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III. DENUNCIA DEI MALI SOCIALI
Voglio che il teatro sia una cosa viva: legata alla verità della vita. Voglio che denunzi ed accusi1.
Nel secondo capitolo abbiamo osservato la famiglia riflessa nelle commedie eduardiane, come “microsocietà”; in questo andremo ad analizzare la sottile denuncia che Eduardo ha sporto nei confronti di una “macrosocietà”, quella italiana, ma anche di una “iposocietà” (l’individuo).
In questa direzione analizzeremo nel primo paragrafo due sottoinsiemi dell’opera eduardiana: uno temporale, quello del fascismo, e uno spaziale, quello di Napoli, città complicata con la quale l’autore ha sempre avuto un rapporto difficile.
Nel secondo paragrafo ci soffermeremo sull’analisi di alcune delle commedie a sfondo sociale dell’opera eduardiana, soprattutto presenti nella Cantata dei giorni dispari. Nel terzo si prende in analisi la sua commedia politica per antonomasia, Il figlio di Pulcinella (1957), dove emergono i temi della tensione delle classi nella società italiana e in quella napoletana dell’amministrazione Lauro.
1 Eduardo De Filippo intervistato da Paolo Ricci, Un De Filippo inedito per il Teatro di Eduardo, 1954, in Eduardo De Filippo: vita e opere. 1900­1984 a cura di Isabella QUARANTOTTI e Sergio MARTIN, Milano, Mondadori, 1986, p. 186.
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III.1 Eduardo nella società
La relazione fra le commedie di Eduardo e la società in cui nascono è espressa dalla «parabola naturale dell’uomo», come disse lo stesso drammaturgo:
[...] gioventù con alti e bassi di speranza e disperazione, entrambe illogiche e meravigliose; maturità, cioè grandi aspettative confortate dall’aiuto del pensiero; vecchiaia: delusione e amarezza. O, se vogliamo, è il ciclo della storia vista attraverso la vita di un artista. Nel mio caso, durante la dittatura fascista c’era il desiderio della libertà; con la “liberazione” venne la giusta aspettativa di una società migliore e di un’umanità diversa; poi sono venute le prime delusioni [...].
Insomma, il mio sogno di un mondo migliore è come un pallone in cui, anno per anno, si sono andati a infilare spilli in quantità, sgonfiandolo sempre più... Rimangono i giovani [...] in cui sperare... Speriamo bene!2
Ma alla base del messaggio insito nelle sue commedie l’autore istituisce un «circuito solidale» con il pubblico. Osserva infatti il Pandolfi che «il
largo successo di Eduardo è dovuto appunto al fatto che egli stabilisce con
esso una partecipazione immediata [...]»3.
2 Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di studenti, Roma, Teatro Eliseo, 1976, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1986, pp. 172­174.
3 Vito PANDOLFI, Teatro italiano contemporaneo 1945­1959, Milano, Schwarz, 1959, p. 127.
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1.1 Fascismo a teatro
Negli anni della sua formazione Eduardo dovette confrontarsi con la difficile situazione politica italiana, quella del fascismo. Il regime osteggiava il teatro dialettale4 in nome della purezza della lingua italiana, e quello del Teatro Umoristico era il caso di una compagnia “tollerata”5. Anche negli anni più bui della dittatura «la lengua napoletana dei De Filippo può prendersi gioco di direttive e veline ministeriali grazie ai trucchi del mestiere, proprio perché la tradizione in cui si radica è quella della lingua dei corpi, delle parole, dei gesti e degli oggetti che sul palco vivono»6. Ciononostante le sue commedie dovevano sempre fare i conti con la censura, quando addirittura i fratelli De Filippo non venivano accusati dagli stessi colleghi, invidiosi del loro successo. È lo stesso Eduardo a ricordarlo:
E poi mi limitavano le stagioni a venti, a dieci, a quindici giorni, non mi davano più di due mesi di contratto a Roma perché si ribellavano le altre compagnie e andavano a ricorrere dal Direttore dello Spettacolo De Pirro. E De 4 Il motivo per cui Eduardo continuò prevalentemente a scrivere commedie in dialetto fu anche il successo al Teatro Valle di Roma (tempio del teatro in lingua): «Se nel 1930 non mi avesse arriso il successo del Valle, anch’io probabilmente avrei rinunziato al dialetto. Sarei diventato un mediocre attore italiano». Eduardo DE FILIPPO intervistato da Raul RADICE, Perché Eduardo non recita da un anno?, “L’Europeo”, Milano, 22 gennaio 1953.
5 Sebbene in alcuni casi i De Filippo scrissero commedie in lingua, anche per la “contaminazione” col teatro pirandelliano, «costretti a confondersi con la schiera di quegli scrittori di origine, in senso lato, “napoletana” che già da tempo avevano scelto la lingua italiana, come una veste esteriore di facile pratica scenica e di corrente linguaggio conformistico». Vittorio VIVIANI, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida, 1969, p. 904.
6 Anna BARSOTTI, La lingua di contraddizione nel teatro di Eduardo: colore delle parole e temperatura dei silenzi, in Atti del Convegno di studi sulla drammaturgia civile e sull’impegno sociale di Eduardo De Filippo senatore a vita, Roma, 2005, p. 45.
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Pirro riceveva pure lettere di sollecitazione da parte di autori, che gli chiedevano perché sosteneva il teatro dialettale [...]. Quindi De Pirro stesso, mi chiamava e mi diceva “Abbi pazienza, per quest’anno fatti un giro di quaranta, cinquanta recite....” Sicché il teatro che più in quel momento il pubblico amava, praticamente glielo vietavano7.
È il caso di Gherardo Gherardi, commediografo, che promuovendo il suo teatro in lingua attaccherà le formazioni dialettali, e in particolare i De Filippo:
Assistiamo al fenomeno delle compagnie dialettali che, sole, possono resistere all’attuale organizzazione. Perché effettivamente esse e il loro repertorio e il loro modo di intendere l’arte del teatro possono trovarsi a miglior agio in un mondo stranamente arretrato come quello del teatro. Ed ecco che nella metropoli, dopo aver avuto tre compagnie di riviste contemporaneamente, abbiamo ora tre compagnie dialettali (napoletana, genovese e veneziana) in due delle quali il metodo artistico ritorna con violenza incomprensibile alle antiche forme del teatro dell’arte. Due grandi attori come i De Filippo riprendono con sempre maggior frequenza il sistema di pensare una commedia alla notte e di provarla la mattina dopo per rappresentarla in settimana. Grande successo, certo: i De Filippo sono i De Filippo e hanno spesso ragione. Ma il sistema è quello che è: tutto meno che moderno, tutto meno che attuale, anche da un punto di vista schiettamente 7 Eduardo DE FILIPPO, Eduardo e Zeffirelli: un grido d’allarme per il teatro libero, “Sipario”, Novembre 1966, p. 11.
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artistico8.
In quella circostanza Eduardo rispose:
[Gherardi] si mostra accorato che le folle prediligano il nostro teatro. Si tratterebbe secondo lui di un pubblico arretrato!
Ora io trovo questo rammarico di Gherardi inaudito. Se il pubblico viene a noi con pieno consenso a Tripoli come oggi a Trieste, a Napoli come a Milano [...] una ragione ci deve essere! Questo periodo di voga e di comprensione, noi lo abbiamo atteso per lunghissimi anni, diciamo almeno venti, recitando nelle compagnie di ordine e in quelle a scartamento ridotto; nei grandi teatri e nei baracconi; nelle metropoli e nei paesetti di provincia [...]. Dovemmo lottare con le unghie e con i denti; dovemmo comporre le nostre commedie, battuta per battuta [...] fra gli assillanti problemi del lunario e dell’incerto domani. Quelle commedie [...] costarono anni di lavoro sconosciuto; e alcune dormirono a lungo nel cassetto, senza che nessun capocomico volesse rappresentarle; senza che nessun uomo o maneggione di teatro ci volesse accordare tanto di fiducia da comporre per noi una modesta compagnia ed allestire una decorosa messa in scena9.
