata un’ipercalcemia ionizzata. Nei soggetti
con insufficienza renale cronica è stata sottostimata l’ipocalcemia, ma in quelli colpiti da altre malattie la medesima condizione è stata sovrastimata utilizzando tCa o una formula di
correzione. I pazienti con acidosi metabolica moderata o
grave vanno incontro a un incremento della frazione di iCa
dovuto allo spostamento del calcio dalle sue riserve legate
alle proteine. Quindi, la misurazione dei livelli sierici di iCa
è consigliata in tutti i pazienti con insufficienza renale o
ipercalcemia. Dal momento che la concentrazione sierica di
iCa è influenzata dall’esposizione all’ossigeno ed al pH, i
campioni devono essere prelevati e manipolati in condizioni
di anaerobiosi. I livelli di iCa sierici nel siero prelevato anaerobicamente sono stabili anche per 72 ore a temperatura ambiente o a +4 °C. La misurazione del calcio ionizzato riportata dagli analizzatori portatili è spesso inferiore ai valori
forniti dagli apparecchi da banco, forse a causa dei variabili
effetti dell’eparina e del volume del campione.
Segni clinici e conseguenze
dell’ipercalcemia
Piccoli incrementi delle concentrazioni sieriche di iCa al
di sopra della norma possono avere conseguenze fisiologiche
indesiderate, mentre condizioni che aumentano i livelli di tCa
senza incrementare quelli di iCa non mostrano effetti deleteri.
Quindi, la misurazione dell’iCa sierico è della massima importanza. Risulta anche di notevole valore il grado di interazione col fosforo sierico, dal momento che i soggetti in cui il
prodotto di tCa per la concentrazione del fosforo è superiore a
70 sono quelli con la massima probabilità di presentare gravi
alterazioni tissutali associate alla mineralizzazione. L’ipercalcemia può essere tossica per tutti i tessuti dell’organismo, ma
i principali effetti deleteri si osservano a livello di reni, sistema nervoso ed apparato cardiovascolare. Sulla base delle
informazioni raccolte nel cane, la maggior parte degli animali con tCa sierico superiore a 15 mg/dl mostra segni sistemici
e quelli con concentrazioni di tCa superiori a 18,0 mg/dl sono
gravemente ammalati. I segni clinici più comuni nei gatti ipercalcemici sono l’anoressia e la letargia, seguiti da manifestazioni gastroenteriche, poliuria/polidipsia, segni urinari e neurologici. Il vomito e la poliuria/polidipsia sono molto meno
comuni nel gatto che nel cane.
Diagnosi differenziale dell’ipercalcemia
L’ipercalcemia può essere transitoria/senza conseguenze
(comunemente), persistente/senza conseguenze (occasionalmente) o persistente/patologica. Le ipercalcemie non patologiche sono dovute a prelievi non effettuati a digiuno (aumento minimo), crescita fisiologica di animali giovani, errori di laboratorio e risultati spuri dovuti a lipemia o contaminazioni del campione/della provetta con dei detergenti. Le
cause transitorie/senza conseguenze dell’ipercalcemia sono
rappresentate da emoconcentrazione, iperproteinemia, ipoadrenocorticismo e grave ipotermia ambientale. Le malattie
esitano in un’ipercalcemia persistente patologica causando
un incremento del riassorbimento osseo, riducendo l’escrezione renale del calcio, incrementando il suo assorbimento
gastroenterico ed innalzando il legame sierico con proteine/complessi. Per ricordare le malattie che possono esitare
nell’ipercalcemia si può utilizzare l’eponimo HARDIONS:
H = iperparatiroidismo (primario e terziario), HHM (ipercalcemia umorale da neoplasia maligna), A = morbo di Addison, R = malattia renale, D = intossicazione da vitamina D
(compresa la forma granulomatosa), I = idiopatica, O =
osteolitica (osteomielite, immobilizzazione), N = neoplasia
(HHM ed ipercalcemia osteolitica locale), S = spurie.
In uno studio retrospettivo condotto su 71 gatti, i valori
medi delle concentrazioni sieriche di tCa per i soggetti ipercalcemici sono risultati di 12,2 ± 1,6 mg/dl (mediana 11,5). I
livelli sierici di tCa erano massimi nei gatti con neoplasia
76
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
(13,5 ± 2,5 mg/dl) in confronto a quelli con insufficienza renale da sola (11,5 ± 0,4), oppure associata ad urolitiasi (11,5
± 0,5). L’insufficienza renale è stata diagnosticata nel 38% dei
gatti ipercalcemici ed 1/3 di questi era anche colpito da urolitiasi (Tab. 1). L’urolitiasi da ossalato di calcio è stata notata
nel 15% della totalità dei gatti con ipercalcemia. La neoplasia
è stata diagnosticata nel 21% dei casi, con 1/3 di linfosarcomi,
1/3 di carcinomi squamocellulari ed il rimanente terzo di leucemie, mielomi multipli, osteosarcomi, fibrosarcomi, sarcomi
indifferenziati e carcinomi broncogeni. Va rilevato che la maggior parte dei gatti con linfosarcomi ed ipercalcemia nelle re-
centi segnalazioni è risultata FeLV-negativa, a differenza di
quanto riportato nei primi lavori. Il carcinoma squamocellulare associato ad ipercalcemia era localizzato nella regione della testa e del collo (mandibola e condotto uditivo). Il carcinoma squamocellulare non è stato abbinato allo sviluppo di ipercalcemia nel cane. I gatti colpiti sia da neoplasia che da insufficienza renale costituivano l’8,5% dei casi. L’iperparatiroidismo primario, l’endocrinopatia non paratiroidea e la malattia
infettiva eventualmente associata ad infiammazione granulomatosa costituivano, ciascuno, il 5,6% dei casi. L’ipercalcemia può anche essere associata ad avvelenamento da rodenticidi a base di colecalciferolo (intossicazione da vitamina D),
ipoadrenocorticismo ed epatopatia.
I granulomi nel punto di iniezione sono stati associati ad
ipervitaminosi D, dovuta all’aumento delle quantità di calcitriolo circolante nel gatto. L’istoplasmosi è occasionalmente
abbinata ad ipercalcemia, probabilmente a causa della produzione di calcitriolo da parte del tessuto granulomatoso.
Benché non ben documentata, l’ingestione di una popolare
pianta domestica (il cestro, Cestrum diurnum) è una potenziale causa di ipercalcemia nel gatto, dal momento che questa pianta contiene sostanze calcitriolo-simili. L’ingestione
di calcipotriene (una crema antipsoriasi utilizzata in medicina umana) è stata riferita come causa di ipercalcemia nel cane, ma non nel gatto; stanno comparendo segnalazioni aneddotiche dell’occorrenza di ipercalcemia nel gatto dopo il
leccamento di calcipotriene dalla cute dell’uomo.
Tabella 1
Frequenza di condizioni associate all’ipercalcemia nel gatto
(Savary et al., 2000)
Insufficienza renale
38%
Neoplasia
21%
Urolitiasi
15%
(12,7% in associazione con insufficienza renale)
Neoplasia + Insufficienza renale
8,5%
Iperparatiroidismo primario
5,6%
Endocrinopatia non paratiroidea
5,6%
Malattia infettiva
5,6%
Cause scarsamente definite (Idiopatiche?)
12,7%
Tabella 2
Modificazioni previste negli ormoni calcemici e nel profilo biochimico in associazione con i disordini dell’ipercalcemia
tCa
iCa
alb
Corr tCa
Pi
PTH
PTHrP
25-OH
Vit-D
1,25-OH2
Vit -D
PTG
ULS, -Chirurgia
↑
↑
N
N
↓N
↑N
N
N
N↑
Singolo ↑
2-HPTH, Nutrizionale
N↓
N↓
N
N↓
N↑
↑
N
↓N
N↓
Multiplo ↑
2-HPTH, Renale
N ↓↑
N↓
N
N
↑N
↑
N
N↓
N↓
Multiplo ↑
↑
↑
N
↑
↑
↑
N
N↓
↓N
Multiplo ↑
Ipercalcemia umorale
↑
↑
N↓
↑N
↓N
↓N
↑N
N
↓N↑
↓
Locale osteolitico
↑
↑
N↓
↑N
N↑
↓N
N↑
N
N
↓
Colecalciferolo
↑
↑
N
↑
↑N
↓
N
↑
N↑
N↓
calcitriolo
↑
↑
N
↑
N↑
↓
N
N
↑
↓N
calcipotriene
↑
↑
N
↑
↑N
↓
N
N
↓N
↓N
Ipoadrenocorticismo
↑
↑
N↓
↑
↑N
↓N
N
N
↓N
N
Ipervitaminosi A
↑
↑
N
↑
N
↓
N
N
N↓
↓N
Idiopatico (gatto)
↑
↑
N
↑
N↑
↓N
N
N
N↓↑
↓N
Disidratazione
↑
N↑
↑N
↑N
N↑
N↓
N
N
N
N
Esposizione ad alluminio (insufficienza renale)
↑
↑
N
↑
↑N
↓N
N
N
N↓
N↑↓
Ipertiroidismo (gatto)
↑
↑
N
↑
N↑
↑N↓
N
N
N↓
N↑
Intossicazione da uva passa/acini d’uva (cane)
↑
-
N
↑
N↑
-
-
-
-
-
1-HPTH
3-HPTH
Associato a neoplasia maligna
Ipervitaminosi D
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
77
Ipercalcemia idiopatica del gatto
3°
1° HPTH
PTH
2° HPTH
Intervallo
normale
HHM
idiopatico
Hypo PTH
Serum Ionized Calcium
FIGURA 1 - Relazione dei valori sierici previsti di PTH con il calcio ionizzato ed i disordini del calcio nel gatto.
Il riscontro simultaneo dell’ipercalcemia e dell’insufficienza renale cronica primaria costituisce una notevole
difficoltà per stabilire quale sia l’origine dell’ipercalcemia. Quest’ultima può esitare in un’insufficienza renale
primaria, ma può anche avvenire il contrario. I gatti con
ipercalcemia idiopatica possono anche essere colpiti da
iperazotemia postrenale quando presentano ureteroliti di
ossalato di calcio che determinano un’ostruzione ureterale. La misurazione di iCa è molto utile per stabilire la fisiopatologia dell’aumento dei valori sierici di tCa nei gatti con insufficienza renale cronica. In questi animali, spesso la concentrazione di iCa è bassa o normale (cause dell’aumento del legame del calcio agli agenti complessanti).
Quasi il 33% dei gatti con insufficienza renale cronica ed
ipercalcemia basata sul valore di tCa presentava un incremento di iCa. Quando l’insufficienza renale è associata ad
elevate concentrazioni di quest’ultima, si deve sospettare
la presenza di un’ipercalcemia associata a tumore maligno, ipervitaminosi D, iperparatiroidismo terziario ed
ipercalcemia idiopatica. Per ottenere una diagnosi definitiva è necessaria l’integrazione della misurazione di iCa
con quella dei livelli di ormone calciotrofico (PTH,
PTHrP, 25(OH)-vitamina D ed 1,25(OH)2-vitamina D)
(Tab. 2, Fig. 1).
Urolitiasi da ossalato di calcio
L’University of Minnesota Urolithiasis Center ha notato
che circa 1/3 dei gatti in cui si formano uroliti di ossalato di
calcio presenta un’ipercalcemia associata di origine non determinata.
In alcuni casi la concentrazione del calcio diminuiva dopo l’incremento della fibra nella dieta. L’ipercalcemia idiopatica è stata notata in cinque gatti con urolitiasi da ossalato
di calcio alla University of Georgia. Per questi animali non
sono stati pubblicati i profili completi degli ormoni regolatori del calcio. L’ipercalcemia si è risolta in seguito alla sospensione dell’acidificazione urinaria e/o alla modificazione
della dieta. Non è chiaro se la fisiopatologia dell’ipercalcemia idiopatica nei gatti con uroliti di ossalato sia la stessa
che si verifica in quelli che non formano calcio. È possibile
che entrambi rappresentino fasi differenti dello stesso processo patologico.
Sino a non molto tempo fa, l’ipercalcemia veniva identificata con scarsa frequenza nel gatto, ma nell’ultimo decennio
l’aumento inspiegabile dei livelli di calcio è stato riconosciuto
sempre più spesso come riscontro incidentale. Questa ipercalcemia senza spiegazione è stata indicata con il termine di “idiopatica” e viene definita come una concentrazione sierica di iCa
abnormemente elevata, la cui causa rimane sconosciuta anche
dopo un’approfondita valutazione medica finalizzata ad escludere le cause note di ipercalcemia. La frequenza della diagnosi
dell’ipercalcemia nei gatti del Nord America continua ad aumentare a velocità allarmante; siamo a conoscenza di segnalazioni sporadiche di ipercalcemia idiopatica nei gatti dell’Inghilterra e della Svizzera e si sospetta che il riscontro di questa condizione diventerà più comune in tutta l’Europa.
Più del 50% dei campione prelevati da gatti ed inviati al
DCPAH endocrinology laboratory per la valutazione dell’ipercalcemia è compatibile con una diagnosi di ipercalcemia idiopatica. Si rileva sempre più spesso che un certo numero di questi gatti mostra concomitanti segni gastroenterici. Presso il
DCAH sono stati passati in rassegna in totale 427 casi di sospetta ipercalcemia idiopatica felina. I gatti esaminati avevano
un’età compresa fra 0,5 e 20 anni (media 9,8 ± 4,6) e nel 27%
dei casi erano a pelo lungo. La mancanza di segni clinici è stata notata in 196 casi (46%). Nel 15% dei casi sono stati osservati uroliti o nefroliti e nel 10% sono stati specificamente notati calcoli di ossalato di calcio. Nel 18% dei gatti è stato rilevato un lieve calo di peso non accompagnato da altri segni clinici. La costipazione cronica è stata riscontrata nel 5% dei gatti e l’infiammazione intestinale nel 6% dei gatti con ipercalcemia idiopatica. I livelli sierici di tCa sono aumentati per mesi o
per più di un anno, spesso, inizialmente senza evidenti segni
clinici. Anche i livelli sierici di iCa sono aumentati, talvolta in
misura sproporzionata rispetto all’incremento di tCa.
Il vomito (30%)e la perdita di peso (20%) erano i segni clinici più comuni nella descrizione iniziale dell’ipercalcemia
idiopatica (Midkiff). Disuria (20%) e minzione inappropriata
(15%) sono state attribuite allo sviluppo di urolitiasi. È interessante notare che nessun proprietario ha riferito poliuria o
polidipsia. I gatti a pelo lungo costituivano il 40% dei soggetti della nostra casistica, in confronto al 14% di gatti a pelo lungo presentati alla clinica (Tab. 3). Il peso specifico medio dell’urina in questi animali era di 1,036 (con valori compresi fra
1,012 e 1,060). La funzione renale in base alla determinazione di azotemia e creatininemia era spesso normale all’inizio
(12 gatti su 20 non erano iperazotemici al momento della scoperta dell’ipercalcemia, 5 su 20 presentavano simultaneamente ipercalcemia ed iperazotemia e 3 su 20 erano affetti da iperazotemia cronica prima dello sviluppo dell’ipercalcemia). Su
12 gatti inizialmente non iperazotemici, 3 svilupparono l’iperazotemia molti mesi più tardi. Nelle immagini radiografiche
è stata osservata occasionalmente la nefrocalcinosi; la condizione si rileva con maggiore frequenza durante l’ecografia renale. La presenza di calcoli urinari viene identificata più comunemente con le radiografie che con le ecografie (quest’ultima tecnica spesso non evidenzia l’urolitiasi ureterale). Gli
uroliti possono essere localizzati a livello di reni, ureteri e/o
vescica, nonché in ogni possibile associazione di queste sedi,
ma nella nostra casistica erano più comuni i calcoli renali.
78
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Tabella 3
Segnalamento e misurazione dei fattori di regolazione del calcio in tre studi condotti su gatti in cui è stata diagnosticata l’ipercalcemia idiopatica
Studio preliminare
Midkif
Schenck
Schenck
Numero di gatti
Età (anni) in cui è stata notata l’ipercalcemia
Razze
Sesso
iCa (mmol/l)
PTH (pmol/l)
Calcitriolo (pmol/l)
iMg (pmol/l)
20
5,8 ± 3,0 (2,0 – 13,4)
40% a pelo lungo
40% Femmine
1,65 ± 0,1 (1,48 – 1,90)
1,1 ± 0,8 (0 – 2,5)
67,2 ± 57,6 (12 – 180)
—-
12
7,2 ± 4,4 (2,0 – 17,0)
50% a pelo lungo
67% Femmine
1,73 ± 0,15 (1,48 – 1,97)
0,8 ± 0,5 (0 – 1,4)
44,6 ± 12,4 (28,7 – 69,8)
0,68 ± 0,12 (0,42 – 0,80)
1000
10,2 ± 4,6 (0,5 – 22,5)
40% a pelo lungo
50% Femmine
1,70 ± 0,20 (1,44 – 2,67)
1,0 ± 0,7 (0 – 4,0)
—0,6 ± 0,1 (0,26 – 1,46)
Nei gatti con ipercalcemia idiopatica, non si riscontrano
segni di neoplasia maligna rilevabili mediante radiografie,
ecografie addominali, valutazioni midollare e, in alcuni casi,
neppure con la necroscopia completa. I test sierologici per la
diagnosi delle infezioni da FeLV e FIV sono risultati negativi e i valori di T4 erano normali. I livelli di PTH sono normali o diminuiti, PTHrP non è rilevabile, la concentrazione
di 25-(OH)-vitamina D è nella norma e i livelli di calcitriolo
sono normali o bassi. L’analisi dei gas ematici non rivela alcun importante disturbo acidobasico. L’esplorazione della
regione cervicale non è riuscita a evidenziare segni di iperparatiroidismo primario; la paratiroidectomia subtotale non
è stata in grado di risolvere l’ipercalcemia.
È stato riferito che un aumento della fibra nella dieta diminuisce i livelli sierici di calcio nei gatti colpiti. Tuttavia,
nella nostra casistica non è stata rilevata alcuna modificazione delle concentrazioni di iCa in 11 gatti su 11 in seguito alla modificazione della dieta passando ad una che conteneva
una maggior quantità di fibra o era dotata di proprietà alcalinizzanti. In alcuni gatti, la stimolazione mediante terapia
con prednisone esita in un calo a lungo termine dei livelli di
tCa ed iCa. Sei animali sono stati trattati con una dose giornaliera totale di 5-12,5 mg di prednisone; il valore di iCa è
tornato normale in 3 gatti su 6, non è diminuito in 2 gatti su
6 ed ha mostrato una risposta equivoca in 1 gatto su 6. L’effetto del trattamento con glucocorticosteroidi sull’elaborazione renale del calcio non è stato studiato. Esiste una certa
preoccupazione che questa terapia possa aumentare l’ipercalciuria riducendo il riassorbimento renale tubulare del calcio, il che potrebbe di conseguenza accentuare la genesi dei
calcoli urinari. In alternativa, se questo trattamento diminuisce i livelli sierici di iCa, il carico di calcio filtrato dai glomeruli diviene minore, compensando qualsiasi riduzione del
riassorbimento tubulare del calcio.
Le cause dell’ipercalcemia idiopatica nel gatto restano poco chiare. Meritano ulteriore considerazione il ruolo dell’acidificazione della dieta, la restrizione del magnesio nella razione e/o il contributo di qualsiasi specifico costituente del cibo.
Sono necessari altri studi che prevedano l’analisi completa degli ormoni regolatori del calcio, compreso il calcitriolo, e l’esecuzione di ripetute misurazioni di iCa in un maggior numero di gatti. È necessario raccogliere e valutare una dettagliata
anamnesi alimentare, in modo da stabilire l’esistenza o meno
di un potenziale ruolo eziologico di fattori legati alla dieta. Per
chiarire il meccanismo dell’ipercalcemia saranno probabilmente necessari studi sull’equilibrio del calcio che prendano in
considerazione l’assunzione con la dieta, l’assorbimento intestinale, l’escrezione fecale, il riassorbimento osseo e l’escrezione urinaria. I marcatori dell’aumento del turnover osseo che
compaiono nell’urina possono servire a determinare se il riassorbimento osseo contribuisce all’ipercalcemia idiopatica. La
misurazione dei metaboliti della vitamina A e dell’alluminio
può rivelare alcune delle cause meno usuali di ipercalcemia.
Per valutare gli effetti dell’acidificazione cronica della dieta si
può valutare l’opportunità di un trattamento di prova con alcali. Quando la modificazione della dieta e il trattamento di prova con prednisolone non hanno avuto successo per risolvere
l’ipercalcemia, si deve considerare la terapia con bifosfonato.
Si può anche pensare che l’ipercalcemia si sviluppi soltanto in
una popolazione di gatti geneticamente suscettibile che sia stata stimolata da un fattore di provocazione ancora indefinito.
Nei gatti in cui è stata diagnosticata l’ipercalcemia idiopatica
non è stato effettuato lo studio sistematico della funzione surrenalica (ipoadrenocorticismo?) e dell’analisi dei gas ematici.
L’elevata frequenza di gatti a pelo lungo suggerisce la possibilità di una componente genetica dello sviluppo della malattia.
L’elevata frequenza dei gatti con ipercalcemia idiopatica in cui
è stata notata un’infiammazione intestinale (IBD) può suggerire un ruolo dell’intestino nello sviluppo dell’ipercalcemia.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dennis J. Chew, DVMProfessor
Department of Veterinary Clinical Sciences
College of Veterinary Medicine, The Ohio State University
601 Vernon L. Tharp St., Columbus, Ohio 43210, USA
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
79
La dieta: quale ruolo nella genesi
e nel trattamento della FLUTD
Dennis J. Chew
DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA
Gli ingredienti della dieta e le modalità con cui vengono alimentati gli animali influiscono sul volume, sul pH e
sulla concentrazione dei soluti nell’urina e, di conseguenza, possono contribuire all’eziologia, al trattamento o alla
prevenzione delle recidive di alcune cause di affezioni delle basse vie urinarie.
Gli effetti della dieta sulle malattie del tratto distale di
questo apparato nel gatto possono essere distinti in quelli
che vengono indotti dalla dieta stessa (come nello sviluppo degli uroliti di struvite durante il consumo di una dieta
alcalinizzante) o quelli che vengono considerati sensibili
ad essa (ad es., le diete calcololitiche o quelle studiate per
prevenire il futuro sviluppo degli uroliti). Sembra che alcuni gatti sviluppino calcoli urinari o cistite idiopatica come conseguenza del fatto di essere “gatti sensibili in un
ambiente provocatorio”.
Le indicazioni per il trattamento dietetico dei gatti con
cistite idiopatica richiedono di prendere in considerazione la
costanza, la consistenza e la composizione della dieta.
Costanza. La nostra esperienza clinica suggerisce che
le modificazioni della dieta possano esitare in alcuni pazienti nella ricomparsa dei segni clinici della cistite idiopatica/interstiziale. Inoltre, con l’avvento di molti alimenti veterinari e commerciali caratterizzati da una formulazione simile e commercializzati per l’impiego nei
gatti con segni clinici riferibili alle basse vie urinarie, talvolta si riscontra la comparsa di recidive di queste manifestazioni quando l’alimentazione di questi gatti viene
cambiata passando da uno qualsiasi di questi alimenti ad
un altro di essi. Queste osservazioni suggeriscono che le
modificazioni della dieta possano esitare nella ricomparsa di manifestazioni cliniche. Questa ipotesi è rafforzata
dall’osservazione che alcuni gatti con segni di interessamento delle basse vie urinarie sembrano essere sensibili
ad una varietà di stimoli ambientali. In attesa di ulteriori
studi per verificare questa ipotesi, può essere prudente limitare la frequenza delle modificazioni della dieta in questo gruppo di pazienti.
Consistenza. Abbiamo riscontrato che il 60% circa
dei gatti con cistite idiopatica consuma quasi al 100% alimenti secchi per gatti; un ulteriore 17% consuma il 75%
o più di alimenti secchi nell’ambito dell’assunzione giornaliera totale. In confronto alla totalità dei gatti, si tratta
di una quantità sproporzionata di assunzione totale di cibo in forma secca. In confronto ai risultati ottenuti da indagini condotte negli USA all’interno dei nuclei familiari, nei gatti con cistite idiopatica è risultato significativa-
mente più probabile il consumo esclusivo di alimenti secchi. Ciò non significa che questi ultimi provochino la cistite idiopatica, ma suggerisce che il loro consumo possa
svelare o aggravare il disordine in alcuni soggetti suscettibili (facendo della cistite idiopatica una malattia sensibile a determinati principi nutritivi piuttosto che indotta
dalla dieta). Abbiamo segnalato che le manifestazioni cliniche riferibili alle basse vie urinarie presentavano delle
recidive soltanto nell’11% dei gatti con cistite idiopatica
durante un periodo di un anno di alimentazione con la formulazione umida di un alimento per uso veterinario studiato per determinare la produzione di urina acida. Le recidive sono state riscontrate nel 39% dei gatti alimentati
con la forma secca di questo cibo, suggerendo la possibilità che siano importanti sia la costanza che la consistenza (aumentata assunzione di acqua) anche se le ragioni di
questo effetto restano da determinare. Entrambe le diete
contenevano un potenziale carico di soluti renali simile ed
hanno determinato un grado analogo di acidificazione
dell’urina. È interessante notare che il peso specifico di
quest’ultima nei gatti alimentati con la forma secca era di
solito superiore a 1.050 (media di 1.050), mentre quello
dei gatti alimentati con la dieta umida di solito era inferiore a 1.040 (media di 1.030). Sembra che la forma umida abbia protetto quasi il 90% dei gatti dalle recidive di
segni clinici delle basse vie urinarie per periodi fino ad un
anno e la costanza della dieta abbia assicurato una protezione del 60% circa, mentre al 10% non sia stata offerta
alcuna protezione dalle recidive da parte della dieta. Oltre
all’acqua, le diminuzioni correlate alla dieta dei livelli
urinari di magnesio e/o gli aumenti di quelle di calcio, potassio e/o ioni idrogeno sono tutte cause capaci di influenzare l’attività delle fibre nervose sensoriali nell’urotelio. Sfortunatamente, la maggior parte di questi effetti è
stata studiata utilizzando sistemi sperimentali in vitro. Gli
effetti del contenuto di elettroliti nell’urina sui segni clinici delle basse vie urinarie non sono stati adeguatamente studiati, ma possono essere importanti nel trattamento
di alcuni pazienti.
L’aumento della frequenza dell’urolitiasi da ossalato
di calcio può essere stato determinato come conseguenza
delle modificazioni della dieta studiate per aumentare il
grado di acidificazione urinaria e ridurre la concentrazione di magnesio nell’urina. È possibile che il grado di acidificazione sistemica ottenuto da alcuni di questi alimenti accentui la calciuria, dal momento che gli ioni idrogeno sono tamponati dal minerale osseo. Il magnesio nel-
80
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
FIGURA 1 - % di calcoli urinari prelevati da gatte femmine ed inviati all’Urinary Stone Laboratory della University of California, Davis. Per cortese concessione di Dr. Jodi Westropp, Dr. Gerarld Ling and Annette Ruby.
Gatti maschi
FIGURA 2 - % di calcoli urinari prelevati da gatti maschi ed inviati all’Urinary Stone Laboratory della University of California, Davis. Per cortese
concessione di Dr. Jodi Westropp, Dr. Gerarld Ling and Annette Ruby.
l’urina funge da veleno cristallino che diminuisce l’associazione di calcio ed ossalato; il calo del magnesio nell’urina potrebbe accentuare le probabilità di questa associazione. Il consumo di diete capaci di acidificare l’urina
ed il ricovero in casa sono stati segnalati come fattori di
rischio indipendenti per l’urolitiasi da ossalato di calcio.
Nessun protocollo medico si è dimostrato in grado di determinare con successo la dissoluzione degli uroliti di ossalato di calcio, per cui in questi pazienti si raccomanda
il ricorso alla chirurgia o all’eliminazione mediante uroidropropulsione. Per prevenire le recidive, può essere utile adottare alcune modificazioni specifiche per i singoli
calcoli, oltre alla diluizione dell’urina. Anche se nel gatto non è mai stato documentato un calo del rischio delle
recidive dei calcoli di ossalato di calcio riferibile alla modificazione della dieta, sembra essere ragionevole il passaggio ad una razione meno acidificante e non sottoposta
a restrizioni dei livelli di magnesio, dal momento che il
peso specifico urinario che ne deriva è < 1.030.
Gli agenti acidificanti sono controindicati nei gatti
con urolitiasi da ossalato di calcio. Alcuni produttori di
alimenti per uso veterinario offrono diete studiate per ridurre la probabilità di formazione di calcoli di ossalato
di calcio.
Può essere utile la somministrazione di citrato sotto
forma di sale di potassio, perché il citrato urinario può
agire da inibitore della formazione di ossalato di calcio ed
il suo effetto alcalinizzante può ridurre il rilascio osseo
del calcio, anche se non si dispone di dati relativi a casi
clinici nel gatto.
Oltre a questo effetto, non sono noti vantaggi della
manipolazione terapeutica del pH urinario, perché la solubilità dell’ossalato resta relativamente immutata entro
un’ampia fascia di pH urinario.
FIGURA 3 - Potenziali effetti della dieta e dell’assunzione attraverso di essa di vari elementi sull’induzione, mantenimento o recidive dell’urolitiasi o sulla cistite idiopatica/interstiziale nel gatto.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dennis J. Chew, DVM, Professor
Department of Veterinary Clinical Sciences
College of Veterinary Medicine
The Ohio State University
601 Vernon L. Tharp St.
Columbus, Ohio 43210, USA
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Stato dell’arte sull’insufficienza renale cronica
nel cane e nel gatto
Dennis J. Chew
DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA
Nella maggior parte dei pazienti con stadi avanzati di
nefropatia cronica, la perdita progressiva di varie funzioni
renali sembra inevitabile. La progressione si verifica se il
danno renale sottostante non può essere trattato (ad es.,
una glomerulonefrite dovuta ad un antigene non identificato o un’amiloidosi), ma a volte può anche continuare
quando la causa della lesione iniziale è stata rimossa. La
“progressione inesorabile dell’insufficienza renale cronica”, tuttavia, si verifica soltanto dopo una perdita sostanziale della massa renale che sia già avvenuta indipendentemente dal danno scatenante originale. In cani e gatti in
condizioni sperimentali, prima che si instaurasse una progressione inesorabile, è stato necessario eseguire una nefrectomia subtotale in 5 casi su 6 o 11 casi su 12. Una varietà di interventi (dietetici e farmacologici) può rallentare la progressione della nefropatia, migliorare la qualità
della vita del paziente e/o prolungarla.
Gli adattamenti emodinamici dei nefroni superstiti
possono aumentare la velocità di filtrazione glomerulare
del singolo nefrone, il flusso plasmatico glomerulare e
la pressione idraulica capillare transglomerulare che
rappresentano delle modificazioni iniziali di adattamento finalizzate a mantenere la funzione escretoria e ad incrementare la velocità di filtrazione glomerulare totale
del rene. È possibile che questa ipertensione intraglomerulare e l’incremento del volume glomerulare finiscano
però per compromettere i glomeruli, come illustrato nella Figura 1.
Adattamento/Maladattamento
↑ Emodinamiche glomerulari
Ipertensione
sistemica
↑ Volume glomerulare
↓ VFC
Diabete mellito
↑ Traffico proteico
Reazione
mesangiale
↑ Elaborazione tubulare
Glomerulosclerosi
Nefrite tubulointerstiziale
FIGURA 1 - In alcuni casi, come illustrato nella figura, gli incrementi compensatori (adattamenti) delle emodinamiche glomerulari e del volume glomerulare possono in realtà rappresentare una forma di maladattamento.
Anche l’ipermetabolismo tubulare, l’iperammoniogenesi, la mineralizzazione renale, l’ipertensione arteriosa
sistemica, la coagulazione intrarenale ed i meccanismi immunitari possono contribuire ad un danno renale progressivo cronico.
Gli scopi del trattamento dell’insufficienza renale cronica sono minimizzare i segni clinici dell’uremia, ritardare la
progressiva perdita di funzioni renali e massimizzare lo status nutrizionale del paziente. Uno dei principali risultati che
si vogliono ottenere con questi trattamenti è un’adeguata assunzione con la dieta che consenta una buona qualità di vita
con uno stato di forma ragionevole. Il calo dell’assunzione
di cibo e lo scadimento della condizione corporea sono comuni durante l’insufficienza renale cronica e possono derivare da modificazioni fisiche (ulcere orali e gastriche, necrosi della lingua), alterazioni del senso dell’olfatto e del gusto, cambiamenti metabolici che influiscono sull’appetito
(anemia, ipokalemia, acidosi metabolica, iperazotemia, iperparatiroidismo) e modificazioni della dieta che condizionano negativamente l’appetibilità.
Modificazioni della dieta
L’assunzione di cibo con la dieta deve probabilmente
essere ottimizzata e modificata in funzione dello stadio
della nefropatia, della risposta individuale dell’animale ad
una specifica dieta e del suo ambiente interno uremico.
Recentemente, sono stati pubblicati studi di risultato della
medicina basata sui fatti in cani e gatti con insufficienza
renale cronica ad insorgenza spontanea che evidenziano
effetti salutari della modificazione dell’alimentazione. Le
diete veterinarie per soggetti nefropatici (cd “renalfriendly”) sono generalmente caratterizzate da una riduzione di proteine, fosforo, calcio e sodio, e da un’integrazione con carboidrati, fonti di alcali (citrato di potassio) ed
acidi grassi polinsaturi in un rapporto favorevole fra omega-6 ed omega-3.
In confronto agli alimenti che si trovano comunemente nelle drogherie o nei negozi di articoli per animali, le
diete veterinarie per soggetti nefropatici presentano una
restrizione dei livelli proteici di circa 1/3-1/2, mentre
quelli del fosforo sono ridotti del 70-80%. Gli alimenti
umidi presentano generalmente una restrizione fosforica
più accentuata dei loro equivalenti secchi ed esistono sostanziali differenze fra i prodotti disponibili. Gli alimenti
secchi per gatti, ma non quelli umidi, sono integrati con
potassio ad un livello pari a circa il doppio di quello di
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mantenimento, apparentemente nel tentativo di evitare la
nefropatia caliopenica. È necessario confrontare l’assunzione di principi nutritivi delle diete veterinarie in funzione di ogni 100 kcal di energia assunta.
Restrizione del fosforo nella dieta
e leganti intestinali del fosforo
La restrizione del fosforo può avere effetti positivi sull’istologia e sulla funzione renale e/o sulla mortalità nei
cani e nei gatti con insufficienza renale cronica. Questi effetti sono indipendenti dalla restrizione proteica. Non è
noto con precisione come la restrizione del fosforo eserciti la propria azione benefica, ma è possibile che avvenga
attraverso una minore mineralizzazione renale ed un’attenuazione del grado dell’iperparatiroidismo secondario. La
minore mineralizzazione renale può essere dovuta ad un
calo della concentrazione e delle azioni del paratormone
(PTH) ed eventualmente ad una diminuzione diretta del
prodotto del calcio per il fosforo. Per ottenere un adeguato controllo del carico totale del fosforo nell’organismo e
del PTH, oltre a ridurre i livelli di questo elemento nella
dieta, è spesso necessario utilizzare gli agenti capaci di legarlo a livello intestinale (idrossido di alluminio, carbonato di calcio, acetato di calcio).
Ulteriore controllo dell’iperparatiroidismo
secondario renale con calcitriolo
La restrizione del fosforo nella dieta come singola
modalità terapeutica è in grado di diminuire le concentrazioni di PTH in alcuni cani e gatti con nefropatia cronica
o insufficienza renale in fase iniziale. Il ritorno della fosforemia alla normalità non fornisce una garanzia del fatto che anche le concentrazioni di PTH si normalizzino,
dal momento che la restrizione fosforica agisce soltanto
nei soggetti che hanno un apparato tubulare abbastanza
attivo in grado di effettuare la sintesi del calcitriolo una
volta che gli effetti inibitori dell’eccesso di fosforo sulla
sintesi stessa siano rimossi. L’assunzione giornaliera di
basse dosi di calcitriolo per via orale riduce efficacemente i livelli di PTH a valori normali o inferiori alla soglia
tossica. Il calcitriolo esercita il proprio effetto attraverso
l’inibizione genomica della sintesi dell’ormone paratiroideo (inibizione della trascrizione del DNA in RNA messaggero nel nucleo delle ghiandole paratiroidi). Questo
effetto può richiedere mesi prima di manifestarsi pienamente in seguito alla prescrizione di una dose di 2,5-3,5
ng/kg una volta al giorno.
Cani sottoposti a nefrectomia subtotale sperimentale
hanno richiesto 6 ng/kg per ottenere una diminuzione efficace dei livelli di PTH ad un mese, una dose che noi prescriviamo con scarsa frequenza nei soggetti con iperparatiroidismo refrattario. Prima e durante la prescrizione dei
trattamenti con calcitriolo è essenziale un adeguato controllo dei livelli sierici del fosforo, che devono essere portati a concentrazioni inferiori a 6,0 mg/dl.
83
ACE-inibizione
L’angiotensina-II svolge un ruolo fisiopatologico nella proteinuria e nella progressione della nefropatia. Può
intervenire anche nella progressione delle nefropatie non
proteinuriche. L’enzima convertente facilita la formazione dell’angiotensina-II a partire dall’angiotensina-I sia a
livello locale, all’interno del rene attraverso l’orletto a
spazzola dei tubuli prossimali, che attraverso l’attività
dell’endotelio sistemico. L’attività dell’angiotensina-II a
livello del rene provoca la vasocostrizione delle arteriole
glomerulari esercitando un effetto preferenziale a livello
dell’arteriola efferente in confronto a quella afferente. La
vasocostrizione dell’arteriola efferente in un momento di
nessuna modificazione in quella afferente aumenta la
pressione capillare intraglomerulare. La progressione della nefropatia nei nefroni superstiti può essere attribuita in
parte alla persistenza di questa ipertensione, un processo
che è associato all’incremento del traffico delle macromolecole nel mesangio, con conseguente proliferazione
di cellule mesangiali ed aumento della matrice mesangiale (glomerulosclerosi), come descritto nella Figura 1.
L’angiotensina II ha effetti non emodinamici che sono potenzialmente importanti, perché può agire da fattore di
crescita e stimolarne altri che influiscono sulla vascolarizzazione renale e sulla crescita tubulare.
Nel corso di uno studio in doppio cieco multicentrico
(Grauer 2000), in 29 cani clinicamente affetti da glomerulopatia (di tipo membranoso in 16 casi e membranoproliferativo in 13) è stato effettuato per 6 mesi un trattamento di ACE-inibizione con enalapril alla dose di 0,5
mg/kg 1 o 2 volte al giorno (n = 16) o con un placebo (n
= 14). La dose dell’enalapril o del placebo è stata aumentata da 1 a 2 volte al giorno se dopo un mese di trattamento la riduzione dell’UPCR era < 50%. Tutti i cani
sono stati anche sottoposti ad una terapia concomitante
con acido acetilsalicilico alla dose di 0,5-5,0 mg/kg 1 o 2
volte al giorno, nonché ad una moderata restrizione proteica della dieta, studiata per il trattamento dell’insufficienza renale nel cane. I gruppi trattati con enalapril e
con placebo, all’inizio della prova, si equivalevano per
grado di iperazotemia, pressione sistolica e valutazione
istologica glomerulare.
Nel gruppo di cani trattato con enalapril 9 sono migliorati, 4 non hanno presentato alcuna progressione e 3
hanno mostrato una progressione della nefropatia; in due
cani, al terzo e quinto mese dello studio, è stata necessaria l’eutanasia a causa dell’insufficienza renale. Nessun
cane trattato con placebo è migliorato, 4 non hanno mostrato alcuna progressione e 10 hanno presentato una progressione. Almeno per 6 mesi, il trattamento con enalapril
dei cani clinicamente affetti da glomerulonefrite idiopatica riduce la proteinuria e la pressione sistolica e ritarda
l’insorgenza dell’iperazotemia che si sarebbe altrimenti
avuta. Benefici analoghi sulla proteinuria e sul ritardo
dell’insorgenza dell’iperazotemia sono stati osservati in
cani samoiedo con nefrite ereditaria trattati con enalapril,
ma senza il calo della pressione sistolica.
Nell’Unione Europea, il benazepril è registrato per il
trattamento dell’insufficienza renale cronica nel gatto
84
[Fortekor®] sulla base di risultati ottenuti in 201 animali di
questa specie in cui la malattia era dovuta a varie cause e che
erano stati selezionati sulla popolazione dei felini portati alla
visita presso strutture veterinarie private. I gatti di questo studio sono stati trattati con benazepril (0,5-1,0 mg/kg una volta
al giorno; dose media 0,73 mg/kg) o con un placebo. Rispetto
a quest’ultimo, sono stati osservati benefici effetti per quanto riguarda la qualità della vita, il miglioramento dell’appetito, l’incremento ponderale ed il prolungamento della speranza di vita. La qualità della vita è aumentata anche nel
gruppo trattato con placebo (restrizione di proteine e fosforo nella dieta). Però, l’incremento ponderale è stato minore;
nell’arco di un periodo di 12 mesi si è osservato un aumento di peso di maggiore entità nei gatti che erano trattati con
benazepril, specialmente quelli che presentavano un’insufficienza renale cronica più grave.
La sopravvivenza media nei soggetti trattati con benazepril è stata di 501 giorni, in confronto a 391 giorni dei
gatti trattati con placebo. Quando sono stati presi in considerazione i gatti con grave insufficienza renale cronica,
la sopravvivenza è stata di 101 giorni in quelli trattati con
benazepril e 126 giorni in quelli di controllo. I risultati di
questo studio sono in attesa di un’ulteriore valutazione
prima di poter suggerire l’impiego dell’ACE-inibizione
come metodo standard per il trattamento di tutti i gatti con
insufficienza renale cronica.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Letture consigliate
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dennis J. Chew, DVM, Professor
Department of Veterinary Clinical Sciences
College of Veterinary Medicine
The Ohio State University
601 Vernon L. Tharp St.
Columbus, Ohio 43210, USA
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Cistite idiopatica/intestiziale nel gatto:
diagnosi e trattamento
Dennis J. Chew
DVM, Dipl ACVIM Columbus, Ohio, USA
Cistite idiopatica
La cistite idiopatica è la diagnosi più comune nei gatti
con meno di 10 anni di età che presentano segni di malattia
delle basse vie urinarie, dal momento che costituisce il 6070% dei casi di animali portati alla visita a causa di segni
clinici riferibili ad irritazione durante la minzione. Il termine di affezione idiopatica delle basse vie urinarie è appropriato nei casi in cui non si riesce ad identificare la causa di
irritazione della minzione anche dopo aver effettuato una
completa indagine diagnostica comprendente analisi delle
urine, urocoltura e tecniche di diagnostica per immagini
quali radiografie, cistografia con mezzo di contrasto, uretrografia con mezzo di contrasto ed ecografia della vescica,
variamene associate fra loro.
I cristalli di struvite non sembrano danneggiare l’urotelio normale e non è necessario sforzarsi di acidificare l’urina e ridurre la cristalluria da struvite mediante modificazione della dieta. Non è stato dimostrato alcun valore dei tentativi di acidificazione dell’urina impiegando alimenti secchi per gatti formulati con un basso tenore di magnesio o
ceneri ai fini del trattamento dei gatti con segni clinici a carico delle basse vie urinarie associati a cistite idiopatica.
Dal momento che è significativamente più probabile che i
soggetti con cistite idiopatica siano stati alimentati con un
prodotto secco, la dieta deve essere cambiata passando
esclusivamente ad alimenti umidi, a meno che ciò non risulti troppo stressante per l’animale o il suo proprietario. Le
recidive dei segni delle basse vie urinarie dei gatti alimentati con una dieta secca erano del 39%, mentre solo l’11%
di quelli che consumavano alimenti umidi ha mostrato una
recidiva dei segni clinici. In alcuni gatti le modificazioni
della dieta possono esitare nella ricomparsa delle manifestazioni a carico delle basse vie urinarie, per cui sembra meglio utilizzare una dieta costante, limitando la frequenza dei
cambiamenti nei pazienti con segni di malattia del tratto più
distale dell’apparato escretore. Quando si effettuano delle
modificazioni della dieta, quella nuova deve essere inizialmente offerta come un’alternativa a quella precedente piuttosto che rimpiazzarla direttamente.
Alcuni gatti con segni clinici a carico delle basse vie
urinarie sembrano essere sensibili ad una varietà di stimoli
ambientali (“fattori stressanti”). Lo stress nella vita di un
gatto è difficile da quantificare. Quello derivante dal confinamento in casa può essere importante per perpetuare la cistite idiopatica in alcuni gatti. Potenziali fonti di stress sono rappresentati da ambiente fisico, altri animali e proprie-
tari. Alcuni esempi sono i cambiamenti dell’ambiente di vita, del clima, dell’attività, dell’uso della cassetta delle deiezioni, dell’assunzione di cibo, dei ritmi di lavoro del proprietario e l’aumento o la diminuzione dei componenti
umani o animali dalla popolazione del nucleo familiare.
Dal momento che molti gatti con cistite idiopatica sembrano essere più reattivi del solito (aumento dell’efflusso del
sistema nervoso simpatico), nei nuclei familiari in cui vivono più gatti può essere appropriato offrire separatamente cibo, acqua e contenitori per le deiezioni a quelli colpiti. Si cerca di ottenere una riduzione della percezione dello
stress da parte del gatto. Suggeriamo di offrire a questi animali dei luoghi dove nascondersi e lasciargli delle opportunità di esprimere in qualche modo il loro naturale comportamento predatorio. Queste opportunità possono essere
rappresentate da luoghi dove arrampicarsi e giocattoli che
possano essere inseguiti e acchiappati. Per la riduzione dello stress può essere utile migliorare la qualità del tempo
passato insieme da gatto e proprietario. Col termine di “arricchimento ambientale” si indicano collettivamente i miglioramenti effettuati per i gatti che vivono in casa. In alcuni casi, perché il trattamento abbia successo può essere
necessario aumentare le possibilità di accesso all’ambiente
esterno. Anche se quest’ultimo suggerimento può essere
criticato sulla base del fatto che determina un aumento del
numero dei gatti che muoiono a causa di altri animali o
traumi da incidenti stradali, occorre tenere presente che
molti felini con cistite idiopatica interstiziale cronica e
minzione inappropriata che non rispondono al trattamento
vengono soppressi eutanasicamente oppure abbandonati
presso i rifugi per animali.
I veterinari hanno oggi a disposizione un feromone che
esercita un effetto calmante sul gatto. Questo prodotto (Feliway®) è un analogo di sintesi di un feromone facciale felino presente in natura ed è stato sviluppato specificamente
per ridurre i comportamenti del gatto riferibili all’ansia, come la tendenza a spruzzare urina e marcare il territorio. I gatti rilasciano questi feromoni quando sfregano il muso quando si trovano a proprio agio nell’ambiente. Anche se non è
stato specificamente sottoposto a valutazione nei soggetti
con cistite idiopatica, è stato riferito che il trattamento con
questo agente riduce l’ansia percepita da alcuni gatti in circostanze non familiari. La riduzione dell’ansia è presumibilmente associata al calo del deflusso del sistema nervoso simpatico che potrebbe essere utile nella cistite idiopatica. Effetti salutari del Feliway sono stati recentemente riferiti in
gatti ricoverati presso il nostro ospedale.
86
FIGURA 1 - Effetti dell’infiammazione neurogena sulla vescica urinaria
nella cistite interstiziale.
I neuroni sensoriali (fibre C) sembrano svolgere un ruolo centrale nella trasmissione dei potenziali d’azione attraverso le radici dorsali dei gangli spinali (DRG). Questi segnali vengono percepiti come dolorosi dall’encefalo.
Inoltre, le fibre sensoriali possono propagare un riflesso assonale locale senza trasmissione di un potenziale d’assone. Il riflesso assonale esita nel rilascio di neurotrasmettitori peptidici come la sostanza P (SP) da parte delle
terminazioni nervose. L’interazione della SP con i recettori delle pareti vasali esita in una fuoriuscita del contenuto vascolare, che può essere aumentata dal rilascio indotto dalla SP di istamina ad opera delle mast cell. Queste azioni possono dare origine alle emorragie petecchiali della sottomucosa osservate alla cistoscopia. I recettori della SP si trovano anche sulla muscolatura liscia, che quando è attivata stimola la contrazione muscolare. È
anche illustrato l’urotelio (epitelio) e lo strato sovrastante di glicosaminoglicani (GAG) adiacente al lume vescicale. Il danneggiamento o il funzionamento dell’uno o dell’altro di questi strati o di entrambi può permettere
ai costituenti dell’urina, quali protoni, ioni potassio, o fluidi iperosmolari (>
2000 mOsm/l) di attivare le fibre sensoriali. Gli effetti dello stress su queste fibre possono essere correlati ai segnali simpatici (SNS) efferenti discendenti che stimolano le DRG ed inducono il rilascio di neuropeptidi a livello periferico. Anche il rilascio locale di neurotrasmettitori da parte delle
fibre simpatiche vescicali può stimolare le fibre sensoriali. Un altro fattore
probabilmente coinvolto nell’infiammazione vescicale cronica, ma non dimostrato, è il rilascio locale e sistemico di fattori di crescita nervosa, che
può promuovere lo sprouting delle fibre sensoriali terminali per aumentare
le dimensioni del campo di ricezione delle fibre stesse.
L’amitriptilina possiede diverse caratteristiche potenzialmente utili dal punto di vista terapeutico nei gatti con cistite idiopatica. Fra questi rientrano l’analgesia, la stabilizzazione delle membrane delle mast cell, l’inibizione della
ricaptazione della noradrenalina (che esita nella riduzione
della sensibilità alla trasmissione noradrenergica), alcuni
effetti anticolinergici ed un’azione antagonista dei recettori
del glutammato e dei canali del sodio. Il trattamento con
amitriptilina in 15 gatti con grave cistite interstiziale ricorrente ha notevolmente ridotto i segni clinici in molti casi.
Nell’ambito di questo studio, il fallimento è stato definito
come la ricomparsa di qualsiasi segno clinico riferibile alle
basse vie urinarie nei 12 mesi successivi. L’amitriptilina è
riuscita ad eliminare i segni clinici della cistite interstiziale
nel 73% dei gatti per i primi 6 mesi e nel 60% dei soggetti
studiati per l’intero arco di 12 mesi. Nonostante la remissione clinica, in tutti i gatti è stata osservata la persistenza
di anomalie cistoscopiche in occasione delle valutazioni effettuate a 6 e 12 mesi. In alcuni casi, sono stati riscontrati
aumento di peso, sonnolenza, diminuzione della toelettatura e calcoli vescicali transitori. I valori dell’esame emocro-
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mocitometrico completo e del profilo biochimico nella nostra casistica sono rimasti normali per tutto il periodo di un
anno. L’amitriptilina va utilizzata con cautela nei gatti con
cardiopatie sottostanti o gravi aritmie e in tutti i soggetti
trattati con questo farmaco è necessario effettuare il monitoraggio dell’emogramma e del profilo biochimico. Quando
si decide di sospendere le somministrazioni, è necessario ridurre gradualmente il dosaggio dell’amitriptilina per evitare bruschi segni da astinenza.
L’amitriptilina è stata recentemente studiata in due differenti casistiche di gatti con forme acute di affezioni idiopatiche non ostruttive delle basse vie urinarie. I felini del
primo studio sono stati trattati con 5 mg totali una volta al
giorno per complessivi 7 giorni. In confronto ai soggetti
trattati con placebo, quelli che assumevano l’amitriptilina
hanno mostrato una riduzione della durata della pollachiuria, ma i segni clinici sono ricomparsi presto e con frequenza più alta, come è stato rilevato in occasione delle
visite di controllo a 6, 12 e 24 mesi dopo l’iniziale dimissione. Alcuni degli effetti negativi notati nei gatti trattati
con amitriptilina possono essere stati associati alla brusca
sospensione delle somministrazioni – la dose dell’amitriptilina va ridotta gradualmente per evitare la comparsa di
segni da astinenza.
I gatti del secondo studio sono stati trattati con 10 mg
di amitriptilina una volta al giorno per 7 giorni senza alcun vantaggio rispetto al placebo. Noi prendiamo in considerazione l’uso dell’amitriptilina solo per il trattamento
della cistite idiopatica cronica (ricorrente o persistente) in
cui altre terapie “standard” hanno fallito (educazione del
cliente riguardo all’alimentazione dell’animale ed alla gestione della cassetta delle deiezioni, riduzione dello stress
ed arricchimento dell’ambiente ed attuazione di metodi
volti ad aumentare l’assunzione d’acqua sono gli standard
nel nostro ospedale).
Nei pazienti umani con cistite interstiziale è stata utilizzata la terapia sostitutiva con glicosaminoglicano
(GAG), con una percentuale di successo nel 10-20% circa
dei pazienti. La terapia sostitutiva con GAG è stata studiata a causa delle anomalie osservate nella diminuzione
dell’escrezione dello stesso e nell’aumento della permeabilità vescicale nei gatti colpiti. Il presupposto su cui si
basa l’impiego di questo trattamento è che il GAG somministrato si fissa all’urotelio difettoso, diminuendo così
la permeabilità vescicale, anche se ci possono essere delle differenze nell’efficacia relativa fra i vari GAG nella
determinazione di questo effetto. Inoltre, i glicosaminoglicani sono in grado di esercitare azioni analgesiche ed
antinfiammatorie che possono risultare utili. Per nessuna
delle preparazioni a base di GAG per uso veterinario attualmente disponibili per il trattamento della cistite idiopatica è stata dimostrata l’efficacia. Sulla base dei riscontri effettuati nei pazienti umani con cistite idiopatica e
dell’assenza di un’efficacia dimostrata di ognuna delle
preparazioni contenenti GAG attualmente disponibili per
uso veterinario, non possiamo suggerire questo trattamento per la terapia di routine della cistite idiopatica. Se lo si
utilizza, è bene impiegare una forma in polvere che possa
essere aggiunta al cibo per evitare lo stress della somministrazione di prodotti per uso orale.
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Segni clinici
Recidivano
frequentemente o
persistono ?
Fase 4
Fase 3
Recidive dei segni
clinici?
+ Amitriptilina (?)
+ GAG (?)
+ Stress / Modificazione
comportamentale
+ Attenuare il dolore
Cistoscopia (?)
Ripetere l’analisi dell’urina
+ Feromoni facciali
+ Maggiore riduzione dello stress
+ Maggiore dinamica dell’assunzione
d’acqua
Ampliamento delle indagini di laboratorio:
Urocoltura
Radiografia con mezzo di contrasto
Ecografia
Dati minimi di base:
Analisi delle urine ed ecografia addominale
Fase 2
+ Dieta costante (Umida = MEGLIO)
+ Aumento dell’assunzione di acqua
+ Riduzione dello stress
Attesa “di guardia” - Risoluzione spontanea
Educazione del cliente - “Dal punto di vista del gatto”
Segni clinici
delle basse
vie urinarie
Gestione della cassetta delle deiezioni
Mancanza di odori/Struttura/ Spessore dello strato
Preferenze/Avversioni
Localizzazione/Ventilazione/Accesso al box
Aumento della frequenza delle pulizie
Pulizia ed eliminazione degli odori degli“Incidenti”
Anamnesi urinaria
(Periuria verticale o orizzontale? Minzione da irritazione?)
FIGURA 2 - Che cosa facciamo NOI? Approccio graduale al trattamento dei gatti con segni clinici riferibili ad interessamento idiopatico delle basse vie
urinarie. Quando i gatti non riescono a liberarsi spontaneamente delle manifestazioni iniziali e quando i segni clinici recidivano, è necessario effettuare un
maggior numero di indagini diagnostiche per assicurarsi che la diagnosi sia realmente rappresentata da una forma idiopatica della malattia. Prove cliniche correttamente controllate possono offrire un approccio migliore al trattamento in futuro, ma questo è ciò che si può fare nel frattempo.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dennis J. Chew, DVM, Professor
Department of Veterinary Clinical Sciences
College of Veterinary Medicine
The Ohio State University, 601 - Vernon L. Tharp St.
Columbus, Ohio 43210, USA
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Risultati studi epidemiologici
sulle cardiopatie congenite nel cane
David Chiavegato
Med Vet, Padova
Gruppo di studio sulle cardiopatie ereditarie del Boxer:
C. Bussadori, MD, DVM, Dipl.ECVIM (card) (coordinatore dello studio) – M. Borgarelli, DVM, Dipl.ECVIM (card)
G. D’Agnolo, DVM – F. Migliorini, DVM – C. Quintavalla, DVM, PhD – R. Santilli, DVM Dipl. ECVIM (card) – A. Zani, DVM
Prof P. Carnier, Prof L. Gallo, Dr E. Sturaro Dr L. Menegazzo (DVM - Dip. Scienze Zootecniche Università degli studi di Padova)
La razza boxer è considerata ad alta predisposizione per
le cardiopatie congenite.
Su 1136 cani di razza boxer tutti con età uguale o superiore a 1 anno, si è eseguita una valutazione clinica ed ecocardiografica seguendo le linee guida pubblicate sulla metodica in oggetto (C. Bussadori et al. J.V.C. vol. 2 n.2 Dic
2000). La valutazione prevedeva lo studio morfologico completo delle camere ventricolari con particolare attenzione ai
tratti di efflusso dei rispettivi ventricoli, alla radice aortica e
al tronco polmonare comune. Sono state eseguite le proiezioni parasternali destre, parasternali sinistre e sottoxifoidee
posizionando i soggetti nei rispettivi decubiti laterali.
In B mode si sono ottenute le misure volumetriche e
l’area della camera ventricolare sinistra in diastole ed in sistole, i rapporti dimensionali atrio sinistro aorta e le dimensioni dell’anulus valvolare aortico e dell’anulus valvolare polmonare.
Lo studio morfologico valvolare aortico ha permesso di
definire l’eventuale presenza di lesioni riferibili a processi a
carattere ostruttivo facendo riferimento alla classificazione
di Pyle-Paterson dove si riconoscono forme di grado 1 (nodulo sottovalvolare), grado 2 (ring sottovalvolare) e grado 3
(tipo tunnel). La classificazione della stenosi polmonare prevede la divisione in tipo A (da fusione dei lembi) e in tipo B
(ipoplasia dell’ostio).
In M mode, dalla parasternale destra asse corto si sono ottenute le misure del ventricolo sinistro ed applicando il sistema di Teicholz, la frazione di accorciamento e di eiezione.
La metodica Doppler ha permesso di valutare in modo
completo le condizioni flusso in aorta ed in polmonare.
Sono stati definiti affetti da stenosi subaortica tutti quei
soggetti che oltre a presentare una velocità di picco superiore
a 2 m /s presentavano turbolenza e lesione ostruttiva. La gravità della stenosi è stata classificata in lieve (< 50 mmHg),
moderata (fra 50 ed 80 mmHg) e grave (> 80 mmHg).
Sono stati definiti affetti da stenosi polmonare tutti quei
soggetti che oltre a presentare una velocità di picco superiore a 1,8 m/s presentavano turbolenza e lesione a carattere
ostruttivo. In base ai gradienti le stenosi polmonari sono state classificate in lieve (< 50 mmHg), moderata (fra 50 ed 80
mmHg) e grave (> 80 mmHg).
La prevalenza complessiva delle patologie congenite in
questa razza è risultata complessivamente attorno al 13%
(11% femmine, 16% maschi) con prevalenza delle stenosi
sottovalvolari aortiche (75% nelle femmine, 60% nei maschi). Il tipo 1 ed il tipo 2 di Pyle Paterson appaiono essere
le più rappresentate con prevalenza delle forme di grado lieve (38% nei maschi e 51% nelle femmine). Nelle stenosi
polmonari le più rappresentate appaiono essere il tipo A, anche in questo caso con una prevalenza delle forme di grado
lieve (7% nelle femmine e 19% nei maschi). Scarsamente
rappresentate appaiono le forme associate (stenosi aortica
con stenosi polmonare, 4% nelle femmine ed 8% nei maschi) e altre forme di cardiopatia congenita (le più frequenti appaiono il difetto interatriale e l’ernia peritoneo-pericardio diaframmatica).
Lo studio ha permesso inoltre di valutare parametri medi
di razza sia per quel che concerne lo studio morfologico che
per lo studio Doppler.
Indirizzo per la corrispondenza:
David Chiavegato
e-mail: [email protected]
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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Il ruolo dell’alimentazione sullo stato di salute
dell’orecchio del cane
Alessandro Ciorba
Med Vet, Perugia
Fausto Quintavalla, Ezio Bianchi, Med Vet, Sezione di Clinica Medica Veterinaria, Dipartimento di Salute Animale - Università di Parma
Stefano Guazzetti, ASL Reggio Emilia
INTRODUZIONE
Nel padiglione auricolare del cane si trovano numerose
ghiandole (sebacee ed apocrine modificate o ceruminose)
che producono il cerume: una mix di cheratinociti desquamati e pelo, particolarmente ricco in grassi. L’esame cromatografico dei lipidi presenti nel cerume di cane ha permesso
di evidenziarne la composizione: colesterolo (100%), esteri
del colesterolo (93,8%), acidi grassi liberi (93,8%), aldeidi
di acidi grassi (93,8%), cere (93,8%), trigliceridi (68,8%),
lecitina (56,3) e sfingomielina (18,8%).
Nell’orecchio del cane possono albergare numerosi microrganismi patogeni che, virulentandosi, possono dar luogo
a manifestazioni patologiche. Un esempio è rappresentato
dalla Malassezia pachydermatis, la quale è intimamente
adesa alle cellule dell’epitelio cornificato mediante i lipidi.
In vitro si è osservato come l’aggiunta di acidi grassi saturi
al medium di coltura non abbia effetti sulla crescita delle colonie di M. pachydermatis, mentre acido oleico e linoleico
mostrino una attività micostatica.
Scopo del presente lavoro è di valutare il ruolo svolto da
una alimentazione a base di pesce, con aggiunta di ananas e
ginseng, sull’orecchio di cane.
MATERIALI E METODI
Animali. Sono stati utilizzati per questo studio n. 29 cani di entrambi i sessi, di età e razze diverse, in buone di condizioni di salute apparente, ospitati presso il canile municipale di Parma da almeno 6 mesi ed alimentati con un mangime del commercio in formulazione secca.
I soggetti in questione, stabulati in box singoli, regolarmente vaccinati, sono stati suddivisi in due gruppi di pari
consistenza numerica; il gruppo A ha ricevuto una alimentazione con un mangime in crocchette del commercio, nella
cui formulazione compaiono pesci e sottoprodotti di pesci
oltre a gambo di ananas ed estratto secco di ginseng, il gruppo B invece ha mantenuto la precedente alimentazione, fungendo da gruppo controllo. Nel gruppo A l’introduzione del
nuovo alimento è stata effettuata gradatamente nell’arco di
quattro giorni.I cani sono stati alimentati una volta al giorno
alle dosi consigliate in rapporto al peso corporeo. L’acqua di
bevanda è stata fornita ad libitum
Test. Prima di procedere alla prova tutti gli animali sono stati sottoposti a visita clinica, compendiata da indagini di laboratorio e strumentali. In particolare ad ogni cane
è stato effettuato un prelievo ematico dalla vena cefalica
dell’avambraccio ed un esame otoscopico seguito da un
tampone auricolare.
La valutazione strumentale del condotto uditivo ha permesso di rilevare che tutti i cani in oggetto presentavano
membrane timpaniche integre. L’operatore, nell’ispezionare il canale auricolare poneva particolare attenzione all’eventuale presenza di infiammazione del padiglione e
del condotto, croste, ipercheratosi, cerume/essudati (quantità), proliferazioni tessutali, riportando tali parametri su
una apposita scheda clinica. Ciascun canale è stato fotografato nella porzione orizzontale ed identificato con un
numero progressivo.
È stato eseguito un tampone auricolare con lo scopo di
sottoporre ad esame citologico e microscopico il materiale
presente nel condotto orizzontale di ciascun orecchio Con
cadenza quindicinale per 4 volte si è proceduto ad effettuare
su tutti i cani il controllo ematologico, l’esame otoscopico
ed i tamponi auricolari di ciascun orecchio, oltre a valutare
il peso corporeo.
Analisi statistica. I dati ottenuti sono stati elaborati statisticamente mediante analisi della varianza (ANOVA) secondo il metodo SAS.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Le otiti esterne costituiscono un importante capitolo nella clinica degli animali da compagnia, sia per la loro incidenza (oscillante tra il 5 ed il 20% dei cani) sia per le difficoltà terapeutiche e di gestione del paziente.
Il più comune problema sottostante in grado di scatenare
un’otite è una patologia allergica, in particolare un’allergia
ed un’intolleranza alimentare. In taluni casi, le otiti ricorrenti possono essere le sole manifestazioni cliniche di una allergopatia L’otite esterna, associata a prurito e compatibile
con una situazione di allergia alimentare, risponde rapidamente alla somministrazione di diete ipoallergeniche, in particolare se si apporta un’adeguata integrazione con acidi
grassi essenziali. In seguito a flogosi aumenta la secrezione
di cerume. Esso non sembra possedere un’attività antibatte-
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rica nei pazienti con otiti ricorrenti rispetto a quelli sani, ne
esisterebbe correlazione tra colore del cerume e microrganismi isolati dal canale auricolare esterno. È noto che la media
dei lipidi contenuti nel cerume di cani con malattie auricolari è significativamente più bassa (media 24,4%, range 4,369,6%) rispetto a quella di cani sani Tuttavia, nonostante M.
pachydermatis prediliga il canale auricolare di cani con cerume ricco di lipidi, la sua crescita dipende strettamente dalla razza canina.
I fattori dietetici giocano un ruolo particolarmente significativo nel mantenimento dello stato di salute della cute e
del mantello. In particolare alcuni nutrienti svolgono un’azione determinante sulle patologie a componente allergica e
la bibliografia mondiale è sempre più ricca di informazioni
in tal senso, specialmente sul possibile ruolo protettivo svolto da alcuni nutrienti, come lipidi, vitamine e minerali.
Il mangime impiegato nei cani appartenenti al gruppo A ha
permesso di osservare positive modificazioni cliniche nel tempo, che sottolineano il ruolo antinfiammatorio dei componenti
nutrizionali presenti nella dieta ad essi somministrata rispetto
alla formulazione B utilizzata nel gruppo di controllo.
Il pesce, costituente principale della dieta A, rappresenta
una fonte alimentare nobile, ricca di vitamina B12, fosforo,
selenio e acidi grassi polinsaturi (PUFA) omega-3. Questi
ultimi hanno un ruolo strutturale nelle membrane cellulari
agendo come precursori per eicosanoidi, come le prostaglandine ed i leucotrieni, e sono fondamentali nel mantenimento di un’adeguata funzionalità cutanea.
L’acido linoleico (omega-6), di cui sono ricchi molti oli di
semi, come precursore dell’acido arachidonico, possiede azione promovente la sintesi delle prostaglandine E, mentre l’acido eicosapentaenoico (EPA) e in misura minore l’acido docosoesanoico (DHA) contenuti negli oli di pesci grassi (sardine,
sgombro, tonno, salmone) la inibiscono. L’aumentata sintesi di
PGE2 promuoverebbe a sua volta la formazione di IgE e, in definitiva, un orientamento metabolico in senso proallergico.
Oltre ai lipidi alcuni micronutrienti, ed in particolare la
vitamina C, la vitamina E ed il selenio, sono in grado di svolgere un’azione positiva su alcune situazioni patologiche di
natura allergica. Questi nutrienti sono ben rappresentati in
altri due componenti presenti nella formulazione impiegata
nel gruppo A: l’ananas ed il ginseng.
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L’ananas contiene flavonoidi e vitamina C, ad elevata
proprietà antiossidante, che si oppongono agli effetti legati
allo stress ossidativo.
L’acido ascorbico (vitamina C) è considerato il più importante antiossidante presente nei fluidi cellulari, mentre
l’a-tocoferolo è l’antiossidante liposolubile predominante in
tessuti, plasma e lipoproteine a bassa densità (LDL).I flavonoidi sono presenti virtualmente in ogni alimento di origine
vegetale. Essi posseggono attività biologiche multiple, compresi effetti vasodilatatori, antitumorali, antinfiammatori,
antibatterici, antiallergici, antivirali, estrogenici e di stimolazione del sistema immunitario. In particolare sono in grado
di inibire l’attività degli enzimi proossidanti lipossigenasi e
ciclossigenasi, la fosfolipasi A2 (di cui è ben noto il ruolo nel
processo infiammatorio), la glutatione reduttasi e la xantina
ossidasi, le proteinchinasi, la succinossidasi e la NADH-ossidasi mitocondriali.
Il ginseng, somministrato in polvere per via orale, è sempre stato utilizzato empiricamente per prevenire le patologie
cerebrovascolari. Recentemente è stato dimostrato che le
proprietà farmacologiche spettano al principale ingrediente
della radice di ginseng, il ginsenoside Rb 1.Il ginseng, somministrato per via orale, sarebbe inoltre in grado di accelerare la rigenerazione epatica.
Il presente studio dimostra come la dieta possa influenzare colore e quantità di cerume presente nel canale
auricolare, agendo, in particolare modo, sulla secrezione
sebacea del cane ed in particolare sugli esteri del colesterolo ed i trigliceridi.
Nella prevenzione delle otiti nel cane riveste particolare
importanza un corretto apporto alimentare, a motivo della
sua influenza sulla produzione del cerume, che può minimizzare la risposta flogistica ed opporsi ad un cambiamento
dell’ambiente auricolare, che può favorire lo sviluppo di lieviti e batteri patogeni.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fausto Quintavalla
Università di Parma
Via del taglio,8 (Pr)
e-mail: [email protected]
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Alterazioni dei movimenti involontari negli animali:
anche il cane e il gatto hanno il Parkinson?
Esempi delle discinesie più frequenti nei piccoli animali
Sigitas Cizinauskas
Dr Med Vet, Dipl ECVN, Helsinki, Finlandia
I disordini del movimento sono condizioni che si manifestano con anomalie della posizione e del movimento e si
distinguono in sindromi negative (acinetiche) e positive
(ipercinetiche). I disordini negativi del movimento sono rappresentati da paresi, paralisi, cataplessia e sindromi acinetico-rigide (ad es., il Parkinsonismo nell’uomo). I disordini
negativi non verranno ulteriormente trattati in questa sede.
I disordini positivi sono rappresentati da crisi convulsive, maneggio, camminamento compulsivo e movimenti involontari. Questi ultimi, come il tremore, le mioclonie, il tetano, la tetania, la spasticità, la miotonia e gli spasmi muscolari saranno l’argomento delle due relazioni. Verrà posta
particolare attenzione al tremore, dal momento che costituisce il più frequente disordine da movimento involontario
nei piccoli animali.
Il tremore è un movimento involontario, ritmico ed
oscillatorio, di tutto l’organismo o di alcune sue parti. È la
conseguenza di una contrazione alternata o sincrona di muscoli antagonisti reciprocamente innervati. Una caratteristica costante del tremore è che cessa con il sonno. La sua
origine può essere a livello del sistema nervoso centrale e
periferico. In medicina veterinaria sono stati suggeriti differenti schemi di classificazione di questa manifestazione,
ma nessuno di essi è accettato universalmente. Le sindromi
caratterizzate dal tremore possono essere distinte in base
alla presentazione clinica, al momento in cui si verificano
ed all’eziologia.
La classificazione secondo la presentazione clinica è basata principalmente sul fatto che il tumore sia localizzato o
meno in un’area dell’organismo (focale, arti o testa) oppure
sia generalizzata. Il tremore focale spesso indica un’anomalia regionale nel sistema nervoso centrale.
Il sistema di classificazione basato sul momento in cui
si verifica il tremore permette di distinguere le manifestazioni a riposo, intenzionali e da azione. Il tremore a riposo è comune nell’uomo (Parkinsonismo) e viene descritto
negli animali (ma è raro). Il tremore intenzionale implica
che il problema si verifichi quando il paziente intende
muoversi. Si osserva spesso sotto forma di un fine tremore
della testa e può essere meglio dimostrato quando l’animale cerca di mangiare o bere. Di solito è causato da patologie cerebellari nel cane e nel gatto. In confronto al tremore intenzionale, quello da azione si ha quando determinate parti del corpo vengono mantenute attivamente in certe posizioni e può essere accentuato quando è necessaria
una maggior precisione dei movimenti. Questo tipo di tremore è raro negli animali.
Il tremore può essere distinto in fisiologico, patologico
ed essenziale, a seconda della sua eziologia. Questo tipo di
classificazione è quello preferito dall’autore ed è il più importante ai fini clinici. Il tremore indotto fisiologicamente è
causato da ipotermia, freddo, dolore, desiderio intenso, paura, eccitazione e sfinimento. In questi casi, il problema
scompare con il riposo o in seguito alla correzione della causa sottostante. Il tremore fisiologico è solitamente di ampiezza minore e non influisce significativamente sulle prestazioni dell’animale. Nei soggetti che ne sono colpiti l’esame neurologico è solitamente normale; questo tipo di tremore si osserva raramente nella pratica clinica quotidiana dal
momento che in genere è autolimitante.
Al contrario, il tremore patologico è causato da una malattia sottostante e di solito compromette il normale rendimento del paziente. L’esame neurologico di questi animali in
genere evidenzia delle alterazioni Le malattie che si manifestano con maggiore frequenza con il tremore patologico nel
cane e nel gatto sono le encefalopatie infiammatorie (ad es.,
white shaker syndrome), le cerebellopatie varie (ad es. panleucopenia felina, infezione virale), i disordini da demielinizzazione (solitamente rappresentati da malattie ereditarie),
le condizioni metaboliche (ad es. ipocalcemia, ipoglicemia)
e le intossicazioni (ad es. metronidazolo).
Il tremore essenziale viene diagnosticato con relativa frequenza nel cane. Si può verificare in giovane età, ma di solito si osserva negli animali più anziani. Di solito è focale
(ad es., a carico degli arti posteriori o della testa), ma può essere generalizzato ed in genere non influisce significativamente sulla vita quotidiana del paziente. Nei soggetti che ne
sono colpiti l’esame neurologico e l’indagine clinica sono
normali o negativi. È possibile che questa forma di tremore
sia ereditaria nel cane, dal momento che si osserva spesso in
alcune razze specifiche (Jack Russel terrier, fox terrier,
Leonberger). Il tremore focale della testa è stato osservato in
dobermann e bulldog. Il tremore essenziale viene talvolta
trattato con il fenobarbital, con vari gradi di successo.
Il tremore può essere associato, o confuso, con una gran
varietà di segni clinici, quali mioclonie, tetania, debolezza,
miotonia, crisi convulsive ed altri movimenti apparentemente involontari. Di conseguenza, viene presentata una breve
descrizione dei fenomeni citati.
Col termine di mioclonia si indica una contrazione ritmica o ripetitiva di un muscolo o di un gruppo di muscoli.
La mioclonia è spesso limitata ad un’area, ma si può presentare in modo sincrono o asincrono in più aree. La sua origine è nel sistema nervoso centrale e nel cane deriva solita-
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mente dal midollo spinale. Teoricamente, qualsiasi affezione
di quest’ultimo è in grado di causare una mioclonia. Quella
riscontrata con maggiore frequenza è la mielite da cimurro.
La spasticità è un aumento del tono muscolare ed è
spesso associata al danneggiamento dei motoneuroni superiori. Un esempio del grado estremo di questa condizione è la rigidità da decerebrazione.
Il crampo dello scottish (anche crampo del Norwich)
è una malattia in cui si ha un aumento del tono muscolare. Gli episodi patologici vengono scatenati da esercizio,
paura, eccitazione o alcuni farmaci. Si ritiene che la causa sia rappresentata da un’alterazione ereditaria del metabolismo della serotonina, dal momento che i segni clinici vengono aggravati dalla somministrazione di agenti
che riducono i livelli della stessa nel sistema nervoso
centrale. I farmaci che aumentano i livelli della serotonina, come gli inibitori della monoaminossidasi, hanno invece un effetto benefico.
La miotonia è una contrazione prolungata dei muscoli causata da un difetto primario della membrana muscolare. In questa
condizione il difetto è in un abbassamento della permeabilità
della membrana muscolare al cloro ed al sodio. Uno dei caratteristici segni clinici è la contrazione prolungata di piccoli gruppi
di fibre muscolari suscitata dallo stimolo. L’esame neurologico
nei pazienti con miotonia è spesso normale, fatta eccezione per
l’andatura rigida e le prolungate contrazioni dei muscoli.
Negli animali sono state descritte forme congenite (condizione ereditaria in parecchie razze di cani) ed a acquisite
(secondarie a miosite o iperadrenocorticismo). I cani con
miotonia ereditaria possono condurre una vita ragionevole.
Per garantire loro un certo sollievo sono stati utilizzati i farmaci in grado di stabilizzare la membrana cellulare (procainamide). Nei pazienti con sindrome di Cushing le alterazioni miopatiche si verificano dopo la poliuria, la polidipsia e le
modificazioni cutanee. I segni clinici migliorano drasticamente con la terapia appropriata per l’iperadrenocorticismo.
Algoritmo diagnostico per un paziente affetto da tremore
Anamnesi del tremore
Esame clinico/ortopedico
Ipotermia, freddo, dolore, desiderio intenso, paura, eccitazione, sfinimento?
Sì
No
Esame neurologico
Normale
Anormale
Analisi del sangue e dell’urina
Normale
Tremore fisiologico
Anormale
Tremore essenziale-idiopatico
Normale
Tremore patologico
Malattia neurologica
Indagine diagnostica
Correzione del
problema diagnosticato
Terapia sintomatica
Correzione del
problema metabolico
Terapia della malattia
diagnosticata
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Il tetano o tetania è uno stato di prolungata contrazione
muscolare senza periodi di rilassamento, causato da ripetute
stimolazioni del tronco nervoso motorio a frequenze così
elevate che i singoli spasmi muscolari si fondono e non possono più essere distinti l’uno dall’altro. Può essere causato
da processi patologici localizzati nel sistema nervoso centrale (tossina di Clostridium tetani) o in quello periferico (ipocalcemia o ipomagnesemia).
Il tetano è causato dalla tetanospasmina, la neurotossina
di Clostridium tetani. Questa tossina viene prodotta nell’organismo durante la fase di crescita vegetativa di C. tetani.
L’introduzione di spore nell’organismo ospite avviene attraverso lesioni penetranti o ferite, comprese quelle operatorie.
I piccoli animali sono 7200 volte più resistenti del cavallo all’azione della tetanospasmina. Questa resistenza viene spiegata con l’incapacità della tossina di raggiungere il tessuto
nervoso e legarsi ad esso. La tetanospasmina viene dapprima
prodotta nella ferita, in seguito penetra nell’assone più vicino attraverso la placca motrice neuromuscolare e, con l’aiuto del trasporto retrogrado, raggiunge il midollo spinale. Qui
diffonde ed infine giunge all’encefalo. La modalità d’azione
della tetanospasmina nel SNC è duplice: si lega alle cellule
neuronali ed alle proteine di trasporto e blocca il rilascio di
neurotrasmettitori (glicina ed acido aminobutirrico-GABA)
degli interneuroni inibitori. Il legame della tossina tetanica ai
siti presinaptici dei neuroni inibitori è irreversibile. La guarigione dal tetano avviene dopo la gemmazione di nuovi assoni terminali, che è un processo lento.
I segni clinici di solito compaiono dopo 5-10 giorni dal
trauma. Le ferite situate più vicino al SNC sono associate ad
una più rapida insorgenza delle manifestazioni cliniche. Il tetano può essere localizzato o generalizzato. Il primo si osserva nella maggior parte dei casi nei gatti e nei cani e in altri animali domestici. Si può riscontrare un aumento della rigidità di
un muscolo o di un gruppo muscolare o dell’intero arto. Le
manifestazioni localizzate possono generalizzare lentamente,
dapprima interessando l’estremità opposta ed in seguito estendendosi all’intero organismo. Gli animali con tetano generalizzato di solito camminano con un’andatura rigida o si trovano in decubito laterale, con iperestensione di tutte e quattro le
estremità ed incapacità di rimanere in stazione. Protrusione
della terza palpebra, enoftalmo, orecchie ritte, labbra tirate all’indietro (risus sardonicus), rigidità dei muscoli facciali e
masticatori, trisma, aumento della salivazione e disfagia sono
le alterazioni più comunemente osservate nella regione della
testa. Possono essere presenti spasmi muscolari intensi e dolorosi scatenati da stimoli tattili ed uditivi. I pazienti di solito
restano coscienti e cercano di mangiare, ma la rigidità della
mandibola rende l’operazione impossibile. Il grave tetano generalizzato può terminare nella morte dopo che si è verificata
la paralisi completa dei muscoli respiratori o quando l’eccitazione sfocia in uno stato convulsivo.
