Coppola - Funzione Pubblica Cgil
Transcript
Coppola - Funzione Pubblica Cgil
CONTROCORRENTE SEGNI DI CONTRADDIZIONE “Sono molti a chiedersi se il voto dello scorso 4 novembre sia da intendere alla stregua di quello del 1932 che portò Roosevelt alla Casa Bianca, alla guida di una nuova coalizione sociale che fu capace di sopravvivere per più di tre decenni.” Alessandro Coppola COPPOLA Alessandro Coppola * IL LAVORO NELLA COALIZIONE DI OBAMA S ono molti a chiedersi se il voto dello scorso 4 novembre sia da intendere alla stregua di quello del 1932 che portò Roosevelt alla Casa Bianca, alla guida di una nuova coalizione sociale che fu capace di sopravvivere per più di tre decenni. Se i numeri del voto popolare rendono avventata una lettura di questo tipo – Obama ha vinto con un margine significativo ma non largo – la composizione della sua platea elettorale invita viceversa all’impiego di una maggiore prudenza nel liquidare la suggestione di quello che dalla stampa americana è stato definito come il grande realignment. Diverse sarebbero le tracce di una svolta profonda nell’orientamento politico e ideologico del paese. Per il progressista «New Republic», alla trentennale certezza di vivere in America the Conservative si sostituisce oggi la fondata speranza di assistere all’ascesa, nei prossimi decenni, di America the Liberal. La nuova coalizione democratica sarebbe nata sull’onda dell’accelerazione della transizione dell’economia nazionale verso i lidi della produzione immateriale e high-tech. I suoi protagonisti principali sarebbero così i nuovi ceti affluenti, le vecchie e nuove minoranze – afroamericani, ispanici, asiatico-americani – e le donne, in particolare quelle ad alta qualificazione, attive sul mercato del lavoro. Sarebbero questi gli ingredienti sociali senza i quali l’America non sarebbe mai stata capace di colorarsi di blu – il colore dei democratici – in territori inaspettati. In Virginia – stato che non votava per un democratico dalla valanga di * Dottorando di ricerca in storia al Dipartimento di Studi urbani dell’Università di Roma, collabora dal 2005 con il dipartimento Mezzogiorno e politiche di coesione della CGIL nazionale. Ha recentemente pubblicato: Dalla Fabbrica alla banlieue. Missione cattolica, Islam e nuova questione sociale nella Francia contemporanea, Ediesse, 2006. Collabora con alcune riviste fra le quali «Lo Straniero», «Unacittà» e «Rassegna sindacale». S T A T O Q U A L E 339 QUALE STATO Lindon Johnson nel 1964 – il boom economico trainato dai settori innovativi con la relativa potente immigrazione di giovani professionisti e stranieri impiegati nei mercati dei servizi poveri, senza i quali lo stile di vita dei primi sarebbe impossibile, avrebbe trasformato uno stato solidamente rosso in un nuovo territorio democratico. In Nevada, sarebbe stata in particolare la crescita vertiginosa della presenza ispanica a spingere lo stato nelle mani di Obama: Las Vegas è una delle nuove capitali operaie del paese, con le sue centinaia di migliaia di ispanici impiegati nei suoi alberghi, ristoranti e case da gioco. Per altri, il riallineamento – se non ancora compiuto – si annuncia, vicino, all’orizzonte. Gli americani al di sotto dei trent’anni – oltre a riconoscere a Obama un incredibile 66%, più del doppio di quanto concesso a McCain – sono gli unici a dirsi più liberal che conservative, secondo le rilevazioni del Pew Research Center. Una tendenza che, secondo i progressisti più ottimisti, è in grado oggi di contribuire a una consistente vittoria democratica e domani a una durevole egemonia del campo progressista. Inoltre, la crescente marginalizzazione politica del Sud, ormai considerato non più fondamentale per determinare le sorti politiche del paese, sarebbe un sintomo del declino non congiunturale del Partito Repubblicano. La sua persistente forza elettorale – addirittura crescente in qualche stato – rischierebbe di farne quasi un grosso partito regionale attardato su di un’agenda conservatrice lontana dalle priorità dei gruppi sociali in ascesa che, nel Sud, sono largamente sottorappresentati. Ma a colpire nelle analisi post-elettorali è la scarsa presenza di un altra regione del paese. Il Midwest, con la sola eccezione del Missouri – perso all’ultimo minuto per un pugno di voti – è stato fondamentale per la vittoria di Obama. Stati quali Ohio, Michigan, Illinois, Indiana, Wisconsin, Minnesota si riconoscono – con qualche eccezione – per il loro affaticamento nella corsa globale dello sviluppo. Vecchi territori manifatturieri violentati dall’inasprirsi della competizione internazionale: qui di immigrati ispanici e giovani professionisti se ne vedono pochi, quantomeno molti meno che nella Virginia in ascesa o nella California solidamente democratica. S T A T O Q U A L E 340 COPPOLA Eppure, Obama è riuscito a strappare una vittoria in qualche caso storica. In questi stati, l’ingrediente forse fondamentale della vittoria democratica è stata la scomparsa dei cosiddetti Reagan Democrats, vale a dire di quella working class bianca che, insofferente nei confronti di una sinistra accusata di essere troppo incline alla retorica dei diritti e irresponsabile