A difesa dei De Filippo si schiera anche Luigi Chiarelli, scrivendo per la stessa rivista sulla quale era comparso l’articolo di Gherardi un generoso profilo dei tre attori10. Dello stesso Chiarelli la compagnia avrebbe dovuto 8 Gherardo GHERARDI, «Film», 3 dicembre 1938.
9 Eduardo DE FILIPPO, Eduardo difende il suo teatro, «Il Giornale d’Italia», 15 dicembre 1938.
10 Luigi CHIARELLI, «Film», 17 dicembre 1938.
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mettere in scena Pulcinella, ma lo spettacolo non sarà rappresentato, forse per la mancanza di quelle sovvenzioni che alle compagnie dialettali non venivano elargite.
Oltre alle accuse vi furono vere e proprie denunce da parte dei colleghi, che vedevano nei De Filippo un antifascismo fatto di barzellette11, ammiccamenti, e addirittura – è il caso della poco credibile relazione di Manlio Calindri, riportata più avanti – come facinorosa rivolta all’indomani della caduta del duce. Queste denunce emergono da una ricerca negli articoli dell’Archivio Centrale dello Stato, ad opera di Mauro Canali12, recensita dal giornalista Sergio Luzzatto:
Dai bassifondi della società fino ai vertici del potere, il sistema si fondava sopra una cultura politica che misurava la cittadinanza secondo la disponibilità a denunciare, e sopra un’economia morale che ripagava la delazione in denaro contante. Le denunce degli zelanti della ribalta contro Eduardo e Peppino De Filippo potevano riuscire allora tanto più plausibili, in quanto i due fratelli napoletani avevano calcato – durante la seconda metà degli anni Trenta – la scena del teatro di rivista: là dove la risata pubblica minacciava sempre di tradursi in risata antifascista. Nei fatti [...] il controllo della risata reale si rivelò difficile, per non dire impossibile. Anche perché le battute che rinunciavano a dire dal palco, gli attori refrattari avevano comunque modo di farle «fuori della 11 Racconta Luigi De Filippo che «si divertivano a parodiare le canzonette in voga in quel tempo inserendovi dei versi che sfottevano Mussolini [...]. Eduardo abitava allora a Roma in Via Aquileia [...] la sua casa era ritrovo di molti antifascisti». Luigi DE FILIPPO, De Filippo & De Filippo, Roma, Newton Compton, 1993, pp. 63­66.
12 Cfr. Mauro CANALI, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004.
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scena, in amichevoli riunioni13.
Nel libro di Canali viene citata la relazione «Caduto Mussolini, si diedero alla pazza gioia» di Francesco Salvi del 3 marzo 1939:
Posso assicurare che i noti attori Edoardo e Peppino De Filippo, continuamente, ed in presenza di molte persone, mettono in giro delle barzellette che suonano di offesa al Capo del Governo ed al Fascismo. Inoltre i De Filippo criticano continuamente gli operati del Regime. Chiunque si può accertare di quanto sopra14. Mentre nella sua relazione Manlio Calindri, il 25 dicembre 1943, scrive:
Da molto tempo sorvegliavo i fratelli De Filippo, i quali erano ritenuti sovversivi e irriducibili antifascisti. Feci alcune constatazioni che comprovavano la veridicità dei sospetti. Io posso ancora confermare che i due fratelli De Filippo – e altri egregi come Gino Cervi, Filippo Scelzo, Antonio Centa, Carlo Campanini, possono confermarlo – svolgono continuamente attività e propaganda antifascista. Anzi detti attori di cui sopra si domandano con meraviglia cosa aspettano per confinarli o arrestarli. Adesso poi che svolgono un programma vario con Luigi Cimara, anglofilo al mille per cento, sarebbe interessante sentire e vedere cosa dicono e cosa tramano. La notte del 25 luglio i due De Filippo, e tutta Roma può confermarlo, fecero pazzie 13 Sergio LUZZATTO, Eduardo e Peppino tra le spire dell’Ovra, «Corriere della Sera», 22 dicembre 2004.
14 Roma, Archivio centrale dello Stato, Polizia politica, Fascicoli personali, busta 398, fascicolo «De Filippo fratelli», ora in Mauro CANALI, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004.
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proprio da manicomio. Assoldarono i primi facinorosi che trovarono e con essi percorsero le strade di Roma strepitando e rovinando tutto quello che poteva ricordare il Fascismo. Invitarono poi a casa loro a gozzovigliare i più delinquenti di questi operai inneggiando alla morte di Mussolini e alla vittoria della Russia15. D’altronde gli ammiccamenti dal palco verso il pubblico stanco dell’oppressione fascista c’erano, e potevano celarsi anche dietro ad una particolare enfasi nell’interpretazione di una battuta. Secondo quanto racconta Titina De Filippo16, durante una rappresentazione del Berretto a sonagli, Eduardo calcò significativamente una battuta del personaggio: «Sono i bocconi amari, le ingiustizie, le infamie, le prepotenze, che ci tocca d’ingozzare che c’infracidano lo stomaco! Il non poter sfogare, signora!»17. Il pubblico raccolse subito l’allusione e scoppiò in sala un applauso che innervosì non poco gli squadristi presenti: Dopo lo spettacolo [...] salirono in palcoscenico “per dare una lezione” a Eduardo e Peppino, i quali, però, appena calato il sipario, senza nemmeno struccarsi e cambiarsi d’abito, avevano lasciato il teatro da una porta secondaria [...]. Il giorno dopo Eduardo e Peppino vennero a sapere che stava per essere spiccato un mandato di cattura nei loro confronti18. Altre allusioni si trovano nei testi che Eduardo scrive in quegli anni. È 15 Ibidem.
16 Augusto CARLONI, Titina De Filippo, Milano, Rusconi, 1984, p. 96.
17 Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli, Atto II, Milano, Mondadori, 1959, p. 51.
18 Ibidem.
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questo il caso di Requie all’anema soja19, atto unico del 1926 nel quale Pietro, operaio della Compagnia del Gas, compiange il collega sul letto di morte. Nel fare un discorso il giovane propone la retorica dell’uomo forte che resiste alle lacrime (o vorrebbe resistere), ma che alla fine si ribella all’imposizione e cede al pianto. Ci pare di scorgere l’immagine dell’«uomo forte» imposto dalla cultura fascista e nelle sue ultime parole, che dirompono nella disperazione e nell’esasperazione, il simbolo (in piccolo) di un malcontento popolare verso le imposizioni del regime:
PIETRO. [...] Donna Amalia (È mortificato, non trova le parole adatte) [...] Voi dovete piangere, noi non possiamo... noi siamo virili. [...] Perché i compagni di una compagnia di lavoro, virili e sprezzanti... devono chiudere dentro quello che volesse venire fuori (Intanto si commuove e già qualche lacrima scorre dai suoi occhi) Si, qualche lacrima la versiamo anche noi, ma è sempre furtiva... (Si commuove sempre più) [...] Non voglio dire quello che non so dire... (Ormai non regge alla piena del pianto che gli sale alla gola) Perché le parole sono parole... e la libertà è libertà. E don Gennaro vostro marito era sprezzante e virile come noi... (Scoppia a piangere senza alcuna riserva) Povero don Gennaro! Povero compagno! (si accascia su di una sedia, dando sfogo un poco al dolore di aver perduto un caro amico, ma molto, moltissimo a tutto ciò che lo contraria nella vita, chi sa da quando e perché)20.