La diagnosi del tetano generalizzato di solito viene formulata puramente su basi cliniche. La tipica rigidità generalizzata associata all’anamnesi di una ferita recente rappresentano i principali indizi che giustificano il sospetto. I parametri ematologici ed il profilo biochimico sono di solito
normali, fatta eccezione per un possibile aumento degli enzimi muscolari. Nei casi in cui si nota la presenza di rigurgito e/o vomito è indicato l’esame radiografico del torace, che
93
può rivelare una dilatazione esofagea e/o una polmonite ab
ingestis. Con l’elettromiografia (EMG) si osservano scariche
persistenti dell’unità motoria. I risultati delle biopsie muscolari e nervose, così come l’analisi del liquor, sono normali.
L’isolamento di C. tetani dalle ferite è di solito molto difficile. Nei casi di tetano localizzato può essere utile la misurazione dei titoli sierici degli anticorpi anti-tossina tetanica.
Negli animali gravemente colpiti in genere è necessaria
una terapia prolungata con ospedalizzazione, per cui il trattamento richiede tempo e risulta costoso. Per neutralizzare la
tossina non ancora legata, l’autore utilizza di solito l’antitossina, cioè il siero equino antitetanico. Inizialmente, si effettua un’iniezione sottocutanea di prova di 0,1 ml di antitossina. Se non si notano reazioni indesiderate dopo mezz’ora, si
inietta SC o IM la dose di 1000 U/kg di peso corporeo. Le
ferite vengono sottoposte ad un’energica revisione chirurgica e il tessuto necrotico viene rimosso in anestesia generale.
Può risultare utile il lavaggio della ferita con perossido di
idrogeno. Si avvia l’antibioticoterapia paraenterale con penicillina G (20000-100000 U/kg BID) e metronidazolo (20
mg/kg BID) al fine di uccidere tutte le forme vegetative dei
batteri che producono la tossina. Per controllare l’ipereccitabilità si utilizzano, in funzione della necessità, sedativi come
le fenotiazine (clorpromazina, acetilpromazina), miorilassanti (derivati benzodiazepinici) e barbiturici. Negli animali
gravemente colpiti sono estremamente importanti le cure infermieristiche intensive. Le possibili complicazioni sono
rappresentate da polmonite ab ingestis, ernia iatale esofagea,
decubito, sepsi, fratture di ossa lunghe durante spasmi muscolari improvvisi e ritenzione di urina e feci. Benché il trattamento del tetano richieda molto tempo e sia costoso, la
malattia è di solito autolimitante e la prognosi per i cani e i
gatti colpiti è generalmente buona.
Gli spasmi muscolari sono solitamente definiti come segni di rigidità ed estensione degli arti nonché come dolore e
tumefazione dei muscoli. La causa più comune di spasmo muscolare è la miopatia da sforzo, che si osserva spesso negli animali utilizzati come atleti (levrieri da corsa), in quelli da lavoro (cavalli e cani) o in quelli selvatici appena catturati. Si ritiene che la miopatia da sforzo sia causata da acidosi metabolica del muscolo, ischemia locale, necrosi delle cellule muscolari e mioglobinuria. Quest’ultima può essere causa di nefropatia ed insufficienza renale. Il trattamento prevede la somministrazione di fluidi per via endovenosa (per mantenere la
funzione renale), correzione dell’acidosi e riposo.
Letture consigliate
Movement disorders. In: Office practice of neurology, 2nd edition, 2003.
Ed: Samuels MA, Feske SK. Churchill Livingstone.
Disorders of involuntary movement. In: Handbook of veterinary neurology,
3rd edition, 1997. Ed: Oliver JE, Lorenz MD, Kornegay JN, WB
Saunders Company.
Tremor syndromes in dogs: diagnosis and treatment. Journal of small animal practice, 1991, 33, 485-490.
Indirizzo per la corrispondenza:
Sigitas Cizinauskas, Neurology Service
Department of Clinical Veterinary Sciences
P.O. Box 57 (Hämeentie 57)
00014 University of Helsinki
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Riconoscere la debolezza neuromuscolare
nel cane e nel gatto
Approccio diagnostico al paziente
con debolezza generalizzata
Sigitas Cizinauskas
Dr Med Vet, Dipl ECVN, Helsinki, Finlandia
SCHEMA GENERALE DI INDAGINE PER IL PAZIENTE CON DEBOLEZZA GENERALIZZATA
PAZIENTE
Anamnesi
Anormale
Esame clinico generale
Normale
Problema non neurologici
Anormale
Esame ortopedico
Normale
Problema ortopedico
Normale
Esame neurologico
Problema non neurologico
Anormale
Problema neurologico
LOCALIZZAZIONE DELLA LESIONE NEUROLOGICA
IDENTIFICAZIONE DEL PROBLEMA DEL PAZIENTE
RISPONDERE A 3 DOMANDE:
SI
1. MONOPARESI?
NO
2. DIMINUZIONE
GENERALIZZATA
DEI RIFLESSI SPINALI?
Sistema nervoso periferico
SI
Sistema nervoso periferico
1. radici dei nervi
2. nervi
3. giunzione neuromuscolare
4. muscolo
3. ANOMALIE DEI NERVI
CRANICI?
NO
Midollo spinale
SI
Encefalo
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Malattie che causano polineuropatie (comprese le radici dei nervi)
nei piccoli animali
V ascolari
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Malattie che causano polimiopatie nei piccoli animali
V ascolari
neuromiopatia ischemica (tromboembolizzazione
secondaria a miocardiopatia o trauma)
I nfiammatorie
polimiosite idiopatica
neosporosi
toxoplasmosi
lupus eritematoso sistemico -polimiosite
dermatomiosite del Collie
Leptospira icterohaemorrhagiae
Clostridium spp.
Hepatozoon canis
neuromiopatia ischemica (tromboembolizzazione
secondaria a miocardiopatia o trauma)
I nfiammatorie
poliradicoloneurite acuta (paralisi da procione o
del Coonhound)
poliradicoloneurite cronica recidivante
neosporosi
toxoplasmosi
T raumatiche
-
A nomalie
-
T raumatiche
-
M etaboliche
polineuropatia ipotiroidea
polineuropatia ipoglicemica
neuropatia diabetica
iperchilomicronemia nel gatto
iperossaluria nel gatto
polineuropatia indotta da vincristina
polineuropatia indotta da Tallio
polineuropatia da intossicazione cronica da organofosforici
A nomalie
-
M etaboliche
iperadrenocorticismo (miopatia da steroidi)
ipotiroidismo (cane)
miopatia ipertiroidea (gatto)
ipokalemia
iperkalemia
ipertermia maligna
miopatia da sforzo
miopatia ipernatremica
miopatie mitocondriali
miopatia da carenza di vitamina E
miopatia da carenza di selenio
I diopatiche
-
N eoplastiche
miosite paraneoplastica (carcinoma broncogeno,
leucemia mieloide, carcinoma tonsillare)
D egenerative
distrofia musculare (devon Rex, golden retriever,
Irish terrier, samoiedo, rottweiler, schnauzer nano,
Welsh corgi,gatti)
miopatia ereditaria del Labrador retriever
miopatia miotonica (chow, Staffordshire terrier,
alano, Rhodesian ridgeback, gatti)
Malattie da accumulo di glicogeno (razze toy, pastore tedesco, Akita, lapland svedese, gatto norvegese delle foreste, english springer spaniel)
Miopatia da nemalina nel gatto
Miopatia del core centrale nell’alano
Miopatia degenerativa del bovaro delle Fiandre
I diopatiche
disautonomia
N eoplastiche
polineuropatia paraneoplastica (carcinoma broncogeno, adenocarcinoma mammario, melanoma
maligno, osteosarcoma, adenocarcinoma tiroideo,
mastocitoma)
D egenerative
Atrofia muscolare spinale (Laplands, Brittany spaniels, pointer inglese, incroci di razze giganti, pastore tedesco, rottweiler, Cairn terrier)
Neuropatia assonale gigante (pastore tedesco)
Neuropatia sensoriale (boxer, bassotto a pelo lungo, Jack Russell terrier, pointer inglese, rough collie, huskie)
Neuropatia ipertrofica (mastiff tibetano)
Leucodistrofia globoide (Cairn terrier, West Highland white terrier, gatti)
Sfingomielinosi (gatti siamesi)
Polineuropatia sensoriomotoria distale (rottweiler)
Polineuropatia distale (gatti birmani)
Malattia da accumulo di glicogeno di tipo IV (gatto norvegese delle foreste)
Neuropatia ipomielinizzante congenita (Golden retriever)
Letture consigliate
Malattie che causano giunzionopatie (affezioni della giunzione neuromuscolare) nei piccoli animali
V ascolari
-
I nfiammatorie
myasthenia gravis acquisita
T raumatiche
-
A nomalie
myasthenia gravis ereditaria
M etaboliche
botulismo
paralisi da zecche
I diopatiche
-
N eoplastiche
sindrome da myasthenia gravis paraneoplastica (timoma)
D egenerative
-
Tetraparesis, hemiparesis and ataxia. In: Handbook of veterinary neurology,
3rd edition, 1997. Ed: Oliver JE, Lorenz MD, Kornegay JN, WB
Saunders Company.
Degenerative causes of neuropathies in dogs and cats. 1996. Braund KG,
Vet Med., 722-739.
Endogenous causes of neuropathies in dogs and cats. 1996. Braund KG, Vet
Med., 740-754.
Idiopathic and exogenous causes of neuropathies in dogs and cats. 1996.
Braund KG, Vet Med., 755-769.
Degenerative causes of myopathies in dogs and cats. 1997. Braund KG, Vet
Med., 608-617.
Endogenous causes of myopathies in dogs and cats. 1997. Braund KG, Vet
Med., 618-628.
Idiopathic and exogenous causes of myopathies in dogs and cats. 1997.
Braund KG, Vet Med., 629-634.
Indirizzo per la corrispondenza:
Sigitas Cizinauskas, Neurology Service
Department of Clinical Veterinary Sciences
P.O. Box 57 (Hämeentie 57), 00014 University of Helsinki
96
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Il veterinario come businessman
Fabrice Clerfeuille
Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia
Allo stato attuale, la sfida lanciata alle cliniche veterinarie è quella dell’eccellenza, in particolare nella ricerca e
nella conquista di nuovi mercati che corrispondano alle moderne aspettative dei clienti. Ormai, nella pratica professionale quotidiana il clinico deve venire a patti con questa nuova situazione, in modo da soddisfare la volontà dei clienti di
scegliere con completa cognizione di causa un prodotto o
un servizio con il miglior rapporto qualità/prezzo: da passivi, i clienti sono diventati attivi.
In parallelo con questa evoluzione del comportamento,
l’ambiente veterinario è in pieno cambiamento: vi sono difficoltà economiche, maggior concorrenza, nascita rapida di
tecnologie o un aumento della tendenza a specializzarsi.
Di fronte a questo marasma, il veterinario deve aggiungere un aspetto alla sua Arte: quella di imprenditore (nel senso più ampio del termine, non soltanto dal punto di vista finanziario). Egli ha l’obbligo di considerare la sua clinica come un’impresa a tutto campo, sviluppando una relazione valida tra gli obiettivi e le risorse della struttura da un lato e le
aspettative dei clienti dall’altro.
Lo scopo di questa presentazione sarà illustrare i diversi
piani di riflessione che il veterinario deve imporsi di considerare nel corso della sua professione.
INTERMEDIARI
AMBIENTE
TECNOLOGICO
E
N
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DEMOGRAFICO
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ECONOMICO
ARCHITETTURA
CLIENTI
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LEGALE
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FORNITORI
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CONCORRENZA
AMBIENTE
SOCIOCULTURALE
FIGURA 1 - La clinica, un’impresa a tutto campo.
Adattato da “Marketing Management”, di Kotler e Dubois.
Partendo dai clienti, a questi sono rivolte cinque funzioni della clinica: l’architettura, le risorse materiali, le
risorse umane, le finanze ed il marketing. Si parla di
“ambiente interno”, che corrisponde alla Clinica stessa.
Quest’ultima si può evolvere soltanto in un contesto,
l’ambiente esterno, che deve essere considerato dal veterinario tendendo conto dei pericoli e delle opportunità
che si presentano.
L’ambiente esterno è costituito da un ambiente esterno
vicino, formato dalle attività offerte ai clienti (farmacie,
negozi di articoli per animali, toelettature, ecc..), i fornitori, la pubblicità ed i colleghi vicini e da un ambiente esterno ampio, costituito dall’ambiente tecnologico, l’ambiente demografico ed economico, l’ambiente socioculturale e
l’ambiente legale.
L’autore intende analizzare ciò che comporta ciascuno di
questi settori in tre parti: l’ambiente interno, l’ambiente
esterno vicino e l’ambiente esterno ampio.
I. AMBIENTE INTERNO
I clienti non sono soltanto la ragion d’essere del veterinario, ma hanno anche nelle loro mani l’avvenire delle
nostre cliniche. Tutti gli sforzi della Clinica devono essere concentrati su di loro, sicuramente dal punto di vista
tecnico, nell’accezione più completa dell’esercizio veterinario, ma anche grazie alla conoscenza delle loro aspettative. I clienti scelgono una Clinica in funzione delle competenze sviluppate, ma anche e soprattutto dall’insieme
della prestazione eseguita, dal modo con cui è stata svolta,
dal loro arrivo alla Clinica sino all’uscita. Affinché questa
prestazione sia percepita dal cliente nel modo migliore
possibile, sono importanti cinque aspetti della Clinica:
l’architettura, le risorse umane, le finanze, le risorse materiali ed il marketing.
A - L’architettura
I locali rappresentano il primo contatto del cliente con
la clinica (parcheggio, aspetto esteriore dell’edificio e spazi interni). Come si può pensare di offrire un servizio di
qualità se la prima impressione per il cliente è sgradevole:
parcheggio disseminato di cartacce, piante verdi morenti,
vernici scrostare sui muri, ecc..? Queste caratteristiche riflettono certamente la cura funzionale della struttura da
parte delle persone che vi lavorano, una buona manutenzione esterna comporta una valida organizzazione che implica un servizio di qualità.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
B - Le risorse umane
Se i locali rappresentano il primo contatto del cliente
con la Clinica, il personale di quest’ultima è altrettanto importante (Assistenti e Veterinari). La validità di una gestione rigorosa delle risorse umane si esprime non solo nel peso che ha il personale nella percezione della qualità da parte del cliente della Clinica, ma anche dal suo costo per la
struttura. Mentre la qualità delle prestazioni è favorita dalla
presenza di un numero ingente di collaboratori, la salute finanziaria di una Clinica, al contrario, è rafforzata in primo
luogo dalla presenza di un personale numericamente limitato. Si vedrà che occorre trovare un compromesso per mezzo di tecniche di motivazione, che consentano nello stesso
tempo di soddisfare al meglio i clienti senza pesare sulla
redditività della Clinica.
C - Le finanze
Vero motore dell’impresa, le finanze devono essere controllate, nei periodi lucrosi come in quelli difficili. Alla velocità con cui si verificano le trasformazioni nella nostra professione, un buon veterinario, fra dieci anni, non potrà essere
un cattivo imprenditore. A pari livello di competenze, due veterinari differiscono per le loro scelte strategiche in termini finanziari. Gli investimenti attuali (in quale settore?, per quale
tipo di materiale?, si deve assumere un altro assistente?, Specializzarsi?, ecc..) ed il modo con cui vengono finanziati
(fondi propri, prestiti bancari, leasing) rappresentano altrettante problematiche correnti. Il veterinario imprenditore deve
fare la diagnosi della sua Clinica, stabilire una strategia ragionevole e formulare delle previsioni.
D - Le risorse materiali
Comprendono tutti gli strumenti utilizzati per l’esercizio
della professione, dal mobilio della sala d’attesa agli apparecchi per la diagnostica, passando per l’informatica, mezzo
di gestione indispensabile. Vanno analizzati due grandi settori d’investimento: le risorse materiali a contatto con il
cliente e le risorse materiali necessarie alla pratica medica e
chirurgica. L’evoluzione delle tecnologie impone degli investimenti regolari, resi possibili da una gestione sana e da
strategie di investimenti pianificati a medio e lungo termine.
E - Il marketing
Il marketing è l’interfaccia fra la Clinica ed i suoi clienti e
la funzione che consente di collegare gli altri aspetti dell’impresa (Fig. 2). Come investire in materiale senza presentarlo
ai clienti? Come motivare la propria squadra senza una cultura d’impresa? Come sviluppare dei servizi senza strategia?
Come esercitare senza capire che si vende un prodotto o un
servizio diverso ogni 15 minuti? Come acquistare, produrre,
trasformare, vendere, consigliare, rassicurare, comunicare con
la pretesa di non fare del marketing? Che lo si voglia o no, un
veterinario, attraverso la sua professione, fa del marketing.
Deve soltanto integrarlo come componente necessaria al buon
funzionamento della sua impresa e svilupparla per il maggior
bene dei suoi clienti e della sua clinica.
Per definire la strategia globale della Clinica, entrano in
gioco altri elementi, quelli presenti in ciò che si definisce
ambiente esterno, formato da due livelli di contatto con la
Clinica: l’ambiente esterno vicino e quello esterno ampio.
97
RISORSE
UMANE
ARCHITETTURA
MARKETING
FINANZE
RISORSE
MATERIALI
FIGURA 2 - Il marketing, interfaccia fra i clienti e le altre funzioni dell’impresa.
II. AMBIENTE ESTERNO VICINO
Lo studio della sua attività necessita della presa in considerazione di quattro componenti: i fornitori, le altre attività
commerciali che riguardano il cliente, i colleghi vicini e la
pubblicità.
A - I fornitori
Rappresentati da Forniture all’ingrosso, laboratori farmaceutici e fabbricanti di materiale, consentono alla clinica
di offrire un valore aggiunto ai propri prodotti e servizi. Fatta eccezione per la rivendita dei farmaci, che non richiede alcun intervento di trasformazione, un gran numero di azioni
impone una scelta oculata dei fornitori.
Il compito del veterinario consiste infatti nel gestire in
modo ottimale le sue risorse (attrezzatura, scorte, ecc…), tenuto conto dei fabbisogni nel tempo a corto, medio e lungo
termine e secondo le opportunità che si presentano. Ha bisogno di conoscere, in qualità di imprenditore, la quantità di
prodotti che occorrono, la loro qualità, la reputazione dei
fornitori, il loro prezzo, i loro termini di consegna, le garanzie che offrono ed i diversi servizi proposti.
Nelle nostre cliniche, gli acquisti occupano uno spazio di
spesa sempre più ampio e lo studio ed il confronto tra fornitori hanno un valore inestimabile.
B - Gli altri servizi per il cliente
In particolare, si tratta dei farmacie, negozi di prodotti per
animali e saloni di toelettatura che devono essere analizzati
dal veterinario dal punto di vista dei prodotti distribuiti, dei
prezzi praticati e dei servizi offerti. Lo studio di queste tre variabili consente, per lo più, di distinguersi per la qualità dei
servizi basandosi su una concorrenza sana e sull’apporto di
clienti pronti ad acquistare un prodotto o un servizio a un valore superiore in ragione di un suo alto livello di qualità.
Sta al veterinario offrire questa qualità di servizio atteso
dai clienti!!
C - I colleghi
I colleghi vicini alla clinica possiedono lo stesso vostro
desiderio: servire un mercato di clienti, il più vasto possibile, fidelizzandoli. Ma è possibile che questi colleghi non abbiano la stessa vostra fascia di clientela, in ragione di un modo di esercitare diverso (solo o in società), dell’esistenza di
una specializzazione oppure no, d’un livello di prezzi più o
meno elevato, del parcheggio più o meno grande, dell’accesso alla clinica più o meno facile, ecc…
98
Nessun veterinario può offrire competenze così varie e
servizi così perfetti da soddisfare tutte le necessità dei clienti. Sta a ciascuno impostare la propria strategia per una fascia
di clientela, cercando tuttavia di non avere lo stesso obiettivo
del collega più vicino… sarebbe veramente rovinoso!
D - La pubblicità
Viene definita come gli elementi che hanno un impatto
reale o potenziale sulla capacità della clinica di aumentare il
suo “mercato di clienti”. Dato che la sola pubblicità autorizzata dal Codice Deontologico è il passaparola della clientela, i vari gruppi (Organismi di Protezione Animale, allevatori, club di selezione di razze, club di allevamento di cani da
utilità, ecc…) assumono un’importanza crescente nella pubblicità di questa o quella clinica. E va anche definita una
strategia nei confronti di questi clienti in termini di prezzi o
di servizi per evitare ogni errore o scivolone inopportuno,
poiché deve essere sistematicamente privilegiata l’etica professionale.
Sono stati presentati i vari settori della clinica (l’ambiente interno, formato dai clienti, dall’architettura, dalle risorse
umane, dalle finanze, dalle risorse materiali e dal marketing), il suo ambiente esterno vicino (fornitori, colleghi vicini e pubblicità): restano da illustrare i differenti settori dell’ambiente esterno ampio.
III. AMBIENTE ESTERNO AMPIO
Anche se il veterinario non ha influenza su questo macroambiente, si deve tenere informato sulle minacce e le
opportunità che vi si possono presentare, tenendo conto
delle influenze che esercitano sulla strategia sviluppata
dalla Clinica.
A - L’ambiente demografico ed economico fornirà
informazioni sul numero e la tipologia degli abitanti del comune e dei comuni circostanti. Le variazioni di questo ambiente possono indicare l’andamento che deve assumere il
nostro servizio (una popolazione prevalentemente costituita
da giovani non deve coincidere, per esempio, con una specializzazione di alto livello e molto onerosa).
B - L’ambiente tecnologico, che inevitabilmente progredisce ogni giorno, comporta che i veterinari si adeguino.
La tecnologia dà al cliente l’impressione che tutto sia possibile ai nostri giorni e un ritardo nei confronti di tecniche
usate dai nostri colleghi vicini (per esempio, ecografo o apparecchio per l’analisi dei campioni di sangue) impone un
adeguamento tra questa evoluzione e la sua pratica quotidiana. Anziché subirla a posteriori, è meglio anticiparla.
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Una clinica deve sforzarsi di seguire i progressi della tecnologia ed adottarli, se si rivelano fonti di sviluppo in servizi per i clienti.
C - L’ambiente socioculturale a livello nazionale, ma
anche e soprattutto a livello locale si ripercuote sulle aspettative dei clienti. Il cliente gestisce il proprio rapporto con il
suo animale secondo i suoi valori, che si riflettono sulle necessità espresse o meno nelle cliniche veterinarie. Questi valori possono essere diversi da una categoria socioprofessionale all’altra e l’importanza o lo sviluppo nel tempo di una
di queste può comportare notevoli modificazioni nelle richieste dei nostri clienti (si veda il caso della costruzione di
un immobile HLM [case popolari, n.d.t.], o di un lotto di lusso abitato da categorie socioprofessionali diverse, con valori ed aspettative diverse).
D - L’ambiente deontologico, infine, inquadra l’attività
professionale del veterinario, ricordando che questa si deve
conformare a regole rigorose. Infatti per alcuni può essere
grande la tentazione di lasciarsi andare verso degli eccessi a
detrimento dei clienti e dell’immagine professionale. Una
clinica è un’impresa a tutto campo, il veterinario deve essere un imprenditore, ma la sua condotta deve, in primo luogo,
rispondere ad un desiderio di etica che lo porti a privilegiare
sistematicamente la soluzione migliore per il cliente, prima
di ogni considerazione di carattere finanziario.
La nostra carrellata ha mirato a presentare la clinica veterinaria come un’impresa a tutto campo. Siamo convinti che
il veterinario deve essere un imprenditore per progredire nella sua professione. Ogni decisione, di qualsiasi natura essa
sia, (investimento, assunzione, sviluppo di un nuovo servizio, ecc…) deve essere riflettuta, argomentata ed appoggiarsi ad un piano strategico in due fasi:
- Studio dell’ambiente esterno: minacce ed opportunità:
- Studio dell’ambiente interno: forze e debolezze.
Lo studio di queste due fasi porta alla formulazione di
obiettivi, poi di scenari (vari modi di raggiungere questi
obiettivi), di una fase di valutazione (ogni metodo è analizzato in funzione delle ripercussioni sulla struttura in termini di organizzazione, di risorse finanziarie ed umane, per
arrivare a sceglierne uno) ed infine di una fase di ratifica e
controllo.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrice Clerfeuille
DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD
Marketing Professor University of Nantes
[email protected]
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99
Come suddividere la vostra clientela per adattare
i vostri sforzi alle loro aspettative
Fabrice Clerfeuille
Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia
Il concetto di suddivisione è associato all’analisi della
domanda, e più precisamente delle funzioni della stessa per
un prodotto o un servizio. Ripartire un mercato significa
identificare l’insieme delle funzioni di domanda che esistono per il prodotto o il servizio considerato e caratterizzare i
gruppi utilizzando ciascuna delle funzioni di domanda. Senza suddivisione, è difficile descrivere la propria clientela:
Chi la compone? Quali caratteristiche consentono di comprendere meglio il comportamento dei clienti? Quale tipo di
cliente ricorre di più ad un tale o talaltro servizio o prodotto
nella Clinica? Quale profilo di cliente è più fedele nella
clientela? Altrettante domande che dimostrano che è difficile parlare di valore della clientela senza suddivisione. Questa rappresenta la base delle analisi di Marketing della clientela al servizio delle strategie messe in atto.
I. DEFINIZIONE DELLA SUDDIVISIONE
La suddivisione è la ripartizione della popolazione target
in sottoinsiemi per mezzo di criteri predefiniti scelti perché
pertinenti al tema posto. I criteri di suddivisione devono consentire di arrivare a fasce che presentano la maggior omogeneità intraclasse e la più grande eterogeneità interclasse possibili. Esistono tre grandi famiglie di criteri di ripartizione:
le variabili sociodemografiche, quelle di comportamento e
quelle psicografiche.
A - Le variabili sociodemografiche
Sono date da parametri quali: età, sesso, habitat, componenti effettivi del nucleo famigliare, ciclo di vita della famiglia, numero ed età dei bambini presenti, categoria socioprofessionale, professione del capofamiglia, nazionalità,
razza, religione, grado di pratica religiosa, livello di istruzione, status matrimoniale, ecc…
B - Le variabili di comportamento d’acquisto
Sono date da parametri quali: la quantità acquistata (piccolo, medio o gran consumatore), la fedeltà alla marca del
prodotto (fedeli incondizionati, non esclusivi, non fedeli), la
status come utilizzatore (non-utilizzatore, nuovo o vecchio), la
frequenza d’acquisto (utilizzatori regolari o irregolari), la modalità di pagamento (contante, a credito, con carta), ecc…
C - Le variabili psicografiche
Sono date da parametri quali le attitudini, le opinioni, gli
stili sociali o i valori.
II. LE RESTRIZIONI METODOLOGICHE
DELLA SUDDIVISIONE
Perché una variabile possa essere considerata come un
criterio per la suddivisione, deve essere:
- Misurabile: facilmente e consentire di spiegare le differenze di comportamento dei clienti
- Discriminante: permettendo di assegnare correttamente un
cliente ad una suddivisione
- Accessibile: assegnando il cliente ad una suddivisione secondo la o le variabili di ripartizione scelte
- Stabile: l’influenza del criterio di suddivisione sul comportamento deve essere costante nel tempo per consentire
una strategia che duri numerosi anni.
Si noti che nell’ambito delle tre famiglie di variabili di
suddivisione (criteri sociodemografici, criteri di comportamento d’acquisto e variabili psicografiche) la misurabilità
diminuisce dalla prima all’ultima e questo in misura inversa
alla loro discriminanza.
III. DALLA SUDDIVISIONE
AL POSIZIONAMENTO
In un andamento di mercato devono essere seguite cinque tappe, partendo dalla suddivisione, per poi focalizzare
il target di una o più fasce ed infine consentire il posizionamento:
- Definizione della problematica di mercato che necessita di
una suddivisione
- Scelta di una o più variabili di suddivisione pertinenti con
il problema posto
- Studio di ciascuna delle fasce ottenuta per mezzo delle variabili di suddivisione
- Selezione di una o più fasce (target)
- Definizione delle strategie di Marketing per il o i segmenti considerati per mezzo delle quattro variabili del mix che
sono il prodotto o servizio, la comunicazione, il prezzo e
la distribuzione (Posizionamento)
La suddivisione della clientela per adattare i propri sforzi alle aspettative dei clienti passa attraverso una riflessione
globale rappresentata nello Schema 1: Analisi dei rischi e
delle opportunità del mercato ed anche delle risorse e dei
punti deboli della clinica. Messa in evidenza di un obiettivo
marketing. Suddivisione della clientela, target di uno o più
fasce, posizionamento e poi messa in opera delle quattro variabili del mix.
100
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Analisi esterna
- Consumatori
- Mercato
- Concorrenti
- Ambiente legale, sociale
Minacce ed opportunità
Analisi delle
opportunità
di mercato
Suddivisione
dei mercati
Target
Mix del
marketing
Posizionamento
Analisi interna
- Impresa
Risorse e punti deboli
➩
Analisi dei criteri
di suddivisione
Analisi di interesse
e di competitività
➩
➩
Identificazione
del vantaggio
concorrenziale
Scelta delle strategie
di base
SCHEMA 1 - Posizione della suddivisione in un andamento del marketing.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrice Clerfeuille
DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD
Marketing Professor University of Nantes
[email protected]
➩
4P
- Prodotto
- Distribuzione
- Prezzo
- Comunicazione
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
101
Fare la diagnosi del marketing di una clinica
Fabrice Clerfeuille
Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia
È necessario che la clinica faccia il punto una volta all’anno sui servizi forniti ai suoi clienti. Gli interessi sono
duplici: mettersi al posto del cliente ed interrogarsi sui miglioramenti da apportare alla struttura.
Per ottenere questo, il veterinario deve ripercorrere il
cammino seguito dai suoi clienti nella Clinica e notare tutto
ciò che può essere migliorato. Poiché ogni clinica possiede
le sue peculiarità, non è possibile stilare una lista tipo dei
servizi, ma verrà comunque presentata una proposta di traccia da seguire, che potrete completare tenendo conto delle
vostre particolarità.
I diversi elementi che possono essere valutati sono i seguenti:
I. IL SERVIZIO GLOBALE
Il veterinario può porsi alcune domande:
- La Clinica si rimette spesso in discussione sulla qualità dei
servizi proposti ai clienti?
- La Clinica si interroga frequentemente sulla ricerca e la
messa in atto di nuovi servizi?
- La Clinica impiega dei questionari da sottoporre ai clienti,
volti a stabilire il grado di soddisfazione per i servizi offerti loro?
- La Clinica dispone di un sistema centralizzato per raccogliere i motivi di malcontento dei clienti (registro o schede, che consentano di seguire le ragioni dei problemi e la
loro frequenza)?
- La Clinica riunisce dei clienti di tanto in tanto per analizzare con loro i modi per migliorare i servizi della struttura?
- Quali procedure specifiche esistono nella Clinica per seguire i clienti (per esempio, per casi complessi o quando
un cliente deve consultare numerosi operatori della stessa
struttura)?
- La Clinica è organizzata in modo da ringraziare i clienti
che gliene procurano dei nuovi?
- Gli assistenti seguono dei corsi di formazione nel settore
del Marketing?
- L’arredo della sala d’attesa viene cambiato spesso?
- I prodotti esposti alla vista dei clienti vengono spostati regolarmente?
- Ecc…
- La croce veterinaria è in buono stato e pulita?
- I posti del parcheggio sono in numero sufficiente a qualsiasi ora del giorno?
- I posti del parcheggio vicini all’entrata sono riservati ai
clienti?
- Le aiuole del parcheggio sono curate regolarmente?
- La pulizia del parcheggio viene verificata quotidianamente dagli assistenti?
- All’esterno della Clinica, il cliente può attendere in condizioni soddisfacenti (sedie, panca)?
- La targa della Clinica che porta i nomi dei veterinari è in
buone condizioni?
- Sull’insegna d’ingresso, sono chiaramente indicati gli orari di apertura della Clinica e le indicazioni “in caso di urgenze”?
- I muri dell’ingresso sono in condizioni decorose?
- La maniglia della porta d’ingresso è in buono stato?
- Ecc…
III. L’ACCOGLIENZA
- Esiste un sistema sonoro che indichi l’arrivo di un cliente
nella Clinica?
- L’odore della Clinica è gradevole?
- Tutte le stanze che si affacciano sull’entrata sono segnalate (sala visita, sala d’attesa, ecc..)?
- La disposizione dei vari elementi dell’ingresso è gradevole da vedere per i clienti (colori, ordine, ecc…)?
- Tutti i membri della Clinica portano dei cartellini di identificazione sulle divise (compresi gli assistenti ed i veterinari eventualmente presenti come stagisti)?
- Le divise dei vari membri del personale sono pulite?
- Esiste un poster vicino all’ingresso che presenti le varie
stanze della Clinica (con fotografie che illustrino le attrezzature)?
- Esiste un poster vicino all’ingresso che presenti i vari
componenti della Clinica (fotografie e nomi)?
- Nell’ingresso sono disponibili delle schede informative rivolte alle principali domande dei clienti?
- L’assistente addetto alla reception indica sistematicamente il tempo d’attesa a tutti i clienti che arrivano?
- Ecc…
II. L’ARRIVO DEL CLIENTE ALLA CLINICA
IV. L’ACCOGLIENZA TELEFONICA
Il veterinario deve inoltre valutare alcuni parametri, munito di una lista:
- Il cartello che indica l’ingresso alla Clinica è in buono stato e pulito?
- Il numero delle linee telefoniche è sufficiente ad evitare
che i clienti trovino troppo spesso la linea occupata?
- Esiste una musica di sottofondo da attivare qualora il
cliente debba essere messo in attesa telefonica?
102
- La collocazione delle postazioni telefoniche è congruente
con le necessità degli assistenti?
- È facile trasferire la chiamata da una postazione all’altra?
- La deviazione di una chiamata telefonica dalla postazione
centrale a quelle periferiche si può effettuare velocemente
se nessuno può rispondere nella prima?
- I componenti della Clinica sono soliti rispondere subito alle chiamate (prima del terzo squillo)?
- Gli assistenti utilizzano sistematicamente una formula di
presentazione quando rispondono ad una chiamata telefonica?
- La qualità del messaggio sulla segreteria viene verificata
regolarmente?
- Ecc…
V. LA SALA D’ATTESA
- Prima delle vostre visite, vi sedete in sala d’attesa di tanto
in tanto per verificarne le condizioni?
- Esiste una segnaletica d’orientamento a livello dell’ingresso per dirigere facilmente il cliente verso la sala d’attesa?
- Lo stato delle sedie è decoroso?
- Le riviste a disposizione dei clienti sono in buone condizioni?
- Le riviste a disposizione dei clienti sono recenti?
- Le riviste a disposizione dei clienti sono di vario tipo?
- Nella sala d’attesa esiste una zona bimbi (seggioline, tavolino e qualche gioco)?
- Il tabellone dei piccoli annunci è ben visibile e gradevole
a vedersi?
- Esistono delle informazioni pratiche che i clienti possono
consultare (schede sull’importanza del tatuaggio, sui vaccini, ecc…)?
- Nella sala d’attesa viene trasmessa un musica di sottofondo?
- In sala d’attesa, la convivenza di proprietari di gatti e proprietari di cani è resa più semplice da uno spazio dedicato
ai primi?
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
-
In sala d’attesa, i poster sono in buono stato?
In sala d’attesa, i poster sono rinnovati spesso?
In sala d’attesa, i poster sono di attualità?
In sala d’attesa, l’illuminazione è adeguata (per potenza e
per numero di lampade funzionanti)?
- C’è un distributore di bibite a disposizione dei clienti?
VI. LA SALA VISITE
- Di tanto in tanto vi sedete al posto del cliente per assicurarvi che la posizione sia comoda?
- La porta è pulita?
- La porta reca il nome del veterinario che vi effettua la visita?
- La maniglia è pulita?
- La condizione del tavolo da visita è buona?
- Esiste un tabellone riscrivibile per eseguire schemi esplicativi ai clienti?
- Le sedie sono in buone condizioni?
- La sala visite contiene delle radiografie esemplificative
per chiarire ai clienti la patologia dei loro animali?
- La sala visite contiene delle schede di informazione scientifica (diabete, insufficienza renale, ecc..) per facilitare la
comprensione da parte dei clienti?
- Ecc…
Oltre a questi esempi presi dettagliatamente in esame, si
possono considerare altri elementi della Clinica, come ad
esempio i locali dove vengono tenuti gli animali ricoverati,
nell’eventualità che i clienti vi si debbano recare.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrice Clerfeuille
DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD
Marketing Professor University of Nantes
[email protected]
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
103
Le 10 regole da seguire nella selezione
di un collaboratore
Fabrice Clerfeuille
Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia
L’assunzione di un assistente non va presa alla leggera
per tre ragioni:
- È più facile assumere che licenziare
- Questa scelta vi impegna per parecchi anni
- In una giornata passerete più tempo con il vostro assistente che con vostra moglie o vostro marito!
Queste tre ragioni impongono la messa a punto di specifiche procedure di assunzione al fine di limitare gli errori. Si
possono stabilire tre tappe fondamentali: la prima consiste
nell’elencare ciò che l’assistente dovrà svolgere, la seconda
riguarda le procedure di assunzione propriamente dette e
l’ultima prenderà in considerazione il colloquio stesso.
I. ELENCARE LE MANSIONI RICHIESTE
AL NUOVO ASSISTENTE
Il profilo ricercato per questo assistente prevede che venga impiegato come addetto alla reception, aiuto di sala operatoria, o con compiti di tipo misto? Prendetevi il tempo necessario per elencare i requisiti richiesti in funzione delle
mansioni che dovrà svolgere, tenendo conto delle ore settimanali dedicate ad ogni attività:
- Amministrazione;
- Accoglienza dei clienti;
- Rispondere al telefono;
- Attività di segreteria;
- Aiuto operatorio;
- Effettuare delle analisi di laboratorio;
- ecc…
Quindi, dovete calcolare quanto vi costa la realizzazione
di questo nuovo posto di lavoro, informandovi sugli eventuali contributi all’assunzione offerti dagli enti nazionali a
sostegno dell’occupazione.
Calcolate i vostri fabbisogni in ore per questo incarico (tempo pieno, part-time al 50% o a due terzi del tempo, ecc…)
Tenete conto di un’eventuale attività stagionale più intensa, e quindi di fabbisogni di personale variabili. Infine,
scegliete il vostro assistente in funzione degli ambiti di competenza che vi occorrono: specializzato per una mansione
(per esempio, come aiuto operatorio) o capace di svolgere
una vasta gamma di compiti più generici.
II. PROCEDURE DI ASSUNZIONE
Esistono numerose vie per assumere un assistente: tramite conoscenze, contatti con una scuola di formazione di ope-
ratori professionali del settore o, più classicamente, facendo
pubblicare un piccolo annuncio di offerta d’impiego su un
giornale locale. Mentre le prime due soluzioni non necessitano di commenti particolari, verranno proposte alcune riflessioni sulla terza via di assunzione, quella attraverso un annuncio di offerta d’impiego su una testata di stampa locale.
- Redazione di un piccolo annuncio che definisca chiaramente le competenze richieste;
- Scelta della pubblicazione di questo piccolo annuncio nell’edizione del week-end, che viene letta più di qualsiasi altro numero pubblicato durante la settimana;
- Ricezione delle lettere di candidature;
- Classificazione delle candidature in tre dossier: uno per i
candidati respinti, uno per quelli da esaminare in un secondo tempo ed uno per quelli da incontrare;
- Invio di una risposta negativa ai candidati respinti;
- Contatto telefonico con i candidati potenzialmente assumibili, per incontrarli.
Verranno forniti di seguito alcuni consigli per il colloquio di assunzione vero e proprio.
III. COLLOQUIO DI ASSUNZIONE
Prima di ogni colloquio, la cui durata deve essere di circa mezz’ora, è necessario rileggere la lettera di curriculum
del candidato.
Ogni colloquio dovrà seguire una metodologia identica, per
poter confrontare i candidati in modo omogeneo. Si possono
descrivere tre tappe: una fase in cui si mette a suo agio il candidato, una in cui si raccolgono le motivazioni che lo spingono a
cercare questo impiego ed un’ultima, conclusiva del colloquio.
A - Fase in cui si mette a suo agio il candidato
Poiché il colloquio è stressante per tutti i candidati, occorre fare di tutto per metterli a loro agio. A questo scopo
possono essere utilizzate numerose tecniche:
- Domande del tipo “Ha trovato la clinica con facilità?”
- Offrite un tè o un caffè;
- Iniziate presentando la Clinica, con le attività che vi si
svolgono, gli operatori, gli altri assistenti, le modalità di
funzionamento della Clinica, i suoi orari di apertura, ecc…
- Proponete al candidato di visitare la Clinica.
B - Raccolta delle motivazioni
Una volta che il candidato si è disteso, può realmente iniziare il colloquio di assunzione, per valutare le sue motivazioni. Si possono raccogliere numerosi tipi di informazioni:
104
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
- Quali sono i motivi di interesse per questo lavoro? (per valutare le sue motivazioni professionali);
- Il candidato possiede degli animali? (per capire la sua passione per gli animali ed individuare alcuni problemi del tipo paura dei gatti, ecc…);
- I suoi animali hanno avuto dei grossi problemi di salute?
(consente di percepire l’attenzione che rivolge ai propri
animali da compagnia);
- Quali sono i centri di interesse del candidato (svaghi,
sport, lettura, vita familiare, ecc… che consente di individuare le capacità dell’individuo ed il suo carattere solitario o atto a muoversi, per esempio, nell’ambito di un’équipe);
- Domandate al candidato di elencare cinque aspetti positivi e cinque negativi del proprio carattere, perché così potrete farvi un’idea della sua capacità di adattamento.
Lo scopo di questo colloquio consiste nel far parlare al
massimo il candidato per conoscerlo meglio e valutare le sue
qualità.
C - Fine del colloquio
Al termine del colloquio, precisate di nuovo le caratteristiche del lavoro, le ore impegnate, il salario proposto e verificate che nulla si opponga all’assunzione del candidato.
Informatelo sulle modalità della vostra risposta (l’ideale è
Positivo
Puntualità all’incontro
Abbigliamento
Presentazione
Comportamento
Discrezione
Tatto
Facilità d’espressione
Motivazione
Svaghi
Vita di famiglia
Sport praticati
Livello di scolarizzazione
Formazione professionale
Esperienza professionale
Cause di cambiamento professionale
Possesso di animali
Famiglia cliente della Clinica
Esperienze come assistente di strutture veterinarie
Mezzo di spostamento
Domicilio
Parere degli altri assistenti
Medio
una lettera entro 8 giorni), precisando che la procedura di selezione mette a confronto più persone.
Una volta andato via il candidato, prendetevi cinque minuti di tempo per riempire un formulario tipo di colloquio
per poter confrontare i soggetti tra loro. Di seguito viene fornito un formulario-tipo (vedi schema sotto).
Al termine dei colloqui con i candidati, selezionate i tre
più adatti a questo incarico e domandate loro di trascorrere
una giornata in una situazione reale nella Clinica. Gli obiettivi di quest’ultima fase sono molteplici:
- Assicurarsi dei tratti caratteriali individuati nel colloquio;
- Essere sicuri che nulla si opponga al lavoro (vista del sangue, contenimento degli animali, contatti, ecc…);
- Rilevare i commenti degli altri assistenti della Clinica.
Questi tre livelli di selezione devono consentirvi di limitare gli errori di assunzione di un assistente.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrice Clerfeuille
DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD
Marketing Professor University of Nantes
[email protected]
Negativo
Note:
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105
Calcolare la redditività di un investimento.
Esemplificazioni pratiche
Fabrice Clerfeuille
Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia
La redditività è definita dal Dizionario come “la natura di
ciò che è redditizio”, “che fornisce un utile soddisfacente”.
In assenza di normative stabilite nell’ambito professionale,
al contrario di altri settori e tenendo conto del carattere soggettivo del concetto di “utile soddisfacente”, in questa trattazione si tornerà a fare riferimento alla nozione di tasso di
redditività, più obiettiva.
Il tasso di redditività è definito dal “rapporto tra i profitti di un’impresa ed in capitali investiti”.
Questo parametro di tasso di redditività in una Clinica
può quindi essere definito da:
Utili
Tasso di redditività = —————————————
Volume d’affari (VA)
Dal momento che la maggior parte dei veterinari sceglie
una contabilità del tipo da reddito professionale (Bénéfices
Non Commerciaux), si partirà da questo tipo di contabilità
per definire la redditività della clinica.
Il documento base è l’insieme degli incassi e delle spese,
che in un primo tempo vanno registrati e poi riconsiderati
per calcolare dei rapporti che ne consentano il confronto.
A. REGISTRAZIONE DEGLI INCASSI
E DELLE SPESE
L’insieme degli incassi e delle spese deve essere tabulato in un prospetto del tipo Excel, per poi consentire i calcoli di redditività. Suggeriamo di convertire sistematicamente
gli importi esprimendoli come percentuale del volume d’affari. Ciò consente di conoscere le parti di spesa per 100 Euro di volume d’affari effettuato.
È sufficiente registrare le varie voci sul tabulato di Excel
e presentarle in questo modo:
2003
Valori
INCASSI
SPESE
2002
% del VA
Valori
% del VA
Variazione
03/02
100%
100%
Acquisti
?
?
?
Stipendi + contributi
?
?
?
Imposte e tasse
?
?
?
Affitti
?
?
?
Noleggi
?
?
?
TFSE
?
?
?
Trasporti/spostamenti
?
?
?
Spese di reception
?
?
?
Spese varie di gestione
?
?
?
Oneri finanziari
?
?
?
106
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Questa tabella consente quindi di ottenere molto rapidamente le percentuali di spesa per categoria e per 100 Euro di
VA. Il confronto con gli anni precedenti permette così di paragonare le variazioni di redditività di un anno rispetto all’altro e di individuarne le cause.
È inoltre possibile calcolare degli indici di redditività.
- Gli indici di redditività sensu stricto, che influenzano la
redditività sull’importo delle Spese (denominatore della redditività).
B - L’INDICE, STRUMENTO
INDISPENSABILE DI GESTIONE
4.1.1 - Andamento dell’attività
Per approfondire il tasso di redditività della propria clinica il Veterinario deve utilizzare degli indici.
1 - Che cosa si definisce indice?
Un indice è una proporzione fra due grandezze che esprime
la loro importanza relativa. Gli indici sono calcolati unicamente
per consentire dei confronti. Se ne possono creare in misura infinita, ma sono da considerare soltanto se sono significativi.
2 - Importanza dello studio degli indici
Studiato da solo, un indice di esercizio di una clinica fornisce
poche informazioni. Serve soltanto se viene inserito in un quadro
di confronto. Sono quindi possibili due tipi di valutazioni:
- Nel tempo, confrontando lo stesso indice per esempio
in tre anni;
- Nello spazio, paragonandolo con cliniche diverse.
Un confronto nel tempo e nello spazio deve consentire al
veterinario di valutare la propria evoluzione e di individuare
la propria posizione nell’ambito professionale. Questo compito è talvolta più complesso di quanto sembri perché spesso numerosi fenomeni rendono difficile tirare le conclusioni.
3 - Limiti dello studio degli indici
Le metodiche generali (ad esempio, le statistiche fornite
dai centri di gestione accreditati) devono essere considerate
come regole valide per tutti. È quindi auspicabile ottenere
dei dati statistici sulla popolazione delle cliniche vicine: numero di veterinari, localizzazione, livello di VA, ecc…
Tuttavia occorre tenere presente che, in alcune strutture
associate, le registrazioni dei valori vengono effettuate in
modo tale da rendere impossibile ogni confronto.
Analogamente, fattori eccezionali possono intervenire a
falsare le valutazioni di paragone, come la perdita di un
grosso cliente allevatore, una nuova struttura nata vicino alla vostra, ecc… Questi elementi devono essere isolati per determinare con precisione il loro impatto sugli indici.
Anche le modalità di esercizio possono avere una certa
influenza, come il rapporto spese del personale/VA HT (HT
= Hors Taxe, esente da imposta, n.d.T.), che dipendono dalle strategie sviluppate dalla clinica.
Il metodo degli indici deve quindi essere attuato con prudenza e discernimento.
4.1 - Gli indici di crescita e di attività
Appartengono a questo gruppo numerosi indici e verranno qui riportati quelli ritenuti più significativi:
(VA HT) n - (VA HT) n-1
x 100
(VA HT) n-1
L’andamento del VA è sempre considerato come l’indicatore economico numero 1 della clinica. Confrontato con le
potenzialità della professione o dei colleghi vicini, questo indice consente al veterinario di misurare il proprio dinamismo nell’ambiente in cui opera.
4.1.2 - Il margine commerciale
Vendite HT - Acquisti HT rivenduti
x 100
Vendite HT
con Acquisti HT rivenduti = Acquisti anno N + Stock iniziale - Stock finale.
Questo indice necessita quindi di un inventario di stock
annuale, che consenta di definire lo stock iniziale ad inizio
anno e quello finale, corrispondente allo stock calcolato per
l’inizio dell’anno successivo.
4.1.3 - Altri acquisti e oneri esterni
Si tratta soprattutto di oneri fissi.
Altri Acquisti + Oneri esterni
x 100
VA HT
Il peso degli oneri strutturali in relazione al VA è un elemento di analisi che consente al veterinario di soppesare nella giusta misura i risparmi da prendere in considerazione.
Attenzione al confronto con altre strutture perché questo
rapporto sarà necessariamente inferiore se il veterinario è
proprietario dei muri (assenza di affitti).
4.1.4 - Le spese per il personale
Spese per il personale
x 100
VA HT
Questo indice consente di stimare la validità dell’adeguatezza fra salari impiegati e risultati ottenuti. Traduce il
peso della massa salariale per 100 Euro di VA HT.
4 - Come calcolare gli indici di una clinica?
Si possono definire due grandi famiglie di indici:
- Gli indici di crescita e di attività, che influenzano la
redditività sull’importo del volume d’affari (VA) (numeratore della redditività);
4.1.5 - Gli oneri finanziari
Oneri finanziari
x 100
VA HT
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
107
La modalità d’acquisto di una clinica comporta nei primi
anni d’avvio degli oneri finanziari estremamente rilevanti.
Peraltro, l’evoluzione di questa voce nel tempo evidenzia il
buono o cattivo stato di salute finanziario della clinica (scorretti finanziamenti di partenza, aumenti insufficienti dell’utile per coprire i fabbisogni, ecc...).
Per una clinica, l’evoluzione di questo indice nel tempo
è estremamente significativa.
IMPIEGO DEL MLG
4.2 - Gli indici di redditività
Seconda sottofamiglia di indici, comprende numerosi di
questi, molto spesso calcolati dagli istituti bancari, per assicurarsi della salute economica della clinica ed autorizzare
per esempio nuovi prestiti.
Il MLG consente di capire le condizioni di gestione della clinica estrapolando i dati dalle modalità di finanziamento delle attività.
4.2.1 - Il Margine Lordo di Gestione (MLG)
Viene evidenziato in particolare nelle analisi condotte
sullo stato di salute finanziaria delle cliniche.
La formulazione e l’impiego del MLG si possono presentare nel modo seguente:
VA HT
A cosa serve l’MLG?
- Rimborso dei prestiti
- Andamento della vita
- Imposta sul reddito
- Finanziamento dei fabbisogni nei fondi di cassa
- Autofinanziamento degli investimenti
MLG
x 100
4.2.2 - La redditività netta
Utile netto
x 100
VA HT
FORMULAZIONE DEL MLG
Dal VA al MLG
vendite - acquisti effettuati = margine commerciale
- oneri esterni = valore aggiunto
- imposte - spese per il personale - contributi personali = MLG
INDICE
Esprime nel tempo l’evoluzione della capacità della clinica di realizzare degli utili. Seguirà un esempio di riduzione nella dichiarazione modello 2035, per analizzare le informazioni che se ne possono trarre:
2003
2002
2001
5,22%
3,73%
-1,25%
?
?
?
17,33%
18,06%
17,82%
19,64%
19,39%
20,94%
0,21%
0,03%
0,12%
42,88%
42,42%
40,01%
34,02%
35,17%
34,09%
23,80%
23,68%
21,17%
(VA HT) n - (VA HT) n-1
x 100
(VA HT) n-1
Vendite HT - Acquisti HT rivenduti
x 100
Vendite HT
Altri Acquisti + Oneri esterni
x 100
VA HT
Spese per il personale
x 100
VA HT
Oneri finanziari
x 100
VA HT
MLG
x 100
VA HT
Utile netto
x 100
VA HT
Acquisti
x 100
VA HT
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4.2.3 - La redditività delle attrezzature
Verrà qui fornito un esempio di calcolo di redditività per un’attrezzatura.
Attrezzatura:
Ecografo Elekto GBM
Codice:
Data d’acquisto
28/06/99
Nuovo:
Usato:
Costo dell’apparecchio:
295000
Contante:
Prestito:
Dettaglio del prezzo:
99/2806
Leasing:
Prezzo di catalogo: 410000Frs. Ottenuto a 345000 HT - ritiro del modello vecchio 50000.
Quindi pagato 295000 HT
Caratteristiche del finanziamento:
Ente:
GE CAPITAL
Tasso:
Rata mensile:
5695
Prima:
Garanzia:
Inclusa
Fine:
Calcolo di redditività annuale:
Giugno 99 - Giugno 2000
Durata dell’ammortamento:
28/06/99
Ultima:
30/06/04
Caratteristiche dell’apparecchio:
Costo:
Costo fisso unitario:
materiale di consumo 1: 3 gel
315
materiale di consumo 2: 4 pistolet da biopsia
408
materiale di consumo 3:
0
compenso orario ASV (70,00 Frs/Ora)
0
altro
0
totale costo fisso unitario:
723
Costo annuale:
numero di casi:
x totale costo fisso
x
723
=
723
rata mensile x 12:
68340
riparazione:
0
altro:
0
totale costo annuale:
Incassi annuali:
numero di casi:
x prezzo di vendita
totale incassi annuali:
69063
Eco 1
Eco 2
Eco 3
Eco 4
Eco ofta
187
187
179
20
28
91,97
183,11
275,08
459,03
140,47
17198,39
34241,57
49239,32
9180,6
3933,16
totale generale degli incassi:
601
tariffe al 19/6/2000
113793
Redditività:
totale incassi annuali:
totale spese annuali:
113793,04
69063
Bilancio:
44730,04
Ognuno di questi indici consente quindi di valutare le variazioni di redditività della clinica da un anno all’altro, tentando di
fornirne una spiegazione. Ogni anno, i veterinari devono analizzarli in modo approfondito.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrice Clerfeuille, DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD, Marketing Professor University of Nantes
[email protected]
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Paziente orto-neurologico o neuro-ortologico?
Daniele Sebastian Corlazzoli
Med Vet, Roma
Pazienti neurologici e ortopedici sono spesso accompagnati da una medesima anamnesi: difficoltà nel movimento.
Distinguere un paziente ortopedico da uno neurologico è essenziale per poter attivare il corretto approccio diagnostico:
l’osservazione della deambulazione è un passo essenziale, a
volte il principale.
Il paziente ortopedico è caratterizzato principalmente dalla
zoppia, ovvero dal dolore, più raramente da riduzione del movimento come per esempio nelle contratture muscolari.
Un paziente ortopedico non cade, non inciampa, non ha movimenti eccessivi del treno posteriore, l’unico suo scopo è ridurre il carico sulla parte dolente e ridurne l’escursione.
Un paziente neurologico al contrario presenta una debolezza
che lo obbliga ad assumere posizioni innaturali, una compromissione della coordinazione che può causargli movimeni eccessivi,
la tendenza a inciampare negli ostacoli o nei suoi stessi arti. Il
primo passo consiste nell’identificare l’arto o gli arti colpiti.
Nelle zoppie dell’anteriore il peso della testa viene caricato
sull’arto sano, la fase di protrazione dell’arto sarà inoltre ridotta sul lato dolente. Le zoppie sul posteriore sono spesso meno
evidenti e l’osservazione dell’andatura di lato è importante in
quanto la diminuzione della fase di protrazione del passo può
essere l’unica alterazione evidenziabile.
L’osservazione del paziente mentre si siede è anche molto
importante, frequentemente il dolore al ginocchio si manifesta
con una posizione seduta a ginocchio più esteso rispetto al controlaterale. Questo atteggiamento può essere associato anche a
zoppie di tarso per quanto quest ultime siano sicuramente piu
rare in Medicina veterinaria.
Identificato l’arto è necessario localizzare il dolore.
A questo scopo si deve palpare attentamente ogni singola
articolazione valutando la presenza di ectasia dei fondi ciechi,
crepitio o dolore all’esecuzione dei movimenti passivi, aumento di volume dell’articolazione. Ogni singola articolazione va
valutata singolarmente e confrontata con la controlaterale.
Escluse le patologie articolari, si procede alla valutazione delle
ossa lunghe e quindi alla valutazione della dolorabilità muscolare. Identificata la sede del dolore si prosegue con la scelta degli esami collaterali più opportuni.
Alterazioni del movimento di origine neurologica sono riferibili a lesioni cerebrali, spinali, o periferiche.
I pazienti cerebrali hanno segni tipici (convulsioni, maneggio, alterazioni del comportamento, alterazioni dei riflessi dei
nervi cranici) per cui sono abitualmente di facile identificazione.
Pazienti con lesioni del midollo spoinale o del sistema nervoso periferico spesso hanno segni che possono essere confusi
con segni ortopedici. Con l’eccezione di pazienti spinali presentati a causa esclusivamente di dolore cervicale o toraco lombare, i paziente neurologici presentano debolezza (paresi) o incoordinazione (atassia) o entrambe.
Un paziente paretico assume posizioni che sono spesso innaturali a causa della difficoltà nel sorreggere il proprio peso.
Un paziente atassico dimostra speso la tendenza a inciampare
nei suoi stesi arti o ad avere una fase di levata e/o di protrazio-
ne dell’arto aumentata. Come in ortopedia, anche nella valutazione di un paziente neurologico la localizzazione anatomica
del problema è essenziale.
Per prima cosa è necessario comprendere, tramite l’osservazione dell’andatura, se il problema interessa un arto, un treno, i quattro arti o un emisoma (i due arti sul medesimo lato).
La valutazione delle reazioni posturali e in particolare della
propriocezione serve a confermare il reperto dell’osservazione.
Con l’esclusione dei pazienti con fratture di un arto o del bacino, un paziente ortopedico ha una propriocezione normale.
In funzione dell’andatura e della valutazione della propiocezione siamo in grado di affermare se un problema interessa i
4 arti, il treno posteriore o un arto.
Un problema neurologico localizzato ai quattro arti può essere causato da lesioni cervicali (C1 T2) o da lesioni diffuse del sistema nervoso periferico. Un problema localizzato al treno posteriore è generalmente causato da una lesione posteriore a T2.
L’esame dei riflessi dei nervi spinali può aiutarci a compiere un passo in più nella localizzazione neuroanatomica.
I riflessi spinali più attendibili sono il riflesso flessorio sull
treno anteriore e il riflesso flessorio e patellare sul treno posteriore associati al riflesso perineale.
Le lesioni spinali che coinvolgono i plessi cervicale (C6 T2)
o lombare (L5 S2) possono causare una riduzione dell’ampiezza dei riflessi spinali.
Un paziente con paresi dei quattro arti, propiocezione alterata sui quattro arti, riflessi diminuiti sul treno anteriore e normali sul posteriore presenta una lesione spinale localizzata sul
plesso cervicale (C6 T2).
Un paziente con una presentazione simile ma con riflessi
spinali mantenuti sul treno anteriore presenta una lesione spinale localizzata nel tratto cervicale C1 C5.
Pazienti con tetraparesi e diminuzione diffusa dei riflesi spinali a fronte di una sensibilità normale presentano lesioni diffuse del sistema nervoso periferico.
La valutazione della sensibilità dolorifica ha unicamente
uno scopo prognostico ma abitualmente non contribuisce in
modo sostanziale alla localizzazione neuroanatomica.
Eccezionalmente un paziente neurologico può presentarsi
con zoppia. Patologie spinali con compressioni foraminali
possono causare una zoppia che trova la sua causa quindi a livello spinale e non nell’arto apparentemente dolente. È questo
il caso delle compressioni discali lateralizzate o delle neoplasie del plesso brachiale.
La distinzione tra paziente ortopedico e neurologico è un
esercizio di buonsenso e di confrontro tra reperti oggettivi: l’esame dell’andatura è in assoluto l’aspetto più importante e troppo spesso purtroppo il più trascurato nella attività pratica.
La localizzazione del dolore, la valutazione della propriocezione quella dei riflessi spinali, completano la valutazione dell’andatura ma non possono sostituirla.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Daniel Sebastian Corlazzoli - [email protected]
110
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Anestesia in neurochirurgia
Federico Corletto
Med Vet, Cert VA, Dipl ECVA, MRCVS, Newmarket (UK)
L’anestesia di pazienti con problemi neurologici o sottoposti a procedure diagnostiche e chirurgiche che coinvolgano
il sistema nervoso centrale viene generalmente considerata rischiosa, molto spesso semplicemente per la poca confidenza
che il medico veterinario ha nei confronti della materia.
L’anestesia e la procedura devono essere pianificate accuratamente per ottimizzare la perfusione del sistema nervoso centrale e minimizzare le possibili complicazioni perioperatorie.
È ben noto che gli anestetici generali interferiscono con
la funzione del SNC, tuttavia meno conosciuti sono i loro effetti sul metabolismo e sulla perfusione cerebrale. La notevole riserva funzionale dei pazienti sani consente di fronteggiare adeguatamente transitori fenomeni di ipoperfusione o
una moderata diminuzione dell’efficacia dei sistemi di autoregolazione, mentre in pazienti con problemi neurologici la
limitata capacità di compensare la diminuzione della perfusione del SNC può avere effetti disastrosi. L’ischemia di parti del SNC può manifestarsi come transitorio deficit neurologico, cecità, coma, oppure arresto cardiorespiratorio. Queste considerazioni valgono tanto per le patologie intracraniche quanto per quelle del midollo spinale, ma anche per il
paziente epilettico o per quello a rischio di crisi convulsive
postanestetiche perché sottoposto a mielografia.
Il sistema di autoregolazione della perfusione del SNC
garantisce un ottimale accoppiamento tra perfusione e fabbisogno metabolico all’interno di un intervallo di pressione arteriosa media compreso tra circa 60 mmHg e 140 mmHg. Al
di fuori di quest’intervallo, la perfusione diventa dipendente
in modo diretto dalla pressione arteriosa. L’autoregolazione
è garantita da variazioni dello stato contrattile della muscolatura liscia delle arterie che vascolarizzato il SNC in relazione alla pressione arteriosa (controllo miogenico, effetto
Bayliss). La liberazione di prodotti del metabolismo (ADP,
potassio, protoni) e l’adenosina adeguano la perfusione all’attività metabolica locale. La muscolatura della parete dei
vasi nel SNC, inoltre, altera il proprio tono in risposta a variazioni della pressione parziale della CO2, pertanto una moderata ipocapnia può transitoriamente diminuire l’ICP (Pressione Intracranica) inducendo vasocostrizione, mentre l’ipercapnia ha effetto vasodilatatore ed aumenta la pressione
intracranica. L’effetto della CO2 è transitorio poiché l’acidosi e l’alcalosi respiratorie vengono rapidamente corrette dalla componente metabolica. L’eccessiva iperventilazione deve essere evitata, poiché può determinare un’eccessiva vasocostrizione e compromettere la perfusione cerebrale.
I farmaci con azione vasodilatatrice inibiscono la componente miogenica dell’autoregolazione e, a causa della vasodilatazione, possono aumentare la quantità di sangue pre-
sente all’interno del cranio. La scatola cranica, rigida, non è
in grado di accomodare aumenti del contenuto in modo efficiente e la pressione al suo interno aumenta molto rapidamente una volta raggiunto un volume critico. Acepromazina,
isoflorano e sevoflorane sono potenti vasodilatatori, pertanto possono favorire un aumento della pressione intracranica.
L’isoflorano ed il sevoflorane hanno un effetto vasodilatatore dose-dipendente, significativo soprattutto per concentrazioni maggiori di 1 MAC, oltre le quali possono compromettere il normale autocontrollo della perfusione cerebrale e
sembra che la compromissione dell’autoregolazione indotta
dal sevoflorane sia meno marcata rispetto a quella indotta
dall’isoflorano. L’alotano altera la reattività alla CO2 e l’autoregolazione della perfusione cerebrale; diminuisce, inoltre,
la portata cardiaca, pertanto è controindicato nel mantenimento dell’anestesia in pazienti neurochirurgici. Gli agenti
anestetici inalatori, a causa della loro azione vasodilatatrice,
possono ridurre la reattività alle variazioni della PaCO2 e
quindi anche gli effetti benefici dell’ipocapnia. Il propofol,
somministrato in infusione per mantenere l’anestesia, preserva la reattività alla CO2 e l’autocontrollo cerebrale.
L’aumento della pressione intracranica si oppone alla
perfusione cerebrale, riducendola. L’organismo cerca di ripristinare la perfusione cerebrale aumentando la pressione arteriosa e determinando una bradicardia riflessa. Questa complessa risposta è denominata riflesso di Cushing (bradicardia
ed ipertensione per opporre un aumento della pressione intracranica) e, entro certi limiti, può migliorare la perfusione
cerebrale, sebbene contribuisca ad un ulteriore aumento di
essa. Se la perfusione non viene ripristinata, il meccanismo
diventa autosostenuto e non ha più funzione protettiva.
L’aumento della pressione intracranica, oltre a compromettere la perfusione cerebrale (Pressione di perfusione =
pressione arteriosa - ICP), può determinare l’erniazione di
parte del SNC, comprimendo i centri midollari deputati alla
regolazione della funzione respiratoria e cardiocircolatoria.
Clinicamente l’aumento della pressione intracranica si
manifesta con depressione (fino al coma), deficit dei nervi
cranici (esempio anisocoria, lenta o assente risposta pupillare), ipertensione e bradicardia (riflesso di Cushing), rigidità
ed opistotono, arresto respiratorio e cardiocircolatorio. È importante identificare i segni della diminuzione della perfusione cerebrale, in modo da consentire un intervento tempestivo. Lo stato del sensorio e la funzione dei nervi cranici devono essere monitorati in modo sistematico nel periodo perioperatorio, qualora si sospetti una compromissione della
perfusione cerebrale.
La perfusione cerebrale può essere compromessa da condizioni patologiche quali la presenza di lesioni occupanti
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spazio (neoplasie, emorragia) e l’edema cerebrale. Il tessuto
neoplastico e, in generale quello patologico, non presenta un
normale autocontrollo ed una normale reattività alla PaCO2.
L’ipocapnia determina una diminuzione della perfusione del
tessuto sano adiacente la neoformazione piuttosto che nella
neoplasia. L’effetto benefico di questa manovra deriva dalla
diminuzione della pressione intracranica che può favorire la
perfusione cerebrale nel cervello sano. In presenza di aree
ischemiche, la vasocostrizione nel tessuto normale adiacente favorisce la perfusione del tessuto precedentemente ipoperfuso (effetto “Robin Hood”).
La somministrazione di agenti con azione osmotica
(mannitolo, 0.2-1 g/kg, IV lentamente in 15-20 minuti) riduce il volume intravascolare e dell’interstizio cerebrale e
quindi la pressione intracranica. Il mannitolo, inoltre, sembra migliorare la perfusione cerebrale attraverso una alterazione della viscosità del sangue. Gli steroidi sembrano avere un effetto benefico nel trattamento dell’aumento della
pressione intracranica causato dall’edema cerebrale con origine citotossica. Sono impiegati, inoltre, prima di intervenire chirurgicamente sul cervello e, talvolta, sul midollo spinale, per ridurre la risposta infiammatoria conseguente all’insulto chirurgico. Gli steroidi comunemente impiegati sono il metilprednisolone sodio-succinato ed il desametasone.
La decisione di somministrare questi farmaci deve essere
presa dopo averne considerato i possibili effetti collaterali
(immunosoppressione, lesioni gastroenteriche) e prendendo
misure atte a limitarli (ad esempio somministrazione di gastroprotettori).
Le fondamentali misure pratiche impiegate per prevenire
e controllare le complicazioni in neuroanestesia verranno di
seguito elencate.
- Acepromazina e crisi convulsive. Sebbene non esistano studi in condizioni controllate che determinino l’effetto proconvulsivante dell’acepromazina alle dosi comunemente impiegate, questo farmaco rimane controindicato in
pazienti a rischio di crisi convulsive. L’acepromazina, inoltre, a causa della sua lunga durata d’azione, impedisce di effettuare un esame neurologico immediatamente al risveglio
dall’anestesia.
- Evitare di somministrare sedativi e tranquillanti,
se possibile. La premedicazione, se necessaria, può essere
effettuata con basse dosi di oppioidi agonisti, evitando di ricorrere alla morfina, che può indurre vomito, causando un
improvviso aumento della pressione intracranica.
- Induzione dell’anestesia con agenti che riducono la
pressione intracranica e diminuiscono il metabolismo cerebrale (propofol o tiopentale). La ketamina è controindicata, perché può aumentare la pressione intracranica e non diminuisce il metabolismo cerebrale.
- Evitare risposte (tosse, tachicardia, ipertensione) durante l’intubazione orotracheale. La tosse può aumentare
drammaticamente la pressione intracranica. Prima di intubare la profondità dell’anestesia deve essere adeguata. La lidocaina (1 mg/kg IV), somministrata prima dell’induzione dell’anestesia, sembra ridurre la risposta all’intubazione orotracheale.
- Mantenimento dell’anestesia con agenti che non alterino significativamente la reattività alla CO2 e l’autocontrollo. L’agente ideale, in questo, caso è il propofol (0.1-0.5
111
mg/kg/min), ma possono essere usati anche agenti inalatori
in basse concentrazioni (< 1 MAC). Nel gatto il mantenimento con propofol è relativamente controindicato, pertanto l’anestesia può essere mantenuta con sevoflurane. Il protossido d’azoto predispone al pneumoencefalo ed aumenta
la pressione intracranica, pertanto è controindicato. L’analgesia può essere conseguita somministrando in infusione
oppioidi ad azione breve ed ultrabreve (alfentanil 0.5-1
µg/kg/min, remifentanil 0.1-0.2 µg/kg/min). Il fentanyl può
accumularsi significativamente se infuso per più di 1-2 ore
e determinare depressione della ventilazione dopo il risveglio. La somministrazione di potenti oppioidi in infusione
consente di stabilizzare il sistema cardiocircolatorio, evita
risposte ipertensive causate dalla stimolazione chirurgica e
riduce la dose di propofol somministrata per mantenere l’anestesia.
- Ventilazione controllata a partire da immediatamente dopo l’induzione dell’anestesia, mantenendo una lieve
ipocapnia (PaCO2 4 kPa, 30 mmHg). Se necessario devono
essere usati agenti miorilassanti non depolarizzanti (vecuronio, atracurio, cisatracurio) per favorire il controllo della
ventilazione. Il grado di paralisi deve essere, in questo caso,
valutato in modo accurato, per assicurarsi che la funzione
neuromuscolare sia completamente riguadagnata prima di
risvegliare il paziente. Nella fase postoperatoria l’adeguatezza della funzione ventilatoria del paziente deve essere valutata in modo accurato.
- Attento posizionamento del paziente, evitando la
compromissione del drenaggio giugulare e mantenendo la
testa leggermente elevata rispetto al corpo (ciò favorisce il
ritorno venoso).
- Mantenimento della pressione arteriosa all’interno del
range di autocontrollo, meglio ancora se la pressione arteriosa media è mantenuta nel range 80-100 mmHg. Il monitoraggio della pressione deve essere di tipo diretto nelle procedure intracraniche e nella chirurgia più invasiva a carico
della colonna vertebrale. La somministrazione di potenti oppioidi previene risposte cardiocircolatorie (tachicardia, ipertensione) durante la procedura.
- In caso di chirurgia intracranica, somministrare steroidi e mannitolo prima dell’apertura della volta cranica.
Ciò previene l’edema cerebrale determinato dalla stimolazione meccanica del tessuto operata dal chirurgo.
- Monitoraggio intraoperatorio: ECG, pressione arteriosa invasiva, pressione venosa centrale, capnografia, pulsossimetria, emogas arteriosi, produzione di urina, temperatura, monitoraggio della paralisi neuromuscolare (se necessario).
- Assicurarsi che, al termine della procedura, il paziente venga risvegliato in un ambiente tranquillo, dopo aver
ripristinato la normotermia ed essere sicuri che la funzione
ventilatoria e neuromuscolare siano normali. Può essere indicato, soprattutto dopo interventi maggiori, mantenere il
paziente addormentato per qualche ora, per garantire un risveglio tranquillo.
- Se indicato, somministrare anticonvulsivanti prima
della procedure ed iniziare (o continuare) una terapia anticonvulsivante con fenobarbitale dopo il risveglio. L’impiego
di antibiotici per via endovenosa deve essere valutato considerando il tipo di procedura effettuata.
112
- Dopo il risveglio valutare ad intervalli regolari la funzione dei nervi cranici e lo stato del sensorio. Il diametro
pupillare e la reattività della pupilla possono essere facilmente controllati in tutti i pazienti. Dopo la chirurgia a carico della colonna vertebrale valutare la risposta al dolore e, in
caso di interventi a carico della colonna cervicale, monitorare il pattern respiratorio.
- Fluidoterapia. Devono essere evitati i fluidi contenenti glucosio (predispone al metabolismo anaerobio in caso di ischemia cerebrale e peggiora il danno ischemico). La
soluzione di Ringer è lievemente ipotonica e favorisce l’aumento del volume cerebrale. La soluzione fisiologica non
presenta particolari controindicazioni, se non quella di non
contenere potassio che, comunque, può essere aggiunto (1020 mmol/l) per evitare l’insorgenza di ipopotassiemia. Gli
elettroliti devono essere monitorati regolarmente per riconoscere precocemente complicazioni quali ipernatriemia ed
ipokaliemia.
Le più comuni complicazioni incontrate sono di seguito
elencate.
- Crisi convulsiva al momento dell’induzione dell’anestesia, durante l’anestesia o dopo il risveglio. La crisi
deve essere controllata con diazepam. In caso si sospetti sia
stata causata da un mezzo di contrasto, posizionare il paziente con la testa in posizione elevata, inclinando il tavolo.
In caso di mancata risposta al diazepam, si può somministrare pentobarbitale oppure propofol. I sistemi cardiocircolatorio e respiratorio devono essere supportati adeguatamente (pressione arteriosa, ossigenazione, ventilazione). Eventuali aritmie cardiache possono essere trattate con lidocaina
(se ventricolari) o β bloccanti se sopraventricolari.
- Ipertensione intracranica dopo l’induzione dell’anestesia ed erniazione del contenuto cerebrale. Le misure atte a controllare questa complicazione potenzialmente letale
sono la ventilazione assistita e la somministrazione di mannitolo e steroidi, seguiti se necessario dalla decompressione
chirurgica.
- Emorragia durante la procedura. È consigliabile disporre di un donatore di sangue in caso di necessità. Questo
vale per procedure intracraniche, chirurgia della colonna
cervicale e, in generale, tutti i tipi di chirurgia per rimuovere neoformazioni ben vascolarizzate.
- Instabilità cardiocircolatoria. Solitamente dipende
da un’inadeguata profondità dell’anestesia, come anche la
difficoltà a controllare la ventilazione. Le parti più dolorose
dell’intervento sono l’accesso chirurgico e la ricostruzione
di muscoli e cute nella chirurgia intracranica. Nella chirurgia
della colonna vertebrale la rimozione di materiale discale da
una radice nervosa è uno stimolo transitorio difficilmente
controllabile, anche con dosi elevate di oppioidi. In queste
occasioni potrebbe essere necessario aumentare la dose di
oppioidi e propofol infusi.
- Erniazione del contenuto cerebrale dalla breccia
operatoria. È una complicazione potenzialmente disastrosa
e richiede la somministrazione di mannitolo, steroidi e l’iperventilazione.
- Bradicardia conseguente l’infusione di oppioidi.
Normalmente non è necessario somministrare anticolinergici, che potrebbero indurre ipertensione ed aumento della
pressione intracranica. Frequenze cardiache fino a 45-50
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battiti/minuto possono essere tollerate nel cane, se non associate ad ipotensione o blocco atriventricolare di II grado tipo
2 di Mobitz. In caso di necessità può essere ridotta la velocità di infusione degli oppiodi.
- Ipertensione arteriosa durante l’anestesia. Può essere controllata aumentando la quantità di oppioidi e propofol
infusi, se causata da una risposta del sistema simpatico alla
stimolazione chirurgica. Non va trattata con vasodilatatori
(acepromazina o nitroprusside), ma con sostanze che migliorino la perfusione cerebrale se si sospetta che sia causata dall’aumento della pressione intracranica. Nella chirurgia
della colonna vertebrale l’ipertensione può essere efficacemente trattata aumentando la profondità dell’anestesia con
agenti inalatori o somministrando propofol.
- Risveglio di pessima qualità. Dopo la chirurgia a carico della colonna vertebrale è solitamente causato da un’inadeguata analgesia. Viene prevenuto somministrando oppioidi prima del risveglio ed infondendo oppioidi (morfina
0.1-0.2 mg/kg/h) nell’immediato postoperatorio. L’infusione
di medetomidina (1-2 µg/kg/h) consente di sedare adeguatamente il paziente, ma al tempo stesso non compromette la
sua capacità di alimentarsi e non compromette l’esecuzione
di un esame neurologico. La qualità del risveglio dopo chirurgia intracranica viene migliorata evitando di risvegliare il
paziente immediatamente dopo la procedura, mantenendolo
addormentato per 1-2 ore dopo il termine della chirurgia intracranica. Nel frattempo i parametri vitali vengono stabilizzati ed il paziente viene riscaldato. L’infusione di oppioidi
può essere terminata con la chirurgia, lasciando all’organismo il tempo di metabolizzarli adeguatamente ed evitando di
incontrare depressione ventilatoria al momento del risveglio.
Il tubo orotracheale deve essere rimosso prima che il paziente possa tossire, ma non prima che possa mantenere adeguatamente le vie aeree. La dose di propofol può essere gradualmente ridotta, fino a quando il paziente non riprende la
ventilazione spontanea. Quando questa è giudicata soddisfacente, l’infusione di propofol può essere interrotta e circa
10-15 minuti dopo il paziente sarà sufficientemente sveglio
per essere stubato. Prima di rimuovere il tubo può essere
somministrata lidocaina (1 mg/kg IV), per prevenire tosse e
una stimolazione cardiocircolatoria indesiderata.
- Demenza dopo il risveglio. È la complicazione più
frequente dopo chirurgia intracranica. Può essere controllata
evitando di stimolare eccessivamente il paziente. Talvolta
può essere necessario somministrare tranquillanti ed, eventualmente, farmaci analgesici.
- Ipertensione arteriosa dopo il risveglio. Si manifesta frequentemente dopo chirurgia intracranica ed insorge alcune ore dopo il risveglio. Se non è associata ad un deterioramento neurologico è probabilmente causata da dolore o
dalla presenza di sangue a livello peridurale. Dura solitamente circa 6-12 ore e poi si risolve. La pressione arteriosa
media deve essere monitorata con l’obiettivo di mantenerla
al di sotto di 140 mmHg (limite superiore del range di autoregolazione). Per controllare l’ipertensione possono essere
somministrati β bloccanti (che limitano anche il vasospasmo
cerebrale), bloccanti del canale del calcio, oppure, in caso di
necessità, piccole dosi di agenti vasodilatatori. In questi casi, tuttavia, esiste il rischio che l’ipertensione si manifesti
nuovamente al termine della terapia.
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- Deterioramento neurologico. Come già descritto, i
riflessi dei nervi cranici e lo stato del sensorio del paziente devono esser monitorati ad intervalli regolari dopo il risveglio. In caso di deterioramento neurologico può essere
somministrato mannitolo (e/o steroidi), in quanto la più
probabile causa del quadro clinico osservato è l’ipertensione intracranica. È necessario assicurarsi, tuttavia, che la
ventilazione sia adeguata (normocapnia) e che la pressione
arteriosa sia all’interno del range di autoregolazione, altrimenti le misure prese non saranno efficaci. Se il paziente
non risponde adeguatamente, può essere necessaria l’esecuzione di indagini diagnostiche (risonanza magnetica nucleare o tomografia assiale computerizzata) ed, eventualmente, un nuovo intervento chirurgico. L’ipertensione intracranica può essere causata da edema cerebrale postoperatorio oppure da un’emorragia.
- Inappropriata diuresi ed alterazioni dell’equilibrio elettrolitico. Disordini comunemente incontrati dopo
la chirurgia intracranica sono la poliuria e l’ipernatriemia.
Solitamente sono transitori (alcuni giorni) e sono causati
da diabete insipido centrale, somministrazione di steroidi e
diuretici, infusione di oppioidi e di fluidi ricchi di sodio.
Nel postoperatorio può essere somministrata soluzione di
Ringer o elettrolitica bilanciata, appropriatamente integrate con potassio. È consigliabile monitorare la produzione di
urina in relazione alla somministrazione di fluidi, nonché
gli elettroliti e l’equilibrio acido-base per qualche giorno
dopo l’intervento.
