Arriva ITunnel, il pompiere robot
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Arriva ITunnel, il pompiere robot
Pianeta scienza MARTEDÌ 3 SETTEMBRE 2013 IL PICCOLO AL MICROSCOPIO A Trieste 250 mila dollari per la lotta alle malattie del fegato A chi importa se, in Nigeria, il 20 per cento delle morti neonatali è dovuto alla presenza di ittero (troppa bilirubina nel sangue) non diagnosticato per tempo? Importa a pochi, ma per fortuna questi pochi sono quelli giusti. La Fondazione italiana fegato Onlus di Trieste è fra coloro che si apprestano a sviluppare e diffondere un test che rileva la bilirubina nel sangue, grazie anche a un premio di 250 mila dollari proveniente da Saving Life at Birth: A Grand Challenge for Development. Saving Life, sponsorizzato fra gli altri dalla Bill&Melissa Gates Foundation e da agenzie Usa, Canada e UK per lo sviluppo, individua i migliori progetti di prevenzione e cura indirizzati a donne gravide e neonati. Il prototipo del test, chiamato Bilistick, ha già dato ottimi risultati in uno studio eseguito in Egitto e al Burlo, coordinato da Carlos Coda-Zabetta, ricercatore argentino della Fondazione e coordinatore del progetto. Ora sarà perfezionato per la diffusione su larga scala nei mercati mondiali, anche nei paesi in via di sviluppo. A idearlo e produrlo è stata la Bi- limetrix, start-up nata in Area Science Park nel 2012, facente parte dell’incubatore di impresa Innovation Factory. Tra i soci fondatori dell’azienda, oltre alla Fondazione italiana Fegato e al suo direttore Claudio Tiribelli, anche l’Università di Trieste, Area Science Park e il professor Richard Wenneberg dell’Università di Washington. Il premio di 250 mila dollari, ottenuto sbaragliando ben 400 candidati, servirà a rendere Bilistick fruibile, a costi contenuti, proprio dalle comunità che ne hanno più bisogno. «Per arriva- re sul mercato – precisa Tiribelli, direttore del Centro studi fegato di Area Science Park, a Basovizza – serve almeno un milione di Euro. Ma siamo sulla buona strada: il Miur ci ha dato 450 mila Euro, abbiamo il contributo di Saving Life e stiamo individuando altri cofinanziamenti dialogando anche co». «I risultati confermano la nostra credibilità», conclude Tiribelli. «Anche in tempi di crisi la nostra Fondazione ha assunto in pianta stabile due persone e spera di assumerne altre due nel 2014». Cristina Serra Addio jet lag: trovato il gene, si pensa al farmaco di MAURO GIACCA Claudio Tiribelli Arriva ITunnel, il pompiere robot Realizzato dal Gsa di Tavagnacco, il sistema ignifugo automatico si rivela ideale per le gallerie di Simona Regina È stato realizzato in Friuli Venezia Giulia il robot-pompiere ITunnel. Un innovativo sistema mobile di spegnimento degli incendi in galleria, realizzato da Gsa-Gruppo Servizi Associati di Tavagnacco e cofinanziato dall'Unione Europea tramite il Programma operativo regionale del Fondo europeo di sviluppo regionale. Montato su una rotaia aerea, applicata sulla volta della galleria all’interno della quale si trovano le condotte di rifornimento dell’acqua e degli estinguenti, può muoversi fino a 50 chilometri orari e scaricare acqua e sostanze ignifughe a dosaggi calibrati (fino a una potenza di mille litri al minuto) in base all’entità dell’incendio. Inoltre, essendo in grado di rilevare la presenza di eventuali persone nella zona dell’emergenza, può operare affinché gli interventi di sicurezza non diventino lesivi per le persone stesse. È dotato, infatti, di tre termocamere a infrarossi e di tre ITunnel, il sistema innovativo di spegnimento automatico degli incendi nelle gallerie sensori con cui può valutare, osservando direttamente l’evento, quale tipo di intervento far compiere al sistema. «È gestibile in remoto da qualsiasi centrale operativa, ma è anche in grado di interve- nire in piena autonomia: Itunnel è infatti