nelle sue politiche di spesa, si era trovata a migrare a partire dagli anni Sessanta dal Partito Democratico verso i nuovi lidi repubblicani. Una migrazione compiutasi con le valanghe elettorali di Reagan nel corso degli anni Ottanta. Nella nuova coalizione democratica ci sarebbero quindi gruppi sociali in crescita – le minoranze, i nuovi ceti intellettuali, le donne ad alta qualificazione e attive sul mercato del lavoro – ma anche gruppi sociali in contrazione, come l’impaurita classe operaia dell’America manifatturiera e le sue organizzazioni sindacali. Nel 1940, quando rappresentava il 58% della forza lavoro complessiva, la working class industriale era la protagonista principale della coalizione democratica al potere. Oggi, contrattasi al 25%, dovrà combattere per imporre le proprie priorità. Il contributo dei sindacati alla megamacchina elettorale di Obama Ma nell’America di oggi i mondi sindacali sono diversi e plurali quanto diversi e plurali sono i suoi ceti operai. Il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nella campagna democratica – fra primarie ed elezioni generali – non è mai stato così rilevante. Nel corso delle prime, a fronte della prudenza delle due centrali – AFLCIO e CHANGE TO WIN – sono state diverse le federazioni di categoria che hanno giocato il ruolo di grande elettore nei due campi: a sostegno di Hillary Clinton le potenti federazioni degli insegnanti (AFT) e degli impiegati pubblici (AFSCM) aderenti ad AFLCIO, a sostegno di Obama le giovani e combattive federazioni dei servizi – SEIU e United Here – aderenti a CHANGE TO WIN. Obama, inizialmente in difficoltà con le platee sindacali – memorabile l’accusa urlatagli da un sindacalista durante la S T A T O Q U A L E 341 QUALE STATO campagna delle primarie: – Taci tu, che non hai lavorato un giorno in vita tua! – è riuscito col tempo a sintonizzarsi con mondi sindacali molto diversi: da un lato le federazioni operaie molto ostili all’apertura dei mercati e al NAFTA, il trattato di libero scambio nordamericano, dall’altro il sindacalismo dei servizi poveri e poverissimi dominato dalla nuova immigrazione, specie ispanica, che dell’apertura dei mercati è in parte il frutto. Se complessivamente, con l’esplodere della crisi finanziaria, l’efficace insistenza di Obama nel denunciare le colpe del liberismo e la necessità di ricostruire l’economia ‘dal basso in alto’ ha fatto breccia nell’insieme del lavoro dipendente, l’enfasi sulla rinegoziazione del NAFTA e sull’introduzione di politiche punitive nei confronti ‘delle imprese che spediscono posti di lavoro all’estero’ è servita a incassare in particolare il sostegno dei primi. Obama ha vinto così sia in stati in cui sono importanti i vecchi ceti operai – come nel Midwest – sia in quelli in cui sono importanti i nuovi ceti operai – Nevada, Colorado, Florida. E i sindacati e i loro militanti hanno contribuito considerevolmente alla poderosa macchina organizzativa della campagna democratica. Le due centrali hanno speso la cifra record di 450 milioni di dollari fra elezioni primarie e generali. Mentre nei tre giorni precedenti al voto, 250.000 militanti sindacali sono stati in grado di fare cinque milioni e mezzo di telefonate e quasi quattro milioni di visite porta a porta. Secondo il «New York Times»: «Tutte insieme, le organizzazioni sindacali hanno raggiunto 13 milioni di elettori in 24 stati, con qualche iscritto indeciso che è stato contattato fino a trenta volte fra telefonate, visite dirette e conversazioni sul luogo di lavoro». Un sindacato in movimento? Ma il 2008 è stato un anno positivo per i sindacati non solo per il loro contributo all’elezione di Obama. I dati sui livelli di adesione alle organizzazioni sindacali diffusi dal Bureau of Labor S T A T O Q U A L E 342 COPPOLA Statistics sono infatti positivi per il secondo anno consecutivo. Se nel 2007, molti economisti avevano visto nella crescita di 311.000 unità delle adesioni sindacali un mero ‘effetto statistico’, oggi gli osservatori sono molto più cauti nel liquidare come meramente virtuale una tendenza che pare essersi consolidata. Nel 2008, gli effettivi sindacali sono cresciuti di 428.000 unità. Un dato che fa risalire il tasso di sindacalizzazione al 12,4%, livelli certo bassissimi rispetto agli standard di molti paesi europei, ma in risalita rispetto al 12,1% dell’anno precedente. In termini assoluti, la perdita di iscritti rispetto al 1983 – la prima annata per la quale si dispone di dati comparabili – è più contenuta (da 17.7 milioni ai 16.1 di oggi) che in termini relativi (dal 20.1% al 12,1% di oggi). A fare la differenza sono ovviamente la grande espansione del mercato del lavoro nel corso degli ultimi decenni e la profonda ristrutturazione e contrazione del settore manifatturiero, dove fino agli anni Settanta si concentrava il grosso del movimento sindacale. Nonostante l’aumento del numero di aderenti, i dati del 2008 sembrano comunque restituire all’osservatore l’immagine di un paesaggio sindacale sostanzialmente immobile, ancora condizionato dalla forza persistente di alcune tendenze strutturali precedenti e successive alla fase di maggiore accelerazione della transizione terziaria dell’economia americana. Prima di tutto la geografia, con la concentrazione degli iscritti negli statifortezza del movimento sindacale, essenzialmente quelli del Nordest – nello stato di New York si ha il picco dei livelli di sindacalizzazione con un notevole 24,9% –, del Midwest e degli stati del Pacifico, a fronte di livelli ancora molto bassi nel resto del paese con molti stati del Sud che sono ben lontani dalla soglia del 10% di sindacalizzazione. In seconda istanza, la composizione razziale e di genere della platea degli iscritti alle organizzazioni sindacali. Gli uomini (13,4%) sono più sindacalizzati delle donne (11,4%) e gli afroamericani sono il gruppo nel quale l’adesione sindacale è più frequente (14,5%) a fronte della minore frequenza con la quale la si incontra tra i bianchi (12,2%), gli asiatici e gli ispanici (entrambi al 10,6%). Dal punto di vista anagrafico, gli iscritti si S T A T O Q U A L E 343 QUALE STATO concentrano fra i lavoratori di età compresa fra i 45 e i 64 anni di età. Anche la distribuzione per settore richiama i caratteri fondamentali che il movimento sindacale ha assunto nel corso degli ultimi decenni. I livelli di adesione nel settore pubblico (36.8%) sono cinque volte superiori a quelli del settore privato (7.6%) con il picco raggiunto fra gli impiegati delle amministrazioni locali (42,2%), dove si concentrano le categorie a più alta penetrazione sindacale: insegnanti, vigili del fuoco, poliziotti. È nei trasporti, nelle telecomunicazioni, nelle costruzioni che si incontrano i livelli di adesione più significativi per il settore privato, con risultati che vanno dal 15 al 22%. Il profilo dell’iscritto medio è quindi quello di un uomo afroamericano di mezza età impiegato in un governo locale delle principali regioni urbane del paese, la megalopoli della costa orientale, l’area metropolitana di Chicago o quella di Los Angeles. I tempi in cui era l’operaio bianco del Midwest o del Nordest il protagonista assoluto del movimento sindacale sono ormai lontani, ma sembra anche lontana la prospettiva di un movimento sindacale definitivamente rinvigorito dall’afflusso massiccio dei membri dei nuovi ceti operai dell’economia terziarizzata, i lavoratori spesso immigrati che si concentrano nella ristorazione, nell’industria delle pulizie e in altri settori ‘poveri’ dell’economia urbana e suburbana del paese. L’epopea dei sindacati latinos sembrerebbe per ora più efficace sul piano dell’immaginario che su quello dei livelli reali di sindacalizzazione. Ma sono alcune precise storie di ‘categoria’ a dare invece il senso delle tendenze reali che sembrano affacciarsi all’orizzonte. È il caso di SEIU – una categoria di recente formazione che vede la compresenza di impiegati pubblici e privati. Fra i circa 2.000.000 di aderenti del 2008 ci sono oltre un milione di addetti nel settore sanitario – che, qui va da se, è privato e non pubblico – 850.000 impiegati delle amministrazioni locali e infine 255.000 addetti nei servizi di pulizia e di sicurezza. Sono le donne – il 56% del totale – gli afroamericani – il 40% – e gli immigrati a dominarne la composizione interna. Un’altra dimensione fortemente innovativa della nuova categoria dei servizi è il suo carattere internazionale. In questo caso, infatti, il S T A T O Q U A L E 344 COPPOLA movimento sindacale fa del NAFTA – l’area di libero scambio nordamericano istituita nel corso degli anni novanta – non solo l’obiettivo polemico dei propri umori protezionistici ma il suo stesso territorio di riferimento. Con l’eccezione del Messico, SEIU è con le sue trecento sedi locali e venticinque federazioni statali negli USA, in Canada e a Portorico un’organizzazione nordamericana e non meramente nazionale. La sua continua espansione negli ultimi anni – solo nel 2008 i suoi effettivi sono cresciuti di 88.000 unità, più del 21% della crescita complessiva dell’intero movimento sindacale – restituisce un’immagine del paesaggio sindacale del paese in parte differente da quella suggerita dai pur promettenti dati recentemente diffusi dal Department of Labor. Con SEIU, a crescere nel complesso del movimento sindacale, sono in particolare la presenza femminile, quella immigrata e soprattutto quella dei settori a più bassa sindacalizzazione, vale a dire quel terziario povero e poverissimo che abbiamo più volte citato. È anche grazie a esperienze di questo tipo – e al loro aggressivo e convincente sindacalismo di campagna – che i dati del 2008 appaiono promettenti non solo per il settore pubblico ma anche per quello privato. Infatti, se la tendenza a una crescita sostenuta nei settori pubblici non si è interrotta – con un aumento degli iscritti di 275.000 unità nel corso dello scorso anno – ora anche il settore privato contribuisce alla crescita complessiva con un saldo positivo di oltre 150.000 unità. All’interno di questo dato, a fronte della stabilità dei settori manifatturieri nei quali i livelli di sindacalizzazione passano dall’11.3% del 2007 all’11.4% del 2008 – un dato che nasconde però la contrazione in termini assoluti degli iscritti dovuta alla caduta del numero di occupati nel comparto – si registrano dati più promettenti in settori quali quelli alberghiero e della ristorazione – dal 2.8% al 3.2%, con una crescita di circa 200.000 unità – e dei servizi educativi e sanitari – dall’8.8% al 9.1%, con una crescita di più di 130.000 unità rispetto al decennio precedente. Si tratta in entrambi i casi di incrementi che in termini assoluti sono prossimi a quelli registrati nelle amministrazioni federali, statali e locali. Nonostante si tratti di dati precedenti allo scatenarsi dei primi pesanti effetti della recessione sul mercato del lavoro, la S T A T O Q U A L E 345 QUALE STATO tendenza che ne emerge è comunque significativa: la sindacalizzazione del settore privato è in ripresa grazie al maggiore dinamismo del terziario povero e nonostante la contrazione di quello manifatturiero. La coperta troppo corta della contrattazione collettiva Ma secondo fonti sindacali, il dato delle adesioni è pesantemente condizionato dall’accesso solo parziale alla contrattazione collettiva da parte dei lavoratori di molti settori. È ancora il National Labor Relations Act (NLRA) del 1935 – più noto come il Wagner Act, dal nome dell’allora ministro del Lavoro della prima amministrazione Roosevelt – a regolare la materia. Le eccezioni contenute nel testo originario, negli emendamenti approvati successivamente e infine nei pronunciamenti della Corte Suprema e nelle deliberazioni del National Labor Relations Board – l’organismo federale di arbitrato delle controversie di lavoro – hanno progressivamente ridotto le dimensioni della platea di lavoratori cui è riconosciuto il diritto alla contrattazione collettiva. Fra i gruppi professionali esclusi dall’accesso ai diritti introdotti dal Wagner Act vi sono i lavoratori dell’agricoltura, quelli domestici, quelli che sono definiti come ‘independent contractors’, le funzioni dirigenziali e infine gli impiegati pubblici. Nel tempo – come nel caso di gran parte delle amministrazioni pubbliche nelle quali si concentra, come abbiamo visto, il grosso dei battaglioni sindacali – sono state contemporaneamente introdotte a livello federale, statale e locale norme che hanno riconosciuto il diritto alla contrattazione collettiva a lavoratori appartenenti ad alcuni dei gruppi esclusi dalla legge del 1935. Il risultato di questo complesso intreccio di norme e pronunciamenti di diversa natura è il paesaggio straordinariamente frastagliato della contrattazione collettiva nel paese, dalla quale naturalmente dipende l’estensione effettiva della presenza sindacale. Gli ultimi dati disponibili diffusi da American Rights At Work – un’organizzazione no-profit vicina ai sindacati – sono relativi S T A T O Q U A L E 346 COPPOLA al 2005. In quell’anno a fronte di 140.715.996 attivi nel mercato del lavoro – dato dal quale è escluso il settore militare ma è incluso invece il lavoro autonomo – 33,5 milioni di lavoratori, vale a dire il 23,8% del totale, erano privi del diritto alla contrattazione collettiva. Fra questi, più del 25% degli impiegati pubblici – per un totale di 5.390.000 lavoratori – e circa il 15% di quelli privati fra cui figurano più di dieci milioni di ‘independent contractors’, 412.000 lavoratori domestici, 507.000 lavoratori dell’agricoltura, 3.780.000 lavoratori impiegati in piccole imprese e infine 13 milioni di dirigenti e supervisori. Negli anni si sono moltiplicati i contenziosi dovuti al tentativo da parte di molte imprese di inquadrare i propri dipendenti in una categoria esclusa dai diritti riconosciuti dal Wagner Act. Il caso più recente e di maggiore visibilità è quello di FedEx 1 che considera i suoi 15.000 autisti come lavoratori non subordinati, contestandone il diritto all’organizzazione sindacale. Una mossa che permette all’impresa non solo di impedire di fatto la creazione di organizzazioni sindacali ma anche di evadere il pagamento dei contributi – principalmente quelli della Social Security (il sistema previdenziale pubblico), di Medicare (l’assicurazione sanitaria pubblica per gli anziani) e dei trattamenti di disoccupazione – e di escludere parte della forza lavoro dall’accesso ad altri piani assicurativi aziendali, a partire da quello sanitario. Il ‘modello FedEx’ è stato quindi preso ad esempio da altre imprese sempre alla ricerca di nuovi strumenti per la compressione del costo del lavoro. L’effetto dei limiti del Wagner Act e della legislazione e giurisprudenza successive sul potenziale effettivo di sindacalizzazione sono quindi pesanti. E anche da questo dipende, secondo le organizzazioni sindacali, la riduzione dei loro effettivi. Secondo American Rights at Work, lo stesso Bureau of Labor Statistics calcola i livelli di sindacalizzazione sulla base dell’insieme della forza lavoro e non del numero di lavoratori che 1 FedEx (abbreviazione del nome originale della compagnia: Federal Express) è una società di trasporto specializzata in spedizione espresse con servizi overnight di posta e plichi, in trasporti via terra, trasporti aerei e servizi logistici (NdR). S T A T O Q U A L E 347 QUALE STATO hanno effettivamente accesso al diritto alla contrattazione collettiva. A risultarne è l’inclusione nelle statistiche di oltre 33 milioni di lavoratori che non sono sindacalizzabili. Dalla quale dipende la sottovalutazione dei reali livelli di adesione alle organizzazioni sindacali. Un nuovo capitalismo democratico? È in questo contesto che negli ambienti democratici è cresciuta negli ultimi anni la nostalgia nei confronti dell’epoca della sindacalizzazione di massa. La retorica di classe che ha animato prima il discorso dei candidati alle primarie – Hillary Clinton in testa – e successivamente quello di Obama nel corso della campagna per le elezioni generali si è nutrita di continui riferimenti alla necessità di invertire nettamente la tendenza di venti anni di politiche apertamente o surrettiziamente antisindacali. E una nuova assertiva politica sindacale del governo federale è uno degli ingredienti fondamentali della suggestione di un New New Deal, diffusasi soprattutto fra i ranghi dall’ala sinistra della nuova coalizione democratica e che vede nel premio Nobel per l’economia Paul Krugman il suo più instancabile interprete. Inevitabilmente il pensiero di molti è tornato così ai tempi gloriosi delle relazioni industriali, quando la progressiva integrazione di settori crescenti della working class industriale nella middle class – che in America è vista come uno dei pilastri fondamentali della stessa identità e ideologia nazionali – dipendeva anche dal deciso cambiamento del modello di relazioni industriali introdotto dalle amministrazioni Roosevelt e pienamente espressosi nel corso dei primi decenni del dopoguerra. In quegli anni, all’ombra dell’egemonia politica ma soprattutto culturale del Partito Democratico, che si esprimeva attraverso le durature e popolari istituzioni e riforme del New Deal, si creavano le basi per un patto di ferro fra centrali sindacali e grandi imprese capaci di garantire per decenni alle seconde la pace sociale, dopo le aspre lotte operaie della prima metà del secolo, e alle prime un potere d’acquisto per i propri iscritti inimmaginabile fino a qualS T A T O Q U A L E 348 COPPOLA che tempo prima. Le famiglie operaie accedevano così ad alti salari, piani pensionistici e sanitari che ne facevano i membri di una nuova classe media industriale, alla catena di montaggio durante il turno di lavoro ma proprietari di un’abitazione e di un’automobile relativamente costose e, soprattutto, sicuri di poter pagare le rette dell’università dei propri figli, garanzia del destino sociale ascendente del nucleo familiare. Ed erano proprio gli alti livelli di sindacalizzazione del settore industriale a garantire il funzionamento del modello di regolazione rooseveltiano. Al 1955, un impiegato su tre nel settore privato apparteneva a un’organizzazione sindacale. Gli alti salari dei settori a più alta sindacalizzazione contribuivano non solo a una positiva dinamica dei redditi nei settori non sindacalizzati ma anche alla robusta espansione del mercato e della produzione interna, in una fase nella quale l’integrazione globale era ancora in gran parte di là da venire. Così, fra il 1945 e il 1973 produttività e reddito da lavoro crescevano in modo regolare e contestuale, un circolo virtuoso che successivamente si è interrotto e ha condotto al paradosso apparente degli anni 2000-2007, quando in un contesto di crescita del prodotto interno lordo e della produttività, il reddito della famiglia media della working class si è ridotto di 2000 dollari al netto dell’inflazione. Il risultato è l’ormai ben noto paesaggio di insostenibile divaricazione dei redditi. Se nel 1960, i manager guadagnavano in media ventiquattro volte di più dei loro dipendenti, nel 2007 la loro retribuzione è stata in media più alta di 257 volte, con l’1% più ricco della popolazione che assorbe il 23% del reddito complessivo, un livello ineguagliato dal 1928. Sullo sfondo, la fuga dei capitali dagli impieghi produttivi, considerati sempre meno remunerativi, verso i lidi di un sistema finanziario sempre più sofisticato e inaccessibile – dominato da quelle che Warren Buffett ha definito come le «armi finanziarie di distruzione di massa» – e l’affacciarsi, a partire dagli anni Ottanta, di quello che negli USA è definito come il ‘twin deficit’, vale a dire la combinazione fra crescente disavanzo pubblico e squilibrio nella bilancia dei pagamenti. Così, nel tempo, a mettere le radici è un nuovo sistema finanziario ora chiamato a teneS T A T O Q U A L E 349 QUALE STATO re artificiosamente elevata la domanda interna, non più sostenuta dalla dinamica positiva dei redditi da lavoro. Da lì il boom del mercato immobiliare e dell’indebitamento che sono all’origine del collasso finanziario prima e di quello dell’economia reale poi. Ed è stato grazie al loro sempre più massiccio indebitamento che molte famiglie americane hanno sostenuto i costi crescenti di servizi che in Europa sono in gran parte socializzati, a partire dalle cure sanitarie e dall’istruzione superiore. In questo quadro, negli ambienti più progressisti della nuova amministrazione, l’introduzione di nuove politiche a sostegno della sindacalizzazione è vista come uno strumento per rimettere in linea produttività, redditi da lavoro e risparmio privato. L’idea è quella della ricostituzione della middle class dei tempi d’oro, partecipe dell’espansione economica e capace di sostenere la domanda interna non attraverso livelli parossistici di indebitamento ma in virtù dell’accesso a salari e prestazioni sociali dignitosi. Un’idea che ha trovato nell’ex ministro del Lavoro dell’amministrazione Clinton, Robert Reich, il suo interprete più convinto. Per lui, «gran parte degli americani vuole semplicemente un’opportunità per partecipare al successo delle imprese che contribuiscono a far crescere. Rendendo più facile la sindacalizzazione, si darebbe alla classe media americana il potere contrattuale per accedere a salari più alti e a prestazioni sociali migliori. E una forte e prospera classe media è indispensabile se vogliamo che la nostra economia cresca». Per Reich, sindacati più forti e influenti contribuiranno a far uscire l’America dall’incubo di quello che ha definito come il super-capitalismo, ricostituendo le basi di quel ‘capitalismo democratico’ travolto dalla rivoluzione conservatrice. Alla tavola della ricerca del nuovo paradigma economico, il convitato di pietra è ovviamente il destino dell’integrazione globale dei mercati. Un tema che ha agitato la campagna presidenziale e che ora dovrà trovare risposte nell’azione concreta dell’amministrazione Obama. Se l’obiettivo è quello della ricostituzione del ‘capitalismo democratico’ à la Reich, la nuova amministrazione dovrà fare i conti con trent’anni di impetuosa globalizzazione della produzione e degli scambi e capire se il S T A T O Q U A L E 350 COPPOLA primo obiettivo sia da perseguire entro o contro il modello dell’interdipendenza. Si tratta di un dibattito per ora in gran parte sotterraneo e che vede scontrarsi posizioni e sensibilità molto diverse non solo nell’amministrazione – dove i globalizzatori paiono comunque rappresentati ai più alti livelli, a partire da chi controlla le leve della politica economica – ma nella stessa eterogenea coalizione democratica che ha permesso la vittoria di novembre. Se l’idea di un nuovo – magari strisciante – protezionismo sembra sorridere agli umori più elementari della sempre più ristretta base del sindacalismo industriale, di certo essa non gode dello stesso consenso fra quei ceti urbani più affluenti che hanno finanziato e sostenuto l’ascesa di Obama alla Casa Bianca. I primi venti giorni di Obama In cima alla lista delle cose da fare nell’ambito delle relazioni industriali sta quindi la riforma seppure parziale del diritto sindacale. Obama è stato molto chiaro sul tema, sia nel corso della campagna che nel corso delle prime settimane di vita della sua amministrazione. «Siamo pronti a giocare all’attacco sul tema dell’organizzazione sindacale. È venuto il tempo di avere un presidente che non si strozzi nel pronunciare la parola ‘sindacato’. Un presidente che rafforzi i sindacati permettendogli di fare quello che sanno fare meglio: organizzare i nostri lavoratori», ha dichiarato Obama prima del voto. Affermazioni che, nel loro contenuto, sono state successivamente richiamate anche nel corso delle ultime settimane. I sindacati lo hanno preso in parola e ora confidano che le priorità dei primi cento giorni alla Casa Bianca siano quelle stesse che hanno richiesto: intervento pubblico a sostegno dell’economia reale, copertura sanitaria universale e, soprattutto, una nuova legge che faciliti la sindacalizzazione. I primi passi di Obama sembrano per ora aver soddisfatto le organizzazioni sindacali. In dicembre, la nomina di Hilda Solis, una democratica californiana dall’impeccabile biografia progressista e da sempre S T A T O Q U A L E 351 QUALE STATO molto vicina al mondo sindacale alla guida del Department of Labor – l’equivalente del nostro ministero del Lavoro – ha fatto tirare un sospiro di sollievo a più di un sindacalista, dopo il malessere provocato dalle nomine ai dicasteri economici del presidente. Timothy Geithner e Lawrence Summers – rispettivamente il Segretario al Tesoro e il Capo del consiglio economico della Casa Bianca – sono entrambi legati all’ex segretario al Tesoro di Clinton, Robert Rubin. Un nome associato al NAFTA che, come abbiamo visto, è il bersaglio polemico delle organizzazioni sindacali dell’industria. Dopo l’inaugurazione di gennaio, fra i primissimi atti della nuova amministrazione, la firma del Fair Pay Act – una legge per l’eguaglianza salariale fra i generi, osteggiata dalla minoranza repubblicana – e la nomina di una Task Force per la Middle Class guidata dal vice presidente Biden – chiamata a definire l’agenda di governo su temi che vanno dalla tutela dei redditi alle pensioni e alla sicurezza sul lavoro – hanno restituito a dirigenti e militanti sindacali l’immagine esaltante di un nuovo presidente deciso a rompere in modo netto con la disastrosa eredità sociale ed economica dell’epoca conservatrice. La stessa recentissima approvazione del piano di interventi da 787 miliardi di dollari contro la recessione, nonostante abbia risentito in alcuni dei suoi contenuti del tentativo della presidenza di allargare il consenso a parte della minoranza repubblicana, contiene molte delle iniziative sostenute sia da AFL-CIO che da CHANGE TO WIN nel corso della lunga campagna elettorale: dai consistenti investimenti nelle energie alternative, nei trasporti, all’istruzione, all’estensione dei trattamenti di disoccupazione e di altre forme di integrazione dei redditi, da una prima riduzione fiscale sui redditi medi e bassi al sostegno alla spesa di stati e amministrazioni locali, ora in grave difficoltà per la contrazione del gettito locale determinato dalla recessione. Ma l’attesa sindacale è tutta per l’Employee Free Choice Act, già approvato dalla maggioranza democratica alla Camera dei rappresentanti nella scorsa legislatura ma poi bloccato al Senato dall’ostruzionismo repubblicano. Il testo, oltre a introdurre norme più dure per la repressione dei comportamenti antisindacali dei datori di lavoro, introduce il diritto dei S T A T O Q U A L E 352 COPPOLA lavoratori a vedere riconosciuta dal National Labor Relations Board la potestà contrattuale di un’organizzazione sindacale qualora una maggioranza di loro vi aderisca per iscritto. La norma modificherebbe così il dispositivo esistente che prescrive il necessario ricorso al voto segreto fra i lavoratori per la formazione di una rappresentanza sindacale, un meccanismo che paradossalmente, secondo i sindacati, al posto di tutelare la libertà dei lavoratori li esporrebbe a pressioni e comportamenti discriminatori. La rappresentanza sindacale riconosciuta e l’impresa avrebbero tempo novanta giorni per il raggiungimento di un accordo contrattuale, termine oltre il quale interverrebbe l’arbitrato del Federal Mediation and Conciliation Service, una norma questa che dovrebbe riuscire a ridurre drasticamente i tempi di stipulazione dei contratti. Secondo fonti sindacali, l’approvazione del Free Employee Choice Act varrebbe da solo cinque milioni di nuovi iscritti nei primi anni della sua applicazione. L’opposizione repubblicana e le imprese sono però decise a impedirne a tutti i costi l’approvazione. Organizzazioni quali la Coalition for a Democratic Workplace, il Center for Union Facts e il Workforce Fairness Institute stanno conducendo aggressive campagne di stampa rese possibili dalle generose sottoscrizioni delle centinaia di imprese che le sostengono. L’obiettivo è quello di convincere l’opinione pubblica del carattere antidemocratico della proposta di legge, spingendo i democratici di orientamento moderato a sabotarne l’approvazione al Senato. Già nel corso della campagna per il rinnovo del Congresso, le organizzazioni che si oppongono alla riforma hanno speso più di venti milioni di dollari a sostegno delle campagne elettorali degli sfidanti repubblicani di senatori democratici che si erano espressi a favore del testo. Secondo gli oppositori del Free Employee Choice Act, l’abolizione della norma che prevede l’obbligatorietà del voto segreto per la formazione delle rappresentanze sindacali sui luoghi di lavoro configurerebbe una grave violazione dei diritti individuali nei luoghi di lavoro. A fornire nuovi argomenti al campo conservatore si è recentemente aggiunto anche un noto giurista dell’Università di Chicago, Richard Epstein, secondo il quale la norma sarebbe S T A T O Q U A L E 353 QUALE STATO addirittura incostituzionale, una posizione che richiama da vicino gli argomenti utilizzati dalla destra nella sua storica battaglia contro i programmi e le riforme introdotte dal New Deal. Per i sindacati e i sostenitori della riforma, il vero obiettivo non è l’abolizione del voto segreto ma la riforma del processo elettorale che oggi permette alle imprese di esercitare ogni tipo di pressione sui dipendenti al fine di determinare l’esito negativo del voto. Nelle settimane che spesso precedono la celebrazione del voto segreto, le imprese ricorrono non raramente oltre che ai normali strumenti di persuasione anche a corruzione e licenziamenti politici, mentre alle organizzazioni sindacali è vietato fare campagna nei luoghi di lavoro. L’introduzione del diritto all’adesione individuale per iscritto costituirebbe quindi un modo per aggirare un processo elettorale strutturalmente sbilanciato a favore delle direzioni d’impresa, garantendo il rispetto della volontà dei lavoratori di dare vita ad una rappresentanza sindacale. L’incubo o il sogno della sindacalizzazione di massa Con la riforma, secondo i dirigenti sindacali, sarebbe facilissimo trovare dieci ragazzi decisi a formare una rappresentanza sindacale in uno Starbucks o in un McDonald, cinquanta infermiere desiderose di farlo in una casa di cura o cento commessi in un grande magazzino Wall-Mart. Il Free Employee Choice Act rappresenterebbe da questo punto di vista la risposta del nuovo corso democratico a una domanda sindacale largamente inevasa e compressa da decenni di politiche conservatrici. Secondo un’indagine del 2005, il 53% di chi oggi non fa parte di un’organizzazione sindacale si iscriverebbe, se solo ne avesse la possibilità. Il dato – il più alto dall’inizio degli anni Ottanta – riflette, secondo Harley Shaiken dell’Università della California, la vera ragione dei bassi livelli di sindacalizzazione del settore privato: semplicemente, «per molti americani, l’associarsi a un sindacato è oggi divenuto un rischio più che un diritto». La straordinaria mobilitazione della destra e delle imprese testimonia della plausibilità di questa analisi. Secondo un senatore repubS T A T O Q U A L E 354 COPPOLA blicano – John Ensign – la norma se approvata «modificherebbe il quadro politico in modo profondo per i prossimi quaranta o cinquant’anni», mentre per Mark McKinnon – un consulente delle campagne presidenziali di George W. Bush e John McCain, ora impegnato nella mobilitazione contro la proposta di legge – «il Free Employee Choice Act rappresenta il più radicale tentativo di riscrittura del diritto sindacale dagli anni Trenta, un vero e proprio incubo politico» per i conservatori. La prospettiva di una consistente accelerazione della oggi assai timida tendenza alla crescita dei livelli di sindacalizzazione rappresenta per la destra e le imprese non solo il rischio di una maggiore partecipazione del lavoro ai frutti della crescita – negli USA un lavoratore sindacalizzato guadagna in media fino al 30% in più di un lavoratore non sindacalizzato, un vantaggio che si trasferisce anche nell’accesso a livelli più elevati di protezione sociale e sanitaria – ma anche il pericolo che la nuova eterogenea coalizione democratica che si è affermata in novembre possa trovare in sindacati più forti e influenti un fondamentale elemento di radicamento e stabilizzazione. La suggestione di un nuovo ‘capitalismo democratico’ – la cui strada rimane comunque impervia e piena di contraddizioni, nonostante il volontarismo della nuova amministrazione – si nutre anche dell’idea di un Partito Democratico capace di ricostituire la propria presa sulla società americana attraverso un’attenta combinazione di forme di radicamento ‘reali’ e ‘virtuali’, che attivino e federino mondi sociali e generazionali molto diversi fra loro, come in parte già sperimentato nel corso della lunga campagna elettorale. Fra primarie ed elezioni generali, il paese è stato attraversato da una mobilitazione straordinaria che ha visto convergere l’attivismo dei sindacati con quello degli spazi reali e virtuali di partecipazione politica promossi dalle nuove generazioni progressiste, siti quali Moveon.org o le centinaia di organizzazioni studentesche a sostegno della candidatura di Obama moltiplicatesi nei campus di tutto il paese. Il tutto nel quadro di una struttura di partito che ha cessato di essere leggera ed evanescente, avvicinandosi a qualcosa di più simile a una forza dotata di una sua continuità politica ed organizzativa. S T A T O Q U A L E 355 QUALE STATO Con il Free Employee Choice Act i democratici scommettono sul contributo che una maggiore partecipazione nei luoghi di lavoro può dare alla rivitalizzazione politica di una ‘classe media’ – una definizione dai contorni cangianti ma ora fortemente condizionata dal discorso egualitario della nuova amministrazione – vista come uno degli ingredienti fondamentali di quella che vuole essere una nuova e duratura fase di egemonia dei progressisti americani. Con la nuova politica sindacale, ad annunciarsi non è solo una nuova visione del paese, ma anche la volontà dei democratici di trasformare l’eterogenea coalizione che li ha portati alla Casa Bianca in un più solido ‘blocco sociale’ di riferimento che abbia fra i suoi protagonisti un movimento sindacale rafforzato e riformato. Una scommessa ambiziosa, da seguire da vicino anche su questo lato dell’Atlantico dove è da tempo che le ambizioni, invece, scarseggiano. S T A T O Q U A L E 356 COPPOLA RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI «American Rights at Work» (2008), The Employee Free Choice Act: Ensuring the Economy Works for Everyone, www.americanrightsatwork.org. «American Rights at Work» (2008), The Haves and the Haves Not. How American Labor Law Denies a Quarter of the Workforce Collective Bargaining Rights, www.americanrightsatwork.org Aspen Institute Italia, America n.1. La Crisi senza declino, «Aspenia», n. 43, 2008. M. Diletti; M. Mazzonis, M. Toaldo (2009), Come cambia l’America. Politica e società ai tempi di Obama, Edizioni dell’Asino, Roma. R. Epstein (2008), The Employee Free Choice Act is Unconstitutional, «The Wall Street Journal»,19 Dicembre. J. Gerstein (2009), Obama’s Proposals Mostly Intact in Final Bill, http://www.politico.com/, 13 febbraio 2009. S. Greenhouse (2009), Bill Easing Unionizing is under Heavy Attack, «The New York Times», 8 gennaio. S. Greenhouse (2008), Unions Look for New Life in World of Obama, «The New York Times», 28 dicembre 2008. M. Hiltzik (2009), Weighing the Employee Free Choice Act, «The Huffington Post», 9 febbraio. J. Judis (2008), America the Liberal, «The New Republic», 5 novembre. E. Kaplan (2009), Can Labor Revive the America Dream?, «The Nation», 7 gennaio. P. Krugman (2009) Failure to Rise, «The New York Times», 12 febbraio. R.B. Reich (2008), Supercapitalismo. Come cambia l’economia mondiale e i rischi per la democrazia, Fazi, Roma 2008. R.B. Reich (2009), Why We Need Stronger Unions, and How to Get Them, «Los Angeles Times», 29 gennaio. United States Department of Labor, Bureau of Labor Statistics (2009), Union Members in 2008, Washington (DC). S T A T O Q U A L E 357