- Megaesofago. Il megaesofago è una complicazione
incontrata talvolta dopo la chirurgia a livello della fossa
posteriore (cervelletto). Deve essere identificato ed il paziente trattato in modo da evitare il rigurgito e la polmonite ab ingestis.
- Pneumoencefalo. È una complicazione rara, ma che
richiede tempestivamente un secondo intervento chirurgico
per drenare l’aria e decomprimere il cervello. Può conseguire al passaggio attraverso i seni frontali durante l’accesso chirurgico.
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- Embolia gassosa. È una rara complicazione intraoperatoria, ma può essere letale se non riconosciuta in tempo. In
caso di cospicua emorragia dai seni venosi cerebrali o vertebrali, la pressione venosa può diventare subatmosferica e favorire l’aspirazione di aria. L’aria si accumula nel cuore destro e nell’arteria polmonare determinando prima un’alterazione del rapporto tra ventilazione e perfusione, poi ipertensione polmonare ed insufficienza cardiaca acuta. La patologia può essere riconosciuta identificando le bolle d’aria nella cavità cardiaca con un ecografo oppure con uno stetoscopio esofageo. Quando l’embolia ha raggiunto un volume significativo, induce desaturazione dell’emoglobina e diminuzione della CO2 espirata dal paziente. Successivamente induce una insufficienza cardiocircolatoria acuta.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Federico Corletto c/o Animal Health Trust
Lanwades Park, Kentford, CB8 7UU, Newmarket, Suffolk, UK
e-mail: [email protected]
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Neuroplasticità, iperalgesia, wind up e dolore
Federico Corletto
Med Vet, Cert VA, Dipl ECVA, MRCVS, Newmarket (UK)
È ben noto da decenni che il dolore non è un’entità singola, bensì un fenomeno complesso che interessa l’organismo a diversi livelli. Il dolore acuto, per esempio, ha lo scopo di iniziare riflessi deputati alla protezione dell’organismo, pertanto è ben localizzato, definito ed ha una componente emozionale limitata nel tempo. Il dolore infiammatorio ha carattere differente, è sostenuto da meccanismi locali periferici e dura più a lungo dell’insulto. Ben diverso è il
dolore cronico, che altera lo stato di attivazione del sistema
nervoso centrale ed induce alterazioni dell’omeostasi fino a
determinare un significativo decadimento della qualità della vita del paziente. Da sintomo di malattia, il dolore diviene malattia per se, in quanto rappresenta uno stato alterato
del sistema nervoso centrale, in assenza di danno tessutale
vero e proprio.
Alla base di tale significativo cambiamento della percezione del dolore, fino allo sviluppo di un dolore autosostenuto patologico, è la capacità del sistema nervoso centrale di
riorganizzare i proprio sistemi di amplificazione ed inibizione del segnale, associata ad alterazioni dei recettori a livello
periferico, denominata neuroplasticità.
L’idea di un sistema nervoso centrale statico e passivo
nella componente sensoriale è, pertanto, superata, in favore
di un modello in cui il sistema nervoso centrale è in grado di
processare lo stimolo a livello subcorticale, amplificandolo
fino a trasformare un fenomeno protettivo –il dolore acutoin un evento patologico, il dolore cronico. Ciò è evidente sin
dal 1965, quando è stata ipotizzata l’esistenza di un sistema
di modulazione del dolore.
Il dolore inizia come nocicezione, l’attivazione di recettori a livello periferico. Anche a questo livello la risposta
dell’organismo è dinamica. Se il dolore persiste, vengono attivati recettori normalmente quiescenti ed aumenta la sensibilità del pool generale dei recettori deputati a percepire gli
stimoli nocivi. Le prostaglandine ed altri mediatori infiammatori (sostanza P, istamina, bradichinina, serotonina, TNF,
noradrenalina, protoni, NGF) esercitano un ruolo fondamentale nell’iniziare e sostenere il fenomeno denominato iperalgesia primaria. La parte colpita dall’insulto e quelle immediatamente adiacenti diventano più sensibili agli stimoli
dolorifici ed anche stimoli al di sotto della soglia dolorifica
diventano dolorosi. Le modalità di intervento terapeutico a
questo livello sono numerose, vanno ricordati i FANS, gli
oppioidi ed i cannabinoidi.
La persistenza dello stimolo dolorifico non adeguatamente controllato determina l’invio di una continua serie di
impulsi al corno dorsale del midollo spinale, ove il segnale
viene modulato localmente e da vie discendenti, quindi inviato al talamo ed alla corteccia cerebrale. Solo a quest’ulti-
mo livello la nocicezione diventa dolore che, per definizione, è un fenomeno che richiede la coscienza.
A livello del corno dorsale del midollo spinale le regioni
periferiche dell’organismo sono rappresentate in maniera somatotopica, pertanto possono essere individuati dei campi
recettivi nei neuroni nocicettivi specifici nelle lamine superficiali del midollo spinale. Esiste un pool di neuroni, (WDR,
wide dynamic range, ampio spettro dinamico, o multirecettoriali), in grado di rispondere sia a stimoli nocivi che non,
secondo l’entità della stimolazione in entrata nel midollo
spinale. Questi neuroni possono essere reclutati per amplificare e modulare il segnale ed hanno campi recettoriali più
ampi rispetto a quelli dei neuroni nocicettivi specifici. L’attivazione ed il reclutamento di tali neuroni determinano
un’alterata percezione del dolore, con un allargamento della
rappresentazione somatotopica dell’area interessata dall’insulto dolorifico.
La normale risposta del SNC al dolore è, come già introdotto precedentemente, l’attivazione di sistemi inibitori discendenti, che modulano il segnale in entrata nel midollo
spinale a livello del corno dorsale. L’esistenza di sistemi inibitori serotoninergici, adrenergici ed oppioidi è ben nota e
viene utilizzata quotidianamente nella terapia del dolore.
La persistenza dello stimolo in entrata non determina,
come ci si potrebbe aspettare, un aumento dell’attività dei
sistemi inibitori, piuttosto induce una maggiore amplificazione del segnale. Il recettore NMDA per il glutammato costituisce un elemento essenziale per l’attivazione dei meccanismi che determinano l’amplificazione del dolore a livello del midollo spinale (iperalgesia secondaria e sensibilizzazione centrale).
Il recettore NMDA per il glutammato è peculiare poiché
per la sua attivazione richiede la contemporanea presenza di
eventi pre e postsinaptici. Normalmente il recettore è quiescente ed il suo canale è bloccato da uno ione magnesio
(blocco voltaggio dipendente). In questa condizione il glutammato liberato nello spazio sinaptica non riesce a stimolare il recettore. La persistente depolarizzazione della cellula
postsinaptica ad opera del glutammato stesso su recettori
AMPA e kainato, determina lo spostamento dello ione magnesio dal canale del recettore NMDA, attivandolo e rendendolo sensibile alla stimolazione del glutammato. L’attivazione del recettore NMDA determina un aumento del calcio intracellulare (influsso attraverso il canale aperto e liberazione dalle riserve intracellulari) e quindi dell’eccitabilità
della cellula, oltre che aumentare l’attività delle kinasi citoplasmatiche. L’attivazione del recettore NMDA per il glutammato è l’evento fondamentale per consentire la sommazione temporale degli stimoli, o wind up, che si manifesta
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già dopo poche ore di persistenza della stimolazione.
L’attivazione del recettore NMDA è legata anche all’inizio di fenomeni di trascrizione nucleare, iniziati dall’attivazione delle kinasi, che determinano una radicale mutazione
dell’attività nel sistema nervoso centrale. Tra i prodotti di tale attività trascrizionale, va ricordato il protoncogene c-fos,
che è un marker di sensibilizzazione centrale. La funzione
del gene c-fos non è ancora chiara, ma sembra possa controllare l’attivazione di altri sistemi di produzione di neuropeptidi. A tale proposito una caratteristica interessante dei
fenomeni neuroplastici che avvengono nel corno dorsale del
midollo spinale è l’alterazione della produzione di neurotrasmettitori: il dolore che persiste per diversi giorni determina
l’aumento della produzione da parte dei terminali in entrata
nel midollo di neurotrasmettitori con azione pronocicettiva
(sostanza P, neurokinine, prostaglandine, tirosina kinasi,
CGRP) e dei loro relativi recettori. L’effetto finale dell’alterazione della produzione e della liberazione di neurotrasmettitori e della riorganizzazione delle sinapsi nel corno
dorsale del midollo spinale è un dolore autosostenuto, afinalistico, che si estende oltre l’area dell’insulto primario e non
che persiste oltre la durata dell’insulto. Per scatenare questi
eventi il dolore deve estendersi per molti giorni o settimane.
Il recettore NMDA interagisce anche con la modulazione
del dolore esercitata dagli oppioidi. L’aumento del calcio intracellulare legato all’attivazione del recettore NMDA attiva
enzimi proteina-kinasi che alterano lo stato di fosforilazione
del recettore per gli oppiacei, determinando tolleranza. È probabilmente per questo motivo che il dolore cronico risponde
in modo poco soddisfacente alla terapia con oppioidi. La
somministrazione di oppioidi per il trattamento del dolore è
in grado, in modo simile, di attivare le stesse kinasi e quindi
diminuire l’efficacia del trattamento analgesico. Il metadone
sembra differenziarsi dagli altri oppioidi in quanto è in grado
di attivare il recettore per gli oppioidi (OR3), ma allo stesso
tempo blocca il recettore NMDA, ritardando l’insorgenza
della tolleranza. Il fascino teorico di questo concetto diviene
interesse pratico nel momento in cui si considera che l’infusione di oppioidi potenti (fentanyl, remifentanil) determina
l’insorgenza di tolleranza nel giro di alcune ore.
La riorganizzazione del midollo spinale determina, se
non trattata, una riorganizzazione della corteccia cerebrale.
È questo il caso del “phantom limb” o del dolore neuropatico determinato dal danneggiamento di un nervo periferico. Il
nervo danneggiato va incontro a persistente depolarizzazione e determina alterazioni nel midollo spinale (allargamento
dei campi recettoriali, sommazione temporale). Lo stesso
avviene a livello corticale, ove l’area che rappresenta la parte innervata dal nervo danneggiato si allarga progressivamente ed il dolore si estende quindi ad aree adiacenti o, nel
caso dell’arto fantasma, inesistenti.
Per valutare l’impatto clinico di tali fenomeni non è necessario chiedersi se gli animali manifestino la sindrome
dell’arto fantasma, piuttosto è sufficiente pensare ad una
115
compressione cronica di un nervo a livello del forame intervertebrale. Il dolore causato risponde in modo poco soddisfacente alle terapie analgesiche convenzionali ed è altamente invalidante.
Infine, non necessariamente né classicamente considerati
nella neuroplasticità, ma importantissimi dal punto di vista
clinico, devono essere menzionati gli effetti del dolore cronico sugli apparati cardiocircolatorio (ipertensione, tachicardia,
aumento del consumo di ossigeno), respiratorio (diminuzione
della clearance mucociliare, ipoventilazione), gastrointestinale (anoressia, ipodipsia), neuroendocrino (ipercortisolemia),
immunitario (depressione, ritardo della cicatrizzazione), muscoloscheletrico (ridotta mobilità) e, non ultimo in importanza, comportamentale (ridotta interazione, aggressività).
Il dolore cronico e neuropatico, come gia detto, risponde
in modo poco soddisfacente agli analgesici convenzionali
(FANS, oppioidi), pertanto qualora il paziente non dimostri un
significativo miglioramento della condizione clinica, si può ricorrere a terapie meno “convenzionali”, quali la somministrazione di bloccanti del recettore NMDA (ketamina, destrometorfano), la gabapentina (registrata per il trattamento del dolore neuropatico in medicina umana), oppure l’infusione di lidocaina, che stabilizza le membrane cellulari. Considerando
le conoscenze attuali ed i farmaci disponibili, l’approccio meno convenzionale dovrebbe essere riservato, a mio avviso, ai
pazienti che ne possano derivare il massimo beneficio, piuttosto che non riscontrare alcun beneficio e dedurre che tali terapie non debbano essere utilizzate. Per ora il miglior modo di
prevenire le modificazioni del SNC indotte dal dolore è una
efficace analgesia locoregionale, eventualmente associata alla
somministrazione di FANS ed oppioidi.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Federico Corletto c/o Animal Health Trust
Lanwades Park, Kentford, CB8 7UU, Newmarket, Suffolk, UK
e-mail: [email protected]
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Caso dermatopatologico
Luisa Cornegliani
Med Vet, Milano
Antonella Vercelli
Med Vet, Ces Derm, Torino
Anamnesi: un gatto, di razza comune europeo, femmina sterilizzata di 3 anni, veniva portato alla visita dermatologica di consulto. Da due anni il gatto presentava prurito e
lesioni nodulari sulla faccia esterna degli arti anteriori e posteriori, sul collo e sull’addome. In precedenza erano state
effettuate terapie con metilprednisolone acetato alla dose di
40 mg/im/gatto (Depo-medrol, Pharmacia & Upjohn, Milano) ogni 2-3 mesi. Dopo ogni singola iniezione, le lesioni
cutanee ed il prurito andavano incontro a risoluzione. Tuttavia nell’ultimo anno, le recidive erano aumentate ed infine il trattamento farmacologico era risultato inefficace.
Esame obiettivo generale e particolare: il
gatto era in buone condizioni fisiche generali. All’esame
obiettivo particolare si osservavano noduli con croste apicali e modesto eritema localizzato sulla parte prossimale laterale di tutti gli arti e intorno al collo. Le croste erano di colore giallo-brunastre, delle dimensioni di 0.5-1cm e non dolenti alla palpazione. Intorno ad esse era presente ipotricosi
ed eritema. Il gatto manifestava prurito attraverso un eccessivo leccamento degli arti.
Esame dermatopatologico:
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Trattamento proposto:
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Evoluzione clinica
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Definizione dei problemi dermatologici:
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Lista di diagnosi differenziali:
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Procedure diagnostiche:
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Discussione:
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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Educazione del proprietario nella gestione cronica
del paziente epilettico
Francesca Cozzi
DVM, Dipl ECVN, Milano
Chiara Matteri
Med Vet, Tramezzo (CO)
Introduzione
Nel cane e nel gatto l’epilessia è una patologia cronica, inguaribile, in quanto può essere controllata con la terapia ma difficilmente eliminata, e dinamica: sia la patologia che la terapia,
infatti, subiscono generalmente modificazioni quali-quantitative
nel tempo4. Il veterinario deve, da subito, essere quanto più
chiaro possibile in modo che il proprietario abbia una conoscenza reale della situazione che (se accetterà) dovrà affrontare quotidianamente per tutta la vita dell’animale. In questo
modo è possibile individuare correttamente chi tra i proprietari è disposto a continuare: si individua cioè la “soglia di
sopportazione” di ciascuno, assolutamente soggettiva, che è
un presupposto essenziale su cui basare tutto l’iter successivo: senza la totale collaborazione del cliente non ha senso la
somministrazione del farmaco come tentativo di ottenere
una qualche momentanea risposta del soggetto2.
Una volta deciso per l’applicazione della terapia anticonvulsivante è necessario che il proprietario sia istruito, preparato e collaborante col clinico. Infatti, tra le diverse cause di
insuccesso nel controllo delle crisi epilettiche rientra anche
la gestione inadeguata dell’animale da parte del proprietario11. La presenza attiva e consapevole del proprietario, però,
può derivare solamente da una corretta e costante partecipazione del veterinario; è indispensabile che il suo ruolo sia
continuo e non si esaurisca alla prima visita7.
Sulla base di numerosi riferimenti presenti in letteratura
alla variabile “proprietario”, il presente lavoro mira a porre
l’accento sull’approccio al cliente dell’animale epilettico come passo chiave nella gestione dell’epilessia; un’informazione adeguata e la consapevolezza del cliente sono i presupposti per ottenere un’applicazione corretta della terapia e
annullare quindi gli insuccessi terapeutici legati ad una scorretta gestione del paziente.
Approccio clinico all’epilessia
Ogni fenomeno clinico inusuale ed involontario che sia
episodico e ricorrente andrebbe indagato come una crisi epilettiforme4. Per contro, non tutte le crisi convulsive devono
essere correlate necessariamente ad una forma di epilessia.
Dal momento che risulta estremamente infrequente che il
veterinario abbia l’opportunità di osservare l’attacco, il ruolo del proprietario e la sua partecipazione (descrizioni accurate, video amatoriali) diventano assolutamente fondamentali; gestire correttamente e con precisione l’anamnesi permet-
te di ottenere un gran numero di informazioni che spesso sono sufficienti per formare un sospetto diagnostico ed indirizzare il clinico verso esami specifici1.
La diagnosi a cui il veterinario può giungere è una diagnosi
per esclusione4; ci si basa sulla descrizione dell’attività convulsiva e delle caratteristiche delle crisi, sui dati segnaletici (età di insorgenza) e su riscontri clinici (visita generale, esame neurologico). L’iter diagnostico deve comprendere accertamenti volti a
considerare od escludere varie cause di crisi convulsive (cause
metaboliche o tossiche come causa di crisi reattive e cause strutturali nell’epilessia secondaria) portando, in caso di assoluta normalità di tutte le indagini effettuate, al sospetto clinico di epilessia idiopatica o essenziale1. Ovviamente l’esecuzione di un iter
diagnostico accurato e completo permette una successiva gestione terapeutica adeguata ed esclude che possibili insuccessi terapeutici siano da attribuire ad una diagnosi non corretta.
La terapia anticonvulsivante deve essere intesa come un
controllo dinamico dell’animale e della sua patologia, sia da
parte del proprietario, sia da parte del clinico attraverso esami diretti periodici dell’animale2. In particolare, più che di
semplice terapia si dovrebbe parlare di “gestione del paziente epilettico”: se la terapia (in senso ampio del termine) non
viene applicata in modo rigoroso in ogni suo aspetto, rischia
di perdere tutta la sua efficacia6.
La decisione di iniziare una terapia anticonvulsivante dipende dal numero delle crisi, dalla loro frequenza, intensità e
natura (rilevata attraverso l’iter diagnostico)2, 4, 14; infatti, non in
tutti i casi le crisi epilettiche devono necessariamente essere
trattate1. In generale si tende a non iniziare la terapia in presenza di un’unica crisi o quando l’intervallo tra un attacco e l’altro
è nell’ordine di mesi2, 4, 6, 11. Al contrario, è consigliabile iniziare la somministrazione di farmaci antiepilettici quando le crisi
si presentano ad una distanza uguale o inferiore alle 6 settimane4, 11, 17 o quando si presentano situazioni particolari.
Un importante fattore da considerare, ancora una volta, è la
disponibilità del proprietario1, 4, 6, 7: in ultima analisi, la terapia
può essere iniziata solamente quando il proprietario, informato e consapevole, decide di accettare questa responsabilità.
Applicazione della terapia
e suo monitoraggio
Uno dei farmaci più conosciuti ed utilizzati in Medicina
Veterinaria è il Fenobarbitale che può essere somministrato
solo o associato ad altri farmaci (come ad esempio, il bromuro di potassio)3, 16, 17.
118
Le caratteristiche del Fenobarbitale fanno si che il farmaco
debba essere gestito con accuratezza ed in maniera continua:
- innalza la soglia epilettogena del soggetto: può quindi ridurre
l’incidenza delle crisi ma non eliminarle completamente12, 17;
- la dose, sebbene si parta da valori standard di riferimento,
deve essere modulata sulla base del metabolismo personale del soggetto15, 17;
- la sua emivita fa si che il farmaco debba essere somministrato due (talora tre) volte al giorno3, 14;
- è sottoposto ad una metabolizzazione epatica cui consegue la sua potenziale epatopatia ed il fenomeno di assuefazione dell’organismo al farmaco11, 17.
Per questi motivi, la terapia anticonvulsivante con Fenobarbitale non può fare a meno del monitoraggio periodico
dei livelli sierici del farmaco, applicato in maniera costante
e continua2, 3, 11, 14, 17.
In particolare, è importante considerare l’animale epilettico come un singolo valutando le sue personali variazioni
metaboliche nei confronti della patologia e della terapia poiché ogni paziente mostra una propria farmacocinetica nei
confronti del farmaco10. Utilizzando il monitoraggio dei livelli sierici ed osservando l’andamento delle crisi si deve ottenere la dose ideale per ciascun paziente6, 10.
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Il successo terapeutico si basa completamente sull’individuazione della terapia ideale per quel determinato paziente2, 3, 6, 7, 11, 12, 15, 17.
Questo risultato può essere raggiunto solo con un costante controllo dell’animale, delle sue eventuali anomalie tra una crisi e l’altra,
dell’andamento degli attacchi e delle dosi del farmaco.
Gli strumenti a disposizione del clinico per attuare questo controllo sono:
- il monitoraggio periodico dei valori sierici del farmaco;
- la documentazione delle crisi, delle modificazioni di queste nel tempo, delle variazioni della terapia che dovrebbero essere scritte e conservate da parte del proprietario;
- contatti telefonici periodici per ottenere informazioni su
variazioni eventuali in tempi brevi.
L’equilibrio tra la qualità di vita raggiunta ed il successo
terapeutico, spesso, è la chiave per decidere da parte del proprietario se continuare o no. Purtoppo, a dispetto di molti
sforzi, tempo, spese e partecipazione, l’animale continua ad
avere crisi. Ecco perché un’adeguata educazione del cliente
diventa fondamentale per il suo adeguamento alla nuova vita
e alle conseguenze della presenza di un animale epilettico5.
Bibliografia
1.
Refrattarietà e pseudorefrattarietà
2.
In una percentuale di casi variabile, che talora raggiunge anche
il 50%, non si riesce ad ottenere un buon controllo delle crisi3, 10, 17.
Le cause di insuccesso possono essere molteplici ma occorre
fare un’importante distinzione. Un soggetto può realmente essere refrattario alla terapia, generalmente per un‘eccessiva intensità
della patologia (crisi prolungate, a grappolo, stato epilettico, fase
postictale lunga, etc) o per mancata risposta da parte dell’animale alla somministrazione del farmaco (da subito o attraverso
un’assuefazione al farmaco progressiva nel tempo)2, 6, 9. Accanto
a questa refrattarietà, definita reale, occorre però considerare anche una pseudorefrattarietà ossia un mancato miglioramento del
soggetto legato a diagnosi errate, a scorretta gestione del paziente da parte del proprietario o a mancato monitoraggio della farmacocinetica del farmaco1, 6, 7, 11, 14, 17. Tutto ciò può portare a modificazioni azzardate della terapia, all’aggiunta irrazionale di nuovi farmaci fino ad arrivare a considerare l’eutanasia. Un soggetto
va considerato refrattario quando la mancata risposta al farmaco
avviene con una terapia correttamente applicata ed un monitoraggio corretto e continuo1, 3, 10, 12. A differenza della refrattarietà
reale, la pseudorefrattarietà è una variabile che può e, quindi, deve essere controllata.
3.
L’educazione del proprietario
L’educazione del cliente riguardo la gestione del paziente epilettico è importante tanto quanto la scelta del trattamento adeguato e per De Lahunta è “un’importante responsabilità per il veterinario e può determinare la sopravvivenza del paziente ed il successo della terapia”4.
Il proprietario deve essere informato su ogni aspetto fin dall’inizio. Occorre che sappia di dover convivere con la patologia e
con la sua terapia per tutta la vita del cane; deve conoscere l’importanza dei controlli periodici; deve essere messo al corrente dei
possibili rischi della terapia anticonvulsivante e sapere che si possono presentare delle situazioni di emergenza11, 17.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Cozzi, DVM, dipl ECVN
Università degli Studi di Milano, Facoltà di Medicina Veterinaria
Dipartimento di Scienze Cliniche, Sezione di Clinica Medica
Via Celoria 10, 20133 Milano - Italy - tel +39 02 50317813
fax +39 02 50318171 - e-mail [email protected]
Chiara Matteri, Via Regina 10 22019 Tremezzo (Como)
349-3920690 - [email protected]
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Neonatologia aviare
Lorenzo Crosta
Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna
Marcellus Bürkle, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna
Linda Timossi, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna
Prima di affrontare i problemi medici del paziente aviare neonato o pediatrico, è importante familiarizzarsi con
l’evoluzione normale del pulcino, sia da un punto di vista
dello sviluppo fisico, sia da un punto di vista psicologico.
Se un veterinario non è in grado di riconoscere la differenza fra un pulcino sano e normale, e un pulcino che inizia ad
avere dei problemi, la sua reazione sarà spesso troppo tardiva per avere successo.
Un sistema semplice, ma precoce ed efficace, per capire se un pulcino stia crescendo bene, è quello di controllarne la curva di crescita. Un errore comune, commesso da
molti avicoltori, ma anche da molti veterinari, è quello di
pensare che un pulcino sia ammalato solo perché il suo peso in un momento dato, è inferiore a quello pubblicato in
letteratura. L’esperienza c’insegna che questo dato ha
un’importanza relativa, mentre è molto più importante analizzare e comparare la silhouette della curva di crescita nella sua completezza: una curva ondulante e con molte puntate sopra o sotto la media dei pesi per la specie, è il vero
indice di un accrescimento anomalo.
In genere si considera normale che nelle prime settimane di vita un pulcino raddoppi il proprio peso ogni sette
giorni: se supera questo traguardo bene, altrimenti in genere ci sono dei problemi.
Altri buoni indicatori di buona salute, e/o parametri da
valutare, sono:
• proporzioni corporee regolari;
• postura normale per la specie;
• stato d’idratazione;
• colore della pelle, sua consistenza ed elasticità, depositi di
grasso;
• sviluppo normale del piumaggio;
• normale forma del becco (controllare simmetria, prognatismo e brachignatismo);
• tono e spessore della parete del gozzo;
• risposta all’imbeccata (secondo la specie);
• eventuale presenza di materiale estraneo nel gozzo;
• produzione di feci normali.
Controlli routinari dei pulcini nella nursery
La neonatologia aviare comprende non solo il controllo
medico dei pulcini ammalati, ma anche l’esame dei pulcini in gruppo nella nursery. Controlli fatti con regolarità
permettono al veterinario di avere una storia clinica piuttosto dettagliata di ogni pulcino nella nursery e lo mettono in
grado di accorgersi per tempo di ogni deviazione dalla normalità, in modo che ogni pulcino sospetto possa venire isolato dal gruppo al più presto.
Il controllo routinario di base che viene attualmente attuato nella nostra nursery, è un semplice esame microbiologico del gozzo e della cloaca di ciascun pulcino in arrivo. Qualora da un pulcino si coltivino batteri potenzialmente patogeni, si effettua sempre un antibiogramma. Ciò
non significa che si cominci già un trattamento, infatti
questo si effettuerà solo se il pulcino mostra anche dei sintomi clinici, oppure quando si rileva la presenza di funghi
o lieviti. Nel caso in cui un pulcino mostri un ridotto accrescimento, o altra sintomatologia e specialmente se si
coltivano batteri potenzialmente patogeni, è bene approfondire la diagnosi con l’ausilio di qualche esame ematologico. Ciò è in funzione della taglia del pulcino e quindi della quantità di sangue che si potrà prelevare senza rischi. Inoltre, anche l’acqua ed il cibo che s’impiegano nella nursery dovranno essere testati regolarmente. Infine,
quando la taglia del pulcino lo permette, si prelevano sangue e piume per la ricerca di Circo- e Polyomavirus.
In linea generale, al Loro Parque, effettuiamo gli esami
microbiologici in due modi distinti, in dipendenza dell’origine dei pulcini:
1. Pulcini incubati artificialmente, che originano da
genitori sani ed esenti dalle principali patologie infettive.
Questi soggetti sono considerati “puliti”, non avendo avuto alcun contatto diretto con animali adulti. L’esperienza
c’insegna che un controllo microbiologico effettuato immediatamente dopo la schiusa non serve e che sovente ci
conduce ad un’erronea interpretazione dei risultati. Infatti, spesso dai pulcini appena schiusi non si coltiva nulla,
ma ciò dipende sia dalle modeste dimensioni del campione, sia dal fatto che nei pulcini appena schiusi non si è ancora sviluppata alcuna flora batterica. Dopo anni d’esperienza, il nostro protocollo prevede di testare i pulcini nati in incubatrice a 3 - 4 giorni d’età: ciò dà la maggiore
probabilità di identificare i patogeni prima che diventino
un problema.
2. D’altra parte, i pulcini che arrivano dai nidi, e che
pertanto hanno passato un periodo con i propri genitori,
sono considerati “potenzialmente sporchi”, e non verranno mischiati con i pulcini delle incubatrici. Questi uccelli verranno invece testati al loro ingresso nella “quarantena” della nursery, che lasceranno solo quando tutti i pulcini presenti nella medesima stanza saranno considerati
“puliti”.
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Come identificare i pulcini ammalati
I pulcini ammalati sono in genere più facili da identificare, rispetto agli uccelli adulti, infatti non hanno ancora sviluppato l’abilità di nascondere i sintomi, al fine di sfuggire ai predatori. Naturalmente esistono segni a cui fare attenzione, come rallentata crescita, rallentato svuotamento del gozzo, addome gonfio, edema generalizzato, accrescimento disarmonico, secchezza/disidratazione, feci anormali, mancata produzione di feci, sintomi neurologici, deviazione degli arti, occhi
“spenti”, o semichiusi, ecc. Se tali segnali sono tipici ed evidenti, esistono naturalmente delle differenza collegate alla
specie, che possono essere più difficili da identificare. Per es.
i pulcini molto giovani di Cacatua e di Ara non reagiscono in
maniera molto diversa, quando vengono manipolati, ma quando si avvicinano allo svezzamento, mentre gli Ara si sdraiano
sulla schiena e si difendono con le zampe, i Cacatua si rannicchiano e scattano con il becco, come per attaccare un aggressore. Nella esperienza degli autori, qualunque pulcini che
manifesti un comportamento anormale per la sua specie e per
la sua età deve essere controllato attentamente.
Problematiche tipiche dei pulcini allevati
dai genitori ed allevati a mano
Benché ci siano malattie ed incidenti che si osservano in entrambe le categorie di pulcini, almeno da un punto di vista percentuale, queste due classi di pazienti mostrano problemi diversi.
Generalmente i pulcini allevati da genitori sani ed esperti, crescono più rapidamente e non hanno problemi comportamentali o infettivi.
Comunque, e soprattutto se i genitori sono inesperti, i
pulcini nel nido devono essere controllati molto spesso per
eventuali problemi con i genitori, con i fratelli, o con le condizioni ambientali. Spesso i pappagalli con pulcini possono
diventare eccessivamente protettivi, quando il nido viene
ispezionato e ciò può portare a incidenti attivi, come l’aggressione dei genitori verso i pulcini, oppure a incidenti passivi, come quando i genitori innervositi calpestano i piccoli
senza volerlo. Questi problemi si possono evitare abituando
i riproduttori all’ispezione routinaria del nido.
I pulcini di psittacidi della stessa covata, normalmente
non nascono nello stesso giorno, pertanto possono sorgere
problemi derivanti dalla differente taglia dei pulcini. Inoltre,
i pulcini nel nido possono avere dei problemi perché il nido
è mal costruito, è posizionato in maniera erronea, fatto che
lo può esporre (e con esso i pulcini) ad eccessivo calore, o
freddo, o umidità.
Infine, riproduttori mal gestiti produrranno facilmente
pulcini deboli, per le carenze indirette provocate dalla alimentazione povera dei genitori.
D’altra parte i pulcini che vengono allevati artificialmente (“alla mano”, “a mano”, o “allo stecco”), dipendono totalmente dall’esperienza del personale addetto, dall’igiene
che il personale è capace di mantenere e, infine, dal “feeling” personale di chi li accudisce. Quando tali pulcini sono
ben curati, il lavoro nella “nursery” scorre senza intoppi e gli
addetti sono esperti e motivati, anche i pulcini allevati allo
stecco possono essere perfettamente sani, spesso sono esen-
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ti da alcune delle tipiche patologie infettive della popolazione adulta e certamente diverranno ottimi pet-birds. Se però
non si realizza una perfetta combinazione di riproduttori sani, personale addetto alla nursery esperto e igiene strettissima, i pulcini allevati artificialmente svilupperanno certamente problemi infettivi, di sviluppo e comportamentali.
Il Pulcino Grave
I pulcini giovani possono morire mooolto rapidamente,
quando sono malati gravi. Per questa ragione, se si sospetta che
un pulcino non stia bene, è sempre meglio iniziare comunque un
trattamento sintomatico. Allo stesso tempo si preleveranno i
campioni diagnostici necessari. Molto spesso i risultati degli esami arriveranno dopo che è già chiaro se il trattamento ha avuto
successo, o meno. Ciò non di meno, è saggio raccogliere dei
campioni diagnostici in anticipo, per le seguenti ragioni:
1. il trattamento può essere modificato secondo i risultati;
2. una diagnosi presuntiva è disponibile per pulcini che mostrassero sintomi simili nello stesso allevamento.
Il pulcino grave in genere si presenta ipotermico e disidratato. Probabilmente non sarà in grado di mantenere la testa eretta e spesso avrà l’addome parzialmente o totalmente
dilatato. Altri sintomi molto comuni nei pulcini ammalati,
sono occhi gonfi (generalmente entrambi), rallentato svuotamento dell’ingluvie, ingluvie con presenza di gas e stipsi.
Tutti questi casi richiedono un trattamento antibiotico
immediato ed aggressivo, accompagnato da un rapido ripristino delle perdite di liquidi. Inoltre, onde evitare una invasione secondaria con miceti e lieviti, è spesso consigliabile
istituire anche un trattamento antimicotico.
I tipici farmaci di prima scelta, a questo scopo, sono Enrofloxacina e Marbofloxacina, ma a causa dell’aumentato
numero di ceppi batterici resistenti ai fluorochinoloni, anche
le cefalosporine di terza generazione (come Ceftriaxone e
Cefotaxime), sono diventate di comune impiego.
I fluidi saranno prevalentemente iniettati sottocute, e ciò
può essere fatto in piena sicurezza anche in pulcini molto
piccoli (10 grammi PV), ma alcuni casi gravi possono richiedere fluidi per via endovenosa, o intraossea.
Il deficit di fluidi può essere stimato dall’aspetto clinico
del paziente:
• un perdita di elasticità cutanea corrisponde circa a una disidratazione del 5%;
• la pelle tende a formare delle pliche e ha perso la propria
lucentezza: disidratazione del 10 - 12%;
• il pulcino è depresso, o comatoso, ci sono sintomi di
shock: disidratazione 12 - 15%.
La quantità di fluidi da somministrare può esser calcolata come segue:
Peso Corporeo Normale (PCN) x (disidratazione stimata
in % x 0.001) + fabbisogno liquido giornaliero (50 ml/kg).
Per esempio, un pulcino che pesi 31 grammi in cui si stimi una disidratazione del 12% riceverà: 35 (PCN) x 0.012)
+ 1.75 = 2.17 ml.
Il cibo verrà somministrato normalmente, se il pulcino lo
accetta e lo digerisce. Se esiste il rischio che venga rigurgitato è meglio ridurre la quantità di pappa per pasto di un 20
- 50% in volume.
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Nel caso ci sia stasi del gozzo, l’ingluvie può essere lavata con una soluzione salina tiepida, alla quale si potrà aggiungere qualche goccia di un disinfettante iodato (p. es. Betadine®). Un poco della soluzione salina potrà essere lasciata nell’ingluvie, dopo che questa sia stata ben lavata, ma secondo l’esperienza degli Autori, si ottengo risultati migliori
somministrando, dopo il lavaggio, una infusione di semi di
cumino, o di finocchio. Tale infusione può anche essere impiegata per ricostituire la pappa per alimentazione a mano,
durante i primi giorni dopo la risoluzione della stasi.
121
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Casi Neonatali Selezionati
9.
10.
Alcuni casi tipici ed esemplificativi verranno esposti durante la relazione.
11.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Lorenzo Crosta, Direttore Veterinario
Loro Parque - 38400 Puerto de la Cruz de Tenerife Spagna
Tel. +34-922-373841 - Email: [email protected]
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Approccio alla selezione dei riproduttori
nell’allevamento aviare
Lorenzo Crosta
Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna
Marcellus Bürkle, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna
Linda Timossi, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna
INTRODUZIONE
La letteratura veterinaria aviare, come anche quella più
incentrata sull’avicoltura, contengono pochi riferimenti alla selezione dei soggetti da riproduzione. I riferimenti alla
gestione degli allevamenti di uccelli ornamentali o da compagnia, generalmente descrivono le strategie per mantenere le malattie fuori dall’allevamento, oppure si concentrano
sulla gestione generale degli aviari, dell’alimentazione ed
eventualmente toccano note di architettura e costruzioni.
Molto spesso l’attenzione è diretta sul fatto che i posatoi
siano corretti, che i beverini, le mangiatoie e i nidi siano
adeguati. Molto raramente si propone un metodo per determinare se un uccello sia potenzialmente un buon riproduttore, oppure se ha un problema che può essere superato, affinché il soggetto diventi un riproduttore, o infine se l’animale debba essere escluso dallo stock dei riproduttori ed
utilizzato in altri modi.
La selezione di soggetti da riproduzione è spesso basata
sulle semplici preferenze ed idee del proprietario dell’allevamento, o del curatore, se si tratta di una struttura professionale. Inoltre, spesso si basa sui tipici “miti” dell’avicoltura, o sul semplice aspetto fisico dei soggetti. Raramente esiste un approccio scientifico al problema della selezione, soprattutto se si affrontano casi di infertilità. In quest’ultimo
caso la dieta degli uccelli è semplicemente integrata con delle vitamine, la nutrizione è “migliorata”, a volte si tentano
terapie antibiotiche o ormonali. Nella maggioranza dei casi
le coppie che non riproducono sono separate, per vedere se
almeno uno dei due soggetti si accoppi con successo con un
elemento diverso. Nel caso positivo, l’uccello che eventualmente non si riaccoppia viene venduto, senza che si giunga
a una diagnosi.
GENERALITÀ
La valutazione degli uccelli che si intende utilizzare come riproduttori deve iniziare con una anamnesi della coppia
che includa:
1. una revisione totale dell’allevamento. Questo aiuterà a capire se l’organizzazione generale segue una sua logica,
oppure se le prestazioni modeste sono generalizzate e
possono dipendere da una gestione sbagliata dell’allevamento;
2. un’anamnesi completa della coppia, intesa come “unità riproduttiva”;
3. un esame clinico completo dei soggetti, intesi come “pazienti individuali”.
A - Revisione totale dell’allevamento: ci sono certamente molti punti dell’allevamento da prendere in considerazione, ma i più importanti sono:
• La collezione è composta da uccelli appartenenti a generi
e specie differenti, o si focalizza su un singolo gruppo sistematico?
• La distribuzione degli uccelli segue un ordine zoogeografico e tassonomico preciso? Oppure si basa su criteri distinti (data di introduzione in allevamento, disponibilità di
voliere in un dato momento, ecc.)?
• Voliere esterne: è ogni specie nel posto più adeguato (in termini di temperatura, umidità, sole/ombra, specie vicine)?
• Voliere interne: è ogni uccello nell’ambiente artificiale più
consono (tipo di gabbia/voliera, posatoi, abbeveratoi, nidi,
ecc.)?
• I vari gruppi sistematici sono nutriti correttamente (tipo e
scelta di cibo, freschezza, metodo di esposizione, stoccaggio delle scorte)?
• Esiste un cambio stagionale nella routine giornaliera (tipo
e quantità di alimento, orari, docce, riscaldamento, arricchimento ambientale)?
B - Anamnesi completa della coppia, come “unità riproduttiva”: al Loro Parque abbiamo sviluppato una scheda clinica specifica che aiuta il veterinario effettuare un’analisi completa e logica delle coppie di riproduttori non producono bene.
1. La prima parte di questa scheda analizza la storia degli uccelli come animali singoli e traccia alcune note circa la
loro storia come coppia. Di ogni soggetto vogliamo sapere
l’origine, l’età e l’anamnesi remota. Già questo può aiutare
molto a capire l’origine di alcuni problemi. Per esempio:
• i soggetti possono essere troppo differenti d’età;
• possono essere troppo giovani o troppo vecchi per riprodursi con regolarità;
• possono essere “mentalmente disturbati”, ovvero non conoscere bene gli schemi comportamentali della propria
specie (come accade a volto negli animali imprintati);
• possono arrivare da centri d’allevamento o altre istituzioni
già conosciuti per avere dei problemi specifici.
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2. La seconda parte della scheda serve per valutare le
prestazioni riproduttive. Si concentra pertanto sul numero,
sulla fertilità e schiudibilità delle uova, ed infine sulla vitalità dei pulcini. Teoricamente sarebbe bene indagare le prestazioni quanto più addietro possibile, però, anche per motivi pratici, si considera sufficiente avere i dati degli ultimi tre
anni.
Questa parte è molto utile per discriminare fra:
• infertilità permanente (deposizione costante di uova sterili);
• fertilità bassa (numero normale di uova per anno, ma con
una bassa fertilità);
• problemi ciclici (sterilità legata alla stagione o ad altri fattori identificabili).
Naturalmente dobbiamo anche prendere in considerazione le uova infettate. Mentre può essere impossibile determinare se un uovo infettato era fertile o no, per lo meno ciò ci
indica che c’è un problema infettivo con uno dei riproduttori (spesso la femmina), che può essere trasmesso attraverso
l’uovo. In questi casi è anche necessario controllare le possibili contaminazioni ambientali.
Inoltre è necessario considerare la schiudibilità delle uova, cioè la percentuale delle uova schiuse rispetto a quelle
fertili, e differenziare fra le uova incubate naturalmente o artificialmente. Ciò aiuta a determinare se il problema è totalmente, o principalmente legato alla tecnica d’incubazione, e
se si manifesta prima, durante o dopo la schiusa.
Anche la vitalità dei pulcini è importante. Individuare le
causa delle morti e localizzare cronologicamente i decessi
(alla schiusa, nei primi giorni, ecc.) aiuta a capire se il problema dipende da una cattiva gestione (p. es. muoiono tutti
nella Nursery), oppure se può avere cause infettive (p. es.
muoiono tutti per una colibacillosi).
C - Esame Clinico ed Endoscopico dei soggetti, intesi
come “pazienti individuali”: la quantità d’informazioni
raccolte fino a questo punto può, a volte, già indicare al professionista esperto, una possibile soluzione del problema.
Altrettanto spesso però, e soprattutto quando i dati anamnestici sono incompleti, un approfondimento clinico, endoscopico e di laboratorio, sono necessari per verificare il reale stato degli uccelli da riproduzione, ed infine poterne decidere un rating.
La terza parte della scheda è pensata per registrare ed
analizzare tutti i dati raccolti durante l’esame clinico.
Gli autori preferiscono esaminare i soggetti in anestesia
generale e ciò principalmente per due ragioni:
1. i soggetti da riproduzione possono essere abituati alla
presenza degli esseri umani, ma generalmente non sono abituati ad essere manipolati. Un contenimento
forzato è estremamente stressante per gli uccelli, molto probabilmente determina una alterazione dei valori
ematici e potrebbe anche essere pericoloso per alcuni
pazienti. D’altra parte, il fatto che il paziente sia anestetizzato è molto utile per scoprire difetti minimi, come un’alterata mobilità di alcune articolazioni, altrimenti di difficile diagnosi;
2. la visita clinica è immediatamente seguita dall’esame
endoscopico, che comunque prevede un’anestesia generale.
123
Dopo aver effettuato tutte queste indagini, il veterinario
può determinare un rating di massima del soggetto come
possibile riproduttore. Nell’esperienza degli autori, il rating
preliminare non sarà necessariamente confermato dagli esami supplementari.
Sempre nella nostra esperienza, è comunque importante
fare questa valutazione al momento dell’esame fisico ed endoscopico, in modo da “fissare” l’impressione che ci si è fatta il paziente.
L’ultima (quarta) parte della scheda riassume i risultati
dei test di laboratorio. Alla luce di tali risultati, verrà anche
proposto un rating definitivo, ed alcuni suggerimenti circa la
destinazione dei pazienti (diagnosi, terapia, esclusione dalla
riproduzione, ecc.)
CASI DIFFICILI
Una situazione problematica s’incontra quando i dati
raccolti non possono scoprire la ragione per cui gli animali non si stanno riproducendo. Naturalmente, se gli esami
non raggiungono lo scopo, allora saranno necessarie analisi diverse.
Una opzione è la valutazione del seme. Lo sperma può
essere emesso volontariamente da un maschio addestrato allo scopo, oppure lo si può ottenere con un massaggio. Infine, il seme può venire ottenuto con un elettroeiaculatore, ma
ciò ha finora avuto successo solo in alcune specie. Dal momento che l’inseminazione artificiale è una tecnica ben descritta ed è usata routinariamente in alcuni ordini (Falconiformes, Gruiformes, Galliformes), esistono anche molte
pubblicazioni che contengono una descrizione della valutazione dello sperma aviare.
Se consideriamo gli psittaciformi, un problema può derivare del fatto che, mentre in alcune specie (Ondulati, Inseparabili) la raccolta del seme è facile, in altre (Conuri), è imprevedibile e dipende molto dal singolo soggetto. Infine ci
sono specie (Ara, Amazzoni), nelle quali la raccolta del seme è sempre difficoltosa.
Quale che sia la tecnica e supponendo che il seme si
sia potuto raccogliere, quest’ultimo deve essere analizzato. Al momento l’unica informazione che possiamo
ottenere dall’analisi dello sperma è una determinazione
della sua qualità ed eventualmente una diagnosi di ridotta fertilità (nel senso di ridotto numero di spermatozoi vitali).
Pertanto, se il seme è di ottima qualità possiamo indirizzare le nostre indagini verso la femmina, ma se lo
sperma è di cattiva qualità, oppure non si è potuto ottenere seme, non abbiamo comunque raggiunto una diagnosi eziologica per le ridotte prestazioni riproduttive
della coppia.
Una delle nuove e più importanti tecniche che abbiamo
sviluppato al Loro Parque, è la diagnosi di malattie testicolari attraverso una biopsia delle gonadi, effettuata in endoscopia.
La biopsia testicolare fu messa a punto come tecnica
chirurgica, al Loro Parque nel 2000 e ben presto si rivelò
uno strumento di insostituibile valore per la valutazione
dei maschi con problemi di fertilità.
124
CONCLUSIONI
La selezione degli uccelli da riproduzione è una questione molto delicata e scoprire le cause d’infertilità può essere
molto difficile.
Un approccio razionale al management generale ed alla
storia clinica dei pazienti può spesso portare alla luce le cause per una produttività bassa.
Se ciò è sufficiente, un esame clinico ed endoscopico
completo, potrà aiutare nel raggiungimento di una diagnosi
ed alla qualificazione (rating) dei soggetti come possibili riproduttori.
Se infine anche queste metodiche fossero infruttuose, diverse nuove tecniche sono oggi a disposizione del veterinario aviare per la selezione dei riproduttori.
Una nuova tecnica è senz’altro l’analisi dello sperma, ma
se questo test mostra una fertilità ridotta o nulla, non dà alcuna indicazione circa la causa del problema.
Gli autori hanno recentemente messo a punto una tecnica mini-invasiva, per l’esecuzione di biopsie testicolari in
endoscopia, ed hanno trovato tale metodica molto utile nei
casi in cui gli altri sistemi diagnostici non hanno dato un risultato definitivo. La diagnosi corretta di malattia testicolare, con un riscontro istopatologico esatto può quindi migliorare la selezione ed il rating dei riproduttori e, a volte,
suggerire una terapia adeguata. In ogni caso un suggerimento circa il comportamento del cliente allevatore, per
quanto riguarda tali soggetti è sempre possibile con tali
nuove tecniche.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Lorenzo Crosta
Direttore Veterinario
Loro Parque - 38400 Puerto de la Cruz de Tenerife Spagna
Tel. +34-922-373841 - Email: [email protected]
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Casi clinici didattici
La profilassi medica nel glaucoma primario canino
La terapia del simblefaro nel gatto
Alberto Crotti
Med Vet, Genova
LA PROFILASSI MEDICA
NEL GLAUCOMA PRIMARIO CANINO
Il glaucoma canino (GC) è caratterizzato da aumento della pressione intraoculare causante danno al nervo ottico e alle cellule ganglionari retiniche ad opera di un gruppo di sindromi cliniche associate. Per tale motivo attualmente si preferisce il termine glaucomi a glaucoma. Il GC rappresenta
una delle cause più frequenti di cecità, spesso irreversibile, in
questa specie. La classificazione del GC distingue glaucomi
primari (PG) da glaucomi secondari (SG). I PG si hanno in
assenza di malattie oculari preesistenti. I SG si manifestano
in presenza di patologie oculari che predispongono alla insorgenza della malattia. I PG vengono a loro volta classificati, in relazione allo stato dell’angolo irido corneale, in glaucomi primari ad angolo aperto (POAG) e glaucomi primari
ad angolo ristretto/chiuso (PCAG). Nei PG vengono anche
compresi i glaucomi congeniti, poco frequenti nella specie
canina, da un punto di vista sintomatologico già presenti al
momento della nascita o che si manifestano nel periodo immediatamente successivo, associati a gravi malformazioni
dello sviluppo oculare. Sebbene il POAG sia la forma maggiormente studiata in relazione alla importanza di tale patologia nella specie umana, il PCGA ha una frequenza di insorgenza di circa otto volte superiore. Il PG è considerato una
malattia potenzialmente bilaterale, infatti anche se spesso il
cane affetto da PG si presenta con interessamento monolaterale la sintomatologia può divenire bilaterale nel corso dei
mesi o anni successivi nel caso molto probabile che l’occhio
inizialmente non colpito presenti anomalie e malformazioni
dell’angolo irido corneale. Il periodo di intervallo tra i due attacchi di glaucoma, se non viene effettuata alcuna terapia preventiva, è compreso tra i 5 e i 12 mesi nel caso di PCAG e varia a seconda delle razze esaminate; la utilizzazione di una terapia preventiva ritarda considerevolmente l’insorgenza della
crisi nell’occhio inizialmente non colpito anche di alcuni anni. La terapia preventiva deve essere effettuata solo nel caso
vi sia stata la manifestazione del PG e in caso di tale evenienza si preferisce curare anche soggetti che presentano
l’occhio sano senza alcuna apparente anomalia. Per questi
motivi è imperativo, nel momento in cui viene portato alla visita il soggetto con PG monolaterale, eseguire un attenta valutazione dell’angolo irido corneale dell’occhio non affetto.
Le razze potenzialmente a rischio di PG sono molte e altre
sono attualmente sotto osservazione per valutare la loro eventuale predisposizione. L’età di insorgenza della malattia varia
a seconda del tipo di glaucoma e della razza. Le terapie pre-
ventive sono rappresentate esclusivamente da terapia medica
topica dal momento che la terapia medica sistemica rimane
abbastanza complessa, impegnativa e anche non priva potenzialmente di effetti collaterali indesiderati. La terapia chirurgica presenta molte controindicazioni e potrebbe potenzialmente indurre la crisi di PG. I farmaci utilizzati per la prevenzione del PG possono agire attraverso una diminuzione
della produzione dell’umor acqueo oppure aumentandone il
deflusso. Spesso vengono utilizzati prodotti con entrambe le
caratteristiche e alcuni di questi principi attivi sono presenti
anche in associazione tra loro. Tra i farmaci più comunemente utilizzati ricordiamo i beta bloccanti, gli inibitori della anidrasi carbonica, i parasimpaticomimetici, le prostaglandine.
Nella terapia preventiva del PG canino possono essere utilizzati in alcuni casi i corticosteroidi topici con lo scopo di controllare la eventuale insorgenza di uveite anteriore che secondo alcune ipotesi potrebbe rappresentare uno dei fattori scatenanti la crisi glaucomatosa. La profilassi del PG canino è in
grado di prevenire anche se non sempre in modo definitivo
l’insorgenza della patologia nell’occhio sano. Si tratta senza
dubbio di una terapia spesso impegnativa ed onerosa per il
proprietario che deve essere protratta per tutta la vita del soggetto o fino al manifestarsi del glaucoma. Poco è attualmente conosciuto sul meccanismo patogenetico dello scatenarsi
del PG e differenze esistono tra il PCAG e POAG;un ruolo
importante potrebbe essere rivestito da infiammazioni concomitanti e dall’invecchiamento del soggetto e molto probabilmente variazioni esistono anche tra le differenti razze.
LA TERAPIA DEL SIMBLEFARO
NEL GATTO
Con il termine simblefaro si intende la presenza di aderenze permanenti di porzioni della congiuntiva bulbare, palpebrale o della nictitante tra loro o a tratti della superficie
corneale. La patologia nel gatto risulta essere più frequentemente monolaterale anche se non è raro l’interessamento di
entrambi gli occhi con fenomeni di differente gravità. La
estensione del simblefaro può essere più o meno ampia fino
ad arrivare al completo interessamento della superficie corneale determinando impedimento visivo. Le aderenze possono determinare anche procidenza della terza palpebra in modo permanente a coprire parte della superficie oculare. Al
simblefaro può conseguire l’insorgenza di cheratocongiuntivite secca determinata dalla occlusione dei dotti escretori
della ghiandola lacrimale principale ed accessoria annessa
126
alla terza palpebra da parte di tessuto congiuntivale cicatriziale. In conseguenza del simblefaro la motilità palpebrale e
il drenaggio lacrimale possono risultare alterati e da ciò consegue spesso epifora cronica. Il simblefaro può essere di origine congenita secondario a oftalmia neonatale ed in alcuni
casi può essere associato ad altre patologie quali il microftalmo. Frequentemente risulta essere un fenomeno acquisito
riferibile a gravi forme infiammatorie molto spesso secondarie ad infezioni da herpesvirus (Fhv1). Esso può essere anche la conseguenza di lesioni traumatiche o da alcali. La patogenesi prevede la perdita dell’epitelio congiuntivale, con
conseguente formazione di fenomeni aderenziali nella fase
di cicatrizzazione, ad opera di qualunque agente eziologico
in grado di danneggiare in modo significativo la congiuntiva. Nella specie umana è stato dimostrato come al meccanismo patogenetico e soprattutto alla tendenza alle recidive
della patologia contribuirebbe in modo determinante la distruzione delle cellule staminali a livello limbare che si viene a determinare al momento dell’infiammazione acuta e la
conseguente impossibilità da parte dell’epitelio corneale di
rigenerare, il tutto associato alla riepitelizzazione della cornea da parte dell’epitelio congiuntivale. Il trattamento del
simblefaro è riservato a forme gravemente invalidanti la motilità palpebrale o determinanti cecità e la terapia deve essere effettuata nei casi in cui il fenomeno infiammatorio non
sia più attivo. Da un punto di vista terapeutico la escissione
chirurgica della aderenze ed il ricorso alla cheratectomia lamellare superficiale nel caso vi sia interessamento corneale
risulta la tecnica di elezione. Alla mobilizzazione della congiuntiva adesa può essere associato il fissaggio della congiuntiva stessa al fine di ricreare il fornice congiuntivale
danneggiato a causa delle aderenze. Le tecniche chirurgiche
utilizzate a tale scopo sono la tecnica di Arlt e di TealeKnappe. Alla terapia chirurgica devono però essere sempre
associate terapie mediche, radianti o la applicazione di lenti
a contatto morbide al fine di evitare la recidiva delle lesioni
trattate. Le terapie mediche utilizzate in veterinaria sono attualmente mutuate dai protocolli terapeutici umani per la terapia dello pterigio. Esse prevedono l’utilizzazione di sostanze antimetaboliti quali la mitomicina C, il 5-fluorouracile e il thiotepa. La mitomicina è una sostanza avente debole
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azione immunosoppressiva ma elevata azione inibente la
proliferazione dei fibroblasti. Essa può essere utilizzata al
momento della chirurgia per applicazione topica in concentrazione variabili e per un tempo limitato, può essere somministrata sotto forma di collirio oppure inoculata a livello
subcongiuntivale al momento della chirurgia o un mese prima della chirurgia ai fini di rallentare la evoluzione della lesione dello pterigio. Nella specie umana le complicanze possibili dell’uso della mitomicina C sono congiuntivite, rialzo
pressorio transitorio, glaucoma, simblefaro, ulcera corneale
e corneo sclerale, edema corneale, perforazione corneale,
cheratite superficiale puntata, iridociclite, cataratta matura a
rapida insorgenza, calcificazione sclerale, emorragie subcongiuntivali, granuloma piogenico, assottigliamento sclerale, comparsa di aree ischemiche sclerali, fotofobia e dolore.
Le complicanze sarebbero in relazione all’età del paziente,
concentrazione della mitomicina e durata della terapia. Il 5
fluorouracile (5-Fu) è anche esso estremamente attivo nei
confronti della proliferazione fibroblastica e viene utilizzato
sia per applicazione topica intraoperatoria allo 0.25% sia per
inoculazione subcongiuntivale in 2-4 siti differenti all’interno dello spessore della lesione. Per quanto riguarda la terapia radiante in umana è stata utilizzata la terapia con raggi
beta che oltre a determinare trombosi dei vasi neoformati
avrebbe anche un effetto inibente la moltiplicazione fibroblastica. La tecnica non è priva di rischi visto l’alto grado di
possibilità di comparsa di complicanze quali necrosi sclerali, ulcere corneali, cheratite e glaucoma. L’utilizzo delle lenti a contatto morbide associate o meno a tarsoraffia temporanea ha lo scopo di impedire il contatto tra la cornea e la
congiuntiva subito dopo l’intervento chirurgico al fine di
evitare recidive e nuove aderenze.
Il simblefaro nella specie felina rappresenta un fenomeno clinico di frequente riscontro nella pratica quotidiana, nonostante ciò poco è descritto in letteratura sulle possibilità
terapeutiche mediche e chirurgiche da utilizzare al fine di
una sua risoluzione.
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Diagnosi e terapia delle principali tachiaritmie
sopraventricolari
Gino D’Agnolo
Med Vet, Trieste
Roberto Santilli
Med Vet, Dipl ACVIM-CA (Card) Malpensa (VA)
INTRODUZIONE
DIAGNOSI
Le tachiaritmie sopraventricolari possono essere classificate in: 1) sinusali; 2) atriali, 3) nodali; 4) atrioventricolari.
Nel primo gruppo sono incluse la tachicardia sinusale automatica (TS), da rientro (TRS) ed inappropriata, nel secondo
la tachicardia automatica atriale (TA), da rientro intra-atriale, il ritmo caotico atriale (RAC), il flutter atriale (FLA tipico, tipico inverso e atipico) e la fibrillazione atriale (FA)3,6.
Le tachicardie nodali sono caratterizzate da un rientro intranodale (tachicardia nodale reciprocante - TRG comune e
non comune) o da un esaltato automatismo sinusale (tachicardia automatica giunzionale - TGA) 3,6. Le tachicardie
atrioventricolari sono tutte da macrorientro ed usano il nodo
atrioventricolare e una o più vie accessorie atrioventricolari.
Secondo la direzione sono classificate in ortodromiche (TAVOR) ed antidromiche (TAVAR) 1,3,6,12-13,16. Le prime percorrono il nodo atrioventricolare in senso anterogrado e la via
accessoria in senso retrogrado, le seconde la via accessoria
in anterogrado ed il nodo AV in retrogrado. Esiste una forma
incessante di tachicardia atrioventricolare ortodromica detta
di tachicardia giunzionale permanente o di Coumel (TGP)
dove la via accessoria atrioventricolare presenta conduzione
retrograda decrementale1,3,6,12-13,16.
Le aritmie sopraventricolari più comuni del cane sono la
FA secondaria a cardiopatie congenite o acquisite con dilatazione atrioventricolare o primaria detta anche FA isolata,
perché presente in cuori sani. La FA presenta un’incidenza
del 0,04 – 0,18% ed il 12-16% di tutte le aritmie. Colpisce
in modo prevalente i maschi (71-82%) con peso medio di
40,5 kg di razza Levriero Irlandese (10,5 – 16,5%) ed il Terranova (56,6 x 1000)2-5,7,11,15.
Tutti i disturbi del ritmo ipercinetici sostenuti sia di natura ventricolare sia sopraventricolare inducono tachicardiopatia una forma ipocinetico-dilatativo con disfunzione sistolica completamente o parzialmente reversibile in 3 – 7 mesi
dopo la risoluzione dell’aritmia14,17. Non sempre risulta facile per un cardiologo distinguere queste forme di tachicardiopatia da disturbi primari del miocardio, in particolar modo
cardiomiopatia dilatativa o insufficienze mitraliche in stadio
avanzato, con aritmie sopraventricolari secondarie. Tale distinzione merita invece di essere sottolineata vista la reversibilità dei danni miocardici nelle forme di tachicardiopatia
con il solo controllo farmacologico o elettrico del ritmo.
L’iter diagnostico da seguire nel caso della scoperta di
una tachicardia sopraventricolare include l’elettrocardiogramma di superficie, il monitoraggio prolungato secondo il
metodo dinamico di Holter o con registratori d’evento, l’esame ecocardiografico e lo studio elettrofisiologico con
mappaggio dei potenziali intracavitari 18.
Elettrocardiogramma di superficie
Per studiare le tachicardie sopraventricolari occorre ottenere un elettrocardiogramma a 12 derivate con il posizionamento degli elettrodi esploranti descritto10. Tutte le tachicardie sopraventricolari sono a QRS stretti (durata QRS < 70
ms) fatta eccezione delle tachicardie pre-eccitate (TAVAR da
fibre di Kent o Mahaim e la FA pre-eccitata) e delle sopraventricolari condotte con aberranza sostenuta. Le tachicardia
a QRS larghi devono essere attentamente differenziate dalle
tachicardie ventricolari monomorfe sostenute attraverso lo
studio delle 12 derivate8. Il metodo più semplice per confermare la presenza di una tachicardia ventricolare è la ricerca
di una concordanza precordiale positiva o negativa. In caso
tale concordanza non sia presente esistono due algoritmi elaborati da Brugada e collaboratori che differenziano le tachicardie sopraventricolari aberranti dalle tachicardie ventricolari (algoritmo 1) e le tachicardie antidromiche dalle tachicardie ventricolari (algoritmo2) 8.
Le tachicardie sopraventricolari a QRS stretti possono
essere in alcuni casi differenziate con l’ECG di superficie attraverso lo studio della frequenza e regolarità dell’elettrocardiogramma e dell’attività atriale (identificazione onda P;
rapporto onde P e QRS e morfologia e asse onde P). Altri
punti da analizzare sono la morfologia del QRS (durata,
aberranza, presenza d’alternanza elettrica), la conduzione
atrioventricolare, le modalità d’inizio e d’interruzione della
tachicardia, gli effetti d’interventi diagnostici quali le manovre vagali e le prove farmacologiche8.
Tutte le tachicardie sopraventricolari presentano attività
ventricolare regolare con eccezione della FA, del FLA e delle
TA con blocchi della conduzione atrioventricolare variabile,
del RAC e della TRG comune con blocco atrioventricolare di
secondo grado di Wenckebach8. Nella FA le onde P sono so-
128
stituite da oscillazioni di forma e polarità variabile dell’isoelettrica (onde f) con frequenze di scarica comprese tra i 450 ed
i 650 bpm. Il FLA presenta caratteristiche onde F a dente di
sega con polarità prevalentemente positiva o negativa nelle derivate inferiori secondo il senso di rotazione in atrio destro.
Per le altre tachicardie a QRS stretti e regolari occorre valutare la presenze di onde P attraverso quattro segni guida: 1) incisura o scalino inizio onda T o durante tratto ST; 2) incisura
sulla branca prossimale dell’onda T; 3) incisura sull’apice positivo o nadir negativo onda T (onda T bifida o segno del cammello); 4) incisura sulla branca distale dell’onda T. 8
Una volta stabilità la presenza e la posizione delle onde
P le tachicardie sono suddivise in base alla durata dell’intervallo R-P’ in tachicardia con RP corto (tratto RP < 50% dell’intervallo RR che lo include) e tachicardie con RP lungo
(tratto RP > 50% dell’intervallo RR che lo include). Le più
comuni tachicardie a RP’ corto sono la TRG comune, la TAVOR con retroconduzione rapida e rare forme di TA o TS
con conduzione atrioventricolare rallentata. Tra le tachicardie con RP’ lungo sono incluse la TRG non comune, la TAVOR con conduzione retrograda lenta, la TGP, molte TA e
TS. Se il tratto RP’ risulta uguale al tratto PR spesso si è in
presenza di TRG comune o FLA con blocco atrioventricolare 2:1, oppure TA o TS. In alcune situazioni non è possibile
evidenziare l’onda P in questi casi la diagnosi differenziale
si pone tra TRG comune, TGA, TA o TS. L’asse dell’onda P
permette di studiare la depolarizzazione atriale anterograda
o retrograda e la relativa concentricità8. La presenza di alternanza elettrica del complesso QRS depone per le TAVOR
con una specificità del 96%. Tale alternanza elettrica è raramente presente in corso di TA (12%) e TRG (2%). L’aberranza funzionale o frequenza dipendente è presente in alcuni casi all’inizio delle forme atrioventricolari ortodromiche e
sempre nelle antidromiche8. La continuazione di una tachicardia con blocco atrioventricolare esclude tutte le forme
atrioventricolari, mentre nelle forme di TA automatiche, nei
FLA e raramente nelle TRG comuni può essere presente un
blocco atrioventricolare 2:1. Il blocco atrioventricolare può
essere invece variabile nella TA, nel RAC, nel FLA e nella
FA e nella TRS. Completa dissociazione atrioventricolare è
spesso evidente nelle TGA. Le tachicardie da macro o microrientro iniziano con battito ectopico nella maggior parte
dei casi atriale, se il battito ectopico evidenzia un intervallo
PR prolungato bisogna pensare ad una TRG comune o ad
una TAVOR con conduzione anterograda attraverso una via
lenta. La TRG non comune e le TAVOR iniziano spesso con
un’ectopia ventricolare. Inizio e fine parossistici sono caratteristici delle TRS e delle TA a lembi autolimitanti, mentre
le forme atriali automatiche presentano un inizio con frequenza crescente (fenomeno del riscaldamento). Anche le
modalità d’interruzione aiutano nel differenziare le tachicardie: un blocco atrioventricolare anterogrado testimonia che
il nodo atrioventricolare fa parte del circuito ed è frequente
nelle TRG comuni e nelle TAVOR, un blocco ventricolo
atriale retrogrado è invece frequente nelle TRG non comuni
e nelle TAVOR. L’interruzione con un’ectopia ventricolare
prematura è un’evenienza comune delle TAVOR. L’induzione di blocchi atrioventricolari con manovre vagali svela l’attività atriale senza interrompere tachicardia nelle TA, nelle
TRS, nel FLA e nella TS; blocca invece la tachicardia nelle
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TRG e nelle TAVOR. L’adenosina evidenzia la doppia via
nodale attraverso un salto nella durata del tratto PR maggiore di 50 ms. Le forme incessanti che causano tachicardiopatia e nelle quali è particolarmente importante effettuare una
diagnosi differenziale con disordini miocardici primari sono:
la TGP, la TAVOR, la TRG non comune, la TRS ed alcune
forme di TA automatiche o da innesco8.
ECOCARDIOGRAFIA
Tachicardie sopraventricolari e ventricolari croniche sostenute inducono, a seconda della frequenza e della durata,
in due –trenta giorni una tachicardiopatia caratterizzata da
un quadro ipocinetico-dilatativo facilmente confondibile con
la forma primaria di cardiomiopatia dilatativa. Il controllo
del ritmo porta nella maggior parte dei casi ad una reversibilità dei danni con normalizzazione degli indici sistolici: frazione di accorciamento in 1-2 settimane e diametri ventricolari in 12 settimane12-14.
TERAPIA
La terapia acuta delle TA richiede una terapia farmacologica duale una mirata a rallentare la conduzione AV, l’altra
ad interrompere l’esaltato automatismo. Le tachicardia giunzionali ed atrioventricolari necessitano una terapia farmacologica singola atta ad interrompere il circuito. Oltre le manovre vagali spesso inefficaci, è possibile utilizzare farmaci
che interrompano la tachicardia senza alterare le condizioni
emodinamiche già precarie: Diltiazem 0,125-0,35 mg/kg
EV, Adenosina 0,5 mg/kg, Esmololo 0,5 mg/kg EV in un minuto, procainamide 6-8 mg/kg EV in 3 minuti3,9. In casi resistenti è possibile effettuare la cardioversione con shock
elettrico esterno con 70-200 J. La terapia cronica deve mirare ad interrompere il circuito o a diminuire la penetranza
ventricolare. Tra i più comuni farmaci che bloccano il nodo
AV la digitale (0,0055 – 0,01 mg/kg OS bid) e il diltiazem
(0,5-1,5 mg/kg OS tid) sono i più usati. La procainamide
orale (10-40 mg/kg OS qid – tid) è usata come agente singolo nel controllo delle tachicardie nodali e atrioventricolari, insieme ai farmaci nodo-bloccanti in corso di tachicardie
atriali. Altri farmaci utilizzabili nelle TSV sono l’amiodarone ed il sotalolo3. Tutte le TPS rientranti possono essere trattate non farmacologicamente con successo ed in modo definitivo attraverso l’ablazione con radiofrequenza13,17.
Bibliografia disponibile presso gli autori
Indirizzo per la corrispondenza:
Gino D’Agnolo, Via Valdirivo, 22 - 34100 - Trieste
Roberto Santilli, Clinica Veterinaria Malpensa
Viale Marconi, 27, 21017 - Samarate - Varese
Tel. 0331-228155 - Fax. 0331-220255
e-mail: [email protected]
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129
Casi clinici didattici
Trapianto corneale congelato in un gatto
Nunzio D’Anna
Med Vet, Roma
Segnalamento: Gatto, razza Persiano, femmina, 2 anni, “Minnie”
Anamnesi: Minnie venne portato a visita oculistica per
un’infezione corneale a carico dell’occhio sinistro che si
protraeva ormai da circa 15 giorni senza alcun segno di miglioramento nonostante la terapia assegnata da un collega a
base di un collirio contenente una miscela di antibiotico e
cortisone. Prima di questo problema non aveva mai sofferto
di problemi oculari.
Reperti clinici iniziali: Intenso blefarospasmo a carico dell’occhio sinistro tale da richiedere la somministrazione di anestetico locale per poter effettuare la visita.
Al centro della cornea era presente un’ulcera superficiale di circa 2 mm di diametro. Ad essa si associava un lieve
edema corneale diffuso e un intensa uveite riflessa indicata
da una miosi estrema associata a resistenza alla dilatazione.
La pressione intraoculare (IOP) era di 8 mm Hg a carico dell’occhio sinistro e 15 mm Hg a carico del destro. Il resto della cornea era trasparente e non si osservavano altre anomalie
a carico del segmento anteriore e posteriore in entrambi gli
occhi (OU) all’osservazione biomicroscopica ed oftalmoscopica. Il riflesso pupillare diretto era assente a sinistra come anche l’indiretto di destra (causa la miosi intensa di OS)
mentre era presente il diretto a destra.
Diagnosi differenziali: 1) Infezione herpetica complicata da infezione batterica. 2) Infezione batterica e/o micotica secondaria a trauma corneale.
Indagini diagnostiche: Si procedette a effettuare
una citologia e un tampone corneale sterile per la coltivazione del campione prelevato alla ricerca di batteri o funghi presenti.
mera anteriore. Consigliata a questo punto la terapia chirurgica i proprietari optarono per tentare ancora con una terapia
medica eventualmente più intensa. Si procedette così ad una
somministrazione oraria degli antibiotici topici, l’atropina fu
intensificata ad 8 ore di intervallo e fu aggiunto del siero
omologo somministrato ogni 2 ore.
Minnie fu ricontrollata dopo 24 ore e a questo punto
l’ulcera diventata ormai a collagenasi aveva coinvolto 2/3
della cornea. La cornea periferica era fortemente edematosa e non era possibile osservare la camera anteriore. I
proprietari acconsentirono, a questo punto, ad effettuare
una terapia chirurgica.
Fu effettuato quindi un trapianto corneale lamellare congelato con cornea omologa del diametro di 9 mm.
La cornea del donatore, prima di essere suturata al ricevente fu scongelata, disepitelizzata e fu liberata di endotelio,
membrana di Descemet e parte dello stroma profondo. La
cornea del ricevente fu accuratamente curettata al fine di eliminare il più possibile tessuto corneale malacico.
Al momento della chirurgia al microscopio operatorio
si osservava una lacerazione della Descemet e dell’endotelio centrale di circa 2 mm. Un tappo di fibrina coagulata manteneva chiuso il foro suddetto A protezione del trapianto fu posto un flap della 3* palpebra per 3 settimane.
Rimosso il flap si osservò il trapianto integrato, perifericamente vascolarizzato ed edematoso. L’edema e i vasi
regredirono circa in 2 mesi residuando un lieve edema
stromale centrale.
Diagnosi clinica e conferma diagnostica:
Il risultato fu negativo per entrambi i tests colturali. Il materiale raccolto per la citologia fu molto scarso e non diagnostico. L’aspetto clinico e il comportamento dell’ulcera
nonostante la terapia fece fortemente sospettare un’infezione batterica di non chiara origine iniziale (Herpetica,
traumatica?).
Trattamento iniziale: Si instaurò una terapia topica iniziale con l’uso di 2 colliri antibiotici, uno a base di
tobramicina e l’altro di ofloxacina somministrati ogni 2
ore a distanza di 10 min. tra di loro e dell’atropina 1% collirio ogni 12 ore.
Aggiornamenti: Il giorno successivo Minnie fu controllata e non si osservò alcun miglioramento, anzi: il blefarospasmo era sempre presente e la lesione era diventata di 4
mm. con margini lievemente malacici, la pupilla era solo
parzialmente dilatata, l’humor acqueo era torbido e si osservava un’importante ipopion nella porzione inferiore della ca-
Conclusioni: L’uso del trapianto corneale congelato per
la riparazione di gravi lesioni corneali è, tra le varie opzioni
chirurgiche a nostra disposizione, quella che consente uno
dei migliori risultati in termini di garanzia di successo e di
trasparenza (soprattutto nel gatto) e quindi particolarmente
indicata in caso di ampi difetti corneali in termini di profondità e di estensione.
Il problema maggiore può essere la sua reperibilità non
essendo sempre a disposizione i donatori. La sua conservazione in collirio a base di gentamicina in contenitore sterile
e a una temperatura di –30° C, come descritto in letteratura,
130
o a –22* C, secondo la nostra esperienza, ne consente un suo
sicuro utilizzo fino a circa 12 o a 6 mesi rispettivamente dall’espianto. Il flap della 3* palpebra ha consentito di limitare,
secondo la nostra personale esperienza, un eccessivo edema
iniziale del trapianto, fenomeno ravvisato in trapianti precedentemente effettuati senza l’ausilio del flap.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Nunzio D’Anna
Via Arrigo Davila, 61 00179 Roma
e-mail [email protected]
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131
Casi clinici didattici
Uveite facoclastica in un coniglio nano
Nunzio D’Anna
Med Vet, Roma
Segnalamento: Coniglio nano, femmina, di circa 1 anno, “Neve”.
Anamnesi: Occhio sinistro opaco da circa 20gg. e lieve
epifora associata. Nessun evento traumatico pregresso segnalato dai proprietari.
Reperti clinici iniziali: I riflessi palpebrale e pupillare, diretto ed indiretto, erano presenti bilateralmente anche se incompleto quello diretto a carico dell’occhio sinistro e indiretto a carico dell’occhio destro. All’osservazione biomicroscopica si osservava una lieve iperemia congiuntivale ed iridea nell’occhio sinistro oltre ad estese sinechie posteriori causanti discoria, una cataratta capsulare
anteriore con estensione corticale ed un’area biancastra
sulla capsula anteriore associata ad una rottura focale della
capsula stessa. In corrispondenza di essa era presente una
sinechia posteriore. L’esame del fondo era normale in entrambi gli occhi così come tutte le altre strutture dell’occhio destro. Il test di Shirmer era di 8 mm/min nell’OD e
di 13 mm/min nell’OS. Il test della fluoresceina era negativo inentrambi gli occhi (OU). La pressione intraoculare
(IOP) era di 18 mmHg OD e 12 mmHg OS.
Diagnosi differenziali: Uveite facoclastica secondaria a 1) Encephalitozoon cuniculi, 2) Infezione batterica, 3)
Rottura spontanea della lente, 4) Trauma.
Indagini diagnostiche: Fu effettuato un profilo ematobiochimico completo che rivelò una spiccata leucopenia
ed un esame delle urine considerato nella norma. Fu inoltre
inviato un campione di siero per la ricerca di E. cuniculi. Il
test di immunofluorescenza effettuato fu positivo con un titolo anticorpale di 1:2560. Il risultato si ottenne dopo 3 settimane dall’invio.
Trattamento iniziale: Neve fu trattata con 2 colliri
a base rispettivamente di desametazone 0,2% QID e tropicamide 1% TID e terapia sistemica con enrofloxacin
5mg/kg PO BID per 10 gg. Fu consigliata una terapia chirurgica mediante facoemulsificazione in associazione alla
terapia medica.
Aggiornamenti: Dopo circa 3 settimane, alla luce dell’alto titolo anticorpale ottenuto, fu prescritto del febendazolo alla dose di 20 mg/kg PO SID per 15 gg. I proprietari acconsentirono all’intervento solamente dopo circa un mese e
mezzo dalla visita iniziale, quando si resero conto che la so-
la terapia medica non riusciva a ridurre in maniera significativa l’infiammazione intraoculare.
Neve fu premedicata con medetomidina 0,5 mg/kg IM e
Ketamina 25 mg/kg IM. Fu quindi successivamente intubata
e mantenuta in anestesia generale in decubito dorsale con
una miscela di isofluorano e ossigeno. In fase preoperatoria
fu somministrato del desametazone 0,2% collirio e tropicamide 0,5% con fenilefrina collirio ogni 30 min. per un totale di 3 volte per ciascun collirio oltre ad un’unica somministrazione di atropina 1% collirio. Inoltre fu somministrato
del carprofen 2,2 mg/kg SC e dell’enrofloxacin 10 mg/kg
SC. La facoemulsificazione durò 3 min. e 32 sec. con una
potenza di ultrasuoni del 70%, un vuoto di 100 mmHg e una
velocità di infusione di 20 cc/min. Per il mantenimento della camera anteriore oltre che per la protezione dell’endotelio
fu utilizzata dell’Idrossipropil Metilcellulosa 2%. Il manipolo dell’infusione/aspirazione fu utizzato per la rimozione
delle masse corticali residue oltre che per l’area biancastra
rilevata presente sulla capsula anteriore.
La cornea fu suturata con vicryl 9-0 con una sutura
continua e alcuni punti nodosi staccati. Il materiale lenticolare aspirato unito alla soluzione di irrigazione utilizzata durante l’intervento fu raccolta in una sacca sterile e inviata al laboratorio per la ricerca citologica di microsporidi di E. cuniculi.
Neve fu dimessa in giornata con terapia locale a base di
desametazone 0,2% collirio e ofloxacina 0,3% collirio ogni
ora fino alle 24.00 e un’unica somministrazione di tropicamide 1% collirio alle
22.00. Il giorno successivo l’occhio operato presentava
una modica infiammazione intraoculare e diverse sinechie
posteriori (già presenti prima dell’intervento). La IOP era di
15 mmHg OD e 13 mmHg OS. La terapia generale con enrofloxacin a 5 mg/kg PO BID fu continuata per 10gg. mentre la terapia topica fu diminuita ad una somministrazione
ogni 2 ore di desametazone e ofloxacina e ogni 8 ore di tropicamide per le successive 24 ore e gradualmente ridotta fino ad una loro somministrazione ogni 12 ore a 3 settimane
dall’intervento.
Ad un mese dall’intervento l’occhio sinistro non presentava più segni clinici visibili di infiammazione ancora attiva
ma esiti avidenti della pregressa uveite (discoria causata da
estese sinechie posteriori).
Diagnosi clinica e conferma diagnostica: La
ricerca citologica dei microsporidi diede esito negativo nonostante l’elevato titolo anticorpale ed evidenti segni clinici
oculari imputabili al protozoo in questione.
132
Conclusioni: E. cuniculi è un protozoo, parassita intracellulare obbligato in grado di sporulare producendo microsporidi ed in grado di infettare conigli ed altri mammiferi. Le
lesioni più comuni nei conigli sono encefaliti granulomatose e nefriti; di solito comunque l’infezione è subclinica, cronica e persistente. Negli ultimi anni si sono osservate sempre
più lesioni intraoculari associabili a tale infezione ma molto
raramente si è riusciti ad isolare i microsporidi di E. cuniculi se non dopo enucleazione. In un solo caso in letteratura è
stato descritto l’isolamento di microsporidi di E. cuniculi ottenuto in seguito a facoemulsificazione.
Il tentativo di isolamento in questo caso non ha dato esito positivo forse per la precedente terapia con febendazolo,
forse per assenza del parassita o forse per un’incorretta tecnica attuata dal laboratorio. Rimane quindi il dubbio che la
rottura della lente potesse essere spontanea mentre è indubbia la convinzione dell’Autore che, qualunque sia la causa
dell’uveite facoclastica, la terapia medica unita a quella chirurgica mediante facoemulsificazione sia la più idonea per
una pronta e definitiva guarigione.