un sistema robotizzato intelligente, che rende sempre più sicuro il transito dei cittadini attraverso le gallerie stradali e autostradali», precisa Alessandro Pedone, azio- nista di riferimento di Gsa. L'impianto, di cui si sta studiando l’applicazione anche nelle gallerie ferroviarie, assume particolare interesse in relazione alle ultime normative in tema di sicurezza, previste dal Libro Bianco dei Trasporti e dal Programma 2014-2020 dell’Unione Europea. «Gli obblighi stringenti della normativa europea in materia di sicurezza per le gallerie impongono all’Italia l’adeguamento del suo sistema viario. E Itunnel è la risposta che Gsa dà a tali nuove esigenze: più sicurezza, più servizi, meno costi» aggiunge Pedone, che sottolinea in proposito come l’Italia sia la più “ricca” d’Europa per la presenza di gallerie, «seconda nel mondo solo al Giappone». «Unendo infatti le nostre 2560 gallerie si arriva a una lunghezza complessiva di 1.200 chilometri, l’equivalente della distanza fra Milano e Reggio Calabria». Inoltre, ITunnel può essere integrato a ulteriori sistemi per la manutenzione ordinaria delle gallerie, per garantire la pulizia delle pareti o impedire la formazione del ghiaccio al suolo in caso di temperature rigide, contenendo così i costi di gestione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Le frane? Si possono fermare con le noci di cocco L’Accademia delle scienze di Trieste e Catalyst pubblicano i manuali per ridurre i rischi da catastrofi naturali Twas e Catalyst hanno selezionato le migliori strategie adottate nel mondo per ridurre i rischi derivanti dai disastri naturali e convivere con il clima che cambia, come riciclare le noci di cocco per realizzare reti protettive anti-frane, ripensare la geografia riparia dando “più spazio ai fiumi”, spostando dighe e rimpicciolendo frangiflutti. Sono appunto alcune delle strategie usate per ridurre il rischio e contenere i danni da disastri naturali in diversi paesi. Formano il cuore di quattro manuali appena pubblicati dal progetto europeo Catalyst finanziato dall’Unione Europea (7PQ), che vede anche la partecipazione della Twas, l’Accademia mondiale delle scienze con sede a Trieste. I Manuali di buone pratiche (Best Practice Papers) - scaricabili da www.catalyst-project.eu - filtrano il meglio delle esperienze e delle pratiche cui le comunità locali ricorrono in caso di calamità, rileggendole alla luce delle odierne conoscenze scientifiche sui disastri, spesso aggravati dai cambiamenti climatici. Condensando statistiche, criticità geografiche ed esempi concreti, essi esaminano quattro fra le regioni più a rischio della Terra, le più colpite da terremoti, tsunami, uragani, siccità, frane, alluvioni: Centro America e Caraibi, Sud Est Asiatico, Africa sub-sahariana e Mediterraneo. «I manuali sono diretti a politici, Ong, operatori del settore e organizzazioni umanitarie», spiegano i coordinatori genera- li di Catalyst, Matt Hare e Caroline van Bers della Seeconsult, azienda tedesca specializzata nel realizzare di programmi di gestione ambientale partecipativa. «Tratteggiano un quadro aggiornato di come sono perce- Galileo. Koch. Jenner. Pasteur. Marconi. Fleming... Precursori dell’odierna schiera di ricercatori che con impegno strenuo e generoso (e spesso oscuro) profondono ogni giorno scienza, intelletto e fatica imprimendo svolte decisive al vivere civile. Incoraggiare la ricerca significa optare in concreto per il progresso del benessere sociale. La Fondazione lo crede da sempre. piti i rischi ambientali naturali e degli errori o dei falsi miti difficili a morire, e che ostacolano attività più coordinate ed efficaci», aggiungono. Iniziato nel 2011 e prossimo alla conclusione, Catalyst ha selezionato il meglio in fatto di know-how e di strategie anti-rischio, anche grazie all’aiuto di 130 esperti (Think Tank), di