19 La commedia sarà rappresentata per la prima volta al teatro Kursaal di Napoli nel 1932. Solo nel 1952 l’atto unico sarà riproposto al Piccolo Eliseo di Roma, rinominato I morti non fanno paura. Per un confronto tra le due versioni cfr. Anna Barsotti, Nota storico­critica a Requie all’anema soja, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1998, pp. 100­103.
20 Eduardo DE FILIPPO, Requie all’anema soja, in Cantata dei giorni pari cit., pp. 108­109. Il corsivo è nostro.
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I riferimenti ad un’Italia stanca, diversa da quella che lo “stato forte” voleva far credere, emergono non solo dalle “intenzioni” di una battuta, dagli ammiccamenti o dalle interpretazioni, ma anche dai testi che scrive Eduardo in quegli anni; dietro a una comicità di facciata, un testo come Natale in casa Cupiello porta alla ribalta un’Italia misera e debole, in contrapposizione al mito del paese forte che il fascismo celebrava e imponeva. A notarlo fu Federico Fellini che nel 1980 ricordò di aver assistito ad una delle prime rappresentazioni:
Io ho visto i De Filippo a Roma intorno al 1937, un 21 Aprile. Lo ricordo perché la città era invasa da cerimonie fasciste: dovunque ci si scontrava con la paccottiglia esaltata e delirante delle feste fasciste. Il pomeriggio di quel giorno andai all’Argentina, e vidi per la prima volta i De Filippo che raccontavano di un’altra Italia, un’Italia abissalmente lontana da quella che stava immediatamente fuori dal teatro. [...] La prima apparizione dei De Filippo nella mia vita divenne un contraltare, un rovesciamento della pagliacciata che infuriava tutto intorno21. Il “teatro di denuncia” di Eduardo è caratterizzato da un’impronta indiretta, è fatto di allusioni, di riferimenti, di un parlare col pubblico attraverso un linguaggio “d’intesa” che non sfugge al regime, ma viene tollerato in quanto sulla sottile linea di confine disegnata dal proscenio tra la finzione del teatro e la realtà del pubblico. Nelle sue Lezioni agli studenti dell’Ateneo di Roma, Eduardo esprime questo concetto parlando del 21 Federico FELLINI, contributo a Eduardo. Documento in occasione dell’ottantesimo compleanno di Eduardo de Filippo, a cura di Umberto SERRA, «Il Mattino», 24 maggio 1980.
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Mercante di Venezia di Shakespeare:
Io accuso la società in cui viveva Shakespeare. Come poteva fare? Come avrei potuto fare io durante il fascismo, se non far ridere il pubblico e poi in ultimo ammannirgli un capovolgimento dell’azione e mostrargli la tragedia? In quell’epoca anch’io ho dovuto usare una tattica. E Shakespeare si è trovato peggio di me, in condizione di far buon viso a cattivo gioco. Non ha potuto in quell’epoca dire: «Badate, l’usura l’avete imposta voi!».
Però lo poteva dire Shylock perché era la verità. I re si servivano degli ebrei, si facevano prestare i quattrini. Io mi inchino davanti alla prontezza di spirito e alla tattica che ha usato Shakespeare in quell’epoca: è riuscito ad uscirne. E magari ne uscissero tutti come ne è uscito lui! Ma una tattica ha dovuto usarla.
Prendiamo il caso mio. Lontano mille miglia dal pensare ad un accostamento con Shakespeare, ma la situazione per me è stata la stessa. Dopo la guerra ho potuto scrivere Filumena Marturano, Le voci di dentro, Le bugie con le gambe lunghe, Il sindaco del rione Sanità che chiede la rivoluzione – mi sono messo contro i magistrati, i politici, tutti! L’avrei potuto fare all’epoca fascista? Sarebbe stato impossibile. Nel ’27 scrissi Ditegli sempre di sì. È uno dei miei primi lavori. Quella era l’epoca d’oro del fascismo ed il titolo era allusivo. La commedia ha come protagonista un pazzo che è fissato sulle parole, non parla con le parole appropriate e crea degli equivoci e fa dei pasticci. Mi trovavo a Torino a recitare questa commedia e quando finì il primo atto l’impresario [...] mi disse: «Eduardo, tu devi uscire adesso fuori del sipario e devi dire qualche cosa al pubblico perché è stata proclamata la fondazione 234
dell’Impero».
Prima che iniziasse il secondo atto io mi presentai al pubblico e dissi: «L’impresario Chiarella è venuto a dirmi una cosa meravigliosa. Questa commedia è fortunata perché è cominciata in un regno e finisce in un impero! Ditegli sempre di sì!» Tutti quanti a ridere.
Erano allusioni, allegorie, un po’ di fantasia dentro, e poi si dava la battuta. Ma fino a quando c’era il fascismo ho dovuto chiudere dentro tutto quello che c’era da dire22.
Purtroppo atteggiamenti o uomini fascisti resteranno anche dopo la destituzione della dittatura, nelle istituzioni guidate dagli stessi reggenti dell’epoca totalitaria. Lo espone Eric Bentley, con una visuale “dal di fuori” che, a distanza di anni, si può ben condividere: E poi c’è il fascismo [...]. Continuerebbe inevitabilmente ad essere presente come influenza – dopo vent’anni di governo e di educazione fascista – anche se si fosse operata una epurazione radicale nel 1943 o dopo. [...] A capo del teatro italiano odierno (almeno per la parte che interessa il governo) c’è il signor Nicola de Pirro, il quale era già a capo del teatro italiano sotto Mussolini. Direi che ciò che non va nel teatro italiano odierno è il suo puzzo di fascismo. [...] È la speciale estetica dell’era fascista che perdura23. 22 Eduardo DE FILIPPO, Lezioni di teatro, Torino, Einaudi, 1986, pp. 107­108.
23 Eric BENTLEY, Il teatro italiano visto da uno straniero, «Il dramma», luglio 1949, p. 23.
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1.2 Napoli e «Napoli milionaria!»
Il complicato rapporto tra Eduardo e Napoli, fatto di soddisfazioni quanto di amarezze, sembra essere presagito in una dedica che Libero Bovio lasciò su una foto donata al giovane Eduardo: A Eduardo De Filippo, perché Napoli gli perdoni il suo grande ingegno24.
Uno degli episodi più significativi dell’incomprensione di Eduardo da parte della sua città fu quello che lo vide al centro di una polemica per la sua commedia, Napoli milionaria!, che a detta di un onorevole avrebbe “infangato la città”25. Si tratta di Domenico Colasanto (un nome che gli avrebbe dato Eduardo stesso se fosse stato un personaggio di una sua commedia) il quale, scandalizzato per il realismo26 del film tratto da quella 24 Libero Bovio, fotografia con dedica riprodotta in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo cit., p. 56 .
25 Ma il napoletano in Eduardo, secondo Alvaro, è solo metonimia dell’intera società italiana: «Eduardo è il napoletano che si trova a impersonare l'uomo d'oggi. Se dovessimo cercare nel teatro italiano l'eroe di tutti i giorni, lo dovremmo indicare nel teatro di Eduardo. Se dovessimo indicare a stranieri un teatro che desse l'essenza della vita italiana dopo la guerra, nella finzione teatrale, indicheremmo Eduardo. Come nella vita della classe media italiana la differenza tra nord e sud è meramente fittizia, di apparenza più che di sostanza, economica più che morale, così nel teatro di Eduardo il fatto che il protagonista sia napoletano non è che una questione di maggiore evidenza. Sotto la favola scenica di Eduardo, possiamo trovare la favola della vita italiana anche là dove essa appare lontana da quella evidenza». Corrado ALVARO, «Sipario», 3, 1956, ora in Cronache e scritti teatrali di Corrado Alvaro, a cura di A. Barbina, Roma, Abete, 1976, pp. 444­445.