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Bibliografia
Ashton N, Cook C. Clegg F. Encephalitozoonosis (nosematosis) causing bilateral cataract in a rabbit. British Journal of Ophthalmology
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Indirizzo per la corrispondenza:
Nunzio D’Anna, Via Arrigo Davila, 61 00179 Roma
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I mezzi di contrasto: come, quando e perché
Ivana De Francesco
Med Vet, Milano
I mezzi di contrasto (m.d.c.) sono sostanze che introdotte nell’organismo del paziente ne modificano la capacità di
assorbire i raggi X.
Il m.d.c. ideale non dovrebbe essere irritante nè tossico,
avere un buon effetto di contrasto, persistere per un tempo
sufficiente all’esecuzione dei radiogrammi, essere completamente eliminato1.
I m.d.c. possono essere suddivisi in opachi o positivi (con
un maggiore assorbimento di raggi X) e trasparenti o negativi
(con minor assorbimento di raggi X). Le metodiche “miste”
prevedono l’uso combinato di mezzi positivi e negativi.
Mezzi di contrasto opachi
Sono rappresentati da Bario e Iodio, sostanze ad elevato
numero atomico
Bario
Il solfato di bario (BaSO4) è il contrasto più usato per lo
studio dell’apparato digerente, è insolubile in acqua e nei liquidi organici, non viene assorbito e per questo non è tossico. Non è ipertonico e non richiama liquidi nell’intestino. Gli
svantaggi di questa sostanza sono rappresentati dalle perforazioni intestinali, in quanto il passaggio di bario attraverso soluzioni di continuo nella cavità peritoneale può provocare
granulomi o processi adesivi. L’aspirazione di bario nei polmoni può causare polmoniti e a volte, in soggetti defedati o,
quando il materiale aspirato è notevole, anche morte.
In commercio il BaSO4 è reperibile sottoforma di polvere,
che viene mescolata con acqua, di pasta o di sospensione colloidale. La concentrazione delle sospensioni variano da 25 a
60% p.v., a seconda dell’organo od apparato da studiare. Il bario liquido può essere mescolato anche a cibo. La pasta, a concentrazione del 70-100% p.v, di solito si utilizza per lo studio
dell’esofago, la sospensione al 30-60% p.v. per lo stomaco e
l’intestino tenue, la sospensione al 15-20% p.v. per il colon.
Mezzi di contrasto iodati
Si suddividono in composti iodati ionici e non ionici.
Ionici
Costituiti da un anello benzenico cui sono legati tre atomi di Iodio, sono sali sodio o meglumina dell’acido iotalamico, diatrizoico, metrizoico. Formano in soluzione sali con
l’anione contenente Iodio e e il catione (sodio o meglumina)
e questo conferisce loro un’alta osmolalità3. Hanno anche alta viscosità, che può essere ridotta riscaldando il prodotto a
temperatura corporea prima dell’uso.
Le reazioni avverse comprendono danni endoteliali, ipervolemia, aumento della viscosità ematica, vasodilatazione,
edema con neurotossicità diminuita contrattilità miocardica,
tossicità sistemica. Gli effetti collaterali più comuni sono
nausea e vomito.
Non Ionici
Derivati triiodati dell’acido benzoico, non si dissociano
in soluzione, con più bassa osmolalità e più bassa incidenza
di effetti collaterali
A questi m.d.c. appartengono la metrizamide, di prima
generazione, che venne utilizzata per la mielografia, ma con
molti effetti collaterali, lo iopamidolo e lo ioexolo, di seconda generazione, ottenuti dalla modificazione della catena laterale della metrizamide, che ha minimizzato gli effetti collaterali. Infine esiste una terza generazione di prodotti non
ionici, lo iodixanolo e lo iotrolan, che sono i soli finora ad
aver quasi raggiunto l’osmolalità con il plasma.
Mezzi di contrasto negativi
I m.d.c. più utilizzati sono gassosi rappresentati da CO2,
NO2, O2 e aria ambiente. Quest’ultima vede un ampio impiego, soprattutto per lo studio della vescica e del colon,
mentre per lo studio dello stomaco vengono usate per lo più
polveri effervescenti che liberano CO2.
Studio dell’apparato digerente
Preparazione del paziente
Per lo studio dell’apparato digerente è necessario che i
tratti da studiare siano privi di materiale che può disturbare
la distribuzione del m.d.c. e di conseguenza l’interpretazione radiografica. Per questo si consiglia il digiuno di circa 24
ore per il tratto gastrointestinale e di circa 4-6 ore per lo studio dell’esofago. Sarebbe anche meglio praticare un enema
la sera precedente l’esame, e nel caso di esami contrastografici del colon, anche 6 ore prima.
Esofago
Le principali indicazioni per l’esame dell’esofago includono forme acute e croniche di rigurgito, vomito, disfagia,
episodi ripetuti di insufficienza respiratoria4.
Si impiegano BaSO4 in pasta a causa della buona adesività alla mucosa esofagea per evidenziare processi infiammatori, infiltrazioni neoplastiche della parete esofagea, stenosi, sospensioni di bario liquido, a concentrazioni tra 30-
134
45% p.v. per valutare la funzionalità dell’esofago, eventuali
dilatazioni, diverticoli; alle sospensioni, con concentrazioni
del 30%, si può mescolare cibo solido, soprattutto nei casi in
cui esista disfagia per i cibi solidi e non per quelli liquidi.
L’esame a doppio contrasto si ottiene somministrando
prima una piccola quantità di sospensione di bario al 30%
seguita dall’insufflazione di aria, e viene impiegata per lo
studio delle lesioni murali esofagee3.
Si possono usare anche composti iodati ionici se si sospetta una soluzione di continuo dell’esofago, ma essendo
ipertonici possono essere pericolosi in soggetti già disidratati. Sarebbe raccomandato l’impiego di m.d.c. iodati non ionici, che sono isosmolari e quindi possono essere più maneggevoli rispetto a quelli ionici, che posseggono anche l’inconveniente di essere amari e quindi poco palatabili,ma vengono utilizzati poco a causa del loro elevato prezzo.
Stomaco
I segni clinici che conducono alla necessità dell’esecuzione di un gastrogramma sono vomito, ematemesi, dolore
addominale nel settore craniale, anoressia, melena, sospette
masse della porzione craniale dell’addome2.
Preparazione del paziente: oltre al digiuno è necessario
sospendere farmaci che possano influenzare la motilità gastrica.
Gastrogramma positivo: sospensioni di BaSO4 (30-60%
p.v.), circa 12 ml/kg per pazienti di piccola taglia e gatti, e 57 ml/kg per quelli di taglia grande; prodotti organici iodati
idrosolubili, di solito ionici (sodio diatrizoato 40% p.v.), circa 2-3 ml/kg. Viene utilizzato soprattutto per lo studio della
funzionalità e morfologia gastrica e per il riconoscimento di
lesioni extramurali.
La ripresa dei radiogrammi avviene a tempo 0, dopo 1520’ dalla somministrazione del contrasto, dopo 60’ e dopo 3
h. per poter seguire tutto lo svuotamento gastrico. Se vengono usati composti iodati ionici, a causa della loro ipertonicità
i tempi di svuotamento sono accelerati.
Gastrogramma negativo o pneumogastrogramma
Si possono usare polveri effervescenti o bevande gassate, che liberano CO2 o aria ambiente che viene introdotta tramite sondino esofageo. È difficile valutare l’esatta dose per
la distensione gastrica, perché in parte viene eruttata subito
e in parte passa nell’intestino tenue, per cui è necessario aiutarsi con la palpazione dello stomaco valutando la resistenza
che si incontra all’insufflazione.
È utile per il riconoscimento di corpi estranei (c.e.) radiotrasparenti, per lesioni extramurali, murali e intraluminali.
Esame a doppio contrasto
Con l’impiego combinato di un contrasto positivo e negativo, si ottiene un verniciamento della mucosa e ciò permette uno studio dettagliato della mucosa.
M.d.c. positivo: sospensione di solfato di bario al 30%,
5-30 ml a seconda della taglia del soggetto seguito da
m.d.c.negativo da 50 a 200-300 ml finché lo stomaco è disteso.
Piccolo intestino
Indicazioni: vomito, rigurgito, anoressia,melena,diarrea,
dolore addominale, ileo meccanico, ricerca di c. e l.ineari,
studio morfologico e funzionale dell’intestino tenue.
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I m.d.c. impiegati sono gli stessi dello studio dello stomaco, sospensioni di BaSO4 al 30% p.v., o iodati ionici idrosolubili, alla stessa dose usata per il gastrogramma opaco.
I radiogrammi vanno eseguiti a 1, 3 e 5 ore dalla somministrazione del pasto opaco nel cane e a 5, 30, 60 minuti nel gatto.
Colon
Questo tipo di metodica radiografica è diventata meno
frequente con l’impiego dell’endoscopia.
Indicazioni: disordini della defecazione, presenza di sangue, muco, diminuzione di calibro delle feci, tenesmo e dischezia. Questo tratto dell’intestino non si può valutare con
un m.d.c. dato per os, perché non si riesce ad ottenere un
buon grado di distensione dell’organo.
Clisma opaco: si usano solfato di bario micropolverizzato al 15-20%, alla dose di 7-14 ml/kg, oppure prodotti iodati idrosolubili (sodio diatrizoato), al 15-20%, di elezione se
si sospetta una perforazione. Si usa per localizzare il colon e
per uno studio morfologico
Pneumocolon: di solito si impiega aria ambiente, in
quantitativo variabile da 60 a 100 e più ml.Si impiega per localizzare il colon o per studiare lesioni intraluminali
Esame a doppio contrasto: metodica vantaggioso per lo
studio delle lesioni della mucosa, lesioni intramurali.
Il m.d.c. opaco alla dose di 2-3-ml viene introdotto prima, seguito da aria (da 25-50 ml fino alla distensione del colon monitorata con intensificatore di brillanza o con radiogrammi).
Sistema urogenitale
Le procedure più usate per esaminare il sistema urinario
sono urografia escretoria, per il tratto urinario superiore e cistografia e uretrografia per le basse vie.
Urografia
Fornisce una valutazione qualitativa sulla funzionalità renale e morfologica (recessi pelvici, pelvi renale, ureteri).
Si possono usare m.d.c. ionici (diatrizoato o iotalamato)
o non ionici (iopamidolo o ioexolo), che sono escreti per la
maggior parte per via renale, a concentrazione di 880 mg Iodio/kg5, iniettati per via e.v. a bolo.
Preparazione del paziente
Digiuno per 24 ore, acqua ad libitum, clisma intestinale
di pulizia
Esami di laboratorio: BUN, creatinina,urinalisi.
Si eseguono radiografie a 7-10” dall’iniezione del bolo di
contrasto per la fase nefrografica (radiopacità del parenchima renale), a 3’ e 5’ per la fase pielografica (radiopacità del
sistema collettore e ureteri).
La controindicazione maggiore è rappresentata dalla disidratazione, che può dar luogo a necrosi acuta tubulare. A
volte può comparire ipotensione iatrogena da contrasto e
causare insufficienza renale acuta.
Cistografia
Indicazioni: ematuria, disuria, pollachiuria, calcoli, processi infiammatori, assenza dell’ombra vescicale, neoplasie
Cistografia opaca
Si usano m.d.c.iodati idrosolubili al 15-20% alla dose di
50-100 ml. È una metodica utile per la localizzazione della
vescica e per evidenziare rotture e soluzioni di continuo.
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Pneumocistografia
Si inietta aria lentamente alla dose di circa 25-500 ml,
a seconda della taglia e del tipo di lesione da studiare6. Si
usa per localizzare la vescica, in quanto è semplice e poco costosa.
Cistografia mista
Si introducono da 3 a 10 ml di contrasto iodato idrosolubile,poi si immette lentamente aria (4-10 ml/kg) valutando
con la palpazione la distensione della vescica. Ottima per lo
studio di lesioni della mucosa e per i difetti intraluminali.
Le complicanze delle cistografie sono date dall’ematuria
macroscopica, per la massima distensione della vescica o per
traumatismi da cateterizzazione.
Uretrografia
Si usano per lo più m.d.c. positivi ionici e non ionici al
15%, da 5 a 20 ml.
È utile per identificare ostruzioni, stenosi, rotture e difetti congeniti dell’uretra.
135
Bibliografia
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O’Brien T.R., (1978), Radiographic Diagnosis of Abdominal Disorders in the Dog and cat,W.B.Saunders Co., Philadelphia, 141-203.
Thrall D.E., (2002), Textbook of Veterinary Diagnostic Radiology,4th
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Rhodes W.H., Biery D.N. (1967), Pneumocystography in the Dog, J.
Am. Vet. Radiol. Soc., VIII, 45-51.
Indirizzo per la corrispondenza:
Ivana De Francesco, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Università degli Studi di Milano, 0250317808
[email protected]
136
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Nuove applicazioni in citologia diagnostica veterinaria:
il Sistema Nervoso Centrale
Davide De Lorenzi
Med Vet, SMPA, Forlì
Marco Bernardini, Med Vet, Dipl ECVN, Bologna
–
Maria Teresa Mandara, Med Vet, Perugia
INTRODUZIONE
La recente applicazione di moderne e sofisticate tecniche
di diagnostica per immagine (Tomografia Computerizzata e
Risonanza Magnetica) alle patologie intracraniche ed intrarachidee del cane e del gatto ha permesso al clinico di individuare e localizzare una grande varietà di lesioni, neoplastiche
e non, del sistema nervoso centrale. Nonostante l’estrema accuratezza e la qualità delle immagini ottenibili con le apparecchiature di ultima generazione ed il contemporaneo impiego di adeguati mezzi di contrasto, una diagnosi definitiva può
essere ottenuta unicamente attraverso la valutazione al microscopio delle linee cellulari implicate nel processo patologico.
La valutazione istologica di biopsie chirurgiche eseguite in
corso di craniotomia ha rappresentato per lungo tempo, l’unica opzione possibile, con ovvi e comprensibili problemi di
morbilità, mortalità e costi. Il recentissimo impiego in medicina veterinaria di sistemi di centratura stereotattica, adottati
da tempo in neurochirurgia umana, permetterà di ridurre grandemente i rischi correlati a procedure chirurgiche invasive e
complesse. La possibilità di raccogliere in sicurezza frammenti di tessuto nervoso da lesioni sospette in zone poco accessibili e di poterli esaminare rapidamente consente al neurochirurgo di prendere decisioni fondamentali relative alle varie opzioni terapeutiche possibili, una volta definita con precisione la natura della patologia in corso.
La valutazione citologica di strisci preparati da frammenti bioptici richiede solamente pochi minuti e si pone come valida alternativa all’impiego di campioni istologici preparati con microtomo congelatore. La corrispondenza fra
diagnosi citologica ed istologica è alta variando dal 75 al
95% a seconda dei lavori pubblicati.
L’accuratezza diagnostica dei campioni citologici dipende da vari fattori fra i quali la capacità di allestire campioni
adeguati usando tecniche appropriate, l’impiego di coloranti
con i quali si abbia dimestichezza, una buona conoscenza
della citologia normale delle varie aree del SNC ed una adeguata conoscenza dei principali quadri citopatologici relativi alle più frequenti patologie infiammatorie, degenerative e
neoplastiche che possono coinvolgere il SNC.
Lo scopo della prima parte di questo lavoro è quello di
descrivere le caratteristiche citologiche di differenti aree del
SNC normale di cane e gatto mentre nella seconda parte verranno descritte alcune delle caratteristiche citopatologiche
incontrate dall’esame di 30 lesioni
Citologia normale del sistema nervoso
centrale
Sono pochi i lavori relativi alla descrizione citologica del
SNC normale del cane e del gatto; questa trattazione e le immagini presentate nella relazione derivano tutte da campioni
allestiti e colorati con le stesse tecniche; le descrizioni e le
osservazioni sono state eseguite su 3 cani e 3 gatti, tutti soppressi in maniera eutanasica per patologie non correlate a
problemi neurologici.
La necroscopia e la craniotomia sono state eseguite immediatamente dopo la morte dei soggetti; i prelievi di tessuto dal SNC sono stati eseguiti con Tru-Cut 18 G x 9 cm
(Temno Biopsy Device, T 189, Allegrance Healthcare Corporation, USA).
Dal cilindro bioptico così raccolto viene asportato circa
1 mm3 di tessuto da entrambe le estremità; i piccoli frammenti vengono posti fra due vetrini, schiacciati e strisciati
(cd “crush technique) mentre il pezzo principale di tessuto
viene inserito in una provetta contenente formalina tamponata al 10%. Da questo ultimo campione vengono eseguite
valutazioni istopatologiche per confermare l’effettiva normalità del tessuto raccolto.
Tutti i campioni citologici sono stati colorati con MGG
in coloratrice automatica (Aerospray Slide Stainer 7100,
Wescor) ed inclusi con coprioggetto.
Sono state eseguite varie biopsie da differenti aree corticali di encefalo e cervelletto e sono inoltre stati allestiti campioni per schiacciamento da frammenti prelevati da tessuto
ependimale, plessi corioidei e meningi.
Il cervello non è un organo singolo, ma un sistema multiorganico di complessità estrema riguardo al quale ancora
molte sono le scoperte da effettuare.
Le cellule del cervello possono essere divise in elementi
di derivazione neuroectodermica ed elementi di derivazione
mesenchimale;
Le prime possono essere ulteriormente divise in neuroni
e neuroglia.
NEURONI: Cajal, il padre della neurocitologia, sottolineò che i neuroni rappresentano la popolazione più diversificata dell’intero organismo, potendo assumere infinite
dimensioni e varianti morfologiche ed ogni area del cervello mostra una particolare “ predilezione” per una morfologia specifica.
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I neuroni costituiscono l’elemento cellulare di base di
tutto il SNC ed i loro corpi cellulari risultano prevalentemente localizzati nella corteccia, o sostanza grigia. I neuroni variano in dimensioni e forma più di qualsiasi altro elemento cellulare costituente il SNC: i neuroni più piccoli si
incontrano nello strato granulare del cervelletto (4-5 µm)
mentre i più grandi (100 µm) si rinvengono nella corteccia
motoria e nel corno anteriore del midollo spinale. Nonostante l’estrema variabilità, i neuroni possiedono certe caratteristiche comuni: forma angolata o poligonale ed estroflessioni
citoplasmatiche ramificate che rappresentano i dendriti ed i
singoli assoni. Il citoplasma risulta generalmente abbondante, granuloso, ripieno di cd. sostanza di Nissl, ricca di RNA
e neurofilamenti. In alcune aree del cervello il citoplasma
neuronale può contenere neuromelanina. I nuclei dei neuroni risultano rotondi, centrali con tenue pattern cromatinico a
distribuzione regolare ed un singolo nucleolo, generalemente ben evidente.
Neuroni molto piccoli possono difficilmente essere distinti da astrociti reattivi e tecniche particolari di colorazione sono necessarie per una precisa distinzione; in generale, gli astrociti hanno nuclei di forma ovale e questo
può permettere una distinzione dai neuroni i cui nuclei risultano rotondi.
Corteccia CEREBELLARE: Strisci da campioni della
corteccia cerebellare risultano generalmente ad elevata
cellularità a causa dell’alto numero di neuroni che costituiscono lo strato interno, granuloso del cervelletto stesso.
Si tratta generalmente di piccoli neuroni che hanno dimensioni simili a quelle di un piccolo linfocita e spesso
appaiono come nuclei nudi, ipercromatici e circondati da
un fondo fibrillare basofilo.
Occasionalmente, mescolate alle cellule sopra descritte, si rinvengono neuroni di grandi dimensioni, con nucleoli prominenti ed estroflessioni citoplasmatiche: si tratta delle cellule del Purkinje della corteccia cerebellare.
Una ottima conoscenza della citologia normale cerebellare è essenziale poiché le piccole cellule dello strato granulare possono facilmente essere confuse con cellule neoplastiche aventi le stesse caratteristiche citomorfologiche (ad
es. medulloblastoma)
Neuropilo: questo termine indica la matrice intercellulare nel SNC. Si tratta di una fitta tramatura composta dalle fini estroflessioni citoplasmatiche di neuroni, astrociti
ed oligodendrociti ed i nuclei di queste cellule risultano
completamente circondati da questa struttura. Con il
MGG, il neuropilo appare particolarmente prominente e si
colora intensamente di blu-viola.
NEUROGLIA: comprende tre elementi principali:
- astrociti
- oligodendroglia
- cellule ependimali
Gli astrociti, come il nome stesso suggerisce, sono cellule
di forma stellata anche se questa morfologia citoplasmatica
può essere osservata unicamente con colorazioni speciali (ad
es. impregnazione argentica); si riconoscono 2 tipi di astrociti (fibrillari più frequenti nella sostanza bianca e protoplasmatici che predominano nella sostanza grigia) ma la loro distinzione non è possibile con le colorazioni tradizionali.
137
Gli astrociti occupano, nel SNC, la maggior parte dello spazio interposto ai neuroni; si insinuano attorno e lungo gli altri elementi cellulari del SNC. In particolare, i
prolungamenti citoplasmatici si applicano, tramite pedicelli, alla lamina basale dei capillari e proiettano contemporaneamente analoghi prolungamenti sulla superficie dei
neuroni. I questo modo gli astrociti formano compartimenti cellulari attraverso i quali possono avvenire gli interscambi di varie sostanze fra neuroni e torrente circolatorio. La selettività adottata dagli astrociti e l’endotelio dei
capillari del SNC costituiscono una parte fondamentale
della Barriera Ematoencefalica. Gli astrociti, a seguito di
lesioni tissutali del SNC possono assumere attività fagocitaria e forniscono materiale cellulare per la formazione di
cicatrici a seguito di fenomeni degenerativi; in questo senso possono essere paragonati agli elementi connettivali
presenti in altri tessuti.
Gli astrociti sono distribuiti in tutto il SN e si ritiene abbiano una funzione di sostegno nei confronti dei neuroni;
hanno anche tendenza a moltiplicarsi nei siti di danno tissutale. Queste cellule possono essere riconosciute per i loro
nuclei piccoli, ovali, che misurano dai 7 ai 10 µm, a pattern
cromatinico “aperto” e nucleolo piccolo. Gli astrociti hanno
estroflessioni citoplasmatiche delicate e sinuose che si sviluppano in tutte le direzioni e possono essere meglio evidenziate in corso di patologie neoplastiche oppure in corso di
reattività tissutale conseguente a danno del SN.
Nel cervello normale il citoplasma astrocitico non è
evidente e le cellule appaiono come nuclei nudi sulloi
sfondo del neuropilo.
Le cellule oligodendrogliali hanno solamente pochi
processi citoplasmatici, ed anch’essi possono evidenziarsi
unicamente con speciali tecniche di colorazione.
Gli oligodendrociti sono cellule che formano la mielina nel SNC. Negli strisci essi appaiono come piccoli nuclei rotondi e nudi (5 - 7 µm) sullo sfondo fibrillare del
neuropilo. Il loro citoplasma non è evidente e, a causa delle dimensioni e del pattern cromatinico, possono essere
confusi con piccoli linfociti. La cromatina degli oligodendrociti risulta tuttavia più finemente organizzata rispetto a
quella linfocitica. In campioni istologici gli oligodendrociti possono essere confusi con piccoli astrociti; in generale, questi ultimi hanno un nucleo più ovale rispetto a
quello oligodendrogliale, rotondo.
I plessi corioidei rappresentano tessuto specializzato,
localizzato all’interno dei ventricoli, e deputato alla sintesi del LCR. Cellule da queste zone possono essere inavvertitamente raccolte in biopsie da aree prossime al III e
IV ventricolo. Negli strisci solo raramente il tessuto dei
plessi mantiene la sua architettura papillare con presenza
di un asse fibrovascolare circondato da epitelio monomorfo cuboidale o cilindrico basso. Più in generale le cellule si presentano in foglietti, clusters a lassa coesione o
cellule singole. Come le cellule mesoteliali, gli elementi
dei plessi corioidei sono rotonde od ovali, con nucleo piccolo, rotondo e centrale. Con le colorazioni di Romanowsky, le similitudini fra cellule mesoteliali e cellule dei
plessi corioidei risultano particolarmente evidenti: il nucleo si colora intensamente di blu ed il citoplasma, relativamente abbondante, risulta di colore porpora.
138
Le cellule ependimali delimitano la superficie interna dei
ventricoli ed il canale centrale del midollo spinale. La superficie ventricolare di queste cellule è ciliata a che se questa caratteristica tende a scomparite con l’età. Nei campioni
citologici queste appaiono come cellule colonnari, con nuclei ovali, cromatina granulare, nucleoli non evidenti ed organizzate in piccoli clusters. Poiché le giunzioni intercellulari risultano molto forti, più raramente queste cellule si trovano come singoli elementi. Queste cellule vengono incontrate molto raramente in campioni citologici da SNC
La funzione delle cellule ependimali è ancora oggetto di
discussione: di certo costituiscono una barriera fra neuroni e
LCR ed inoltre alcune di esse hanno capacità di assorbire ed
altre di secernere sostanze.
Citologia patologica del Sistema Nervoso
Neoplasie primarie del sistema nervoso (SN) sono state
segnalate in tutte le specie di animali domestici, pur essendo
più frequentemente diagnosticate nel cane dove l’incidenza
e la distribuzione delle neoplasie risulta molto simile a quella della popolazione umana adulta.
Cani e gatti vivono sempre più frequentemente in ambiente domestico, a stretto contatto con i proprietari, raggiungendo sempre più spesso una età nella quale le neoplasie endocraniche mostrano maggiore incidenza.
Sulla base dei relativamente pochi reports relativi alle
neoplasie del SN degli animali domestici, una percentuale
variabile dal 60% all’80% di tali tumori coinvolge il cane,
una percentuale variabile dal 10% al 20% colpisce il gatto e
solamente una percentuale variabile dal 10% al 20% interessa tutto l’insieme delle altre specie animali.
La prevalenza dei vari tipi di neoplasia differisce a seconda di specie e razza interessata: ad esempio, il numero
dei meningiomi risulta relativamente alto nel gatto mentre i
gliomi vengono più frequentemente segnalati nel cane ed in
questa specie, le razze brachicefale sembrano avere la più alta incidenza di oligodendrogliomi.
La classificazione dei tumori del SN è complessa e mutevole; la classificazione veterinaria corrente si rifà a quella
sviluppata nel 1976 dal WHO ed è impostata sulla base delle strutture cellulari primariamente coinvolte dal processo
neoplastico. Le neoplasie vengono divise in quelle che ori-
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ginano da strutture neuroepiteliali (neuroni, glia, ependima e
plessi crioidei) e da strutture non neuroepiteliali (meningi,
guaine dei nervi, ipofisi); in aggiunta si riconoscono linfoma, metastasi ed estensione da strutture contigue (es cavità
nasali, osso, etc).
La nostra casistica è formata da 32 patologie primarie (31
lesioni neoplastiche ed una non neoplastica) endocraniche ed
endorachidee di cane e gatto. In particolare i campioni provengono da 24 cani (15 m e 9 f con una età variabile da 2 a 16 anni) ed 8 gatti (3 maschi di cui 2 castrati e 5 femmine delle quali 3 sterilizzate) con una età variabile da 1 a 15 anni.
La seconda parte di questa relazione prevede la descrizione citologica delle neoplasie riscontrate nella nostra casistica.
Siccome non solamente il tempo ma anche lo spazio è tiranno, non è possibile fornire con questi atti una adeguata
descrizione citopatologica. Chiunque fosse interessato ad
approfondire l’argomento può tuttavia richiedere la bibliografia completa ed il testo delle descrizioni al seguente indirizzo: [email protected].
Letture consigliate
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Indirizzo per la corrispondenza:
Davide De Lorenzi,
Clinica Veterinaria S.Marco, Via Sorio 114/c Padova
Tel 0498561098 [email protected]
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139
Frattura dell’osso radiale del carpo
Mauro Di Giancamillo
Med Vet, Milano
Filippo Martini
Med Vet, Parma
La frattura e la lussazione dell’osso radiale del carpo del
cane, tipiche lesioni da iperestensione dell’articolazione radio-carpica, rappresentano un’evenienza relativamente rara1. Più comuni sono forse le lesioni a carico dell’osso accessorio del carpo soprattutto nella razza Greyhound2. La
lussazione dell’osso radiale del carpo è stata descritta da
Punzet (1974)3 e Miller e coll. (1990)4. Le lesioni alle strutture legamentose di sostegno dell’articolazione del carpo,
che frequentemente si riscontrano a seguito di un evento
traumatico, sono anch’esse ampiamente documentate5,6,7.
Fratture isolate dell’osso radiale del carpo sono state recentemente oggetto di segnalazione in Inghilterra da parte di
Ferguson (1998)8 e Li e coll. (2000)9 nonché in Irlanda10.
Undici dei 15 cani, che costituivano la casistica di Li e
coll.9, appartenevano alla razza Boxer, mentre un’alta prevalenza nella razza Setter irlandese è emersa dallo studio di
Piras10. Sorprendentemente un solo paziente dei 15 descritti da Li e coll.9 aveva un’anamnesi suggestiva di un episodio traumatico acuto.
La nostra casistica è composta da 14 cani affetti dalla
frattura dell’osso radiale del carpo, in sette casi bilaterale ed
in sette monolaterale. I soggetti, 7 Pointer inglesi, 3 Setter
inglesi, 2 Boxer, 1 Breton ed 1 Springer spaniel, 13 maschi
ed 1 femmina, di età compresa tra 12 e 84 mesi, sono stati
sottoposti alla nostra osservazione perché affetti da zoppia a
carico di uno od entrambi gli arti anteriori che, a detta dei
proprietari, si manifestava dopo un intenso e prolungato
esercizio. In tutti i pazienti l’esordio, peraltro subdolo, risaliva a due/tre mesi prima della visita ed anche oltre, in assenza di eventi traumatici acuti noti. Dopo aver sottoposto
gli animali alle prove funzionali dinamiche, veniva individuato l’arto affetto dalla zoppia ed il grado di intensità della
stessa (secondo la classificazione di Cinotti11). Da un accurato esame obiettivo particolare, era possibile rilevare che la
zoppia era costantemente riconducibile ad un’alterazione
dell’articolazione radio-carpica. All’esame ispettivo si poteva osservare, infatti, una modesta tumefazione della regione
carpica, ectasia della capsula ed al pizzicamento transcutaneo della membrana sinoviale era apprezzabile l’ispessimento della stessa. L’iperflessione dell’articolazione radiocarpica risvegliava un intenso dolore, con escursione
articolare conservata o leggermente diminuita. Si è proceduto, in tutti i casi, allo studio radiologico di entrambi i carpi,
eseguendo le proiezioni ortogonali medio-laterale e dorsopalmare e la proiezione medio-laterale in flessione. In due
soggetti sono anche state eseguite, per entrambe le articolazioni le proiezioni dorsoprossimali-dorsodistali. Sono state
utilizzate pellicole radiografiche da mammografia ad alta
definizione Agfa MR 6. In tre soggetti è stato eseguito un
esame tomografico in condizioni basali, impiegando un protocollo che prevedeva l’acquisizione di strati contigui di 1
mm di spessore, filtri di convoluzione per tessuti duri e finestre di visualizzazione di 2400WW/600WL. Il campo di
scansione si estendeva dall’estremità distale radio-ulnare all’estremità prossimale delle ossa metacarpali.
Dall’osservazione dei radiogrammi ottenuti con la proiezione dorsopalmare si è potuto rilevare la presenza di una
sottile linea radiotrasparente a margini regolari, con direzione obliqua latero-mediale-prossimo-distale. Questa linea divideva l’osso in due grossi frammenti pressoché uguali. Nelle proiezioni medio-laterali, estesa e flessa, si è potuto osservare in tre casi un’ulteriore linea radiotrasparente, più
marcata, in corrispondenza della faccia dorso-mediale dell’osso radiale, che mostrava un frammento osseo parzialmente dislocato cranialmente. I margini della linea di separazione del frammento dislocato si presentavano irregolari.
Le indagini tomografiche confermavano e meglio precisavano le anomalie morfostrutturali dell’osso radiale evidenziate all’esame radiografico. Inoltre nel carpo destro di un
Pointer maschio di 3 anni si evidenziavano due linee di separazione, ortogonali tra loro, che consentivano il riconoscimento di tre frammenti. Adiacenti alle linee di separazione
erano facilmente riconoscibili delle aree ipodense disomogenee, segno indiretto di sofferenza osteocondrosica. L’arto
controlaterale presentava invece un’incisura lungo la limitante scheletrica posteriore del radiale, che si prolungava nel
contesto dell’osso per alcuni mm, senza tuttavia attraversarlo a tutto spessore.
Il quadro c1inico-radiologico da noi osservato, sovrapponibile a quello descritto da Li e coll.9 e da Piras10, induce
a pensare che ci si trovi dinanzi alla stessa condizione patologica. L’assenza anamnestica di un trauma acuto ed il quadro sintomatologico ad insorgenza progressiva e decorso
cronico depongono per un’eziopatogenesi rappresentata da
ripetute sollecitazioni funzionali sull’osso radiale, oppure da
un’inerente debolezza dell’osso stesso, o da entrambi i momenti causali9. Il fatto stesso che gli Autori sopraccitati abbiano osservato tale patologia prevalentemente nel cane
Boxer (11 casi su 15) e nel Setter irlandese (dati non disponibili) e, chi scrive, nel cane Pointer e nel Setter inglese, può
140
far supporre un diverso processo evolutivo di ossificazione
in certe razze canine rispetto ad altre, come originariamente
ipotizzato da Pomriaskinsky-Kobozieff e coll. (1954)12.
L’osso radiale del cane, situato medialmente sulla fila prossimale delle ossa del carpo, origina dalla fusione dell’osso
radiale primitivo o Scafoide con le ossa carpali centrale ed
intermedio o Semilunare. La fusione dei tre centri di ossificazione avviene intorno ai tre/quattro mesi di età12. Nel caso
in cui l’ossificazione fosse incompleta, le superfici di fusione di detti centri potrebbero rappresentare “loci minoris resistentiae” dell’osso stesso. Le linee di frattura dell’osso radiale del carpo, osservate nei casi descritti, corrispondono
approssimativamente a questi siti. L’esiguo numero dei casi
da noi osservati e le sporadiche segnalazioni reperibili in letteratura non consentono di trarre conclusioni definitive, ma
tutt’al più di proporre alcune considerazioni. La stretta correlazione tra l’insorgenza della sintomatologia e l’intensa attività fisica di questi animali può indurre a pensare che
l’incompleta fusione dei centri di ossificazione dell’osso radiale del carpo possa essere presente, anche in forma asintomatica, in cani che non svolgono intensa attività fisica, fino
a quando non si vengano a determinare quelle condizioni di
stress meccanico tali da causare la frattura dell’osso radiale
a livello delle linee di ossificazione dei suoi centri, con conseguente instabilità articolare che, nell’evoluzione della patologia, porterà inevitabilmente a quadri clinici sintomatici
di osteoartrite. Stress meccanico che, nel caso dei Boxer descritti da Li e coll. (2000)9, potrebbe essere esclusivamente
rappresentato da una condizione di “overweight” cui questa
razza non si sottrae, a differenza dei soggetti adibiti a lavoro
quali quelli inclusi nella nostra casistica. Relativamente al
frammento dorsale dislocato, è probabile che un eccessivo
carico, conseguente all’iperestensione dell’articolazione radio-carpica durante le veloci andature abbia determinato la
dislocazione del frammento dorso-mediale.
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Ipotesi di incompleta ossificazione sono state formulate anche per altre sedi anatomiche come il condilo omerale, in cani di razza Cocker spaniel da Marcellin-Little e
coll. (1994)13 e Rottweiler da Rovesti e coll. (1998)14, dove
l’ossificazione è stata sostituita da un’unione di tipo fibroso. Gli Autori hanno ipotizzato un fattore ereditario quale
responsabile dell’incompleta unione. Per quanto riguarda
le nostre osservazioni non siamo in grado, data l’esiguità
della casistica, di avvalorare questa ipotesi che, tuttavia,
non può essere esclusa a priori. Sulla scorta di queste nuove acquisizioni, riteniamo opportuno sottolineare l’attenzione che il clinico ortopedico dovrà prestare alla regione
del carpo quando dovrà accertare la causa di una zoppia di
origine ignota.
Bibliografia disponibile presso gli autori
Indirizzo per la corrispondenza:
Ass. Prof. Mauro Di Giancamillo
Sezione di Radiologia Veterinaria Clinica e Sperimentale
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Facoltà di Medicina Veterinaria
Università degli Studi di Milano
Via Celoria 10 - 20133 - Milano
Tel.: +39.02.50317807
Fax: +39.02.50317803
E-mail: [email protected]
Filippo Maria Martini
Dip. di Salute Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria,
Università degli Studi di Parma
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Visita clinica del rapace e procedure diagnostiche
Antonio Di Somma
Med Vet, SMPA, Dubai, United Arab Emirates
Tom Bailey, BSc, BVSc, MRCVS, MSc, PhD, CertZooMed, Dip ECAMS, Dubai, United Arab Emirates.
Christudas Silvanose, BMLT, Dubai, United Arab Emirates.
Celia Garcia-Martinez, LicVet, MRCVS, MSc, Dubai, United Arab Emirates
Sommario
Con la continua crescita del numero di falchi che vivono
in cattività è richiesto al medico veterinario uno specifico
aggiornamento professionale e una maggior conoscenza del
delicato equilibrio psico-fisico degli uccelli da preda.
L’arte della diagnosi nella medicina dei rapaci si basa sul
riuscire a raccogliere una completa informazione tramite questionario con domande mirate, eseguire un veloce ma esauriente esame fisico, raccogliere numerosi dati dagli esami collaterali e quindi interpetrare tutte le informazioni raccolte.
Infine terminare la visita avendo inflitto al falco meno
danni possibili, sia fisici che psicologici.
Ottenere una buona anamnesi è un punto fondamentale
per arrivare alla diagnosi. Inoltre conoscere i più comuni segni clinici di malattia aiuta nalla formulazione di diagnosi
differenziali.
Anche se il falco può presentare un evidente sintomo
spesso il problema è più complesso ed il primo sintomo che
appare può anche non essere il più grave.
È difficile, se non impossibile, condurre un adeguato esame fisico su un rapace spaventato e combattivo se non viene
anestetizzato, non solo è difficile ma può risultare anche pericoloso per il veterinario, per il suo assistente e per il paziente stesso.
È raccomandata sempre l’anestesia con isoflorano o con
la combinazione di isoflorano e una premedicazione iniettabile mediante ketamina/medetomidina.
Una volta ottenuta la diagnosi definitiva è importante seguire ogni caso con il trainer del falco e sviluppare un programma di medicina preventiva.
Introduzione
Si ritiene che l’arte della falconeria è originata 4000 anni fa sugli altopiani dell’Asia centrale, in un’area corrispondente agli attuali stati di Corea, Giappone e Cina.
Ancora oggi queste regioni possiedono le piu alte concentrazioni di uccelli da preda adatti alla falconeria come
Sacri, Pellegrini, Lanari e Aquile.
La passione per la falconeria si propagò quindi lungo la
rotta del commercio della seta fino al mondo arabo e quindi
arrivò in Europa ai tempi delle crociate.
La caccia con i rapaci è quindi lo sport più antico del
mondo.
Il termine rapace deriva dal latino rapere, ovvero afferrare o stringere e viene impiegato per indicare in generale
qualsiasi uccello da preda.
Oggi i rapaci sono mantenuti in cattività per varie ragioni che includono riabilitazione, spettacoli di volo, centri di
allevamento, attività di pest control e di falconeria.
Obbiettivi della relazione
1) come raccogliere una esauriente anamnesi.
2) riassumere le basi dell’esame fisico del rapace includendo le tecniche di contenimento dell’animale.
3) come raccogliere le informazioni sufficienti per arrivare
alla diagnosi compiendo vari esami collaterali.
Cosa devi chiedere
Durante il primo incontro fra il veterinario e il suo paziente, avviene una serie di importanti dinamiche. Per primo
il falco è avvicinato, catturato e mantenuto costretto nonostante i suoi sforzi per sfuggire alla presa. Una volta contenuto, il falco viene esaminato dal veterinario per accertarsi
delle sue condizioni.
Mentre il veterinario è impegnato ad eseguire l’esame
clinico, è il contenimento del falco che attira l’attenzione e
la preoccupazione del trainer.
Nulla può distruggere la fiducia di un falconiere verso il
suo veterinario più velocemente di un incompetente contenimento del falco durante l’esame fisico.
E questo a buon ragione poiché i danni inferti alle penne
primarie e alla coda possono rivelarsi addirittura incompatibili
con il futuro di agonismo o di riabilitazione del soggetto, avendo danneggiato seriamente le sue capacità di volo. È importante tener presente la posssibiltà di danni iatrogeni e intanto
rapportarsi con il trainer per instaurare un rapporto di fiducia e
per apprendere nuove tecniche di manipolazione del falco.
Quando ti viene presentato un rapace per la visita è essenziale ricevere una anamnesi la più dettagliata possibile.
Ricorda di essere paziente e spendere tempo per ottenere
informazioni circa l’alimentazione e qualsiasi altra storia del
142
falco, poiché queste note potranno rilevarsi fondamentali per
la diagnosi.
L’anamnesi si verte su un questionario da rivolgere al
proprietario del rapace mentre ancora il falco è incappucciato sul pugno o è contenuto nel trasportino.
Questionario del Dubai Falcon Hospital:
Provenienza del rapace?
Ragione della visita e problema attuale?
Durata del problema?
Tipo di cibo?
È stato somministrata preda abbattuta con armi da fuoco?
Il falco è riluttante ad ingerire o mangiucchia a piccoli bocconi?
Altri falchi con lo stesso problema?
Hai notato cambiamenti nella voce del falco?
Hai notato cambiamenti nel carattere?
E stato visitato da altri veterinari?
Qual’è il suo alloggio?
Cambiamenti nell’appetito?
Qual’è la sua performance nel volo?
Le feci sono normali?
Per risparmiare tempo ognuna di queste domande ha risposte già codificate per cui il falconiere deve solo selezionare la casella corrispondente.
Osservazione del paziente
L’osservazione del falco prima di eseguire l’esame fisico
è indispensabile.
Non è possibile cominciare l’osservazione nel mezzo di
una normale clinica per piccoli animali poiche il falco sentirà la presenza di un cane o di un gatto come quella di un
predatore e questo aumenterà lo stress della visita. La maggior parte dei falchi addestrati arriverà già con adeguato cappuccio e “geti” (lacci di cuoio che assicurano le zampe contro tentativi di fuga). Per i falchi che arrivano nel trasportino
sarà cura del veterinario procurarsi cappucci e geti di varie
misure per i vari tipi di rapaci. I manufatti in pelle per la falconeria “made in Italy” sono famosi nel mondo e facilmente reperibili.
Gli uccelli selvatici in genere e i falchi in particolare possiedono un enorme capacità di nascondere segni di malattia
fino al punto in cui è impossibile non manifestare malessere. Questa è una strategia di sopravvivenza in quanto l’apparenza del segno di malattia rende l’animale selvatico a rischio di predazione.
Devi osservare il falco attentamente: annota il tipo e la
frequenza degli atti respiratori, la posizione delle ali, se il
piumaggio è arruffato o aderente, la postura sui 2 arti, la velocità di reazione allo stress.
La frequenza respiratoria di un falco a riposo è da 11 a
28 atti al minuto.
Lo stress test può servire per determinare intolleranza allo sforzo.
La condizione del piumaggio va valutata attentamente
controllando le primarie eventualmente danneggiate.
Lo stato di idratazione è stimato elevando una plica cutanea a livello delle dita del falco. Le condizioni fisiche e il
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peso del falco sono in genere direttamente correlate per cui
un uccello in buone condizioni ha un peso corporeo adeguato per la sua specie e per il suo sesso (il maschio è circa un
terzo più piccolo della femmina).
Il peso corporeo è controllato mediante apposita bilancia
con trespolo mentre le condizioni corporee sono valutate tramite palpazione manuale dei muscoli pettorali.
È questo il momento di effettuare anche l’esame delle feci che è semplice e procura molte informazioni. In clinica a
volte bisogna aspettare che il falco deponga le feci su superficie non contaminata, falchi incappucciati di solito sono stimolati appena viene rimosso il cappuccio poiché lo stress di
ritrovarsi in ambiente non familiare stimola l’escrezione.
Se ciò non avviene bisogna depositare alcune gocce di acqua tramite un siringa direttamente nella bocca del rapace.
Contenimento ed esame fisico
L’esame fisico non può esere condotto senza un adeguato contenimento dell’animale. Il paziente rapace può essere
molto più difficile da contenere rispetto a un cane o a un gatto ed una esatta tecnica è essenziale perché il contenimento
sia un episodio senza stress per veterinario, assistente ed animale. Qualsiasi cosa richiesta per l’esame fisico e la raccolta di campioni dovrebbe essere preparato prima di manipolare l’animale. Ricorda che i falchi sono particolarmente suscettibili allo stress e i falchi malati lo sono ancora di più.
L’esame fisico andrebbe eseguito in maniera piu rapida possibile e in quasi tutti i casi e preferibile anestetizzare l’animale. Logicamente va valutato il rischio dell’anestesia rispetto al solo contenimento manuale del falco. In Dubai Falcon Hospital usiamo indurre l’anestesia con un miscela di
Ketamina (3 mg /kg) e medetomidina (0,06 mg/kg) e mantenere quindi l’anestesia tramite isoflorano somministato via
maschera facciale.
Nello stadio dell’esame fisico nulla può essere trascurato poiché potrebbe risultare difficile se non impossibile riaddormentare o ricontenere di nuovo l’animale.
Per non tralasciare nulla è importante adottare una routine
‘step by step’: il miglior approccio è una logica progressione
dalla testa alla coda. Prima di iniziare l’esame è meglio prestare attenzione al tipo e alla frequenza respiratoria per assicurarsi che il paziente non sia in pericolo di vita durante l’esame fisico. Nella regione della testa osserviamo gli occhi, le
orecchie, le narici, il becco, la bocca e l’orofaringe. Gli occhi
devono apparire non infiammati e simmetrici. Le narici vanno
esaminate per eventuali detriti o sierosità. La cheratina del
becco deve essere liscia e senza cracks o deviazioni. La lingua, la glottide e l’orofaringe vanno osservati per eventuali
masse, placche o aeree infiammatorie. Il collo va palpato per
stimare il gozzo e la presenza di eventuali corpi estranei.
Per l’esame dei sistemi cardiovascolare e respiratorio ricorriamo all’auscultazione. Auscultazione dei polmoni, sacchi aerei e cuore prevede porre lo stetoscopio sia sul lato
dorsale che su quello ventrale dell’uccello. Normalmente
non sono udibili suoni respiratori poiché il tessuto polmonare non si espande attivamente. Il battito cardiaco è facilmente udibile su entrambi i lati e il suo rate è intorno ai 350 battiti al minuto.
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La palpazione dell’addome è particolarmente difficile
poiché l’area addominale è stretta e gli organi sono situati
profondamente: risulta importante specialmente nei casi di
ascite o di epatomegalia.
Le ali andrebbero esaminate separatamente per ogni evidenza di fratture o lussazioni, umettare con alcool le piume
aiuta per evidenziare traumi dei tessuti molli. Una ala leggermente abbassata rispetto all’altra può indicare rottura del
tendine del muscolo sopracoricoideo.
Le zampe vanno estese per evidenziare asimmetrie ed è
fondamentale esaminare con buona luce e aiuto di occhiali
igrandenti la superficie palmare dei piedi per non trascurare
la presenza di primi stadi di pododermatite, relativamente
frequente nei falchi mantenuti in cattività.
Ultimo doveroso sguardo alla condizione di tutto il piumaggio e specialmente alla condizioni delle remiganti primarie e secondarie e alle penne dela coda: ricorda che si può
anche ottenere una eccellente guarigione dell’animale ma, se
hai trascurato una primaria danneggiata, quel falco non volerà mai nemmeno discretamente.
Per veterinari impegnati nella medicina dei rapaci può risultare utile diventare familiari con le tecniche di imping (riparazione di penne primarie, secondarie e della coda mediante innesti).
Esami diagnostici
L’esame fisico dei rapaci risulta più veloce di quello dei
mammiferi ma di solito procura meno informazioni e quasi
sempre non è diagnostico.
Per raccogliere ulteriori informazioni è essenziale tutta
la rete degli esami diagnostici da compiere sull’animale
ancora manualmente contenuto e che prevede esame radiografico nelle due proiezioni, esame ematologico e profilo
bichimico, prelievo di campione dalla mucosa esofagea,
esami citologici e colturali, esami microbiologici, esami
tossicologici. Inoltre, nella esperienza del nostro ospedale,
molte volte risulta indispensabile l’esame endoscopico a livello dei sacchi aerei.
Radiografie correttamente posizionate sono imperative
per una corretta interpetrazione. Se lo sterno e le vertebre
non sono perfettamente sovrapposti nella posizione ventrodorsale, se le ali non sono estese simmetricamente e le zampe non sono estese al massimo avrai difficoltà a valutare polmoni, sacchi aerei e fegato. Nella proiezione laterale, la tendenza è quella di ruotare eccessivamente l’uccello abbassando entambe le ali a livello del tavolo. Questo non permette
allo sterno di essere parallelo all’asse del tavolo radiologico
e rende l’interpetazione degli organi addominali falsata.
Il sangue dovrebbe essere prelevato per l’esame emocromocitometrico e per il profilo biochimico. La venipuntura può essere effettuata dalla vena mediale metatarsale,
dalla brachiale o dalla cutanea ulnare superficiale e infine
dalla vena giugulare destra. Il prelievo dall’ala va effettuato solo in paziente in anestesia per la tendenza a sanguinare dopo il prelievo e per i molteplici rischi di ematoma, la-
143
cerazione della vena e anche fratture dovute o improprio
contenimento.
L’esame ematologico nei pazienti aviari è uno dei punti
più importanti nel pannello diagnostico. Forse non esiste altro singolo test che procura tante informazioni circa lo stato
di salute del soggetto.
Il profilo leucocitario varia tra le varie specie di falchi e
la valutazione del leucogramma include la morfologia dei
leucociti e la classificazione dei vari tipi. Gli eterofili tossici
possono indicare setticemia, infezioni virali o fungine.
Il profilo biochimico negli uccelli è di difficile valutazione poiché i risultati sono influenzati da molti fattori: i dati
più consistenti derivano da Proteine totali, AST, acidi biliari
e acido urico.
Altri esami collaterali come l’esame delle feci e l’esame
delle urine dovrebbero già essere stati eseguiti e quindi avrai
già in mano i risultati.
Gli esami parassitologici includono esame microscopico
diretto e dopo flottazione delle feci ed inoltre esame diretto e
dopo colorazione del campione dalla mucosa del gozzo. Le indicazioni per l’esame delle urine sono poliuria e anomala apparenza dei reni all’esame radiografico. Per eseguire il campionamento devi aspirare con siringa la parte liquida e trasparente delle escrezioni evitando contaminazioni da feci ed urati.
L’esame endoscopico con endoscopio rigido 2,7 mm è
diventata parte integrante dell’esame diagnostico dato il
grande numero di informazioni e per la possibilità non solo
di visione diretta ma anche di campioni bioptici da vari organi come fegato, milza, reni e tessuto polmonare.
Logicamente l’abilità del veterinario deve essere supportata da esami citologici, colturali e istopatologici da parte di
laboratori sensibilizzati.
Comunque l’esame endoscopico è quasi sempre diagnostico ed assolutamente essenziale per diagnosticare gli stadi
precoci di aspergillosi, quando la malattia fungina riserva la
prognosi più favorevole.
Conclusioni
La raccolta dell’anamnesi è essenziale per la visita clinica del rapace.Viene consigliato di preparare un questionario
da sottoporre al falconiere.
L’osservazione attenta del rapace e la raccolta di feci e
urine deve precedere la fase di contenimento del falco. L’esame fisico deve essere eseguito metodicamente e deve obbligatoriamente essere integrato dalla rete degli esami collaterali diagnostici.
Bibliografia disponibile su richiesta al relatore
Indirizzo per la corrispondenza:
Antonio Di Somma
Falcon Hospital, PO Box 23919, Dubai, United Arab Emirates
[email protected]
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Aspergillosi aviare: nuovo approccio terapeutico
Antonio Di Somma
Med Vet, SMPA, Dubai, United Arab Emirates
Tom Bailey, BSc, BVSc, MRCVS, MSc, PhD, CertZooMed, Dip ECAMS, Dubai, United Arab Emirates.
Christudas Silvanose, BMLT, Dubai, United Arab Emirates.
Celia Garcia-Martinez, LicVet, MRCVS, MSc, Dubai, United Arab Emirates
Sommario
Il Voriconazolo è un nuovo-triazol derivato ad ampio
spettro antifungino e con spiccata attività in vitro e in vivo
contro Aspergillus spp.
In uno studio non comparativo fra gennaio 2003 e marzo 2004 abbiamo utilizzato il Voriconazolo in 25 falchi con
definitiva diagnosi di aspergillosi per un periodo di 18-108
giorni (media 49 giorni). Il voriconazolo si è dimostrato ben
tollerato dai falchi e ha avuto una efficacia curativa eccellente contro l’aspergillosi. I casi di risposta completa sono
stati 19/25 (76%), 4/25 i casi di risposta parziale (16%) e
solo 2 casi si sono dimostrati refrattari al trattamento (4% di
fallimento).
Il tasso di sopravvivenza dei falchi a 12 settimane è stato di 25/25 (100%).
Un follow-up a lungo termine è stato compiuto su 19/25
soggetti, durante un periodo di 3-12 mesi post-trattamento.
Solo un falco ha dimostrato ricorrenza della malattia (6.25%
di recrudescenza). Oltre alla evidenza clinica, le condizioni
atletiche di 10/25 falchi sono state controllate durante gli
esercizi di volo. Nel 90% dei casi (9 casi su 10) i falchi sono stati considerati in alto livello di fitness.
In falchi con acuta aspergillosi, la terapia iniziale con voriconazolo produce miglior risposta terapeutica e superiore
tasso di sopravvivenza e risulta in minori effetti secondari rispetto all’approccio iniziale standard con amfotericina B o
con itraconazolo.
Introduzione
Le infezioni fungine rimangono una causa di significativa mortalità per tutto il mondo animale, nonostante le recenti ricerche e l’emergenza di nuovi agenti antifungini. Nell’uomo l’aspergillosi invasiva complica malattie associate
all’immunosoppressione ed è in drammatico aumento nei
casi riconosciuti di AIDS e nei casi di trapiantati dove raggiunge la percentuale di incidenza di 8%.
L’aspergillosi porta una mortalità del 100% se la malattia non viene trattata.
L’aspergillosi è anche la più comune delle malattie negli
uccelli selvatici mantenuti in cattività. Anche se può occor-
rere in tutte le specie aviari ci sono chiaramente predilezioni in alcune specie: i gifalchi, gli astori, le poiane codarossa
e le aquile reali sembrano, fra i rapaci, le specie più predisposte a contrarre la malattia.
In Middle East l’aspergillosi nei falchi è una malattia
frequentemente diagnosticata e, fra i fattori predisponenti,
sono considerati la scarsa ventilazione dei locali, lo stress e
le avverse situazioni climatiche, specialmente per falchi che
sono originari di altre regioni geografiche (girfalchi).
Nell’ultima decade la percentuale dei girfalchi e dei loro
ibridi è aumentata notevolmente e questi falchi hanno sostituito le specie semiautoctone nella preferenza dei falconieri
del Middle East.
In un review di 49 casi di aspergillosi di “Abu Dhabi
Falcon Hospital” è stata descritta una mortalità di 17/37
(46%) ma il tasso di mortalità sale al 78% (37/47) se consideriamo i soggetti a cui è stata praticata l’eutanasia subito dopo la diagnosi. I limiti delle correnti terapie contro
l’aspergillosi includono i problemi di tollerabilità e di nefrotossicità dell’amfotericina B e della scarsa biodisponibilità orale dell’itraconazolo.
Farmacologia
Gli azoli sono composti sintetici con uno o più anelli di
5 membri. Essi sono divisi in 2 classi, imidazoli e triazoli, a
seconda se ogni anello contiene 2 (imidazoli) o 3 (triazoli)
atomi di nitrogeno. Fra gli imidazoli annoveriamo il miconazolo,il ketoconazolo e il clotrimazolo, fra i triazoli il fluconazolo e l’itraconazolo. Una delle maggiori differenze fra
i triazoli è che il fluconazolo è solubile in acqua e l’itraconazolo no. Il voriconazolo è il risultato di un programma sintetico per migliorare l’efficacia e lo spettro del fluconazolo.
Come tutti gli altri triazol derivati il voriconazolo esercita la sua attività mediante l’inibizione della demitilazione
di 14 –alpha-lanosterol da parte dell’enzima P450. Questa
inibizione è piu selettiva per le membrane fungine che per i
sistemi enzimatici dei mammiferi. L’accumulo di 14-alphamethyl sterod risulta in una diminuzione di ergosterolo, il
quale è un essenziale componente della formazione della
membrana fungina, e conseguente deplezione del materiale
dalla cellula fungina.
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Farmacocinetica
Le proprietà farmacocinetiche del voriconazolo sono simili sia dopo somministrazione endovenosa che orale con
biodisponibiltà di oltre il 95%.
Sono necessarie solo 1 o 2 ore per raggiungere i picchi
ematici. Comunque la biodisponibiltà risulta diminuita e il
tempo per raggiungere i picchi ematici aumentati quando il
voriconazolo è somministrato insieme al pasto.
Il Voriconazolo è rapidamente assorbito e virtualmente
tutto il medicinale viene metabolizzato dal fegato con il 2%
escreto immutato nelle urine. La sua emivita è stata calcolata
dalle 6,30 ore fino alle 24 ore.
Indicazioni
Il Voriconazolo si è dimostrato efficace in pazienti umani che. erano refrattari o intollerati alle terapie con amfotericina B e con itraconazolo ed in particolare ha dimostrato
buona attività contro aspergillosi invasiva in pazienti neutropenici e profondamente immunocompromessi.
Nello studio 307/602 una risposta soddisfacente a 12 settimane (completa o parziale risoluzione dei sintomi attribuibili e delle lesioni radiografiche-broncoscopiche) è stata osservata in 53% dei pazienti trattati con voriconazolo rispetto
a 32% dei pazienti trattati con amfotericicina b. La sopravvivenza a 12 settimane è stata del 70% nel gruppo con Voriconazolo rispetto a 57% nel gruppo con amfotericina B. In
uno studio su modello animale fu instaurata endocardite da
aspergillus fumigatus in cavie tramite inoculazione con conidia nella vena femorale Questo modello animale è stato
usato per paragonare l’efficacia clinica del voriconazolo rispetto all’itraconazolo. Negli esperimenti di profilassi il voriconazolo al dosaggio di 10 mg/kg fu efficace in quasi tutti
gli animali (11 su 12) mentre l’itraconazolo allo stesso dosaggio si dimostrò non curativo (0 su 12).
Infine il voriconazolo ha dimostrato eccellente protezione contro l’aspergillosi in ratti immunocompromessi ed ha
dimostrato scarsa tossicità quando somministrato agli stessi
al dosaggio di 250 mg/kg per 28 giorni.
Negli studi umani iniziali il voriconazolo è stato ben tollerato. Fra le reazioni avverse sono state notati transitori disturbi
visivi, aumenti degli enzimi epatici e reazioni cutanee.
Materiale e metodi
L’obbiettivo di questo studio è stato di valutare l’efficacia clinica del voriconazolo nel trattamento dell’aspergillosi
nei falchi.
Il protocollo dello studio è stato quello di uno studio non
comparativo in uccelli del genus falco con definitiva diagnosi di aspergillosi.
La diagnosi di aspergillosi ha previsto:
1) l’evidenza di invasione di tessuti da parte di ife fungine
morfologicamente consistenti con Aspergillus.
2) Isolamento di Aspergillus spp da campioni bioptici prelevati dai sacchi aerei.
3) Evidenza di lesioni o placche all’esame endoscopico.
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Per l’inclusione nello studio tutti i casi dovevano rappresentare un nuovo episodio di acuta invasiva aspergillosi.
Sono stati esclusi tutti gli uccelli con cronica aspergillosi definita da durata dei sintomi o da lesioni radiologiche
presenti da più di 4 settimane.
Sono anche stati esclusi tutti i casi che avevano ricevuto
sistemica terapia antifungina con itraconazolo o con amfotericina B per più di 4 giorni nelle ultime 2 settimane.
Tutti i rapaci inclusi nello studio sono stati ospedalizzati
per tutto il periodo della somministrazione del medicinale
per annotare eventuali reazioni avverse al medicinale. Gli
uccelli trattati nello studio sono stati sottoposti ad endoscopia per il prelievo dei campioni e nella maggioranza dei casi è stata possibile la coltura ed il riconoscimento del tipo di
Aspegillus (fumigatus, niger, flavus, terreus, nidulans).
Un sistema endoscopico,specificamente designato per
uccelli (Karl Storz Veterinary Endoscopy) è stato adoperato
in ogni caso. L’endoscopio rigido (telescopio 30 gradi 2,7
mm di diametro) è stato utilizzato all’interno di un canale
con passaggio di servizio per pinza bioptica.
L’esame endoscopico è stato effettuato al livello dei sacchi aerei toracici caudali e della trachea durante anestesia
generale con isoflorano.
Concentrazione minima inibente (MIC)
Nel periodo fra ottobre e novembre 2003 sono stati eseguiti nel laboratorio del Dubai Falcon Hospital studi in vitro
sulla concentrazione minima inibente nei confronti di 62 isolati di Aspergillus coltivati su Sabouraud agar dopo prelievo
dai sacchi aerei in uccelli del genus falco.
In particolare sono stati eseguiti studi comparativi sull’efficacia del voriconazolo rispetto all’amfotericina B e all’itraconazolo.
In 45 casi su 62 il voriconazolo si è dimostrato il medicinale antifungino attivo alla più bassa concentrazione. Mentre vi sono stati 8 casi di resistenza all’amfotericina B e 4 casi di resistenza all’itraconazolo, solo un ceppo di Aspergillus
flavus si è dimostrato refrattario al voriconazolo.
Il range e la media della MIC del voriconazolo nei vari
ceppi di Aspergillus:
A. fumigatus
A. niger
A. terreus
A. flavus (sensible)
A. nidulans
Minimun
Maximun
Mean
0.064
0.094
0.023
0.094
-
0.38
1
0.38
1
-
0.23437
0.43828
0.23546
0.3505
0.047
Falchi
Fra Gennaio 2003 and Marzo 2004, 25 falchi con diagnosi di aspergillosi sono stati trattati con Voriconazolo. 15
degli uccelli (60%) erano femmine and 10 (40%) maschi.
23 falchi (92%) erano giovani sotto 1 anno di età and 2
(8%) erano gli adulti. Tutti appartenevano a Order Falconiformes, Familia Falconidae.
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Specie
Girfalco (Falco rusticolus): 6/25 (24%)
Pellegrino (Falco peregrinus): 3/25 (12%)
Lanario (F. biarmicus): 1/25 (4%)
Red-naped shaeen (F. pelegrinoides babylonicus): 1/25
(4%)
Sacro (F. cherrug): 1/25 (4%)
Ibrido Girfalco/Sacro (F. rusticolus x F. cherrug): 3/25
(12%)
Ibrido Girfalco/pellegrino (F. rusticolus x F. peregrinus):
7/25 (28%)
Ibrido Girfalco/Red-naped shaeen (F. rusticolus x F. pelegrinoides babylonicus): 1/25 (4%)
Ibrido Girfalco/lanario (F. rusticolus x F. biarmicus): 2/25
(8%)
Esame clinico
Tutti gli uccelli sono stati sottoposti ad esame fisico completo e inoltre ad esami parassitologici, endoscopici, radiologici ed ematologici.
At momento della presentazione, le malattie concomitanti erano:
• Coccidiosi 7 /25
• Ascaridiasi 2/25
• Trematodi2 /25
• Teniasi 1/25
• Serratospiculiasi 4/25
• Candidiasi 4/25
• Pododermatite 1/25
I segni clinici al momento della presentazione includevano perdita di peso (5/25), Inappetenza(3/25), dispnea (2/25),
rumore inspiratorio (1/25), tachipnea (5/25) e biliverdinuria
(2/25).
I problemi ematologici comprendevano leucocitosi
(20/25), eterofilia (20/25), eterofili tossici (1/25), linfociti
reattivi (4/25), limfocitosi (1/25), monocitosi (1/25), leucopenia (1/25).
2 falchi su 25 presentavano elevazioni degli enzymi epatici.
Anomalie radiologiche erano presenti in 14/25 birds (56%).
Trattamento
Voriconazolo è stato somministrato come segue:
Dose orale
Per le prime 72 ore
(Dose di carico)
12.5 mg/kg ogni 12 ore
per 3 giorni
Dose dopo le prime 72 ore
(Dose di mantenimento)
12.5 mg/kg
una volta al giorno
Il trattamento è stato somministrato in un range da 18
giorni to 108 giorni (media di trattmento 49.8 giorni).
Il Voriconazolo è stato diluito in acqua (compressa di 50
mg in 5 ml of acqua) e somministrato tramite crop gavage al
minimo 1 ora prima del pasto.
Addizionale topico trattamento è stato acquisito tramite
nebulizzazione in 15/25 uccelli, mentre 10 falchi hanno ricevuto solo il trattamento orale. La nebulizzazione è stata
compiuta con amfotericina B (6/25), with F10 (nome commerciale) (5/25) o con voriconazolo (4/25).
La nebulizzazione è stata provvista una volta al giorno
per 60 minuti.
In 14/25 casi l’endoscopista ha compiuto pulizia chirurgica, rimovendo i granulomi con pinza da biopsia, dai sacchi
aerei e dai polmoni. In 5 di questi 14 casi chirurgici, è stata
applicata. irrigazione con voriconazolo. Il voriconazolo per
nebulizzazione e per irrigazione è stato VCZ formulazione
intravenosa (10mg/ml), diluendo 25mg di voriconazolo (2.5
ml of IV solution) in 20 ml of NaCL2. Dopo il debris chirurgico è stata somministrata antibiotico-terapa con marbofloxacin (7/14), amoxicillin (3/14), trimethoprim/sulphadiazine (2/25).
Durante il corso del trattamento 4 uccelli hanno sviluppato aersacculite batterica secondaria dopo l’endoscopico
debris.
1 falco ha sviluppato moderata amiloidosi epatica (dati
da biopsia del fegato durante esame endoscopico) e un altro
falco ha avuto problema di lesioni da geti al metatarso che
ha richiesto antibiotico-terapia..
Terapia fluida parenterale e alimentazione forzata è sono
stati dispensati a 2/25 falchi con segni clinici.
Risultati
Gli uccelli con aspergillosi inattiva o cronica sono stati
identificati ed esclusi dallo studio. I falchi inclusi nello studio sono stati sottoposti a controlli quindicinali che hanno
previsto visita clinica, esame radiografico, esame endoscopico, esame ematologico, profilo biochimico, esame citologico e colturale.
La completa risoluzione della malattia ha previsto l’assenza di sintomi attribuibili all’aspergillosi, colture o citologie negative e completa risoluzione delle anormalità endoscopiche o radiografiche. Inoltre è stato richiesto il ritorno
nel range di normalità dell’esame ematologico. La risposta
parziale ha previsto la quasi completa risoluzione dei sintomi e per lo meno il 70% di miglioramento delle anormalità
radiografiche o endoscopiche.
Fallimento della terapia ha previsto evidenza di deterioramento delle lesioni dopo la terapia e cosi anche la precoce
discontinuazione per anormali test epatici o per intolleranza
al medicinale.
Efficacia del Voriconazolo come primaria terapia
Completa risposta
Parziale risposta
Fallimento
19/25 (76%)
4/25 (16%)
2/25 (8%)
Discussione
Problemi visivi sono stati riportati in studi umani. Queste anomalie oculari sono state rappresentate da visione diminuita e da fotofobia.Nel nostro studio noi non siamo stati
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in grado di identificare disturbi oculari nei soggetti ma comunque è preferibile non usare iI voriconazolo in fachi che
sono in periodo di volo.Il voriconazolo ha alcuni distinti benefici rispetto agli altri medicinali antifungini. Ha una buona bidisponibilità orale ed ha un eccellente attività contro
molteplici ceppi di Aspergillus che sono resistenti ad altri
farmaci. Comunque, il voriconazolo ha anche significanti effetti tossici ma la maggioranza di questi sono simili a quelle
degli altri triazol-derivati e in particolare non minacciano la
vita del paziente.
Studi umani e anche il nostro sui falchi, suggeriscono
che spontanee varianti di Aspergillus resistenti al voriconazolo possono emergere sotto pressione farmacologica e,
nella opinione degli autori, questo medicinale non andrebbe mai usato in protocolli di profilassi dell’aspergillosi in
falchi.
147
Conclusioni
1) Il Voriconazolo è efficace nel trattamento dell’aspergillosi nei falchi.
2) Il Voriconazolo ha una buona attività contro l’aspergillus
in falchi sottoposti a stress ed in uccelli immunocompromessi.
3) Il Voriconazolo è ben tolllerato dai falchi con poche reazioni avverse.
Bibliografia disponibile su richiesta al relatore
Indirizzo per la corrispondenza:
Antonio Di Somma, Falcon Hospital, PO Box 23919,
Dubai, United Arab Emirates – [email protected]
148
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Caso dermatopatologico
Fabrizio Fabbrini
Med Vet, Dipl CES Derm, Milano
Luca Mechelli
Med Vet, Perugia
Segnalamento: Siberian Husky di circa cinque anni.
Esame dermatopatologico:
rale alla terza palpebra destra.
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Definizione dei problemi dermatologici:
Trattamento proposto:
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Anamnesi: il cane presenta aree eritematose depigmentate sul tartufo estese successivamente anche alle labbra. La
somministrazione di antibiotici (amoxi/clav a 22 mg/kg bid)
e di integratori a base di zinco, non ha portato giovamento.
Il cane riceve una dieta mista, durante il giorno vive all’aperto assieme a un altro cane, mentre di notte viene ricoverato in casa.
Esame clinico: E.O.G.: presenza di lesione monolate-
Lista di diagnosi differenziali:
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Procedure diagnostiche:
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Evoluzione clinica:
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Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrizio Fabbrini
Clinica Veterinaria Papiniano
Viale Papiniano 50, 20123 Milano
mail: [email protected]
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149
Approccio clinico diagnostico al prurito nel gatto
Fabrizio Fabbrini
Med Vet, Dipl CES Derm, Milano
Premesse
Il prurito nella specie felina è un segno clinico suggestivo non solo delle ectoparassitosi, o delle patologie allergiche
ma anche di molte altre malattie come infezioni micotiche,
batteriche, virali, malattie autoimmuni, neoplastiche e disturbi comportamentali.
Il gatto reagisce allo stimolo “pruriginoso” con diversi
quadri clinici, sebbene nessuno di questi sia indicativo di
una causa precisa:
La dermatite miliare, data da piccole papulo-croste rilevabili passando le mani sul mantello dell’animale, interessa
l’addome, il tronco il collo e la testa. Spesso è riconducibile
ad un’allergia alla puntura di pulci (DAP), a cheylettiellosi,
o ad altre malattie come la dermatofitosi.
L’alopecia auto-indotta dovuta al continuo leccamento,
mordicchiamento o strappamento del mantello da parte dell’animale, è spesso simmetrica e interessa l’addome, i fianchi, il torace, gli arti e la coda. Il gatto spesso si lecca quando è solo o quando il proprietario non lo osserva, per tale
motivo è fondamentale accertarsi che l’alopecia sia effettivamente auto-indotta strappando alcuni peli e osservandoli
al microscopio: le punte risulteranno danneggiate ed i fusti
spezzati alla stessa altezza. È associata a DAP, a reazione avversa al cibo, a dermatite atopica, alla presenza di parassiti e
a disturbi comportamentali.
Le lesioni del “Complesso Granuloma Eosinofilico”:
attualmente si pensa che siano nella maggior parte dei casi
riconducibili a reazioni d’ipersensibilità alle pulci, agli alimenti o ad allergeni ambientali, anche se, almeno per quanto concerne l’ulcera indolente ed il granuloma eosinofilico,
in alcuni soggetti è stata riconosciuta una predisposizione
genetica.
La placca eosinofilica di solito è intensamente pruriginosa ed interessa nell’80% dei casi la faccia mediale della
coscia, anche se può essere osservata a livello del collo, dell’addome e della regione perineale. È spesso associata, come
il granuloma eosinofilico, ad eosinofilia.
L’ulcera indolente si osserva a carico del labbro superiore: le lesioni bilaterali sono spesso dovute ad infezioni batteriche e rispondono bene al trattamento antibiotico.
Il granuloma eosinofilico è caratterizzato dalla presenza
di noduli, talvolta ulcerati e con foci biancastri in sede facciale, podale o intraorale; oppure da lesioni nodulari lineari
lungo gli arti posteriori. Sono lesioni che richiedono una
conferma istopatologica, sono spesso asintomatiche e difficili da correlare alla causa scatenante. Sono comunque segnalati casi di risoluzione spontanea.
Il “prurito localizzato alla testa ed al collo” è caratterizzato dalla presenza di escoriazioni, ulcere profonde, edema, ispessimento cutaneo e croste localizzate nelle aree raggiungibili dagli arti posteriori. Spesso associata a reazioni
avverse al cibo, a parassiti (otodectes, demodex, notoedres,
trombicula) a dermatite atopica, oppure a malattie autoimmuni (pemfigo foliaceo/eritematoso), malattie virali (pox,
herpes) batteriche o fungine. Il prurito spesso è intenso, non
stagionale e risponde poco alla terapia cortisonica.
Raccolta dati anamnestici
Le informazioni che si ottengono dal proprietario, devono
comprendere come minimo la durata del problema, se questo
è stagionale, se il paziente esce, se convive con altri animali,
che tipo di dieta e di “extra” riceve, se è esente da FIV-FeLV
e se è sottoposto regolarmente a profilassi antipulci.
L’età, razza e stile di vita: le malattie infestive contagiose come ectoparassitosi, dermatofitosi, infezioni virali, sono
frequenti in cuccioli o in giovani adulti specie se provengono da negozi/allevamenti o hanno la possibilità di uscire all’aperto (con ulteriore rischio di esporsi a punture d’insetto,
al contatto con sostanze irritanti, e ad ascessi o infezioni
FIV-FeLV trasmesse da randagi).
Gatti timidi/caratteriali che subiscono le eccessive attenzioni di bambini, un cambio d’abitazione, la perdita di un
componente della famiglia o l’introduzione nell’ambiente di
nuove persone o nuovi animali, sono candidati a sviluppare
disturbi comportamentali.
Le malattie allergiche esordiscono tra i sei mesi e i tre
anni d’età, le malattie autoimmuni in gatti adulti e le malattie neoplastiche per lo più negli anziani.
I gatti persiani sono predisposti alla dermatofitosi e alla
seborrea facciale mentre i gatti siamesi, burmesi e abissini
ad alopecia autoindotta su base comportamentale.
Presenza concomitante di problemi non dermatologici:
diarrea correlabile a reazioni avverse al cibo o alla presenza
di una teniasi (a testimoniare la presenza di pulci); infezioni
respiratorie correlabili a herpesvirosi.
Risposta a terapie pregresse: a seguito del cortisone, la
scomparsa del prurito e delle lesioni suggerisce una causa allergica, mentre la persistenza o l’aggravarsi delle lesioni è riconducibile ad altre malattie (infettive, parassitarie,..); l’improvviso aggravarsi del quadro clinico a seguito di terapia sistemica (es. antibiotici) o topica (otologici, antifungini,..) è
correlabile a reazioni da farmaco o a reazioni irritative allergiche da contatto.
150
Esame clinico
Tramite l’esame obiettivo generale si valuta la presenza
di segni clinici riconducibili alla presenza di malattie sistemiche (infettive, metaboliche, autoimmuni, neoplastiche)
correlabili ai problemi dermatologici.
L’esame dermatologico permette di valutare la distribuzione, il tipo di lesioni presenti e correlarli alle possibili diagnosi differenziali: l’alopecia ventrale all’addome/inguine/
arti (DAP), l’alopecia ventrale/fianchi/arti/coda (psicodermatosi); lesioni erosivo-ulcerative a testa e collo (malattie
allergiche, parassitarie, virali, batteriche, autoimmuni, neoplastiche); lesioni nodulari facciali (punture d’insetto, infezioni, neoplasie). Il prurito incoercibile a testa e collo è spesso associato a ectoparassitosi (notoedres, otodectes), malattie allergiche (DA, RAC), infezioni virali (herpes, pox); se
stagionale a ipersensibilità a pollini, pulci, zanzare.
Esami preliminari
Nei gatti è sempre indicato eseguire esami micologici
completi (wood, esame tricoscopico e colturale fungino)
specie in presenza d’alopecia e dermatite miliare.
I raschiati e l’esame con nastro adesivo da aree alopeciche o da papule, sono necessari per la ricerca di ectoparassiti, mentre l’esame citologico per apposizione da lesioni essudative, tramite cotton fioc da pliche facciali/ ulcere/condotto auricolare, e tramite ago fine da lesioni nodulari, permette d’identificare la presenza d’infezioni batteriche/ fungine o di suggerire la presenza di malattie autoimmuni o
neoplastiche (indicando la biopsia come esame da eseguirsi
nell’iter diagnostico).
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agli animali conviventi. Se il paziente presenta grave disagio
per il prurito è consigliabile trattarlo anche con prednisolone (1-1,5 mg/ kg/ bid) per sette dieci giorni.
Il passo successivo, in assenza di risposta dopo 8 settimane e mantenendo comunque la profilassi contro le pulci,
prevede l’uso di una dieta a eliminazione industriale idrolizzata o casalinga (composta da una fonte proteica mai assunta prima es. a base di carne di maiale) per almeno 8-10 settimane. Nel caso non si noti miglioramento, è possibile fare
un altro tentativo utilizzando una nuova dieta a eliminazione
ed eseguire delle biopsie, specie se presenti lesioni nodulari,
ulcerative crostose ed alopeciche (diagnosi di follicolite murale, d’infezioni virali, di neoplasie,..).
Quando la dieta ad eliminazione ed il controllo degli ectoparassiti e delle pulci, non permettono di ottenere risultati,
si ipotizza per esclusione, la presenza di una dermatite atopica o di una psicodermatosi.
Le alternative possibili sono l’esecuzione di test allergologici (intradermoreazioni e test sierologici in vitro) e di una
terapia desensibilizzante, l’esecuzione di una terapia farmacologia del prurito, oppure l’intervento di un veterinario
comportamentalista.
Riferimenti bibliografici
1.
2.
3.
4.
5.
Iter diagnostico
Il primo passo prevede sempre, per eliminare possibili
ectoparassitosi, l’uso di selamectina (6 mg/kg) o di ivermectina (0,25 mg/kg) ogni due settimane per almeno tre applicazioni. Sospettando una possibile DAP, è preferibile utilizzare inizialmente anche l’imidacloprid o il fipronil ogni due
settimane per almeno quattro volte, iter da applicarsi anche
Guaguére E, Prélaud P. A practical guide to Feline Dermatology. Merial ed. 1999
Hargis AM, Ginn PE, Mansel J, Garber RL: Ulcerative facial and nasal dermatitis and stomatitis in cats associated with feline herpesvirus
1. Vet Dermatolology, 1999, 10: 267-274.
Moriello K, Mason I: Handbook of Small Animal Deramatology. 1th
ed. Pergamon: Oxford, 1995.
Roudebush P, Hypoallergenic diets for Dogs and Cats. In: Bonagura
JD, ed: Current Veterinari Therapy XIII. Philadelphia: WB Saunders,
2000, 530-535.
Scott DW, Miller WH, Griffin CE: Muller and Kirk’s Small Animal
Dermatology, 6th ed. WB Saunders: Philadelphia, 2000.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabrizio Fabbrini
Clinica Veterinaria Papiniano,
Viale Papiniano 50, 20123 Milano
mail: [email protected]
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Patologie spleniche dal punto di vista del clinico
e del patologo
Sergio Fanfoni
Med Vet, Roma
Pierluigi Fant
Med Vet, Dipl DESV ana-path, Padova
La milza è un organo impari annesso all’apparato circolatorio e svolge una funzione importante nella difesa dell’organismo in quanto organo linfoide secondario. Ha un ruolo importante nella regolazione della pressione sanguigna, nell’attività emocateretica, nell’immagazzinamento del ferro. Nel
feto presenta una funzione emopoietica; nell’adulto l’attività
ematopoietica è assente in condizioni fisiologiche ma può essere riassunta in certe condizioni patologiche.
La struttura istologica riconosce una precisa organizzazione tridimensionale: è delimitata da una capsula fibro-elasticomuscolare dalla quale originano delle trabecole d’identica costituzione che ramificandosi danno origine ad un esile stroma
reticolare che sostiene il parenchima splenico o lienale. Quest’ultimo è costituito dalla polpa rossa e dalla polpa bianca.