organizzazioni governative e non, del mondo scientifico e dell’industria privata, che hanno esaminato l’esistente, suggerendo possibili alternative più efficaci per il futuro. Numerosi gli esempi virtuosi. Il progetto Terra Coco, in Guatemala, ricicla il guscio delle noci di cocco con duplice beneficio: riduce i rifiuti e produce sandali ed espadrillas, ma so- 23 prattutto robuste reti con cui si puntellano i pendii collinosi a rischio di frane. Un approccio più teorico viene dall’Africa dove, con un progetto che vuole quantificare il profilo di resilienza delle città, si cerca di arginare l’urbanizzazione selvaggia (spesso caotica e fuori controllo) creando una nuova normativa edilizia. «Non vogliamo certo sostituirci agli operatori professionali del settore», precisano gli esperti di Seeconsult. «Vogliamo far conoscere le strategie correnti di gestione del rischio geologico e idrometeorologico, per stimolare miglioramenti. Alcune strategie sono figlie della saggezza o dell’ingenuità popolare. Altre sono più sofisticate. Tutte si possono perfezionare». QUESTA PAGINA È REALIZZATA IN COLLABORAZIONE CON Buone notizie per chi, al rientro dalle vacanze oltreoceano, fatica a riadattarsi ai ritmi dell’orologio italiano. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford ha riportato la scorsa settimana sulla rivista Cell di aver scoperto il gene principale responsabile del jet lag, quello che impedisce all’organismo di adattarsi rapidamente a un nuovo fuso orario. Il problema è ben noto. La funzione di tutte le cellule del nostro corpo sono di fatto segnate da un ritmo di funzionamento di circa 24 ore, il ritmo circadiano. La luce giunge all’occhio e attiva un pigmento specifico, la melanopsina, differente da quello che responsabile della visione; la retina quindi trasmette il segnale a una regione del cervello, il nucleo soprachiasmatico, che funge da una sorta di pacemaker, capace di sincronizzare il ritmo circadiano di tutto l’organismo. Il mantenimento di questo ritmo appare fondamentale per il nostro benessere: negli ultimi 20 anni, una vasta serie di studi hanno mostrato come temperatura corporea, secrezione ormonale, senso di fame e sonno, ma anche risposta immunitaria, predisposizione ad alcune malattie croniche e lo stesso comportamento delle persone dipendano dal corretto funzionamento di questi circuiti. Ma se è la luce il principale determinante della periodicità del ritmo circadiano, perché quando cambiamo fuso orario il tempo di adattamento dura così tanti giorni? I ricercatori di Oxford hanno scoperto che, nelle cellule del nucleo soprachiasmatico, tra i più di 500 geni che vengono stimolati dalla luce, ne esiste uno, chiamato SIK1, che funziona come una specie di freno molecolare, bloccando la risposta alla luce stessa. Gli animali in cui il livello di SIK1 nel cervello viene ridotto sperimentalmente mostrano una sorprendente capacità di riallineare rapidamente il proprio orologio biologico quando sono esposti alla luce. Il senso evolutivo di un simile meccanismo di freno appare chiaro, in quanto consente di dare stabilità al circuito che integra il ritmo luce-buio con il funzionamento dell’organismo: l’orologio biologico necessita di ricevere un segnale stabile, e se questo segnale avviene nello stesso momento in una serie di giorni successivi ha più probabilità di avere rilevanza. Ma per tutte quelle persone che si muovono rapidamente e continuamente in aereo, ecco che è proprio la stabilità del meccanismo a rappresentare un ostacolo al reset dell’orologio stesso. Avremo presto a disposizione un farmaco che blocchi SIK1 e permetta un immediato riadattamento al jet leg? Probabilmente non nell’immediato futuro, ma finalmente la ricerca ha a disposizione un bersaglio molecolare preciso contro cui cercare di svilupparlo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA