parte prima il diritto amministrativo: nozione e fonti

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parte prima il diritto amministrativo: nozione e fonti
Parte Prima
Il diritto amministrativo:
nozione e fonti
1 È possibile enucleare una nozione unitaria di
«pubblica amministrazione»?
La «pubblica amministrazione» costituisce il complesso di tutte le
strutture burocratiche di una collettività organizzata in forma di Stato e, pertanto, appare assai difficile enuclearne una nozione unitaria.
Il termine «amministrazione», infatti, può essere inteso secondo due
accezioni:
— in senso oggettivo, esso sta ad indicare la funzione amministrativa, quale cura concreta degli interessi pubblici e regolata da norme giuridiche;
— in senso soggettivo, equivale, invece, ad esprimere la sede dell’attività amministrativa, ovvero il soggetto che svolge quell’attività
(GIANNINI). Tale ultimo concetto, viene identificato anche con le
locuzioni di «amministrazione-apparato» e «amministrazione-organizzazione».
La Costituzione fa proprio riferimento al concetto di amministrazione in senso soggettivo per disciplinare, pur senza darne precise
definizioni, la materia dell’organizzazione amministrativa.
In particolare, al riguardo, occorre fare riferimento all’art. 97 Cost., il
quale dispone che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
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Parte Prima
2 Qual è il modello di amministrazione pubblica
che emerge dalla nostra Costituzione?
Dalle disposizioni costituzionali che riguardano, direttamente o indirettamente, la P.A., è possibile desumere l’esistenza di diversi modelli di amministrazione:
— quelli che discendono dagli artt. 95 e 97 Cost.
In particolare, dall’art. 95 Cost., che prevede la responsabilità dei
Ministri per gli atti dei rispettivi dicasteri, si ricava una concezione
dell’amministrazione pubblica intesa come organizzazione strumentale rispetto al Governo (CASETTA).
L’art. 97, invece, prevede una riserva relativa di legge in materia di organizzazione degli uffici pubblici, e, di conseguenza, sembra
voler sottrarre la P.A. al controllo politico del Governo e renderla indipendente dagli altri poteri dello Stato, assoggettandola, appunto,
alla legge.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto è possibile citare anche altre disposizioni costituzionali, come gli artt. 51 e 98 Cost., che tutelano la P.A ed i suoi dipendenti da eventuali influenze di tipo politico o di altro genere, nonché la norma racchiusa nell’art. 97, comma 3, Cost., secondo cui «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge»;
— il modello di amministrazione delineato dagli artt. 5 e 114 e seguenti Cost., che fanno leva sul concetto di decentramento amministrativo, ulteriormente rafforzato a seguito della riforma del
Titolo V della Costituzione, che consente a Regioni ed enti locali,
«enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni», di porre in
essere un proprio indirizzo politico amministrativo, anche non coincidente con quello statale.
3 Che si intende per «separazione tra indirizzo
politico ed attività di gestione»?
I diversi modelli di amministrazione delineati dalla Carta costituzionale sono
tutti riconducibili al rapporto tra amministrazione, governo e politica.
A questo proposito, si noti che, sebbene il momento amministrativo
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non sia totalmente estraneo al governo, non sempre appare netta la
linea di demarcazione tra apparato amministrativo e politico.
Nel tentativo di tracciare una distinzione bisognerebbe partire dal dettato dell’art. 95 Cost., che prevede che il Governo esprime l’indirizzo politico e amministrativo del Paese, ossia individua i fini a
cui deve tendere l’attività amministrativa.
La pubblica amministrazione, a sua volta, non può essere disegnata
come mero strumento di attuazione delle direttive del Governo: difatti, l’amministrazione deve essere orientata al raggiungimento
dei fini delineati in sede politica, e, allo stesso tempo, sottratta ai condizionamenti di tipo politico, dal momento che essa è tenuta ad agire secondo criteri di imparzialità, buon andamento e
trasparenza.
Se ne deduce che, pur essendo possibili momenti di interferenza, si tratta, in ogni caso, di una separazione molto sottile. In realtà, più che di
«separazione» tra politica e amministrazione, sarebbe preferibile parlare di differenziazione in senso garantista fra i due ambiti; ossia
evitare che l’amministrazione finisca per diventare un semplice apparato servente del potere esecutivo.
4 Qual è la differenza tra funzione politica e funzione amministrativa?
Lo Stato, come istituzione, si autolegittima e sopravvive per il perseguimento di determinati fini, aventi carattere generale, comuni a tutta la
collettività che di esso fa parte.
La realizzazione dei suddetti fini avviene attraverso varie fasi, comprendenti l’individuazione di essi (funzione politica), il loro riconoscimento tra gli scopi dell’attività statale (funzione legislativa), la loro concreta attuazione (funzione amministrativa) e, infine, la loro tutela
(funzione giurisdizionale).
Pertanto, mentre l’individuazione dei fini generali dello Stato, in un
determinato contesto storico, sociale e politico, costituisce oggetto della funzione politica, viceversa la realizzazione concreta di questi
obiettivi individuati dal potere politico è affidata alla funzione amministrativa.
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Parte Prima
L’attività amministrativa, inoltre, è caratterizzata da una discrezionalità più limitata
rispetto a quella che caratterizza la funzione politica, la quale incontra l’unico limite delle previsioni costituzionali. Infatti, la funzione amministrativa deve essere svolta non solo
nel rispetto dei principi costituzionali, ma anche in armonia con la legge ordinaria e gli
atti ad essa equiparati, e nell’esercizio di tale funzione i soggetti pubblici emanano gli
atti amministrativi.
La funzione politica, invece, viene realizzata attraverso atti politici o
di governo, che, per la loro natura, sono gli atti di suprema direzione
dello Stato, liberi nel fine e non assimilabili alla categoria degli atti
amministrativi.
5 Qual è la classificazione delle fonti del diritto
nel nostro ordinamento, con particolare riferimento a quelle del diritto amministrativo?
Con l’espressione «fonte del diritto» si fa riferimento alla «sorgente» da
cui ha origine la norma giuridica; le fonti, infatti, possono essere definite come gli atti e i fatti abilitati dall’ordinamento a produrre diritto.
Il sistema delle fonti nel nostro ordinamento si articola secondo un’organizzazione gerarchica che, al vertice, vede la Costituzione e le
leggi costituzionali, un gradino più in basso le fonti primarie, cioè la
legge e gli atti aventi forza di legge, nonché le leggi delle Regioni;
infine, troviamo le cd. fonti secondarie, comprendenti i regolamenti, tenuti a rispettare le disposizioni di rango superiore, che sono atti
formalmente amministrativi, in quanto emanati da organi del Governo,
ma sostanzialmente normativi, poiché contengono norme destinate ad
innovare l’ordinamento giuridico, e le ordinanze, le quali per essere fonti del diritto, devono creare statuizioni normative generali e astratte.
Il nostro ordinamento, inoltre, a seguito dell’adesione all’Unione europea, permette l’ingresso di fonti esterne, come gli atti dell’UE e le
norme del diritto internazionale; alcune norme europee, in particolare, come i regolamenti e le decisioni, entrano direttamente a far parte del nostro ordinamento (cd. norme self-executing) e, pertanto, si
pone il delicato problema di inserire le stesse nell’ambito della tradizionale gerarchia delle fonti: in particolare, vige il principio della preferenza comunitaria, in base al quale le norme europee vengono considerate su un gradino superiore rispetto alle norme interne.
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Altra categoria è quella delle cd. fonti non scritte, come la consuetudine, la prassi costituzionale e, tra le fonti di rango minore, la cd.
prassi amministrativa; nonché le cd. norme interne della P.A., che
si dirigono solo a coloro che fanno parte di una determinata amministrazione.
Si ricordi, infine, che un terzo gruppo di fonti è dato da quelle derivanti dalle norme emanate dalle Regioni che, a seguito della modifica al
Titolo V, Parte II, della Costituzione, hanno acquisito un carattere originario in luogo di quello ottriato (unilateralmente concesse dallo Stato-persona) previgente alla riforma della Carta.
Alla luce di quanto asserito, oggi sui parla di un sistema multi-livello delle fonti che comporta numerose difficoltà per determinare la
corretta gerarchia delle stesse.
6 Qual è il fondamento della potestà regolamentare?
Le fonti «secondarie» del diritto comprendono tutti gli atti che sono
espressione del potere normativo dell’amministrazione statale e di altri
enti pubblici. Esse si distinguono in regolamenti, statuti ed ordinanze
e, in quanto atti amministrativi, sono soggetti alla legge e a tutti gli atti
di pari grado e forza.
Tra le fonti secondarie una posizione di spicco è rivestita dai regolamenti, atti formalmente amministrativi, in quanto emanati dal potere
esecutivo, ma aventi forza normativa (sostanzialmente normativi), cioè
contenenti norme destinate ad innovare l’ordinamento giuridico.
Il fondamento della potestà regolamentare è da ricondurre alla legge, la quale è l’unica fonte che può attribuire detto potere, determinando l’inserimento dei relativi atti nella gerarchia delle fonti.
La principale norma attributiva è l’art. 17 L. 400/1988 (Disciplina
dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio
dei Ministri).
Secondo la giurisprudenza, inoltre, i regolamenti, in quanto atti amministrativi a contenuto normativo, non necessitano di specifica motivazione riguardo il loro contenuto. Lo stesso legislatore, infatti, nel prevedere il carattere generale dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (art. 3 L. 241/1990), ha sottratto a detto obbligo gli atti normativi, considerati a motivo libero.
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Il carattere non obbligatorio della motivazione, tuttavia, non esclude che gli atti normativi, e tra questi i regolamenti, possano essere sindacati sotto il profilo dell’eccesso di potere, per la violazione del canone di logicità dell’agire amministrativo.
7 Quali sono i limiti previsti in ordine all’esercizio
della potestà regolamentare?
La potestà regolamentare incontra una serie di limiti. In particolare, i
regolamenti:
— non possono mai derogare o contrastare con la Costituzione ed i principi in essa contenuti, né con le leggi ordinarie;
— non possono regolare materie riservate dalla Costituzione alla
legge (ordinaria o costituzionale);
— non possono mai contrastare con il principio di irretroattività della legge;
— non possono contenere sanzioni penali (in base alla riserva di
legge contenuta nell’art. 25 Cost.);
— non possono regolare istituti fondamentali dell’ordinamento.
I regolamenti emanati da autorità inferiori, inoltre, non possono mai
contrastare con i regolamenti emanati da autorità gerarchicamente superiori: ad esempio, i regolamenti ministeriali o interministeriali non
potrebbero introdurre disposizioni contrastanti con quelli governativi.
I regolamenti governativi non possono, inoltre, disciplinare, salvo espressa previsione della legge statale, materie di competenza normativa delle Regioni, ai sensi dell’art. 117 Cost.
8 Cosa sono le ordinanze?
Nel campo del diritto amministrativo, per «ordinanze» si intendono
tutti quegli atti che creano obblighi o divieti ed in sostanza impongono ordini. Esse, per essere fonti del diritto, devono avere carattere normativo, e cioè creare delle regole generali ed astratte.
Generalmente, si distingue tra:
a) ordinanze previste dalla legge per casi eccezionali, di particolare gravità.
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Tra esse: i bandi militari; le ordinanze emesse dal Prefetto per tutelare la sicurezza e
l’ordine pubblico; le ordinanze speciali per la visita e la disinfezione delle case, per l’organizzazione dei servizi e soccorsi medici e per le misure di prevenzione da adottare in
concreto nei casi di malattie infettive a carattere epidemico; le ordinanze emesse dal Ministro dell’interno, per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, se la delibera
del Consiglio dei Ministri sullo stato di pericolo pubblico ha valore per tutto il territorio
nazionale (art. 216 T.U.L.P.S.); le ordinanze eccezionali in caso di calamità pubbliche
e catastrofi nazionali, eventualmente previste da norme ad hoc emanate per far fronte
ai singoli eventi calamitosi;
b) ordinanze cd. di necessità ed urgenza. Sono quelle emanate
da autorità amministrative espressamente investite di tale potere,
per far fronte a situazioni di urgente necessità: la legge attribuisce
il potere a determinati organi, ma non prevede anche i casi concreti in cui tale potere deve essere esercitato né pone limiti precisi al
contenuto di tali ordinanze; sono le stesse autorità investite del potere che, di volta in volta, al verificarsi della situazione di necessità
e finché questa perdura, provvedono, con singoli provvedimenti, a
farvi fronte.
Le ordinanze di necessità e di urgenza si caratterizzano in quanto:
— sono atti formalmente e sostanzialmente amministrativi;
— sono atipiche, in quanto la legge si limita ad indicare un’autorità amministrativa alla
quale viene attribuito il potere di porre in essere qualunque tipo di atto;
— presuppongono una necessità ed urgenza di intervenire;
— sono straordinarie, nel senso che il ricorso ad esse è possibile solo ove la situazione di pericolo non possa essere fronteggiata con atti tipici;
— la loro efficacia nel tempo è necessariamente limitata;
— trovano fondamento esclusivamente nella legge;
— debbono essere adeguatamente motivate e vanno pubblicizzate con mezzi idonei;
— non possono, in nessun caso, derogare a norme costituzionali o a principi generali dell’ordinamento e disciplinare materie coperte da riserva assoluta di legge.
9 Qual è la differenza tra la consuetudine e la
prassi amministrativa?
La consuetudine è la tipica fonte del diritto non scritta: essa consiste
nella ripetizione di un comportamento da parte di una generalità di persone, con la convinzione della giuridica necessità di esso.
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Essa consta di due elementi essenziali:
— un elemento oggettivo: il ripetersi di un comportamento costante
ed uniforme per un certo periodo di tempo (cd. diuturnitas o usus);
— un elemento soggettivo: la cd. opinio iuris ac necessitatis, cioè
la convinzione della giuridica necessità del comportamento.
La consuetudine non può innovare l’ordinamento giuridico preesistente, ma può disciplinare materie o settori privi di regolamentazione; le
norme consuetudinarie possono essere abrogate da successive consuetudini così come da leggi e da regolamenti.
La prassi amministrativa, viceversa, si concretizza in un comportamento costantemente tenuto, ma in difetto della convinzione della sua
obbligatorietà; essa non è una fonte del diritto, a differenza della
consuetudine, e non apporta alcuna innovazione nell’ordinamento giuridico.
10 Le norme interne della P.A. sono fonti del diritto?
Tutte le pubbliche amministrazioni emanano norme relative al funzionamento dei loro uffici e alle modalità di svolgimento della loro
attività, che danno luogo ad un «ordinamento amministrativo interno»
distinto dall’ordinamento giuridico generale, rilevante all’esterno.
Tali disposizioni, indirizzate soltanto a coloro che fanno parte di una
determinata amministrazione, sono dette norme interne (ordini, istruzioni, regolamenti).
Le circolari amministrative sono la categoria più importante e controversa di norme cd. interne.
La circolare non è una figura autonoma di atto amministrativo, non può
essere mai un atto a carattere normativo, ma è un mezzo di notificazione (o di comunicazione) di un atto amministrativo.
Per quanto riguarda in particolare il regime giuridico delle norme interne, si possono evidenziare i seguenti aspetti essenziali:
a) non sono fonti del diritto;
b) non possono essere in contrasto con norme di legge, né con regolamenti o ordinanze;
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c) la loro violazione da parte di un organo amministrativo dà luogo al
vizio di eccesso di potere: in tal caso le «norme interne» violate
assumono indirettamente rilevanza esterna (per i terzi);
d) la loro inosservanza da parte di funzionari o impiegati della P.A. può
dar luogo, a seconda dei casi, a responsabilità civili, amministrative (disciplinari), contabili, o anche penali, nonché a forme di controllo repressivo-sostitutive.
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Le situazioni giuridiche soggettive
11 Quali sono le situazioni giuridiche soggettive
del diritto amministrativo?
Le posizioni giuridiche soggettive costituiscono il complesso dei
diritti, dei poteri e degli obblighi di cui un soggetto giuridico può
essere titolare.
Affinché tali situazioni siano concretamente riferibili ad un soggetto è,
però, necessario che quest’ultimo sia astrattamente idoneo ad esserne titolare: infatti, ogni soggetto di diritto rappresenta un centro
unitario di imputazione di situazioni giuridiche.
Non vi è, nell’ordinamento giuridico, una definizione espressa di situazione giuridica soggettiva, e, pertanto, a tal fine, occorre fare riferimento alla teoria generale: una delle definizioni più rilevanti è quella che vede le situazioni giuridiche soggettive come le entità
di base del rapporto giuridico, che sorgono in conseguenza di un fatto giuridico ovvero di un potere, qualificati da una norma (BELLOMO).
Le situazioni giuridiche soggettive si distinguono in:
— attive, che comprendono il diritto soggettivo; il diritto potestativo; l’interesse legittimo; l’interesse semplice e gli interessi diffusi e collettivi;
— passive, comprendenti l’obbligo, il dovere, l’onere e la soggezione.
Il riconoscimento di tali posizioni viene fatto dalle norme dell’ordinamento stesso.
12 Come può essere definito il «diritto soggettivo»?
Il diritto soggettivo viene tradizionalmente configurato come quella posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento giuridico conferisce ad un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in
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ordine ad un bene, nonché la tutela degli interessi afferenti al bene stesso, in modo pieno ed immediato.
Per quanto riguarda la tutela dei diritti soggettivi, in particolare, va detto
che normalmente è rimessa al giudice ordinario e solo in casi tassativamente previsti (cd. giurisdizione esclusiva) al giudice amministrativo.
In altri termini, nella posizione di diritto soggettivo l’interesse sostanziale (utilità economico-sociale) è tutelato direttamente dalla legge, nel
senso che è quest’ultima a garantire il conseguimento di quella utilità e,
solo nel caso in cui un terzo voglia frapporre ostacoli al godimento spettante al titolare del diritto, viene prevista la intermediazione dell’autorità
giudiziaria volta a sanzionare l’illiceità del comportamento del terzo.
Pertanto, si ha diritto soggettivo perfetto ogni qualvolta una norma cd. di relazione, rivolta a disciplinare comportamenti intersoggettivi, attribuisca ad un soggetto un potere diretto ed immediato per la realizzazione di un proprio interesse cui corrisponde necessariamente un
obbligo facente capo a soggetti determinati ovvero alla collettività.
L’elemento caratterizzante di tali diritti sta, dunque, nella correlazione con uno o più obblighi altrui, e nella immediatezza e pienezza della tutela accordata dall’ordinamento.
13 Quando un diritto viene definito «condizionato»?
Si hanno diritti condizionati qualora l’esercizio di essi è sottoposto a
condizione, che può essere risolutiva o sospensiva.
Si tratta evidentemente di ipotesi in cui l’ordinamento consente, a determinate condizioni, il sacrificio o la limitazione di un diritto del singolo
a vantaggio della collettività (si pensi, ad esempio, all’esproprio di un terreno — appartenente ad un singolo — per costruirvi un’autostrada).
Si distinguono due figure di diritti condizionati:
a) diritti sospensivamente condizionati (diritti in attesa di espansione per SANDULLI) il cui esercizio è inizialmente limitato da un
ostacolo giuridico, per la cui rimozione è necessario un provvedimento amministrativo che consenta al diritto di espandersi ed acquistare la sua pienezza.
È il caso del diritto di costruire sul proprio fondo, per il cui esercizio occorre il rilascio
della concessione edilizia o quello del diritto all’esercizio della professione, per il cui espletamento occorre l’iscrizione nel relativo albo;
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b) diritti risolutivamente condizionati (cd. fenomeno dell’affievolimento dei diritti) che si hanno qualora il diritto, di fronte alla
potestà riconosciuta alla P.A. di incidere su di esso, affievolisce ad
interesse legittimo.
La P.A., infatti, nel perseguimento dei suoi fini pubblici, può essere ostacolata da diritti di privati; in questi casi la legge può attribuirle il potere di
sacrificare tali diritti individuali a vantaggio dell’interesse collettivo, per cui
i diritti stessi, davanti a tale potere, affievoliscono ad interessi legittimi.
14 Che cosa è l’interesse legittimo?
L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva individuale che ha trovato riconoscimento nel nostro ordinamento con la L.
5992/1889, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, quale giudice di quegli interessi sostanziali diversi dai diritti soggettivi che fino ad
allora erano rimasti del tutto sforniti di tutela.
In particolare, l’interesse legittimo si «definisce come la situazione soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile ed immediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto
amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse
strumentale» (CASETTA).
L’interesse legittimo, inoltre, concerne anche la pretesa alla legittimità dell’attività amministrativa, riconosciuta a quel soggetto
che, rispetto ad un dato potere della P.A., si trovi in una particolare posizione differenziata rispetto agli altri soggetti (cd. posizione legittimante).
I caratteri che contraddistinguono la figura dell’interesse legittimo sono:
— la differenziazione, cioè è titolare di un interesse legittimo colui
che, rispetto all’esercizio di un potere pubblico, si trovi in una posizione differenziata rispetto a quella della generalità degli altri soggetti;
— la qualificazione, nel senso che la norma preordinata a disciplinare l’esercizio del potere della P.A. per il perseguimento dell’interes-
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se pubblico primario ha indirettamente preso in considerazione, e
quindi protetto, un interesse sostanziale individuale connesso o
coincidente con l’interesse pubblico.
L’interesse legittimo concreta, quindi, (art. 113, comma 1, Cost.) una
posizione:
— giuridica in quanto si sostanzia in un potere giuridico avente la
struttura della pretesa;
— soggettiva, in quanto riconosciuta al singolo soggetto a tutela di
un suo interesse materiale;
— sostanziale, in quanto preesiste alla eventuale lesione di essa;
— autonoma rispetto all’azione giurisdizionale derivante dall’eventuale lesione.
15 Quali sono le principali distinzioni che si è soliti fare nell’ambito della categoria degli interessi legittimi?
Gli interessi legittimi si distinguono, in base al criterio dell’esistenza di
un nesso giuridicamente rilevante tra l’interesse legittimo e un sottostante interesse materiale, in due grandi categorie:
1) gli interessi sostanziali;
2) gli interessi formali o procedimentali.
Gli interessi sostanziali, a loro volta, secondo il contenuto del potere attribuito al titolare nei confronti di una potestà amministrativa, si dividono in:
— interessi al procedimento o partecipativi, ossia gli interessi del privato a far valere le sue ragioni nel procedimento amministrativo;
— interessi all’annullamento di un provvedimento lesivo di un interesse materiale giuridicamente protetto (interessi oppositivi);
— interessi allo svolgimento di un’attività amministrativa (interessi pretesivi), cioè quelli fatti valere dal privato che intende ottenere una utilità dalla P.A. e vuole accrescere la propria sfera giuridica
con l’emanazione di un provvedimento a suo favore.
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16 Quali sono i principali criteri discretivi tra diritti soggettivi ed interessi legittimi?
In merito vi sono varie teorie. La differenza tra le due posizioni, secondo GUICCIARDI, va riferita alla natura della norma di riferimento. L’Autore, infatti, divide le norme in due categorie:
a) norme giuridiche di relazione: regolano i rapporti tra la P.A.
ed i cittadini, attribuendo diritti ed obblighi reciproci; esse tracciano la linea di demarcazione tra la sfera della P.A. e quella del cittadino e la loro violazione da parte della pubblica amministrazione
comporta la lesione di un diritto soggettivo del cittadino;
b) norme di azione: regolano l’esercizio dei poteri della P.A., imponendole un determinato comportamento. Se la pubblica amministrazione viene meno a tale comportamento essa lede un interesse (legittimo o semplice) del cittadino.
Un altro criterio di distinzione si fonda sulla natura vincolata o discrezionale dell’attività esercitata: nei confronti di un atto vincolato il privato può vantare un diritto soggettivo perfetto; nei confronti
di un atto discrezionale può vantare solo un interesse legittimo.
Deve però precisarsi che, mentre è vera la seconda affermazione, non sempre lo è la prima, perché deve distinguersi a seconda che l’attività sia vincolata da norme di relazione (cioè da norme attributive di diritti soggettivi al privato) ovvero da norme d’azione
(cioè da norme che regolano l’azione amministrativa senza incidere sui rapporti intersoggettivi). In questa seconda ipotesi, l’attività è vincolata, ma essendo tale non per tutelare
in via immediata e diretta una posizione soggettiva del privato, quest’ultimo non può vantare che un interesse legittimo (SANDULLI).
Un terzo criterio, largamente utilizzato in giurisprudenza, si fonda sulla distinzione tra carenza assoluta e cattivo esercizio del potere. In particolare:
— nel caso di cattivo uso, da parte della P.A., del proprio potere
discrezionale, sussistendo una norma di legge che le attribuisce il
potere di emanare l’atto, si avrà solo la lesione di un interesse
legittimo, rappresentato dall’interesse del privato a che la P.A., nella sua adozione, osservi i limiti, le forme ed il procedimento stabiliti dalla norma attributiva del potere (interesse che può essere tutelato solo in sede di giurisdizione amministrativa);
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— nell’ipotesi di carenza assoluta di potere, quando cioè manchi
proprio il potere discrezionale della P.A. di interferire nella sfera giuridica del privato, ovvero non sussistano i presupposti di fatto che
consentano l’esercizio di tale potere, l’atto amministrativo è considerato inidoneo ad incidere legittimamente sul diritto soggettivo del
privato, che quindi sussiste nella sua integrità e può essere fatto valere davanti al giudice ordinario.