La prima costituisce la maggior parte della polpa lienale
ed è formata dai seni venosi e dai cordoni lienali o di Billroth. I seni venosi sono ampie lacune vascolari intercomunicanti, rivestite da cellule endoteliali allungate sostenute da
una membrana basale e da fibre reticolari. Situati tra i seni
venosi, i cordoni lienali presentano una delicata impalcatura
tridimensionale di fibre reticolari tra le quali si osservano vari elementi cellulari (c. reticolari, eritrociti, macrofagi, linfociti, monociti). La polpa bianca è costituita dal tessuto linfatico disposto in formazioni nodulari e manicotti peri-vascolari (guaine linfatiche peri-arteriose) infiltranti la tonaca avventizia dei vasi e sostenuti da un’impalcatura di fibre reticolari in intimo rapporto con linfociti e plasmacellule. A seconda dello stadio funzionale i noduli lienali possono presentare oppure no un centro germinativo. Tale tessuto linfatico peri-vascolare si sviluppa attorno alle arterie pulpari che
si continuano con le arteriole centrali le quali terminano in
ciuffi di arteriole terminali a decorso rettilineo denominate
arteriole penicillari: ognuna di esse si prolunga mediante un
rigonfiamento fusiforme (capillare con guscio o ellissoide) a
livello del quale il lume si restringe e la muscolatura viene
rimpiazzata da fibre e cellule reticolari e macrofagi. Al di là
dell’ellissoide la parete si riduce ad un’assisa di cellule endoteliali ed infine si apre nella polpa rossa. Non c’è ancora
accordo se esista una reale continuità del rivestimento endoteliale tra terminazioni delle arteriole penicillari e seni venosi o se invece l’endotelio si interrompa all’estremità dei capillari e il sangue resosi libero circoli nei cordoni raggiungendo i seni attraverso le soluzioni di continuità del rivestimento di questi ultimi.
Le patologie spleniche del cane e del gatto si manifestano con segni clinici spesso poco specifici come anoressia, debolezza, dolore, distensione addominale, vomito ed
altri ancora meno frequenti come il tenesmo fecale o la poliuria/polidipsia. In considerazione di ciò un approccio
quanto più possibile sistematico è di aiuto nella diagnostica di tali patologie. L’anamnesi può essere utile in caso di
viaggi o permanenza in aree endemiche per patologie infettive trasmesse da artropodi come causa di splenomegalia o
ad esempio in caso di traumi come causa di ematomi o rotture dell’organo e conseguente debolezza dovuta all’emorragia. Il segnalamento è altrettanto importante: ad esempio
è segnalata un alta incidenza del’emangiosarcoma nel pastore tedesco; anche l’età è importante in caso di sospette
paratopie (es. ernie peritoneo pericardio diaframmatiche).
L’esame fisico in caso di sospetta patologia splenica non deve limitarsi alla palpazione dell’organo, utile esclusivamente in caso di aumento delle dimensioni dell’organo, ma anche all’osservazione delle mucose che possono presentarsi
pallide in caso di emorragia, itteriche in caso di emolisi o
con petecchie nel caso di alterazione dell’emostasi. Anche
gli altri organi linfatici devono essere palpati in quanto la
splenomegalia è spesso accompagnata da linfoadenomegalia. L’esame emocromocitometrico è fondamentale nelle patologie spleniche o comunque in malattie che comportino
un coinvolgimento dell’organo: il rilevamento di blasti
linfoidi o mieloidi in circolo può essere diagnostico di una
neoplasie emolinfatice in fase leucemica nel corso delle
quali si può rilevare coinvolgimento sia focale che diffuso
dell’organo; la pancitopenia è frequente sia in corso di patologie infettive come l’ehrlichiosi cronica nel cane che nelle retrovirosi del gatto malattie nelle quali la milza è frequentemente megalica; inoltre è possibile visualizzare direttamente gli agenti infettivi come babesia o emobartonella. Di fondamentale importanza è la diagnostica per immagini radiografica e soprattutto ecografica. Quest’ultima tecnica permette la conferma di lesioni diffuse o localizzate
dell’organo. In alcuni casi come nella torsione di milza l’ecografia permette una diagnosi rapida e la possibilità di un
rapido intervento. Anche la visualizzazione di trombosi venose è una possibilità quasi esclusiva dell’esame ecografico
ancor più se associato ad uno studio doppler. Tuttavia eccetto questi casi la diagnostica ecografica non permette di
emettere una diagnosi di certezza poiché nessun aspetto
152
ecografico è patognomonico di un unica patologia. Anche la
visualizzazione di lesioni a complex mass non deve spingere a commettere l’errore di diagnosticare una neoplasia vascolare maligna vista la possibilità di diagnosi differenziale
con gli emangiomi, gli ematomi e gli ascessi. L’esame ecografico risulta fondamentale per l’esecuzione di prelievi
ecoguidati per la conferma della diagnosi. La biopsia ecoguidata ha una sensibilità diagnostica bassa mentre decisamente più elevata è la possibilità di ottenere risposte con un
prelievo ad ago sottile da eseguire nelle aree parenchimatose nel caso di lesioni focali e soprattutto cercando di evitare le zone a contenuto liquido e quindi più probabilmente
necrotiche dove la possibilità di eseguire un prelievo diagnostico è nettamente inferiore. È importante valutare la capacità coagulativa prima di eseguire l’esame e controllare il
soggetto nelle ore successive all’aspirazione. Una nota di rilievo merita il mastocitoma splenico, la patologia più frequente in grado di provocare splenomegalia nel gatto; in caso di sospetto è bene considerare la procedura di aspirazione molto più rischiosa rispetto ad altre patologie per la possibilità di liberazione di sostanze vasoattive. Alla luce di
quanto scritto è chiaro come sia fondamentale eseguire un
esame istologico preferibilmente dopo asportazione dell’organo per poter emettere una diagnosi di certezza.
Allorché si riscontrino dei quadri di splenomegalia e si
proceda alla splenectomia, è necessario valutare l’aspetto
macroscopico dell’organo (splenomegalia uni-multinodulare
o diffusa) e delle lesioni: i maggiori rischi diagnostici sono
generalmente riferibili alla distinzione tra ematomi ed emangiosarcomi per la frequente presenza in entrambi di aree
emorragiche e necrotiche e per la difficoltà nell’esecuzione
di un corretto campionamento. In tali casi si impone un’esame ispettivo accurato del tessuto anormale e la scelta di aree
non necrotiche ai fini di un esame istologico.
La milza può presentare svariate alterazioni strutturali;
si distinguono:
Alterazioni cadaveriche: presenza di chiazze blu-verdastre a livello della capsula in corrispondenza delle aree
di contatto con stomaco e intestino oppure un rammollimento-enfisema-autolisi riferibili a fenomeni degradativi
post-mortem.
Alterazioni congenite: agenesia (asplenia, evento raro),
eterotopia toracica, presenza di incisure, lobature, milze accessorie a livello del leg. gastro-lienale, dell’omento, del peritoneo, del pancreas.
Processi regressivi: atrofia, infiltrazione amiloidotica,
patologie da accumulo (tesaurismosi), emosiderosi, placche
sidero-fibrotiche-calcaree, necrosi.
Alterazioni di posizione: torsione, rotazione, ptosi.
Alterazione dell’integrità: rottura post-traumatica, conseguente a distensione per flogosi, infiltrazione tumorale e
non.
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Disturbi circolatori: congestione-iperemia passiva (milza da stasi in corso di ostacolo al deflusso venoso) o attiva
(in corso di infiammazione) con conseguente infarcimento
emorragico; ematomi, infarti.
Emopoiesi extra-midollare o metaplasia mieloide.
Infiammazione: splenite iperemico-emorragica, iperplastica, purulenta, necrotizzante, cronica, granulomatosa, in
corso di parassitosi.
Noduli d’iperplasia linfoide.
Alterazioni neoplastiche. Gli studi sulla patologia splenica rivelano una frequenza variabile delle forme neoplastiche.
Nel cane spiccano per frequenza i tumori vascolari (rappresentati principalmente dall’emangiosarcoma) mentre le neoplasie mesenchimali fuso-cellulari (fibrosarcoma, istiocitoma fibroso maligno, leiomiosarcoma, sarcomi indifferenziati) e le neoplasie rotondo-cellulari (linfoma, mastocitoma,
istiocitosi etc) sembrano essere relativamente meno frequenti. Al contrario, nel gatto1 risultano più frequenti le neoplasie a cellule rotonde (mastocitoma e linfoma). Recentemente sono stati descritti nel cane i noduli fibro-istiocitiari quale nuova entità patologica splenica2,3: si tratterebbe di ammassi nodulari macroscopicamente evidenziabili e di dimensioni variabili, la cui analisi cito-istologica rivela la presenza di elementi linfoidi e fibroblastico-istiocitari, in percentuali variabili ed associati ad aree emorragiche o necrotiche.
Per questa costituzione cellulare tale lesione si pone al limite tra una proliferazione linfoide nodulare di tipo iperplastico (non tumorale) ed una neoplasia mesenchimale (istiocitoma fibroso maligno).
Bilbiografia
1.
2.
3.
Spangler WL e Culbertson MR (1992), Prevalence and type of splenic diseases in cats: 455 cases (1985-1991), J Am Vet Med Assoc,
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Bettini G, Mandrioli L, Brunetti B, Marcato PS (2001) Canine splenic pathology; a retrospective study of 109 surgical samples, with
special emphasis on fibrohistiocytic nodules. Eur. J Vet Pathol, 7(3):
101-109.
Indirizzo per la corrispondenza:
Sergio Fanfoni
Ambulatorio Veterinario Santa Cristina 464,
52048 Monte San Savino Arezzo, tel. 0575/810574
e-mail: [email protected]
Pierluigi Fant
Laboratorio d’Analisi Veterinarie “San Marco”
Istopatologia, Via Sorio 114/c, 35141 Padova, tel. 049 8561039
fax 02 700518888, e-mail: [email protected]
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Anestesia nella chirurgia toracica
Emilio Feltri
Med Vet, Castelnuovo Scrivia (AL)
Introduzione
Le condotte anestesiologiche in chirurgia toracica hanno
subito nell’’arco di questi ultimi anni molti affinamenti di
pari passo con il progresso della tecnica chirurgica stessa.
Si sono affrontati temi quali la ventilazione controllata,
la capnografia, la cinetica dei gas e loro compartimentazione, il blocco neuromuscolare ed il suo monitoraggio, le tecniche di analgesia generali e loco regionali, la TIVA(Anestesia Totalmente Intravenosa) ed infine proprio in questo
congresso la ventilazione monopolmonare.
Ritengo quanto mai indispensabile la presenza di uno
specialista in questa particolare chirurgia dove l’asse chirurgo-anestesista se affiatato può veramente determinare la differenza tra vita e morte del paziente.
Condotta Preoperatoria
Gioca un ruolo fondamentale nelle scelte delle tecniche
da adottare e nella loro riuscita.
Forse la sola distinzione conosciuta di “ASA Status” per
questo tipo di paziente è un po’ limitante, ritengo per questo
utile accompagnarla ad un’altra scala di rischio rapportata al
tipo di chirurgia cui il paziente è sottoposto (Ernia diaframmatici, risoluzione di bolla toracica, lobectomia parziale totale…) ed alle condizioni dei distretti respiratorio e cardiocircolatorio del soggetto.
Ottenere quest’ulteriore classificazione tramite esami
strumentali quali emogasanalisi, spirometria, radiografie,
ecografie, tac, citologia dell’espettorato..
facendoli quasi di routine in questi casi.
Cercare segni di patologia broncopolmonare cronica
ostruttiva e non; quindi segni di ipertensione polmonare
(ipertrofia ventricolare destra, soffio sistolico di eiezione
polmonare...).
Conoscere insieme al chirurgo la tecnica adottata, la vicinanza a sedi vascolari o nervose importanti durante la pratica
ed i rischi chirurgici intra e postoperatori completeranno il quadro mosaico che ci guiderà alla classificazione del paziente.
Esempi potrebbero essere:
• Paziente di Livello 1: Asa 2 intervento di scarsa difficoltà e piuttosto routinario in soggetto con buoni valori di tensione arteriosa d’ossigeno e d’anidride carbonica. (Ernia diaframmatica modesta poco sintomatica
compensata).
• Paziente di Livello 2: Asa 3 intervento ancora non difficile e routinario oppure Asa 2 ma chirurgia difficile
per sede (vicino al vago) e non più di routine.
• Paziente di Livello 3: Asa 4 fortemente dispnoico
scompensato chirurgia per Romanelli..anestesia per
Moens.Questo per tracciare l’identikit di questo paziente come uno con saturimetria al 75% tensione arteriosa della Co2 pari a 85 mmhg, polipnoico.(Pneumotorace iperteso a valvola… neoplasie… ascesso rotto in torace).
La chimica della fase preoperatoria o sedazione del paziente
dipende quindi dal livello assegnato al soggetto anche se tuttavia
non capirei l’uso di molecole con latenze lunghe che possano
deprimere la funzionalità respiratoria e cardiovascolare.
L’uso di farmaci quali le fenotiazine in questi frangenti è
a mio avviso discutibile.
Sicuramente è auspicabile la preossigenazione del paziente se questo non lo agita troppo rendendolo un paziente
troppo pericoloso per se stesso.
Metodiche quali il Flow BY od il collare ad ossigeno sono talvolta più tollerate della maschera o della camera ad ossigeno. Naturalmente Scegliere frazioni inspirate d’ossigeno
elevate in questa fase 80-100%.
Ovviamente la preossigenazione assume maggior importanza in pazienti con scambio ridotto d’ossigeno e paO2 sotto la soglia fisiologica.
L’uso di molecole quali oppiacei come il Butorfanolo o
La Morfina in questa fase può esser strategicamente vantaggioso secondo il caso per il loro potere analgesico (Preemptive Analgesia) ma anche antitussigeno (vedi Butorfanolo)
nonché per far sopportare meglio l’ipossia ai tessuti molto
vascolarizzati come il cervello.
La somministrazione di fluidi può talvolta cominciare
già in questa fase.
Condotta Intraoperatoria
Siamo giunti all’induzione intubazione e mantenimento
del soggetto durante la chirurgia.
Il segreto è nel rispettare l’obiettivo e l’obiettivo principale in anestesia per torace aperto è: garantire un adeguata
ventilazione.
L’induzione in questo paziente è di norma velocissima in
modo da gestire al più presto la sua ventilazione per influire
positivamente sulla respirazione esterna (Alveolare) ed interna (Cellulare).
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La chimica dell’induzione può trovarsi a secondo del caso nell’uso di un bolo di propofol o di tiopentale o di ketamina o di ketamina e benzodiazepina preceduto dalla somministrazione di un oppiaceo agonista puro quali fentanil o
sufentanil alternato alla somministrazione di una benzodiazepina nella logica della neuroleptoanalgesia.
La metodica della neuroleptoanalgesia rispetta molto la
funzionalità circolatoria influenzandola al minimo ma sopratutto l’uso delle benzodiazepine in associazione all’oppiaceo produce un aumento dell’altrimenti scarso effetto
ipnotico degli oppiacei.
L’uso del propofol quale induttore in questi pazienti va
ben soppesato poiché susseguendo il fentanil che ne rallenta la clearance aumenta del 50% la sua concentrazione plasmatica (quindi usare dosi ridotte per indurre)producendo
apnea di lunga durata. Ora, questo potrebbe alla luce di ciò
che dovremo fare non essere un problema ma il vero problema potrebbe esser il sinergismo tra propofol e fentanil
nel loro effetto vagotonico con comparse di blocco atrioventricolare e asistolia (Dornigton K.L. Asistolye after subanestetic dose of propofol and fentanil aa, 658 1989
Anaestesia).
Mia opinione che l’uso del barbiturico in molti di questi
pazienti è utile nell’’induzione con minor effetti collaterali
rispetto ad altri ipnotici.
Non in ultimo ricordo che anche la stessa benzodiazepina può essere talvolta usata quale induttore specialmente in
pazienti molto critici midazolam, atracurium besilato intubazione fentanil ed alogenato; protocollo per mani più esperte sicuramente.
Dunque ora si deve mantenere il soggetto in anestesia ed
analgesia durante la chirurgia e l’obiettivo rimane garantire
un adeguata ventilazione.
Ecco dunque la necessità della ventilazione controllata a
pressione positiva eseguita ovviamente da un ventilatore.
Non aspettare l’apertura del torace per iniziare la ventilazione meccanica ma iniziare al più presto vincendo le resistenze del paziente con l’uso di un bloccante neuromuscolare (preferibile) o di un bolo d’oppiaceo o con l’iperventilazione e la susseguente ipocapnia ed apnea.
Scegliere un volume corrente o tidalico di 10-5 ml/kg e
10-20 atti respiratori a compiere una ventilazione con pressioni non superiori a 18cm di h20 a torace chiuso e 10 cm di
h20 a torace aperto. Mantenere normocapnico l’alveolo (40
mmhg etco2) ed un valore di saturimetria del 99%.
A questo punto per il mantenimento dell’ipnosi si potrà ricorrere all’uso d’alogenati: isoflorano con dosi non
superiori ad 1mac anzi direi che l’obiettivo sarà quello di
mantenere l’alogenato a circa mezza mac (0,8etiso); alle
infusioni di fentanil e ketamina per il controllo dell’analgesia.
Altra tecnica di mantenimento che dobbiamo ricordare in
questo tipo di paziente e la TIVA o anestesia totalmente intravenosa con l’infusione simultanea di ipnotici, sedativi,
bloccanti neuromuscolari, ketamina, oppiacei, tecnica molto
specialistica ed adatta a mani superesperte di difficile controllo adattissima a tutti quei pazienti dove l’uso di isoflorano è assolutamente sconsigliato.
Brevemente poi ricordo l’uso di apparecchi di monitoraggio in questa fase intraoperatoria.
La scala valore degli strumenti potrebbe essere in questa
chirurgia: Spirometria, analisi multigas, pressione arteriosa,
pressione venosa centrale, spo2, ecg, Tof(train of four).Tuttavia molto dipende dal livello di rischio paziente e per questo potete consultare la tabella sotto riportata (Tab. 1).
Il monitoraggio del Spo2 è in questo paziente spesso più
affidabile di quello della co2 nel determinare la % di shunts
polmonare che si sta avendo.
Spesso in questa chirurgia il paziente è posto in decubito
latero- laterale con il verificarsi che il polmone gravitario
sarà molto per fuso e poco ventilato per contro quello antigravitario sarà ipoperfuso e molto ventilato.Se a ciò associamo un calo dell’attività compensatoria della vasocostrizione
ipossica la situazione non sarà facile ed andremo incontro ad
alta percentuale di deviazione polmonare con conseguente
desaturazione.
Infine mantenere buone pressioni arteriose medie significa non altera il rapporto ventilazione perfusione che guida
un’efficiente ventilazione, respirazione, anestesia, equilibrio
neurovegetativo… quindi un successo garantito.
Tabella 1
Monitoraggio
Macchina
anestesia
O2
APNEA
VENTIL
SCAMBI
MECCANICA
VIE AEREE
CARDIO
CIRCOL
MIORISOLUZIONE
TEMP
Livello 1
Check list
completa
Fio2
Feo2
Stetoscopio
esof
Ecto2
Stetoscopio
esof
Ecto2
Borsa resp
torace
Colore
sangue
TRC
ECTO2
SPO2
Stato esof,
tattilità
sulla borsa
Freq
Press
Ecg
Ecto2
Clinico
Sonda esof
Livello 2
Check list
completa
Fio2,
Feo2
Vedi sopra
+
D-E-G-F
Vedi sopra
+
SPIROMETRIA
Vedi sopra
+
Emogasanalisi
Vedi sopra
+
Tutta la
spirometria
Vedi sopra
+
Press invas
Bilancio
elettrolitico
TOF
Vedi sopra
Livello 3
Check list
completa
Fio2,
Feo2
Vedi sopra
Vedi sopra
Vedi sopra
+
I/EO2
Vedi sopra
+
Compliance
e resistenza
Vedi sopra
TOF
Vedi sopra
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Condotta Postoperatoria
Il periodo postoperatorio comprende il risveglio e la fase
immediatamente a seguire per almeno le prime ventiquattro
ore post chirurgiche.
In genere in questo periodo si controlla soprattutto il dolore che in questa fase si arricchisce della componente emozionale della percezione dello stesso.
Innanzi tutto il risveglio deve esser tranquillo in assenza
di spasmi o tosse per cui l’utilizzo di farmaci che ci possono
aiutare in tal senso sono auspicabili (butorfanolo).
Estubare il paziente non al masticare il tracheotubo ma
quando compare il riflesso palpebrale potrebbe aiutarci a
non avere risveglio eccitativo.
Continuare a monitorare la saturimetria eseguire emogasanalisi che ci guidano sulla scelta di lasciare ancora il paziente sotto ossigeno a frazioni inspirate alte o meno.
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Controllare il dolore vuole dire migliorare la ventilazione dunque è indispensabile come?
Oppiacei in infusione costante uso di cerotti analgesici,
tecniche loco regionali di infiltrazione costale di anestetico
locale o inserimento pleurico di catetere per infusione o
somministrazione continua di anestetico locale analgesia
spinale sono in rapporto alla esperienza tutte vie percorribili disgiunte ma più verosimilmente combinate in un approccio multimodale al dolore.
Tra i farmaci usati ricordo morfina, buprenorfina, fentanil, bupivacaina, lidocaina, ropivacaina, carprofene.
Il futuro: forse la crioanalgesia.
Indirizzo per la corrispondenza:
Emilio Feltri
emilio <mailto:[email protected]> [email protected]
<mailto:[email protected]>
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Il caso più strano che abbia mai visto
Ho visitato un gatto grigliato
Ivan Fileccia
Med Vet, CES Derm, Roma
Segnalamento ed anamnesi: Camilla è un gatto
Lista di diagnosi differenziali:
europeo, femmina sterilizzata, di 6 anni d’età.
Il proprietario, un anziana signora, lo aveva portato a visita subito dopo aver notato la presenza di strane lesioni cutanee. Le lesioni erano comparse presumibilmente da pochi
giorni ed erano localizzate sugli arti e sulle regioni ventrali
di torace ed addome.
L’animale presentava da tempo un discreto prurito generalizzato, ma, a detta del proprietario, non sembrava particolarmente disturbato dalla presenza delle nuove lesioni.
Il gatto in passato era sempre stato in buona salute, ma
aveva presentato, un paio d’anni prima, dei problemi dermatologici associati a prurito e caratterizzati da un eruzione papulo-crostosa distribuita al tronco e risoltasi spontaneamente. L’animale vive in un appartamento insieme ad altri 8 gatti, è alimentato con cibo commerciale e non svolge nessun tipo di profilassi antiparassitaria.
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Esame clinico: All’esame fisico generale l’animale non
presentava nessuna alterazione clinica evidente.
L’esame dermatologico mostrava la presenza, ampiamente diffusa, sulle porzioni dorsali del tronco, di tante,
piccole papule associate a croste. Erano anche presenti,
con distribuzione irregolare, aree di ipotricosi e lesioni erosive di evidente origine autotraumatica. Sui cuscinetti dei
quattro arti erano presenti lesioni ulcerativo-crostose associate ad abbondanti scaglie. Lesioni crostose circoscritte si
sviluppavano sulla cute di entrambi gli arti posteriori, ventralmente, in prossimità del calcagno. Lesioni eritematose,
erosive e sormontate da spesse croste aderenti erano presenti sulla cute che riveste le porzioni ventrali di torace ed
addome. La loro distribuzione era limitata esclusivamente
alla linea mediana. L’animale risultava infestato da un numero elevato di pulci.
Definizione dei problemi dermatologici:
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Procedure diagnostiche:
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Trattamento proposto:
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Evoluzione clinica:
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Ivan Fileccia
Ambulatorio Veterinario Preneste, via Prenestina 68 00176 Roma
tel. 0670300761 e-mail: [email protected]
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Inseminazione artificiale nella specie canina:
tecniche e regolamentazioni (esperienza francese)
Alain Fontbonne
Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia
In allevamento canino si ricorre spesso all’inseminazione artificiale in quanto è giustificata in diverse circostanze.
Nonostante ciò nella maggior parte dei paesi europei i veterinari non si dedicano abbastanza a cio perciò sempre più allevatori praticano l’inseminazione sui loro animali senza
l’aiuto del veterinario.
Inoltre è difficile per un veterinario consigliare il nome
di un altro veterinario in un paese straniero che pratica il prelievo del seme e l’inseminazione artificiale questo per almeno due ragioni principali:
1) Non esiste una rete europea di veterinari “inseminatori di cani”
2) La regolamentazione degli scambi internazionali di
seme varia enormemente da un paese all’altro
Questo è veramente un peccato in quanto i veterinari
potrebbero sviluppare questa tecnica di riproduzione che
è sotto sviluppata in europa rispetto all’America per
esempio.
Addiritura in alcuni paesi i cuccioli nati dopo inseminazione artificiale non vengono riconosciuti.
1- Determinare il momento ideale
per l’inseminazione
Una delle cose più importanti per ottenere dei buoni risultati con l’inseminazione artificiale nella cagna è di determinare il momento ottimale per effettuare l’inseminazione.
Sappiamo infatti che l’accettazione del maschio da parte
della femmina, il numero di giorni dall’inizio del calore etc
non sono dei criteri affidabili.
Le cagne devono essere inseminate tra il 1° e il 3-4° giorno dopo l’ovulazione se si tratta di inseminazione con seme
fresco e 2-3 (o 4) giorni dopo l’ovulazione se il seme utilizzato è refrigerato o congelato.
Attualmente uno dei migliori metodi per determinare il
momento esatto dell’ovulazione è il dosaggio del progesterone.
Ci si basa sulla stima del picco dell’LH (circa 2 giorni prima dell’ovulazione) che si ha la vigilia o il giorno in
cui la progesteronemia è di circa 2 ng/ml. Uno studio recente condotto alla Scuola Veterinaria di Alfort ha dimostrato che l’ovulazione, in tutte le cagne di qualsiasi razza, si ha quando il valore di progesteronemia è di circa 6
ng/ml +/- 24 h.
Al contrario, la data in cui si osserva l’inizio dell’aumento della progesteronemia è molto variabile da una cagna
all’altra. Perciò è importante fare dei dosaggi quantitativi di
progesterone. Esistono numerosi laboratori di analisi di
umana che effettuano dosaggi di progesterone con risultato
in giornata. La maggior parte dei veterinari utilizzano dei
kits semiquantitativi basati sulla tecnica Elisa. Questi non
danno sempre dei risultati di grande affidabilità.
Prima di inseminare la cagna sarebbe bene confermare
l’avvenuta ovulazione tramite almeno un dosaggio quantitativo.
Per avere informazioni più precise sul momento preciso
dell’ovulazione o sulle turbe dell’ovulazione l’esame più
adatto è l’ecografia e in questi ultimi anni viene utilizzata
sempre più di frequente dal veterinario pratico.
2- I diversi tipi di inseminazione artificiale
L’inseminazione artificiale con seme fresco può essere
realizzata quando l’accoppiamento non avviene come dovrebbe per esempio per motivi comportamentali (cagna dominante), organici (malformazioni che compromettono la
monta), sanitari (per evitare il contaggio di malattie infettive
per es herpesvirosi).
L’inseminazione artificiale con seme refrigerato è indicata per due ragioni principalmente: la distanza geografica
tra i due riproduttori evitando cosi dei lunghi spostamenti
degli allevatori con risparmio di soldi e fatica. L’altra ragione è l’esistenza di una barriera sanitaria per es è impossibile portare una cagna dalla Francia all’inghilterra per
una monta.
Contrariamente agli Stati Uniti questa tecnica è poco utilizzata al punto che gli allevatori stanno iniziando effettuano
scambi di seme senza l’aiuto del loro veterinario. Eppure la
tecnica è semplice: è sufficiente saper prelevare il seme del
cane, avere a disposizione una centrifuga se non siamo riusciti a frazionare le diverse parti al momento della raccolta,
avere un diluitore, refrigerarlo a 4°C e possedere un termos
per la spedizione.
L’inseminazione artificiale con seme congelato a
–196°C è più complicata ma è molto indicata quando la distanza che separa due riproduttori è troppo grande. Sarebbe bene ricevere il seme prima che la cagna sia in calore
in modo da non rischiare in caso di problemi durante il trasporto. Anche se i nuovi contenitori “dry-shippers” non
contengono più azoto liquido per cui non vengono più rifiutate dai trasportatori o dalle compagnie aeree in quanto
considerati pericolosi.
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3- Inseminazione intra-vaginale
o intrauterina?
4- Una rete europea dei veterinari
inseminatori
Nel momento in cui pratichiamo una inseminazione con
seme fresco non è necessario depositare il seme direttamente nell’utero a meno che il seme non sia di bassa qualità.
Invece sarebbe la sola chance di riuscita nel caso di una
cagna inseminata tardi rispetto all’ovulazione dove il collo
dell’utero è gia chiuso e impedisce il passaggio del seme nonostante la cagna sia ancora fecondabile.
Catharina Linde-Forsberg che a prescindere dal tipo di
seme utilizzato, fresco, refrigerato o congelato, l’inseminazione intra-uterina da migliori risultati. Il veterinario pratico
ha spesso difficoltà a praticare la tecnica tramite palpazione
trans-addominale del collo uterino (messa a punto da Andersen in Norvegia) in quanto necessita di una sonda speciale e
di molta manualità. Un altra tecnica di inseminazione intra
uterina è quella tramite laparotomia o celioscopia che viene
spesso rifiutata dai proprietari. L’inseminazione tramite vaginoscopia rappresenta sicuramente la tecnica del futuro.
Per cercare di introdurre i veterinari nella pratica dell’inseminazione artificiale in Europa, l’EVSSAR (European Veterinary, Society for Small Reproduction) sta
creando una lista europea dei veterinari che utilizzano questa tecnica. Sarà disponibile tra qualche mese sul sito internet dell’EVSSAR.
Per saperne di più consultare il sito: www.ivis.org
Indirizzo per la corrispondenza:
Alain Fontbonne
Ecole Nationale Vétérinaire, D’Alfort (Paris), France
[email protected]
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Riproduzione felina: fisiologia, patologia,
infertilità e inseminazione artificiale
Alain Fontbonne
Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia
Sempre piu di frequente gli allevatori di gatti chiedono
consiglio ai loro veterinari. Nell’ambito della riproduzione
bisogna sapere che il gatto non è un cane di piccola taglia.
D’altra parte, questa specie è servita come modello di studio
per la riproduzione dei grandi felini e grazie a cio numerose
tecniche possono essere praticate come per esempio l’inseminazione artificiale.
1- Fisiologia
1-1 La femmina
La gatta è una specia a ovulazione indotta e la sua riproduzione è stagionale: per cui in inverno numerose gatte
sono in anaestro. Una illuminazione artificiale prolungata
tuttavia permette di avere dei calori tutto l’anno (14 ore di
giorno X 8 ore di notte). La durata dell’anaestro stagionale varia a seconda della razza ed è spesso piu lungo nelle
razze a pelo lungo.
L’insorgenza della pubertà è legata al peso corporeo
(sopraggiunge in genere al raggiungimento del 90% del peso dell’adulto) e alla stagione. Comunque se il peso corporeo è raggiunto in inverno, i primi calori appariranno solo
l’anno sucessivo.
Nel periodo riproduttivo, in assenza di ovulazione, il ciclo sessuale si ripete ogni tre settimane. Esiste nel gatto tre
tipi di ciclo. In genere i cicli sono anovulatori e in questo caso non si verifica alcunasecrezione di progesterone. Se invece si verifica l’ovulazione, possiamo avere una pseudogravidanza o una gravidanza. Nel caso della pseudogravidanza la
gatta pur avendo ovulato non risulta comunque gravida: in
questo caso il progesterone ematico rimane alto durante 40
giorni circa. Nel caso della pseudogravidanza è raro osservare l’insorgenza della lattazione. La gravidanza nella gatta
dura da 64 a 66 giorni.
La fase estrale è molto evidente, a causa del comportamento dell’animale, mentre è difficile determinare il momento del proestro. È consigliabile comunque non far accoppiare la gatta nei primi due giorni in quanto ha meno
probabilità di ovulare. Qualche autore ha cercato di determinare il momento ottimale per la fecondità nella gatta, ma
in realtà si è scoperto che è il numero dei coiti a giocare il
ruolo più importante. È importante che la gatta si accopi
più volte nel più breve tempo possibile: tutto cio permette
l’insorgenza del picco di LH. Infatti un solo coito determina l’ovulazione solo nel 50% dei casi. È stato dimostrato
che l’intervallo tra l’accoppiamento e l’ovulazione è di cir-
ca 25-30 ore. Secondo alcuni autori l’ovulazione accorcierebbe la durata dei calori, ma non tutti sono concordi con
questa affermazione.
Recentemente è stato dimostrato che in alcuni allevamenti, le gatte a seguito delle interazioni sociali, potevano
ovulare spontaneamente. Questo spiega perché che alcune
gatte possono sviluppare piometra pur non essendosi accoppiate.
Gli strisci vaginali sono molto utili nella gatta, ma la tecnica di realizzazione è diversa rispetto alla cagna. La diversità è dovuta al fatto che il tratto vaginale è molto corto e
vengono. osservate cellule superficiali cheratinizzate nei periodi tra due calori anovulatori successivi.
1-2 Il Maschio
Anche nel maschio la pubertà è legata al peso corporeo.
In genere i primi spermatozoi iniziano ad essere eiaculati
verso le 30-36 settimane. Il gatto produce degli eiaculati di
piccolo volume e ció che rende difficile la raccolta e la manipolazione del liquido seminale felino. Esistono dei dati
contradittori sulla qualità del seme durante il periodo invernale.
Dal punto di vista ormonale il gatto castrato continua a
produrre in grande quantità il testosterone. Per di piu i gatti
che presentano una infezione urinaria presentano un forte
aumento dela testosteronemia. Questa ultima aumenta nel
caso in cui venga effettuata una anestesia generale, es quando vengono usati degli alfa2 agonisti.
2- Patologia
2-1 Il complesso mucometra-piometra
nella gatta
La mucometra è caratterizzata dalla presenza di un liquido non infiammatorio all’interno dell’utero (talvolta piu
di 500 ml!). Questa affezione è più frequente nelle giovani
gatte e in genere dà pochi segni clinici. L’origine è mal conosciuta e potrebbe essere legata alla somministrazione di
progestinici.
La piometra è probabilmente sottostimata in questa specie in quanto numerose gatte sono sterilizzate. È descritta
una incidenza dello 0,6%, ma in certi gattili puó superare il
5%. La causa potrebbe legata all’insorgenza di ovulazioni
spontanee. Il trattamento prevede la somministrazione di
prostaglandine F2 alfa che sono meglio tollerate nella gatta
piuttosto che nella cagna. È possibile associare degli anti-
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progestinici (aglepristone) con lo scopo di aprire il collo dell’utero, o degli antiprolattinici ad effetto luteolitico (cabergolina). È fondamentale associare un trattamento antibiotico per tutta la durata del trattamento.
2-2 Fibroadenomatosi mammaria
La fibroadenomatosi mammaria, chiamata anche mastosi, è caratterizzata dall’iperplasia, con una componente infiammatoria, del tessuto mammario di una o più mammelle.
La causa è il piu delle volte legata al progesterone o ai suoi
derivati: gravidanza, assunzione di pillola contracettiva. Si
verifica soprattutto nelle giovani gatte adulte puberi, anche
se si può trovare in gatte prepuberi, sterilizzate o nei maschi.
Il trattamento è spesso chirurgico (ovariectomia) ma
questo raramente è sufficiente a far diminuire le dimensioni
delle mamelle. Alcuni autori insistono sull’uso dell’aglepristone. Personalmente preferisco associare l’uso di corticoidi
a forti dosi (2mg/kg) per almeno due settimane.
3- Infertiltà
Gli allevatori chiedono sempre piu spesso al loro veterinario di risolvere i problemi di infertiltà. E dunque interessante conoscere le cause principali.
L’anaestro permanente è un problema frequente nei gattili e particolarmente nei gatti a pelo lungo (persiano). In
queste razze ci sono spesso dei calori silenti che fanno credere che la gatta non entra in calore. Il modo migliore per
metterli in evidenza consiste nell’effettuare più strisci vaginali. L’assenza di calore puó essere provocata da una insufficiente illuminazione, da cattive condizioni ambientali, alimentari e infine i farmaci come per esempio gli antimicotici
usati per combattere la micosi in allevamento.
Al contrario esistono casi in cui i calori sono anormalmente prolungati fino ad essere permanenti.
Questo è spesso legato a una sovraposizione di piu ondate di maturazione follicolare. Nelle gatte siamesi la durata
degli interestri successivi è talvolta corta in quanto sono frequenti le cisti follicoliniche. Esse tendono ad aumentare con
l’età dell’animale. La diagnosi è facilmente realizzabile tramite ecografia ovarica.
Le cause dell’infertilità del maschio non sono ben conosciute. Tra le ipotesi vi sono: gengiviti che impediscono al
maschio di mordere la femmina nel momento del coito,
strozzamento del pene da parte dei peli della regione genitale. La qualità del seme viene valutata tramite spermogramma: il seme è raccolto tramite elettroeiaculazione, che è molto facile da realizzare se si possiede un elettroeiaculatore.
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Le malattie infettive sono una causa frequente di infertilità in allevamento. La FeLV rappresenta il problema virale
maggiore cosi come il parvovirus della panleucopenia, l’herpesvirus felino o il coronavirus. Anche i batteri possono essere responsabili dei problemi riproduttivi nel gatto, come la
Chlamydophila felis o i batteri commensali del tratto genitale (E. Coli, Streptococchi, Stafilococchi.....).
4- Inseminazione Artificiale
Contrariamente ad altre specie domestiche, l’inseminazione è poco frequente nel gatto. Nonostante cio, ci sono
sempre piu numerose pubblicazioni su questo argomento.
La raccolta del seme rappresenta la prima difficoltà. Un
ristretto numero di gatti può essere abituato alla raccolta manuale tramite masturbazione. Tuttavia sarebbe meglio poter
disporre di un elettroeiaculatore. L’esame del seme risulta
difficoltoso a causa del ridotto volume (supera raramente 0,3
ml) ottenuto tramite elettreiaculazione. Lo sperma normalmente contiene tra i 3 e 120 milioni di spermatozoi, con una
mobilità tra il 60 e 90%.
Prima dell’inseminazione occorre indurre l’ovulazione.
Per questo bisogna aspettare uno o due giorni in modo la maturazione follicolare sia sufficiente. Gli studi condotti da Elise Malandain alla Scuola Veterinaria di Alfort hanno dimostrato l’utilità a questo proposito dell’ecografia ovarica. L’ovulazione può essere indotta tramite due metodi: ormonale
(100-250 U.I di hCG) o tramite stimolazione vaginale (5 stimolazioni a 30 minuti di intervallo con un tampone sterile)
L’inseminazione deve essere praticata immediatamente o
nelle 24 ore successive l’induzione dell’ovulazione. Attualmente vengono realizzate sopratutto delle inseminazioni con
seme fresco, poiché si hanno pochi studi sull’inseminazione
con seme congelato. L’inseminazione intravaginale è la tecnica piu semplice: consiste nel depositare il seme nella parte craniale della vagina con una sonda urinaria sterile e tenere il treno posteriore sollevato per 10 minuti.
Le inseminazioni intrauterine possone essere realizzate
tramite laparotomia. Recentemente, Zambelli e coll. (2002)
hanno dimostrato che è possibile eseguire dei cateterismi
transcervicali.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alain Fontbonne
Ecole Nationale Vétérinaire, D’Alfort (Paris), France
[email protected]
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Patologie infettive dell’apparato riproduttivo
(1a e 2a parte)
Alain Fontbonne
Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia
PATOLOGIE INFETTIVE
DELL’APPARATO GENITALE
DELLA FEMMINA
Le patologie dell’apparato genitale rappresentano frequentemente motivo di visita in medicina veterinaria. In
realtà diverse patologie sono poco conosciute dal veterinario
pratico cosí come le tecniche di diagnosi e la loro interpretazione.
1- Nella cagna
1-1 La piometra
Fino a poco tempo fa la piometra in una cagna riproduttrice costituiva un dramma: il soggetto affetto subiva un’ovario-isterectomia per cui veniva automaticamente eliminata
dalla riproduzione.
Ormai è possibile trattare farmacologicamente numerose
piometre e addirittura ottenere nuovamente dei cuccioli.
Esistono numerosi protocolli farmacologici per il trattamento della piometra, tra i quali un associazione di alizine e
cloprostenol, messo a punto dal mio collega Francis Fieni all’Ecole Nationale Veterinaire di Nantes ed è stato osservato
un solo insuccesso (F. Fieni ha pubblicato nel 2002 un lavoro in cui la percentuale di successo è stata superiore al 86%
su un effettivo di 43 cagne). Le cagne vengono ricoverate e
ricevono un’iniezione s.c. di 10 mg/kg di Alizine il primo e
secondo giorno e per 5 giorni consecutivi una iniezione al
giorno di prostaglandine a basse dosi (cloprostenol 1 µg/kg
s.c.). Durante tutto il trattamento si associa una terapia antibiotica ed un monitoraggio della funzionalità renale (prima,
durante e dopo la terapia) e le costanti ematiche.
Il trattamento medico della piometra si giustifica nel momento in cui viene individuata la sua patogenesi. Il progesterone è alla base dello sviluppo di quello che gli anglosassoni chiamano “iperplasia endometriale cistica”. Questo ormone promuove il trofismo endometriale e l’attività secretoria ghiandolare, sopprimendo la motilità miometriale e facilitando l’accumulo di prodotti di secrezione, che costituiscono un eccellente “pabulum” per i batteri. Inoltre si ha una diminuzione delle difese immunitarie locali, la chiusura del
collo dell’utero con conseguente perdita della capacità di
drenaggio di eventuali prodotti di secrezione come il muco e
il pus (Verstegen 2002).
La maggior parte degli autori considerano la piometra
come il risultato dell’interazione tra batteri potenzialmente
patogeni (E. Coli) con l’endometrio che si trova in fase luteale in un momento in cui l’organismo si trova sotto impregnazione progestinica.
Ad influire sullo sviluppo della piometra potrebbero
contribuire anche: l’impregnazione estrogenica preliminare
o concomitante che si ritiene favorisca lo sviluppo di una
piometra, cosi come un tumore secernente dell’ovaio o la
presenza di cisti follicoliniche.
Si riconosce come causa di piometra anche l’aborto provocato da sostanze a base di estrogeni, somministrate prima
dell’annidazione in un momento in cui la cagna secerne alte
dosi di progesterone.
Dopo la risoluzione della piometra con la terapia medica, una recidiva è comunque possibile. Si può manifestare
nel 10% dei casi nei tre mesi successivi al trattamento (Trasch e coll.) e nel 10-20% dei casi durante i calori seguenti
(Trasch e coll.).
Secondo Johnston la gravidanza sembra prevenire il rischio di recidive per cui si consiglia di far riprodurre la cagna a partire dal calore successivo.
2- La vaginite nella cagna
Secondo alcuni autori è una patologia molto frequente
nella cagna, ma i segni clinici subdoli e le difficoltà dei metodi di diagnosi la rendono spesso inosservata.
2-1 Le vaginiti della cagna impubere
Costituisce un motivo di visita frequente. L’animale affetto è in buono stato clinico, gli unici sintomi sono il lambimento continuo della vulva e le perdite di tipo purulento
sulla rima vulvare.
Nel 90% dei casi si osserva la guarigione completa col
primo calore, dovuta all’aumento del tasso di estrogeni che
comporta una rigenerazione della mucosa e quindi un migliore drenaggio delle secrezioni.
È di origine batterica ma favorita da determinati fattori
predisponenti:
- vagina ristretta in età prepubere con conseguente debole drenaggio dell’organo
- presenza di malformazioni anatomiche
- certi vaccini a virus attenuato (Carré)
Spesso ritroviamo nella vagina delle femmine colpite degli streptococchi coagulasi +.
Trattamento
Spesso viene intrapreso un trattamento in seguito a ripetute richieste da parte dei proprietari.
162
Alla terapia medica segue un miglioramento clinico intervallato da periodi di recidive che non ci devono comunque
spingere al trattamento chirurgico prematuro.
Con l’uso di antisettici locali (betadine ginecologico,
clorexidina) e di antibiotici (locali e sistemici) non otteniamo buoni risultati.
In una recente pubblicazione viene sconsigliato il ricorso troppo frequente alle irrigazioni locali vaginali nella cagna prepubere in quanto viene cosi favorit lo sviluppo di batteri patogeni (come ad esempio i Micoplasmi) in età adulta.
Qualche autore consiglia l’utilizzo di estrogeni a debole
dose, associato o no ad antibiotici (pomata a base di estrogeni) ma l’uso deve essere di breve durata per evitare gli effetti collaterali (aplasia midollare)
2-2 La vaginite della cagna adulta
Con l’utilizzo di nuove tecniche di diagnosi più sofisticate (vaginoscopia), ci si è resi conto che il riscontro di vaginiti nella cagna è frequente. Svolge un ruolo importante
nelle recidive delle infezioni urinarie (cistite) in quanto la
vagina funge da serbatoio di germi e difficilmente accessibile dagli antibiotici.
Fattori predisponenti
Le vaginiti batteriche, sono spesso secondarie ad altri
problemi:
- trauma della vagina (accoppiamento, inseminazione artificiale, corpo estraneo, cateterismo uretrale)
- anomalie congenite o aquisite (stenosi della vulva o del
vestibolo, persistenza dell’imene, vagina doppia, ipertrofia clitoridea, uretere ectopico)
- tumori vaginali o vestibolari
- uso improprio di antibioticoterapia sopratutto in allevamento
- problemi urinari (cistite)
L’anatomia della vagina, organo lungo e stretto (10-15
cm in una cagna di 10 kg) diminuisce il drenaggio e favorisce la moltiplicazione microbica.
Le vaginiti dell’adulto possono apparire indifferentemente
sulle cagne sterilizzate e non.
Fattori determinanti
- Una eziologia batterica sembra preponderante. La flora
batterica vaginale è in maggioranza costituita da batteri
aerobi. In genere, una vagina sana si diffende bene contro le moltiplicazioni batteriche e i batteri non colonizzano il terzo anteriore dell’organo. Nel momento in cui una
specie batterica si replica in modo importante può invadere tutta la vagina e raggiungere una soglia di patogeneicità tale da far apparire dei segni clinici. Non sembrano esistere delle modificazioni per quanto riguarda i tipi
di batteri nella fase che segue il calore (la carica microbica sembra invece aumentare durante i calori). L’accoppiamento può favorire il passaggio di germi dalla flora
prepuziale alla flora vaginale della cagna e viceversa.
- Un tempo si pensava a un origine virale delle vaginiti
(herpesvirus responsabile di vaginite pustolosa durante
il calore, il virus del cimurro), ma la concomitanza con
i batteri sembra comunque probabile.
- L’origine micotica è poco probabile.
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I sintomi sono spesso poco evidenti e l’andamento clinico è nella maggior parte dei casi di tipo cronico con la cagna
in buon stato generale.
La diagnosi è basata su:
- Un esame clinico uro-genitale accurato, che comprende una palpazione rettale, una palpazione vaginale (per
escludere masse o malformazioni), un esame con lo
speculum e una bandelette urinaria.
- realizzazione di uno striscio vaginale (presenza di numerosi neutrofili, anche se frequente non è sistematico)
- vaginoscopia ogni volta che questo è possibile
- vaginografia può essere usata per confermare la presenza di malformazioni o eventuali masse.
L’esame ematologico può in certi casi mostrare una eosinofilia.
Nel momento in cui la diagnosi di vaginite è confermata
e ci siamo assicurati che non esistono poblemi anatomici o
patologici primari (da trattare in primo luogo), sarebbe opportuno realizzare un tampone il più sterilmente possible
nella parte più profonda della vagina (regione normalmente
sterile in una cagna sana), piuttosto che iniziare un trattamento antibiotico a largo spettro, che può alterare la flora intestinale senza neanche eliminare I batteri responsabili. Per
realizzare il tampone nelle migliori condizioni, il tampone
sarà protetto da una camicia sanitaria tagliata all’estremità e
guidata nel terzo anteriore della vagina grazie a uno speculum sterile. Usare sempre i guanti almeno nella mano che
tiene la vulva per evitare di contrarre zoonosi (es brucellosi).
È indicato eseguire un esame batteriologico delle urine
tramite cistocentesi.
L’esame batteriologico ha un interesse solo se vengono
isolati al massimo due tipi di germi (spesso uno solo cresce
abbondantemente). Se vengono isolati più di tre tipi di batteri, l’esame si considera senza valore in quanto c’è sicuramente stata una contaminazione al momento del prelievo.
La prognosi delle vaginiti croniche, in assenza di trattamento, è sfavorevole per pricipalmente due ragioni:
- Nella maggior parte delle cagne, cio aumenta il rischio
di insorgenza di infezioni urinarie ricorrenti. L’insorgenza della metrite è un evento raro ma non è da escludere.
- Nelle cagne riproduttrici, esiste una stretta relazione
tra vaginiti e infertilità senza che il meccanismo d’azione sia chiaro (fattori spermicidi, una endometrite
che impedirebbe l’annidazione) Oltre tutto, se le cagne restano gravide il passaggio di cuccioli in vagina
durante il parto puó portare a una loro contaminazione e a una possibile mortalità neonatale nei primi 15
giorni di vita.
È dunque indispensabile saper diagnosticare le vaginiti e
trattarle.
In allevamento, è consigliato isolare le cagne fino alla
guarigione in quanto certe vaginiti sono contagiose e il leccarsi reciprocamente favorisce il contagio.
Se viene evidenziata una causa predisponente, sarà opportuno trattarla per prima (chirurgie vaginali, episiotomia,
trattamento di una eventuale patologia urinaria)
Le vaginiti sono per lo più di origine batterica perciò è
frequente il trattamento antibiotico. Quest’ultimo verra scelto in base al risultato dell’antibiogramma.
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PATOLOGIE INFETTIVE
DELL’APPARATO GENITALE
DEL MASCHIO
IL MASCHIO
1- le prostatiti
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acuta. La scelta dell’antibiotico dipende dal risultato dell’antibiogramma e dalle caratteristiche chimiche dell’antibiotico. La durata del trattamento deve essere di almeno due
mesi. Si esegue una cultura di controllo sul liquido prostatico dopo qualche giorno, dopo un mese e due mesi dopo la
fine del trattamento.
La castrazione è un trattamento adiuvante che determina la diminuzione del volume della prostata. Nonostante tutto, l’infezione può persistere se sono presenti delle cisti o degli ascessi (serbatoi di infezione urinaria ricorrente)
1-1 Prostatiti acute
Le prostatiti acute si possono manifestare con segni clinici generali (anoressia, febbre, disidratazione), sintomi intestinali (costipazione, tenesmo) e locomotori (anomalie di
postura, rigidità dei posteriori) ma sono frequenti anche sintomi locali quali perdite purulente o ematiche che interessano il prepuzio.
Il trattamento è basato sull’antibioticoterapia e il tipo di antibiotico è scelto dopo aver messo in coltura il liquido prostatico e aver fatto l’antibiogramma. In caso di prostatite acuta, la
barriera emato-prostatica è alterata perciò permette il passaggio della maggior parte degli antibiotici. In attesa dei risultati
dell’antibiogramma si inizia una terapia a base dell’associazione sulfamide-trimetoprim (30 mg/kh/8h) due volte al giorno) o
l’associazione ampicillina (22 mg/kg/8h) e gentamicina (2
mg/kg/8h), chinoloni (marbocyl 2 mg/kg/j una volta al giorno).
Se sono presenti anche sintomi generali è consigliato mettere
un catetere venoso all’animale per effettuare una fluidoterapia
e somministrare gli antibiotici per questa via e passare alla via
orale nel momento in cui l’animale sta meglio. È importante
valutare lo stato dell’animale 3-7 giorni dopo la fine del trattamento antibiotico in quanto esiste il rischio che la patologia
cronicizzi. La castrazione costituisce un trattamento adiuvante,
che diminuisce il rischio della recidiva infettiva, riduce il numero delle colonie batteriche (UFC) per ml di urina e evita che
la prostatite diventi cronica.
1-2 Prostatiti croniche
La prostatite cronica è la complicazione della prostatite
acuta non trattata, di una urolitiasi o di una infezione del tratto urinario. I sintomi sono la maggior parte delle volte poco
evidenti (segni urinari e intestinali)
Trattamento
Antibioticoterapia
La barriera ematoprostatica è una membrana epiteliale a
doppio strato lipidico che gioca un ruolo particolare: impedisce il passaggio dei microrganismi. In caso di prostatite
cronica, la barriera è intatta perciò gli antibiotici la attraversano meno facilmente rispetto a quando vi è una prostatite
1-3 Le balanopostiti
Le balaniti sono delle infiammazioni del pene e le postiti del prepuzio. Ma sono spesso associate. Il cavo prepuziale rappresenta un eccellente riserva di batteri con conseguenti cistiti, prostatiti, orchiepididimiti, passaggio di germi
nella femmina al momento dell’accoppiamento….
La balanopostite nella maggior parte dei casi è primaria
e di origine batterica anche se possono esistere delle cause
predisponenti quali ferite, corpi estranei, tumori (stickers),
cistiti, infiammazione genitale profonda. Questa patologia è
più frequente negli stalloni ma la si può riscontrare anche nei
castrati.
È consigliato trattare prima di tutto le cause primitive se
ve ne sono, quali cistiti, tumori….
Il trattamento specifico della balanopostite dipende dall’importanza dell’infiammazione ed è consigliata la castrazione nella fase di evoluzione della malattia.
1-4 Le orchi-epididimiti
L’infiammazione testicolare e epididimale, il piu delle
volte di origine infettiva, evolve in genere come forma cronica che passa inosservata nei cani non destinati alla riproduzione in quanto il solo segno è una alterazione dello spermogramma. Le epididimiti sono senza alcun dubbio più frequenti delle orchiti alle quali sono spesso associate.
La via di entrata principale dei germi è traumatica principalmente morsi. Ma la sua origine può essere anche retrograda (cistite, uretrite, prostatite, balanopostite).
La forma cronica è la più frequente anche se passa spesso inosservata tranne nei riproduttori in quanto lascia le cagne “vuote”. Può manifestarsi o direttamente con andamento cronico oppure come conseguenza della forma acuta.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alain Fontbonne
Ecole Nationale Vétérinaire, D’Alfort (Paris), France
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Ecografia del tratto genitale
Alain Fontbonne
Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia
La diagnostica per immagini e in particolare l’ecografia,
occupano ai giorni nostri un ruolo importante nella visita ginecologica e andrologica. Questo lavoro ha lo scopo di spiegare cio che si può osservare tramite radiografia ed ecografia in entrambi i sessi.
NELLA CAGNA
1- Le ovaie
Le ovaie normalmente si trovano a livello del polo caudale del rene, misurano dai 10 ai 15 mm di lunghezza e sono circondate da grasso.
Contrariamente a quello che si è creduto per tanto tempo
è possibile ora esplorare le ovaie nella cagna e nella gatta soprattutto con gli ultimi ecografi caratterizzati da miglior risoluzione.
In ragione della loro posizione alquanto superficiale si
usano delle sonde ad alta frequenza (7,5 MHz minimo). La
cagna può essere messa in decubito dorsale o laterale o essere lasciata in piedi a condizione che non si muova troppo
(tranquillizzare l’animale se necessario). È importante evitare la polipnea dell’animale (decubito dorsale con appoggio
sui grossi vasi e polipnea compensatrice, sala mal ventilata e
calda nel periodo estivo)
Viene utilizzata nei seguenti casi:
• Monitoraggio della maturazione follicolare e dell’ovulazione durante il calore:
I follicoli in crescita vengono facilmente messi in evidenza nella cagna sotto forma di piccole cavità molto
anecogene a parete fine. Al momento dell’ovulazione
sembra che spariscano per 24-48 ore (l’ovaio sembra privo di formazioni) poi ricompaiono delle immagini ipoecogene a parete più spessa (corpi lutei).
• Cisti ovariche:
Le cisti appaiono come delle formazioni anecogene circolari ben delimitate, per lo più con parete sottile, evidenziate da un cono di rafforzamento posteriore.
• Tumori dell’ovaio
Conferiscono all’ovaio un aspetto eterogeneo, con zone
più o meno aneconegene e mal delimitate. Se il tumore è
molto grande l’ovaio può essere spostato. A volte compaiono nuclei di mineralizzazione che possono donare
un aspetto iperecogeno, evidenziati da un cono d’ombra.
Talvolta è possible mettere in evidenza delle metastasi
loco-regionali.
• Individuazione di un emorragia del moncone uterino a
seguito di un’ovarioisterectomia.
• Frustoli di ovaio nella cagna sterilizzata.
2- L’utero
L’ecogrfia rappresenta l’esame di elezione per visualizzare l’utero con migliori risultati rispetto alla radiografia.
Ideale è evitare che la cagna urini nelle due ore che precedono l’esame poiché la vescica serve da finestra acustica per
rinforzare l’immagine del corpo uterino che si trova propio
al di sotto della vescica. Al contrario se la vescica è troppo
piena e la cagna è posta in decubito dorsale l’utero può essere troppo schiacciato. Uno dei metodi che può essere utilizzato per ricercare l’utero consiste nel porre la sonda in posizione trasversale quindi nel ricercare la vescica. L’utero
appare come una formazione rotonda ipoecogena, situata per
lo più a destra del colon. Occorre orientare quindi la sonda
in posizione longitudinale rimanendo sul piano mediano per
evitare di perdere l’utero.
Risulta difficile individuare le corna uterine e distinguerle dagli altri organi contenuti nella cavità addominale quando all’interno delle corna uterine non è presente liquido e
non ci sono anomalie della parete.
L’operatore avrà la sicurezza di aver esaminato per intero l’uero nel momento in cui avrà percorso con la sonda il
tratto che va dai reni alla vescica. L’ecografia consente di fare diagnosi: di gravidanza, piometra e la fase iniziale di una
iperplasia ghiandolarecistica.
3- La vagina
L’esame ecografico dalla vagina, con un approccio ventrale, risulta impossibile a causa della sua localizzazione all’interno del bacino.
NEL MASCHIO
L’ecografia testicolare consente di ottenere un elevato
numero di informazioni. Pochi veterinari comunque ricorrono a questo esame. Nei cani anziani nel momento in cui si
pratica una ecografia addominale (prostata, vescica….) sarebbe opportuno effetuare anche una ecografia testicolare. A
causa della posizione molto superficiale di questi organi per
ottenere delle buone immagini, occorre aumentare lo spessore tra la sonda e l’organo utilizzando o uno strato di gel o
l’altro testicolo. La sonda ideale è quella da 7,5 MHz (5MHz
se dobbiamo ricercare un testicolo intraddominale). Il parenchima testicolare ha una ecogenicità media (simile a
quella della milza). La convergenza dei setti fibrosi provenienti dall’albuginea al centro del testicolo, che formano il
mediastino testicolare, appare come una linea iperecogena
(bianca) con la sonda in posizione longitudinale e un punto
iperecogeno con la sonda in posizione trasversale.
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L’ecografia testicolare mette in evidenza:
- Tumori testicolari anche se di piccola taglia
- Edema o accumulo di liquidi attorno al testicolo (idrocele, ematocele, orchide….)
- Cisti, granulomi o ascessi all’interno del testicolo
- Torsione del testicolo
- La presenza di organi intra-addominali in caso ernie inguinali o scrotali.
- Vacuità dei tubuli seminiferi in caso di azoospermia secretoria in seguito all’arresto della spermatogenesi.
1- L’epididimo
L’epididimo è situato in posizione ventro-craniale rispetto ai testicoli. A l’ecografia sono ipoecogeni (nettamente più
“neri” dei testicoli”).
L’ecografia permette di evidenziare delle dilatazioni, delle zone di fibrosi o l’accumulo di sperma a monte del punto
di ostruzione (granulomi). Questo esame complementare è
interessante soprattutto nei cani riproduttori.
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2- La prostata
L’ecografia permette di vedere formazioni (cisti,a ascessi) che non modificano il volume dell’organo.
3- Pene e prepuzio
Con l’ecografia si possono localizzare ascessi o zone
edematose.
Nel gatto
In questa specie l’ecografia è usata per il monitoraggio
dell’ovulazione e per la diagnosi precoce di patologie quali
piometre, mucometre o turbe nella riproduzione.
Per ottenere delle belle immagini è indispensabile l’uso
di sonde ad alta frequenza.
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Alterazioni di tipo congenito del tratto genitale
in relazione a problemi di infertilità
Alain Fontbonne
Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia
Le malformazioni congenite o genetiche possono dare
turbe della riproduzione nella specie canina.
I veterinari non conoscono bene ancora oggi le malformazioni congenite o genetiche che possono causare problemi nella riproduzione canina. Essi inoltre non hanno a disposizione i mezzi adatti per fare diagnosi.
La cagna
Alcune cagne non si accoppiano a causa delle anomalie congenite del tratto genitale posteriore (vulva, vestibolo, vagina). I problemi più comuni sono una diminuzione
del diametro vaginale o una persistenza del setto verticale
che sono la conseguenza di una mancata fusione del dotto
del Muller. In Francia le stenosi vestibolari e vulvari sono
frequenti soprattutto nel Berger Picard e nel Collie. Un
‘altra anomalia è legata alla mancata scomparsa dell’imene che è situato nella giunzione tra la vagina e il vestibolo. Quest’ultima anomalia spesso può causare delle vaginiti croniche o infezioni urogenitali.
L’endoscopia vaginale o vaginoscopia rappresenta un
esame particolarmente utile nella diagnosi delle malformazioni della cagna mentre l’esame tradizionale (esplorazione
rettale e vaginale, speculum, strisci vaginali) del tratto vaginale da informazioni limitate.
Iperplasia vaginale
Si verifica durante il calore o alla fine della gravidanza
quando aumentano i livelli degli estrogeni. E più frequente
nelle razze brachicefale (bullmastiff, boxer). Cio rappresenta un ostacolo meccanico all’accoppiamento e aumenta l’incidenza delle vaginiti con conseguente infertilità. Questa
anomalia è in parte ereditaria e può ricomparire anche dopo
la rimozione chirurgica.
Anche lo pseudoermafroditismo e l’ermafroditismo vero
possono causare infertilità. Questi vengono facilmente diagnosticati clinicamente: clitoride peniforme.
Cane maschio
Anche nel maschio l’ermafroditismo e lo pseudoermafroditismo (maschi con genitali esterni e gonadi femminili)
causano sterilità.
I difetti congeniti comprendono: ipoplasia testicolare, aplasia segmentale dell’epididimo, agenesia dei deferenti, curvatura congenita dell’osso penieno, ipo ed epispadia. Tutte queste
patologie causano azoospermia e incapacità all’accoppiamento.
Se le dimensioni del pene sono troppo ridotte, questo non può
essere trattenuto in vagina durante l’accoppiamento perciò la
quantità di sperma depositato in vagina sarà insufficiente.
Il criptoschidismo bilaterale causa azoospermia mentre il
monorchidismo unilaterale non da problemi di fertilità.
Nelle razze di grossa taglia il dimorfismo può portare a
problemi nell’accoppiamento quando il maschio è troppo
pesante e la femmina non ne sopporta il peso durante l’accoppiamento.
Le anomalie cromosomiche possono causare infertilità
con azoospermia. Talvolta la libido è normale. Queste anomalie comprendono:
- sindrome 79 XXY: è caratterizzata da ipoplasia testicolare e genitali esterni di dimensioni ridotte ma di
conformazione normale.
- Inversione sessuale XX (maschio XX 78): nella quale il
maschio ha i genitali esterni normali ma può avere o un
testicolo o un ovotestis. Questa anomalia è stata descritta nel Cocker Spaniel, Pointer, Beagle, Weimaraner… Noi abbiamo recentemente osservato un caso in
un bassotto fulvo della Bretagna.
Nella nostra clinica, abbiamo osservato che in alcune
razze la qualità del seme è inferiore rispetto ad altre. Ciò accade soprattutto nelle razze di grossa taglia come il Mastiff,
Bovaro del Bernese, Dogue de Bordeaux.
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Alain Fontbonne
Ecole Nationale Vétérinaire, D’Alfort (Paris), France
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Approccio diagnostico e terapeutico all’insufficienza
respiratoria nel gatto
Luca Formaggini
Med Vet, Dormelletto (NO)
Il cosiddetto “gatto che respira male”, rappresenta nell’ambito della clinica dei piccoli animali una delle evenienze più comunemente riscontrate. Al fine di evitare gli
onnipresenti errori di gestione, il Medico DEVE considerare, durante ogni singolo passo diagnostico e terapeutico,
l’estrema instabilità di questa categoria di pazienti. Proprio l’approccio diagnostico strumentale, non occupa un
preciso standard temporale e procedurale nell’iter diagnostico e terapeutico del paziente dispnoico; non solo, ma è
proprio l’approccio diagnostico strumentale che nella
maggior parte dei casi, scompensando il paziente ne favorisce il decesso.
L’obiettivo che ogni Struttura di Pronto Soccorso deve
raggiungere, è la messa in atto di procedure il più possibile standardizzate al fine di ridurre al minimo il margine
di errore legato alla natura stessa dell’uomo; ma, le stesse procedure dovrebbero essere espletate da medici in
grado di adattare il protocollo alle necessità di ogni singolo paziente.
Nell’approccio al paziente dispnoico, il primo passo è
rappresentato dal riconoscimento di due distinte situazioni che guideranno in modo differente lo svolgersi dell’intervento: la difficoltà respiratoria e l’insufficienza respiratoria vera e propria. Nel primo caso, le condizioni del paziente al momento della presentazione consentono, dopo
aver instituito alcune manovre di supporto (ossigenoterapia) di intraprendere procedure diagnostiche strumentali
(radiografia del torace, ecografia, toracentesi guidata) prima del trattamento definitivo. Al contrario, nel paziente
con insufficienza respiratoria, le procedure terapeutiche
(ossigenazione, ventilazione -intubazione orotracheale,
tracheostomia- toracentesi, drenaggio toracico) devono
sempre precedere le manovre diagnostiche. Dal punto di
vista clinico, l’insufficienza respiratoria presenta una palese e drammatica esacerbazione di tutti gli atteggiamenti
messi in atto dal paziente al fine di compensare la situazione di malattia: decubito sternale o laterale con continui
cambiamenti di posizione, gomiti divaricati, respirazione a
bocca aperta, colore bluastro (cianosi) o pallido delle mucose. Dal punto di vista ematologico, il paziente affetto da
insufficienza respiratoria presenta un PaO2 al di sotto dei
50-60 mmHg (ipossiemia) e una PaCO2 al di sopra di 6070 mmHg (ipercapnia).
Il primo passo nell’approccio al gatto dispnoico, è
rappresentato sempre dall’ossigenoterapia (flow by, gabbia ad ossigeno). Durante questa prima fase occorre osservare ed ascoltare la modalità e lo sforzo respiratorio al
fine di localizzare la lesione. L’apparato respiratorio viene diviso empiricamente in 5 parti: vie aeree superiori
(alte vie: dalle narici ai bronchi principali), piccole vie
aeree (basse vie), parenchima polmonare, spazio pleurico, parete toracica e diaframma. In base alla modalità respiratoria verranno distinte difficoltà e insufficienze
ostruttive (delle alte e delle basse vie aeree) e difficoltà
e insufficienze restrittive (del parenchima e/o dello spazio pleurico). Una ostruzione delle alte vie è associata a
rumore respiratorio (stridore e stertore) e ad uno sforzo
inspiratorio (fase inspiratoria prolungata) seguito da una
fase espiratoria breve. Una fase espiratoria prolungata
con un accentuato sforzo addominale è caratteristica dell’asma felina (dispnea mista delle basse vie aeree). Praticamente tutte le altre cause di inadeguatezza respiratoria
provocano pattern respiratori misti e non rumorosi. Le
patologie dello spazio pleurico determinano il caratteristico respiro rapido e superficiale, ma, l’assenza di questo pattern respiratorio non esclude completamente la
presenza di patologie a questo livello. Ad esempio, nei
versamenti cronici il paziente manifesterà un tipo di dispnea prevalentemente inspiratoria ma assolutamente
senza provocare rumore. In base alla localizzazione e al
grado di inadeguatezza respiratoria verrà stabilito un ordine tra le procedure da eseguire: sedazione, intubazione,
toracentesi, radiografia, ecografia, drenaggio toracico,
toracotomia. È importante che ogni manovra sul paziente sia preceduta e seguita da un periodo di ossigenoterapia. L’auscultazione del torace è un altro mezzo diagnostico estremamente utile nell’approccio al paziente dispnoico. In particlare, la distribuzione e la qualità dei rilievi auscultatori, risulta di grande utilità per emettere
una serie di diagnosi differenziali. Il crepitio è causato da
bolle d’aria che si rompono e che si muovono all’interno
di un mezzo liquido; la localizzazione dorsocaudale di
questo rilievo auscultatorio in un cucciolo presuppone la
presenza di un edema neurogeno, mentre lo stesso rilievo alla base del cuore farebbe pensare ad un edema cardiogeno. L’assenza di rilievi auscultatori nella parte ventrale associata a rumori polmonari rinforzati nella parte
superiore del torace è un quadro caratteristico del versamento pleurico, in cui i polmoni galleggiano nel mezzo
liquido. Nello pneumotorace lo scenario auscultatorio è
esattamente l’oposto, in quanto l’aria si accumula nella
cavità pleurica dorsale. Nel gatto con versamento pleurico, i suoni cardiaci non vengono mascherati, anzi, spesse volte vengono irradiati su una superficie più ampia
168
della parete toracica; al contrario nel paziente con ernia
diaframmatica, i rumori cardiaci nella grande maggioranza dei casi vengono attutiti monolateralmente. Ancora rispetto all’auscultazione cardiaca, l’assenza di soffi e
di ritmi alterati (galoppo), nel gatto non esclude la presenza di patologie cardiache gravi; così come l’assenza
del rilievo clinico della tosse non esclude la presenza di
edema polmonare.
La capacità di creare un piano di lavoro solamente sulla base dell’anamnesi, del segnalamento e della visita clinica senza esami collaterali (es. radiografia), oppure l’abilità di inserire gli esami collaterali al momento giusto e
sulla base di questi presupposti, trattare farmacologicamente il paziente tenendo in considerazione solamente i
segni clinici non solo risulta eticamente corretto e moralmente lecito ma oltretutto può fare la differenza tra la vita e la morte del paziente dispnoico.
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Letture consigliate
Crowe, DT: Handbook of emergency surgery-protocols and techniques. In
Proocedings of ECVS pre-Congress Seminar, Vienna, 2002.
Plunkett, SJ: “Respiratory Emergencies”. In Plunkett, SJ (ed.): Emergency
Procedures for the Small Animal Veterinarian (2th ed). Saunders,
2001. pp. 27-45.
Tseng, LW, Waddel LS: Approach to the patient in respiratory di stress. Clinical techniques in small animal practice. 15, 2, 2000. pp 53-62.
Crowe DT and Devey JJ: Thoracic drainage. In Bojrab MJ, Ellison GW,
Slocum B (eds): Current Techniques in Small Animal Surgery. Fourth
edition. Williams & Wilkins, 1998. pp 403-417.
Raffe MR: “ Respiratory care”. In Wingfield WE, Raffe MR (eds.): The veterinary ICU Book. Jackson Hole, Wyoming. Teton NewMedia. 2002.
pp147-165.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Luca Formaggini
Clinica Veterinaria “Lago Maggiore”, C.so Cavour, 3 Dormelletto (NO)
Tel +39 0322 243716 - Fax +39 0322 232756
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Addome acuto: quando, come e perché
Luca Formaggini
Med Vet, Dormelletto (NO)
Il termine “addome acuto” fa riferimento alle caratteristiche cliniche di un animale con sintomatologia ad
inorgenza acuta riferibile ad una qualsiasi patologia intraaddominale. I sintomi comprendono comunemente vomito, diarrea e dolore addominale. Tuttavia occorre considerare che non tutte le patologie addominali che mettono in
serio pericolo la vita del paziente sono fonte di dolore. Il
compito del clinico risiede nel fatto di saper identificare
nel minor tempo possibile la presenza di liquido addominale e tutte quelle situazioni che richiedono una chirurgia
immediata. Nella prima parte della visita, il segnalamento e l’anamnesi consentono di emettere una serie di diagnosi differenziali (D.D.) e in base a queste indirizzare gli
esami collaterali finalizzandoli all’identificazione del sospetto diagnostico più grave (Tab. 1). Il dolore può originare dall’apparato gastrointestinale, urogenitale, epatobiliare, pancreas, milza e peritoneo. La sintomatologia correlata ai differenti apparati e organi può essere causata da
loro alterato posizionamento, infiammazione, infezione,
ostruzione, perforazione, distensione, rottura o compromissione vascolare. Nella maggior parte dei casi, i pazienti manifestano stato del sensorio alterato (eccitato o
depresso), segni di disidratazione e/o ipovolemia e dolore. L’anamnesi riferisce di un’insorgenza improvvisa dei
sintomi e il proprietario può essere stato testimone di ingestione di corpi estranei o eventualmente di un trauma.
Nella valutazione iniziale (ABC= Airways – Breathing –
Circulation) si possono riscontrare segni di alterazione
del respiro (polmonite ab ingestis, dispnea restrittiva per
distensione addominale), ostruzione delle prime vie aeree
(vomito), tempo di riempimento capillare aumentato (ipoperfusione) o diminuito (Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica: SIRS), polso debole e frequente (ipovolemia, dolore) oppure saltellante (fase iperdinamica
dello shock settico), ipotermia (ipoperfusione, esposizione prolungata al freddo intenso) o ipertermia (peritonite,
altre infezioni), sollevamento in plica della cute (disidratazione). In genere tutti i pazienti con addome acuto necessitano primariamente di fluidoterapia, ossigenoterapia
e terapia del dolore. Contemporaneamente all’accesso vascolare (centrale o periferico) vengono prelevati sangue e
urine per la valutazione del Minimum Data Base (MDB)
che comprende ematocrito (PCV), proteine totali (TS),
glicemia (Glu), azotemia (BUN), striscio di sangue su vetrino, peso specifico delle urine (USG); se disponibile un
apparecchio per emogasanalisi verranno valutati eventuali squilibri acido-basici ed elettrolitici. I risultati ottenuti
da questi esami, permetteranno da un lato di correggere le
anomalie riscontrate nei compartimenti liquidi e nel metabolismo del paziente, dall’altro la loro interpretazione
unitamente ad anamnesi e sintomatologia clinica guideranno la scelta diagnostica successiva più opportuna. A
questo punto, lo scopo principale è la rapida identificazione del paziente chirurgico.
Tabella 1
Cause di addome acuto correlate al segnalamento
Cani di razza grande/gigante con torace stretto e profondo
GDV e torsione splenica
Cani di piccola tagli obesi (Schnauzers femmina iperlipemica)
Pancreatite
Pastore Tedesco
GDV, volvolo mesenterico
Cuccioli di cane e gatto
Corpi estranei gastrici e intestinali, invaginamento intestinale, gastroenterite virale
Gatti
Corpi estranei lineari
Femmine vecchie intere di cane e gatto
Piometra (D.D. rottura e torsione dell’utero)
Cani maschi vecchi
Prostatiti, ascesso prostatico
Maschi criptorchidi
Torsione del testicolo
Cani dalmata, bassotti, bull dog
Ostruzione uretrale da calcoli
Labrador retriever, golden retriever e pastore tedesco vecchi
Emangiosarcoma splenico con emoperitoneo
170
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È un paziente chirurgico?
Il punto cruciale nella decisione chirurgica del paziente con addome acuto viene identificato nelle due parole
SE e QUANDO il paziente deve essere sottoposto a chirurgia d’urgenza. Mentre alcune chiare indicazioni sono
presenti e non lasciano dubbi nei casi di ferite addominali penetranti, in corso delle quali il paziente DEVE avere
un trattamento chirurgico immediato, lo stesso discorso
appare più nebuloso e fuorviante in corso di trauma addominale chiuso o comunque di addome acuto non traumatico. In linea generale il paziente necessita di chirurgia
in ogni caso di ferite penetranti la cavità addominale, presenza di aria libera in addome, presenza di batteri al prelievo del liquido addominale, urine e/o bile libera in cavità, emoaddome instabile. L’emoaddome si definisce in-
Tabella 2
Interpretazione del Minimum Data Base in corso di addome acuto
PCV < 20%
PCV > 60%
Emorragia, neoplasia
Disidratazione, contrazione splenica
TS < 3,5 g/dl
TS > 8,0 g/dl
Emorragia, infiammazione (settica)
Disidratazione
Glicemia < 60 g/dl
Sepsi, neoplasia, ipoglicemia razze Toy, artefatti (PCV > 50%)
Stick BUN > 40
Rotture del tratto urinario, insufficienza renale acuta, disidratazione, shock
Potassemia > 5,5 mmol/l
Rotture del tratto urinario, insufficienza renale acuta
Striscio ematico
• Neutropenia
• Trombocitopenia
• Sepsi
• CID, sepsi, infiammazione/infezione, emorragie gravi, neoplasia
Da: Walters, PC: Approach to the acute abdomen. 2000. Modificato
Tabella 4
Lavaggio peritoneale diagnostico (DPL)
Tabella 3
Addominocentesi: Tecnica dei quattro quadranti
4. si attende 1-2 minuti la fuoruscita di liquido da uno o più aghi. Più
probabile la raccolta di liquido dal quadrante craniale destro
(A) svuotare la vescica, tricotomia e disinfezione dell’addome
(B) inserire il catetere endovenoso di tipo “sopra l’ago” da 18 G – 16
G nella cavità addominale appena caudale e laterale all’ombelico
(C) infondere 20 ml/kg di soluzione salina tiepida e rimuovere il catetere
(D) massaggiare delicatamente l’addome
(E) dopo trenta minuti eseguire una singola centesi o la tecnica dei
quattro quadranti, analizzare il liquido e interpretare i risultati
5. analisi del versamento e interpretazione dei risultati
È normale non riuscire a rimuovere completamente la soluzione infusa.
1. tricotomia e disinfezione della regione ventrale dell’addome
2. tenendo l’ombelico come centro si divide la parete ventrale dell’addome in quattro quadrati immaginari
3. in ognuno dei quattro quadrati viene inserito un ago da 22 G (senza siringa)
Tabella 5
Interpretazione del liquido peritoneale
Colore
Verde = peritonite biliare
Emorragico = emorragia
Sieroso trasparente = infiammazione
Torbidità
Torbido con flucculi di fibrina = peritonite
PCV addominale
Comparare l’andamento con quello del sangue periferico
Globuli bianchi
> 500 mm3 = peritonite
Citologia
Neutrofili tossici con o senza presenza di batteri = peritonite settica/suppurativa
Materiale vegetale = perforazione intestinale
Analisi chimica
Creatinina, BUN e potassio più elevati rispetto al siero in caso di rottura del tratto urinario; amilasi più elevata in caso di pancreatite
Da Spreng, D: “To cut or not to cut” EVECCS Proceedings 2002. pp 14-16. Modificato.
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stabile quando lo shock ipovolemico non risponde alle terapie mediche del caso, quando lo stato di shock si ripresenta dopo un iniziale miglioramento dovuto alle terapie
mediche, aumento repentino della circonferenza addominale, aumento della pressione intraddominale, valutazione della comparazione tra i valori di ematocrito del liquido addominale rispetto a quelli del sangue periferico. Gli
esami collaterali comunemente utilizzati sono la radiografia, l’ecografia (se disponibile), la centesi addominale
(o paracentesi), il lavaggio peritoneale diagnostico e la
celiotomia esplorativa.
Centesi addominale (paracentesi)
e Lavaggio peritoneale diagnostico (DPL)
(Tabb. 3 e 4)
Il liquido ottenuto tramite le tecniche sopra descritte, deve essere valutato sia dal punto di vista macroscopico (colore, torbidità) che microscopico (SG, TS, PCV, GLI, conta
cellulare e tipo cellulare). In conseguenza all’interpretazione
dei valori ottenuti (Tab. 5) sarà istituita l’appropriata terapia
medica o chirurgica.
Letture consigliate
Mattoon JS, Nyland TG: “Ultrasonography of the general abdomen”. In
Mattoon JS, Nyland TG (eds.): Veterinary Diagnostic Ultrasound.
Philadelphia, PA, Saunders, 1995, pp. 43-51.
Hughes, D: “Approach to the acute abdomen”. In ECVECC Proceedings,
Amsterdam 2002, pp 11-14.
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and clinical evaluation in the dog. J Am Vet Med Assoc 168: 697-699,
1976.
Walters PC: Approach to the acute abdomen. Clinical Techniques in Small
Animals Practice. 15, 2, pp. 63-69, 2000.
O’Brien, R: “Radiography of the Critical care Patient”. In Wingfield WE,
Raffe MR (eds.): The veterinary ICU Book. Jackson Hole, Wyoming.
Teton NewMedia. 2002.
171
Wrigley, RH: “Critical Care Applications of Abdominal Sonography”. In
Wingfield WE, Raffe MR (eds.): The veterinary ICU Book. Jackson
Hole, Wyoming. Teton NewMedia. 2002.
Spreng, D: “To cut or not to cut”. In ECVECC Proceedings, Amsterdam
2002, pp 14-16.
Mongil et al: Traumatic hemoperitoneum in 28 cases. A retrospective review. J Am Anim Hosp Assoc, 1995.
Devey, J: Pluggin the holes. What to do with the bleeding trauma patient. In
EVECCS Proceedings, Lisbona 2003, pp 78-85.
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In Lesley King and Richard Hammond (eds) Manual of canine and
feline emergency and critical care. BSAVA pp 127-144.
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Surgery. Third Edition. Slatter D (ed). Saunders Philadelphia, 2003
pp 414-445.
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IVECCS Proceeding 1996. CD Room www.veccs.org
Schmiedt et al: Evaluation of abdominal fluid: peripheral blood creatinine
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Kyles AE, Aronsohn M, Stone EA: Urogenital surgery. In Lipowitz AJ,
Caywood DD, Newton CD, Schwartz A (eds) Complications in Small
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closure for the treatment of septic peritonitis in dogs and cats: 42 cases (1993-1999). Vet Surg 2002; 31:74.
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Crowe DT: The septic and dirty abdomen. In Proceedings IVECCS VII. Orlando, FL, 2000 p 567.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Luca Formaggini
Clinica Veterinaria “Lago Maggiore”, C.so Cavour, 3 Dormelletto (NO)
Tel +39 0322 243716 - Fax +39 0322 232756
172
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È possibile diagnosticare una malattia infettiva?
Tommaso Furlanello
Med Vet, Padova
RELAZIONE NON PERVENUTA
È possibile scaricarla dal sito web: www.sanmarcovet.it
Indirizzo per la corrispondenza:
Tommaso Furlanello - Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Via Sorio n. 114/c, 35141 Padova
tel 049 8561098 - fax 02 700518888
e-mail: [email protected]
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173
Approccio diagnostico-terapeutico all’otite cronica
Casi clinici interattivi
Giovanni Ghibaudo
Med Vet - Samarate (VA) e Fano (PU)
Federico Leone
Med Vet - Senigallia (AN)
L’orecchio esterno del cane e del gatto è rivestito da cute che
non differisce da quella riscontrabile nel resto della superficie
cutanea. Con il termine di otite esterna si definisce un processo
infiammatorio, acuto o cronico, del condotto uditivo esterno
(CUE). Il CUE è costituito da due porzioni: una, ad andamento
verticale, in diretta comunicazione con il padiglione auricolare
e l’altra, ad andamento orizzontale che si porta fino all’ingresso della cavità timpanica. La membrana del timpano, che oblitera l’ingresso alla cavità, costituisce il fondo del CUE e separa
l’orecchio esterno dall’orecchio medio.
L’otite esterna è una patologia ad eziologia multifattoriale.
Secondo la classificazione eziologica vengono identificati tre
categorie di fattori in grado di dar luogo ad un’otite esterna
(Tab. 1): fattori predisponenti, fattori primari e fattori perpetuanti. I fattori predisponenti sono quelli che aumentano notevolmente il rischio di insorgenza di otite, i fattori primari sono sufficienti da soli a causare otite mentre i fattori perpetuanti
sono quelli in grado di mantenere ed alimentare l’infiammazione aggravandone l’espressione clinica ed impedendone la
risoluzione. Il risultato dell’azione, singola o combinata, di
queste tre categorie di fattori, è rappresentato dall’otite il cui
quadro clinico sarà tanto più grave in funzione della quantità
di fattori in causa. L’approccio diagnostico-terapeutico a un
otite cronica prevede di identificare e controllare, in una prima fase, le infezioni secondarie (fattori perpetuanti) e, successivamente, identificare e combattere i fattori primari e predi-
sponenti eventualmente coinvolti nell’insorgenza dell’otite.
Durante la relazione verranno presentati dei casi clinici interattivi di otiti con problematiche diagnostiche e terapeutiche.
Bibliografia
Arcelli R, Leone F: Otiti nel cane e nel gatto. Ed. Poletto, Gaggiano (2001).
August JR: Malattie del canale auricolare. Cl. Vet. Del Nord America ed.
Delfino (1990).
Carlotti DN, Taillieu-Le Roy S: L’otite externe chez le chien: étiologie et
clinique, revue bibliographique et etude retrospective portant sur 752
cas. Prat Méd Chir Anim Comp, 32: 243 (1997).
Gotthelf LN: Small animal ear disease: an illustrated guide. Ed Saunders
(2000).
Griffin CE: Otitis externa and media. In Current veterinary dermatology
(Griffin CE, Kwochka KW, MacDonald JM). Mosby-Year Book, St
Louis 245 (1993).
Harvey RC, Larari J, Delauche AJ: Malattie dell’oreccho del cane e del gatto. Ed Masson-EV, Milano (2001).
Marignac G: Atlas des otites chez les carnivores domestiques. Ed. Med’Com, Paris (2000).
Scott DW, Miller WH, Griffin, CE: External ear diseases. In Muller and
Kirk’s small animal dermatology. 6th ed., WB Saunders, Philadephia,
1203 (2001).
Indirizzo per la corrispondenza:
[email protected]
Federico Leone, Clinica Veterinaria Adriatica
SS Adriatica Nord 50/1-2, 60019 Senigallia (AN)
Telefax: 071.66.10.072 – E-mail: [email protected]
Tabella 1
FATTORI PREDISPONENTI
FATTORI PRIMARI
FATTORI PERPETUANTI
Conformazione
Parassiti
Infezioni batteriche
Eccessiva umidità
Microrganismi
Infezioni da lieviti
Conseguenza di trattamenti
Ipersensibilità
Alterazioni patologiche progressive
Patologie ostruttive del condotto
Disordini della cheratinizzazione
Otite media
Patologie sistemiche
Corpi estranei
Malattie autoimmuni
Malattie virali o presunte tali
174
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Lo sviluppo comportamentale del gattino,
la comunicazione territoriale e la scelta del gattino
Sabrina Giussani
Med Vet, Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA)
Lo sviluppo comportamentale del gattino
L’accrescimento corporeo e l’acquisizione dei moduli
comportamentali sono strettamente legati allo sviluppo del
sistema nervoso e alle stimolazioni presenti nell’ambiente. Il
processo di attaccamento è fondamentale per portare a compimento sia l’accrescimento corporeo sia la maturazione psichica dei gattini: la madre grazie alla percezione dei feromoni di adozione contenuti nel liquido amniotico mette in
atto le cure parentali mentre la secrezione delle apaisine permette un corretto sviluppo sensoriale e motorio dei piccoli.
Durante il periodo prenatale l’embrione possiede alcune
competenze sensoriali: la sensibilità tattile è presente intorno
al ventunesimo giorno di gravidanza mentre il gusto e in parte l’olfatto compaiono intorno al quarantesimo giorno di vita.
Per migliorare la tolleranza al contatto dei gattini è necessario accarezzare e massaggiare ripetutamente l’addome della
gatta gravida. Nel periodo neonatale, che si estende dalla nascita all’apertura degli occhi da parte dei piccoli, nasce il legame di attaccamento madre – gattino che permette la messa
in atto delle cure parentali. A volte, soprattutto in relazione
alla presenza di un pericolo, la madre sposta i gattini sollevandoli e afferrandoli alla collottola: i piccoli devono rilassare completamente l’intera muscolatura ad eccezione del dorso, la coda viene portata tra le gambe, gli occhi sono socchiusi e ogni comportamento è inibito. Il riflesso “di portage”
sarà utilizzato dal Medico Veterinario durante la prima visita
post adozione per valutare la tolleranza alla manipolazione
del gattino. Il periodo di transizione è molto breve, quasi virtuale nel gattino. Il legame di attaccamento diventa reciproco
e il piccolo identifica quella forma e quell’odore come “la
propria madre”, un polo rassicurante: la presenza delle apaisine, feromoni di appagamento prodotti nel solco intermammario, stabilizza le emozioni del gattino. Il periodo di socializzazione, che inizia intorno alla seconda settimana di vita
del gattino e si conclude con il distacco dalla madre, è caratterizzato dalla socializzazione primaria, dall’acquisizione degli autocontrolli e dalla creazione di un livello di omeostasi
sensoriale di riferimento. La socializzazione comporta l’acquisizione di sistemi di comunicazione tra il gatto ed altre
specie (socializzazione interspecifica) e/ o tra il gatto e i conspecifici (socializzazione intraspecifica). In questo modo gli
esseri umani, i cani o gli altri animali saranno considerati conosciuti e non pericolosi. Dall’età di tre settimane i gattini effettuano giochi di lotta corpo a corpo che consistono in mordicchiamenti e in graffiature. L’eccitazione provocata dal gioco porta ad aumentare l’intensità del morso fino a provocare
un grido di dolore da parte del compagno. La madre punisce
i morsi non controllati e le corse sfrenate infliggendo piccoli
colpetti sul naso del gattino o graffiandogli l’addome con gli
arti posteriori. Il piccolo viene punito anche quando sfodera
le unghie durante un gioco o una relazione sociale. È fondamentale inoltre che il gattino possa interagire con gli stimoli
esterni esplorando il mondo che lo circonda al fine di permettere la creazione di una corretta omeostasi sensoriale. Il
distacco inizia subito dopo lo svezzamento e termina tra la
settima e la nona settimana di vita del gattino: la madre si allontana sempre più frequentemente e si sottrae in occasione
della poppata. Il gattino diventa “autonomo” dal punto di vista comportamentale e la fonte di appagamento sarà costituita dall’organizzazione del territorio.
La comunicazione territoriale
Il territorio è composto da numerose aree ciascuna riservata allo svolgimento di un preciso comportamento, delimitate da marcature visive e olfattive. È possibile rilevare tre tipi di campi territoriali: i campi di attività, i campi di isolamento e il campo di aggressione. I campi di attività sono le
zone in cui il gatto svolge la caccia (comportamento di alimentazione), il gioco, l’eliminazione. I campi di isolamento
corrispondono alle aree di riposo o alle zone in cui l’animale si apparta ed evita il contatto. Per quanto riguarda il campo di aggressione si tratta di uno spazio di dimensione variabile incentrato sull’individuo. Qualsiasi introduzione provoca un comportamento di aggressione. Le dimensioni di
questa area variano in funzione dello stato emozionale e fisiologico dell’animale: quando un gatto è ferito o impaurito
è notevolmente ampia. I campi territoriali sono collegati fra
loro per mezzo di sentieri invisibili che il gatto organizza nel
corso delle differenti attività di esplorazione.
I segnali visivi (le posture) e olfattivi (i feromoni) non
solo permettono al gatto di orientarsi nell’ambiente ma costituiscono anche il mezzo di comunicazione con i conspecifici e con gli esseri umani. I segnali territoriali sono costituiti dalle graffiature e dalle marcature urinarie. Le graffiature
possiedono una funzione di comunicazione grazie alla combinazione di segnali visivi (le tracce lasciate dai graffi) e olfattivi (i feromoni escreti dalle ghiandole interdigitali). Sono
effettuate in vicinanza dei campi di isolamento, di caccia (o
di alimentazione), di eliminazione e nei luoghi di passaggio
tra l’interno e l’esterno dell’abitazione. Le marcature urinarie sono realizzate emettendo uno spot di urina del diametro
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di 10-20 centimetri (che costituisce un segnale visivo) circa
ad un’altezza di 30-50 centimetri da terra su di un supporto
verticale. Sono caratterizzate da una specifica sequenza
comportamentale: il gatto rimane in stazione quadrupedale
(non si accuccia), muove alternativamente i piedi mentre la
coda tenuta in posizione verticale vibra. Le marcature urinarie di tipo reattivo indicano la presenza di un occupante abituale del territorio e sono deposte nei pressi dell’intersezione tra una via di passaggio (sentiero) ed un campo di attività
mentre quelle di tipo sessuale sono effettuate in prossimità
delle uscite verso l’esterno (porte e finestre) e vengono spesso accompagnate da vocalizzi. Le marcature urinarie sono
realizzate sia dai maschi sia dalle femmine. L’orchiectomia
e l’ovariectomia sono in grado di inibirne la comparsa solo
se effettuate prima del periodo pubertario.
I segnali di identificazione sono costituiti dai feromoni
facciali. Sono deposti mediante lo sfregamento della parte
laterale del viso sugli oggetti inanimati (la frazione F3 è la
secrezione deposta sugli oggetti che fanno parte dell’ambiente in cui il gatto vive, soprattutto su quelli che si trovano lungo i sentieri) e sugli esseri viventi esplorati (la frazione F4 è la secrezione deposta sui conspecifici appartenenti
alla stessa colonia, sugli animali e sugli esseri umani che
fanno parte “del gruppo famigliare”). Grazie alla presenza
dei feromoni facciali l’ambiente diviene conosciuto e non
rappresenta più un pericolo.
La scelta del gattino
L’età ottimale di adozione si aggira intorno ai 55 giorni di
vita. È necessario scoraggiare il proprietario di fronte ad una
adozione precoce. È preferibile scegliere il gattino che si avvicina spontaneamente al futuro proprietario, che depone le
marcature facciali sfregando le guance, che mostra una buona
tolleranza alla manipolazione e che, in risposta al sollevamento effettuato afferrando la cute alla collottola (“test di portage”) si rilassa ponendo la coda tra gli arti posteriori. Questa
prova è indice della relazione avuta con la madre ed ha valore predittivo per quanto riguarda la tolleranza al contatto.
175
Conclusioni
Un corretto sviluppo del sistema nervoso, un ambiente
di vita ricco di differenti stimoli (uditivi, visivi e tattili) e
la presenza di una figura di attaccamento (che svolge non
solo un ruolo educativo ma anche di polo rassicurante) sono “ingredienti” indispensabili per raggiungere un corretto sviluppo comportamentale. È necessario che il Medico
Veterinario realizzi efficaci strategie di prevenzione presso gli allevatori al fine di garantire il corretto sviluppo
comportamentale del gattino. La visita comportamentale
post adozione è fondamentale per preparare i proprietari
alla convivenza con un animale da compagnia. Le necessità etologiche del gattino spesso sono ignorate e dare
informazioni corrette permette di prevenire alcune patologie del comportamento salvaguardando sia il benessere
dell’animale sia quello della famiglia.
Bibliografia
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Medico Veterinario Generalista”, il Chirone, Organo ufficiale pro
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del gatto”, Poletto Editore, Gaggiano.
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quotidienne “, Module prévention et éducation, Ecole Nationale
Vétérinaire de Lyon.
176
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Nuovi impieghi dei feromoni nel cane:
- le paure
- l’iperattaccamento
Sabrina Giussani
Med Vet, Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA)
I feromoni
I segnali chimici sono il più antico e diffuso mezzo di comunicazione utilizzato nel mondo vegetale e animale. Tra le
sostanze ad azione intraspecifica è possibile evidenziare i feromoni. I Carnivori, tra i Mammiferi, sono dotati del maggior numero di strutture in grado di produrre feromoni ma i
meccanismi neurofisiologici messi in gioco dalle secrezioni
feromonali non sono ancora totalmente conosciuti. Secondo
P. Pageat i feromoni sembrano influenzare la produzione degli ormoni sessuali e provocare modificazioni emozionali
che sono alla base dell’emissione di risposte comportamentali differenti (come ad esempio l’evitamento, la fuga o l’aggressione) a seconda delle variazioni dello stato reattivo dell’individuo. Nei Mammiferi i feromoni sono escreti da differenti strutture ghiandolari distribuite nell’epidermide e
nelle mucose attorno agli orifizi naturali. Nel cane le principali strutture secernenti sono le ghiandole sebacee poste nel
solco intermammario, le ghiandole periorali, le ghiandole
ceruminose poste nel padiglione auricolare, le ghiandole
anali (che comprendono le ghiandole epatoidi circumanali,
le ghiandole sebacee poste nella parte cutanea dell’ano, la
mucosa rettale e i seni paranali), le ghiandole sottocaudali,
le ghiandole sopracaudali e le ghiandole podali (diffuse nei
cuscinetti plantari e nella cute della regione interdigitale).
Inoltre è possibile evidenziare la presenza di feromoni definiti di adozione che sembrano essere in soluzione nel liquido amniotico. Le secrezioni feromonali possono essere trasmesse attraverso l’aria, l’acqua, oppure deposte sul suolo o
su supporti solidi. Nella percezione e riconoscimento dei feromoni sembra essere maggiormente coinvolto l’organo vomeronasale o di Jacobson, costituito da un canale pari situato nel pavimento della cavità nasale che sbocca nel canale
incisivo. Per quanto riguarda i Mammiferi, i feromoni evidenziati sono stati classificati in relazione alle ghiandole secernenti o in ragione della loro azione. È possibile riconoscere feromoni di adozione, di appagamento (le apaisine), di
identificazione, di delimitazione territoriale, di allarme e
sessuali. L’Apaisina favorisce la nascita del legame di attaccamento primario (cucciolo – madre), legame che si instaura nella sua completezza tra la seconda e la terza settimana
di vita del cucciolo. La madre diviene un punto di riferimento, un polo rassicurante attorno al quale vengono messe
in atto le prime esplorazioni. L’attaccamento permette un
corretto sviluppo sensoriale, psicomotorio e sociale. In oc-
casione dell’esplorazione dell’ambiente circostante, il cucciolo tende ad avvicinarsi alla madre in seguito alla percezione di una situazione di pericolo. In questo periodo di sviluppo comportamentale incentrato intorno alla figura materna, l’Apaisina stabilizza la risposta emozionale del cucciolo,
tranquillizzandolo e rilanciandone il comportamento esploratorio. Durante il distacco il ruolo della madre si modifica e
il cucciolo viene privato dell’appagamento fornito dall’Apaisina. Ne deriva una fase di stress e di ricerca di un nuovo
legame all’interno del gruppo sociale di appartenenza. Le ricerche effettuate hanno evidenziato la presenza di una molecola analoga all’Apaisina, prodotta a livello del padiglione
auricolare del capogruppo, che sembra essere alla base dell’attaccamento del cucciolo al gruppo sociale.
Le paure
La paura è un’emozione primaria di difesa dell’animale
provocata da una contesto di pericolo reale. Quando lo stimolo è presentato in una situazione che lascia una via di fuga, piano piano la paura diminuisce ed è possibile l’abituazione: il cane sarà in grado di esplorare lo stimolo e lo identificherà come conosciuto. Quando questa emozione permane anche in assenza di un contesto di pericolo reale prende il
nome di fobia, “uno stato reazionale di timore o paura che
non permette un adattamento, scatenato da uno stimolo ben
identificato (per esempio un rumore, l’essere umano, un’automobile) che normalmente fa parte dell’ambiente in cui vive l’animale” (P. Pageat). È possibile evidenziare fobie ontogeniche e fobie post traumatiche.
Le fobie ontogeniche sono legate alle condizioni ambientali in cui avviene lo sviluppo comportamentale del cucciolo dalla terza settimana fino alla dodicesima settimana di
vita circa (periodo di socializzazione):
• Lo stimolo può non essere mai stato incontrato durante il periodo di socializzazione e sarà immediatamente considerato come pericoloso.
• Lo stimolo può essere incontrato regolarmente ma l’animale non può sottrarsi, per esempio allontanandosi,
e rapidamente lo stimolo stesso assume una connotazione nefasta e avversiva. In breve tempo si assiste alla sensibilizzazione e alla generalizzazione della fobia
anche agli stimoli che precedono e seguono lo stimolo primario ormai divenuto fobogeno.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Le fobie post traumatiche appaiono dopo il termine del
periodo di socializzazione e sono dovute alla esposizione
violenta ed improvvisa ad una situazione “pericolosa” come
per esempio un incidente.
Rapidamente il cane impara a non essere confrontato agli
stimoli temuti grazie all’evitamento o alla messa in atto di un
comportamento di aggressione. Lo stato fobico evolve e i sistemi neurotrasmettitoriali coinvolti sono dapprima i noradrenergici (midriasi, tachipnea, tremori, minzioni emozionali), successivamente i dopaminergici (ptialismo, vomito, colite) e i serotoninergici. L’utilizzo precoce dei feromoni di
appagamento (D.A.P. o Dog Appeasing Pheromone), associato ad una adeguata terapia comportamentale, impedisce
l’evoluzione dello stato fobico e permette l’abituazione allo
stimolo.
177
durre il disagio emozionale quando è presente una patologia
del comportamento come la Sindrome da Privazione Sensoriale, la Sindrome Ipersensibilità – Iperattività, la Sociopatia e così via.
La presenza del legame di iperattaccamento primario o
secondario provoca una “dipendenza” affettiva dall’essere
di attaccamento: in assenza del proprietario il cane può effettuare distruzioni (per esempio mobili, divani, libri) vocalizzi, deiezioni emozionali (minzioni e defecazioni realizzate su di un supporto orizzontale ed emesse in tutta l’abitazione). L’utilizzo precoce dei feromoni di appagamento
(D.A.P. o Dog Appeasing Pheromone) associato ad una adeguata terapia comportamentale e farmacologica, permette la
risoluzione della malattia comportamentale.
Conclusioni
L’iperattaccamento
Il legame di attaccamento madre - cucciolo nasce nel periodo neonatale grazie alla presenza dei feromoni di adozione disciolti nel liquido amniotico provoca la messa in atto
delle cure parentali mentre il legame di attaccamento cucciolo - madre (legame di attaccamento primario) viene messo in atto nel periodo di transizione grazie alla presenza dei
feromoni di appagamento. Tale legame permette un corretto
sviluppo sensoriale (l’omeostasi sensoriale), psicomotorio
(gli autocontrolli) e sociale (le regole gerarchiche, la comunicazione). Il distacco è un “meccanismo” attivo e provoca
una grande angoscia nei cuccioli adolescenti. Questo disagio
emotivo è solo transitorio poiché il cucciolo crea un legame
di attaccamento al gruppo sociale con il quale vive.
Il legame di iperattaccamento è indice di una dipendenza affettiva: è legato al mancato distacco (iperattaccamento
primario) o alla presenza di una malattia del comportamento che comporta la nascita di uno stato ansioso o depressivo
(iperattaccamento secondario). La presenza del legame di
iperattaccamento primario sottintende l’Ansia da Separazione mentre il legame di iperattaccamento secondario è un
meccanismo “adattativo” messo in atto dall’animale per ri-
Grazie alla nascita della feromonoterapia, le molecole feromonali sono state oggetto di un grande interesse soprattutto nei Carnivori. Il Medico Veterinario, dopo aver emesso
una diagnosi, può avvalersi della feromonoterapia e della terapia comportamentale senza l’ausilio farmacologico oppure in associazione a psicofarmaci al fine di risolvere la malattia del comportamento.
Bibliografia
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Veterinaria n° 360, 16 ottobre 2002.
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Ipertensione polmonare nel cane
Tony Glaus
Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera
Definizione, meccanismi ed eziologia
L’ipertensione polmonare (PH) viene definita come un
aumento della pressione nell’arteria polmonare e può essere
una condizione primaria (PPH) o secondaria. La PPH è
un’entità molto rara nell’uomo e viene diagnosticata nei casi in cui non si riesce ad identificare alcuna causa sottostante per la PH e si rilevano i segni istologici tipici della PPH
(Fishman, 1998). I fattori scatenanti possono essere rappresentati da tossine, farmaci, infezioni ed una suscettibilità geneticamente determinata a queste lesioni (Rubin, 1997). Nel
cane, la PPH è stata caratterizzata di recente (Glaus, 2004).
Tabella 1
Eziologie e meccanismi dell’ipertensione arteriosa
polmonare cronica secondaria nell’uomo
(Fishman, 1998, modificata)
Cardiopatie
a) Ipertensione venosa polmonare associata a cardiopatia acquisita (insufficienza miocardica sinistra, endocardiosi
della valvola mitrale)
b) Aumento della perfusione ematica polmonare nella cardiopatia congenita (grande shunt da sinistra a destra)
Vasocostrizione ipossica
a) Malattia cronica ostruttiva delle vie aeree profonde (bronchite, enfisema)
b) Malattia cronica ostruttiva delle vie aeree superficiali
c) Disordini che portano ad ipoventilazione alveolare
1. Obesità
2. Sindrome della morte improvvisa del neonato in culla
3. Malattia neuromuscolare
4. Disfunzione della parete toracica
5. Disordini del controllo della respirazione
d) Mal di montagna cronico
Occlusione del letto vascolare polmonare
a) tromboembolismo
b) parassiti
c) patologia vascolare del collagene
Affezioni del parenchima polmonare con perdita di superficie
vascolare
a) Enfisema
b) Bronchiectasia
c) Pneumopatia interstiziale cronica diffusa
1. fibrosi
2. Infezione micotica cronica
3. Sindrome da difficoltà respiratoria nell’adulto
L’ipertensione polmonare secondaria si può trovare in
molte malattie differenti ed è dovuta a vari meccanismi. Due
gruppi importanti di meccanismi patogenetici sono l’aumento della pressione nell’atrio sinistro e l’incremento della resistenza vascolare polmonare. Le cause riconosciute di quest’ultimo sono l’ostruzione intravascolare, il rimodellamento vascolare, le modificazioni patologiche dell’interstizio
polmonare, la vasocostrizione arteriosa ed un’associazione
di più meccanismi (Fishman, 1998, Tab. 1). In medicina veterinaria, la condizione non è stata oggetto di molta attenzione, fatta eccezione per la forma secondaria a tromboembolismo polmonare ed in particolare associata a filariosi cardiopolmonare (Atkins et al., 1988). Solo recentemente è stato riferito che l’insufficienza cardiaca sinistra e la malattia
cronica respiratoria possono essere cause importanti di ipertensione polmonare nel cane (Johnson et al., 1999, Schober
et al., 2002). Nella maggior parte dei processi patologici,
l’aumento pressorio è dovuto a molteplici meccanismi e
quindi è difficile valutare l’importanza di ogni singolo fattore. Ad esempio, in un cane con insufficienza cardiaca da endocardiosi mitralica, l’incremento della pressione nell’atrio
sinistro e l’ipossia alveolare da edema polmonare possono
essere due fattori che contribuiscono a determinare il problema. Nella filariosi cardiopolmonare l’ostruzione dovuta
alla presenza dei parassiti stessi a livello intravascolare, la
vasculite, la trombosi e la vasocostrizione ipossica sono tutti fattori capaci di contribuire all’ipertensione polmonare.
Ipertensione polmonare –
Ruolo dell’ecocardiografia nella diagnosi
In passato, la diagnosi dell’ipertensione polmonare veniva formulata mediante cateterizzazione del ventricolo destro
e dell’arteria polmonare principale. Questa modalità è ancora lo standard aureo, tuttavia è invasiva ed è caratterizzata da
una disponibilità limitata (Feigenbaum, 1993). Nel cane, la
cateterizzazione deve essere effettuata sotto anestesia e ciò
può determinare un abbassamento della pressione dell’arteria polmonare e, quindi, influire sulla precisione. Recentemente, è stata oggetto di notevole attenzione l’ecocardiografia, che viene considerata molto utile nella diagnosi dell’ipertensione polmonare perché è assolutamente non invasiva
ed ampiamente disponibile. L’indagine ecografica in questo
ambito svolge un duplice ruolo. In primo luogo, consente di
confermare qualitativamente e quantitativamente un sospetto di ipertensione polmonare. Secondariamente, rappresenta
un mezzo importante per escludere o confermare certe cause della condizione, come le cardiopatie sinistre acquisite
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
FIGURA 1 - Esame ecocardiografico bidimensionale in M-mode e Doppler
a codice di colore di un cane con sincope associata ad endocardiosi bilaterale della valvola atrioventricolare e collasso tracheale.
179
FIGURA 2 - Immagine ecocardiografica ed angiografica dell’ipertensione
polmonare che si sviluppa secondariamente ad un dotto arterioso pervio
(PDA) sinistra-destra.
Figura 2a
Figura 1a
Figura 2b
Figura 1b
I riscontri bidimensionali ed in M-mode (Fig. 1a, veduta parasternale destra ad asse breve) indicativi di grave ipertensione polmonare sono rappresentati da dilatazione ed ipertrofia del ventricolo destro (punte di freccia) e dei muscoli papillari (freccia piccola), diminuzione delle dimensioni
del ventricolo sinistro ed appiattimento del setto interventricolare (freccia
grande).
L’esame Doppler a codice di colore (Fig. 1b, immagine congelata da un
videotape, veduta parasternale destra ad asse lungo) illustra un rigurgito mitralico e tricuspidale moderato o marcato. In questo caso, si è ritenuto che la grave ipertensione polmonare fosse dovuta a rigurgito mitralico cronico associato ad un’affezione ipossica delle vie aeree superiori
ed eventualmente ad iperadrenocorticismo. Alla necroscopia, non è stato
possibile identificare alcuna altra causa di sovraccarico pressorio del
ventricolo destro.
come l’insufficienza miocardica primaria o quella valvolare
cronica (Fig. 1) e le affezioni cardiovascolari congenite con
shunt sinistra-destra (Fig. 2).
Per rilevare l’ipertensione polmonare sono utili differenti modalità ecocardiografiche. I risconti tipici nelle immagini bidimensionali (2-D) ed in modalità movimento (M-mode) sono la dilatazione del ventricolo destro e dell’atrio destro, l’ipertrofia della parete ventricolare destra e dei muscoli papillari, il movimento paradosso del setto interventricolare e la diminuzione delle dimensioni della camera del ventricolo sinistro (Atkins et al., 1988). Queste anomalie qualitative o persino semiquantitative sono notevoli nell’ipertensione polmonare grave (Fig. 1). Il più utile mezzo ecocardiografico non solo per confermare la condizione, ma anche
per misurarne l’entità, è l’esame Doppler del flusso di sangue durante la sistole attraverso una valvola tricuspide insufficiente. Il principio fisico che sta alla base di questa metodica è quello della Conservazione dell’Energia che si
esprime nell’equazione di Bernoulli. La base del principio è
che la velocità del flusso di sangue fra due comparti dipende dalla caduta di pressione fra di loro, per cui il flusso ematico è tanto più rapido quanto più è elevato il gradiente pressorio. Se attraverso l’esame Doppler a codice di colore è
possibile visualizzare un getto di rigurgito della tricuspide e
le dimensioni e la qualità del getto stesso consentono la misurazione della sua velocità di picco (vmax), è possibile calcolare il gradiente pressorio di picco (PG) fra il ventricolo
destro e l’atrio destro nella sistole, utilizzando l’equazione
di Bernoulli semplificata: PG = 4 x vmax2 (Fig. 3) (Currie et
al., 1985, Feigembaum, 1993).
Figura 2c
L’ecocardiografia bidimensionale (Fig. 2a, veduta parasternale destra ad
asse lungo) evidenzia l’ipertrofia ventricolare destra compatibile con sovraccarico pressorio: la parete libera del ventricolo destro (freccia grande)
è chiaramente più spessa di quella del ventricolo sinistro (freccia piccola).
Esame Doppler a codice di colore (Fig. 2b, veduta parasternale destra ad
asse corto) del cono arterioso polmonare: il flusso laminare esclude la stenosi polmonare come causa di sovraccarico pressorio del ventricolo destro;
inoltre, esclude un significativo volume di shunt dall’aorta all’arteria polmonare attraverso il PDA.
Immagine angiografica (Fig. 2c) in decubito laterale destro dopo iniezione
manuale di mezzo di contrasto nell’aorta discendente al di sopra del PDA.
Il mezzo di contrasto opacizza simultaneamente l’aorta discendente (Ao), il
PDA e la vascolarizzazione polmonare, determinando un quadro compatibile con un PDA sinistra-destra. Il quadro radiologico dell’ipertensione
polmonare è dato dal riscontro di arterie polmonari leggermente distorte
(frecce; MPA = arteria polmonare principale).
FIGURA 3 - Esame Doppler ad onda continua del rigurgito della tricuspide in un cane con sincope associata ad endocardiosi valvolare atrioventricolare bilaterale e collasso tracheale (veduta apicale sinistra, stesso cane
della Fig. 1).
La velocità di picco misurata del rigurgito della tricuspide è di 5,77 m/s, il
gradiente pressorio calcolato fra atrio e ventricolo di destra è di 133 mm
Hg, il che, in assenza di stenosi polmonare, è compatibile con una grave
ipertensione polmonare.
180
In condizioni normali, nei pazienti umani e nei cani la
pressione dell’atrio destro durante la sistole ventricolare è
prossima a 0 mm Hg e nei soggetti con affezioni cardiovascolari del lato destro ma senza segni di insufficienza
cardiaca destra la pressione atriale destra è di solito inferiore a 10 mm Hg. Quindi, il valore calcolato di PG del rigurgito della valvola tricuspide (TR) nei soggetti che non
presentano segni di insufficienza cardiaca destra è una
stretta approssimazione della pressione ventricolare sistolica destra. In assenza di stenosi polmonari, cioè di un gradiente pressorio fra il ventricolo destro e l’arteria polmonare nella sistole, la pressione sistolica del ventricolo destro equivale a quella dell’arteria polmonare. In queste circostanze, il PG del TR è una stretta stima della pressione
sistolica dell’arteria polmonare. Come indicato più sopra,
per riuscire a calcolare con questi mezzi la pressione del
ventricolo destro è indispensabile un getto di rigurgito della tricuspide di elevata qualità, che consenta la misurazione della sua velocità di picco. All’aumentare dell’esperienza dell’operatore e della qualità delle apparecchiature
ecografiche, sarà possibile dimostrare e misurare il TR in
un gran numero di soggetti. In presenza di un incremento
della pressione ventricolare destra, la prevalenza di TR è
ancora più elevata (Currie et al., 1985).
In presenza di un’insufficienza della valvola polmonare
(PI), è possibile calcolare in modo analogo la pressione diastolica dell’arteria polmonare. Partendo dal presupposto che
la pressione diastolica del ventricolo destro è prossima a 0
mm Hg, il PG fra l’arteria polmonare ed il ventricolo destro
nella diastole equivale alla pressione diastolica dell’arteria
polmonare (Feigembaum, 1993).
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Bibliografia
ATkins, C.E., Keene, B.W. & McGuirk, S.M. (1988) Pathophysiologic mechanism of cardiac dysfunction in experimentally induced heartworm
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Cor pulmonale bei Terrierhunden mit chronisch progressiver idiopathischer Lungenfibrose: 19 Fälle (1996-2001). Tierärztliche Praxis
30, 180-189
Indirizzo per la corrispondenza:
Tony Glaus, Dipl. ACVIM und ECVIM-CA
Leiter Abteilung für Kardiologie
Klinik für Kleintiermedizin, Universität Zürich
Winterthurerstr. 260, CH-8057 Zürich
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Diagnosi, terapia e prognosi del dotto arterioso pervio
Tony Glaus
Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera
Fisiopatologia
Approccio diagnostico
Durante la vita intrauterina, nell’embrione non si può
avere alcuna ossigenazione del sangue presente nei polmoni.
Per evitare una perfusione polmonare non necessaria, è presente un’ipertensione polmonare fisiologica, ed il dotto arterioso di Botallo è uno dei numerosi shunt fisiologici che
consentono di aggirare i polmoni negli organismi in via di
sviluppo. Alla nascita, sotto l’influenza di un’elevata concentrazione di ossigeno nei polmoni, si ha una marcata caduta della pressione arteriosa polmonare ed il dotto arterioso si occlude entro poche ore, inizialmente solo per costrizione da parte dei muscoli periduttali.
Dopo la nascita, le pressioni sanguigne sistemiche, sistoliche e diastoliche fisiologiche sono intorno a 120 ed 80 mm Hg,
mentre le pressioni fisiologiche sistoliche e diastoliche nell’arteria polmonare sono intorno a 20 e 10 mm Hg. Se il dotto non
si occlude, è presente un elevato gradiente pressorio dall’aorta
verso l’arteria polmonare nella sistole (120 mm Hg ➠ 20 mm
Hg) e nella diastole (80 mm Hg ➠ 10 mm Hg). Quindi, di solito si ha un costante shunt ematico sinistra-destra, dalla circolazione sistemica a quella polmonare. Dal momento che il sangue eiettato dal ventricolo sinistro nell’aorta discendente viene
deviato nuovamente verso la circolazione polmonare, la periferia non ne riceve una quantità appropriata. Per compensazione, si deve avere un aumento del volume spinto dal ventricolo
sinistro, che quindi va incontro ad un’ipertrofia eccentrica
(cioè dilatazione e ipertrofia). Se non si riesce a giungere ad
uno stato compensato, si ha una progressiva dilatazione del
ventricolo sinistro fino a che la dilatazione stessa raggiunge il
punto di scompenso. Il tempo necessario per giungere a questo
scompenso dipende dalle dimensioni del dotto e dalla quantità
del volume deviato attraverso lo shunt; alcuni cani possono
mostrare segni di insufficienza cardiaca congestizia sinistra nel
primo anno di vita, mentre altri arrivano a non sviluppare mai
alcun segno clinico.
Il dotto arterioso pervio può essere diagnosticato
quando si esamina un cane giovane che mostra intolleranza all’esercizio fisico associata a dispnea e tosse, oppure
può costituire un riscontro incidentale durante una valutazione clinica di routine. La diagnosi viene formulata principalmente sulla base di semplici metodi clinici, utilizzando le mani ed uno stetoscopio. Nella maggior parte dei
cani è possibile apprezzare con la palpazione sotto forma
di un fremito ed auscultare una forte turbolenza continua
sistolica e diastolica, che è essenzialmente patognomonica della condizione. Tuttavia, in molti cani il fremito può
essere estremamente localizzato sul lato sinistro del torace, dietro la scapola.
Quindi, se la palpazione e l’auscultazione vengono
eseguite soltanto a livello dell’apice o della base del cuore, il soffio può passare inosservato. Un altro riscontro
clinico tipico è il polso saltellante. Nel gatto, la componente diastolica del soffio può non essere udibile, il che
rende più difficile la diagnosi clinica.
Per la valutazione del grado di sovraccarico volumetrico e del rischio di insufficienza cardiaca incombente risultano utili altri test diagnostici aggiuntivi. Se si esegue
un ECG, l’anomalia predominante è il voltaggio elevato
(onde R alte) che può essere molto marcato. Ciononostante, è raro che un ECG aggiunga importanti informazioni, tranne che nei casi in cui con l’auscultazione si rileva un’aritmia. Al momento della diagnosi è talvolta presente una fibrillazione atriale, che nel contesto del dotto
arterioso pervio implica una marcata dilatazione dell’atrio sinistro.
Le radiografie del torace sono indicate in tutti i casi
per la valutazione delle dimensioni del cuore, del grado di
dilatazione dell’atrio sinistro, dei segni di congestione
delle vene polmonari o dell’edema polmonare. L’ecografia cardiaca è utile per quantificare il grado di ipertrofia
eccentrica del ventricolo sinistro, che può essere esorbitante, la contrattilità e le dimensioni dell’atrio sinistro.
L’esame Doppler a codice di colore è utile per la visualizzazione del dotto arterioso pervio e dell’insufficienza
mitralica secondaria al grave sovraccarico volumetrico.
L’esame Doppler ad onda pulsante e continua del cono arterioso dell’arteria polmonare risulta utile per dimostrare
il flusso laminare al di sotto della valvola polmonare e la
turbolenza continua al di sopra della stessa e per quantificare il gradiente pressorio dell’insufficienza della valvola
polmonare.
Prevalenza
La stenosi aortica sottovalvolare, la stenosi della valvola
polmonare, il difetto del setto interventricolare ed il dotto arterioso pervio (PDA) sono i quattro disordini congeniti più
comuni nel cane. Per ognuna di queste anomalie esistono determinate predisposizioni di razza; tuttavia, il PDA può essenzialmente colpire qualsiasi cane perché fra le razze colpite nei vari Paesi si riscontrano elevate differenze, dovute a
diversi pool genetici. Nel gatto, l’anomalia è molto rara.
182
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Trattamento
FIGURA 1 - Angiografia di un dotto arterioso pervio dopo iniezione di mezzo di
contrasto nell’aorta discendente; è evidente la deviazione (shunt) del sangue nell’arteria polmonare e si apprezza chiaramente il diametro minimo del dotto.
FIGURA 2 - Radiografia di un barbone di 6 mesi dopo embolizzazione mediante spirale di un dotto arterioso pervio, effettuata con 4 spirali staccabili.
Sono presenti una marcata cardiomegalia ed una dilatazione dell’atrio sinistro secondaria a sovraccarico volumetrico del ventricolo dello stesso lato.
Il trattamento d’elezione è rappresentato dall’occlusione
del dotto pervio. Anche se alcuni cani possono vivere parecchi anni senza alcuna occlusione, ad un certo punto ci si deve attendere la comparsa di un sovraccarico volumetrico
progressivo con insufficienza cardiaca congestizia. Quindi,
se è dimostrabile un grado rilevante di sovraccarico volumetrico, si raccomanda l’occlusione precoce. Esistono due opzioni chirurgiche di base, mediante legatura tramite toracotomia o occlusione per embolizzazione servendosi di cateteri periferici. Il grande vantaggio dell’occlusione con catetere è l’invasività minima, dal momento che non è necessaria
alcuna toracotomia, e, quindi, è possibile escludere il dolore
associato all’intervento e le potenziali complicazioni. Lo
svantaggio è dato dalla necessità di apparecchiature speciali, come il fluoroscopio e gli appositi cateteri.
Per la chiusura con catetere, si esegue dapprima un’angiografia per valutare esattamente la localizzazione del dotto, le sue dimensioni e la sua forma (Fig. 1). L’embolizzazione del dotto si ottiene introducendo speciali dispositivi al
suo interno, sia attraverso l’arteria femorale che attraverso la
vena femorale. A seconda delle dimensioni del dotto, si utilizzano spirali da embolizzazione staccabili (Fig. 2) o l’Amplatzer duct occluder® (Fig. 3). Anche l’impiego del catetere può essere associato alla comparsa di complicazioni, che
possono essere rappresentate da dislocazione di una spirale
o emolisi in caso di occlusione non completa. Entrambe queste complicazioni non sono state sinora associate ad alcuna
compromissione clinica. Le spirali dislocate verso i polmoni di solito vengono ignorate senza tentarne la rimozione.
Nei casi di emolisi persistente, si introducono delle spirali
aggiuntive per ottenere l’occlusione completa.
Entro pochi giorni da un’occlusione del dotto eseguita con
successo, si osserva una riduzione significativa del diametro diastolico del ventricolo sinistro, ma non di quello sistolico. Contemporaneamente, di solito si osserva una calo moderato della
frequenza cardiaca, probabilmente dovuto al valore elevato della gittata sistolica del ventricolo sinistro, che ora spinge completamente il sangue verso la periferia. Nei mesi successivi si riscontrano solo lievi modificazioni delle dimensioni del cuore,
che indicano un rimodellamento irreversibile del ventricolo sinistro secondariamente al sovraccarico volumetrico.
Bibliografia
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J Vet Intern Med 2001;15:222-228.
FIGURA 3 - Angiografia dopo chiusura di un dotto arterioso pervio mediante Amplatzer® duct occluder.
Indirizzo per la corrispondenza:
Tony Glaus, Dipl. ACVIM und ECVIM-CALeiter Abteilung für
Kardiologie, Klinik für Kleintiermedizin, Universität Zürich
Winterthurerstr. 260, CH-8057 Zürich
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Diagnosi e trattamento
delle malattie delle prime vie respiratorie nel gatto
Tony Glaus
Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera
Nella maggior parte dei pazienti con malattie respiratorie, non è difficile localizzare il problema al relativo apparato. Esistono numerose anomalie cliniche tipiche, quali starnuti, starnuti inversi, scolo nasale, rumori respiratori udibili,
tosse, dispnea e cianosi, che lasciano pochi dubbi sull’origine respiratoria del problema.
Il punto centrale per risolvere con successo un problema
dell’apparato respiratorio è la sua esatta localizzazione. Sono di importanza cruciale la raccolta di un’anamnesi approfondita e l’accurato esame clinico. La localizzazione alle
vie aeree superiori o a quelle profonde è la chiave per formulare una diagnosi differenziale logica e per compiere i
passi diagnostici più efficienti.
- Si devono effettuare delle radiografie? Se sì: della testa, del collo, del torace?
- Si deve ricorrere all’endoscopia? Se sì: del naso, del rinofaringe, della laringe o della trachea e dei bronchi?
- Sono necessari degli esami di laboratorio? Quali?
Alcuni dei segni chiave citati, come gli starnuti inversi ed
i forti rumori respiratori udibili, hanno la loro origine soltanto nelle vie aeree superiori. Altre manifestazioni, come lo
scolo nasale, la tosse, la dispnea e la cianosi, possono derivare sia dalle vie aeree superiori che da quelle profonde.
Lo starnuto è provocato semplicemente dall’irritazione
della mucosa nasale determinata da qualsiasi genere di stimolo fisico o chimico. Lo starnuto inverso è causato in modo simile da qualsiasi irritazione della mucosa del rinofaringe, che provoca uno spasmo della muscolatura faringea. L’animale produce un suono russante inspiratorio e mostra segni di dispnea. Lo starnuto inverso può essere provocato ed
aggravato dall’assunzione di cibo o dalla palpazione dell’area faringea.
Respirazione rumorosa udibile senza stetoscopio: il
flusso laminare dell’aria nelle vie aeree non è udibile. Lo diventa solo quando diviene turbolento. La velocità di flusso è
un parametro primario della turbolenza. La causa usuale dell’aumento della velocità e della turbolenza del flusso è il restringimento delle vie aeree, che può essere determinato da
proliferazione tissutale, accumulo di muco, corpi estranei o
spasmi. A seconda della localizzazione del restringimento, è
possibile udire un soffio da stenosi nasale o uno stertore (rumore russante, anche detto stridore rinofaringeo), o uno stridore laringeo. Lo scolo nasale può essere mono- o bilaterale e viene distinto in sieroso, mucoso, purulento o emorragico. Il riscontro monolaterale indica, ma non esclusivamente,
un problema nasale locale (ad es., tumori, corpi estranei, nel
gatto molto raramente l’aspergillosi).
La tosse è un altro meccanismo di difesa per eliminare le
sostanze estranee e si ha in seguito alla stimolazione dei recettori specifici situati fra laringe e bronchi.
La dispnea può essere dovuta fondamentalmente a problemi delle vie aeree superiori o inferiori, del cuore, del mediastino, del cavo pleurico, della muscolatura respiratoria
(compreso il diaframma), della cavità addominale o del
SNC, oppure ad un disturbo metabolico. La difficoltà respiratoria che origina dalle vie aeree superiori risulta particolarmente pronunciata durante l’inspirazione. Di regola, in
caso di grave dispnea derivante dalle vie aeree superiori deve essere presente una marcata stenosi e quindi la condizione deve essere accompagnata da forti (inspiratori) rumori respiratori (stridore o stertore).
Ulteriori test diagnostici a seconda
della localizzazione del problema
Dopo la localizzazione clinica nelle vie aeree superiori,
si deve prendere in considerazione la diagnosi differenziale,
seguita dai logici passi diagnostici.
Le indagini diagnostiche più importanti sono le radiografie (meglio, la tomografia computerizzata) del cranio e
l’esame endoscopico con prelievo di biopsie.
Sospetto nasale:
Di solito le radiografie vengono effettuate prima dell’endoscopia per evitare di interpretare erroneamente immagini
derivanti da lesioni endoscopiche iatrogene.
Sospetto rinofaringeo:
Le radiografie spesso non sono molto utili, per cui si ricorre all’endoscopia diretta in anestesia totale.
Sospetto laringeo:
La laringoscopia sotto sedazione è il modo più diretto
per formulare la diagnosi. Se esiste un sospetto di neoplasia (metastasi?) o di polmonite ab ingestis (ad es., secondaria a paralisi laringea), si può effettuare prima la
radiografia del torace.
Sospetto tracheale:
Radiografie; quando si sospetta un’ostruzione dinamica
(collasso tracheale): l’ideale è la fluoroscopia; in alternativa:
radiografie inspiratorie ed espiratorie; se le radiografie non
hanno valore diagnostico, endoscopia (tracheoscopia).
184
Varie:
A seconda dell’età e delle condizioni generali dell’animale, è possibile effettuare per prime le radiografie del torace, l’esame emocromocitometrico completo o il profilo
biochimico. Se sono presenti linfonodi ingrossati (infiammatori?, neoplastici?), è indicata l’aspirazione con ago sottile. L’esame citologico dei campioni prelevati con questa tecnica dalle strutture anormali è sempre indicato quando esista
qualsiasi sospetto di neoplasia. Ad esempio, se il dorso del
naso è deformato in caso di sospetta neoplasia nasale, spesso è possibile penetrare con un ago attraverso le strutture ossee litiche di questa regione.
Malattie nasali
I segni tipici delle affezioni nasali sono rappresentati da
starnuti, scolo nasale e rumore respiratorio da stenosi nasale.
Le malattie importanti delle vie e delle cavità del naso sono
le infezioni virali e le neoplasie. Rispetto al cane, le aspergillosi, i corpi estranei ed i parassiti nasali sono rari. Nei casi in
cui l’infezione virale è considerata improbabile, è indicata la
radiografia (meglio ancora la tomografia computerizzata)
della testa seguita da rinoscopia. Quest’ultima va eseguita
soltanto dopo la ripresa delle radiografie, per evitare di determinare artefatti radiografici dovuti ad una precedente indagine endoscopica. Per la rinoscopia è possibile utilizzare un
semplice otoscopio, un artroscopio rigido o un endoscopio
flessibile a fibre ottiche. Dal momento che le vie nasali sono
strette, l’esame con tutte le apparecchiature citate è limitato.
Servendosi di un otoscopio è possibile visualizzare il tratto
prossimale delle vie nasali per un’estensione di 0,5-1 cm.
Con un endoscopio rigido (artroscopio) la visualizzazione
può giungere fino a livello degli occhi. Con un endoscopio
flessibile (ureteroscopio) è possibile esaminare tutte le vie
nasali sino al rinofaringe. Si devono sempre prelevare dei
campioni bioptici per differenziare le lesioni infiammatorie
da quelle neoplastiche. Se si sospetta un’aspergillosi, bisogna
prelevare un campione da destinare alle colture micotiche; in
questi casi, effettuiamo anche di routine l’invio al laboratorio
di un campione di siero per i test sierologici specifici per l’aspergillosi. Il vantaggio di una semplice coltura batterica è discutibile, dal momento che nelle vie aeree superiori si trova
in condizioni normali una moltitudine di microrganismi.
Il trattamento delle affezioni nasali dipende dalla causa
sottostante. La terapia più efficace di una neoplasia (maligna) è la radiazione. I corpi estranei vengono rimossi con
delle pinzette. I rari casi di aspergillosi vengono trattati come nel cane mediante applicazioni locali di clotrimazolo ed
un ciclo di 6 settimane di itraconazolo per via orale (5-10
mg/kg/die).
Malattie rinofaringee
Le manifestazioni cliniche tipiche sono le difficoltà respiratorie con respirazione stertorosa, accessi di dispnea, starnuto
inverso, respirazione a bocca aperta e anomalie della deglutizione. Le comuni affezioni rinofaringee del gatto sono rappresentate da corpi estranei (cibo, vegetali), proliferazioni benigne
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(polipi), neoplasie maligne (soprattutto linfoma maligno). Meno comunemente si riscontrano la rinite linfoplasmocitaria cronica e la stenosi rinofaringea (NPS) acquisita.
Nell’indagine diagnostica delle affezioni rinofaringee di
solito non è necessario ricorrere alle radiografie. Ogni volta
che esista il sospetto di una malattia a carico di questi settori, la tecnica diagnostica d’elezione è rappresentata dall’esame endoscopico con uno strumento flessibile.
I corpi estranei rinofaringei sono facili da rimuovere.
Quando si asporta un polipo rinofaringeo, che di solito origina dall’orecchio medio, è importante rimuoverlo completamente. Una complicazione comune è la sindrome di Horner. Per diminuire il rischio di recidiva, si prescrive un trattamento con prednisolone (1 mg/kg/die per 2-3 settimane).
La stenosi rinofaringea viene trattata preferibilmente mediante dilatazione con palloncino utilizzando un catetere insufflabile da valvuloplastica. Questo tipo di approccio è caratterizzato da un’invasività minima e nella nostra esperienza risulta estremamente efficace. Per ridurre il rischio di stenosi recidivante, si prescrive anche in questo caso il prednisolone. Il trattamento d’elezione di un linfoma maligno nasale isolato è la radioterapia, che può essere combinata con
la chemioterapia.
Affezioni laringee
I segni clinici delle affezioni laringee sono la perdita o la
modificazione della voce, la respirazione a bocca aperta, le
difficoltà di deglutizione e la dispnea inspiratoria con stridore. Tuttavia, nel gatto le affezioni laringee “cattive” come i
tumori, gli ascessi o la paralisi sono rare.
Anche in questo caso, la migliore modalità diagnostica è
l’endoscopia. Per la valutazione della funzione laringea, l’anestesia deve essere il più possibile superficiale. La migliore visualizzazione si ottiene servendosi di un normale laringoscopio.
In presenza di una massa patologica, si può giungere alla diagnosi definitiva attraverso l’esame istologico di un campione
bioptico, perché un ascesso o un granuloma non può essere differenziato macroscopicamente da una neoplasia maligna.
Gli ascessi vengono trattati chirurgicamente e con antibiotici. La chirurgia della paralisi laringea deve essere effettuata unicamente da uno specialista. Per valutare la fattibilità
e l’utilità della radioterapia dei tumori maligni è necessario
richiedere la consulenza di un radioncologo. In tutte le malattie citate, può essere necessario praticare una tracheotomia transitoria.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Tony Glaus, Dipl. ACVIM und ECVIM-CA
Leiter Abteilung für Kardiologie
Klinik für Kleintiermedizin
Universität Zürich, Winterthurerstr. 260, CH-8057 Zürich
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Diagnosi, terapia e prognosi del versamento
pericardico
Tony Glaus
Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera
Eziologie/cause
Il versamento pericardico è la terza cardiopatia del cane
in ordine di frequenza e costituisce il 10% circa della totalità
delle malattie cardiovascolari. Le neoplasie ed il versamento pericardico idiopatico (IPE) sono le cause più importanti,
mentre l’insufficienza cardiaca congestizia, lo sdoppiamento atriale, il trauma, la pericardite batterica o micotica, l’uremia, le ernie peritoneopericardiche, le cisti intrapericardiche e l’ipoalbuminemia sono rare. La neoplasia più comune
è l’emangiosarcoma, che origina in genere dall’orecchietta
destra, seguita dai tumori della base del cuore. Neoplasie
meno comuni sono il carcinoma tiroideo ectopico, il linfoma
maligno e il mesotelioma. La diagnosi di neoplasia si fonda
sul riscontro ecocardiografico di una massa, tuttavia i tumori diffusi come il linfoma ed il mesotelioma non possono essere differenziati dal versamento pericardico idiopatico. La
diagnosi di quest’ultimo viene formulata per esclusione ed il
sospetto si ha quando si rileva l’accumulo di fluidi sieroematici o emorragici nel pericardio ed i metodi diagnostici di
routine non riescono a dimostrare alcuna causa sottostante
(assenza di masse rilevabili all’interno del pericardio mediante ecocardiografia, nessun segno di infiammazione suppurativa o neoplasia all’esame citologico del fluido pericardico, mancanza di qualsiasi cardiopatia rilevante ed assenza
di qualsiasi neoplasia polmonare o addominale [milza, fegato] che possa aver determinato metastasi cardiache).
[Nel gatto, il versamento pericardico è raro. La causa più
rilevante è rappresentata dalla peritonite infettiva felina
(FIP). Il versamento pericardico può anche complicare una
grave miocardiopatia ipertrofica.]
Il decorso clinico della malattia varia in funzione della
causa sottostante, persino all’interno della medesima categoria eziologica. Di regola, nei cani con emangiosarcoma la
prognosi è estremamente sfavorevole. Al contrario, i soggetti con tumore della base del cuore possono non sviluppare
alcun versamento o non mostrare segni clinici di tamponamento per mesi o anni. Nei casi di versamento pericardico
idiopatico, esiste un’ampia variazione del decorso; alcuni
cani possono essere guariti in seguito alla rimozione della
totalità del versamento pericardico con un’unica pericardiocentesi, mentre in altri casi il versamento può presentare ripetute recidive. Questa variazione può essere dovuta a differenti eziologie e/o a diverse risposte dell’ospite ad una causa scatenante. Al momento attuale, l’eziologia del versamento pericardico idiopatico nel cane non è nota; si ritiene
che intervengano meccanismi immunitari e, in un ridotto nu-
mero di cani, è stata identificata la presenza di virus. Nell’uomo, è stata essenzialmente stabilita un’associazione
eziologica fra differenti virus e meccanismi immunomediati. Infine, va sottolineato che ciò che sembra essere un versamento pericardico idiopatico in alcuni casi può in realtà
non esserlo, ma essere invece una neoplasia non rilevata, soprattutto un mesotelioma, che può presentare un decorso
progressivo lentissimo.
Approccio diagnostico
La diagnosi del versamento pericardico si fonda sui riscontri clinici, supportati dai quadri radiografici ed elettrocardiografici, e viene verificata mediante ecocardiografia.
I riscontri anamnestici tipici sono causati dall’insufficienza cardiaca anterograda che si manifesta con intolleranza all’esercizio fisico, debolezza e, talvolta, sincope ed insufficienza destra retrograda, che si presenta con ascite. Ulteriori riscontri all’esame clinico sono rappresentati da tachicardia, polso debole, toni cardiaci attutiti, vene giugulari
congeste ed eventualmente reflusso epatogiugulare. L’ascite
è tipicamente formata da un trasudato modificato caratterizzato da un basso numero di cellule e da livelli proteici > 25
g/l. Quando tutte queste anomalie sono presenti, è fortemente giustificato il sospetto diagnostico e le ulteriori indagini
vengono effettuate principalmente per raffinare la diagnosi.
I riscontri radiologici tipici sono rappresentati da cardiomegalia generalizzata, nessun segno di congestione delle vene polmonari e prominenza della vena cava caudale. I riscontri elettrocardiografici tipici comprendono tachicardia
sinusale, basso voltaggio ed alternanza elettrica. L’ecocardiografia, oltre ad essere il test più definitivo, risulta utile
nella ricerca di una causa sottostante, cioè nell’identificazione di un emangiosarcoma dell’orecchietta destra o di un tumore della base del cuore. Come già ricordato, il mesotelioma è impossibile da differenziare ecograficamente dalla pericardite. Inoltre, l’ecocardiografia è utile per guidare l’ago
durante la pericardiocentesi terapeutica.
Se ecocardiograficamente non è possibile identificare
alcuna massa, l’analisi del fluido pericardico può fornire
ulteriori informazioni sul processo patologico sottostante.
Citologicamente, è possibile diagnosticare rari casi di
linfoma o infiammazione batterica suppurativa. Con la
stessa metodica è possibile individuare anche il mesotelioma, tuttavia si possono avere risultati falsi negativi e falsi
positivi, per cui gli esiti devono essere interpretati con cau-
186
tela. L’analisi del pH del fluido pericardico è stata descritta come un metodo sensibile e specifico per differenziare le
neoplasie dalla pericardite idiopatica, ma questa affermazione potrebbe non essere confermata in altri studi e non è
di alcuna utilità nelle nostre mani.
Infine, in casi particolari, l’esame istologico del tessuto
pericardico risulta estremamente utile per la diagnosi definitiva e la scelta del miglior trattamento possibile. Ciò vale in
particolare per i casi con versamento ricorrente, in cui non si
riesce con altri mezzi ad identificare alcuna causa sottostante. Il tessuto da esaminare può essere prelevato mediante toracotomia di routine, “mini”-toracotomia o toracoscopia.
Trattamento
Il trattamento palliativo iniziale per qualsiasi caso di natura neoplastica o idiopatica consiste nella pericardiocentesi. Pur essendo utile, la guida ecografica non costituisce un
prerequisito indispensabile. Il monitoraggio ECG, invece, è
fortemente consigliato per rilevare l’insorgenza di aritmie iatrogene. I cani vengono posti in decubito laterale sinistro, e
si effettua la rasatura e successiva preparazione chirurgica
del lato destro del torace nella zona intorno al 4-5° spazio intercostale in corrispondenza della giunzione costocondrale.
L’ago si introduce nel punto in cui si riesce ad apprezzare
meglio il battito cardiaco. Servendosi di un deflussore e di
una valvola a tre vie, si rimuove tutto il versamento. Nei cani in condizioni critiche, la pericardiocentesi viene eseguita
senza sedazione, ma in anestesia locale. In quelli in condizioni stabili e in quelli di piccola taglia e particolarmente
nervosi, ricorriamo ad una lieve sedazione con buprenorfinaacepromazina IM per evitare movimenti improvvisi dell’animale durante la puntura e quindi per ridurre il rischio di lesione miocardica iatrogena.
L’entità del trattamento successivo dipende dalla causa
sottostante e dal decorso della malattia. Nei casi di versamento ricorrente è possibile intervenire mediante semplici
pericardiocentesi ripetute, pericardiotomia con palloncino,
minitoracotomia, toracoscopia e toracotomia esplorativa. Lo
scopo della pericardiotomia con palloncino è quello di determinare con metodi caratterizzati da un’invasività minima
la formazione di un grosso foro nel pericardio, in modo da
consentire il drenaggio permanente del versamento nello
spazio pleurico. Lo svantaggio di questa tecnica è che il foro si può richiudere spontaneamente. L’indicazione primaria
per questa procedura nel cane è la neoplasia maligna con
prognosi sfavorevole. Un passo più aggressivo è rappresentato dalla minitoracotomia. I vantaggi di questa procedura
sono la possibilità di realizzare una finestra più ampia nel
sacco pericardico e di ottenere un campione di tessuto da destinare all’analisi istologica, praticando soltanto una piccola
incisione toracica in confronto a quella di una normale toracotomia. Gli svantaggi sono la necessità di un’anestesia totale, l’aumento dell’invasività con i costi e le potenziali complicazioni che ciò comporta e la mancanza di un’esplorazione diagnostica. L’approccio più definitivo da un punto di vista diagnostico e terapeutico è rappresentato dalla toracotomia completa. Questa permette l’esplorazione totale della
cavità pleurica, la pericardectomia subtotale e l’esame isto-
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logico del tessuto. Gli svantaggi sono l’invasività ed i costi
per l’anestesia e l’intervento chirurgico, che possono rappresentare il fattore limitante in un cane anziano con una potenziale neoplasia. Un approccio completo simile, ma meno
invasivo, è dato dalla toracoscopia; tuttavia, solo pochi istituti accademici sono attrezzati per effettuare questo intervento, e i costi sono ugualmente elevati.
Nei casi di neoplasia, oltre alla pericardectomia palliativa si può utilizzare la chemioterapia adiuvante. La somministrazione sistemica di chemioterapici è indicata principalmente per i rari casi di linfoma maligno. Nei soggetti con
mesotelioma pericardico si può utilizzare la chemioterapia
sistemica con doxorubicina associata alla chemioterapia intracavitaria con cisplatino, tuttavia i risultati ottenuti sono
stati molto variabili. Nei casi caratterizzati dalla presenza di
una massa a livello dell’atrio/orecchietta di destra, che molto probabilmente sono rappresentati da un emangiosarcoma,
di solito non è giustificato il ricorso a sforzi eroici.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:
Tony Glaus, Dipl. ACVIM und ECVIM-CA
Leiter Abteilung für Kardiologie
Klinik für Kleintiermedizin
Universität Zürich
Winterthurerstr. 260
CH-8057 Zürich
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Patologie dell’articolazione temporomandibolare
del cane e del gatto
Margherita Gracis
Med Vet, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Milano
L’articolazione temporomandibolare (ATM) è una condilartrosi sinoviale, costituita dal processo condiloideo o articolare della mandibola e dalla fossa mandibolare o cavità glenoidea dell’osso temporale. La fossa mandibolare è delimitata caudalmente da un processo retroarticolare (o retroglenoideo) e cranialmente da un’eminenza articolare (rima articolare dorsale). Nei felini domestici la fossa mandibolare è molto
profonda, con il processo retroarticolare e l’eminenza articolare sottili ma ben sviluppati. Nel cane, l’eminenza articolare
è invece decisamente meno sviluppata. Un menisco, che aderisce circumferenzialmente alla capsula articolare, separa lo
spazio articolare in due compartimenti distinti. La porzione laterale della capsula è rinforzata dal legamento temporomandibolare laterale. Nel cane, il processo condiloideo è posto trasversalmente rispetto all’asse lungo di ogni emimandibola,
con la porzione mediale inclinata in senso ventrale. Durante
l’estensione mandibolare, la porzione laterale scivola ventralmente e rostralmente, ponendo in tensione il legamento laterale. Nel gatto, invece, l’asse di rotazione dei condili è comune ed è praticamente perpendicolare al piano mediano del cranio, per cui l’articolazione può essere vista come un vero e
proprio cardine, con movimenti laterali molto limitati o nulli.
L’apertura della cavità orale è dovuta all’azione del muscolo
digastrico e alla forza di gravità, mentre i muscoli temporale,
massetere e pterigoideo mediale sono responsabili dell’adduzione mandibolare, e quindi della chiusura della bocca. Il muscolo pterigoideo laterale è il principale responsabile dei lievi
movimenti mandibolari in lateralità. Nel cane, a differenza del
gatto, vi è una certa mobilità indipendente delle due emimandibole, grazie alla sinfisi mandibolare dotata di un tessuto fibrocartilagineo lungo il bordo dorsocraniale, e di legamenti
crociati fibrosi in sede ventrale.
Le patologie più comuni che interessano l’articolazione
temporomandibolare del cane e del gatto includono la displasia congenita, la dislocazione traumatica, le fratture ossee, e l’anchilosi. La diagnosi di patologia dell’ATM deve
essere basata sui reperti clinici e su quelli radiografici. Le
proiezioni radiografiche utili all’individuazione di lesioni articolari includono la proiezione ventro-dorsale o dorso-ventrale, le due laterali oblique, e la frontale a bocca aperta che
da alcuni autori viene consigliata solo nel caso in cui le prime tre proiezioni non siano sufficienti ad emettere una diagnosi certa. Le radiografie vanno sempre eseguite in anestesia generale poiché anche lievi errori di posizionamento possono rendere la lettura delle immagini estremamente difficile. Anche l’esame tomografico assiale costituisce un ausilio
diagnostico di sicura utilità.
La displasia è riconosciuta in particolare, ma non esclusivamente, nei cani di razza Basset Hound, Setter irlandese e
San Bernardo. Radiograficamente in questi soggetti si evidenzia la mancanza o più spesso un ispessimento del processo retroarticolare temporale, un appiattimento della rima
articolare dorsale e della fossa glenoidea, oltre che del processo condiloideo mandibolare, il cui asse risulta frequentemente deviato, e un aumento dello spazio articolare. La displasia articolare congenita non è sempre accompagnata da
una sintomatologia clinica, ma è tuttavia spesso causa di sublussazione mandibolare. Poiché infatti il processo condiloideo dei soggetti displasici è angolato maggiormente rispetto
all’asse lungo della mandibola, durante l’estensione mandibolare la sua porzione laterale si sposta in senso laterorostrale, con stiramento del legamento laterale e conseguente
lassità dei tessuti di contenimento dell’articolazione. Questa
maggior lassità articolare di un lato, accompagnata da una
certa mobilità della sinfisi, permette in alcuni soggetti la dislocazione del processo coronoideo controlaterale lateralmente all’arco zigomatico, causando la cosiddetta intermittent open-jaw locking syndrome (la sindrome da blocco della mandibola in posizione aperta). Questa patologia sembra
colpire raramente il gatto in quanto l’arco zigomatico in questa specie è molto arcuato e distante dal processo coronoideo, e vi è probabilmente una minor predisposizione alla displasia articolare. Tuttavia vi sono alcuni casi riportati in letteratura, prevalentemente di razza esotica. Tipicamente i
soggetti colpiti dislocano la mandibola lateralmente all’arco
zigomatico dopo estensione massima della mandibola, come
in seguito ad ampi sbadigli. Un certo grado di lassità articolare deve essere forzatamente bilaterale perché la dislocazione avvenga, ma se è unilaterale, sarà il processo coronoideo
controlaterale ad accavallarsi esternamente all’arco zigomatico. È frequente il caso di displasia bilaterale con jaw locking
recidivante solo da un lato. I segni e i sintomi clinici includono deviazione mandibolare verso il lato in cui avviene la
lussazione laterale del processo coronoideo, con rotazione
ventrale della mandibola interessata, lo sviluppo di una tumefazione laterale allo stesso arco zigomatico, incapacità a
chiudere la bocca, ptialismo, scialorrea, agitazione, e certa
dolorabilità alla palpazione. I cani colpiti a volte imparano a
riposizionare spontaneamente la mandibola spalancando ulteriormente la cavità orale e liberando il processo coronoideo dall’arco zigomatico, ma è spesso necessario un intervento sotto sedazione o anestesia da parte del veterinario.
Sono stati riportati anche alcuni casi in cani Boxer e Labrador in cui l’impossibilità a chiudere la bocca non era ac-
188
compagnata dalla dislocazione del processo coronoideo, ma
dalla sola sublussazione del processo articolare. È stato ipotizzato che nei soggetti colpiti da jaw locking recidivante in
assenza di displasia articolare si sviluppi una contrattura
anomala dei muscoli pterigoidei. Il trattamento della jaw
locking syndrome è prevalentemente di tipo chirurgico, mediante osteotomia parziale o totale dell’arco zigomatico,
osteotomia del processo coronoideo, o condilectomia. La riduzione manuale della lussazione e l’uso di una museruola
di cerotto per alcuni giorni può essere efficace in taluni casi.
Le fratture delle strutture articolari costituiscono l’1120% delle fratture mandibolari. Queste possono essere presenti come unica lesione o accompagnare altre lesioni mandibolari e/o mascellari, pertanto l’esecuzione di uno studio
radiografico completo del cranio nei soggetti traumatizzati è
sempre consigliabile. Le cause principali di frattura dell’ATM sono le cadute dall’alto e gli incidenti d’auto. Tipicamente, i segni clinici includono dolore e rumori di crepitio
alla manipolazione mandibolare, eccessiva mobilità, ecchimosi lateralmente agli archi glossofaringei, e malocclusione
con deviazione omolaterale della mandibola. Il trattamento
può essere chirurgico mediante fissazione intraossea con
cerchiaggi metallici (raramente possibile per le ridotte dimensioni anatomiche dei frammenti ossei), condilectomia, o
fissazione interarcata con l’uso di resine a ponte tra i canini
mascellari e mandibolari. Se si opta per un trattamento conservativo, che risulta spesso efficace, è necessario eseguire
controlli clinici e radiografici nei mesi successivi al trauma
per escludere lo sviluppo di anchilosi articolare.
La lussazione mandibolare di origine traumatica avviene
prevalentemente in senso dorsocraniale sia nel cane che nel
gatto. La dislocazione caudale della mandibola può avvenire solo in presenza della frattura del processo retroarticolare.
Nel caso di lussazione craniale unilaterale si evidenzierà malocclusione e deviazione mandibolare nel senso opposto rispetto al lato lussato (per es. deviazione destra in presenza di
una lussazione sinistra). La dislocazione del processo coronoideo in posizione retrobulbare determinerà una riduzione
nella retropulsione del globo oculare omolaterale. La lussazione caudale, molto più rara, determina una deviazione caudale della mandibola dello stesso lato. Le lussazioni bilaterali determinano un prognatismo o un brachignatismo mandibolare relativo. Le lesioni traumatiche dell’ATM sono accompagnate da ecchimosi della mucosa orale lateralmente
agli archi glossofaringei. Generalmente, la lussazione avvie-
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ne in concomitanza ad altre lesioni ossee che vanno ricercate mediante esame radiografico completo. Il trattamento prevede il reinserimento manuale del condilo nella cavità glenoidea mediante trazione rostrale della mandibola e pressione in senso ventrale del processo coronoideo. Una volta ridotta la lussazione, è consigliabile applicare una museruola
di cerotto per alcuni giorni. Se l’instabilità articolare non si
risolve, è possibile stabilizzare l’articolazione chirurgicamente mediante cerchiaggi transarticolari, flap muscolari o
altre tecniche. La condilectomia omolaterale è un’altra opzione terapeutica di estrema validità.
L’anchilosi può essere vera o falsa. Nel primo caso, è
causata da lesioni che coinvolgono le strutture intracapsulari, quali fratture, tumori, ferite penetranti e infezioni secondarie. Tipicamente l’anchilosi vera dell’ATM è conseguenza
di traumi articolari nel gatto ed estensione di un processo
osteomielitico a partenza dalla bolla timpanica nel cane.
L’anchilosi falsa è invece conseguenza di patologie extrarticolari che limitano i movimenti dell’articolazione, quali fratture dell’arco zigomatico e del processo coronoideo con formazione di un callo esuberante, e osteopatia craniomandibolare. In ambedue i casi, vi è un’incapacità o limitazione all’apertura della cavità orale, con conseguenti difficoltà di alimentazione. La ridotta mobilità mandibolare induce anche
un’atrofia da disuso dei muscoli masticatori. Spesso si sviluppa anche una malocclusione con dislocazione caudale
della mandibola. Radiograficamente, nel caso di anchilosi
vera si evidenzia un assottigliamento dello spazio articolare,
sclerosi ossea, e produzione di osteofiti. Il trattamento chirurgico richiede l’ostectomia di tutte le strutture ossee coinvolte. Tessuto connettivo fibroso occuperà il sito chirurgico
in breve tempo, e i muscoli della masticazione manterranno
la funzione mandibolare.
La bibliografia è a disposizione su richiesta
Indirizzo per la corrispondenza:
Margherita Gracis
Clinica Veterinaria Gran Sasso (Via Donatello, 26 - 20131 Milano)
Clinica Veterinaria Città di Monza
(Via Messa, 7, 20052 Monza, Milano)
Tel 338 1874498
E-mail: [email protected]
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Anestesia negli animali non convenzionali
Oscar Grazioli
Med Vet, Reggio Emilia
RELAZIONE NON DISPONIBILE IN QUANTO BASATA SU VIDEOFILMATI
Indirizzo per la corrispondenza:
Oscar Grazioli
e-mail: [email protected]
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Un caso di ciste della ghiandola della terza palpebra
(dacriops) in un cane
Adolfo Guandalini
Med Vet, Dipl ECVO, Roma
Anamnesi: Un cane di razza Dalmata, maschio, 9 mesi
fu inviato per la presenza di un “occhio destro rosso” ciclicamente manifesto da circa 1 mese. Il soggetto era stato trattato dal Veterinario curante con antibiotici ad uso topico per
circa 15 giorni senza ottenere miglioramento. Le condizioni
generali dell’animale erano buone. Non venivano riportati
eventi oculari traumatici o flogistici pregressi.
Esame clinico: Il soggetto evidenziava a carico dell’occhio destro (OD) lieve scolo sieroso, iperemia congiuntivale e lieve protrusione della terza palpebra. Il riflesso pupillare diretto ed indiretto erano presenti e normali bilateralmente; la reazione alla minaccia era presente in entrambe gli
occhi. Il test di Schirmer (STT), tonometria, biomicroscopia,
test della fluoresceina ed esame del fondo dell’occhio mediante oftalmoscopia indiretta erano normali bilateralmente.
Il lavaggio nasolacrimale era normale in entrambe gli occhi.
La retropulsione del globo era nella norma bilateralmente e
non si osservava alcuna resistenza all’apertura della bocca.
Alla palpazione del canto mediale attraverso la terza palpebra si percepiva il margine di una massa con superficie liscia
non dolente di consistenza duro-elastica. Con la estroflessione della terza palpebra mediante pinza atraumatica non
era possibile evidenziare la ghiandola superficiale.
esame ecografico si evidenziò una massa a contenuto liquido di 1.66 X 2.08 cm. di diametro. Fu effettuata una dacriocistorinografia per evidenziare possibili rapporti anatomici tra la massa e l’apparato escretore lacrimale. Tale esame radiografico con mezzo di contrasto diede risultati nei
limiti della norma.
Per mettere in luce le relazioni anatomiche con le strutture circostanti fu effettuata una TAC senza e con mezzo di
contrasto che evidenziò una struttura di natura cistica di 1.8
X 1.89 X 1.67 cm. a contenuto disomogeneo, posta rostro
- medialmente al globo oculare. La diagnosi presuntiva fu
di ciste (dacriops) della ghiandola superficiale della terza
palpebra.
Terapia: Il soggetto fu sottoposto a chirurgia per la rimozione della massa mediante accesso ventro-mediale attraverso la terza palpebra. La struttura fu perforata durante la chirurgia ma fu, comunque, asportata in toto e sottoposta ad
esame istologico. L’esame effettuato con colorazione con
ematossilina-eosina mostrò una struttura cistica con rivestimento epiteliale cilindrico ed una infiltrazione nello stroma
di neutrofili e macrofagi. La diagnosi presuntiva di dacriops
fu così confermata.
Aggiornamenti: Il giorno dopo la chirurgia il cane maDiagnosi differenziale: Data la posizione della massa evidenziata erano possibili neoformazioni a carico della
terza palpebra e della ghiandola superficiale: neoplasie
(melanoma, adenocarcinoma della ghiandola, carcinoma
squamocellulare, mastocitoma, papilloma, emangioma, angiocheratoma e linfosarcoma), episclerocheratite nodulare
granulomatosa (NGE), granuloma, fasciite nodulare, ciste
(dacriops); masse orbitali: ciste dermoide, ascesso, mucocele salivare zigomatico, neoplasie (meningioma, osteosarcoma, reticulum cell sarcoma, mastocitoma, fibrosarcoma,
neurofibrosarcoma, adenoma, adenoma lobulare, adenocarcinoma e tumori a componente mista connettivale ed epiteliale), prolasso del grasso orbitale; masse che possono originare da o coinvolgere l’apparato escretore lacrimale: dacriocistite, neoplasie dei turbinati nasali e dei seni mascellari, ciste (canaliculops).
Indagini diagnostiche: L’esame citologico dopo
aspirato con ago sottile mostrò la presenza di un contenuto
liquido sieromucoso-emorragico contenente emazie degenerate, macrofagi e granulociti neutrofili. Il materiale sottoposto ad esame colturale diede esito negativo. Mediante
nifestava un moderato scolo sieroso ed un lieve edema congiuntivale. Al controllo al giorno 15, l’edema tessutale era
del tutto risolto e la ferita chirurgica presentava del tessuto
di granulazione. Al controllo del giorno 30 la ferita chirurgica era del tutto guarita, la posizione del globo era normale e
non si notavano differenze oggettivabili tra i due occhi.
Discussione e conclusioni: Le lesioni cistiche della regione periorbitale sono dovute alla capacità di ghiandole e dotti presenti nell’area di subire modificazioni cistiche.
Queste strutture sono rappresentate, nel cane, dalla ghiandola lacrimale, ghiandola superficiale della terza palpebra,
ghiandola salivare zigomatica, epitelio congiuntivale, canalicolo, sacco e dotto nasolacrimale, mucosa dei seni frontali,
nasali o mascellari.
L’eziologia di queste cisti è legata a malformazioni congenite od a processi riparativi anormali in seguito ad eventi flogistici o traumatici. In questo caso clinico, l’anamnesi, l’età, le
caratteristiche cliniche, l’esame istologico erano compatibili
con un fenomeno congenito.
La localizzazione della ciste è stata descritta come l’indicatore clinico più importante del tessuto di origine.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
La ghiandola superficiale della terza palpebra era l’origine più probabile della ciste. Per ottenere una dimostrazione
più convincente dell’origine della ciste sarebbe stato necessario uno studio radiografico con mezzo di contrasto della
ciste. Tale studio non fu però effettuato perché l’aspirazione
iniziale collassò la porzione orbitale della ciste. Peraltro, dopo la rimozione della ciste fu possibile estroflettere la ghiandola superficiale della terza palpebra, a differenza della situazione clinica iniziale.
Sette casi di dacriops sono stati riportati precedentemente nella letteratura veterinaria e ciò evidenzia l’infrequenza
di queste lesioni.
Bibliografia
Gerding PA, 1991, Epiphora associated with canaliculops in a dog, JAAHA,
27, 424-426;
Grahn BH & Mason RA, 1995, Epiphora associated with dacryops in a dog,
JAAHA, 31, 15-19,
Grahn BH, 1999,Diseases and surgery of the canine nasolacrimal system.
In: Gelatt KN, ed.Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 569-581;
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Harvey CE et al., 1968, Orbital cyst with a conjunctival fistula in a dog,
JAVMA, 153, 1432-1435;
Latimer CA et al., 1983, Membrana nictitans gland cyst in a dog, JAVMA,
183, 1003-1005;
Martin CL et al., 1987, Cystic lesions of the periorbital region, Comp Cont
Educ Pract Vet, 9, 1022-1029;
Moore CP, 1999, Diseases and surgery of the lacrimal secretory system. In:
Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 583-607;
Playter RF & Adams LG, 1977, Lacrimal cyst (dacryops) in 2 dogs, JAVMA, 171, 736-737;
Spiess BM & Wallin-Hakanson N, 1999, Diseases of the canine orbit. In:
Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 511-533;
Ward DA, 1999, Diseases and surgery of the canine nictitating membrane.
In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 609-618.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Adolfo Guandalini
Ambulatorio Veterinario, Via Casetta Mattei 331 00148 Roma
Tel.: 06/7804062 Fax: 06/66155059 e-mail: [email protected]
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Un caso di melanoma epibulbare in un gatto
Adolfo Guandalini
Med vet, Dipl ECVO, Roma
Anamnesi: Gatto, maschio, castrato, 17 anni. Il proprietario riportava la recente presenza di una massa scura evoluta rapidamente sul globo destro medialmente e di un “occhio rosso” a sinistra.
Esame clinico: Alla visita generale il gatto appariva in
buone condizioni generali. Il PLR diretto ed indiretto erano
normali bilateralmente. La reazione alla minaccia era normale
in entrambe gli occhi così come la reazione alla luce intensa.
STT e test della fluoresceina erano normali. Con l’esame tonometrico per applanazione la IOP era di 13 mmHg nell’occhio destro e 23 mmHg nell’occhio sinistro. Mediante l’esame
biomicroscopico si evidenziava una massa leggermente rilevata di colore nero localizzata alla giunzione corneosclerale medio-dorsalmente nell’occhio destro; altresì la cornea, l’iride e
la lente bilateralmente erano normali. A carico dell’occhio sinistro si osservava l’iniezione dei vasi episclerali. All’esame
gonioscopico dell’occhio destro si notava una compressione
ma non l’invasione dell’angolo iridocorneale; nell’occhio sinistro l’angolo iridocorneale era normale. L’esame oftalmoscopico indiretto evidenziava un fondo normale bilateralmente.
Diagnosi differenziale: per l’occhio destro coloboma
sclerale, stafiloma sclerale, melanoma congiuntivale, melanoma limbare o epibulbare, estensione transclerale di melanomi
intraoculari, melanoma metastatico e corpo estraneo. Per l’occhio sinistro la diagnosi prevedeva la differenziazione tra glaucoma primario, secondario o congenito.
Diagnosi: Emocromo e profilo biochimico risultavano nella norma eccetto i valori della creatinina che risultavano ai limiti superiori della norma. Radiografia del torace, ecocardiografia ed ecografia addominale erano normali. Data l’età del
soggetto, la posizione e l’aspetto clinico della lesione la diagnosi presuntiva fu di melanoma limbare a carico dell’occhio
destro. Data l’assenza di altre manifestazioni cliniche nell’occhio sinistro (uveite, lussazione della lente, ifema, neoplasia
intraoculare) la diagnosi proposta fu di glaucoma primario.
Trattamento: Data la rapida evoluzione della massa e l’età
del soggetto fu deciso di effettuare un trattamento mediante fotocoagulazione con laser a diodi (30 spots, 1500 mw X 1000
msec) dopo rapida rimozione della porzione della massa rilevata sul piano del globo. La parte asportata fu inviata per l’esame
istologico. La terapia postoperatoria consisteva di desametazone
0.2% ad uso topico 3 volte al dì. L’occhio sinistro fu sottoposto
a terapia medica con timololo maleato allo 0.5% 2 volte al dì.
Aggiornamenti: Il giorno dopo l’intervento il gatto mostrava un moderato scolo sieroso, iperemia congiuntivale, lieve
edema corneale perilesionale ed una uveite anteriore di lieve en-
tità; la massa era contratta e piana sulla superficie del globo. La
IOP era di 8 mmHg. A 2 settimane dalla chirurgia si osservava
sul sito chirurgico una cicatrice scura e dispersione di pigmento nei tessuti trattati. La IOP a carico dell’occhio sinistro era di
18 mmHg.
Diagnosi: I risultati dell’esame istologico riportavano una
diagnosi di melanoma maligno, ben differenziato e non infiltrante a carico dell’occhio destro. Fu diagnosticato sulla base dei
rilievi clinici un glaucoma primario a carico dell’occhio sinistro.
Discussione e conclusioni: Il melanoma limbare è riportato infrequentemente nel gatto. Per lo più si tratta di neoplasie con comportamento biologico benigno in soggetti, in genere,
> gli 8 anni di età, benché di recente siano stati riportati gatti più
giovani affetti. Anche se il termine benigno viene usato per convenzione per queste neoplasie, una descrizione più accurata sarebbe quella di melanomi maligni con sviluppo di metastasi ritardate. Sono localizzati, in genere, nella porzione dorsale del
globo, come in questo caso. L’origine di queste neoplasie potrebbero essere i melanociti normalmente presenti al limbo. Il
soggetto qui riportato non manifestava il coinvolgimento di altri
organi ed apparati benché la neoplasia fosse descritta come istologicamente maligna. Considerando il lungo periodo di latenza
descritto in altri casi pubblicati, questo soggetto dovrebbe essere sottoposto ad esame fisico completo (soprattutto linfonodi,
milza e fegato), radiografia del torace ed ecografia addominale
ogni 3-6 mesi ad iniziare da 6 mesi dopo la diagnosi iniziale.
L’occhio sinistro fu diagnosticato affetto da glaucoma primario
per l’assenza di altre patologie oculari che potessero generare
una ostruzione secondaria dell’angolo iridocorneale.
Bibliografia
Betton A et al., 1999, Atypical limbal melanoma in a cat, J Vet Intern Med, 13,
379-381;
Day MJ & Lucke VM, 1995, Melanocytic neoplasia in the cat, J Small Anim
Pract, 36, 207-213;
Glaze MB & Gelatt KN, 1999, Feline ophthalmology. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology.3rd ed. Baltimore: Lippincott, Williams & Wilkins,
997-1052;
Harling et al., 1986, Feline limbal melanoma: four cases, JAAHA, 22, 795-802;
Martin CL, 1981, Canine epibulbar melanomas and their management, JAAHA,
17, 83-90;
Neumann W & Juchem R, 1988, Epibulbares Melanom bei ener katze (epibulbar
melanoma in a cat), Tierarztl Prax, 16, 65-68;
Sullivan et al., 1996, Photocoagulation of limbal melanoma in dogs and cats:15
cases(1989-1993), JAVMA, 208, 891.894;
Whitley RD & Gilger BC, 1999, Diseases of the canine cornea and sclera. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott, Williams & Wilkins,635-673.
Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Adolfo Guandalini
Ambulatorio Veterinario, Via Casetta Mattei 331 00148 Roma
Tel.: 06/7804062 Fax: 06/66155059 e-mail: [email protected]
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Efficacia clinica di Enrofloxacin negli uccelli e nei rettili
Claudia Hochleithner
Dr Med Vet, Vienna, Austria
Manfred Hochleithner, Dr Med Vet, Dipl ECAMS, Vienna, Austria
Il numero degli animali esotici è in continuo aumento in
medicina veterinaria, così come la qualità delle procedure
diagnostiche utilizzate in queste specie, come gli esami ematochimici, le radiografie, le ecografie e l’endoscopia. Tuttavia, i veterinari che si dedicano a questi animali devono ancora affrontare principalmente gli stadi finali delle malattie,
specialmente negli uccelli ed ancor più nei rettili. Questi casi devono essere trattati come emergenze, anche se sono essenzialmente problemi cronici. Di conseguenza, la diagnosi
e la terapia devono essere quanto più possibile rapide per
avere una buona probabilità di non perdere il paziente.
La proliferazione batterica è uno dei problemi principali
in questi stadi della malattia. La malnutrizione, le scadenti
condizioni dei ricoveri e le cattive condizioni ambientali sono la causa primaria delle diverse patologie, ma vari batteri
peggiorano la situazione e quindi devono essere opportunamente trattati.
Da un punto di vista scientifico, si raccomanda il ricorso
alle colture microbiologiche con identificazione degli agenti patogeni presenti e antibiogrammi, tuttavia, di solito nella
medicina degli animali esotici non c’è il tempo di inviare dei
campioni ad un laboratorio ed aspettare i risultati per avviare la terapia. Quindi, l’esecuzione di indagini colturali a livello ambulatoriale non è solo una pratica economicamente
conveniente, ma in molti casi anche una procedura in grado
di salvare la vita del paziente. Specialmente negli uccelli,
tutto ciò risulta facilmente attuabile, dal momento che fisiologicamente questi animali presentano solo pochissimi batteri Gram-positivi nella flora normale dei tamponi delle coane e della cloaca. Pertanto, qualsiasi crescita abbondante su
agar sangue e/o qualsiasi crescita su agar MacKonkey può
essere interpretata come “non normale”.
Negli anni, sono stati identificati moltissimi ceppi batterici resistenti negli uccelli e, ancor più, nei rettili. Fra i numerosi e differenti batteri, quelli di primario interesse clinico sono E. coli negli uccelli e Pseudomonas aeruginosa nei
rettili. Non esiste un “farmaco buono per tutte le terapie antimicrobiche”, per cui gli autori nei casi più gravi ricorrono
all’esecuzione di antibiogrammi ambulatoriali anche senza
l’esito di esami colturali precedenti. Ciò consente di ottenere risultati entro 12 ore.
Antibiotici utilizzati negli uccelli e nei rettili:
Farmaco
Dosaggio negli uccelli
Dosaggio nei rettili
Amikacina
10-15 mg/kg im, iv, sc BID o TID
5 mg/kg iniziali, poi 2,5 g/kg im ogni 72 ore
Cefalessina
35-50 mg/kg QID po
20-40 mg/kg po BID
Cloramfenicolo
50 mg/kg TID im
50 mg/kg po ogni 24ore
Clindamicina
100 mg/kg SID po
5 mg/kg po ogni 24h
Doxicillina
100 mg/kg ogni 5-7 giorni
10 mg/kg ogni 5-7 giorni
Enrofloxacin
5-15 mg/kg im, po SID o BID
5-10 mg/kg im, po ogni 24 ore, tranne che nei serpenti ogni 48 ore
Metronidazolo
10-30 mg/kg po BID
150 mg/kg po settimanalmente
Trimethoprim/Sulfadiazina
16-24 mg/kg po, BID o TID
30 mg/kg im ogni 48h
Normalmente, i clienti portano alla visita i loro animali
perché presentano differenti manifestazioni di inappetenza,
dispnea, diarrea, talvolta scolo nasale o orale. Tuttavia, la
causa di questi segni clinici non è sempre necessariamente
un’infezione batterica - per giungere alla diagnosi corretta è
necessario effettuare una chiara differenziazione seguita da
ulteriori procedure diagnostiche. E in alcuni casi ciò va effettuato entro 1-2 giorni, talvolta anche entro poche ore.
La maggior parte dei farmaci antimicrobici utilizzati in
medicina veterinaria e umana possono trovare impiego an-
che negli animali esotici. Sono agenti di questo tipo l’enrofloxacin, la doxiciclina e la cefalessina.
Indirizzo per la corrispondenza:
Claudia Hochleithner
TIERKLINIK STREBERSDORF
Mühlweg 5
1210 Vienna
AUSTRIA
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Come interpretare le radiografie del torace
Barbara Kaser-Hotz
Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera
La radiografia toracica è parte integrante di molte procedure di indagine diagnostica. Tuttavia, si tratta di una regione difficile da interpretare radiograficamente. Il presente lavoro è finalizzato a fornire alcune linee guida per questa interpretazione.
Tecnica
Le radiografie toraciche vanno ottenute preferibilmente
durante la completa inspirazione. Si utilizza una tecnica con
valori elevati di kV e bassi di mAs. Ciò è in contrasto con la
ripresa delle immagine radiografiche a livello addominale,
dove si sceglie il prodotto con il più basso valore di mAs.
Nel torace, esiste un elevato contrasto naturale, dato dall’aria all’interno dei polmoni. Se si utilizzassero alti valori di
mAs, le costole si sovrapporrebbero completamente ai polmoni e questi ultimi si presenterebbero con una trama interstiziale. Inoltre, le radiografie toraciche sono suscettibili agli
artefatti da movimento e questa è un’altra ragione per mantenere bassi i valori di mAs. Una proiezione non è sufficiente. È necessario effettuare di routine almeno una ripresa laterolaterale sinistra ed una destra. Per la valutazione del cuore, spesso si ottengono due immagini, una in proiezione dorsoventrale ed una laterolaterale.
È importante ricordare che, a differenza di quanto avviene in altre regioni dell’organismo, le lesioni dei campi polmonari superiori risultano più facili da visualizzare. Ad
esempio, una metastasi polmonare circondata da aria si osserva nella parte superiore dei polmoni; se il medesimo lobo
polmonare fosse in posizione declive risulterebbe meno pieno di aria e una massa di piccole dimensioni non verrebbe rilevata a causa del minor contrasto.
Interpretazione radiografica
Quando si inizia a leggere una radiografia toracica, è preferibile seguire un approccio sistematico. Non ha importanza se tale approccio si attiene ad un disegno anatomico o è
maggiormente geometrico. Tuttavia, è preferibile adottare
sempre lo stesso approccio per l’interpretazione delle radiografie toraciche. Una possibilità è quella di effettuare la lettura dall’esterno verso l’interno ed iniziare dalla parete toracica, dall’ingresso del torace e dal diaframma e procedere
verso il cuore e la vascolarizzazione polmonare per iniziare
infine con l’interpretazione del parenchima polmonare.
Parete toracica/diaframma
La parete toracica può simulare lesioni localizzate all’interno del polmone. Di conseguenza, è importante effettuare la ripresa di due proiezioni ortogonali. I pazienti traumatizzati possono essere portati alla visita con fratture costali, enfisema, tumefazioni di tessuti molli ed ernie di organi endoaddominali. Esistono lesioni primarie che originano all’interno della parete toracica, come i tumori, gli
ascessi o i granulomi. La neoplasia più frequentemente osservata fra quelle che originano dalla parete toracica è il
condrosarcoma.
Il diaframma viene esaminato per valutarne la continuità.
Possono essere presenti ernie traumatiche e congenite. Si
considera anche la posizione del diaframma, verificando se
entrambi i pilastri siano allo stesso livello o se uno sia più
avanzato dell’altro, a causa di un danno nervoso o di una lesione intratoracica o endoaddominale.
Versamento pleurico
Anatomia normale
Un’importante condizione preventiva per la corretta interpretazione è la conoscenza dell’aspetto normale delle
strutture toraciche e delle relative variazioni. Il grasso nel
mediastino di un cane brachicefalo non va confuso con una
massa, così come il grasso sotto il cuore non deve essere interpretato come un fluido. Un altro trabocchetto è dato dalle
giunzioni costocondrali di alcuni cani, che simulano un versamento pleurico. Spesso, le pliche cutanee causano la comparsa di strane linee che attraversano il torace. Tali linee di
solito si estendono oltre i campi polmonari e non sono segno
di uno pneumotorace.
Nel ridotto spazio esistente fra pleura polmonare e pleura parietale, detto spazio pleurico, si ha un accumulo di liquido. Il torace presenta due sacchi pleurici, uno a sinistra e
l’altro a destra. Questi due sacchi comunicano fra loro reciprocamente. La pleura normale non è visibile nelle radiografie. Solo quando il fascio di raggi è diretto ortogonalmente ad essa si disegna una linea sottile. Ciò si verifica talvolta nelle radiografie in proiezione laterolaterale, dove può
divenire evidente la linea di fessura fra il lobo polmonare
medio e quello caudale. Nei cani anziani, all’interno della
pleura è presente una maggior quantità di tessuto fibroso, per
cui la sierosa risulta ispessita. L’aumento di spessore della
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pleura è difficile da differenziare da un versamento pleurico
di lieve entità. Per poter essere visibile in una radiografia, in
un cane di piccola taglia o un gatto devono essere presenti
circa 50 ml di fluido, che diventano circa 100 ml in un cane
di grossa taglia. Il fluido può essere rappresentato da un trasudato, un essudato, chilo o sangue. Radiograficamente, è
impossibile differenziare l’uno dall’altro. Quando i fluidi si
accumulano in una sede, monolateralmente, è probabile che
la causa di questa raccolta si trovi all’interno del polmone o
della parete toracica.
L’accumulo bilaterale di fluidi è spesso secondario ad
una massa mediastinica, una malattia sistemica (ipoproteinemia) o un problema di origine cardiaca.
I segni radiografici del versamento pleurico sono rappresentati da allargamento delle linee di fessura pleuriche, ampliamento delle incisure pleuriche, arrotondamento dei lobi
polmonari, segno della silhouette cardiaca e/o diaframmatica, collasso secondario di un lobo polmonare. Per rilevare la
presenza di piccole quantità di fluidi, la proiezione dorsoventrale è meno sensibile, perché il versamento si accumula
intorno al cuore. Al contrario, nelle immagini ventrodorsali,
piccole quantità di fluidi si localizzano negli spazi interlobari e, dal momento che il fluido fa contrasto con i polmoni
pieni d’aria, risultano facilmente rilevabili. Normalmente, il
liquido pleurico appare uniformemente distribuito fra l’emitorace sinistro e destro, poiché il mediastino non costituisce
una barriera. In presenza di aderenze, dovute ad essudati infiammatori o invasione neoplastica, l’accumulo di fluidi può
avvenire più localmente. La presenza di liquido pleurico può
essere simulata da ernie e masse, soprattutto mediastiniche.
Pneumotorace
Si definisce come pneumotorace l’accumulo di aria libera nello spazio pleurico. Quest’aria può derivare da una rottura della struttura polmonare, dal mediastino o direttamente da una ferita penetrante della parete toracica.
I segni radiografici dello pneumotorace sono rappresentati da linee e zone radiotrasparenti fra il polmone e la parete toracica. Il cuore si presenta sollevato dallo sterno. In
realtà, si sposta verso una porzione più declive del torace. In
presenza di un’apertura della parete toracica, l’aria si accumula fino a che la pressione intrapleurica non corrisponde a
quella atmosferica. Secondariamente allo pneumotorace, il
polmone collassa.
Parenchima polmonare
La trama radiografica del polmone serve ad identificare
e classificare le lesioni dell’organo. Tuttavia, il riscontro di
una specifica trama polmonare non consente di formulare
una precisa diagnosi istologica. Tipicamente, si osserva un
disegno alveolare nella polmonite ab ingestis. Il parenchima
polmonare risulta pieno di fluidi e i soli spazi contenenti aria
sono i bronchi. Pertanto, compaiono le broncografie gassose. La polmonite ab ingestis è localizzata più comunemente
195
nelle porzioni ventrali del polmone, interessando con maggiore frequenza il lobo medio e la porzione caudale del lobo
craniale di sinistra. Anche emorragie, edema e contusioni
possono causare le broncografie gassose. L’edema polmonare secondario a insufficienza cardiaca sinistra risulta localizzato a livello dell’ilo e dei campi polmonari caudodorsali.
Dapprima si osserva una trama vascolare, con un progressivo riempimento delle vene polmonari, e poi una trama interstiziale ed infine, quando la pressione all’interno della vascolarizzazione polmonare diviene troppo elevata, l’edema
determina la comparsa di una trama alveolare. Una trama interstiziale si osserva nelle “alterazioni del cane vecchio”,
nelle polmoniti virali o nelle infiltrazioni da linfoma. La trama interstiziale è molto aspecifica. Le metastasi neoplastiche nella maggior parte dei casi si presentano sotto forma di
molteplici noduli tondeggianti, piccoli o grandi. Si possono
riscontrare anche dei tumori polmonari primari, nel qual caso viene visualizzata solo una massa isolata.
Alterazioni vascolari
Il cuore e la vascolarizzazione polmonare vengono esaminati per valutarne dimensioni, forma e localizzazione. Vene e arterie polmonari devono avere le stesse dimensioni.
Nella proiezione ventrodorsale, i vasi devono essere più piccoli della corrispondente 9a costola. Nelle radiografie in
proiezione laterolaterale si può utilizzare come riferimento
dimensionale la 4a costola. In presenza di sovraccarico volumetrico, quale si osserva nello shunt sinistra-destra, si rileva
un’ipervascolarizzazione arteriosa. L’aumento di dimensioni
delle vene si ha nell’insufficienza cardiaca sinistra. L’alterazione cardiaca osservata più comunemente è l’ingrossamento dell’atrio sinistro, che provoca una dislocazione dorsale
dei bronchi principali a livello della biforcazione della trachea. La miocardiopatia nel cane può causare un aumento di
dimensioni del cuore con insufficienza cardiaca secondaria
sinistra e destra. L’ingrossamento cardiaco destro determina
un aumento del contatto con lo sterno ed un arrotondamento
del cinto cardiaco craniale. Il versamento pericardico rende
il cuore ingrossato e globoide.
Mediastino
Esistono diverse anomalie che originano all’interno del
mediastino. A livello dell’esofago, che è una tipica struttura mediastinica, si possono riscontrare corpi estranei, ingrossamento e riempimento di liquidi o masse intraparietali. Possono anche essere presenti ernie paraesofagee o
gastroesofagee. Si possono effettuare indagini contrastografiche con bario o composti iodati per classificare ulteriormente una lesione.
Le neoplasie possono essere presenti in particolare nel
mediastino craniale, dove si possono sviluppare linfomi o
timomi. Quando vengono delineati i vasi mediastinici, come il tronco brachiocefalico o la vena cava, è presente uno
pneumomediastino.
196
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Ecografia del tratto gastroenterico
Barbara Kaser-Hotz
Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera
Per lungo tempo, l’esame ecografico del tratto gastroenterico è stato ritenuto impossibile per la presenza di gas nell’intestino. Tuttavia, oggi questa è una procedura d’indagine
ben consolidata, che presenta molti vantaggi rispetto alla radiografia convenzionale.
Tecnica d’esame
Gli animali vengono disposti preferibilmente in posizione laterale. Il gas si accumula nella porzione non declive dell’addome e quindi, applicando il trasduttore su quella situata più in basso ed effettuando la scansione a partire da questa direzione, si riesce ad evitare le interferenze e gli artefatti causati dal gas intestinale. L’animale può anche essere
ruotato per trovare il miglior accesso per la scansione. Si
raccomanda che il cane o il gatto siano a digiuno, ma in molte situazioni ciò non è possibile e l’animale deve essere esaminato ugualmente. È stata descritta la somministrazione di
fluidi attraverso una sonda gastrica, ma sembra che spesso
questa procedura richieda molto tempo e sia stressante.
Riassumendo, il tratto gastroenterico può essere esaminato
ecograficamente senza alcuna preparazione.
È importante seguire una procedura di esame standard.
Lo stomaco può sempre essere identificato. Non tutte le regioni possono essere visualizzate con la medesima facilità,
ma il corpo e l’antro del piloro di solito risultano accessibili. Si esegue una visualizzazione sia longitudinale che trasversale. Successivamente è possibile identificare il duodeno
e seguirlo caudalmente fino alla curvatura inferiore. Le singole anse del digiuno possono venire esaminate, ma risulta
impossibile determinarne l’esatta visualizzazione. Ileo e cieco sono visibili ed anche il colon può essere evidenziato,
specialmente quando si utilizza la vescica urinaria come finestra acustica.
Anatomia
La parete gastroenterica è caratterizzata da una tipica
struttura parietale con un’alternanza di strati ipo- ed iperecogeni. Gli strati cosiddetti “m” sono ipoecogeni e risultano
costituiti dalla mucosa e dalla muscolare, mentre gli strati
“s”, rappresentati da sierosa e sottomucosa, sono iperecogeni. La superficie della mucosa si presenta iperecogena per
l’accumulo di gas all’interno delle pieghe della mucosa stessa. Se questa stratificazione va perduta, si può presumere la
presenza di un processo patologico. Lo spessore della parete varia da 2 a 3 mm nel colon sino a 5 mm a livello dello
stomaco. Il tratto gastroenterico viene osservato per valutarne la motilità. Lo stomaco si contrae circa 5 volte al minuto,
il tenue 3 volte e nel colon non si osservano contrazioni.
Normalmente è presente una piccola quantità di gas e fluidi,
misti ad ingesta.
Un notevole vantaggio dell’ecografia gastroenterica è la
possibilità di esaminare nel corso dello stesso esame i linfonodi mesenterici. Questi si presentano come strutture allungate ipoecogene.
Indicazione
La prima tecnica di diagnostica utilizzata è ancora l’esame radiografico senza mezzo di contrasto. Questa metodica
fornisce un’eccellente valutazione complessiva e può indicare in quali regioni del tratto gastroenterico si deve sospettare la presenza di una patologia. Inoltre, è possibile rilevare i
corpi estranei radiopachi ed identificare una posizione anormale o una dilatazione dell’intestino. L’ecografia viene impiegata in presenza di segni clinici acuti di vomito, specialmente quando le radiografie senza mezzo di contrasto risultano inconcludenti. L’esame ecografico può essere effettuato prima di iniziare una procedura con mezzo di contrasto.
Un’altra indicazione è la presenza nelle radiografie in bianco di anomalie quali masse non chiaramente identificabili,
dilatazioni e quadri gassosi anomali. Negli animali con vomito o diarrea cronici le radiografie possono apparire normali e l’ecografia può servire a valutare ulteriormente la parete del tratto gastroenterico.
Riscontri ecografici anormali
L’ispessimento della parete gastroenterica è un riscontro anomalo che si osserva in presenza di infiammazione o
infiltrazione neoplastica. Il linfosarcoma, specialmente nel
gatto, provoca un ispessimento parietale focale o diffuso con
perdita della tipica stratificazione. Anche altri tumori, come
il leiomiosarcoma o il carcinoma, causano un aumento di
spessore della parete. Sulla base dell’ecografia, è impossibile differenziare esattamente il tipo di tumore. È però possibile prelevare senza rischi un campione per aspirazione con
ago sottile da una parete abnormemente spessa. Frequentemente, nelle malattie neoplastiche sono anormali anche i
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linfonodi adiacenti. Non tutti gli ispessimenti parietali sono
da attribuire ad un processo tumorale. Anche l’infiltrazione
infiammatoria eosinofilica può causare un aumento di spessore della parete, che può essere molto pronunciato. Tuttavia, nella maggior parte dei casi la stratificazione della parete è intatta. In seguito a lacerazioni, corpi estranei o infezioni virali o batteriche del tratto gastroenterico, si può anche
riscontrare una parete ispessita ed edematosa.
La perdita di stratificazione della parete, come già indicato, è un altro tipo di riscontro identificabile ecograficamente. Si tratta di un notevole vantaggio rispetto alle
tradizionali procedure con mezzo di contrasto, che consentono solo una valutazione molto limitata della parete
gastroenterica.
Il tratto digerente può essere abnormemente dilatato e
colmo di fluidi. Questo quadro si osserva in presenza di ileo
paralitico o meccanico. Un approccio per definire le cause
della dilatazione delle anse intestinali prevede di seguire il
decorso dell’intestino partendo dal duodeno e procedendo in
direzione distale. Se le anse intestinali sono normali, la causa è più probabilmente rappresentata da un’ostruzione meccanica e seguendo il viscere dilatato spesso è possibile trovare il corpo estraneo o la massa responsabili. Fortunatamente, la maggior parte dei corpi estranei determina la comparsa di un’ombra acustica. Rientrano in questa categoria i
materiali come la plastica, la gomma, le pannocchie, il legno, ecc… L’identificazione dei corpi estranei lineari è più
difficile, dal momento che non sempre si osserva la dilatazione dell’intestino. In questi casi, è più tipica la formazione di pliche del viscere. Il tratto digerente si presenta vuoto.
Un quadro ecografico classico è anche presente nelle
intussuscezioni. Invece di una stratificazione parietale, si
osservano molteplici strati. A seconda della durata dell’ostruzione, si possono rilevare anche anse intestinali piene
di liquido.
Le più recenti tecniche Doppler esaminano l’apporto
ematico della parete gastroenterica prima e durante l’assun-
197
zione dei pasti e permettono di identificare una notevole variazione del flusso ematico a seconda del tipo e della quantità di cibo assunta.
Pancreas
Quando si effettua l’esame del tratto gastroenterico, è
preferibile comprendere anche il pancreas nella valutazione.
Il lobo destro dell’organo si può trovare dorsomedialmente
al duodeno, mentre il corpo ed il lobo sinistro sono localizzati caudalmente alla curvatura dello stomaco. Il pancreas
normale è leggermente ipoecogeno in confronto al mesentere circostante. La pancreatite può causare un calo focale o
diffuso dell’ecogenicità. Spesso, è presente una piccola
quantità di liquidi. Il dotto biliare può essere dilatato e la papilla può apparire ispessita. Le lesioni pancreatite più croniche sono maggiormente difficili da trovare. La struttura ecogena può essere immutata o leggermente iperecogena. Gli
ascessi pancreatici sono rari, come le cisti. Gli adenocarcinomi dell’organo possono avere un aspetto simile. Gli insulinomi sono tipicamente rappresentati da piccole lesioni tondeggianti ed ipoecogene all’interno del parenchima del pancreas.
Le tecniche Doppler possono contribuire a differenziare
le tecniche neoplastiche da quelle infiammatorie ed a rilevare la pancreatiche cronica.
Conclusione
L’ecografia del tratto gastroenterico è un mezzo di diagnostica per immagini elegante e non invasivo. La maggiore
controindicazione è il fatto di dipendere dall’abilità dell’operatore. Tuttavia, con una certa pratica e ripetuti esami, la
tecnica può essere impiegata di routine nell’esercizio della
professione.
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Diagnostica per immagini in oncologia
Barbara Kaser-Hotz
Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera
La diagnostica per immagini svolge un ruolo cruciale in
oncologia. In primo luogo, nell’indagine diagnostica per definire l’estensione locale e regionale di un tumore ai fini della stadiazione, in secondo luogo per la pianificazione del
trattamento ed in terzo luogo per il monitoraggio della risposta terapeutica.
La radiografia classica è ancora ampiamente utilizzata
per una prima valutazione del paziente neoplastico. In questi soggetti, le radiografie del torace vengono eseguite di
routine. Si tratta dell’esame, più semplice, più rapido e più
importante effettuato fondamentalmente in tutti i pazienti
neoplastici. Prima di attuare un intervento chirurgico aggressivo, un trattamento chemioterapico, una radioterapia o
un’associazione di queste metodiche, è necessario escludere la presenza di metastasi polmonari. Ciò non significa che
un animale non possa essere trattato se si riscontrano delle
metastasi nelle radiografie, ma dal momento che la prognosi è di solito meno favorevole quando un tumore è diventato sistemico, il proprietario può optare per una scelta meno
aggressiva o per nessun trattamento. Le radiografie del torace vanno riprese preferibilmente con una tecnica con elevati valori di kV e bassi valori di mAs e durante la completa inspirazione. È fondamentale disporre per l’interpretazione di due proiezioni. Si suggerisce la ripresa delle radiografie toraciche laterolaterali destra e sinistra o di una proiezione laterolaterale ed una dorsoventrale e ventrodorsale. In
presenza di una lesione dubbia, si può ricorrere ad una serie
di tre differenti radiografie. Se non è ancora chiaro se siano
presenti o meno delle metastasi, si può effettuare una tomografia computerizzata o, nel caso in cui questa non fosse disponibile, un esame radiografico di follow-up a distanza di
due settimane. Tuttavia, con questo tipo di approccio è necessario essere consapevoli che il tumore primario può continuare a crescere e che l’approccio terapeutico può cambiare. Le metastasi polmonari sono di solito rappresentate
da noduli interstiziali sferici di varie dimensioni. Quelle di
origine sarcomatosa spesso risultano meglio definite rispetto a quelle derivanti dai carcinomi. Questi ultimi tendono ad
infiltrare lo spazio alveolare e, quindi, può essere presente
una trama a chiazze. Questo è ad esempio il caso del carcinoma mammario. Si solito è possibile rilevare più di un nodulo, ma anche il riscontro di uno solo di essi può indicare
una metastasi. Il tumore polmonare primario è meno comune di quello metastatico. I segni radiografici possono anche
essere rappresentati da una massa isolata, ma molto spesso,
in particolare nel gatto, risulta coinvolto un intero lobo polmonare. Nel linfosarcoma si osserva una marcata trama interstiziale o finemente nodulare. Spesso sono anche ingros-
sati i linfonodi tracheobronchiali e quelli mediastinici e
sternali. Un altro tipo di tumore diagnosticato frequentemente è l’istiocitosi maligna. Queste neoplasie determinano
la formazione di grandi masse lobari, con o senza coinvolgimento linfonodale.
Occorre sempre tenere in mente che una diagnosi radiografica di metastasi non è una diagnosi istopatologica. Fortunatamente, in Europa non esistono molte diagnosi differenziali per una trama polmonare nodulare diffusa, perché le
affezioni micotiche che si osservano negli Stati Uniti non
esistono. Tuttavia, è necessario tenere in considerazione le
malattie polmonari da infiltrazione eosinofilica o granulomatose dovute a parassiti. Per differenziare ulteriormente
queste condizioni è possibile ricorrere all’esame di un campione aspirato con ago sottile da un nodulo superficiale.
La radiografia è anche il principale mezzo di diagnostica per immagini per valutare le alterazioni ossee nelle neoplasie primarie o secondarie dell’osso. Consente una buona
valutazione complessiva e permette in molte situazioni di
differenziare le lesioni aggressive da quelle benigne. Anche
in questo caso, dal momento che le micosi non rappresentano un problema in Europa, le lesioni ossee più aggressive
sono da ritenere di origine neoplastica. I tumori primari dell’osso di solito riconoscono una componente litica ed una
produttiva. Queste neoplasie sono localizzate nelle metafisi
delle ossa lunghe, tipicamente nel tratto distale del radio e
della tibia, ma anche in quello prossimale dell’omero o in
quello distale del femore. I tumori che originano dal sistema emopoietico si osservano più comunemente a livello
della diafisi. Le metastasi possono essere localizzate in entrambe le sedi, diafisaria e metafisaria. La tomografia computerizzata, la risonanza magnetica o la medicina nucleare
sono tecniche di diagnostica per immagini utili per caratterizzare ulteriormente i tumori scheletrici. Mentre la medicina nucleare è ideale per evidenziare le metastasi occulte, la
tomografia computerizzata e la risonanza magnetica consentono una migliore definizione dell’estensione di una lesione. Per la diagnosi istopatologica, è possibile effettuare
un prelievo per aspirazione con ago sottile sotto guida ecografica o tomografica.
La radiografia addominale rappresenta un mezzo di indagine eccellente. È possibile rilevare una perdita di dettaglio, l’aumento di dimensioni degli organi o alterazioni ossee. Con l’impiego di mezzi di contrasto, è possibile identificare neoplasie renali, tumori vescicali, o, in misura minore, gastrici e intestinali. Tuttavia, la sensibilità è piuttosto bassa e per definire ulteriormente le sospette lesioni tumorali si utilizza di solito l’ecografia addominale. La sen-
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sibilità di questa tecnica è molto elevata. Consente di rilevare lesioni molto piccole (linfonodi mesenterici ingrossati, non visualizzabili nelle radiografie addominali). La specificità dell’ecografia addominale è però bassa. Pertanto,
questo esame viene spesso utilizzato in associazione con
una biopsia. L’ecografia addominale è di primario interesse per l’oncologo. Tuttavia, con questa tecnica vengono
studiate anche molte lesioni toraciche, come la presenza di
masse mediastiniche, polmonari o pleuriche. Queste lesioni possono essere efficacemente sottoposte a prelievo bioptico sotto guida ecografica.
Attualmente, in medicina veterinaria vengono introdotte
nuove tecniche ecografiche, come la visualizzazione armonica, l’impiego di mezzi di contrasto e varie metodiche Doppler. Grazie a queste modalità, si prevede di distinguere ulteriormente i disordini neoplastici da quelli non neoplastici e
di monitorare in modo più efficace la terapia del tumore.
La tomografia computerizzata (TC) si va sempre più
diffondendo, anche nella libera professione. Con le tecniche
di TC spirale è possibile diminuire significativamente la durata dell’anestesia. Ciò consente di effettuare questo tipo di
esame a costi più convenienti. Inoltre, oggi è possibile esaminare più facilmente regioni corporee come il torace o
l’addome suscettibili di artefatti da movimento. La tomografia computerizzata va impiegata nell’analisi delle masse
tumorali della regione della testa. Nel cavo orale, con la radiografia convenzionale è possibile diagnosticare in modo
efficace soltanto i tumori localizzati rostralmente. Per la
prognosi di un animale, è di importanza cruciale conoscere
l’esatta estensione di una lesione tumorale prima di scegliere un dato protocollo terapeutico. Nella nostra esperienza,
l’estensione di un tumore viene spesso sottostimata e l’intervento chirurgico risulta incompleto. Poiché il primo intervento chirurgico è quello più efficace, è importante eseguire adeguate tecniche di diagnostica per immagini prima
di iniziare la terapia.
Tipicamente, le lesioni neoplastiche della testa sono caratterizzate da distruzione ossea, invasione di organi adiacenti e masse di tessuti molli.
Nei tumori orali si può osservare la caduta dei denti. I tumori nasali che originano dai tessuti molli tendono ad invadere e distruggere localmente. I linfomi sembrano essere
199
meno invasivi, spesso è presente una massa di tessuti molli.
I tumori nasali possono prendere origine nell’area della lamina cribrosa ed invadere i bulbi olfattivi. Pertanto, è importante includere questa regione nell’esame tomografico,
sia in caso di animali inviati per la valutazione di un tumore
cerebrale che per i tumori nasali. Di solito, nella maggior
parte dei pazienti neoplastici si utilizza un mezzo di contrasto endovenoso. In questo modo è possibile definire meglio
l’estensione del tumore e differenziare i fluidi dalle masse.
Spesso, al centro di un tumore si trova una regione che non
assume affatto il contrasto. Si può presumere che questo
quadro sia compatibile con una necrosi tumorale.
La TC è la modalità di diagnostica per immagini d’elezione per la pianificazione computerizzata dei trattamenti in
radioncologia. Si esegue la ripresa di una tomografia con l’animale nella posizione in cui verrà trattato, poi si invia il file alla stazione di pianificazione per abbozzare i vari volumi
di trattamento ed infine calcolare il piano terapeutico.
La risonanza magnetica (MRI) è il mezzo ideale per i
tumori del SNC. Consente di caratterizzare le neoplasie meglio della TC utilizzando differenti sequenze di scansione. È
anche utile per i tumori che originano dai tessuti molli in altre localizzazioni corporee. Esistono anche dei programmi
computerizzati che fondono le immagini della TC e della
MRI. Questa metodica viene utilizzata in particolare per la
pianificazione del trattamento. Tuttavia, è necessario che il
paziente sia posizionato in modo identico durante la ripresa
delle due immagini, il che non è sempre facile da ottenere.
La medicina nucleare è stata utilizzata a lungo per la valutazione dei pazienti neoplastici. In medicina veterinaria, il
tracciante utilizzato più comunemente è il tecnezio 99m. Nei
piccoli animali, le indicazioni più frequenti sono le scansioni
dell’osso per rilevare la presenza di metastasi e l’esame della
tiroide. In medicina umana si vanno rapidamente diffondendo
nuove tecnologie come la PET (Positron Emission Tomography) che forniscono utili informazioni tridimensionali. La
PET associata alla TC sembra diventare il metodo più elegante ed efficace di diagnostica per immagini per la stadiazione
delle neoplasie ed il monitoraggio dei tumori. Allo stesso tempo, consente di ottenere superbe immagini anatomiche associate ad informazioni molecolari di un tumore. Sembra il sogno di un radiologo trasformato in realtà.
200
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Principi ed indicazioni della tomografia computerizzata
(TC)
Barbara Kaser-Hotz
Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera
Fra le modalità di diagnostica per immagini in medicina
umana, la tomografia computerizzata si è talmente diffusa da
essersi meritata il titolo di “stakanovista”. Via via che sul
mercato compariranno sistemi più nuovi e più rapidi, questa
tecnologia diventerà più facilmente disponibile per i veterinari, anche nell’ambito della libera professione.
Storicamente, il concetto matematico di TC è stato presentato più di 70 anni fa, ma sono occorsi parecchi decenni
di progressi nella tecnologia computerizzata per rendere
questa tecnica una parte di routine della diagnostica per immagini, come avviene oggi.
APPARECCHIATURE
Una unità da TC è costituita da un’incastellatura che contiene i detector ed il tubo radiogeno. Poi, è presente un apposito tavolo su cui collocare il paziente nel campo da visualizzare e, infine, un sistema computerizzato per la formazione e la presentazione delle immagini. Il tubo radiogeno,
in un’unità TC è molto più piccolo di quello utilizzato negli
apparecchi radiografici convenzionali, perché il fascio prodotto deve essere più stretto e ben collimato. La capacità termica dei tubi radiogeni da TC supera quella degli apparecchi normali. Invece di un sistema schermo/pellicola, come
metodo di rilevamento si utilizzano cristalli di scintillazione
allo stato solido, che emettono luce in seguito all’interazione con le radiazioni ionizzanti, oppure camere di ionizzazione contenenti gas xenon.
Nei sistemi di terza generazione, sia il tubo che lo strato dei detector si muovono all’interno dell’incastellatura
intorno al paziente, mentre in quelli di quarta generazione
l’anello rilevatore è fisso e disposto a 360° intorno al paziente. Ciò non si applica ai sistemi ad elica o a spirale,
che sono quasi esclusivamente quelli in uso oggi. Questi
sistemi utilizzano un tavolo continuo, alimentato con una
rotazione a spirale intorno al paziente. Oggi sono disponibili apparecchi che, invece uno solo, hanno fino a 64 strati di detector e ciò consente la visualizzazione di strutture
in movimento, come il cuore.
Le immagini vengono formate in base alla misurazione dell’assorbimento dei raggi x all’interno di un pixel definito. In altre parole, le immagini TC sono una rappresentazione del differente assorbimento dei tessuti. Mentre
con la radiografia convenzionale è possibile differenziare
solo 5 diverse radiopacità (gas, grassi, tessuti molli, ossa,
metalli) con la TC le radiopacità dei tessuti molli possono
essere ulteriormente distinte. In onore di uno degli inventori della TC, il coefficiente di assorbimento lineare viene
convertito in un numero TC e detto unità di Hounsfield.
All’acqua è assegnata un’unità Hounsfield pari a 0, all’aria un’unità di meno di 1000 e all’osso di oltre 1000. Le
immagini vengono poi visualizzate su una specifica apparecchiatura. Il livello viene tarato intorno al tessuto di interesse, il numero TC centrale, e viene detto livello finestra. Il range dei numeri di TC sopra e sotto il livello finestra viene detto ampiezza della finestra. In pratica, è possibile esaminare molteplici livelli ed ampiezze di finestra,
nel tentativo di trarre le massime informazioni diagnostiche. Per l’esame delle ossa, si utilizza una finestra ampia,
mentre per quello del tessuto cerebrale si ricorre ad una finestra stretta.
Una volta portato a termine lo studio, è possibile effettuare varie ricostruzioni delle immagini. Questa tecnica viene detta ricostruzione multistrato. In questo modo, vengono
anche analizzate di routine immagini dorsali, che in medicina umana sono dette coronali, ed immagini sagittali. È possibile ricostruire immagini su qualsiasi piano. Con i software più recenti si riesce anche ad ottenere una ricostruzione
tridimensionale delle strutture ossee o persino ad effettuare
il “cosiddetto” volume rendering, utilizzando una specifica
unità di Hounsfield come riferimento.
INDICAZIONI
In medicina umana la TC è diventata la procedura standard per l’esame di torace, addome e scheletro. In veterinaria, per la valutazione dell’addome si utilizza più comunemente l’ecografia. Un problema con la TC è l’elevata
dose di radiazioni associata alla metodica. Attualmente, il
50% della dose totale annua di radiazioni assorbite in una
popolazione umana viene attribuito alla TC. Questo non è
un problema di pari entità in medicina veterinaria, ma è
necessario tenere comunque sempre conto della dose di radiazioni, specialmente quando si esaminano animali in accrescimento.
La TC è un mezzo notevole per la valutazione di strutture anatomiche complesse, come ad esempio il bacino, la testa, in particolare la zona mascellare. Pertanto, viene ampiamente utilizzata nella diagnosi delle lesioni delle vie nasali,
della mascella, del cranio in generale e dell’encefalo. Anche
se è necessario utilizzare molteplici protezioni radiografiche
per la valutazione, ad esempio, delle cavità nasali, la scan-
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sione trasversale delle stesse fornisce una rappresentazione
anatomica in sezione trasversale molto più precisa e senza
sovrapposizioni. In molte situazioni la TC è anche più rapida, perché per ottenere radiografie di buona qualità del cranio è necessario ricorrere anche all’anestesia ed alla ripresa
di molteplici proiezioni. Ciò vale in particolar modo quando
si utilizzano scansioni ad elica.
La TC è anche estremamente utile nella valutazione delle anomalie del torace, per differenziare, ad esempio, le lesioni mediastiniche da quelle polmonari oppure per identificare le metastasi polmonari o i corpi estranei.
La TC ad elica è quasi indispensabile per la visualizzazione di routine del torace, perché gli artefatti dovuti al movimento disturbano la formazione dell’immagine. Con le
moderne unità da TC, è possibile effettuare una completa tomografia computerizzata del torace in un solo respiro.
Un’altra indicazione è la mielografia TC. L’informazione in
sezione trasversale spesso contribuisce a caratterizzare ulteriormente una specifica lesione.
Nella tomografia computerizzata si utilizzano di routine
i mezzi di contrasto. Gli agenti iodati, ionici o non ionici,
vengono iniettati per via endovenosa. Si utilizza sia l’iniezione in bolo che l’infusione goccia a goccia. Il contrasto si
accumula nei tessuti altamente vascolarizzati e quando si è
verificata la distruzione della barriera ematoencefalica. Ciò
risulta particolarmente utile nella differenziazione delle lesioni cerebrali. Ad esempio, un’accentuazione ad anello in
201
una lesione encefalica ipodensa è altamente indicativa di un
tumore gliale. Le neoplasie ipofisarie tendono a presentare
un’accentuazione più uniforme. I meningiomi sono tipicamente iperdensi già nelle immagini riprese prima della somministrazione del mezzo di contrasto e mostrano un’accentuazione meno evidente.
Gli studi pre- e post-mezzo di contrasto vengono utilizzati anche nell’indagine diagnostica delle masse di tessuti
molli in altre sedi. Gli ascessi o le regioni necrotiche non
mostrano alcuna accentuazione, che invece può essere pronunciata nei tumori ben vascolarizzati.
La TC viene ampiamente utilizzata nella pianificazione e
nel monitoraggio del trattamento. Ciò vale in particolare in
oncologia, dove i dati rilevati con questa tecnica vengono
trasferiti direttamente al computer utilizzato per la pianificazione del trattamento. Su questa stazione computerizzata
vengono disegnate in singole sezioni TC trasversali il tumore mascroscopico, il volume del tumore clinico ed il volume
al quale verrà prescritta la dose.
Infine, la TC viene anche utilizzata nei pazienti traumatizzati, non solo per rilevare le fratture, ma in particolare per
identificare gli ematomi cerebrali. La TC è più sensibile della MRI per riconoscere il sanguinamento acuto.
In conclusione, la TC è una tecnica di diagnostica per
immagini che sta rapidamente emergendo in medicina veterinaria, è estremamente versatile e fornisce un’eccellente risoluzione di contrasto di immagine.
202
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Trattamento nutrizionale nelle malattie
gastroenteriche croniche: gestione e trials dietetici
Ellen Kienzle
Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania
I principi della nutrizione del cane e del gatto con malattie gastroenteriche croniche sono relativamente simili per
la maggior parte dei problemi. La base della nutrizione è
una dieta con ingredienti altamente digeribili e con scarse
probabilità di irritare ulteriormente il tratto gastroenterico.
Per variare il tempo di transito, il legame dell’acqua e l’attività microbica nell’apparato digerente si utilizzano i carboidrati non degradabili enzimaticamente (NEDC, nonenzymatically degradable carbohydrates, compresa la fibra). Come fonti proteiche risultano adeguate il pollo ed altre carni bianche, talvolta le carni rosse, le proteine del latte e quelle (denaturate) delle uova. In genere si raccomanda
un apporto proteico moderato (cioè tale da soddisfare i fabbisogni, ma non superarli considerevolmente). Fanno eccezione l’ipoacidità gastrica, l’insufficienza del pancreas esocrino (EPI) e l’enteropatia proteinodisperdente. Soprattutto
in quest’ultima condizione, l’assunzione proteica deve essere notevolmente aumentata. Le fonti di lipidi devono contenere molti acidi grassi desaturati. Il grasso contenuto nel
pollo o nel suino risulta adatto così come molti oli vegetali
come quello di girasole. L’olio d’oliva contiene principalmente acido oleico, che non è essenziale. Nell’olio di rapunzia, in quello di semi di lino o in quello di pesce si trovano acidi grassi che possono modificare i processi infiammatori. A seconda della causa sottostante, possono risultare
utili. A differenza di quanto avviene nell’uomo, nel cane e
nel gatto i trigliceridi a catena media non vengono tollerati
in grandi quantità. Il contenuto totale di grassi della dieta
deve essere basso. Fanno eccezione a questa regola l’EPI, a
condizione che venga garantito un apporto di enzimi pancreatici sostitutivi, e l’ipoacidità gastrica. Come fonte energetica sono utili i carboidrati digeribili. Risulta adatto l’amido altamente scomposto, come quello del riso cotto o
delle patate bollite. Si può anche utilizzare il glucosio, ma,
specialmente nei gatti, ciò può portare ad iperglicemia. Esistono due gruppi di NEDC: fermentabili e non fermentabili. Sono esempi di NEDC fermentabili il lattulosio, gli oligosaccaridi, la pectina ed il guar, nonché l’amido resistente. La loro fermentazione da parte della flora enterica con-
duce ad un aumento della produzione di acidi grassi a catena corta e di lattato, con un calo più o meno marcato del pH
ed un aumento del contenuto d’acqua. I benefici effetti di
tutto ciò sono rappresentati da una diminuzione dei batteri
proteolitici e da un aumento dell’acido butirrico, che è importante per la nutrizione delle cellule della mucosa del colon. L’ingestione di dosi elevate di NDEC fermentabili può
esitare in una diarrea osmotica acida (avvisate i vostri clienti!). Nei pazienti con proliferazione batterica, costipazione
ostinata o che hanno subito un esteso trattamento antibiotico possono essere utili i probiotici. Il loro utilizzo deve essere associato ad una dieta che contenga dei substrati che
possano essere fermentati da questi microrganismi, cioè
NDEC fermentabili. I NDEC non fermentabili sono rappresentati principalmente dalla cellulosa. A seconda della struttura della fibra e della lignificazione, la capacità di legare
l’acqua delle cellulose può essere piuttosto differente. Le
cellulose in cui tale capacità è elevata sono molto utili per
la terapia sintomatica della diarrea che origina a livello del
grosso intestino. Questo trattamento può risultare molto efficace nei casi di colon irritabile. In varie malattie del tratto
gastroenterico può essere coinvolta l’ipersensibilità alimentare. In molti casi può valere la pena di fare una prova con
una dieta speciale ipoallergica (elimination diet) basata su
poche componenti ed una fonte proteica inusuale. Ciò ha
anche il vantaggio di far sì che i proprietari cessino di cambiare continuamente la dieta nella speranza che il problema
migliori. Le diete fatte in casa utilizzando gli ingredienti
precedentemente indicati sono carenti della maggior parte
dei principali oligoelementi e vitamine. Non possono quindi essere utilizzate per un periodo di tempo prolungato senza un’adeguata integrazione. È anche molto importante rimpiazzare gli elettroliti che vanno persi in quantità elevate a
causa del vomito o della diarrea. Oltre al sale, risultano
adatti i carbonati di potassio e magnesio. Per i casi di ipersensibilità alimentare, si raccomandano miscele di sali minerali purificati e vitamine cristalline. È possibile apportare
vitamine liposolubili con piccole quantità di fegato delle
specie animali utilizzate per l’apporto di carne.
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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Relazione uomo-animale come fattore di rischio
di obesità nell’animale da compagnia
Ellen Kienzle
Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania
In teoria, i proprietari degli animali sovrappeso potrebbero controllare l’assunzione di cibo dei loro compagni.
Anche se hanno un fabbisogno energetico piuttosto basso, i
cani e i gatti non diventano obesi a meno che il proprietario
non offra loro più energia del necessario. Se l’animale è già
sovrappeso e il proprietario riduce l’alimentazione a valori
inferiori ai fabbisogni di mantenimento per un periodo di
tempo prolungato, si ottiene un calo ponderale. In pratica,
tuttavia, la lotta contro il sovrappeso negli animali da compagnia in genere non è un successo. Perché i proprietari degli animali obesi non riducono l’assunzione energetica dei
loro compagni? La risposta si trova più probabilmente nella psicologia della relazione uomo-animale che nella fisiologia della nutrizione. Per studiare questo problema, sono
stati intervistati mediante questionari standard 120 proprietari di gatti e 120 proprietari di cani (60 sovrappeso e 60
normali, in entrambi i casi). Nei casi in cui risultavano applicabili, ai proprietari degli animali delle due specie sono
state poste domande simili. In genere, i cani sovrappeso
dormivano nel letto dei proprietari. Questi parlavano più
spesso e di una maggior varietà di argomenti con i loro cani e si preoccupavano meno del rischio di contrarre da loro
delle malattie. L’esercizio, il lavoro o la protezione dal cane venivano considerati come meno importanti. Queste caratteristiche del rapporto uomo/animale sono state interpretate come segni di iperumanizzazione dei cani obesi. Anche
nei gatti sovrappeso la relazione uomo/animale ha dimostrato la presenza di indicatori di iperumanizzazione, come
il fatto di parlare all’animale di argomenti che non lo riguardavano. I proprietari dei cani e dei gatti sovrappeso sor-
vegliavano più spesso i loro animali quando stavano mangiando. Diversi dati indicano che dar da mangiare all’animale era un importante fattore di stimolazione della comunicazione con il soggetto sovrappeso. Il rapporto uomo/animale dei proprietari dei gatti obesi era caratterizzato da una
maggiore intensità del legame. Al contrario, sono state rilevate ben poche indicazioni del fatto che l’unione fra cani
sovrappeso e i loro proprietari fosse più forte di quello fra
cani normali e i loro proprietari. I proprietari dei cani sovrappeso sono parsi essere maggiormente consapevoli del
problema rispetto ai proprietari dei gatti nelle stesse condizioni. Nei cani sovrappeso il numero di pasti e di spuntini
era significativamente aumentato rispetto a quelli normali.
Nei gatti normali e in quelli sovrappeso non è stata rilevata
alcuna differenza nella frequenza dei pasti e degli spuntini,
tuttavia i soggetti obesi avevano spesso la possibilità di scegliere liberamente la quantità di cibo da ingerire. A cani e
gatti sovrappeso venivano dati avanzi di cucina, spesso in
misura maggiore alla loro dieta abituale. Gli interventi di
medicina preventiva per gli animali da compagnia (come i
controlli sanitari, l’osservazione della qualità delle feci e le
vaccinazioni) erano più importanti per i proprietari degli
animali normali rispetto a quelli dei soggetti sovrappeso. I
proprietari di questi ultimi, rispetto a quelli dei cani normali, erano anche meno interessati alla medicina preventiva nei
confronti di se stessi. Proprietari e cani spesso condividevano uno “stile di vita da patata bollita” ed avevano in comune il problema del sovrappeso. Al contrario, il rischio di
obesità nel gatto non era influenzato dallo stile di vita del
proprietario.
204
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
Alimentazione e patologie scheletriche
nei cuccioli di razze giganti
Ellen Kienzle
Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania
Nei cani di grossa taglia, esistono tre principali cause di
malattie scheletriche correlate alla nutrizione.
i) Carenza di calcio
ii) Eccesso di calcio
iii) Eccesso di energia che porta ad una crescita estremamente rapida
I proprietari dei cuccioli di grossa taglia sono spesso
consapevoli del fatto che i loro animali sono altamente esposti al rischio di sviluppare malattie scheletriche correlate alla nutrizione. Per contrastare questo rischio, spesso si servono di piani di nutrizione molto complicati ed evitano di utilizzare un alimento specifico per cuccioli come unica fonte
di energia. Quando gli alimenti per animali vengono diluiti
con ogni sorta di cibo ad alta energia o ad alto tenore proteico e basso contenuto di calcio, come la carne, il formaggio
fresco, l’olio, il miele ed altri avanzi di cucina, spesso si verifica una carenza di calcio. Questa evenienza è anche tipica delle diete fatte in casa. In entrambi i casi i proprietari
sanno che il loro cane ha bisogno di calcio, ma non hanno alcuna idea della quantità necessaria e della quota di alimento
e di integratore che devono utilizzare. Un problema tipico è
che pensano che l’integrazione di calcio delle diete fatte in
casa con le compresse calciche per uso umano o con prodotti a base di latte sia adatta ai cani di grossa taglia in accrescimento. Queste fonti, tuttavia, non apportano neppure la
metà del calcio necessario. A meno che non si offrano agli
animali quantità considerevoli di ossa (il che non è raccomandato) l’unico modo per garantire un apporto sufficiente
di calcio in un cucciolo di grossa taglia in accrescimento attraverso una dieta fatta in casa consiste nell’impiego di un
alimento minerale contenente almeno il 20% di calcio in
quantità di circa 20-40 g al giorno (a seconda del peso previsto alla maturità e dell’età dell’animale). L’eccesso di calcio può essere indotto dall’aggiunta di miscele minerali ricche di questo elemento, calcare o ossa ad un alimento completo per cuccioli. Per ovvie ragioni, quest’ultimo contiene
già una quota sufficiente di calcio e l’aggiunta di un’integrazione calcica elevata può facilmente raddoppiare o triplicare
l’assunzione di questo elemento. L’associazione di alimenti
completi per cuccioli, avanzi di cucina ed integratori può esitare in un eccesso o una carenza di calcio. L’eccesso di energia si può verificare con qualsiasi dieta altamente appetibile
e ad elevata densità energetica, sia fatta in casa che preparata industrialmente. Nei cuccioli in crescita questa condizione non induce necessariamente la deposizione di una quantità esagerata di grassi, per cui i soggetti sovralimentati possono presentare punteggi di condizione corporea nella media
ed apparire normali al proprietario. Spesso vengono definiti
“grandi per la loro età”. Tuttavia, lo sviluppo del peso può
essere confrontato con delle curve standard e il cucciolo va
alimentato in funzione della sua crescita ponderale. Se questa supera il peso corporeo consigliato per la corrispondente
età, la quantità di cibo va ridotta.
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205
Lo shock e la disidratazione nel cane e nel gatto
Lesley G. King
MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA
È importante comprendere chiaramente alcuni termini
fondamentali che vengono utilizzati per definire in ambito
clinico la distribuzione dell’acqua all’interno dei comparti
dell’organismo dei nostri pazienti. Capire chiaramente la distribuzione dei fluidi corporei contribuisce a guidare la nostra scelta delle soluzioni da somministrare.
La disidratazione implica una perdita di fluidi dallo spazio interstiziale ed intracellulare, e di solito si verifica più
lentamente che nelle perdite intravascolari che accompagnano lo shock. I segni clinici della disidratazione sono rappresentati dalla persistenza delle pliche cutanee, secchezza delle mucose ed occhi infossati o vitrei. Ovviamente, in alcuni
animali, lo shock e la disidratazione possono essere presenti simultaneamente, in grado variabile.
Lo shock può essere semplicemente definito come una
mancata perfusione tissutale ed implica un calo del volume
intravascolare efficace dell’animale. Nel gatto, si riconosce
clinicamente sulla base del riscontro di pallore delle mucose, polso debole e debolezza generalizzata o collasso. I cani
possono presentare pallore e polso debole, ma in questa specie animale si osserva anche uno shock iperdinamico caratterizzato da mucose iperemiche e polso saltellante. I cani in
condizioni di shock sono solitamente tachicardici. Al contrario, nei gattini e nei gatti in stato di shock la frequenza
cardiaca è imprevedibile e può determinare sia tachicardia
che bradicardia. Clinicamente si possono riconoscere diverse forme di shock, ma da un punto di vista pratico quest’ultimo viene distinto in cardiogeno, ipovolemico o settico.
TIPI DI SHOCK
Shock cardiogeno
Lo shock cardiogeno implica l’insufficienza della perfusione tissutale dovuta a scarsa gittata cardiaca conseguente
ad una cardiopatia primaria. Anche se si tratta della forma
più rara di shock, bisogna sempre escluderla immediatamente durante il trattamento dei pazienti colpiti, perché in
questo caso è appropriata una restrizione dei fluidi piuttosto
che una loro espansione. Lo shock cardiogeno va preso in
considerazione in tutti gli animali che presentano un soffio
cardiaco o suoni polmonari anormali al momento della visita o in tutti i gatti con toni cardiaci anormali (soffi, galoppo),
dispnea o anomalie come la presenza di rantoli all’auscultazione toracica. In questi soggetti, la fluidoterapia è da limitare o evitare del tutto.
Shock ipovolemico
Lo shock ipovolemico è probabilmente la forma di shock
più comunemente identificata nella pratica clinica quotidiana. L’ipovolemia può essere assoluta o relativa. La prima
può essere causata dall’emorragia, ad esempio nei pazienti
traumatizzati, oppure dalla perdita di fluidi nel tratto gastroenterico o attraverso le cavità corporee, come può avvenire nel vomito. L’ipovolemia relativa si può anche osservare come conseguenza di scarsa gittata cardiaca in caso di cani con dilatazione/torsione dello stomaco con ostruzione del
ritorno venoso.
Man mano che si sviluppa un deficit assoluto o relativo
del volume intravascolare nei pazienti con shock ipodinamico, entrano in gioco diversi meccanismi compensatori per
mantenere la perfusione degli organi vitali. Nel tentativo di
incrementare la gittata cardiaca, a dispetto del calo di quella
sistolica ad ogni contrazione del cuore, insorge una tachicardia. Successivamente, la vasocostrizione della periferia consente di mantenere la pressione sanguigna, conservando così la perfusione di organi vitali come l’encefalo, il muscolo
cardiaco ed il letto vascolare splancnico. Man mano che il
volume intravascolare si riduce progressivamente, la vasocostrizione aumenta, esitando in un ulteriore calo dell’apporto
ematico ai reni ed all’intestino. I tessuti scarsamente perfusi
divengono acidosici, con conseguente sviluppo di un danno
endoteliale e cellulare. Infine, quando il volume intravascolare si è ridotto così tanto che la vasocostrizione non può più
mantenere la pressione sanguigna, si sviluppa un’ipotensione e gli organi vitali non vengono più perfusi.
Lo shock ipovolemico si riconosce clinicamente per la
presenza di pallore delle mucose, tachicardia, freddezza delle estremità e, solitamente, polso debole o filiforme, anche
se alcuni animali negli stadi iniziali possono presentare un
polso a scatti o saltellante.
Shock settico
Lo shock settico è un disordine circolatorio che si verifica a causa del rilascio di batteri o endotossine batteriche in
circolo. Gli effetti dei microrganismi o dei loro prodotti
vengono mediati da numerose citochine endogene, eicosanoidi ed altri mediatori dell’infiammazione, che provocano
una varietà di alterazioni della vascolarizzazione, del cuore
e del volume circolante. Nel cane, gli stadi iniziali di questo processo comportano una vasodilatazione periferica me-
206
diata dalle endotossine e la comparsa di febbre. La vasodilatazione periferica determina un incremento iniziale del
flusso ematico ai tessuti. Nel cane, a questo punto l’esame
clinico rivela mucose iperemiche e accorciamento del tempo di riempimento capillare. Altre cause di iperemia, quali
anafilassi, policitemia o colpo di calore, possono di solito
essere escluse sulla base dell’anamnesi, della visita clinica
e degli iniziali risultati degli esami di laboratorio. A questo
primo stadio dello shock settico, la frequenza cardiaca aumenta e la gittata cardiaca è elevata, perché l’organismo
cerca di mantenere la perfusione tissutale ed il flusso ematico nonostante un calo della resistenza vascolare periferica.
Il polso può apparire saltellante: vale a dire che si localizza
facilmente e si presenta “a scatti”, indicando una differenza
eccessiva fra la pressione sistolica e quella diastolica. Il grave shock settico può essere associato a riduzione della contrattilità miocardica, talvolta abbastanza grave da simulare
una miocardiopatia dilatativa all’esame ecocardiografico.
Se si verifica, la riduzione della contrattilità miocardica diminuisce la gittata cardiaca e, via via che l’organismo cerca di compensare la diminuzione della gittata sistolica, la
tachicardia si aggrava. Col progredire della stimolazione
settica, la vasodilatazione periferica diviene eccessiva ed il
ritorno venoso al cuore diminuisce perché il sangue ristagna
a livello periferico. La gittata cardiaca quindi si riduce ulteriormente e, nel tentativo di mantenere la pressione sanguigna, si ha una vasocostrizione arteriolare periferica. Questa
e la stasi del sangue nei capillari periferici dilatati conducono ad un calo della perfusione tissutale ed all’acidosi. Ciò
esita negli stadi iniziali di una grave maldistribuzione del
flusso ematico ai tessuti, con fenomeni regionali di vasocostrizione, vasodilatazione e stasi, che concorrono a diminuire l’apporto di ossigeno e principi nutritivi alle cellule e
l’allontanamento dei cataboliti tossici. Nello shock settico
in stadio terminale nel cane, il collasso cardiovascolare si riconosce per la presenza di pallore o grigiore delle mucose,
tachicardia e polso debole.
Il processo infiammatorio iniziato dall’endotossina è uno
dei principali fattori che intervengono nella progressione
dello shock settico. Il rivestimento endoteliale dei capillari
diviene più permeabile e fluidi ed albumine iniziano a filtrare nell’interstizio. Ciò conduce in ultima analisi all’ipoproteinemia ed all’emoconcentrazione, ed aumentano la viscosità ematica ed aggravano il ristagno e la stasi nei capillari
periferici. L’attivazione e la chemiotassi dei neutrofili contribuiscono al processo infiammatorio e nei capillari si embolizzano piccoli grappoli di leucociti, alterando ulteriormente il flusso ematico. Un processo simile si verifica a carico delle piastrine, che vanno incontro ad aggregazione ed
adesione agli endoteli danneggiati, con ostruzione del flusso
ematico. Il danno e l’infiammazione endoteliali conducono
all’attivazione delle reazioni a cascata della coagulazione e
della fibrinolisi. La trombosi microvascolare può ulteriormente alterare il flusso ematico tissutale.
Quindi, il processo clinico dello shock settico, se non
trattato e grave, progredisce fino al punto in cui i tessuti hanno subito una profonda ipoperfusione. La gittata cardiaca è
bassa, la viscosità del sangue risulta elevata, alcuni capillari
sono ostruiti o costretti ed altri sono dilatati, la pressione
sanguigna cade, i vasi sanguigni sono più permeabili e tutte
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le reazioni a cascata dell’infiammazione, della coagulazione
e della fibrinolisi sono state attivate.
ACCESSO VASCOLARE
Una volta che sia stato determinato che il paziente è disidratato o in shock, il passo successivo consiste nello stabilire un accesso vascolare funzionalmente valido. Tale accesso consente la somministrazione di fluidi endovenosi e farmaci come il glucosio e gli antibiotici. La cateterizzazione di
vene periferiche come la cefalica e la safena costituisce un
punto di partenza di routine nella sala d’emergenza. Se possibile, bisogna stare attenti a tosare e disinfettare accuratamente la sede interessata prima dell’inserimento del catetere. In situazioni di emergenza bisogna sempre utilizzare i cateteri dal diametro più ampio e dalla lunghezza minore possibile, per facilitare la rapida somministrazione di fluidi ed il
prelievo di campioni di sangue. Se non è possibile inserire
facilmente il catetere in una vena periferica, il passo successivo consiste nella rapida esecuzione di un cut-down a livello di un vaso centrale come la vena giugulare e nell’inserimento al suo interno di un catetere di grosso calibro.
In situazioni di emergenza, specialmente in una crisi come un arresto, l’accesso intraosseo offre una via rapida e facile paragonabile a quella endovenosa. Ciò risulta particolarmente utile per i neonati collassati e difficili da sottoporre a cateterizzazione endovenosa. Attraverso la corticale si
inserisce un ago spinale o un ago endovenoso normale spingendolo fino nella cavità midollare del femore, della tibia o
dell’omero. L’inserimento di questi cateteri è abbastanza facile, specialmente se prima di tentare su un paziente si è fatta pratica su cadaveri. Una volta penetrati nella cavità midollare, è possibile somministrare facilmente e far defluire a
velocità molto rapida fluidi, emoderivati o farmaci. L’accesso intraosseo offre un mezzo per la rapida rianimazione dei
neonati collassati, che può poi essere seguita dalla cateterizzazione endovenosa una volta che le condizioni del gattino o
del cucciolo si siano maggiormente stabilizzate.
Gli animali vengono spesso portati alla visita con mucose pallide e debolezza generalizzata. Prima di formulare una
diagnosi di shock è necessario rispondere ad un’altra domanda. È possibile che questo paziente presenti un pallore
delle mucose dovuto ad anemia piuttosto che a vasocostrizione e diminuzione del volume ematico? A questa domanda di solito è possibile rispondere facilmente basandosi sulla misurazione dell’ematocrito effettuata nell’ambito delle
analisi di laboratorio d’emergenza. Se è presente una grave
anemia, si deve prendere immediatamente in considerazione il ricorso alla trasfusione di sangue piuttosto che alla
fluidoterapia.
I risultati delle prime analisi di laboratorio d’emergenza
forniscono una serie di informazioni inestimabili, poco costose e di facile acquisizione su qualsiasi paziente in condizioni di emergenza, specialmente quando sono presenti i segni clinici della disidratazione e dello shock. I valori minimi
da rilevare sono rappresentati da ematocrito misurato mediante microcentrifugazione, solidi totali (TS) misurati mediante rifrattometria, glicemia stimata mediante strisce reattive o analizzatori manuali ed azotemia valutata con strisce
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reattive. Se disponibile, la misurazione degli elettroliti sierici (sodio e potassio) e l’analisi dei gas ematici venosi forniscono un’ulteriore ed abbondante quantità di dati.
I valori dell’ematocrito e quelli dei solidi totali vengono
spesso valutati nella loro relazione reciproca. La presenza di
un’emoconcentrazione (aumento dell’ematocrito) indica di
solito una significativa disidratazione sino al punto dell’ipovolemia, che si può avere a causa di perdita idrica dal tratto
gastroenterico o in una cavità corporea del terzo spazio, o
per il ristagno in anse intestinali distese. La diminuzione dell’ematocrito può essere un indizio importante del fatto che si
sta verificando una perdita di eritrociti da emorragia o emolisi oppure della presenza di una malattia più cronica, con insufficiente produzione di eritrociti. Il riscontro di un ematocrito normale deve essere interpretato facendo riferimento ai
dati rilevati attraverso l’esame clinico: l’animale può essere
anemico ed affetto da emoconcentrazione oppure aver subito un’emorragia iperacuta che non è ancora andata incontro
a diluizione da ridistribuzione del liquido interstiziale.
Il valore di TS è un’informazione importante. Se tanto l’ematocrito che i TS sono elevati, le ipotesi più probabili sono ovviamente la disidratazione e l’emoconcentrazione. Altre cause
di aumento dei TS sono rappresentate dalle iperproteinemie come le gammopatie poli- o monoclonali, che possono indicare
una neoplasia o una risposta infiammatoria aspecifica. La riduzione dei valori di TS rappresenta un segno clinico comune ed
abbastanza infausto, dal momento che spesso riflette una perdita proteica. Le proteine in genere vanno perdute nel tratto gastroenterico negli animali che vomitano, ma possono anche passare nel terzo spazio dell’organismo, come ad esempio nella cavità peritoneale degli animali con peritonite o nell’interstizio di
quelli con sepsi. Analogamente, se i TS sono normali al momento della presentazione dell’animale alla visita, il clinico si
deve aspettare che scendano di 1-2 g/dl con la successiva fluidoterapia. La combinazione di emoconcentrazione ed ipoproteinemia è molto significativa, dal momento che la fluidoterapia
causa un ulteriore calo delle proteine plasmatiche, che può predisporre l’animale all’edema.
In condizioni di stress si possono verificare degli aumenti della glicemia, specialmente nel gatto. I campioni che presentano un aumento significativo dei livelli ematici di glucosio devono essere ripetuti immediatamente per confermare
l’anomalia, dal momento che ciò può indicare la presenza di
diabete mellito, chetoacidosi e/o pancreatite. Bassi valori di
glicemia si possono osservare in caso di shock settico nei
neonati o nell’ipoadrenocorticismo. È importante riconoscere che l’anoressia da sola non è una causa comune di ipoglicemia nella maggior parte dei cani e dei gatti. Si possono osservare riduzioni artificiose dei livelli ematici di glucosio
quando gli eritrociti non vengono separati dal siero entro
breve tempo dal prelievo o nei campioni con un ematocrito
elevato quando vengono analizzati con un Dextrometer.
La stima dell’azotemia fornisce utili informazioni relative
all’eziologia ed alle conseguenze del vomito. Un valore normale di questo parametro esclude l’insufficienza renale o l’iperazotemia postrenale come causa prossima dell’emesi. Gli
incrementi dell’azotemia, invece, non permettono di distinguere l’iperazotemia prerenale da quella dovuta ad altre cause. Prima di iniziare la fluidoterapia è necessario prelevare un campione di urina, in modo da determinarne il peso specifico pre-
207
cedente la somministrazione dei fluidi. In entrambi i casi, il
monitoraggio sequenziale del valore dell’azotemia dopo rianimazione mediante fluidoterapia contribuisce ulteriormente a
distinguere l’iperazotemia prerenale da quella renale.
Anche la misurazione dei livelli di elettroliti può fornire
utili indicazioni. Il sodio è il principale catione extracellulare ed è distribuito uniformemente in tutto il volume del fluido extracellulare (ECF). L’ECF è costituito sia dai fluidi intravascolari che da quelli interstiziali. In realtà, il sodio è uno
dei principali fattori che determinano l’osmolalità dei fluidi
extracellulari. Dal momento che l’osmolalità regola il volume dell’ECF, ne deriva che la quantità di sodio è uno dei
principali fattori che determinano la quantità totale dell’ECF. Negli animali normali, l’equilibrio fra l’assunzione
del sodio con la dieta e la sua escrezione attraverso il rene
determina il sodio totale dell’organismo. Se quest’ultimo è
elevato, si ha un’espansione dell’ECF - che si manifesta clinicamente con edema o raccolte di fluidi nelle cavità corporee. Se il sodio totale dell’organismo è basso, il volume dell’ECF diminuisce, e la condizione si manifesta clinicamente
con i segni della disidratazione (scarso turgore della cute,
secchezza delle mucose) o dell’ipovolemia (vasocostrizione,
tachicardia). Esistono numerosi regolatori fisiologici del sodio totale dell’organismo (e quindi dell’ECF). Il più importante è il sistema renina-angiotensina-aldosterone. Le cellule juxtaglomerulari secernono renina in risposta al calo
della perfusione renale (diminuzione del volume efficace di
sangue circolante), che esita infine nell’attivazione dell’angiotensina II. Quest’ultima provoca la ritenzione di sodio da
parte del tubulo renale e promuove il rilascio di aldosterone
dalle surreni. Anche l’aldosterone promuove la ritenzione di
sodio dal nefrone. Oltre a questo sistema, recettori volumetrici situati negli atri e nelle vene cave percepiscono il sovraccarico volumetrico e, quando sono attivati, portano al rilascio di fattore natriuretico atriale, che provoca la perdita di sodio attraverso il rene. Infine, l’attivazione del sistema
nervoso simpatico porta alla ritenzione renale di sodio.
Gli aumenti di Na sono di solito causati dalla perdita di acqua libera, spesso attraverso il tratto gastroenterico, i versamenti o i reni. L’iponatremia in qualsiasi animale che vomiti
deve immediatamente spingere a prendere in considerazione la
possibilità di un ipoadrenocorticismo. Anche la riduzione del
Na nei soggetti con vomito è associata alla perdita di questo
elemento attraverso il tratto gastroenterico. È importante rendersi conto, tuttavia, che la pseudoiponatremia può essere documentata in animali iperglicemici o lipemici. Questa iponatremia spuria non richiede terapia e di solito si risolve con la
correzione del problema sottostante. La più comune anomalia
elettrolitica nei pazienti in condizioni d’emergenza che vomitano è l’ipokalemia. Ciò riflette una perdita di potassio attraverso il tratto gastroenterico associata ad un calo dell’assunzione con il cibo nei soggetti con vomito acuto. L’iperkalemia
può essere associata a gravi conseguenze cardiovascolari quali bradicardia e arresto atriale. Se è presente e grave risulta appropriato un trattamento aggressivo. Le cause dell’iperkalemia
comprendono acidosi metabolica, diminuzione della filtrazione glomerulare e quindi riduzione della secrezione del potassio
ed ipoadrenocorticismo.
208
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Usando i cristalloidi:
come rendere razionale la scelta della fluidoterapia
Lesley G. King
MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA
IDENTIFICARE LA NECESSITÀ
DELLA FLUIDOTERAPIA
Un approccio logico alla fluidoterapia basato sulla valutazione clinica accurata e sul monitoraggio del paziente può
rendere efficace la gestione dei fluidi con scarse complicazioni. È bene ripetere alcune importanti definizioni fornite
nella relazione precedente, perché costituiscono la base delle nostre decisioni riguardo alla fluidoterapia:
La disidratazione implica una perdita di fluidi dallo spazio interstiziale, e di solito si verifica più lentamente delle
perdite intravascolari che insorgono nello shock. I suoi segni
clinici sono rappresentati da persistenza delle pliche cutanee, mucose secche ed occhi infossati o vitrei. Ovviamente,
in alcuni animali si può avere la presenza simultanea di vari
gradi di shock e disidratazione.
Lo shock può essere semplicemente definito come la
mancata perfusione tissutale ed implica un calo del volume
intravascolare efficace dell’animale. Viene clinicamente riconosciuto nel gatto sulla base della presenza di pallore delle mucose, polso debole e debolezza generalizzata o collasso. I cani possono presentare pallore delle mucose e polso
debole, ma in questa specie animale si osserva anche uno
shock iperdinamico caratterizzato da mucose iperemiche e
polso saltellante.
Ai fini pratici, sia nei cani e nei gatti adulti che in quelli
che non hanno ancora raggiunto la maturità, la fluidoterapia
viene distinta in due tipi. Possiamo scegliere di somministrare un bolo di fluidi caratterizzato dalla rapida (nell’arco di
20-30 minuti) iniezione di volumi variabili di fluidi per via
endovenosa, oppure possiamo optare per una velocità di infusione più lenta e più costante, nell’arco di molte ore, rimpiazzando molto più gradualmente il volume perduto. Il metodo ed il tipo di fluido prescelto dipendono dal comparto
fluido dell’organismo che è necessario riempire nuovamente
e questa decisione si basa sui semplici riscontri dell’esame
clinico e dei risultati di laboratorio degli esami di base.
Quando si prende in considerazione il ricorso alla fluidoterapia, è necessario dare sempre la priorità alla rapida riespansione ed al mantenimento del volume intravascolare,
perché una sua diminuzione esita in un calo dell’apporto di
ossigeno ai tessuti e nel conseguente danno e morte cellulare. Al contrario, la disidratazione che si verifica in un paziente con un volume intravascolare apparentemente normale può essere rimpiazzata gradualmente. Pertanto, gli animali con segni di shock vengono di solito trattati con boli di
fluidi, mentre quelli disidratati possono essere sottoposti ad
un’infusione più conservativa, finalizzata al ripristino delle
perdite nell’arco di 12-24 ore.
Dosaggio della terapia con fluidi
cristalloidi
Dosaggio della fluidoterapia nei pazienti
disidratati
La fluidoterapia nei pazienti disidratati si basa sul calcolo e sulla graduale correzione del deficit interstiziale nell’arco di 12-24 ore. Per rimpiazzare le perdite è necessario
infondere una soluzione elettrolitica bilanciata isotonica ed
effettuare il monitoraggio e l’integrazione secondo necessità
delle concentrazioni di elettroliti come il potassio. Il fabbisogno di soluzioni cristalloidi per il ripristino completo dei
deficit viene calcolato come segue:
Deficit totale =
[Fabbisogni di mantenimento (2-4 ml/kg/ora)]
+ [valore stimato delle perdite in atto]
+ [percentuale di disidratazione
(Peso corporeo x percentuale di disidratazione)]
Una volta calcolato il deficit totale per un periodo di 24
ore, è possibile stabilire una velocità di infusione che consenta di rimpiazzare la quota mancante nell’arco del periodo
di tempo desiderato.
Dosaggi della fluidoterapia nei pazienti
in shock
La fluidoterapia resta il caposaldo del trattamento dello
shock associato alla diminuzione del volume intravascolare.