26 A proposito del realismo nell’opera eduardiana del dopoguerra ha osservato De Feo: «Troppo ci ha disabituato a questo amaro la Napoli miracolosa, surrealista e dolciastra degli ultimi narratori. Tra il neorealismo di costoro e il realismo di Eduardo corre la stessa differenza che tra il rosolio e la cicuta. [...] Nella rappresentazione che l'Eduardo puro al cento per cento di oggi ci dà della decadenza e miseria del popolo di Napoli noi ritroviamo al limite di tanta spietatezza, la sua indulgenza e pietà come sempre accade agli artisti autentici». Sandro DE FEO, «L’Espresso», 30 ottobre 1955, ora in In cerca di teatro, vol. II, Milano, Longanesi, 1972, pp. 476­477. 236
commedia, propose un’interpellanza al governo per censurarlo. In una lettera al direttore de «Il Mattino» scrisse:
Un forestiero che volesse giudicare la metropolis del Mezzogiorno da questo film dovrebbe concludere che Napoli è solo un insieme di vicoli sporchi [...]. Intesi protestare per il buon nome della mia città e per tentare di rompere l’infame catena dei clichès di miserie napoletane che girano pel mondo27.
Il primo a rispondere fu Giuseppe Marotta:
Abbiamo avuto, per Napoli milionaria, un’interpellanza al Governo. Un senatore, un uomo politico, domanda: ‘È lecito ritrarre in un film le miserie e le sofferenze di Napoli?’ Auspicabile risposta del Governo: ‘Dio, che paura ci ha fatto, senatore: per un attimo ci è sembrato che stesse per chiederci se sia lecito non sforzarsi di rimuovere le cause dell’eterno dolore meridionale!...’ [...] Ah, senatore, la conosce la storiella del becco Tal dei Tali? Siccome la moglie soleva ingannarlo nel salotto, egli vendette il divano. Aboliamo ogni film, ogni commedia, ogni libro in cui figurano i mille vicoli di Napoli, e Napoli sarà tutta un Parco Grifeo, tutta una via Partenope, tutta 27 Domenico COLASANTO, De Filippo e il suo film, «Il Mattino», 24 ottobre 1950. La lettera continua così: «In tutta la trama del film, dal giorno della liberazione, non agiscono donne che non si concedano agli americani [...]. Gli uomini si sono a loro volta ambientati, indifferenti o profittatori del ludibrio delle loro donne. Tutta l’azione si svolge unicamente nei peggiori vicoli di Napoli. Vicoli arredati per l’occasione, con panni sporchi e laceri e popolati in modo inconsueto, come ogni onesto può sempre constatare. In realtà i vicoli [...] non sono affollati come quelli del film [...] e non si è fatto neppure del verismo; ma dell’immaginario raggruppando e moltiplicando quanto meno di buono offre la nostra città». 237
una Floridiana... esiliamo De Filippo, e Napoli sarà salva!28.
Ancora più netta la posizione di Lucio Ridenti: «nel nostro piccolo che, davanti a un onorevole, diventa più piccolo ancora, ci permettiamo altresì di avanzare il dubbio che il deputato in questione non abbia capito un accidente di niente [...] ci prendiamo la libertà di invitare il parlamentare in oggetto a non impicciarsi nelle cose di cui non si rende perfettamente conto»29. All’apice del paradosso, l’onorevole Colasanto diramò una missiva per richiedere fondi a sostegno dei bambini poveri di Napoli. Nell’elenco dei destinatari vi era anche Eduardo, che raccontò il fatto in un’intervista: «dunque l’onorevole sa che a Napoli esiste la miseria. [...] E lui ebbe la cattiva idea di rispondermi che la lettera, in ciclostile, era stata diramata dalla sua segretaria; e lui non sapeva che l’avessero mandata anche a me»30.
L’opinione che Eduardo guadagnasse alle spalle della sua città si protrasse anche negli anni successivi, se Bruno Milanesi, sindaco di Napoli negli anni Settanta, disse:
Però non facciamo di questa città una macchietta tragica: lo sanno tutti, pure Eduardo s’è guadagnato successo e soldi facendo ridere la gente sulle disgrazie di Napoli31.
La storia di Eduardo con Napoli coincide anche con quella della 28 Giuseppe MAROTTA, Dialoghi col lettore, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo cit., p. 57.
29 Lucio RIDENTI, Diario di chi dice e di chi fa, «Il dramma», 15 ottobre 1950.
30 Roberto DE MONTICELLI, I mali di Napoli non finiscono mai, «Corriere della Sera», 9 Febbraio 1979.
31 Il dialogo tra Bruno Milanesi e Lietta Tornabuoni fu riportato da Luigi COMPAGNONE nell’articolo La risata tragica di Eduardo, in «Corriere della Sera», 8 settembre 1974.
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ricostruzione del Teatro San Ferdinando32. L’operazione fu difficile e tormentata. Questo “regalo alla sua città” fu un investimento azzardato, per il quale Eduardo si sarebbe aspettato il sostegno dello Stato, che pure stanziava finanziamenti per la ricostruzione del paese: «concorso dello Stato, stanziamento di fondi, contributi, facilitazioni bancarie... non ci furono più ostacoli per chi avesse voluto improvvisarsi costruttore» dice Eduardo per bocca di Oreste Campese, protagonista de L’arte della commedia (1964). Lo stesso personaggio aggiunge, desolatamente, che «non furono inclusi i teatri, perché evidentemente il teatro non fu ritenuto di pubblica utilità»33. Per finanziare l’impresa ricorse al cinema, impiegandosi in quegli anni in numerosi film come attore, sceneggiatore o regista.
Per l’apertura del teatro in molti espressero auguri e decantarono la rinata istituzione. Fra questi Mario Stefanile, che lo descrisse come teatro dei napoletani:
Qui dove tutto è teatro, dove l’ingoiatore di stoppa accesa recita a gara con Sir Lawrence, dove il grido delle mamme è più antico del tufo, vomitato dai vulcani, dove la scimmia giocoliera sulla spalla del «magliaro» è meno losca della fragile adolescente che vende violette e ciclamini... Altrove, gli attori in ghingheri fra spettatori in 32 Cfr. cap. I del presente lavoro.
33 Eduardo DE FILIPPO, L’arte della commedia, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998, pp. 259­260. D’altronde lo stesso Eduardo raccontò: «feci la domanda al Banco di Napoli per ottenere un mutuo ipotecario. Ma me lo respinsero dicendo che il Banco di Napoli concede mutui ipotecari solo per opere di pubblica utilità. Il teatro non è utile al pubblico. Allora scrissi all’on. Andreotti, presso la Direzione del teatro: ‘La prego onorevole, di informarsi se è vero che lei ed io siamo inutili. Se è così, che ci stiamo a fare?, è meglio andarsene...’. – E l’on. Andreotti? –S’informò. Il Banco di Napoli confermò. Allora dal teatro passai al cinema». Giorgio TREVISANI, È tornato ‘baccalà’ scugnizzo napoletano, «L’Unità», 10 Dicembre 1952.
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ghingheri avrebbero spaccato in quattro il capello del gusto più avventato e più audace, senza rispettare il filone d’oro che sta dentro ogni nostro gesto, dentro ogni nostra parola, dentro ogni nostro sentimento o pensiero. Altrove, sì, l’eleganza e l’intelligenza – quale eleganza e quale intelligenza? – avrebbero dominato imperterrite: ma soltanto qui, in questo vecchio quartiere più vecchio delle case che lo compongono, addirittura più vecchio della terra su cui sorge, i napoletani... possono sentirsi a casa propria...34
Altri avvenimenti avvicinarono e allontanarono Eduardo dalla sua Napoli, ma fino in fondo rimase un’amarezza che lo portò a decidere come luogo di sepoltura il cimitero del Verano di Roma. All’apice dell’incomprensione, in un’intervista del 1980, disse: «A Napoli l’unica cosa che si può fare è andarsene via al più presto»35.
Ma la città natia ha regalato a Eduardo anche grandi soddisfazioni. Nel 1959 racconta a Enzo Biagi: Eppure è nella mia città che ho provato la più profonda commozione della mia vita. Fu alla prima di Napoli milionaria. Quasi tutti i teatri erano requisiti. C’era il fronte fermo verso Firenze. C’era la fame, e tanta gente disperata. Ottenni il San Carlo per una sera. I professori dell’orchestra, per assistere allo spettacolo, si erano infilati nel golfo mistico. «Vedrete che ci diffamerà», pensava qualcuno allarmato dal titolo. [...] Arrivai al terzo atto con sgomento. Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio 34 Mario STEFANILE, in AA.VV., Il Teatro San Ferdinando, Napoli, L’arte Tipografica, 1954, s. p.
35 Ermanno CORSI, Il lungo applauso di Napoli è partito dal Rione Sanità, «La Repubblica», 27 settembre 1981.
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assoluto, terribile. Quando dissi l’ultima battuta, la battuta finale: “Deve passare la notte”, e scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile, tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali del golfo mistico che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano, e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti36.
Il successo di quella commedia fu grande in tutta Italia. «In fondo», disse Eduardo intervistato nel 1972, «basta una vicenda napoletana per ottenere un prodotto universale»37. Ma serve la sensibilità del genio per raccontare Napoli al mondo38. Mario Soldati parla di un «dono naturale, quasi geniale» di trasformare la città «in un emblema del mondo intero»39; e 36 Enzo BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, in «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.
37 Sergio LORI, Eduardo intervistato, in «Il Dramma», novembre­dicembre 1972.
38 «I testi di Eduardo vivono aldilà dell’efficace interpretazione data dal loro autore. Se così non fosse, non si riuscirebbe a spiegare il successo ch’essi hanno riscosso fuori dalla loro terra d’origine, tradotti e recitati in lingue diverse. Una delle maggiori ragioni di questo successo , anche in campo internazionale, sta nel riconoscere che pochi altri scrittori contemporanei di teatro sono riusciti a dare, con uguale dose di verità e di poesia, la rappresentazione comica, grottesca, drammatica, di una città. Una città come Napoli, aggrovigliata e confusa, nei suoi affetti generosi, nelle sue superstizioni e nei suoi riti, fondamentalmente irrazionale e sempre delusa nell’antica saggezza del “nulla cambia”, una città che è essa stessa un immenso teatro, in cui tutto, anche la miseria, diventa spettacolo, e dove la fantasia, negli estremi punti della trovata, della “pensata”, del riso che dà a volte nel frenetico, è qualche volta anch’essa figlia della necessità. Ed è assai significativo che sia stato un autore cosiddetto comico, De Filippo, a rappresentare meglio di ogni altro la tragedia fisica e morale di Napoli durante e dopo la guerra: non osservandola dall’alto, in una prospettiva luminosa e solare, ma vivendola nel buio del suo “sottosuolo”, senza realismo esasperato, con semplicità, con amore, con dolore». Giovanni MACCHIA, relazione per il conferimento del premio internazionale Feltrinelli per il teatro, in Adunanze straordinarie per il conferimento del premio Feltrinelli, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, p. 209.
39 Mario SOLDATI, «La Stampa», 18 novembre 1978, ora in Lettere di Mario Soldati (dal 3­11­78 al 12­8­
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aggiunge che tramite il suo teatro «Napoli e l’Italia rivelano la loro realtà più profonda, una realtà totalmente sprovincializzata». Secondo Calendoli «nel mondo di Eduardo De Filippo soltanto alcuni fondamentali valori
dell’esistenza umana appaiono degni di rispetto e di seria considerazione –
la vita, la morte, la paternità, la maternità, il rapporto diretto del sangue –:
tutto il resto diventa materia d'ironia, di satira, di farsa. [È] Napoli che ride
di tutto, ma non dei pochi sentimenti essenziali che definiscono l'uomo
spiritualmente e lo rendono degno di se stesso e della sua continuazione, in
questa o nell'altra vita»40.
All’indomani della sua morte, dalle pagine del quotidiano napoletano «Il Mattino», la sua città lo ricorda così:
Il rapporto tra Eduardo e Napoli è stato profondo, complesso ed ambiguo come una lunga storia d’amore. [...] Gli anni timidi della «ribalta gaia» e quelli via via sempre più trionfali del «teatro umoristico» scandiscono un consenso che coincide con l’età più felice e semplice di Eduardo. [...] L’apprendimento, il senso acuto e lacerante del dramma verranno negli anni Quaranta. Eduardo non è stato mai amico, ma neppure avversario militante del regime [...]. E anche in questo, è rimasto in assoluta armonia con Napoli, con la grande maggioranza dei suoi spettatori e quindi dei suoi concittadini. Ma dinanzi al precipizio della guerra avviene la grande mutazione. La Napoli delle farse esilaranti e delle commedie sfumate, la Napoli spassosa e innocente, romantica e appassionata di Murolo e di Bovio, diventa di colpo una città tragica [...].
Allora Eduardo cambia con la sua gente. Diventa meno comico, più riflessivo, più amaro e saggio. Trasforma 79), Milano, Mondadori, 1979.
40 Giovanni CALENDOLI, «La Fiera letteraria», Roma, 5 agosto 1956.
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radicalmente il proprio repertorio e scava nella recitazione fino a raggiungere vertici sublimi, ma questa volta comincia a scegliere: non ha più un rapporto armonioso con Napoli perché a Napoli l’armonia è morta […].
Il palcoscenico di Eduardo si affolla così di fantasmi poetici, di donne dolenti, di uomini vinti dalla vita o assediati da assurde manie, per modo che il pubblico sia ancora mosso al riso ma senza isolarsi più dalle proprie angosce, senza dimenticare la realtà che lo aspetta fuori del teatro. Naturalmente, a questo punto, anche il pubblico si spacca, s’incrina, si divide; anche la città si interroga sulle intenzioni del suo figlio più illustre chi prendendone le distanze per paura di un impegno troppo scomodo, chi diffidando al contrario della fedeltà che lo scrittore sembra ancora tributare ai vecchi idoli del perbenismo. Piccole incomprensioni, piccoli contrasti e amarezze sopraggiungono, come è purtroppo inevitabile, ad aggravare certe difficoltà, fino ad esasperare Eduardo inducendolo ad una specie di secondo e definitivo esilio («jatevenne a Napule»).
Ma la stragrande maggioranza dei suoi concittadini, che vivono dentro o fuori, lontano dalle mura della città, ama di un amore sempre più forte il suo impareggiabile artista, la voce afona e limpidissima che da anni racconta a tutto il mondo, da Mosca a New York, la storia senza eguali del sentimento, della felicità, del dolore di Napoli.
E Eduardo, ultraottuagenario e quasi cieco, senatore della Repubblica e maestro dei giovani, conclude la sua splendida parabola traducendo in dialetto seicentesco una commedia di William Shakespeare ed ambientandola nei mari e sulle coste del golfo: estremo e supremo omaggio di 243
un artista alla sua terra41.
41 Antonio GHIRELLI, «Il Mattino», 2 novembre 1984, ora in AA.VV., Omaggio a Eduardo cit., s.p.
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III.2 Commedie a sfondo sociale
La società rappresentata nelle commedie dei giorni “pari” è una società le cui incrinature anticipano quella dei giorni “dispari”. È lo stesso Eduardo a dirlo:
I giorni pari erano quelli che credevamo sereni. Li credevamo; bada, era un’illusione. [...]La verità è che in molti testi del mio primo periodo ci sono giù tutti i semi e gli annunci di ciò che sarebbe venuto dopo42.
D’altronde, lo abbiamo detto, le commedie dei “giorni pari” sono fatte di allusioni, intesa col pubblico, non mai di prese di posizione. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Per questo motivo difficilmente si trova prima della caduta del regime una commedia che denunci apertamente la società: fa eccezione Io l’erede, scritta e rappresentata nel 1942.
2.1 Denuncia dell’ipocrisia in «Io l’erede»
Questa commedia in tre atti è scritta in italiano43 (sono gli anni più restrittivi del fascismo) ed i suoi personaggi­bersagli sono delineati con 42 Eduardo DE FILIPPO intervistato da Roberto De Monticelli, Eduardo imprendibile scappa sempre via dal suo gran monumento, «Corriere della Sera», 24 Maggio 1980.
43 Sono infatti gli anni più restrittivi del fascismo. Inoltre in questo periodo il dramma borghese – in lingua – entra nel repertorio eduardiano anche per la “contaminazione” del teatro di Pirandello, col quale già aveva scritto nel 1935­36 L’abito nuovo, e del quale aveva cominciato a rappresentare dal 1935 Il berretto a sonagli (nella versione napoletana di Eduardo) e dal 1936 Liolà (tradotto in napoletano da Peppino). Per un approfondimento sul rapporto fra i due drammaturghi cfr. Claudio Meldolesi, La trinità di Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro nazionale, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 57­87.
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dovizia di particolari fin dall’elenco, che per la prima volta riporta la precisa età anagrafica dei protagonisti. Il tema centrale è quella “carità pelosa” secondo la quale le famiglie fortunate (benestanti) “lucrano” sui loro beneficati per avere la coscienza pulita e guadagnarsi il “posto in paradiso”: «Noi, noi tutti, dai bisnonni, fino a mio padre, ci siamo sempre spogliati per dare agli altri» dirà Amedeo, il capofamiglia; «la notte si mette la testa sul cuscino e si dorme tranquilli». E aggiunge: «Certe volte sotto il palazzo ci sta la folla... e mai nessuno se n’è andato a mani vuote. Però in compenso, a me il Padreterno m’aiuta sempre: sto bene in salute e non m’è mancato mai niente»44. Dopo aver ospitato per molti anni Prospero Ribera, morto da poco, la famiglia Selciano riceve la visita del figlio di questi, Ludovico, il quale accampando dei diritti chiede di prendere il posto del padre:
LUDOVICO. Come che c’entrate? Voi rappresentate tutto il patrimonio affettivo e sentimentale accumulato e tenuto gelosamente in serbo da mio padre, il quale, per anni e anni, si è prestato a far sostenere prima a vostro padre e poi a voi l’eroica e importante parte del benefattore, riservando per sé quella meschina e avvilente del beneficato45.
Le pretese che avanza questo signore, premesso che lo stesso non opera in nome di un principio, ma per opportunismo, sono basate su argomenti 44 Eduardo DE FILIPPO, Io, l’erede, in Cantata dei giorni pari cit., p. 687.
45 Ivi, p. 695. Secondo la Barsotti «il motivo dell’estraneo – sopraggiunto a levar la maschera all’ipocrisia della beneficenza ‘borghese’ – assume cadenze pirandelliane, soprattutto nei monologhi sofistici di questo deus­ex­machina che dissolve anziché risolvere». Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo, in Eduardo in maschera. Incontri sul suo teatro, a cura di Manola BUSSAGLI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 46.
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solidi. Partendo dall’assunto che «in Paradiso ci va il benefattore, non il beneficato»46, la tesi di Prospero II (come si fa chiamare Ludovico) sembra anticipare il moderno concetto di «beneficenza oculata» che negli ultimi anni ha trovato realizzazione nell’idea del microcredito47, secondo l’antico adagio: “dai un pesce a un uomo e mangerà oggi; insegna a pescare a quell’uomo e mangerà per tutta la vita”. AMEDEO. Sicché, per voi, la carità cristiana non conta niente?
LUDOVICO. Conta, come no... Ma non bisogna esagerare. Un aiuto, un soccorso, avrebbero potuto ridargli la fiducia in se stesso, la forza per continuare a lottare... Ma un aiuto, un soccorso! La Samaritana dette un sorso d’acqua al Sofferente, non gli gonfiò la pancia d’acqua... Non possiamo essere noi a distribuire il bene e il male, non conosciamo le proporzioni. Vostro padre ebbe la superbia di mettersi al di sopra di una legge distributrice che probabilmente esiste...48
Per colpa di questo “accanimento benefattore” «mio padre, con la complicità di vostro padre», sostiene inoltre Ludovico, «non ha lavorato, non ha prodotto: ha disertato la vita. Di questa diserzione agevolata, il danno chi lo ha subito? Io»49. 46 Ivi, p. 698.
47 «Cessione, da parte di enti o istituti bancari, di somme limitate di denaro a soggetti poveri, in modo tale da permettere loro di avviare piccole attività produttive e superare la soglia dell’indigenza». Giacomo DEVOTO, Giancarlo OLI, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 2000, p. 1269.
48 Eduardo DE FILIPPO, Io l’erede cit., p. 702.
49 Ibidem. Interessante anche l’interpretazione di Frascani, il quale vede oltre alla diserzione del beneficato anche quella del benefattore, e quale ulteriore conseguenza l’allargamento di un dilemma morale, la “carità pelosa”, a un problema sociale, come quello scottante e ancora irrisolto del 247
Sul finire di commedia si evidenzia lo sbilanciamento del rapporto benefattore­beneficato, laddove il primo odia il secondo «appunto per la riconoscenza che gli deve», come dice Ludovico:
LUDOVICO. Perché non crediate che il benefattore si accontenta di una riconoscenza normale. Il benefattore, quando t’ha fatto una buona azione, dopo pretende chissà che cosa... Infatti, si affeziona al beneficato perché, beneficandolo, crede di comprarselo poco per volta e farne cosa sua. Dunque, la carità cristiana non c’entra proprio niente, c’entra solo quel barbaro desiderio di dominio, di possesso che l’uomo ha verso gli altri uomini50. 2.2 La miseria di «Napoli milionaria!»
Napoli milionaria! è già stata affrontata nel secondo capitolo, in quanto vi si denuncia la situazione sociale usando come metonimia la rovina di una famiglia (cfr. cap. 2.3.1). Ciò che interessa qui osservare è come in questa commedia si preannuncia – è stato detto51 – quella corrente che sarà propria Meridione (beneficato dal Settentrione): «A Napoli, ed in tutto il Mezzogiorno, non mancano in genere uomini che sentono il dovere di creare con le loro ricchezze, sovente enormi, nuove fonti di lavoro. Ma numerosi sono anche quelli che a tale dovere si sottraggono. Anziché adoperarsi per cercare di rimuovere le cause di una miseria vasta e tenace, parecchi di costoro preferiscono valersi della scappatoia di una “carità” abilmente propagandata. Vogliono essere considerati distributori di grazie, sentono il bisogno di vivere in una atmosfera surriscaldata dalla gratitudine. È legata in un certo senso, non solo ai millenari problemi di Napoli, ma al problema del Mezzogiorno, e quindi al più scottante dei problemi italiani, questa faccenda della “carità” meridionale. Eduardo non poteva rendersene conto nel 1942, quando scrisse Io, l’erede». Federico FRASCANI, La Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 46.
50 Ivi, p. 702.
51 Cfr. Carlo MUSCETTA, Da «Napoli milionaria!» a «L’arte della commedia», in Realismo, Neorealismo, 248
del cinema e della letteratura e che andrà sotto il nome di “Neorealismo”52.
Nel primo atto vi è un momento di riflessione importante53. Già nella prima scena Amedeo, il figlio del protagonista Gennaro, parla in difesa della borsa nera, un atteggiamento che più tardi verrà condannato ma per il momento, in una situazione disperata come quella della guerra e dei bombardamenti, è almeno comprensibile54:
AMEDEO. Cca’ ’a rrobba va a ferni’ dint’ ’e ccase ’e Controrealismo, Garzanti, Milano, 1976. Anche Rosi, in occasione dell’allestimento della commedia nel 2005 (nel quale dirigeva Luca De Filippo) osserva: «All’indomani di pochi mesi dal debutto di Eduardo il 24 settembre 1945, al teatro Quirino di Roma viene proiettato per la prima volta Roma città aperta di Rossellini. Il teatro e il cinema italiani fanno così diventare Storia le sofferenze e le speranze della gente. La determinazione a resistere e a combattere fascismo e nazismo in nome della libertà, nel film di Rossellini; nel dramma teatrale Napoli milionaria, il diritto di esistere anche in maniera vergognosa, al quale Eduardo oppone i valori fondanti della vita: l’amore, la famiglia, l’onestà, la solidarietà, il rispetto della legge, valori eterni che le guerre travolgono». Francesco ROSI intervistato da Antonio DI GIACOMO in «La Repubblica», 19 ottobre 2005.
52 «Neorealismo: termine col quale si designa quella corrente della cinematografia italiana, sviluppatasi nell’immediato dopoguerra (1945­1950) che prese le mosse dall’occupazione nazista, dalla lotta per la Resistenza e in genere dalla tragedia del popolo italiano seguita alla caduta del fascismo e alla sconfitta militare, per ina rappresentazione cruda, quasi documentaria, degli avvenimenti, e per un’indagine coraggiosa sotto il profilo umano (al di fuori, dunque, di ogni precisa ideologia politica) della società italiana». Enciclopedia dello spettacolo, diretta da Silvio D’AMICO, Roma, Sadea/Le Maschere, 1954­1962, vol. VII, p. 1092.
53 Osserva Frascani che Eduardo fu il primo ad affrontare quella dolorosa riflessione: «gli autori italiani vivevano come se niente fosse accaduto. E c’era, in quegli anni tragici perfino chi continuava a scrivere frivole commedie di imitazione francese centrate sul tradizionale triangolo. A soddisfare l’attesa che era tenuta per mano dallo stupore di cui si è detto venne per fortuna Napoli milionaria». Federico FRASCANI, La Napoli amara cit., p. 49.
54 D’altronde anche Eduardo, molti anni più tardi, esonera la sua città dalla responsabilità di quanto stava accadendo in quei giorni: «In Napoli milionaria! io non intendevo scrivere che i napoletani erano milionari tutti quanti. I milioni che avevano e che hanno i napoletani sono la loro fantasia. Napoli è sempre milionaria, sempre. Ruba, fa quello che può, però vince; a un certo punto vince ed esce dalle cento città d’Italia, diventa unica. Perché? Perché ha fantasia, perché si arrangia, perché fa tutto il possibile per aiutarsi e, in certi casi, ha ragione». Eduardo DE FILIPPO, Lezioni di teatro cit., pp. 12­13.
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ll’Autorità! Aiere, cinche chile ’e cafè a sittanta lire ’o chilo chi ’e ppurtaie ? Nun ’e ppurtaie nu capo­manipolo fascista? E mammà nun s’ ’e vulette piglia’ pe’ paura ca se trattava ’e n’agente provocatore? Vuie ve ne venite: «Si sottrae»... Si uno vedesse che la classe dirigente filasse deritta, allora sarebbe l’uomo il più malamente se vi parlasse come vi sto parlando io... Ma quanno tu vide ca chille che avessere ’a da’ ’o buono esempio songo na mappata ’e mariuole... allora uno dice: «Vuo’ sape’ ’a verità... Tu magne buono e te ngrasse e io me moro ’e famma? Arruobbe tu? Arrobbo pur’io! Si salvi chi può!»55. Lo stesso Gennaro darà un’interpretazione del problema apparentemente semplicistica ma non inesatta, ampliando l’analisi al sistema politico e sociale:
GENNARO. E il calmiere? Quello mo’ sembra una cosa semplice? E io vi dico che il calmiere è stato e sarà sempre la rovina dell’umanità. [...] pecché, quanno tu, governo, miette ’o calmiere, implicitamente alimenti l’astuzia del grossista e del dettagliante... Succede ’o gioco ’e prestigio... (accompagna quest’ultima frase con un gesto come a voler dire: il furto) e il povero consumatore tiene tre vie d’uscita : o se more ’e famma, o va ’a lemmòsena, o va ngalera...[...] E me spiego. Il calmiere significa praticamente: «siccome tu nun saie campa’, levate ’a miezo ca te mpar’ io comme se campa!» Ma nun è ca nuie, cioè ’o popolo nun sape campa’... È il loro interesse di dire che il popolo è indolente, è analfabeta, non è maturo... E tanto fanno e tanto diceno, ca se pigliano ’e rrétene 55 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., pp. 19­20.
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mmano e addeventano ’e padrune. In questo caso ’e prufessure songo ’e fasciste... [...] Popolo e prufessure se mettono allora a dispietto. ’E prufessure pigliano provvedimente pe’ cunto lloro e ’o popolo piglia pruvvedimente pe’ cunto suio. E a poco a poco tu hai l’impressione ca niente t’appartiene, ca ’e strade, ’e palazze, ’e ccase, ’e ciardine, nun è robba toia... Ma ca è tutta proprietà ’e sti prufessure. Ca lloro se ne ponno servi’ comme vonno, e tu non si’ padrone manco ’e tucca’ na preta. Po’, in queste condizioni, se fa ’a guerra. «Chi ha voluto ’a guerra?» «Il popolo» — diceno ’e prufessure. «Ma chi l’ha dichiarata?» «’E prufessure» — dice ’o popolo. Si ’a guerra se perde l’ha perduta ’o popolo; e si se vence, l’hanno vinciuta ’e prufessure56. Analizzando la commedia in una prospettiva quasi documentaristica, si rileva che in varie scene vengono rappresentate situazioni drammatiche, racconti di guerra (nel secondo atto quando Gennaro torna a casa) o le conseguenze della borsa nera (nella scena del terzo atto in cui Riccardo generosamente porta la medicina per la bambina di Amalia che gli ha rifiutato i generi alimentari quando i suoi figli avevano fame); momenti realistici, ma sempre “riportati” nei racconti o nei dialoghi fra i personaggi. Spicca invece la scena drammatica del bombardamento, nel primo atto, per la sua immediatezza decisamente teatrale: mentre si sentono fuori scena suoni e voci della gente che corre nei ricoveri il pubblico (pensiamo soprattutto a quello delle prime rappresentazioni57) viene coinvolto nella 56 Ivi, pp. 26­29.