Pertanto, tutte le volte che si lamenta il cattivo uso del potere da parte dell’amministrazione, si fa valere un interesse legittimo e la giurisdizione è del G.A., mentre si ha una questione di diritto soggettivo e la
giurisdizione è del G.O. quando si contesta la stessa esistenza del potere.
In tal modo si è posto il collegamento seguente: carenza di poterediritto soggettivo, cattivo uso del potere-interesse legittimo.
17 L’interesse legittimo è risarcibile?
La tematica della risarcibilità o meno degli interessi legittimi è stata,
per lungo tempo, oggetto di controversia sia in ambito dottrinario che
giurisprudenziale.
A fronte delle prime teorie che negavano la possibilità di risarcire gli
interessi legittimi lesi, la dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno modificato il precedente orientamento evidenziando che l’art. 2043
c.c. non fa espresso riferimento alle posizioni giuridiche tutelate, e che
si può comunque configurare una volontarietà pur nel compimento di
un’attività amministrativa.
Sulla scorta di queste considerazioni è stato introdotto nel nostro ordinamento il principio della risarcibilità degli interessi legittimi: dapprima ad opera della giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza 500/1999), la quale ha precisato che per ottenere il risarcimento è necessario che la lesione dell’interesse legittimo riguardi un
bene della vita meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo,
e successivamente del legislatore. In particolare, con l’art. 7 della L.
205/2000, si è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo, sia
esclusiva che di legittimità, la cognizione di tutte le controversie risarcitorie nonché quelle relative agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
La questione, a seguito della emanazione del Codice del processo
amministrativo, recato dal D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha tro-
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vato un rinnovato assetto, attraverso la previsione di cui all’art. 30 del
Codice, che disciplina l’azione di condanna innanzi al giudice amministrativo (le ulteriori azioni sono quella di annullamento e quella avverso
il silenzio della P.A., rispettivamente ex artt. 29 e 31 del Codice medesimo). In particolare, l’art. 30 cit. disciplina specificamente, nell’ambito dell’azione di condanna, l’azione risarcitoria esperibile contro
la P.A. per danni da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa (quindi, a tutela di interessi legittimi) nonché, nei casi di
giurisdizione esclusiva, per danni da lesione di diritti soggettivi.
18 Quali sono gli interessi superindividuali?
Gli interessi superindividuali si distinguono in interessi collettivi e interessi diffusi. In particolare:
a) gli interessi diffusi (o adespoti) sono quelli comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente ed attengono a beni non suscettibili di fruizione differenziata;
b) gli interessi collettivi (o di categoria) sono, invece, quelli che hanno come portatore un ente esponenziale di un gruppo non occasionale, della più varia natura giuridica (es.: ordini professionali, associazioni private riconosciute, associazioni di fatto), ma autonomamente individuabile.
L’interesse collettivo è:
— differenziato: in quanto fa capo ad un soggetto individuato e cioè
ad una organizzazione di tipo associativo che si distingue tanto dalla collettività che dai singoli partecipanti; da ciò consegue che la lesione dell’interesse collettivo legittima al ricorso solo l’organizzazione e non i singoli che di essa fanno parte;
—qualificato: nel senso che è previsto e considerato, sia pure indirettamente, dal diritto oggettivo.
La proliferazione sempre maggiore di nuovi gruppi organizzati e di associazioni di tipo
internazionale ha notevolmente contribuito alla graduale trasformazione in interessi collettivi di alcuni diritti. Tra di essi si annoverano:
a) l’interesse alla tutela dell’ambiente (art. 2 Cost.);
b) il cd. diritto alla salute (art. 32 Cost.);
c) l’interesse del consumatore alla genuinità dei prodotti ed a un equo costo degli stessi.
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19 Qual è il principale tratto distintivo fra gli interessi legittimi e gli interessi semplici?
Mentre l’interesse legittimo è la pretesa a che la P.A. eserciti in conformità della legge i suoi poteri discrezionali o vincolati, l’interesse semplice
è, invece, la pretesa a che la P.A., nell’esercizio del suo potere discrezionale, si attenga a quei criteri di opportunità e di convenienza
che afferiscono al cd. merito amministrativo, e che sono tutelati dalle norme non giuridiche di azione (cd. norme di buona amministrazione).
Tali interessi, a differenza di quelli legittimi, ricevono tutela solo a livello amministrativo: proprio per tale motivo sono definiti anche interessi amministrativamente protetti.
Soltanto eccezionalmente, e per casi tassativamente previsti, è ammessa la tutela giurisdizionale avverso atti viziati nel merito (cd. giurisdizione di merito), nel qual caso, però, gli interessi in questione assurgono al rango di veri e propri interessi legittimi (così SANDULLI ed
OTTAVIANO; contra, la restante dottrina).
Parte della dottrina (GALLI) sottolinea l’inutilità della categoria degli interessi semplici,
osservando che questi ultimi o presentano le caratteristiche tipiche degli interessi legittimi, qualora le norme del merito amministrativo siano eccezionalmente rilevanti ai fini del
sindacato sull’attività amministrativa, o sono sprovvisti ab imis di tutela e, in quanto tali,
irrilevanti nell’ipotesi in cui la violazione dei criteri di opportunità e convenienza dell’azione amministrativa non risulti sanzionata.
20 Gli interessi di fatto possono essere ricondotti
alla categoria degli interessi semplici?
Gli interessi di fatto sono quegli interessi, non qualificati né differenziati, a che la P.A. osservi i doveri giuridici posti a suo carico ed a
vantaggio della collettività non soggettivizzata.
Gli interessi di fatto sono del tutto irrilevanti per il diritto e non
ricevono alcuna tutela.
Essi, in pratica, non sono interessi giuridici, e come tali non possono neanche legittimare la richiesta di accesso agli atti della P.A. (la L. 241/1990,
infatti, richiede la titolarità di interessi giuridicamente rilevanti).
Agli interessi semplici, pertanto, non appare possibile ricondurre la categoria degli interessi di fatto.
Le situazioni giuridiche soggettive
23
Esempio di interesse di fatto può essere l’interesse a che le strade siano ben mantenute,
ben illuminate etc.; l’unica garanzia riconosciuta a tutela di tali interessi sta nell’obbligo
di «buona amministrazione» che grava sulla P.A.
I privati, possono, con reclami, far rilevare queste mancanze alla P.A.; trattasi, però, di
mere denunce, di cui la P.A. può non tener conto. Solo in casi eccezionali (e segnatamente nelle ipotesi tassative in cui l’ordinamento accorda azioni popolari), i cittadini, uti
singuli, possono esperire azioni a tutela di interessi di fatto.
21 Che si intende per class action?
Il Codice del Consumo (D.Lgs. 206/2005) fornisce un nuovo modello
di tutela degli interessi collettivi dei consumatori dinanzi al G.O. Invero, l’art. 140bis D.Lgs. 206/2005, introdotto dalla L. 244/2007 (Legge finanziaria per il 2008), come a sua volta modificato dall’art. 49,
comma 1, L. 99/2009, prevede la cd. azione di classe, intesa quale «nuovo strumento generale di tutela nel quadro delle misure nazionali volte alla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, conformemente ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria volti ad innalzare i livelli di tutela».
In particolare, essa consente a chiunque sia titolare di un diritto uguale a quello di un numero indefinito di altre persone di agire in giudizio nell’interesse proprio e di tutti gli altri componenti della classe che
vogliano ottenere tutela giurisdizionale. Il rimedio è operativo dal 1°
gennaio 2010 (dopo numerosi rinvii ad opera, da ultimo, del D.L.
78/2009, conv. in L. 102/2009). Il comma 2 dell’art. 49 L. 99/2009
limita l’applicazione della class action ai soli illeciti compiuti dopo l’entrata in vigore della legge (16 settembre 2009).
L’azione di classe così normata è volta alla tutela dei diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti, i quali possono, anche
dando mandato ad associazioni o comitati cui partecipano, agire per
l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento
del danno.
L’azione collettiva è esercitabile in tre settori: diritti contrattuali di una pluralità di
consumatori che si trovano nella identica situazione nei confronti di una stessa impresa
(contratti per servizi di fornitura, bancari, assicurativi, telefonici, finanziari); diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto (difettoso o pericoloso)
nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere dalla previa esistenza di un contratto; diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.
24
Parte Seconda
La class action così descritta, infine, si differenzia da quella introdotta
dal D.Lgs. 20-12-2009, n. 198, concernente la class action nei
confronti della pubblica amministrazione, finalizzata a correggere i
disservizi presenti nell’espletamento del servizio pubblico, garantendo
il cittadino da qualsivoglia violazione degli standard di qualità, nonché
degli obblighi indicati nelle Carte dei Servizi.
Detta azione è esperibile nei confronti di tutte le amministrazioni pubbliche nonché
delle Autorità amministrative indipendenti, sia da parte di cittadini singoli che di associazioni, nell’ipotesi di lesione di interessi di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti, derivante da inefficienze del servizio pubblico, come il mancato rispetto dei termini previsti o degli standard di qualità o mancata emanazione di atti
amministrativi generali non aventi contenuto normativo.
Parte Terza
L’organizzazione amministrativa:
lo Stato, le autonomie territoriali
e gli enti pubblici
22 Che si intende per «Stato-amministrazione»?
L’espressione Stato costituisce un concetto complesso, suscettibile di
essere inteso in molteplici accezioni.
Per Stato-comunità si intende la comunità di persone costituente lo
Stato, e cioè il popolo. Esso partecipa alla funzione politica mediante gli istituti di democrazia diretta (referendum, petizioni alle Camere, iniziativa popolare etc.) e mediante l’esercizio del diritto di voto.
Per Stato-governo si intende il complesso degli organi costituzionali,
i quali sono espressione dello Stato-comunità, cioè agiscono in veste di
organi super partes, nell’interesse della comunità. Tali organi partecipano tutti, in varia misura, alle funzioni dello Stato (politica, legislativa,
amministativa, giurisdizionale).
Per Stato-amministrazione si intende lo Stato come ente pubblico o pubblica amministrazione, che agisce non super partes, ma
inter partes, sullo stesso livello degli altri soggetti dell’ordinamento (anche se con un relativo potere di supremazia su questi), come questi in
ogni caso soggetto alla legge. Lo Stato-amministrazione rappresenta,
pertanto, il più importante soggetto attivo dell’ordinamento, essendo,
come detto, la «persona giuridica pubblica per eccellenza», dotato di
caratteristiche esclusive.
Infatti, esso si configura come:
— ente sovrano, in quanto è sovraordinato a tutti gli altri soggetti, che operano
nell’ambito dell’ordinamento;
— ente politico, poiché persegue fini di interesse generale;
— ente necessario e ad appartenenza necessaria, in quanto, da un lato, la sua
esistenza è indispensabile per il perseguimento dei pubblici interessi e, dall’altro, tutti i cittadini fanno parte di esso.
26
Parte Terza
23 Come si articola l’organizzazione amministrativa dello Stato?
Ogni ente di grandi dimensioni può essere organizzato secondo due
formule organizzatorie contrapposte:
— accentramento, che comporta l’attribuzione delle potestà decisionali esclusivamente agli uffici o organi centrali, con i quali gli uffici
periferici si trovano in un rapporto di tipo gerarchico;
— decentramento, che comporta l’attribuzione di potestà decisionali anche agli uffici periferici, con le conseguenti responsabilità.
Nel nostro ordinamento, con il varo della Costituzione della Repubblica italiana, ha trovato accoglienza la formula del decentramento.
Essa è enunciata dall’art. 5 Cost. quale criterio-guida della legislazione e stigmatizzata, nelle sue concrete implicazioni, dal Titolo V
della Parte II della Costituzione («Le Regioni, le Province, i Comuni») novellato profondamente dalla L. cost. 18-10-2001, n. 3.
Gli Stati contemporanei, oltre che operare attraverso propri organi (cd. amministrazione diretta), possono anche avvalersi dei mezzi, degli organi e delle attività di altre
persone giuridiche, alle quali viene riconosciuta, come visto, un’ampia autarchia.
Tale forma di amministrazione suole definirsi indiretta perché appartiene allo Stato solo
negli effetti, mentre sotto l’aspetto soggettivo essa è direttamente imputata alle persone
giuridiche precedentemente menzionate, che sono considerate pubbliche per le potestà
di cui risultano titolari (autarchia) e per i fini pubblici che perseguono.
Diverso ancora è il caso dell’affidamento di attività a società per azioni, il cui capitale
può essere detenuto in tutto o in parte dallo Stato o da altri enti pubblici. L’azionista pubblico, in tali soggetti, fa assumere all’assemblea societaria le determinazioni dirette al perseguimento degli obbiettivi specifici che di volta in volta si prefigge di dover raggiungere
per tutelare l’interesse pubblico affidatogli.
24 Che si intende per «decentramento amministrativo»?
Il concetto di «decentramento amministrativo» fa riferimento alla attuazione, sebbene con differente grado ed intensità, del pluralismo organizzativo ed istituzionale della amministrazione pubblica (BELLOMO).
Il decentramento politico, invece, può essere considerato una forma di perfezionamento del decentramento amministrativo, attraverso il quale viene effettuata la concre-
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
27
tizzazione del pluralismo delle autonomie di governo. Tipico esempio del decentramento politico è quello che viene previsto per gli enti locali, a cui è riconosciuta una autonomia politica gestionale (ad esempio, avere istituzioni elettive), nonché una autonomia organizzativa, fiscale e normativa.
Il decentramento amministrativo, quale trasferimento di funzioni
amministrative a enti dotati di poteri di governo, può presentarsi come:
— burocratico, laddove potestà decisionali e relative responsabilità vengano direzionate verso organi amministrativi periferici (è il caso
dell’organizzazione per Ministeri);
— istituzionale, nel caso in cui vi sia l’assegnazione di funzioni amministrative a soggetti diversi dallo Stato, legati comunque ad esso da
un rapporto di servizio;
— autarchico, laddove agli enti ed organi «decentrati» sia attribuita la
capacità di porre in essere atti amministrativi dotati della stessa natura ed efficacia degli atti statali;
— federalista, caratterizzato da un massiccio trasferimento di funzioni agli enti territoriali (si è parlato, a riguardo, di decentramento invertito, in ragione della residualità delle funzioni riservate allo Stato, a sua volta strettamente collegato al principio di sussidiarietà,
soprattutto quella verticale) (BELLOMO).
25 È vero che l’organizzazione amministrativa italiana si caratterizza per la coesistenza di più
modelli strutturali?
Sì. L’organizzazione amministrativa italiana si presenta come estremamente complessa. Infatti, come nella gran parte dei Paesi sviluppati,
l’amministrazione italiana è multi-organizzativa, nel senso che la varietà, l’eterogeneità e l’ampiezza delle pubbliche funzioni hanno fatto
sì che essa perdesse il suo iniziale carattere unitario e che venissero introdotti modelli diversi e differenziati.
In particolare, i modelli organizzativi prevalenti sono attualmente quattro:
quello ministeriale, quello dell’ente pubblico, quello dell’Autorità amministrativa indipendente e quello del soggetto privato controllato. Tuttavia, all’interno di ciascun modello pure è possibile identificare ul-
28
Parte Terza
teriori differenziazioni, anche in virtù dei continui cambiamenti ed evoluzioni all’interno della compagine dell’organizzazione amministrativa.
In particolare, il modello dell’ente pubblico appare progressivamente in
via di dispersione, soprattutto alla luce del processo di privatizzazione e di
riordino degli enti pubblici, partito alla fine degli anni Settanta (tale processo ha avuto origine dalla L. 70/1975 sul parastato ed è culminato nel
D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010, recante misure anticrisi).
Il modello delle Autorità amministrative indipendenti, organi o enti
aventi funzioni tutorie di interessi costituzionali in campi socialmente rilevanti, appare, viceversa, in continuo sviluppo. Sono, difatti, numerose autorità nel nostro ordinamento: Autorità per i servizi di pubblica utilità, Autorità garante della concorrenza e del mercato, Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Garante per
la protezione dei dati personali (solo per citare quelle più conosciute).
Infine, anche l’ultimo modello del soggetto privato in controllo pubblico tende ad ampliarsi, a seguito della sempre più decisa affermazione di strumenti di diritto privato anche nel contesto dell’organizzazione amministrativa.
26 Quali sono i principi e i criteri che reggono l’organizzazione amministrativa italiana?
Numerosi sono i principi e i criteri che reggono l’organizzazione amministrativa italiana.
In primo luogo, occorre citare il principio di sussidiarietà, che, introdotto per la prima volta dal diritto comunitario, oggi trova applicazione anche negli Stati membri: esso prevede che l’istituzione superiore debba intervenire solo quando e nella misura in cui gli obiettivi
dell’azione prevista non possano essere realizzati dalle istituzioni poste
al livello «più basso».
Tale principio è stato costituzionalizzato a seguito della riforma del Titolo
V della Costituzione, a proposito dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti
locali. Si tratta del principio della sussidiarietà verticale, ex art. 118, comma 2, Cost., al quale occorre accostare il concetto di sussidiarietà orizzontale, ex art. 118, comma 4, Cost., secondo cui sia lo Stato che gli altri enti territoriali sono invitati a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
29
Le amministrazioni pubbliche, inoltre, sono organizzate anche in base
ad altri principi: esse devono tendere alla funzionalità rispetto ai compiti ed ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia, imparzialità ed economicità, il tutto nel contesto del raggiungimento del principio fondamentale del buon andamento, ex art. 97 Cost.; sono tenute a garantire la trasparenza e la pubblicità della propria azione, attraverso forme di partecipazione all’attività stessa e di accesso agli atti e documenti della P.A. Ancora, nella prospettiva della progressiva informatizzazione delle attività e degli uffici
amministrativi, devono assicurare un collegamento tra l’attività degli uffici, e tra questi e i cittadini, mediante sistemi informatici e telematici.
Infine, ai sensi dell’art. 28 Cost., i funzionari e i dipendenti dello Stato e
degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti, e, in
detti casi, la responsabilità si estende anche allo Stato e agli enti pubblici.
27 Qual è l’attuale struttura dei Ministeri nel nostro
ordinamento, alla luce dei più recenti interventi normativi in tal senso?
Il Ministero è la ripartizione fondamentale dell’amministrazione centrale italiana. Ogni Ministero, infatti, è competente per un
ramo di attività amministrativa e per determinate materie ed
affari spettanti allo Stato.
In attuazione delle disposizioni della legge di delega n. 59 del 1997,
una politica di riduzione del numero dei Ministeri e di accorpamento delle strutture statali per grandi aree d’attività ha originariamente ispirato il D.Lgs. 300/1999. Il numero e la distribuzione di competenze tra i vari dicasteri hanno, però, subito variazioni a più riprese. In
particolare, mentre il D.L. 18-5-2006, n. 181 (conv. in L. 233/2006)
ha aumentato il numero dei dicasteri da 14 a 18 (per scorporo di nuovi Ministeri dai precedenti), il D.L. 16-5-2008, n. 85 (conv. in L.
121/2008) ha previsto una nuova riduzione. Gli attuali 13 Ministeri
sono il risultato dell’intervento dalla L. 13-11-2009, n. 172, che ha
istituito il Ministero della salute.
Occorre ricordare, inoltre, i Ministri senza portafoglio, che non sono a capo di un
dicastero e svolgono le loro funzioni su delega del Presidente del Consiglio dei Ministri.
30
Parte Terza
Il D.Lgs. 300/1999 costituisce la fonte di disciplina delle strutture ministeriali.
Queste, in breve, le linee di fondo del riformato assetto organizzativo:
— nei Ministeri costituiscono strutture di primo livello, alternativamente, i dipartimenti o le direzioni generali;
— ad ogni dipartimento sono attribuiti compiti finali concernenti grandi aree di materie omogenee e i relativi compiti strumentali;
— ogni dipartimento è articolato in uffici dirigenziali generali;
— al di fuori dei dipartimenti possono esistere soltanto gli uffici di
staff con funzioni di assistenza diretta all’attività di indirizzo politico e di controllo di competenza del Ministro (gli attuali uffici di gabinetto). A capo di tali uffici può essere posto anche un dirigente
estraneo all’amministrazione;
— nei Ministeri non articolati in dipartimenti, le strutture di primo livello sono rappresentate dalle direzioni generali, le quali possono
far capo ad un Segretario generale, organo di vertice burocratico, che opera alle dirette dipendenze del Ministro, che ha la funzione di collegamento fra il Ministro e la struttura amministrativa sottostante e di coordinamento dell’azione amministrativa.
28 Qual è la ratio della istituzione dei Comitati
interministeriali?
I Comitati interministeriali sono organi collegiali, costituiti da più Ministri, istituiti per la cura di particolari settori dell’amministrazione che esigono un coordinamento dell’attività di più Ministeri.
Le ragioni pratiche della costituzione dei Comitati di Ministri consistono nel progressivo aumento dei compiti dello Stato e quindi del numero dei Ministeri, e nel moltiplicarsi delle interferenze reciproche
fra settori della P.A., per cui si è avvertita la necessità di un collegamento costante e stabile fra settori amministrativi.
Principali Comitati interministeriali sono:
a) il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), che svolge funzioni di coordinamento in materia di
programmazione e di politica economica nazionale, nonché di co-
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
31
ordinamento della politica economica nazionale con le politiche comunitarie;
b) il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio
(CICR), che svolge funzioni di alta vigilanza in materia di tutela del
risparmio, in materia di esercizio della funzione creditizia e in materia valutaria;
c) il Comitato interministeriale per le informazioni (CIS), che
ha funzioni consultive e propulsive in ordine agli indirizzi generali e
agli obiettivi fondamentali della politica di sicurezza.
In seguito è stato istituito il Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE) ad opera della L. 11/2005 con il
compito di concordare le linee politiche del Governo nel processo di
formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli
atti comunitari e dell’Unione europea.
La L. 3-8-2007, n. 124 ha, infine, istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR), che
ha funzioni di consulenza, proposta e deliberazione sugli indirizzi e sulle finalità generali
della politica di informazione per la sicurezza.
29 Perché le Agenzie vengono definite il «braccio
operativo» dei dicasteri?
Il D.Lgs. 300/1999 ha generalizzato un istituto che ha fatto da pochi
anni il suo ingresso nell’ordinamento italiano: l’Agenzia pubblica.
La riforma dei Ministeri ha utilizzato il nuovo strumento come braccio
operativo dei dicasteri per le attività a carattere tecnico. Sono state così istituite 12 Agenzie, che in qualche caso sostituiscono o inglobano quelle preesistenti, in altri casi vi si affiancano.
Le Agenzie sono vigilate e controllate dai Ministeri competenti, ma godono di autonomia operativa e di bilancio nell’ambito degli indirizzi politici generali e degli obiettivi concreti, assegnati loro dai Ministri e formalizzati in apposite «convenzioni» stipulate con i rispettivi direttori generali. Alcune Agenzie hanno personalità giuridica ed agiscono, pertanto, jure proprio, altre (circa la metà) agiscono come organi
delle amministrazioni di riferimento. Tutte, in ogni caso, svolgono funzioni operative di tipo strumentale all’amministrazione statale.
32
Parte Terza
La posizione di separatezza delle Agenzie (termine forse più appropriato) è giustificata esclusivamente dalla natura tecnica delle funzioni svolte e non — come per le amministrazioni indipendenti — da funzioni
tutorie e di garanzia che postulino una posizione super partes.
La natura di organismi tecnici e separati dalla struttura ministeriale va
posta, infine, in relazione con la possibilità, riconosciuta alle Agenzie,
di fornire i propri servizi anche a privati, ad enti locali ed alle Regioni
(previa convenzione e pagamento dei servizi resi, salvo eccezioni).
30 A quali organi è attribuita la funzione di concertazione e di coordinamento delle politiche
statali, regionali e locali?
Una fondamentale funzione dello Stato in un ordinamento pluralistico
che riconosca e tuteli le autonomie locali (come recita l’art. 5 Cost.) è
quella della concertazione delle decisioni di interesse regionale
e locale con gli enti che vi sono direttamente interessati, ossia Regioni, Province, Comuni ed altri enti locali territoriali (come le Comunità
montane).
A questo fine esistono, nel nostro ordinamento, alcune Conferenze
permanenti, cioè organi collegiali con funzioni consultive e decisionali nei quali siedono rappresentanti dello Stato, delle Regioni e degli enti
locali.
Vi sono tre Conferenze: la Conferenza permanente per i rapporti fra
lo Stato, le Regioni e le Province autonome; la Conferenza permanente Stato-città ed autonomie locali; la Conferenza unificata.
La Conferenza permanente Stato-Regioni e Province autonome, in primo luogo, è un organo collegiale, nel quale sono rappresentati lo Stato e le Regioni, sia a statuto ordinario che a statuto speciale,
nonché le Province autonome di Trento e di Bolzano, con compiti di
consultazione, informazione, raccordo e concertazione sulle materie e sulle attività politico-amministrative regionali. Secondo l’efficace definizione della Corte costituzionale, la Conferenza è la «sede privilegiata del confronto e della negoziazione politica fra lo Stato e le Regioni (e le Province autonome) su argomenti che investono in via generale la materia regionale».
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
33
La Conferenza Stato-città ed autonomie locali, invece, è stata
istituita con Decreto del Presidente del Consiglio 2 luglio 1996, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con compiti di coordinamento, studio, informazione e confronto sulle problematiche connesse agli indirizzi di politica generale che possono incidere sulle funzioni proprie di Province e Comuni e su quelle delegate da leggi dello
Stato. Con il D.Lgs. 281/1997, la Conferenza Stato-città è stata finalmente organizzata in modo compiuto dal legislatore, con contestuale
attribuzione di funzioni maggiormente qualificanti.
La Conferenza unificata, infine, è stata istituita dal D.Lgs. 281/1997
(su specifica indicazione della legge-delega 59/1997), per la trattazione delle «materie ed i compiti di interesse comune delle Regioni, delle Province e dei Comuni». Essa è costituita dai membri di entrambe
le Conferenze permanenti (la Stato-Regioni e la Stato-città).
31 Come è organizzato lo Stato a livello periferico?
Lo Stato, a livello periferico, è strutturato sulla base di organi con competenza regionale o provinciale, costituenti articolazioni delle rispettive
amministrazioni centrali. Tra questi bisogna ricordare il Prefetto e le
Prefetture – Uffici territoriali del Governo, nonché il Sindaco,
in veste di Ufficiale di Governo.
Infatti, l’amministrazione dello Stato, oltre ad essere articolata in Ministeri ed Agenzie, si avvale anche dell’opera di enti pubblici strumentali
e di diversi uffici amministrativi distribuiti sul territorio nazionale; questi ultimi, che sono organi delle amministrazioni statali, hanno competenza territoriale limitata e costituiscono l’amministrazione periferica dello Stato a competenza generale (quelli che rappresentano lo
Stato nella sua totalità ed esercitano precipue funzioni di rappresentanza governativa, quali le Prefetture), e organi a competenze speciali (organi che svolgono specifiche funzioni statali).
Il Prefetto, in particolare, è un organo burocratico posto alla diretta dipendenza del Ministro dell’Interno, con compiti di rappresentanza generale del Governo sul territorio e di garanzia istituzionale a tutela dell’ordinamento giuridico.
Poiché rappresenta il Governo, il Prefetto è tenuto ad uniformarsi alle
direttive governative e deve godere della fiducia del Gabinetto che
può in ogni tempo rimuoverlo previa delibera del Consiglio dei Ministri.
34
Parte Terza
L’art. 11 del D.Lgs. 300/1999 aveva disposto la trasformazione delle
Prefetture negli Uffici Territoriali del Governo (UTG) e l’attribuzione agli stessi di tutte le funzioni esercitate a livello periferico dallo Stato fatta esclusione per quelle relative ad alcune amministrazioni espressamente individuate dalla norma medesima (Affari esteri, Giustizia, Difesa, Economia, Istruzione, Beni ed attività culturali).
L’intento perseguito era essenzialmente quello di delineare un modello
di amministrazione periferica omogeneo e di carattere generale, che
evitasse le duplicazioni di compiti e di funzioni. Ora, tale disciplina è
stata soppiantata da quella dettata dal D.P.R. 3 aprile 2006, n. 180,
che, oltre a riconfermare le attribuzioni del Prefetto titolare della Prefettura – UTG, definisce anche le modalità di svolgimento dell’intervento sostitutivo del Prefetto nel caso in cui venga a conoscenza
di disfunzioni nell’attività amministrativa svolta a livello periferico tali da
compromettere la qualità dei servizi resi alla cittadinanza.
L’organizzazione dello Stato a livello periferico è completata con la figura del Sindaco quale Ufficiale di Governo: infatti, il Sindaco è
titolare di varie funzioni statali, come l’anagrafe, lo stato civile, la leva,
i procedimenti elettorali, nelle quali, essendo organo dello Stato e non
del Comune, dipende gerarchicamente dal Prefetto.
32 Quali sono i principali profili che caratterizzano
le autorità amministrative indipendenti?
Le autorità amministrative indipendenti sono enti od organi pubblici dotati di sostanziale indipendenza dal potere politico del
Governo, caratterizzati da au­tonomia organizzatoria, finanziaria e contabile, e dalla mancanza di controlli e di sog­gezione al potere di direttiva
dell’esecutivo, forniti di garanzie di autonomia nella nomina, nei requisiti
soggettivi e nella durata delle cariche dei vertici, ed aventi fun­zione tutoria di interessi costituzionali in campi socialmente rilevanti.
Al pari degli enti strumentali dello Stato, cioè degli enti pubblici parastatali o economici,
sono «organizzazioni differenziate» (CERULLI IRELLI), nel senso che si tratta di entità distinte dallo Stato centrale. Tuttavia, mentre gli enti strumentali svolgono funzioni statuali (da ciò l’appellativo di «strumenti» dello Stato) e, soprattutto, sono soggetti
a controlli e direttive da parte dei Ministeri cui fanno capo, le autorità amministrative indipendenti non fanno parte dello Stato-ap­parato, e vanno piuttosto ricondotte allo
Stato-comunità (ossia alla comunità statale complessivamente intesa).
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
35
Le amministrazioni indipendenti non sono un istituto ma un fenomeno giu­ridico. Si tratta, infatti, di enti ed organi creati dal legislatore
sulla spinta di un’esigenza di autonomia ed imparzialità, diversamente
atteggiata a seconda del momento politico e delle caratteristiche operative necessarie.
Per questa ragione è impossibile indicare caratteristiche comuni a tutte le autorità indipendenti: i caratteri elencati qui di seguito sono posseduti da alcune amministrazioni e non da altre, in misura
variabile (pur se, nel corso del tempo, il legislatore ha seguito certe linee guida comuni). Ciò che, tuttavia, accomuna le di­verse amministrazioni sono la funzione tutoria ed una sostanziale indipendenza
dal Governo. Variano notevolmente, invece, il grado ed i tipi di autonomia concessi dalla legge.
L’attribuzione della potestà regolamentare costituisce l’aspetto
più significativo dell’indipendenza delle autorità indipendenti, traducendosi nel riconoscimento della possibilità di determinare direttamente le modalità di espletamento dell’attività di regolazione
e controllo dei settori alla cui salvaguardia le stesse sono preposte, tanto attraverso l’emanazione di regolamenti aventi ad oggetto
la propria auto-organizzazione, quanto attraverso regolamenti intesi più
propriamente a disciplinare all’esterno i singoli ambiti di operatività.
Il riconoscimento del potere regolamentare alle autorità indipendenti pone questioni di
legalità e di legittimazione. Principio consolidato dei moderni ordinamenti è, infatti, quello che vuole l’attribuzione del potere normativo ad organi dotati di rappresentatività (Parlamento, Governo, Consigli regionali, Giunte etc.) e responsabili di fronte alla collettività. È dunque chiaro che, poiché l’attività dei garanti non è posta sotto il controllo degli
elettori, il problema che emerge è quello dell’individuazione dei limiti entro cui può essere esercitato il potere di normazione.
33 Quali sono le autorità amministrative nel nostro
ordinamento?
Nel nostro ordinamento vanno segnalate per la loro rilevanza le seguenti autorità indipendenti:
— Banca d’Italia, che ha, fra gli altri, importanti compiti di regolazione e vigilanza sugli enti creditizi e sugli intermediari finaziari;
— CONSOB, istituita nel 1974 per la vigilanza sugli intermediari finanziari, sui mercati e sugli emittenti quotati;
36
Parte Terza
— ISVAP, istituita nel 1982 con compiti di vigilanza sul mercato delle assicurazioni;
— Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha la
funzione di garantire la libera concorrenza e il corretto funzionamento del mercato;
— Autorità per l’energia elettrica e il gas, istituita con la legge n.
481 del 14 novembre 1995;
— Commissione di garanzia per l’attuazione della legge
sull’esercizio del diritto di sciopero, legge n. 146 del 1990;
— Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, istituita con L. 109/1994 ed attualmente disciplinata dall’art. 6 del D.Lgs. 163/2006, recante il Codice dei contratti pubblici;
— Garante per la tutela delle persone ed altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, istituita nel 1996 con compiti di vigilanza sulle attività di trattamento dei dati personali, con
particolare riferimento alle banche dati informatiche;
— Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, istituita nel 1997
con compiti di regolazione nel settore delle radiotelecomunicazioni
a tutela del pluralismo, dell’obbiettività e completezza dell’informazione;
— Garante per la sorveglianza dei prezzi (detto anche Mister Prezzi), istituito con L. 24 dicembre 2007, n. 244 (finanziaria 2008)
presso il Ministero dello sviluppo economico, con il compito di sovrintendere alla tenuta e alla elaborazione dei dati e delle informazioni segnalate agli uffici prezzi istituiti presso le Camere di Commercio, di vigilare sull’andamento dei prezzi sul mercato e riferire le
eventuali anomalie;
— Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, istituita dall’art. 13 D.Lgs.
150/2009, in attuazione dell’art. 4 L. 15/2009, con il compito di
indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi di
valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici
di andamento gestionale delle pubbliche amministrazioni.
Il Consiglio di Stato, con parere n. 870/2010, ha chiarito che tale Commissione
può essere considerata un’autorità amministrativa indipendente in virtù della sua po-
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
37
sizione di indipendenza e di autonomia di giudizio, dell’assenza di poteri di controllo
e di indirizzo da parte di organi politici, del sistema di nomina dei suoi componenti
e di scelta del suo presidente;
— Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP), istituita con D.Lgs. 124/1993, ha il compito di regolare il mercato della previdenza complementare.
34 Le autorità amministrative indipendenti hanno
un proprio fondamento costituzionale?
Dibattuto è sempre stato il problema del fondamento costituzionale delle autorità amministrative indipendenti, e, in particolare, della loro
compatibilità con l’assetto dell’attuale ordinamento così come tracciato dalla Costituzione repubblicana.
Si tratta di una problematica che ormai appare essere stata superata
dalla prassi; infatti, in un primo momento, ci si rese conto che l’istituzione di enti ed organismi dotati di poteri incisivi, come il potere regolamentare, o, ancora di funzioni di tipo sanzionatorio e paragiurisdizionale, era suscettibile di contrastare con quanto delineato dalla Costituzione stessa, potendo configurarsi tale concentrazione di poteri «quale
sostanziale delega di sovranità in assenza di controllo democratico
inteso in senso tradizionale» (BELLOMO).
In dottrina, si è anche parlato di «quarto potere» e di «innovazione a
Costituzione invariata» (così DE VERGOTTINI).
Per quanto concerne le funzioni di dette autorità, tuttavia la questione
de qua appare superata in virtù di quanto disposto dall’art. 41 Cost.,
che prevede la libertà della iniziativa economica, purché questa non
si svolga in contrasto con l’utilità sociale e che individua nella legge
la fonte normativa per la determinazione dei programmi di attività e i
controlli opportuni affinché l’attività economica si ispiri a tali scopi.
Trattandosi di enti che operano prevalentemente in delicati settori socio-economici, è, pertanto, possibile «legittimare» le loro funzioni proprio in base alla circostanza che vede tali autorità agire nell’ambito di interessi di carattere generale, di solito collettivi o diffusi, quali soggetti
posti in posizione di neutralità ed imparzialità, di garanzia di detti
interessi, anche nei confronti dell’apparato politico e governativo.
38
Parte Terza
35 Quali sono i caratteri generali che connotano
gli enti territoriali?
Gli enti pubblici territoriali sono enti per i quali il territorio costituisce
non soltanto l’elemento delimitativo della sfera di competenza e di efficacia dei relativi poteri, ma anche e soprattutto l’elemento costitutivo.
Enti territoriali nell’ordinamento italiano sono le Regioni, le Province, i Comuni, le Unioni di Comuni, le Comunità montane ed isolane e le Città metropolitane.
Essi sono anche espressione di quelle autonomie locali che, a norma
dell’art. 5 Cost., la Repubblica riconosce e promuove. L’art. 114 Cost.,
nella sua nuova formulazione, a sua volta, dispone che «la Repubblica è
costituita dai Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato».