Apportando grandi quantità di fluidi endovenosi, ci auguriamo di migliorare il volume del sangue circolante, diminuire
la viscosità sanguigna ed incrementare il ritorno venoso, favorendo così il miglioramento della gittata cardiaca. Di conseguenza, si ha un aumento della perfusione tissutale, che
inizia a far regredire l’acidosi cellulare ed offre un apporto
di ossigeno alle cellule. È importante rendersi conto che il
volume di sangue circolante non deve solo essere riportato
alla normalità ma, in molti casi, spinto a valori superiori alla norma. Per ottenere questo risultato può essere necessario
impiegare volumi molto elevati di fluidi endovenosi. Il cristalloide ideale è una soluzione di ripristino bilanciata come
quella di Ringer lattato. Si può prendere in considerazione
l’iniezione di boli antishock di 90 ml/kg nei cuccioli e nei
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cani adulti e di 60 ml/kg nei gattini e nei gatti. Inizialmente
si iniettano rapidamente 30-40 ml/kg mentre l’animale viene attentamente osservato per rilevare una risposta o la comparsa di segni che indichino che il bolo di fluidi sta causando un problema. Se il paziente inizia a migliorare, il clinico
può rallentare la somministrazione del fluido prima di aver
infuso totalmente il bolo. Molti soggetti in grave stato di
shock necessitano di un bolo completo di 60-90 ml/kg. In
una situazione di emergenza, specialmente quando non c’è
molto tempo a disposizione per la somministrazione di un
bolo antishock completo di soluzioni cristalloidi, si può impiegare una soluzione ipertonica (7,5%) di NaCl, alla dose di
5 ml/kg. Questa soluzione agisce aumentando rapidamente
l’osmolalità dello spazio vascolare e quindi trascinando l’acqua fuori dall’interstizio nella vascolarizzazione. Inoltre,
mentre la soluzione ipertonica procede attraverso l’arteria
polmonare, vengono stimolati una varietà di riflessi che esitano in un incremento della gittata cardiaca e della perfusione renale. A causa di una natriuresi indotta e della rapida ridistribuzione delle molecole di sodio, gli effetti positivi della soluzione ipertonica sono però di breve durata. La rianimazione antishock con NaCl al 7,5% deve essere seguita da
un’appropriata fluidoterapia secondo le modalità richieste
per mantenere i parametri fisiologici normali. Per ottenere
una soluzione al 7,5% di cloruro di sodio, di solito si diluisce con destrano o amido eterificato una soluzione ipertonica di NaCl al 23,4% in rapporto 1 : 2,5; questo metodo consente di prolungare efficacemente la durata d’azione di questo fluido da rianimazione.
Dopo un periodo di shock, il supporto fluidoterapico non
deve essere interrotto bruscamente. È importante continuare
a garantire una certa espansione del volume intravascolare,
in modo da assicurare un’adeguata perfusione renale costante e continuare a rimpiazzare tutte le eventuali perdite in atto. Una volta che il bolo antishock sia stato completato, la
maggior parte dei pazienti necessita quindi di infusione endovenosa continua di fluidi di ripristino a velocità pari a 2-3
volte quella di mantenimento (circa 4-12 ml/kg/ora). La velocità di infusione necessaria e la durata totale della fluidoterapia endovenosa variano notevolmente da un soggetto all’altro. Dopo la rianimazione iniziale, alcuni animali in
shock settico possono quindi richiedere più di 8-14
ml/kg/ora nelle prime 24 ore di rianimazione. I cani con perdite idriche in atto (grave diarrea, peritonite ecc…) possono
aver bisogno di elevati volumi di fluidi per mantenere livelli normali di frequenza cardiaca, qualità del polso e produzione di urina. La velocità della fluidoterapia viene determinata attraverso parametri clinici come la frequenza cardiaca,
la pressione sanguigna e la produzione di urina. Per facilitare la scelta di un fluido e stabilire se sia necessaria o meno
la somministrazione di potassio è importante valutare frequentemente i livelli sierici degli elettroliti (Na, K).
TRATTAMENTO FLUIDOTERAPICO
NEI PAZIENTI CON PERDITE EMATICHE
NEI POLMONI
La maggior parte degli animali con contusione polmonare o emorragia polmonare abbastanza significativa da
209
causare uno shock ipovolemico mostra i segni clinici di una
difficoltà respiratoria. Questi pazienti si trovano evidentemente a disagio, con un aumento della frequenza e dello
sforzo respiratorio, adattamenti posturali quali tendenza a
rifiutare di sdraiarsi, abduzione del gomito ed estensione
del collo, pallore, mucose bianche o cianotiche e suoni polmonari aspri o rantoli all’auscultazione toracica. Poiché lo
pneumotorace è una causa comune di difficoltà respiratoria
nei pazienti traumatizzati, oltre a trattare le contusioni polmonari si deve prendere in considerazione il ricorso alla toracentesi diagnostica.
Bisogna avviare immediatamente l’ossigenoterapia mediante maschera facciale, cannula nasale o gabbia ad ossigeno. Se è presente un’ipossia, la somministrazione di ossigeno da sola può talvolta determinare un miglioramento dello
status cardiovascolare di questi pazienti. La considerazione
più importante nella rianimazione mediante fluidoterapia di
un animale con contusioni polmonari è il rischio di incrementare l’emorragia dopo la somministrazione di fluidi e
quindi di aggravare la compromissione respiratoria. Il miglioramento della pressione sanguigna con la somministrazione di cristalloidi e colloidi esita in un incremento della
pressione idrostatica capillare ed è potenzialmente in grado
di esacerbare lo spostamento dei fluidi nell’interstizio del
polmone. I colloidi e/o la soluzione ipertonica di NaCl possono teoricamente passare nell’area dell’emorragia e, attraverso l’incremento della pressione oncotica od osmotica,
trascinare con sé l’acqua. In effetti, in qualsiasi paziente che
abbia subito un’emorragia polmonare ci si aspetta un certo
grado di concomitante edema polmonare dopo la rianimazione mediante fluidoterapia.
Nei pazienti con contusioni polmonari, i colloidi potrebbero essere considerati vantaggiosi perché rispetto ai cristalloidi richiedono l’infusione di un minor volume per la rianimazione dallo shock. I cristalloidi possono avere una maggiore tendenza a distribuirsi nello spazio interstiziale, il che
potrebbe aggravare l’edema polmonare e l’emorragia se il sistema linfatico polmonare non è in grado di mantenere inalterati i volumi prodotti. Nei pazienti con aumento della permeabilità microvascolare, i colloidi possono anche essere
una migliore scelta di fluido grazie alla loro elevata massa
molecolare. Nelle gravi sindromi da filtrazione capillare polmonare, tuttavia, queste soluzioni possono anche fuoriuscire
dai vasi e passare nell’interstizio, con il rischio che facciano
più male che bene. Il clinico deve utilizzare le proprie capacità di valutazione per decidere se nei singoli pazienti con
contusioni polmonari siano appropriati i cristalloidi o i colloidi. Nei casi dubbi, e quando il paziente presenta livelli significativamente bassi di TS, si può somministrare una piccola dose di prova di colloidi ed osservare accuratamente il
soggetto per valutare la risposta alla terapia. Se dopo questa
dose di prova si osserva un deterioramento dello status respiratorio del paziente, l’ulteriore somministrazione di colloidi è da evitare.
Quando sono presenti contusioni polmonari, si deve procedere per incrementi molto piccoli del bolo antishock di
cristalloidi o colloidi, valutando continuamente la funzione
dell’organo colpito. Quando i pazienti con difficoltà respiratorie mostrano anche i segni dello shock, la determinazione
del volume totale di fluidi necessario per la rianimazione
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può essere molto impegnativa. Ancora una volta, il clinico si
trova a cercare di camminare lungo una linea sottile fra il miglioramento della perfusione tissutale ed il peggioramento
dello status polmonare. Per stabilire da che parte penda la bilancia risultano utili le misurazioni in serie della produzione
di urina, dei vari parametri dell’analisi dell’urina, della pressione arteriosa, dei livelli arteriosi di lattati e dei gas ematici arteriosi. In alcuni pazienti che possono tollerare solo piccoli volumi di fluidi, può essere necessario aggiungere alla
terapia la somministrazione di catecolamine per aumentare
la pressione sanguigna ad uno stadio della rianimazione
molto più precoce del solito.
Nonostante l’uso oculato della fluidoterapia, nei pazienti più gravemente colpiti l’emorragia polmonare può continuare, l’edema interstiziale si può accumulare e la funzione
polmonare può deteriorarsi. Dopo la fluidoterapia, in alcuni
di questi pazienti, una volta ottenuta un’adeguata espansione del volume intravascolare, si può prendere in considerazione il ricorso a piccole dosi di diuretici (furosemide 0,5-1
mg/kg o 0,1-0,3 mg/kg/ora a velocità di infusione costante CRI) nel tentativo di risolvere la componente della compromissione respiratoria rappresentata dall’edema polmonare.
Non ci si deve attendere che i diuretici eliminino gli eritrociti dal parenchima polmonare e, poiché il meccanismo primario dell’azione di questi farmaci è quello di ridurre il volume intravascolare attraverso l’induzione della diuresi, non
esiste alcun presupposto razionale per il loro uso immediatamente dopo la presentazione dell’animale alla visita. Se la
PaO2 rimane inferiore a 60 mm Hg o se la PaCO2 resta superiore a 50 mm Hg, nonostante un’integrazione con ossigeno con una FiO2 del 60% o superiore, si deve prendere in
considerazione il ricorso alla ventilazione meccanica come
mezzo per sostenere il paziente fino alla risoluzione delle
contusioni polmonari.
TRATTAMENTO FLUIDOTERAPICO
DEI PAZIENTI CON EMORRAGIA
INTRACRANICA
I riscontri dell’esame clinico di un animale che abbia riportato un trauma cranico ed una perdita ematica intracranica variano in funzione dell’entità e della sede dell’emorragia. I segni clinici che devono mettere in sospetto il veterinario sono rappresentati dalla presenza di sangue nelle orecchie, epistassi, emorragie sclerali, ifema e fratture del cranio
e/o della mandibola. Inoltre, si riscontrano manifestazioni
neurologiche quali anisocoria, depressione del sensorio, crisi convulsive e/o coma. I pazienti con trauma cranico devono essere valutati accuratamente per determinare la gravità
dello shock e l’entità delle concomitanti lesioni dei tessuti
molli e delle strutture ortopediche nel resto dell’organismo.
La priorità più importante in questi casi è il mantenimento della pressione arteriosa sistemica per prevenire l’ipoperfusione cerebrale. La pressione di perfusione cerebrale
è direttamente correlata a quella arteriosa e, in presenza di
shock ipovolemico e ipoperfusione, si può avere una morte
ischemica delle cellule neuronali. Questi elementi rilasciano
quindi citochine e radicali liberi dell’ossigeno che portano
ad un incremento della permeabilità capillare con conse-
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guenti edemi, vasodilatazione e innalzamento della pressione intracranica. La seconda priorità nei pazienti con trauma
cranico è il mantenimento dell’ossigenazione e la necessità
di evitare assolutamente i periodi di ipossia. Bisogna monitorare accuratamente il contenuto di ossigeno arterioso utilizzando la pulsossimetria o l’emogasanalisi arteriosa e, nei
casi dubbi, effettuare la somministrazione di un’integrazione con ossigeno al 40%. Si ritiene che il fluido d’elezione
nel trauma cranico sia la soluzione ipertonica di NaCl
(7,5%) visto che alcune segnalazioni hanno dimostrato che
può avere un effetto protettivo a livello cerebrale. In virtù
della sua azione osmotica, la soluzione salina ipertonica trascina i fluidi dall’interstizio nello spazio vascolare, diminuendo così l’edema. La sua capacità di aumentare la contrattilità cardiaca e ridurre la resistenza vascolare sistemica
attraverso la vasodilatazione periferica può esitare in un miglioramento della pressione di perfusione cerebrale. Un bolo antishock di soluzione salina ipertonica è costituito da 5
ml/kg in confronto ai 90 ml/kg di cristalloidi isotonici. Quindi, dato il ridotto volume necessario per la rianimazione, i
possibili effetti protettivi cerebrali e le azioni a livello vascolare, la soluzione salina ipertonica è il fluido d’elezione
per il trauma cranico. Le possibili complicazioni sono rappresentate da ipernatremia transitoria, ipercloremia ed iperosmolalità. Per la rianimazione dei pazienti con trauma cranico in stato di shock si possono utilizzare anche i colloidi, che
risultano potenzialmente utili in questa popolazione di pazienti a causa dei minori volumi necessari per la rianimazione e delle minori probabilità di fuoriuscita dai vasi e passaggio nell’interstizio. Se è presente un’emorragia intracranica
in atto, sia la soluzione salina ipertonica che i colloidi potrebbero teoricamente passare nell’area dell’emorragia e trascinare con sé l’acqua, aggravando le dimensioni della lesione. Data la natura chiusa e non espandibile del cranio, anche un’emorragia di lieve entità può portare ad un incremento deleterio della pressione intracranica, con conseguente calo della perfusione cerebrale. È estremamente importante eseguire frequenti esami neurologici. Se la funzione
neurologica peggiora o se si rilevano segni di incremento
della pressione intracranica, si deve instaurare un ulteriore
trattamento. Le modalità terapeutiche per ridurre la pressione intracranica sono rappresentate da somministrazione di
mannitolo (0,5-1 g/kg nell’arco di 20 minuti), sollevamento
della testa e del collo su una tavola, prevenzione della tosse
e delle compressioni giugulari e mantenimento della ventilazione a valori di PaCO2 compresi fra 30 e 32 mm Hg.
ANOMALIE DEI LIVELLI PLASMATICI
DI ELETTROLITI E FLUIDOTERAPIA
Ipernatremia
Nella maggior parte dei casi, in ambito clinico l’ipernatremia si verifica come conseguenza di perdite idriche superiori a quelle di sodio. Poiché l’ipernatremia è una causa
molto potente di rilascio di ADH e di risposta della sete, la
sua insorgenza richiede che l’incremento della perdita idrica
sia accompagnato da una diminuzione dell’accesso all’acqua o della capacità di ingerirla. L’animale può essere colpi-
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to da una malattia neurologica che impedisce una risposta
appropriata, oppure da un’affezione gastroenterica che preclude l’ingestione di acqua. Le cause più comuni di perdita
idrica sono rappresentate da:
• Perdita gastroenterica attraverso vomito e/o diarrea
• Aumento delle perdite insensibili (ad es. pazienti in
ventilazione)
• Diabete insipido centrale (mancato rilascio di ADH)
- idiopatico
- da neoplasia
- da encefalopatia ipossica
- da trauma
• Diabete insipido nefrogeno (mancata risposta all’ADH)
- alcune forme di nefropatia
- ipercalcemia
- alcool
- ipokalemia (< 3,0 mmol/l)
- diuresi osmotica
Occasionalmente, l’ipernatremia può derivare da un sovraccarico di sodio - ingestione o somministrazione iatrogena di soluzioni ad elevato contenuto di questo elemento. I
gravi incrementi dei livelli plasmatici di sodio nell’avvelenamento da sale sono principalmente associati a segni neurologici come crisi convulsive, coma o morte. Le cause più
comuni del sovraccarico di sodio sono rappresentate da:
• Ingestione di sale (accidentale o come emetico)
• Somministrazione di soluzione salina ipertonica (>
0,9% NaCl)
• Somministrazione di NaHCO3 durante la rianimazione o CPR
L’ipernatremia non va mai corretta troppo rapidamente.
Attualmente si suggerisce di ridurre i livelli sierici di sodio
ad una velocità massima di 0,5 mmol/l per ora. I casi di deficit di acqua (di gran lunga la causa più comune di ipernatremia) vengono trattati mediante ripristino dell’acqua libera utilizzando la fluidoterapia endovenosa isotonica o ipotonica. I fluidi da ripristino isotonico vengono scelti se il paziente necessita di boli o infusioni ad elevata velocità di flusso, mentre quelli ipotonici non vanno utilizzati come boli. I
casi confermati di sovraccarico di sodio vengono trattati con
diuretici per indurre una diuresi di sodio ed acqua e una concomitante fluidoterapia endovenosa.
211
Iponatremia
L’iponatremia può essere dovuta sia alla perdita di soluto (sodio) che alla ritenzione di acqua. Nei piccoli animali,
la causa più comune sembra essere la prima, mentre nell’uomo può risultare più frequente la ritenzione idrica. La
perdita di fluidi isotonici attraverso il tratto gastroenterico o
i versamenti nelle cavità corporee può esitare in iponatremia
se i liquidi persi vengono rimpiazzati dall’ingestione di acqua libera o se questa viene ritenuta in seguito al rilascio di
ADH. Le cause più comuni dell’iponatremia sono rappresentate da:
• Perdita relativa di soluti attraverso vomito e/o diarrea
• Perdita relativa di soluti da danno tissutale, come in caso di ustioni o ferite da morso
• Perdita relativa di soluti in cavità corporee (in particolare peritonite)
• Somministrazione di diuretici
• Ipoadrenocorticismo
• Sindrome di inappropriata secrezione di ADH
• Polidipsia primaria
• Iperglicemia o iperosmolalità (trascinamento di acqua
nel plasma e conseguente iponatremia da diluizione)
• Pseudoiponatremia [Quando si verifica una riduzione
della frazione plasmatica composta da acqua, ad esempio in caso di grave iperlipemia o iperproteinemia), la
concentrazione plasmatica di sodio (misurata per litro
di plasma, non acqua plasmatica), può venire artificiosamente diminuita. In questi pazienti, l’iponatremia
non richiede alcuna terapia.]
In generale, se il soggetto ha subito una deplezione volumetrica, l’iponatremia viene trattata con la somministrazione di fluidi endovenosi contenenti sodio. Questa è la situazione più comune nella clinica dei piccoli animali. Se il
paziente è normovolemico o ha subito un sovraccarico volumetrico, il trattamento può semplicemente richiedere la
restrizione dell’assunzione di acqua o una riduzione della
dose di diuretico. Inoltre, è di importanza vitale trattare la
causa sottostante - ad esempio, la somministrazione di mineralcorticoidi in pazienti con ipoadrenocorticismo. Ancora una volta, è preferibile aumentare la concentrazione di
sodio ad una velocità che non superi il limite di 0,5 mmol/l
per ora.
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I colloidi nella rianimazione e nel mantenimento:
quando, come, quanto e perché?
Lesley G. King
MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA
La determinazione degli esami ematochimici d’emergenza, rappresentati da ematocrito, proteine totali, glicemia ed
azotemia, è parte integrante della valutazione iniziale e del
trattamento di tutti i pazienti in condizioni critiche. L’ematocrito viene misurato utilizzando una provetta e una centrifuga da microematocrito, mentre i livelli di proteine totali si
determinano facilmente utilizzando un rifrattometro. La conoscenza dell’ematocrito permette al clinico di stabilire se il
paziente è anemico, nel qual caso potrebbe essere necessario
utilizzare degli emoderivati per la sua stabilizzazione e rianimazione. La ragione più importante per effettuare la misurazione delle proteine totali è ottenere un’indicazione generale del grado di disidratazione e della pressione colloidosmotica (COP) del sangue, che rende più facile prendere alcune importanti decisioni relative al tipo di fluidoterapia da
attuare per la rianimazione del paziente. I livelli iniziali dell’ematocrito e delle proteine totali costituiscono inoltre un
valore basale da utilizzare come riferimento per il confronto
in futuro degli stessi parametri rilevati mentre il trattamento
è in atto. Le misurazioni seriali dell’ematocrito e dei livelli
di proteine totali ed il monitoraggio frequente dei parametri
rilevabili attraverso l’esame clinico risultano estremamente
importanti nei casi in cui esiste un’emorragia attiva.
COLLOIDI E PRESSIONE
COLLOIDOSMOTICA
In termini fisiologici, le particelle di soluti presenti nel
plasma possono essere suddivise in cristalloidi (principalmente elettroliti) con pesi molecolari inferiori a 30.000 Dalton e colloidi (principalmente proteine plasmatiche) con pesi superiori a 30.000 Dalton. L’endotelio vascolare agisce
come una membrana semipermeabile, che di solito non consente il passaggio dei colloidi nell’interstizio, mentre permette il libero spostamento delle particelle di cristalloidi. Rispetto al liquido interstiziale, il plasma contiene più particelle colloidi, che esercitano una pressione colloidosmotica
attraverso la membrana semipermeabile dell’endotelio vascolare. La presenza di proteine nel plasma promuove il
mantenimento del volume intravasale attraverso la ritenzione di acqua e cristalloidi nel comparto intravascolare. La
pressione colloidosmotica del sangue è quindi una caratteristica importante che determina il flusso dei liquidi fra i vari
comparti fluidi dell’organismo.
Per trattare un cane o un gatto in shock ipovolemico è necessario decidere se utilizzare per la rianimazione iniziale
cristalloidi, colloidi, emoderivati o tutti e tre. Questa decisione dipende principalmente dai valori di ematocrito e proteine totali del paziente al momento della presentazione alla
visita. Se le proteine totali (e quindi la COP) sono basse, è
possibile la comparsa di un edema che potrebbe essere esacerbato dalla somministrazione di fluidi cristalloidi. Di conseguenza, in questa situazione come fluidi da rianimazione
si utilizzano spesso plasma o colloidi di sintesi invece dei
cristalloidi, perché questi ultimi provocano un’ulteriore significativa emodiluizione ed esitano in gravi diminuzioni
della pressione colloidosmotica. Se le proteine totali sono
inferiori a 4 g/dl, nella maggior parte dei pazienti risulta utile che il bolo infuso per il trattamento dello shock sia costituito in tutto o in parte da colloidi.
Nello shock ipovolemico i colloidi hanno un duplice
vantaggio primario: in primo luogo aumentano rapidamente il volume intravascolare; in secondo luogo, grazie al loro
elevato peso molecolare, quasi tutto il volume somministrato tende a rimanere all’interno dello spazio vascolare. Al
contrario, a causa della rapida ridistribuzione nell’interstizio del 75% dei cristalloidi somministrati, per determinare
l’espansione dello spazio intravascolare è necessario infondere una quantità quadrupla di cristalloidi (in confronto ai
colloidi). Nel cane la dose antishock di cristalloidi è di 6090 ml/kg (45-60 ml/kg nel gatto) che corrisponde ad un volume ematico. Questo valore può essere confrontato con
una dose antishock di colloidi nel cane di 15-20 ml/kg (1015 ml/kg nel gatto). Se si utilizzano insieme cristalloidi e
colloidi, la dose dei primi deve essere ridotta del 40%.
Quindi, in confronto ai cristalloidi, è sufficiente impiegare
volumi relativamente ridotti per ottenere un effetto cardiovascolare simile. Anche se è difficile quantificare clinicamente la riduzione dell’accumulo del fluido interstiziale,
abbiamo osservato a livello aneddotico degli incrementi
della sopravvivenza e dei cali della morbilità in pazienti in
condizioni critiche incrementando l’impiego di soluzioni di
colloidi di sintesi. Queste ultime vanno prese in considerazione in tutti gli animali che necessitano di elevati livelli di
supporto mediante fluidoterapia endovenosa, in particolare
se è presente un’ipoproteinemia.
Negli animali con vasculite, a seconda delle dimensioni del difetto di permeabilità, le molecole colloidi possono
rimanere nello spazio vascolare. I colloidi offrono quindi
un’opzione per l’espansione rapida e prolungata del volume intravascolare. Se la sindrome di perdita vascolare è
grave, tuttavia, le molecole di colloidi possono anche lasciare la vascolarizzazione e passare nell’interstizio, il che
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può esitare in un insuccesso terapeutico. Si può somministrare come prova un bolo di colloidi e valutarne la risposta clinica. Se il paziente mostra un miglioramento, la terapia con colloidi deve continuare. In caso contrario, il clinico deve considerare accuratamente la possibilità che le
grandi molecole siano fuoriuscite dai vasi passando dall’interstizio. In questa situazione, l’impiego dei cristalloidi
potrebbe rappresentare un’opzione più sicura, perché hanno minori probabilità di determinare una spinta osmotica,
esacerbando l’edema interstiziale. La misurazione diretta
della pressione colloidosmotica utilizzando un colloidosmometro è l’unico modo obiettivo per valutare la ritenzione di molecole di colloidi nella vascolarizzazione, fornendo utili informazioni aggiuntive per il monitoraggio della
terapia con soluzioni di colloidi.
A. Colloidi di sintesi disponibili
I destrani sono polimeri lineari di glucosio sintetizzati a
partire dal glucosio stesso da batteri del genere Leuconostoc
spp. Sono disponibili in vari pesi molecolari, ma quelli utilizzati più comunemente in ambito clinico sono compresi fra
40.000 e 70.000 Dalton. L’idrossietilamido viene prodotto
mediante modificazione chimica dell’amilopectina, un altro
polimero del glucosio. I pesi molecolari delle molecole di
amido eterificato variano da 30.000 a 2.000.000 Dalton. Al
contrario, le gelatine sono molecole proteiche che di solito
hanno un peso molecolare di 30.000-40.000 Dalton. I colloidi di sintesi vengono eliminati dall’organismo mediante
idrolisi intravascolare che gradualmente rimuove frammenti
di polimero, ed infine tramite escrezione renale quando le
molecole sono diventate abbastanza piccole da filtrare attraverso il glomerulo. Inoltre, le grandi molecole si accumulano all’interno dei macrofagi in tutto l’organismo, senza determinare apparenti effetti indesiderati. L’emivita dei destrani e dell’amido eterificato è di circa 25 ore, ma le grandi molecole di amido eterificato possono resistere per periodi più
lunghi. L’emivita delle gelatine è molto più breve perché le
molecole sono più piccole, e la maggior parte delle preparazioni garantisce solo un’espansione volumetrica di 3-4 ore.
I destrani causano numerose modificazioni della coagulazione, come il rivestimento delle membrane piastriniche,
la precipitazione dei fattori della coagulazione, l’emodiluizione e la diminuzione dell’attività del fattore di Von Willebrand. Questi cambiamenti possono portare ad episodi clinici di emorragia in animali trattati con volumi elevati di destrano. Gli effetti dell’amido eterificato sul sistema della
coagulazione sono simili, ma meno pronunciati. Anche se in
cani in condizioni sperimentali sono state dimostrate modificazioni dei risultati degli esami di laboratorio, è difficile
documentare un’eccessiva emorragia in cani e gatti con malattie ad insorgenza spontanea trattati con volumi elevati di
amido eterificato, perché la maggior parte di questi pazienti
presenta già anche una concomitante coagulopatia da consumo. Quando si somministrano volumi elevati di amido eterificato, effettuiamo contemporaneamente l’infusione di plasma fresco congelato, che sembra prevenire le più gravi coagulopatie e spesso è in grado di normalizzare il profilo della
coagulazione di questi pazienti. È importante riconoscere
213
che i piccoli volumi di plasma fresco congelato necessari ad
apportare i fattori della coagulazione di solito non sono adeguati per garantire un supporto colloidale o cardiovascolare.
Dosaggio dei colloidi
Se sono presenti i segni dello shock, è necessario effettuare un trattamento specifico mediante iniezione di un bolo
di colloidi (20 ml/kg). Le attuali indicazioni in letteratura veterinaria suggeriscono di non superare dosaggi di amido eterificato e destrani superiori a 20 ml/kg/die. Recenti ricerche
sperimentali nel cane hanno dimostrato che dosaggi di amido eterificato superiori a 20 ml/kg possono causare una coagulopatia, che è principalmente del tipo da diluizione, ma
anche dovuta ad inattivazione del fattore di von Willebrand
ed agli effetti diretti sulle piastrine. Questa posologia massima, tuttavia, è basata su studi condotti in cani normali. Noi
abbiamo riscontrato che questo dosaggio spesso deve essere
notevolmente superato nei soggetti in condizioni critiche,
senza che ciò comporti la comparsa di effetti indesiderati
evidenti. Per mantenere il volume intravascolare e la pressione colloidosmotica nei pazienti settici, può essere necessario utilizzare i colloidi a dosi fino a 40-60 ml/kg/die. Mentre dosaggi inferiori a 20 ml/kg di qualsiasi colloide di sintesi sembrano essere sicuri, se è necessario impiegare dosaggi più elevati suggeriamo la concomitante somministrazione di plasma fresco congelato (10-15 ml/kg) come fonte
di fattori della coagulazione. Nei casi in cui all’infusione di
volumi elevati di amido eterificato si associa il plasma, la
comparsa di coagulopatie clinicamente rilevanti e direttamente attribuibili ai colloidi di sintesi sembra essere inusuale. Inoltre, il plasma fresco congelato costituisce un’importante fonte di albumina e di altri fattori come l’antitrombina
III, un modulatore della cascata della coagulazione. Poiché
la coagulopatia indotta dai destrani è più grave di quella dovuta all’amido eterificato, i dosaggi del destrano 70 non devono essere superiori a 20 ml/kg/die. Il clinico deve monitorare accuratamente i parametri fisiologici secondo le modalità descritte più oltre per determinare i fabbisogni idrici in
atto di ogni singolo individuo.
L’amido eterificato può essere somministrato a velocità
di infusione molto rapide nell’ambito di un bolo totale per il
trattamento dello shock, se lo si desidera. I dosaggi del bolo
antishock sono molto inferiori a quelli dei cristalloidi, perché all’interno della circolazione viene trattenuta una quantità più elevata di colloidi. Per la rianimazione in caso di
shock si possono utilizzare dosaggi totali di 15-20 ml/kg, solitamente procedendo per aumenti di 5 ml/kg alla volta. Nei
pazienti in shock che presentano bassi livelli plasmatici di
proteine, queste posologie elevate possono rappresentare
una parte vitale della rianimazione dallo shock. Nel gatto, rispetto al cane, l’amido eterificato va somministrato più lentamente, perché esiste la segnalazione di un’incidenza aneddotica di reazioni anafilattiche avverse come il vomito e la
difficoltà respiratoria. Quindi, è possibile somministrare un
bolo di 5 ml/kg ogni 15 minuti nel cane, ma nel gatto bisogna attendere più di 30-40 minuti. Quando si utilizzano i colloidi di sintesi nei felini, è necessario stare attenti, perché in
questa specie animale si può verificare facilmente un sovraccarico idrico. In generale, noi non raccomandiamo di superare il limite di 25 ml/kg/die (1 ml/kg/ora a velocità di in-
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fusione costante - CRI) in questa specie, a meno che non si
stia monitorando la pressione venosa centrale. Quando si utilizzano colloidi di sintesi per il trattamento continuo dei pazienti ipoproteinemici in condizioni critiche, raccomandiamo di effettuare la misurazione della pressione colloidosmotica per determinare la dose richiesta.
Monitoraggio della terapia con colloidi
Con l’aumento dell’impiego dei colloidi di sintesi nei pazienti in condizioni critiche, l’uso delle proteine totali come
stima della pressione colloidosmotica diventa problematico.
Dopo la somministrazione di queste soluzioni ai pazienti,
qualsiasi correlazione fra TP e COP va perduta, perché il rifrattometro non misura i colloidi di sintesi. Fra questi ultimi,
quelli comunemente utilizzati come l’amido eterificato ed i
destrani non determinano modificazioni prevedibili delle
misurazioni delle TP. Il valore di queste ultime può essere
molto basso, ma la COP può essere entro i limiti normali a
causa della presenza delle molecole dei colloidi di sintesi.
Queste soluzioni possono quindi aumentare efficacemente il
valore della COP, con risoluzione di versamenti o edema, a
dispetto del fatto che le TP restino immutate o siano persino
diminuite. Quando si utilizzano i colloidi di sintesi per il
trattamento dei pazienti, può essere estremamente difficile
calibrare l’adeguatezza della terapia. Senza la capacità di
misurare direttamente la COP, l’unico modo per monitorare
la terapia con colloidi di sintesi è quello di basarsi sui segni
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clinici manifestati dal paziente. I riscontri clinici come il miglioramento dello stato emodinamico o la risoluzione dell’edema possono fornire utili informazioni, ma dipendono da
una varietà di fattori, come la presenza di sepsi o vasculite,
e non solo dalla COP. Questa situazione è analoga a quella
che si verificherebbe se effettuassimo trasfusioni di sangue
senza monitorare i risultati mediante determinazioni in sequenza dei valori di ematocrito o pressione venosa centrale.
Inoltre, i colloidi di sintesi non determinano un aumento prevedibile della COP secondo una modalità correlata alla dose. Le perdite in atto di collodi dovute a vasculiti, versamenti o perdite attraverso il tratto gastroenterico possono esitare
in un incremento minimo della COP nonostante un dosaggio
apparentemente adeguato. La misurazione diretta della pressione colloidosmotica è quindi l’unico modo per monitorare
efficacemente la terapia con colloidi di sintesi.
L’osmometria dei colloidi è quindi uno dei più importanti mezzi di monitoraggio disponibili per i clinici che si dedicano al trattamento dei pazienti in condizioni critiche ed utilizzano la terapia con colloidi di sintesi. Le misurazioni seriali della COP contribuiscono a determinare se i colloidi
stiano rimanendo nello spazio vascolare ed a valutare l’efficacia della terapia. I valori medi della COP nel sangue intero dei cani normali sono pari a 19,95 ± 2 mm Hg, mentre nei
gatti normali sono di 24,7 ± 3,7 mm Hg. Lo scopo della terapia con colloidi dovrebbe essere quello di mantenere il valore di COP al di sopra di 15 mm Hg.
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La fluidoterapia nel gatto: è diversa dal cane?
Lesley G. King
MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA
Nei felini, la fluidoterapia presenta parecchi aspetti che
differiscono dal cane. La prima è più importante distinzione
fra le due specie animali è che in condizioni normali il volume ematico del gatto (circa 60 ml/kg) è minore di quello del
cane (circa 90 ml/kg). Poiché il bolo di fluidi utilizzato per
il trattamento dello shock è derivato dal volume ematico, in
generale nel gatto rispetto al cane la fluidoterapia necessita
di essere somministrata in modo molto più conservativo. I
gatti sono molto più suscettibili al sovraccarico di fluidi e bisogna stare molto attenti a non determinare la comparsa di
segni clinici da eccesso volumetrico, rappresentati solitamente da difficoltà respiratorie dovute alla presenza di un
versamento pleurico. Di conseguenza, non solo si somministrano di solito volumi più bassi, ma i boli di fluidi, soprattutto colloidi, vengono iniettati molto più lentamente.
FISIOPATOLOGIA DELLO SHOCK
NEL GATTO
Lo shock ipovolemico nel gatto si presenta in modo simile a quello riscontrato nel cane. Come in quest’ultimo, i
gatti con ipovolemia acuta sono solitamente pallidi, tachicardici con polso prima saltellante e poi debole.
Lo shock cardiogeno è molto più comune nel gatto che
nel cane, con un’insufficienza diastolica che si verifica di
frequente nei gatti con miocardiopatia ipertrofica. Poiché gli
animali con shock cardiogeno generalmente non devono essere trattati con fluidi endovenosi, la terapia di questo problema non verrà illustrata in questa relazione. Dal punto di
vista clinico, nel gatto rispetto al cane lo shock settico si presenta in modo leggermente differente (e scarsamente compreso). Anche se la fisiopatologia generale dell’infiammazione come sequela della presenza di batteri o endotossine è
la stessa, i segni clinici fra le due specie differiscono. Nel
gatto, lo stadio iperdinamico o iperemico dello shock settico
si osserva molto raramente. Invece, i gatti con sepsi di solito sembrano progredire direttamente verso lo stadio vasocostrittivo dello shock settico. Quindi, si presentano clinicamente con pallore delle mucose, polso debole e collasso generalizzato, manifestazioni non facilmente distinguibili da
quelle dello shock ipovolemico. I gatti settici sono spesso
ipotermici e mostrano frequentemente i segni di un’anemia
lieve o moderata e di ittero.
Nei gatti con shock settico si osserva un interessamento
spesso drammatico, ma temporaneo, della funzione cardiaca, un fattore che riveste un notevole significato per le decisioni relative alla fluidoterapia. In questi animali, la con-
trattilità cardiaca è spesso diminuita, il cuore può apparire
ingrossato e l’atrio sinistro può essere aumentato di dimensioni: tutti riscontri che simulano la miocardiopatia. Da un
punto di vista clinico la frequenza cardiaca può essere un
utile indizio circa la presenza di una funzione cardiaca anormale nei gatti con sepsi. Gli animali colpiti da alterazioni
miocardiche dovute a sepsi sono spesso bradicardici, con
frequenze cardiache di 120-160 bpm. Questo valore risulta
inappropriato in presenza di ipovolemia ed ipotensione. È
necessario rilevare la bradicardia eventualmente presente ed
effettuare la somministrazione di fluidi in modo oculato,
perché esiste un rischio reale che la fluidoterapia possa esitare in versamento pleurico ed edema polmonare. La causa
di queste modificazioni cardiache, che sembrano essere del
tutto reversibili in seguito a risoluzione della sepsi, non è
stata ben compresa.
I FLUIDI CRISTALLOIDI NELLO SHOCK
IPOVOLEMICO E SETTICO DEL GATTO
La fluidoterapia resta il caposaldo del trattamento dello
shock nel gatto e nel cane. Negli animali con shock, attraverso l’infusione endovenosa di elevati volumi di liquidi ci
si augura di migliorare il volume ematico circolante, diminuire la viscosità del sangue ed incrementare il ritorno venoso, contribuendo così a migliorare la gittata cardiaca. Ne
deriva quindi un aumento della perfusione tissutale, che
inizia a far regredire l’acidosi cellulare ed assicura un apporto di ossigeno alle cellule. Per ottenere questo risultato
può essere necessario impiegare volumi molto elevati di
fluidi endovenosi.
Nel cane, si effettua la somministrazione di boli antishock di cristalloidi sostitutivi (Ringer lattato, soluzioni elettrolitiche bilanciate di ripristino) fino a 90 ml/kg nell’arco di
un’ora. Nel gatto, il volume ematico intravascolare è molto
più piccolo che nel cane e la dose totale del bolo antishock
di cristalloidi è di 45-60 ml/kg. Inizialmente, si infondono
rapidamente per via endovenosa 10-30 ml/kg (nell’arco di
15-20 minuti), mentre si tiene l’animale sotto attenta osservazione per rilevarne la risposta o per cogliere i segni del fatto che il bolo di fluidi stia causando un problema. Questa dose può poi essere ripetuta se necessario fino al raggiungimento della posologia totale antishock. Se l’animale inizia a
migliorare, è possibile rallentare la somministrazione prima
che sia stato infuso il bolo totale. Il fine della rianimazione è
il miglioramento della perfusione tissutale, che si riconosce
clinicamente sulla base di un cambiamento favorevole del
216
colore delle mucose, della qualità del polso, della frequenza
cardiaca (che diminuisce avvicinandosi alla normalità) e dello stato del sensorio. Prima, durante e dopo ciascun bolo di
fluidi è necessario effettuare il monitoraggio dei valori di
ematocrito, solidi totali, elettroliti e glicemia.
Il cristalloide ideale è una soluzione sostitutiva bilanciata come quella di Ringer lattato. In condizioni ottimali, come bolo antishock si devono impiegare soltanto fluidi isotonici come le soluzioni elettrolitiche bilanciate sostitutive o
quella di NaCl allo 0,9%. In generale, i fluidi ipotonici come le soluzioni di mantenimento o quella di NaCl allo
0,45% non vanno somministrate sotto forma di bolo, perché
ne può derivare una grave alterazione elettrolitica. Per facilitare la scelta di un fluido e per determinare se sia necessaria un’integrazione con potassio, è importante effettuare frequentemente la valutazione dei livelli sierici degli elettroliti
(Na, K). Gli animali con perdite idriche in atto (grave diarrea, peritonite, ecc…) di solito necessitano di una fluidoterapia continua per mantenere valori normali di frequenza
cardiaca, qualità del polso e produzione di urina. La velocità
della fluidoterapia sostitutiva viene determinata sulla base di
parametri clinici come la frequenza cardiaca, la pressione
sanguigna e la produzione di urina.
Come conseguenza dell’infusione ad elevata velocità di
fluidi cristalloidi possono insorgere diversi problemi, che risultano più gravi nei pazienti ipoproteinemici o in quelli affetti da vasculite. Dal momento che solo il 25% circa di una
soluzione cristalloide rimane in circolo in condizioni normali, ed ancora meno nei pazienti con aumentata permeabilità
vascolare ed ipoproteinemia, si può avere un accumulo di
fluidi interstiziali. I meccanismi di difesa che si oppongono
all’edema come l’incremento del drenaggio linfatico e la diminuzione delle concentrazioni di proteine a livello interstiziale possono essere travolti, portando all’accumulo di fluidi ed alla comparsa di edema. Quest’ultimo, oltre ad ostacolare la funzione degli organi, compromette l’apporto di principi nutritivi alle cellule e conduce ad una compromissione
della guarigione. Gli organi colpiti più gravemente sono i
polmoni, che possono potenzialmente subire una limitazione
dello scambio gassoso. Nel gatto, il versamento pleurico
rappresenta la presentazione più comune del sovraccarico
idrico nei pazienti sottoposti a fluidoterapia ed è probabilmente causato da una associazione di fuoriuscita del contenuto vascolare e scarsa funzione miocardica.
TRASFUSIONI DI SANGUE
Gli emoderivati possono essere molto importanti nel trattamento dello shock e della grave anemia e sono spesso di
utilità vitale nei gatti in condizioni critiche. In questi ultimi,
se l’ematocrito mostra una brusca caduta al di sotto del 20%
circa, la trasfusione di emazie concentrate o di sangue intero può significativamente migliorare l’apporto di ossigeno ai
tessuti ed esitare in un notevole miglioramento della pressione sanguigna. Le trasfusioni di sangue sono spesso ben
tollerate nei gatti in condizioni critiche, anche quando non
sopportano altre forme di fluidoterapia. La trasfusione di
plasma può essere un’utile fonte di albumina in caso di grave ipoproteinemia, specialmente nei pazienti di piccole di-
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mensioni, quando è possibile somministrare volumi relativamente elevati di plasma in confronto al loro peso corporeo.
Per il trattamento delle coagulopatie da diluizione o della
DIC può essere necessario impiegare il plasma fresco o fresco congelato.
Prima della somministrazione, gli emoderivati devono
essere riscaldati ad una temperatura prossima a quella corporea, senza però porli nel forno a microonde o in acqua
troppo calda perché esiste il rischio che ciò causi un’emolisi. Gli emoderivati vanno somministrati utilizzando speciali
filtri per rimuovere tutti i piccoli coaguli eventualmente formatisi. Ciascuna trasfusione deve richiedere da 1 a 2 ore per
essere completata.
Sia nel cane che nel gatto esistono specifici gruppi sanguigni, basati sulla presenza di antigeni sulla superficie degli eritrociti. Nel gatto esistono tre tipi ematici, A, B ed AB,
che è relativamente raro. La maggior parte dei gatti domestici a pelo corto è di tipo A. I gatti differiscono dal cane in
quanto presentano degli anticorpi ad insorgenza spontanea
contro gli altri tipi ematici. Quindi, un gatto di tipo B nasce
con gli anticorpi contro gli eritrociti del tipo A e presenterà
una grave reazione da trasfusione se trattato con sangue di
questo tipo, anche se non è mai stato sottoposto in precedenza a trasfusione. Analogamente, i gatti di tipo A possiedono anticorpi antieritrociti di tipo B, anche se le reazioni da
trasfusione osservate in questo caso non sono così gravi.
Quindi, in tutti i gatti da sottoporre a trasfusione è necessario effettuare prima la tipizzazione del sangue.
Le reazioni da trasfusione possono essere classificate come immunomediate e non immunomediate. Le prime nella
maggior parte dei casi sono emolitiche, dal momento che gli
anticorpi nell’organismo ricevente reagiscono con gli antigeni delle cellule del donatore. Nei gatti di tipo B sottoposti
inavvertitamente a trasfusione con sangue di tipo A, si possono osservare collasso improvviso e morte dopo la somministrazione di solo poche gocce di sangue. Alterazioni respiratorie quali tachipnea ed edema polmonare, o morte improvvisa sono i segni clinici più comuni della reazione da
trasfusione nel gatto. Altre manifestazioni di questo tipo sono rappresentate da:
- ansia, irrequietezza
- orticaria, prurito, edema facciale
- tremori muscolari
- nausea, salivazione, vomito
- emoglobinemia, emoglobinuria
- bilirubinemia, bilirubinuria
- febbre
- tachipnea, apnea
- edema polmonare
- tachicardia
- incontinenza fecale e/o urinaria
- anuria/insufficienza renale
- convulsioni
- shock anafilattico
Se si sospetta una reazione da trasfusione, quest’ultima
va immediatamente interrotta e il paziente deve essere monitorato per rilevare la risoluzione dei segni clinici. Le reazioni più gravi possono richiedere il trattamento con antistaminici o corticosteroidi. Lieve febbre, tachipnea, nausea e
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vomito possono semplicemente rappresentare un’indicazione del fatto che la trasfusione è stata somministrata troppo
rapidamente e può essere ripresa più lentamente.
MONITORAGGIO CARDIOVASCOLARE
DEI GATTI IN STATO DI SHOCK
ECOGRAFIA DOPPLER PER
LA MISURAZIONE DELLA PRESSIONE
ARTERIOSA
I sistemi di rilevamento del polso con metodo Doppler
individuano il flusso di sangue attraverso un vaso oppure il
movimento nella parete dell’arteria. Il metodo più comunemente utilizzato in medicina veterinaria rileva il flusso di
sangue attraverso i vasi e viene tipicamente impiegato per
misurare soltanto la pressione sistolica. Il flusso arterioso
viene rilevato servendosi di onde di ultrasuoni e si percepisce sotto forma di un segnale udibile emesso dall’amplificatore Doppler. Intorno all’arto si applica un manicotto insufflabile che viene gonfiato fino ad occludere il flusso del
sangue arterioso e poi sgonfiato gradualmente. Per ottenere dei rilevamenti accurati il manicotto deve essere posizionato correttamente. La pressione a cui si ha la ricomparsa del fluido è quella sistolica, misurata con uno sfigmomanometro associato all’apparecchio. Per precisione, la
determinazione va ripetuta più volte fino a che non si ottengono risultati costanti.
Con un po’ di pratica risulta relativamente facile effettuare una misurazione della pressione sistolica con l’ecografia Doppler. È stato documentato che i valori così rilevati devono essere di circa 15 mm Hg inferiori a quelli ottenuti mediante misurazione diretta delle pressioni nell’arteria femorale. Di solito è possibile effettuare le letture nei gatti e negli animali con moderata ipotensione, per cui ci si può aspettare che il metodo Doppler fornisca alcune indicazioni sulla
pressione sistolica anche negli animali in condizioni di compromissione, in cui altri metodi hanno fallito. La misurazione risulta non invasiva e ben tollerata da tutti i pazienti ad eccezione di quelli più aggressivi.
I principali svantaggi del metodo Doppler sono due.
Quello più importante è che di solito di ottiene soltanto la
determinazione della pressione sistolica. Anche se questo è
un utile frammento di informazione, il valore della pressione arteriosa media fornisce l’indicatore fisiologicamente più importante della perfusione tissutale a livello capillare. Dal momento che la pressione media è più strettamente correlata a quella diastolica, la conoscenza della sola pressione sistolica può essere più fuorviante se quella
diastolica è bassa. In questi pazienti, una bassa pressione
sistolica normale può indurre nel clinico in un falso senso
di sicurezza, perché la pressione media può essere ancora
significativamente al di sotto del limite desiderato. Il secondo svantaggio del metodo Doppler è la necessità di tenere in posizione al di sopra dell’arteria il cristallo che rileva il flusso per periodi di tempo relativamente prolungati, soprattutto se si desidera effettuare misurazioni ripetute.
L’arteria può essere difficile da localizzare nei gatti o nei
pazienti con scarsa perfusione e questi tentativi possono richiedere molto tempo ed essere frustranti.
217
Monitoraggio della pressione venosa
centrale
Il monitoraggio della pressione venosa centrale (CVP)
fornisce informazioni molto differenti da quelle che si ottengono dalla pressione arteriosa. Il sistema venoso è quello di capacitanza: cioè la parte di apparato circolatorio che
conserva la maggior parte del volume ematico di riserva.
Le variazioni della CVP forniscono informazioni sul grado
di riempimento dei grossi vasi. Il valore di questo parametro è di solito basso (0-5 cm H2O), ma può aumentare se la
capacitanza dei grossi vasi viene superata, sia attraverso un
sovraccarico assoluto del circolo (ad es., nell’insufficienza
renale oligurica), che per un sovraccarico circolatorio relativo (ad es., nell’insufficienza cardiaca, dove il cuore non è
in grado di pompare in avanti tutto il sangue che torna ad
esso). Questa tecnica è quindi utile soprattutto per il monitoraggio degli animali con un rischio di sovraccarico idrico, come quelli colpiti da una cardiopatia che richiede la
somministrazione di fluidi. In generale, è possibile infondere senza rischi dei liquidi per via endovenosa a condizione che non si verifichi un aumento della pressione venosa centrale, sebbene occorra agire con cautela e si debbano monitorare anche altri parametri come l’auscultazione polmonare. Una volta che si sia verificato un aumento
della pressione venosa centrale, la somministrazione di
fluidi deve essere ridotta o sospesa. La pressione venosa
centrale può essere elevata se si verifica un aumento di
quella intratoracica, come nello pneumotorace iperteso e
nella ventilazione a pressione positiva. Analogamente, la
pressione venosa centrale aumenta nei pazienti con cardiopatia come una pericardite restrittiva o un tamponamento
pericardico. Per misurare la pressione venosa centrale, si
inserisce un catetere nella vena giugulare facendolo avanzare sino a livello della vena cava craniale. Il catetere non
deve giungere fino in fondo nell’atrio destro. Viene bendato in posizione e raccordato ad un manometro ad acqua o a
un trasduttore sensibile alla pressione. Il manometro viene
riempito con soluzione fisiologica attraverso una valvola a
tre vie ed azzerato a livello dell’atrio destro. La soluzione
fisiologica viene lasciata defluire dal manometro al catetere fino a che non si pone in equilibrio con la pressione venosa e si effettua la lettura del valore rilevato dal manometro ad acqua. Si eseguono quindi ripetute misurazioni.
La determinazione della pressione venosa centrale
comporta alcuni svantaggi. Il catetere deve essere inserito
nella vena giugulare ed essere abbastanza lungo da arrivare nella vena cava intratoracica. Le coagulopatie e la trombocitopenia sono controindicazioni relative all’inserimento
di questi cateteri. Una piega del catetere o la formazione di
coaguli di sangue al suo interno possono portare a misurazioni erroneamente elevate. Anche i cambiamenti di posizione dell’animale in differenti misurazioni influiscono
sulle letture, per cui è importante assicurarsi che il soggetto venga contenuto nella medesima posizione ogni volta
che si effettua una misurazione. I valori della pressione venosa centrale sono molto utili, non assoluti. Non ci si deve
mai dimeticare di associare queste informazioni ai riscontri dell’esame clinico e ad un’accurata valutazione complessiva dell’animale.
218
CATECOLAMINE
Se il gatto non risponde alla fluidoterapia, o nei casi in
cui quest’ultima è controindicata, l’infusione continua di catecolamine costituisce un modo importante per sostenere la
circolazione e migliorare la perfusione tissutale. Sono disponibili numerosi farmaci, ma l’agente inotropo e pressorio
più ampiamente utilizzato in questa specie animale è la dopamina. Questa è ben tollerata dalla maggior parte dei felini, nei quali a dosi basse o moderate non sembra avere molti effetti negativi. Spesso risultano efficaci ed utili i dosaggi
con azione agonista sui betarecettori (5-8 µg/kg/min a velocità di infusione costante - CRI), mentre nei pazienti gravemente colpiti può essere necessario ricorrere a dosi agoniste
sugli alfarecettori (8-15 µg/kg/min). Occasionalmente può
essere necessario impiegare altre catecolamine come la dobutamina, l’adrenalina o la noradrenalina, che però rappresentano una “seconda linea” da impiegare solo se la dopamina è inefficace.
Il monitoraggio Doppler della pressione sanguigna fornisce importanti informazioni per guidare la somministrazione
delle catecolamine. Ci si deve sforzare di mantenere la pressione sistolica al di sopra di 90 mm Hg nel gatto sveglio (normale = 110-150 mm Hg). Si deve prendere in considerazione
l’aggiunta di dopamina al trattamento del paziente se:
• I valori Doppler sono inferiori ad 80 mm Hg nonostante un’adeguata rianimazione mediante fluidoterapia
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• I valori Doppler sono inferiori ad 80 mm Hg e non è
possibile somministrare dei fluidi abbastanza rapidamente da correggere l’ipotensione
• La somministrazione di fluidi è probabilmente necessaria, ma la presenza di una pneumopatia o di un versamento pleurico riduce le possibilità di infonderne
maggiori quantità
• La pressione venosa centrale è superiore a 5 cm H2O
e l’ipotensione persiste.
Nota: se siete in dubbio se un gatto abbia o meno bisogno della dopamina, probabilmente ne ha bisogno!! È preferibile sbagliare utilizzando il farmaco piuttosto che evitare di
impiegarlo. La somministrazione della dopamina va iniziata
ad una velocità di 5 µg/kg/min, per poi effettuare la misurazione Doppler della pressione sanguigna ogni 15 min. Il dosaggio del farmaco può essere aumentato per incrementi di
2,5 µg/kg/min fino a 15 µg/kg/min, fino a che la pressione
sanguigna non migliora. La dopamina deve essere diluita in
fluidi, ad una concentrazione che possa essere somministrata con una velocità di infusione molto lenta (1-3 ml/ora), al
fine di prevenire l’aggravamento del sovraccarico idrico nei
gatti, che sono pazienti di piccole dimensioni. I felini devono essere trattati con la dose minima di dopamina necessaria
a mantenere la pressione sistolica al di sopra di 90 mm Hg.
Il farmaco viene quindi sospeso gradualmente sulla base della risposta dell’animale e di ripetute misurazioni della pressione sanguigna.
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Valutazione della funzionalità polmonare
utilizzando l’emogasanalisi arteriosa
e gli indici pressori dell’ossigeno
Lesley G. King
MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA
INDICAZIONI PER LA MISURAZIONE
DEI GAS EMATICI E L’EQUILIBRIO
ACIDO-BASICO NEI PICCOLI ANIMALI
L’analisi dei gas ematici fornisce informazioni sulla funzione polmonare e sull’equilibrio acido-basico complessivo,
comprendendo sia le componenti metaboliche che quelle respiratorie. Si tratta di una tecnica di indagine adatta a tutti i
casi in cui vi sia un’indicazione di malattia respiratoria, dal
momento che il metodo più definitivo per valutare la funzione polmonare resta la misurazione delle pressioni parziali di
ossigeno (PO2) e biossido di carbonio (PCO2) nel sangue arterioso. La determinazione dello status acido-basico è indicata in tutti gli animali gravemente malati, poiché le alterazioni di questi parametri sono comuni e sovente forniscono
utili informazioni diagnostiche. Per risolvere con successo
queste malattie è spesso necessario trattare gravi anomalie.
STRUMENTI PER LA MISURAZIONE
DEI GAS EMATICI
Gli analizzatori utilizzati di solito misurano direttamente
il valore di pH, PO2 e PCO2 e sulla base di questi calcolano
l’eccesso di basi ed il livello di HCO3, utilizzando il nomogramma di Siggard-Andersen. Il pH nel sangue intero viene
misurato direttamente utilizzando un elettrodo da pH in vetro. La PCO2 viene determinata servendosi di un elettrodo
che separa una soluzione tampone di bicarbonato dal campione, utilizzando una membrana permeabile alla CO2. Quest’ultima diffonde nella soluzione tampone a partire dal sangue, modificando il pH del tampone stesso. Si impiega quindi un pHmetro per calcolare la quantità di CO2 utilizzando
l’equazione di Henderson-Hasselbach. L’elettrodo da O2 è
polarografico: genera una minuta corrente elettrica proporzionale al valore di PO2. Per la misurazione dei gas ematici in
medicina veterinaria è disponibile una gran varietà di strumenti, alcuni dei quali relativamente poco costosi e portatili.
PRELIEVO DI CAMPIONI DI SANGUE
ARTERIOSO
I campioni di sangue arterioso si possono ottenere mediante puntura diretta di qualsiasi arteria. Più comunemente
si utilizza quella femorale, ma altre sedi sono rappresentate
dalle arterie metatarsale dorsale, brachiale ed auricolare. Si
possono anche prelevare dei campioni attraverso i cateteri
inseriti nell’arteria metatarsale dorsale, femorale o auricolare. Le siringhe per i prelievi da emogasanalisi devono essere
preventivamente eparinizzate, sia effettuando un lavaggio
preventivo con una soluzione di eparina sodica che impiegando speciali siringhe da emogasanalisi contenenti litioeparina liofilizzata.
Per prelevare un campione mediante punture dirette sono
necessari 1 o 2 assistenti che contengano l’animale in decubito laterale. Con la palpazione, sulla faccia mediale dell’arto posteriore si identifica l’arteria femorale, nel punto quanto più possibile in alto vicino all’area inguinale. L’operatore
deve sentire le pulsazioni sotto le dita di una mano e dirigere l’ago con un’inclinazione di circa 60° verso l’arteria così
individuata. Una volta penetrati nel vaso, si osserva un getto
di sangue a livello del cono dell’ago. Questo viene tenuto
fermo nell’arteria e si preleva il campione esercitando un’aspirazione con lo stantuffo. Le siringhe preconfezionate del
commercio contengono un filtro attraverso il quale viene eliminata l’aria e lo riempimento avviene per effetto della pressione arteriosa diretta, senza bisogno di esercitare alcuna
aspirazione su uno stantuffo. Alla rimozione dell’ago, si deve applicare sull’arteria una pressione diretta da mantenere
per alcuni minuti, allo scopo di prevenire la formazione di
ematomi. Tutte le bolle d’aria devono essere eliminate immediatamente ed il campione va tappato con una chiusura
ermetica per evitare l’esposizione all’ambiente. Il sangue va
esaminato il più presto possibile e mantenuto sotto ghiaccio
fino all’analisi. In condizioni ideali, quest’ultima va effettuata entro due ore dal prelievo.
FONTI DI ERRORE NELL’ANALISI
DEI GAS EMATICI
Nell’emogasanalisi è possibile determinare una considerevole quantità di errori dovuti alla tecnica dell’operatore ed
alle modalità di conservazione del campione. Se quest’ultimo viene esposto all’aria ambientale o alle bolle d’aria presenti nel campione, man mano che questo si pone in equilibrio con la tensione di ossigeno del gas il valore di PCO2 diminuisce e quello di PO2 subisce a sua volta delle modificazioni. Anche la diluizione del campione con eparina intro-
220
duce un errore. L’eccessiva eparinizzazione della siringa
porta ad una considerevole riduzione dei valori misurati di
PCO2, ma a scarse modificazioni del pH. Questo errore può
essere ridotto al minimo espellendo tutta l’eparina dalla siringa dopo il lavaggio, lasciando solo quella che riempie lo
spazio morto del cono dell’ago, oppure utilizzando eparina
liofilizzata.
La conservazione prolungata del campione conduce a
delle modificazioni delle tensioni misurate dei gas, per effetto del metabolismo operato dalle cellule. La glicolisi
anaerobica effettuata dagli eritrociti porta alla produzione di
CO2. L’impiego dell’ossigeno per il metabolismo anaerobico da parte dei leucociti e dei reticolociti determina una diminuzione di PO2. Queste alterazioni diventano tanto più
prolungate quanto più a lungo viene conservato il campione
e quanto più è elevato il conteggio dei leucociti. Il mantenimento del campione sotto ghiaccio fra il prelievo e l’analisi
riduce al minimo questo effetto diminuendo il metabolismo
cellulare. I campioni di sangue di piccole dimensioni vengono rapidamente refrigerati a 0° quando sono posti in acqua e
ghiaccio e quindi non mantengono il metabolismo cellulare
per più di pochi minuti.
L’analisi deve anche tenere conto della temperatura corporea dell’animale al momento del prelievo del campione.
L’impiego di valori stimati delle temperature corporee o dei
valori normali per una data specie può introdurre un errore
significativo nella misurazione di PO2 e PCO2. La maggior
parte degli analizzatori richiede automaticamente all’operatore di specificare la temperatura corporea al momento dell’analisi. Sono disponibili dei nomogrammi per il calcolo
manuale della correzione dovuta alla temperatura se ciò non
viene fatto automaticamente dall’analizzatore. I valori calcolati per l’eccesso di basi ed i livelli di HCO3 vanno ottenuti dopo aver corretto il campione in funzione della temperatura.
GAS ARTERIOSI E FUNZIONE
POLMONARE
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sione della causa della pneumopatia. Valori inferiori a 55
mm Hg indicano un pericolo di morte imminente e richiedono un intervento immediato. Valori di PaCO2 superiori a 50
mm Hg sono significativi e necessitano di un trattamento
specifico e valori superiori a 70 mm Hg sono segno di pericolo di morte imminente. Una PaCO2 inferiore a 20 mm Hg
può esitare in un’eccessiva vasocostrizione cerebrale e va
trattata in modo aggressivo.
Pressioni parziali dell’ossigeno
Il valore parziale di PO2 rappresenta l’ossigeno disciolto
nell’acqua, che quindi determina la saturazione di ossigeno
nell’emoglobina in una relazione sigmoide secondo la curva
di dissociazione dell’O2. Si prevede che l’emoglobina sia
completamente saturata ad una pressione parziale arteriosa
di ossigeno (PaO2) compresa fra 60 e 70 mm Hg. Gli animali
con funzione polmonare normale, che respirano aria ambientale, devono avere valori di PaO2 superiori a 85 mm Hg.
L’iperventilazione associata allo stress del prelievo del campione di sangue arterioso può esitare nella comparsa di valori di PaO2 fino a 120 mm Hg. Gli aumenti della concentrazione di ossigeno inspirato portano ad un ulteriore incremento di PaO2. Un’utile regola pratica in ambito clinico è
che PaO2 dovrebbe aumentare di circa cinque volte la concentrazione di ossigeno inspirato: un animale che respira il
100% di ossigeno (anestetizzato ed intubato) dovrebbe avere una PaO2 di circa 500 mm Hg ed uno che respira il 40%
di ossigeno (ossigeno nasale o gabbia ad ossigeno) dovrebbe avere una PaO2 di 200 mm Hg. È importante ricordare
che la grande maggioranza dell’ossigeno viene veicolata nel
sangue sotto forma di ossiemoglobina e che le quantità trasportate come ossigeno disciolto sono relativamente piccole.
Quindi, una volta che l’emoglobina sia completamente saturata, sciogliendo più ossigeno nel plasma si ottengono solo
lievi incrementi complessivi dell’apporto di ossigeno ai tessuti. In seguito alla modificazione della concentrazione di
ossigeno inspirato, l’equilibrio alla nuova PaO2 viene raggiunto entro 2-3 minuti.
Intervallo di riferimento per i gas arteriosi
La maggior parte degli studi condotti nei cani normali
fornisce per gli animali di questa specie un valore medio di
pH di 7,407 ± 0,028, PaCO2 di 36,8 ± 3,0 mm Hg e PaO2 di
92,1 ± 5,6 mm Hg. Anche se nell’uomo la PaO2 diminuisce
normalmente con l’età, non è stata riscontrato un calo di
questo parametro né nei cani da esperimento anziani né in
quelli da compagnia in età geriatrica tenuti in ambiente urbano. Nel gatto, tutti gli studi riportati in letteratura sono stati condotti utilizzando cateteri permanenti inseriti nell’arteria femorale, nell’aorta discendente o nella carotide. La
maggior parte dei lavori concorda nel ritenere che l’intervallo di riferimento nel gatto sia di 106,8 ± 5,7 mm Hg per la
PaO2, di 7,38 ± 0,038 per il pH e di 31,0 ± 2,9 mm Hg per
la PaCO2. Tutti gli studi riferiscono anche una lieve acidosi
metabolica nei gatti svegli normali con eccesso di basi di –
5,9 ± 3,9 mmol/l e valori di HCO3 di 18,0 ± 1,8 mmol/l.
Valori di PaO2 inferiori a 75 mm Hg vengono solitamente trattati mediante somministrazione di ossigeno ed aggres-
Pressioni parziali di biossido di carbonio
La velocità di eliminazione di CO2 dall’organismo influisce direttamente sulla pressione parziale arteriosa di
CO2 (PaCO2), mentre la produzione di CO2 da parte del metabolismo tissutale è più strettamente correlata alla pressione parziale venosa di CO2. Dal momento che è molto solubile e presenta una curva di dissociazione quasi lineare, quest’ultima diffonde facilmente fuori dal sangue e esiste un’enorme riserva di eliminazione di CO2 attraverso il polmone.
Quindi, la PaCO2 dipende principalmente dall’entità della
ventilazione. La ventilazione/minuto è una misura della
quantità totale di gas spostato dentro e fuori dal polmone per
ogni minuto ed è una funzione della frequenza respiratoria e
del volume tidalico. L’iperventilazione in quanto tale si può
avere in caso di paura, dolore o affezioni del parenchima
polmonare, esitando in un abbassamento della PaCO2. L’ipoventilazione porta ad un incremento della PaCO2 e si os-
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serva comunemente nei disordini che colpiscono la capacità
meccanica di spostare l’aria nei polmoni.
IPOSSIEMIA
La diminuzione di PaO2 è dovuta ad una delle seguenti
cause:
• Calo dell’ossigeno nell’aria inspirata (ad es., riduzione della pressione barometrica ad altitudini elevate).
• Ipoventilazione, che riduce il movimento dell’aria nei
polmoni, portando ad una minore disponibilità di ossigeno per il trasferimento dei gas (vedi oltre).
• Mescolanza venosa; derivante da shunt, disaccoppiamento di ventilazione/perfusione o compromissioni
della diffusione.
La mescolanza venosa è la causa più comune di calo della PaO2. Ricordate: il valore di PaO2 rappresenta la gravità
del processo patologico polmonare piuttosto che avere un
valore diagnostico per uno specifico processo patologico.
Mescolanza venosa
L’esistenza di uno shunt implica che il sangue aggiri
completamente gli alveoli funzionalmente attivi. Ciò può avvenire sia a causa di shunt venoarteriosi che immettono il
sangue venoso direttamente nella circolazione arteriosa (ad
es., dotto arterioso pervio inverso, anastomosi bronchiali),
sia per effetto della vascolarizzazione di aree polmonari
completamente non funzionanti, come quelle gravemente
atelettasiche o occupate da masse neoplastiche. In entrambi
i casi, il sangue venoso ritorna alla circolazione sistemica e
si mescola con quello arterioso, determinando un calo complessivo di PaO2. Se si verifica uno shunt, non vi è assolutamente alcuna possibilità di ossigenazione del sangue venoso, indipendentemente da quanto venga aumentata la concentrazione dell’ossigeno inspirato.
La seconda causa di mescolanza venosa è il disaccoppiamento fra ventilazione/perfusione. Negli animali normali, la
ventilazione (apporto di aria agli alveoli) e la perfusione degli alveoli da parte del sangue sono accoppiati abbastanza
strettamente, in modo da ottenere il massimo trasferimento
di gas. Processi patologici come le affezioni delle vie aeree
o degli alveoli possono modificare le modalità della ventilazione. Analogamente, disordini vascolari come le patologie
tromboemboliche possono mutare il quadro della perfusione. Ne deriva un significativo disaccoppiamento fra ventilazione e perfusione, che causa ipossiemia. In questi casi, assicurare un aumento della concentrazione dell’ossigeno inspirato può portare ad un incremento dei valori di PaO2.
La diffusione dell’ossigeno attraverso la membrana alveolocapillare può essere compromessa da qualsiasi processo che porti ad un ispessimento della stessa. Dal momento
che diffusione dell’ossigeno possiede un’enorme riserva, è
raro che questa sia il fattore limitante per il trasferimento
dell’ossigeno, fatta eccezione per i processi patologici molto gravi. Dal momento che la CO2 è circa 20 volte più solubile dell’O2, la diffusione non limita quasi mai il trasferimento della CO2 nei polmoni.
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IPERCAPNIA
L’ipoventilazione porta ad un incremento di PaCO2 e si osserva comunemente nei disordini che colpiscono la capacità
meccanica di spostare l’aria nei polmoni. L’aumento della PaCO2 nell’ipoventilazione è accompagnato da un calo della
PaO2. In un paziente in ipoventilazione, la somministrazione
di ossigeno aumenta la PaO2, ma non determina alcun cambiamento dei valori di PaCO2 perché non modifica il volume
totale di aria spostata dentro e fuori dai polmoni per minuto.
Gli esempi delle più comuni cause di ipercapnia sono:
• malattie neurologiche o anestesia che influiscono sulla spinta respiratoria midollare centrale
• disfunzioni del midollo spinale localizzate cranialmente a C4-C5
• disfunzioni del nervo frenico
• lesioni della parete toracica
• disfunzioni della muscolatura respiratoria
• ostruzione delle vie aeree.
Se la PaCO2 è elevata, l’animale va incontro a dispnea.
Dall’ipercapnia può derivare una profonda acidosi respiratoria, che può essere potenzialmente letale perché determina
diminuzione della gittata cardiaca, ipotensione e depressione neurologica da narcosi da biossido di carbonio. Quindi, se
si riscontra un’ipoventilazione nei pazienti, il clinico deve
prendere in considerazione il ricorso a misure che migliorino lo status della ventilazione trattando la causa dell’ipoventilazione. Se correggere la causa primaria risulta impossibile o richiede tempo, si deve valutare l’opportunità di impiegare la ventilazione a pressione positiva.
INDICI BASATI SULLA TENSIONE
DI OSSIGENO
Il valore misurato di PaO2 dipende dall’entità della ventilazione e dalla concentrazione dell’ossigeno inspirato, nonché
dalla presenza della pneumopatia. È possibile effettuare numerosi calcoli che consentono di confrontare in modo significativo i valori anormali di PaO2 a differenti frequenze di ventilazione e mentre il paziente viene trattato con ossigeno.
Gradiente di ossigeno alveoloarterioso
Il calcolo del gradiente di ossigeno alveoloarterioso
(P(A-a)O2) fornisce una stima dell’efficacia del trasferimento dei gas, mentre si elimina il contributo variabile dell’entità della ventilazione. Man mano che la disfunzione polmonare peggiora, il gradiente di ossigeno fra gli alveoli e le arterie aumenta. Per calcolare la PaO2 è necessario prima stimare la pressione parziale di ossigeno negli alveoli (PAO2)
utilizzando l’equazione dei gas alveolari:
PAO2 = FiO2 (Pb-PH20) – PaCO2/RQ
dove FiO2 è la concentrazione della frazione di ossigeno
inspirato, Pb è la pressione barometrica, PH2O è la pressione del vapore acqueo saturo a temperatura corporea ed RQ è
il quoziente respiratorio. A livello del mare, in aria ambien-
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tale e assumendo che RQ per il cane sia pari a circa 0,9 nei
soggetti alimentati con le diete tipiche, l’equazione dei gas
alveolari può essere semplificata come:
PAO2 = 150 – (PaCO2) 1,1
Questa equazione fornisce un’utilissima stima clinica
della PO2 alveolare. Il valore misurato della PO2 arteriosa
viene sottratto da quello della PaO2 per dare il gradiente alveoloarterioso:
P(A-a)O2 = PAO2 – PaO2
L’intervallo di riferimento per P(A-a)O2 è inferiore a
15 mm Hg. Gradienti aumentati si osservano nei pazienti
con affezioni del parenchima polmonare, mentre ci si
aspetta un gradiente normale nei soggetti con ipoventilazione pura e nessuna pneumopatia parenchimatosa. Il calcolo di
P(A-a)O2 consente di confrontare clinicamente una serie di
emogasanalisi in pazienti con status di ventilazione variabile.
Rapporto PaO2 : FiO2
Un secondo indice basato sulla tensione di ossigeno e
utile in ambito clinico è il rapporto fra PaO2 : FiO2. In molti
casi il prelievo di gas arteriosi viene effettuato in pazienti in
condizioni critiche trattati con somministrazione di ossigeno. In questi animali, l’eliminazione dell’apporto di ossigeno per ottenere campioni arteriosi basati sulla respirazione di
aria ambientale può essere pericoloso o inaccettabile dal
punto di vista umanitario. Il calcolo dei rapporti PaO2 : FiO2
permette di confrontare serie di campioni prelevati a varie
concentrazioni di ossigeno inspirato. Negli animali normali,
il valore di PaO2 : FiO2 è solitamente > 400. Valori inferiori
a 200 implicano gravi patologie polmonari.
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Anestesia nel paziente anziano
Adriano Lachin
Med Vet, Venezia
Il timore di eseguire un’anestesia in un paziente anziano, è
tanto radicata quanto diffusa non solo tra i proprietari dei nostri
pazienti ma anche tra classe medica veterinaria, ed è una paura
in gran parte ingiustificata per lo meno limitatamente ai soggetti geriatrici sani, senza patologie in atto.
FUNZIONALITÀ EPATICA
Non sembrano esservi, nel cane anziano sano, modificazioni significative delle funzioni enzimatiche epatocellulari.
Quello che è invece possibile riscontrare è una riduzione del
volume epatico con conseguente perdita di tessuto funzionale
(anche se nel cane anziano si può riscontrare epatomegalia come conseguenza di un sovraccarico lipidico). Anche il flusso
sanguigno può diminuire, sia come conseguenza della riduzione del tessuto epatico che del flusso cardiaco.
Si può riscontrare, inoltre, una diminuzione della sintesi
proteica con possibile ipoalbuminemia.
Le possibili conseguenze di queste modificazioni sono le
seguenti:
• Diminuzione della clearance dei farmaci a metabolismo
epatico flusso-dipendente con aumento della loro durata
d’azione
• Aumentata biodisponibilità dei farmaci anestetici che si
legano alle proteine circolanti (probabilmente vero solo
per elevate concentrazioni di principio attivo).
FUNZIONALITÀ RENALE
Anche in questo caso la maggior parte degli effetti dell’invecchiamento sul rene è dovuto a processi di atrofia tissutale.
Le possibili modificazioni renali che più frequentemente sono legate alla senescenza sono le seguenti:
• Processi d’atrofia tissutale con scomparsa d’unità funzionali, il peso dei reni può subire una diminuzione del 20 -30%.
• Compromissione della vascolarizzazione, con conseguente calo della perfusione renale
• Minore sensibilità all’ormone antidiuretico
• Riduzione della filtrazione glomerulare e della capacità di
concentrazione dell’urina
Tutto ciò può comportare:
• Maggiore rischio di fenomeni ischemici renali.
• Minore capacità di fronteggiare squilibri elettrolitici ed
eccessi fluidoterapici.
• Prolungamento dell’emivita di eliminazione di farmaci e
metaboliti a stretta eliminazione renale con aumento della loro durata d’azione
• Grazie alla possibile attività vicariante del fegato (nel cane l’eliminazione biliare dei farmaci coinvolge molecole
di PM superiore a 325 mentre nell’uomo a partire da un
PM di 500) per i farmaci ad eliminazione epato-renale, la
via biliare può supplire in caso di insufficienza renale
• Il paziente anziano sano, non sembra richiedere quindi particolari protocolli di fluidoterapia, ma piuttosto un calcolo
preciso ed un monitoraggio dell’equilibrio idroelettrolitico.
FUNZIONALITÀ CARDIOVASCOLARE
In assenza di patologia manifesta, le modificazioni anatomiche osservate nel cuore del paziente geriatrico sono soprattutto imputabili ad ipertrofia delle pareti ventricolari, fibrosi
miocardica e talvolta a fenomeni di degenerazione valvolare
mixomatosa.
In pratica tutti questi cambiamenti implicano una variazione della funzione ventricolare ed una maggiore sensibilità del
cuore alle modificazioni sia di precarico (volemia), che di postcarico (resistenze periferiche).
Un altro importante effetto funzionale dell’invecchiamento
sul cuore sembra essere senz’altro una riduzione della gittata
cardiaca massimale, tuttavia studi più recenti suggeriscono che
la diminuzione dell’indice cardiaco a riposo nei soggetti anziani sani, rappresenterebbe un adeguamento dell’attività cardiaca
alle diminuite necessità metaboliche e di perfusione che conseguono alla diminuzione della massa scheletrica, tissutale e parenchimatosa legata alla senescenza
Nel complesso possiamo sostenere che la funzione cardiovascolare nel soggetto anziano sano, si modifica meno di quanto ci si aspetterebbe dalle alterazioni strutturali dovute all’invecchiamento.
FUNZIONALITÀ POLMONARE
E RESPIRATORIA
La componente strutturale maggiormente influenzata dall’età in questo sistema è l’elasticità polmonare: con l’invecchiamento si assiste sia ad una riduzione del contenuto polmonare
di elastina che un aumento del tessuto connettivo fibroso, fenomeno quest’ultimo che può estendersi anche alla componente
vascolare alveolare.
Fenomeni di calcificazione e fibrosi si osservano inoltre anche a carico delle cartilagini bronchiali e costali con conseguente irrigidimento della gabbia toracica.
L’atrofia dei muscoli scheletrici dovuta all’invecchiamento
coinvolge ovviamente anche la muscolatura del compartimento
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toracico con conseguente diminuzione d’efficienza dei mm. intercostali ed accessori della respirazione.
In virtù di queste possibili modificazioni strutturali si possono verificare le seguenti alterazioni funzionali:
• Diminuzione della compliance toracica.
• Diminuzione dell’efficacia del “mantice respiratorio”
• Progressivo disaccoppiamento del corretto rapporto ventilazione/perfusione.
• Aumento progressivo dello spazio morto anatomico ed alveolare.
• Possibile aggravamento degli effetti emodinamici negativi che caratterizzano la ventilazione a pressione positiva
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FUNZIONALITÀ DEL SNA
E NEUROVEGETATIVO
Il SNA del paziente anziano mostra una progressiva diminuzione di efficienza ed un meccanismo di autoregolazione più
scadente rispetto al giovane adulto.
• Maggiore predisposizione all’ipotermia intraoperatoria e
postoperatoria.
• Minore capacità a compensare eventuali eventi ipotensivi.
CONDOTTA ANESTESIOLOGICA
La riuscita di un’anestesia e l’assenza di complicanze dipendono da:
• Un “protocollo” anestesiologico compatibile con lo status
clinico del paziente e del tipo di chirurgia.
• Un’attenta valutazione delle condizioni fisiche del paziente ed una accurata analisi delle eventuali patologie
coesistenti correlate all’età.
• Un monitoraggio costante, accurato ed il più completo
possibile.
• Attenzione per i particolari.
– Considerare il paziente anziano, anche se apparentemente
sano, come un paziente a rischio e potenzialmente affetto da
una patologia renale sub-clinica
– Preferire, quando possibile, farmaci e tecniche anestesiologiche che abbiamo il minor impatto possibile sia sul app.
cardiovascolare che sul SNA e che siano facilmente reversibili o di rapida eliminazione
– La somministrazione di farmaci in dose ridotta, lentamente e
fino ad ottenimento dell’effetto desiderato, a prescindere della dose preconizzata, è di norma sufficiente a ridurre in maniera significativa il rischio anestesiologico nell’anziano sano
– Tenere conto di una eventuale ipoalbuminemia nel calcolo
dei dosaggi degli anestetici che si legano alle proteine
– In pazienti con patologie in atto, prestare attenzione ad
eventuali interazioni con farmaci in assunzione terapeutica.
– Valutare con attenzione l’uso di ATROPINA
• La tachicardia indotta aumenta il consumo e la domanda
d’ossigeno del miocardio.
• Può far aumentare in maniera controproducente la viscosità delle secrezioni dell’apparato respiratorio (già ridotte
nel soggetto anziano).
• Può far aumentare le probabilità di rigurgito gastro-esofageo, diminuendo il tono dello sfintere.
• Aumento dello spazio morto anatomico
– Non c’è una controindicazione assoluta all’uso di ACETILPROMAZINA
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• A dosaggi minimi (10-20 µg/kg. i.m. 20 min. prima dell’induzione) può rappresentare nell’animale anziano sano
un ottimo mezzo di sedazione, ed in alcuni soggetti una
scelta irrinunciabile
In alcuni pazienti selezionati, può essere vantaggioso l’utilizzo in premedicazione di MEDETOMIDINA a bassissimi
dosaggi
L’utilizzo di OPPIOIDI sia in premedicazione che nell’intraoperatorio è senz’altro auspicabile
• Rappresentano una scelta irrinunciabile per poter garantire un’adeguata analgesia intra e post-operatoria.
• Hanno un effetto sedativo sinergico con i tranquillanti.
• Permettono di ridurre le dosi d’induzione e mantenimento degli anestetici, diminuendone gli effetti depressori sull’apparato cardiovascolare.
• Ai dosaggi normalmente utilizzati raramente creano problemi di depressione respiratoria nel postoperatorio
Per l’induzione il PROPOFOL è da preferire ai TIOBARBITURICI per la minor durata d’azione e l’assenza di effetti
cumulativi e di metaboliti
La fluidoterapia intraoperatoria e postoperatoria deve essere particolarmente accurata e mirata nel paziente anziano e
deve tenere conto degli eventuali squilibri elettrolitici.
Il paziente anziano necessita, ancor più del giovane adulto, di
un monitoraggio completo, accurato, ma soprattutto continuo
del comparto emodinamico e respiratorio, sia durante l’intervento chirurgico che eventualmente nel post-operatorio
Durante l’intervento chirurgico e nel post-operatorio occorre adottare tutte le precauzioni possibili per cercare di mantenere costante la temperatura corporea.
Proteggere adeguatamente la posizione del paziente sul tavolo operatorio per evitare lesioni iatrogene sull’apparato
muscolo-scheletrico correlate all’età e alla predisposizione
di razza.
CONCLUSIONI
L’invecchiamento determina una progressiva atrofia, fibrosi
e perdita di elasticità, praticamente in tutti gli organi e tessuti.
È innegabile che i soggetti anziani rappresentino, se confrontat