Gli enti pubblici territoriali sono enti:
— autarchici, aventi, cioè, la capacità di emanare atti amministrativi, prolungando così l’attività amministrativa dello Stato (GIANNINI);
— ad appartenenza necessaria, in quanto ne fanno parte necessariamente tutti coloro che risiedono stabilmente nel loro territorio e che hanno, pertanto, diritto di voto nelle relative elezioni amministrative;
— associativi, poiché composti da tutti i residenti sul loro territorio;
— autonomi rispetto allo Stato, in quanto dotati di autonomia politica, amministrativa e finanziaria.
36 Le Regioni, in quanto enti autonomi territoriali, sono dotate di..?
Le Regioni, quali enti autonomi territoriali, sono dotate di:
— autonomia statutaria: cioè della possibilità di adottare un proprio
Statuto avente per oggetto la disciplina della forma di governo,
dell’organizzazione e del funzionamento dell’ente per tutte le attività non regolate direttamente dalla Costituzione;
— autonomia legislativa: a tutte le Regioni è riconosciuta la potestà di emanare leggi aventi valore di legge ordinaria. Tale potestà
può essere esercitata dalle Regioni nelle materie non espressamente riservate allo Stato sulla base dell’art. 117 Cost.;
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
39
— autonomia amministrativa: ciascuna Regione è dotata di un proprio apparato amministrativo e ha la potestà di emanare atti amministrativi (cd. autarchia);
— autonomia finanziaria: le Regioni godono di autonomia finanziaria di entrata e di spesa, in armonia con la Costituzione e secondo
i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (art. 119 Cost.);
— autonomia di indirizzo politico: le Regioni possono dirigere la
loro azione legislativa ed amministrativa secondo un indirizzo politico diverso da quello del Parlamento.
37 Come è articolata la potestà legislativa delle Regioni?
A seguito della completa riformulazione dell’art. 117 Cost. dopo l’approvazione della L. 3/2001, di riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, la ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni è
così determinata:
1) potestà legislativa esclusiva dello Stato. L’art. 117, comma
2, Cost. individua 17 settori nei quali la potestà legislativa spetta
esclusivamente allo Stato;
2) potestà legislativa concorrente. In virtù di essa la Regione legifera con leggi vincolate al rispetto delle disposizioni di principio
dettate dallo Stato con le cd. leggi cornice o leggi quadro. In base
all’art. 1, comma 3, L. 131/2003, le Regioni potranno desumere tali principi in difetto di leggi-cornice, dalle leggi statali vigenti;
3) potestà legislativa residuale. L’art. 117, comma 4, Cost. (nel
testo modificato dalla L. cost. 3/2001) attribuisce alle Regioni competenza legislativa in un vasto numero di materie, precisamente in
quelle non espressamente attribuite allo Stato dallo stesso art.
117, comma 2 e in quelle non rientranti nella legislazione concorrente ex art. 117, comma 3.
Nell’esercizio della potestà legislativa, la Regione incontra i seguenti limiti:
— il limite costituzionale: esso consiste nel rispetto, da parte delle leggi regionali, della Costituzione e delle leggi costituzionali;
— il limite territoriale: ciascuna Regione può legiferare nell’ambito del suo territorio dove sono localizzati esclusivamente o prevalentemente gli interessi della comunità territoriale di cui la Regione è ente esponenziale;
40
Parte Terza
— il limite dei vincoli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali;
— il limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico;
— il limite delle materie: pur essendo invertito il criterio di riparto delle competenze
legislative tra Stato e Regioni, nel senso che il primo non è più titolare di una generale competenza a legiferare, ma al contrario limitato alle materie individuate nell’art.
117, comma 2, il limite di materia continua a sussistere con riferimento agli ambiti
oggettivi individuati dal comma 3 per la potestà legislativa concorrente;
— il limite della riserva di legge;
— il limite delle grandi riforme economico-sociali della Repubblica (limite formulato per la potestà legislativa delle Regioni speciali);
— il limite delle materie trasversali: fra gli ambiti che la L. cost. 3/2001 riserva integralmente allo Stato, ve ne sono alcuni che non sembrano vere e proprie materie, e
che invece tagliano trasversalmente la gran parte dei settori, ivi compresi quelli affidati alla legislazione regionale, tanto concorrente quanto esclusiva. Si fa riferimento
alla potestà statale di legiferare circa la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale (art. 117 Cost. comma 2, lett. m).
38 In che modo viene regolata la potestà regolamentare delle Regioni?
A seguito della riforma costituzionale, la previsione dell’art. 121, che
definisce la titolarità della potestà regolamentare, si completa e si perfeziona nella lettura con il combinato disposto dell’art. 117, comma 6
che, invece, ne precisa la portata e l’ampiezza.
Il tenore letterale della norma è estremamente chiaro e da esso si evince che le Regioni sono titolari di potestà regolamentare:
— nelle materie di legislazione concorrente ad esse riservate ex art.
117, comma 3;
— nelle materie di legislazione residuale di cui all’art. 117, comma 4;
— nelle materie che l’art. 117, comma 2, definisce di legislazione
esclusiva statale e per le quali lo Stato abbia delegato alle Regioni
la normazione secondaria.
Pertanto, la riforma costituzionale affida alle Regioni la competenza
generale in ambito regolamentare in analogia a quanto previsto
per la potestà legislativa.
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
41
39 Quali sono le autonomie locali nel nostro ordinamento?
La Costituzione pone le autonomie locali alla base del sistema statuale, riconoscendo in esse le «cellule fondamentali» dell’intero apparato amministrativo ed organizzativo della res publica. L’art. 5 Cost.,
infatti, non a caso include il riconoscimento e la tutela delle autonomie locali fra i principi fondamentali della Repubblica.
Gli enti locali, nel nostro ordinamento, sono i seguenti (art. 2 D.Lgs.
267/2000 — T.U.E.L.):
a) i Comuni;
b) le Province;
c) le Comunità montane;
d) le Comunità isolane e d’arcipelago;
e) le Unioni di Comuni;
f) le Città metropolitane.
Dei citati enti locali solo tre (Comune, Provincia, Città metropolitane) hanno rilevanza costituzionale (artt. 114 e ss., come novellati dalla L. cost. 3/2001).
40 È possibile per gli enti locali ricorrere a forme
associative?
È prevista la possibilità di ricorrere a forme di associazione fra enti locali secondo il modello convenzionale «dell’amministrare per consenso» (GIANNINI).
Le forme associative sono:
a) le convenzioni (art. 30 T.U. enti locali), che sono accordi organizzativi cui accedono gli enti locali al fine di far fronte ad esigenze di
collaborazione, grazie al coordinamento gestionale nell’esercizio di
funzioni, servizi e attività, senza che sia necessario realizzare una
nuova e stabile struttura organizzativa dotata di personalità giuridica. Esse possono essere facoltative o obbligatorie. Tali convenzioni possono anche costituire uffici comuni, che operano con perso-
42
Parte Terza
nale distaccato degli enti partecipanti, per l’esercizio delle funzioni
pubbliche; oppure delegare le funzioni ad uno solo degli enti stipulanti, che agirà in luogo e per conto degli enti deleganti;
b) i consorzi: per la gestione associata di uno o più servizi e l’esercizio associato di funzioni gli enti locali possono costituire un consorzio, secondo le norme previste per le aziende speciali in quanto compatibili. Al consorzio possono partecipare altri enti pubblici quando
siano a ciò autorizzati, secondo le leggi alle quali sono soggetti. Si
ricordi che la L. 191/2009, come modificata dal D.L. 2/2010,
conv. in L. 42/2010, ha disposto la soppressione dei consorzi, quale misura finalizzata al coordinamento della finanza pubblica e al contenimento della spesa pubblica;
c) le Unioni di Comuni, che sono, però, veri e propri enti locali, costituiti da due o più comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente, e pertanto ad un livello sovracomunale,
una pluralità di funzioni di loro competenza;
d) gli accordi di programma, tesi ad eliminare i «tempi morti» che
caratterizzano gli interventi di opere o di programmi coinvolgenti
più livelli di governo.
La L. 244/2007 (finanziaria 2008), al comma 28 dell’art. 2 (come modificato prima dal
D.L. 248/2007, conv. in L. 31/2008, successivamente, dall’art. 4, comma 1, del D.L.
7-10-2008, n. 154, conv. in L. 4-12-2008, n. 189, e, infine ex art. 3 D.L. 30-12-2008,
n. 207, conv. in L. 27-2-2009, n. 14), stabilisce che ogni Comune possa aderire ad
un’unica forma associativa tra quelle previste dagli artt. 31, 32 e 33 del D.Lgs. 267/2000
(consorzi, Unioni di Comuni, esercizio associato di funzioni etc.); la disposizione, inoltre,
sanziona la permanenza di adesioni multiple a partire dal 1° gennaio 2010 con la nullità di ogni atto adottato dalla forma associativa o attinente alla adesione o allo svolgimento di essa da parte del Comune interessato. Tuttavia, tale disposizione non si applica per l’adesione a consorzi obbligatori.
41 Quali sono gli organi di Comune e Provincia?
Premesso che gli enti locali godono di autonomia statutaria, regolamentare, amministrativa e contabile, l’organizzazione di Province e Comuni si articola attraverso i seguenti organi:
— Consiglio (provinciale e comunale): si tratta dell’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo;
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
43
— Giunta (provinciale e comunale): organo esecutivo che compie
tutti gli atti non rientranti nella competenza del Consiglio o degli altri organi, che deve riferire al Consiglio sull’attività svolta;
— Presidente della Provincia e Sindaco: sono i rappresentanti,
rispettivamente, di Provincia e Comune; convocano e presiedono
la Giunta, sovrintendono al funzionamento degli uffici e dei servizi
e sono gli organi responsabili dell’amministrazione degli enti.
Il Presidente della Provincia è eletto con suffragio universale e diretto contestualmente all’elezione del Consiglio provinciale, mentre il Sindaco viene eletto con sistema maggioritario nei Comuni con popolazione fino a 15mila abitanti e proporzionale con premio di maggioranza negli altri.
Accanto a questa fondamentale tripartizione abbiamo altri organi: il Segretario provinciale e comunale, funzionario pubblico avente compiti di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente, in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo Statuto e ai regolamenti; il Difensore civico, organo facoltativo che può essere istituito allo scopo di tutelare i
cittadini da possibili abusi e disfunzioni nell’amministrazione di Comuni e Province.
Nei Comuni, infine, vi sono anche i Dirigenti comunali, ai quali spetta la direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i compiti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno non
ricompresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di
governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del Segretario o del Direttore generale (art. 107 T.U.E.L.). Nei Comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni
dirigenziali possono essere attribuite, con provvedimento motivato del Sindaco, ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale (art.
109 T.U.E.L.). Ancora, troviamo il Direttore generale. Ai sensi dell’art. 108 T.U.E.L.,
infatti, il Sindaco (nei Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti) e il Presidente della Provincia possono nominare previa deliberazione della Giunta, un Direttore generale (cd. city manager). Egli provvede ad attuare, secondo le direttive impartite dal Sindaco o dal Presidente della Provincia, gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti
dagli organi di governo dell’ente. Per i Comuni con popolazione inferiore a 15.000
abitanti è prevista la nomina di un Direttore generale «consortile» per la gestione coordinata o unitaria dei servizi tra i Comuni. Sulla figura del Direttore generale è, tuttavia,
indispensabile riferire quanto disposto dalla Legge Finanziaria per il 2010: in virtù di
quanto disposto dall’art. 2, comma 186, lettera d), della L. 191/2009, (modificato dal
D.L. 2/2010, conv. in L. 42/2010) tale figura di vertice nell’organizzazione amministrativa comunale è stata soppressa tranne che «nei Comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti».
44
Parte Terza
42 Che si intende con l’espressione «ente pubblico»?
Il termine ente (dal latino ens: «ciò che è»), nel campo del diritto, indica le persone giuridiche pubbliche e private ed i gruppi organizzati che l’ordinamento considera titolari di situazioni giuridiche, pur non attribuendo loro la personalità (enti di fatto).
Gli enti pubblici, o persone giuridiche pubbliche, pertanto, sono quei
soggetti, diversi dallo Stato, che esercitano funzioni amministrative
e che costituiscono, nel loro complesso, la cd. pubblica amministrazione indiretta.
È un dato di fatto che l’istituto dell’ente pubblico rappresenti una categoria complessa,
in quanto dogmaticamente non unitaria data la varietà e l’atipicità delle specie esistenti
nel diritto positivo. Volendo astrarne un minimo comune denominatore si può affermare
che gli enti pubblici sono dotati di capacità giuridica e, come tali, sono idonei ad essere titolari di poteri amministrativi: essi, dunque, sono dunque centri di potere (CASETTA).
Particolarmente problematica, poi, si presenta la questione definitoria
dei parametri di pubblicità, essendo rari i casi di qualificazione espressa di un ente come pubblico.
Al riguardo va rilevato che la questione qualificatoria è stata in parte
risolta dalla previsione dell’art. 4 L. 70/1975, cd. legge sul parastato, in forza del quale «nessun nuovo ente pubblico può essere costituito o riconosciuto se non per legge».
In particolare, la qualificazione si considera implicita quando nella
legge si rinvengono elementi che presuppongono la pubblicità dell’ente, quali le relazioni organizzative con apparati politici, dirette o indirette, per cui si può dire che vi è una situazione di preminenza o sopraordinazione di un apparato politico (di un pubblico potere) sull’ente.
In maniera più esplicita, invece, l’elemento essenziale della pubblicità di
una persona giuridica va ricercato considerando «la particolare rilevanza pubblicistica dell’interesse perseguito dall’ente, cui è connessa come
necessaria la valutazione della presenza di questo nell’ordinamento.
L’interesse è pubblico non già perché ontologicamente si possa qualificare come tale,
ma in quanto la legge, accertato che esso ha una dimensione collettiva, l’abbia imputato ad una persona giuridica, tenuta giuridicamente a perseguirlo: di qui il riconoscimento del carattere pubblico di quest’ultima. È pur vero che molti soggetti privati
perseguono finalità collettive. In queste ipotesi, tuttavia, manca quel giudizio sulla rilevanza dell’interesse che comporta la sua imputazione da parte dell’ordinamento all’ente,
da cui consegue la doverosità del suo perseguimento.
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
45
L’ente pubblico è, quindi, istituito con una specifica vocazione allo
svolgimento di una peculiare attività di rilevanza collettiva.
Nei primi anni duemila il fenomeno dell’ente pubblico ha vissuto
una fase recessiva, soprattutto per effetto delle politiche di privatizzazione (formale o sostanziale) degli apparati pubblici; per le politiche
di gestione dei servizi pubblici, locali e nazionali realizzate ormai con
società di capitali in luogo delle precedenti esperienze degli enti pubblici economici o delle aziende autonome; per la liberalizzazione e il ritirarsi dell’intervento pubblico in quelle aree dove il privato può esercitare con meggiore profitto attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 Cost., ultimo comma).
43 Come può essere definita la competenza?
La competenza di un organo designa il complesso di poteri e di
funzioni che esso può, per legge, esercitare per perseguire fini
di pubblico interesse. Essa ha, pertanto, anche una funzione delimitativa in quanto individua il quantum, ossia la misura, delle attribuzioni di spettanza dell’organo.
Nel diritto amministrativo il principio della competenza trova consacrazione nell’art. 97 della Costituzione il quale, con l’affermare al primo comma che «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione» e col ribadire al secondo comma
che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza», fa comprendere che:
— la competenza deve essere determinata sempre per legge;
— il principio di competenza trova il suo fondamento nel principio di
buona amministrazione, in quanto mira a realizzare i criteri della
efficienza e della specializzazione anche nel campo dell’attività amministrativa.
La competenza degli organi amministrativi suole tradizionalmente distinguersi nelle seguenti categorie:
— competenza per materia, che comporta la ripartizione delle varie attribuzioni con
riferimento ai singoli compiti, per cui vengono a formarsi vari settori all’interno della P.A., caratterizzato ciascuno da un compito particolare. L’attribuzione può esse-
46
Parte Terza
re in via esclusiva (competenza esclusiva) oppure in concorrenza con altri (competenza concorrente). La maggiore e più importante ripartizione della competenza per
materia è fatta con l’attribuzione dei compiti ai vari Ministeri, ciascuno dei quali si
trova a capo di un ramo particolare dell’amministrazione;
— competenza per territorio, che presuppone identità di competenza per materia e comporta, all’interno di uno stesso ramo dell’amministrazione, la ripartizione
delle attribuzioni con riferimento all’ambito territoriale di un dato organo;
— competenza per grado, che presuppone identità di competenza per materia e
per territorio e interessa, quindi, organi di uno stesso ramo dell’amministrazione. In
base alle attribuzioni per grado viene, in pratica, a formarsi una piramide che ha il suo
vertice nel Ministro e giunge agli organi periferici che ne costituiscono la base;
— competenza per valore, che talvolta è prevista dalla legge in relazione a determinati effetti.
44 Vi sono dei casi in cui l’esercizio della competenza può essere spostato da un organo ad un altro?
La competenza amministrativa è retta dal principio della inderogabilità, in quanto le sfere di attribuzione e le competenze sono rimesse alla volontà del legislatore (ex art. 97 Cost.).
Tuttavia esistono determinati istituti mediante i quali, con provvedimenti amministrativi, nei casi previsti dalla legge, pur non operandosi un
trasferimento della titolarità della competenza, si determina lo spostamento dell’esercizio di essa (diversamente, l’atto sarebbe viziato,
ed inesistente o annullabile a seconda della gravità dell’incompetenza).
Tali istituti giuridici sono:
a) l’avocazione, da parte dell’organo gerarchicamente superiore,
dell’affare per cui è competente l’organo inferiore. Il potere di avocazione esiste solo in presenza di un rapporto di gerarchia e non
può mai essere esercitato quando l’atto è rimesso dalla legge alla
competenza esclusiva dell’organo inferiore;
b) la delega del potere, da parte dell’organo titolare di esso, ad altro
organo amministrativo. Essa è ammissibile solo nel caso in cui sia
espressamente prevista dalla legge, importando una deroga alla competenza coperta da riserva di legge e deve essere sempre conferita
per iscritto, comportando appunto una deroga alla competenza;
c) la sostituzione, quando in caso di inerzia di un organo gerarchicamente inferiore, l’organo superiore si sostituisce ad esso nel compiere un atto vincolato.
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
47
45 Che si intende per organo?
L’organo può essere definito come un centro di competenza, ossia
come componente dell’organismo dell’ente deputato al compimento di
atti giuridici rilevanti all’esterno e imputati all’ente.
Agli organi sono assegnate persone fisiche e gli atti che le stesse pongono in essere entro la sfera di attribuzione dell’ente sono direttamente imputati a quest’ultimo.
Come tutte le persone giuridiche, anche lo Stato e gli enti pubblici
hanno una propria organizzazione interna, composta di beni e di persone fisiche che agiscono per conto dell’ente.
Nell’organizzazione di ogni ente pubblico possiamo distinguere accanto agli organi,anche gli uffici. Gli uffici sono le unità elementari di base
di tutte le strutture organizzative e, a loro volta, sono costituiti da persone fisiche che, ivi incardinate, vi prestano la propria attività lavorativa (SCOCA-D’ORSOGNA).
Elementi essenziali dell’organo sono:
1) il titolare dell’organo stesso (cd. funzionario), il quale è, di regola, una persona fisica, legata di norma all’ente da un particolare rapporto giuridico, che è il cd. rapporto di servizio;
2) l’esercizio di una pubblica potestà da parte del titolare stesso:
organo in senso tecnico è, dunque, solo colui che esercita una
pubblica funzione (Prefetto, Direttore generale, Ministro), non anche il dipendente il quale svolga attività meramente esecutiva o
materiale (GIANNINI).
46 Che si intende per ufficio?
Secondo la dottrina dominante (SANDULLI), l’ufficio (es.: Ministero-Prefettura) è il complesso organizzato di sfere di competenze, persone fisiche, beni materiali e mezzi rivolto all’espletamento di un’attività strumentale — conoscitiva, preparatoria, esecutiva — tale da consentire all’organo (es.: Ministro-Prefetto) di porre in essere i provvedimenti per la realizzazione dei fini istituzionali
dell’ente.
48
Parte Terza
Gli uffici (che possono servire anche più di un organo) si caratterizzano per la presenza di due elementi:
— un elemento funzionale: ad essi sono attribuite funzioni proprie
della persona giuridica di cui fanno parte;
— un elemento strutturale: essi sono incorporati stabilmente nella
struttura dell’ente di cui fanno parte.
Si è, dunque, in presenza di un organo quando il soggetto ha la veste
e la capacità di impegnare l’ente verso i terzi. Negli altri casi si tratterà di semplici uffici.
47 Qual è la differenza fra rapporto organico e
rapporto di servizio?
Il rapporto organico (o d’ufficio) è un rapporto non giuridico, che
esprime solo la relazione interna (organizzatoria) tra organo (o ufficio) e soggetto preposto ad esso.
Il cd. rapporto di servizio (coattivo o volontario) è, invece, la relazione esterna tra la persona fisica e l’ente, in virtù della quale
sorgono le posizioni giuridiche favorevoli e sfavorevoli tra due distinti
soggetti giuridici.
Il rapporto di servizio costituisce, quindi, il rapporto giuridico intercorrente tra l’ente e la persona fisica che, per ciò, viene inserita con determinate funzioni nell’organizzazione dell’ente. Esso sorge con un atto
amministrativo di assunzione del soggetto. In casi eccezionali, il rapporto può sorgere di fatto.
Il rapporto organico sorge anch’esso, in via generale, con un atto amministrativo, detto di assegnazione (o incardinazione) del soggetto
all’ufficio o all’organo.
Tale atto presuppone logicamente l’esistenza del rapporto di servizio:
tuttavia, può verificarsi l’ipotesi che esso avvenga in presenza di viziata assunzione in servizio del soggetto e, quindi, in presenza di un rapporto di servizio invalido.
Il rapporto organico può essere anche di fatto, quando cioè non sussiste un atto di assegnazione ricorrendo però i presupposti per la configurazione del funzionario di fatto.
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
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48 Le relazioni tra gli organi assumono rilevanza
per l’ordinamento?
Sì. Anche se, in genere, gli organi non hanno una autonoma personalità giuridica, le relazioni tra essi assumono normalmente carattere
esterno, essendo giuridicamente rilevanti per l’ordinamento.
Tra i rapporti interorganici, bisogna citare:
— la gerarchia, che si sostanzia nel rapporto esterno tra organi individuali di diverso grado, anche se all’interno, di solito, di uno stesso ramo di amministrazione. Tale figura si esplica attraverso ordini,
istruzioni, atti di coordinamento e di vigilanza, di riforma, di decisione, di avocazione di sostituzione (CASSESE). Tale rapporto, in precedenza piuttosto diffuso, attualmente caratterizza solo determinati
apparati organizzativi, in quanto la gerarchia appare progressivamente soppiantata dal modello della direzione, in cui l’organo sovraordinato non impartisce ordini puntuali, ma direttive, ossia indica gli obiettivi da raggiungere, lasciando libertà di azione all’organo
sottostante circa le modalità di perseguimento degli stessi.
La crisi del classico modello gerarchico trova la sua origine sia nella disciplina costituzionale in materia di organizzazione amministrativa, ex art. 97 Cost., come attualmente intesa, sia nella disciplina dettata dalla L. 241/1990 in tema di procedimento e dal T.U pubblico impiego, D.Lgs. 165/2001, in cui appare chiaro il principio
di ripartizione delle competenze tra i funzionari e, soprattutto, la responsabilizzazione personale degli stessi in caso di mancato perseguimento degli obiettivi assegnati;
— il coordinamento, consistente nel potere, riconosciuto all’organo
coordinatore, di gestire e coordinare, appunto, l’azione di altri organi, al fine di armonizzarne l’attività;
— il controllo, che consiste nella possibilità che un organo sindachi
l’operato di un altro organo a fini di prevenzione e di riparazione,
nonché a salvaguardia degli interessi su cui è chiamato a vigilare.
49 Qual è la ratio della funzione di controllo?
La ratio della funzione di controllo si rinviene nella necessità che organi in posizione di terzietà o di superiorità vigilino sull’attività di amministrazione attiva svolta da altri organi a ciò preposti
50
Parte Terza
per la cura dell’interesse pubblico, al fine di verificare la realizzazione
dell’interesse stesso nonché la correttezza ed imparzialità dell’attività posta all’uopo in essere.
Circa la natura dell’atto di controllo, in dottrina prevale la tesi secondo
la quale essa è composita, e cioè sia da considerarsi nello stesso tempo come manifestazione di volontà e di giudizio (GALLI).
Il controllo si sostanzia nella possibilità che un organo sindachi l’operato di un altro organo, per tutelare e garantire gli interessi in riferimento (CARINGELLA).
In realtà, però, il concetto di controllo è estremamente vasto e composito.
Innanzitutto, il controllo è sia una relazione interorganica, sia una relazione intersoggettiva; posta questa precisazione, è opportuno delineare le varie forme nonché i momenti attraverso cui si articola il controllo:
— vi sono, infatti, controlli interni alla medesima struttura e controlli esterni;
— in relazione all’oggetto del controllo, si distinguono i controlli sugli atti, diretti a valutare la legittimità (cd. controllo di legittimità)
o anche l’opportunità (cd. controllo di merito) di un singolo atto
amministrativo;
— i controlli sui soggetti, diretti a valutare l’operato delle persone
fisiche preposte agli uffici o la funzionalità di un organo in quanto
tale al fine di adottare le opportune misure per garantirne il buon
funzionamento;
— infine, i controlli sull’attività, diretti a verificare i risultati raggiunti, in termini di efficienza ed efficacia, dall’attività amministrativa
svolta da un determinato ente in un preciso contesto temporale.
Questi ultimi, a loro volta, si distinguono in:
— preventivi, se intervengono su di un atto già formato (perfetto) ma prima che produca i suoi effetti e si configurano, pertanto, come condizione sospensiva dell’efficacia del provvedimento stesso (sono preventivi, fra i controlli di legittimità, il visto,
fra quelli di merito, l’approvazione);
— successivi, se intervengono dopo che l’atto sia divenuto efficace: tale è l’annullamento in sede di controllo;
— sostitutivi, quando l’autorità gerarchicamente superiore, dotata del relativo potere (cd. potere di sostituzione), accertata l’inerzia dell’autorità inferiore, si sostituisce ad essa nell’emanazione del relativo provvedimento. In tali casi, l’autorità controllante emana il provvedimento in luogo dell’autorità controllata, direttamente o a
mezzo di commissari ad acta.
L’organizzazione amministrativa: lo Stato, le autonomie territoriali e gli enti pubblici
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50 Che si intende per «esercizio privato di pubbliche funzioni»?
Con l’espressione «esercizio privato di pubbliche funzioni» si fa riferimento a quelle ipotesi in cui una attività amministrativa di diritto pubblico viene esercitata da soggetti privati estranei all’amministrazione ma in nome proprio. Si parla, a tale riguardo, anche di munera (CERULLI IRELLI).
In particolare, si ha esercizio di fatto di pubbliche funzioni quando viene posta in essere una qualsiasi forma di attività da cui derivi l’attuazione di fini pubblici, esercitata però da soggetti privati, che, appunto, non
sono collocati all’interno dell’organizzazione amministrativa, ma che
comunque sono titolari di qualche potestà.
L’esercizio privato di pubbliche funzioni può essere originato dalla titolarità di un particolare ufficio (ad esempio, i comandanti delle navi mercantili che a bordo possono
ricevere testamento e svolgere funzioni di stato civile e polizia giudiziaria); da una particolare attività professionale (ad esempio, il notaio che svolge funzioni di certezza legale,
l’avvocato che autentica la firma del cliente); dalla legge (l’art. 383 c.p. attribuisce al cittadino la facoltà di arrestare che è colto in flagranza di reato); da un atto di concessione della P.A. (per esempio, il concessionario di riscossione delle imposte ha poteri di
accertamento e di sanzione); dal pareggiamento (le scuole parificate che possono rilasciare titoli di studio parificati a quelli delle istituzioni scolastiche pubbliche); infine, da un
atto volontario di assunzione (ad esempio, le azioni popolari).
Il regime giuridico degli atti posti in essere in costanza di esercizio privato di pubbliche funzioni è il seguente: innanzitutto, gli atti compiuti da tali
persone, non potendosi qualificare come atti soggettivamente amministrativi, sono sottratti alle regole che connotano questi ultimi, in particolare per
quanto riguarda il loro regime di impugnazione giurisdizionale; dei danni
prodotti a terzi risponde sempre e solo il privato, mentre per i danni provocati da organi delle amministrazioni, vi è una responsabilità solidale; sul
soggetto che svolge pubbliche funzioni vi è un controllo da parte delle autorità statali; infine, in caso di contratti stipulati dai concessionari di pubblici servizi, questi sono soggetti alle regole della evidenza pubblica.
51 Qual è la differenza tra munus e officium?
I munera sono esplicazione di attività amministrativa da parte di soggetti privati; si tratta, dunque, di uffici in senso soggettivo, trattandosi,
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Parte Terza
in genere, di una persona fisica, investita della cura di interessi altrui.
Viceversa, l’officium è stato definito «ufficio in senso oggettivo», dal
momento che tale figura può essere ricostruita quale strumento attraverso cui «una data collettività, priva di personalità giuridica (cd.
ente di fatto) riesce ad agire giuridicamente» (SCOCA-D’ORSOGNA):
si tratta, infatti, di un vero e proprio centro di imputazione attivo, avente una propria soggettività, dalla quale, poi, derivano una legittimazione di tipo sia sostanziale che processuale, ai fini del raggiungimento di
interessi che, a differenza di quanto accade per i munera, non sono
estranei rispetto alla struttura organizzativa di dette figure soggettive.
52 Chi è il funzionario di fatto?
L’espressione funzionario di fatto viene utilizzata con riferimento a quelle ipotesi in cui l’atto di investitura del titolare dell’organo sia
viziato o manchi del tutto.
La soddisfazione della fondamentale esigenza di continuità dell’esercizio della funzione pubblica, nonché di quella della tutela della buona
fede e dell’affidamento dei terzi e di quella relativa all’economia dei mezzi giuridici (che comporta la conservazione degli atti amministrativi utili alla P.A.), sono alla base della disciplina del fenomeno del funzionario di fatto. Le medesime esigenze reggono le figure della prorogatio
degli organi cessati, della reggenza di organi privi di titolare, e degli analoghi istituti della sostituzione e della supplenza.
Relativamente alle figure riconducibili sotto tale denominazione, non c’è omogeneità di opinioni in dottrina, che in particolare discute relativamente alle ipotesi della usurpazione di
funzioni pubbliche (art. 347 c.p.), della occupazione bellica, della prorogatio e della ingerenza autorizzata da un atto di investitura formale, risultato solo in seguito viziato.
Per quanto concerne il regime giuridico degli atti compiuti dal funzionario di fatto, la giurisprudenza, applicando la regola del cd. fatto compiuto, ritiene che, una volta decorsi i termini per l’impugnativa dell’atto di investitura (allorché vi sia), gli atti siano validi, fatta salva sempre
la loro impugnabilità per un vizio diverso da quello dell’incompetenza.
Peraltro, parte della dottrina (GALLI) ritiene che tale soluzione non sia applicabile nell’ipotesi di vera e propria usurpazione, in quanto, trattandosi di un’attività penalmente illecita (347 c.p.), gli atti adottati dovrebbero essere considerati atti ab imis nulli, perché provenienti da soggetto sprovvisto della qualità di organo amministrativo.
Parte Quarta
Il lavoro alle dipendenze
delle Pubbliche Amministrazioni
53 Cosa si intende per «rapporto di pubblico impiego»?
Il rapporto di pubblico impiego è quel rapporto di lavoro in cui la
persona fisica pone volontariamente la propria attività, in modo continuativo e professionale, dietro retribuzione, al servizio dello Stato o di un ente pubblico non economico.
In tal modo, il soggetto assume particolari diritti e doveri, che costituiscono lo status del dipendente pubblico.
Per effetto dell’instaurazione del rapporto, il dipendente risulta stabilmente inserito nell’organizzazione della P.A. datrice di lavoro, rispetto alla quale, dunque, è gerarchicamente subordinato, e la sua prestazione concorre alla realizzazione dei fini istituzionali dell’ente.
Tale rapporto si configura come:
— rapporto volontario: sia per la costituzione che per la continuazione del rapporto
è richiesta non solo la volontà della P.A., ma altresì la volontà del dipendente;
— rapporto strettamente personale: la specifica capacità intellettuale e tecnica necessaria per ogni singolo ufficio e il rilievo dell’elemento fiducia comportano che il rapporto sia costituito intuitu personae;
— rapporto giuridico bilaterale: da esso, infatti, derivano diritti ed obblighi reciproci
per ciascuna delle parti;
— rapporto di subordinazione: in quanto la prestazione lavorativa è svolta alle dipendenze della pubblica amministrazione.
54 Quali sono i principi in tema di lavoro pubblico
contenuti nella Carta costituzionale?
La Carta costituzionale non disciplina direttamente ed organicamente la materia del pubblico impiego. Tuttavia, vi sono alcune disposizioni che assumono una particolare rilevanza in tale ambito:
— l’art. 51 (parità nell’accesso ai pubblici uffici);
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Parte Quarta
— gli artt. 54 e 98 (dovere di adempiere con disciplina e onore alle
pubbliche funzioni affidate; esclusività del servizio della Nazione);
— l’art. 97 (riserva di legge inerente all’organizzazione dei pubblici uffici e principio di buon andamento dell’amministrazione; regola del
concorso);
— l’art. 28 (responsabilità diretta dei dipendenti pubblici per gli atti
compiuti in violazione di diritti).
55 Cosa si intende «per privatizzazione»?
Per privatizzazione (o contrattualizzazione) del pubblico impiego si intende l’assoggettamento di quest’ultimo alle regole del rapporto
di lavoro privato, fatte salve talune categorie lavorative che restano
ancora disciplinate in regime di diritto pubblico.
Detto fenomeno è stato attuato negli ultimi 15 anni attraverso molteplici riforme. In particolare, a seguito della legge delega 421/1992,
l’emanazione del D.Lgs. 29 del 3 febbraio 1993 ha suggellato il
processo di privatizzazione dell’impiego pubblico, assoggettando la relativa disciplina alla contrattazione collettiva, con conseguente sottoposizione delle relative controversie alla cognizione del giudice ordinario. Tale cammino è stato poi ulteriormente integrato attraverso
il D.Lgs. 80/1998, cd. seconda privatizzazione del lavoro pubblico.
Le fondamentali finalità della privatizzazione, ai sensi dell’art. 1 del
D.Lgs. 165/2001, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cd. Testo unico
pubblico impiego, sono:
— accrescere l’efficienza delle amministrazioni, in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell’Unione europea,
anche mediante il coordinato sviluppo dei sistemi informativi pubblici;
— razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa
complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica;
— realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, assicurando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, applicando condizioni uniformi rispetto a
Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni
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quelle del lavoro privato e garantendo pari opportunità alle lavoratrici e ai lavoratori nonché l’assenza di qualunque altra forma di discriminazione e di violenza morale o psichica.
56 Come si inquadra la cd. Riforma Brunetta nel
contesto delle recenti riforme del lavoro pubblico?
Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, nel corso degli ultimi anni, è stato assoggettato ad un complesso ed articolato iter
di riforme.
In risposta all’esigenza di sviluppare meccanismi meritocratici nella P.A.
e reagire alla scarsa qualità dei servizi (la cd. campagna antifannulloni),
infatti, la L. 4-3-2009, n. 15, ha attribuito una ampia delega al Governo per riformare la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, ancora nel segno della convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato
(con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali). Tra i
principali obiettivi della delega: implementare sistemi interni ed esterni
di valutazione del personale e delle strutture amministrative; garantire la
trasparenza dell’organizzazione del lavoro nelle P.A.; ottimizzare la produttività del lavoro pubblico e assicurare una offerta di servizi conformi a
standard di qualità; rafforzare l’autonomia, i poteri e la responsabilità della dirigenza; riformare l’assetto della contrattazione collettiva; porre nuove regole per ridare efficacia alla responsabilità disciplinare.
Tale delega ha trovato attuazione con il D.Lgs. 27-10-2009, n. 150,
recante la cd. Riforma Brunetta.
Tale riforma del pubblico impiego muove dalla esigenza di sviluppare
quella cultura della valutazione la cui carenza è tra i principali imputati del fallimento di innumerevoli sforzi di innovare le P.A.
Prime anticipazioni della Riforma Brunetta avevano, peraltro, già trovato spazio nel D.L.
25-6-2008, n. 112, conv. con modif. in L. 6-8-2008, n. 133, cd. manovra d’estate 2008, che ha veicolato una serie di innovative norme in tema di lavoro pubblico, nonché nella L. 18-6-2009, n. 69, nell’ambito del disegno di un Piano Industriale della Pubblica Amministrazione (si vedano, in particolare, le disposizioni di cui agli artt.
7, 21 e 23, per quanto riguarda, rispettivamente: l’assurgere del mancato rispetto dei
termini del provvedimento ad elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale; la trasparenza sulle retribuzioni dei dirigenti e sui tassi di assenza del personale; le
nuove misure per agevolare la diffusione delle buone prassi).