57 Ricorda Pandolfi «la prima di Napoli milionaria! e l’impressione che destò il suo riferirsi senza equivoci ad una realtà ancora così scottante, soprattutto nel primo atto, forte di un’evidenza scenica senza pari, di una schiettezza senza ambagi». Vito PANDOLFI, Un umorismo doloroso, «Sipario», febbraio 1956, p. 3.
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scena, attraverso un’incisività drammatica atta a registrare per sempre quei momenti terribili.
Si ode in lontananza, cupo e sinistro, il sibilo della sirena d’allarme, seguito immediatamente dal classico tramestio e vocio del vicolo. Tutti si guardano costernati, interrogandosi. [...] Dall’interno il mormorio cresce. Si odono voci distinte. Le parole saranno press’a poco queste: «Nannine’, porta ’e ccriature!» «E non spingete». «Calma, calma...» «’O fiasco cu ll’acqua!» «Presto» «Aprite la porta del ricovero!» «Ma stu capo palazzo che fa?» «Che ha da fa’? Sto qua!» «Signo’, ’o cane appresso nun v’avit’ a purta’, quanta vote v’aggia dicere». Intanto il numero regolamentare dei sibili ad intermittenza della sirena si è completato. Segue il silenzio terrificante dell’attesa. [...] Ogni tanto in lontananza si ode il tonfo sordo delle prime bombe che cadono sulla città. [...] Il bombardamento diviene violentissimo. Le esplosioni si susseguono a ritmo accelerato e qualcuna di esse fa tremare i battenti della porta del basso. [...] Poi la contraerea diminuisce d’intensità. I tonfi si fanno più radi e lontani. Infine, silenzio. [...]
Dopo una pausa si udrà internamente un unico suono prolungato della sirena per il «cessato allarme». Nel vicolo ricomincia il tramestio e il frastuono di voci confuse: «È fernuto!» «Addò sta Nanninella!» «Luvateve ’a miezo, chesta che schifezza?» «Gennari’» «’E chi è sta scarpetella?» «L’incendio sta llà bascio!» «È caduto nu palazzo ’o vico appriesso!» «’E pumpiere!» Si ode la sirena dell’automezzo dei vigili del fuoco58.
58 Ivi, did., pp. 44­46.
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2.3 La fiducia perduta ne «Le voci di dentro»
La società rappresentata ne Le voci di dentro, del 1948, è quella del dopoguerra: la perdita dei vecchi valori, la crisi della comunicazione e la vittoria dell’individualismo. I tempi dei “giorni pari” sono ormai lontani: «allora la vita era un’altra cosa. Era, diciamo, tutto più facile; la gente era pura, genuina. Uno si sentiva la coscienza a posto perché anche se un amico ti dava un consiglio, tu l’accettavi con piacere. Non c’era, come fosse, la malafede»59.
In questa commedia Eduardo rappresenta un mondo in cui «il sospetto, l’odio, l’invidia sovente fanno tacere negli uomini i richiami della coscienza»60. La commedia si apre su una «luminosa e linda cucina in casa Cimmaruta. Primissime ore di un bel mattino di fine novembre»61. Il tema del primo atto è quello del “sogno”. Un sogno come premonizione di una realtà familiare (quella dei Cimmaruta) distorta, per la quale Barsotti parla addirittura di una «anti­famiglia»62; infatti Rosa, la sorella nubile del capofamiglia svolge il ruolo della casalinga, mentre Matilde, la moglie, lavora di notte come cartomante. Questa dimensione onirica viene portata dalla serva che racconta il suo angoscioso incubo: sotto la pioggia, camminando con un ombrello, sente una goccia d’acqua che le cade in mezzo alla testa, sempre allo stesso posto [...]. Quando tutt’assieme ’a goccia d’acqua è diventata n’aceniello ’e fuoco: m’ha fatto un buco in testa e s’è intromesso dentro. 59 Eduardo DE FILIPPO, Le voci di dentro, in Cantata dei giorni dispari, vol. I cit., p. 397.
60 Federico Frascani, La Napoli amara cit., p. 29.
61 Eduardo De Filippo, Le voci di dentro cit., p. 393.
62 Anna Barsotti, Nota storico­critica a Le voci di dentro cit., p. 382.
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Prima m’ha bruciato la lingua, poi lo stomaco, poi i polmoni... A un certo punto aggio ntiso ’e strillà: «A mme nun m’abbruce!» Era ’o core! Era il cuore mio che per non essere bruciato se n’è uscito dalla pancia e si è messo a correre»63.
Successivamente un verme parlandole le impone, causa la dannazione, di uccidere un povero sdraiato sul marciapiede; ed essa, dopo aver eseguito, ne beve il sangue. In questo sogno già si preannunciano gli eventi che si svolgeranno nei restanti due atti, quando il vicino di casa, Alberto Saporito, accusa i componenti della famiglia di un delitto (la goccia di fuoco) da questi semplicemente sognato; ma essi si credono capaci di tale orrore e arrivano ad accusarsi gli uni con gli altri (il cuore che scappa); infine, per salvarsi, decidono di uccidere Alberto (il pezzente). Altro sogno raccontato è quello allucinato di donna Rosa, che racconta niente altro che l’assassino dell’innocenza: preparando un capretto, dopo averlo «scannato», «aggiustato int’ a nu bello ruoto chino ’e patanelle e cepolluzze» e «menato int’ ’o fuorno», servendolo a tavola si compiace con tutti i commensali della bontà della vivanda «...ma chillo nun era nu capretto, era nu bello piccerillo biondo, riccio riccio»64. Ma il motivo di questi sogni – e dei loro referenti – è spiegato da una figura che nelle commedie eduardiano è tipicamente d’appoggio65, il portiere:
MICHELE. Quando ero ragazzo mi facevo un sacco di sogni... Ma sogni belli... Certi sogni che mi facevano 63 Eduardo De Filippo, Le voci di dentro cit., pp. 395­396.
64 Ivi, p. 396.
65 Secondo Anna Barsotti il portiere Michele « appartiene a quella categoria di minori che hanno il ruolo di Doppio (su un registro sociale e linguistico più basso) del personaggio­protagonista». Anna Barsotti, Nota storico­critica a Le voci di dentro cit., p. 383.
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svegliare così contento, che mi veniva la voglia di uscire, di lavorare, di cantare. [...] Ma allora la vita era un’altra cosa. Era, diciamo, tutto più facile; la gente era pura, genuina. Uno si sentiva la coscienza a posto perché anche se un amico ti dava un consiglio, tu l’accettavi con piacere. Non c’era, come fosse, la malafede. Mo si sono imbrogliate le lingue. Ecco che la notte ti fai la fetenzìa dei sogni [...]66.
Nel secondo atto incontriamo il personaggio più interessante della commedia: è Zio Nicola. Da anni ha volontariamente rinunciato alla parola, come dice il nipote Carlo, fratello di Alberto: «Non parla perché non vuol parlare. [...] Dice che parlare è inutile. Che siccome l’umanità è sorda, lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri con la parola... perché poi, tra le altre cose, è pure analfabeta... sfoga i sentimenti dell’animo suo con le “granate”, le “botte” e le girandole»67. In un’intervista Eduardo definì questo personaggio «un precursore dell’alienato, un pensatore dei “Bassi” che ignora di avere scoperto la incomunicabilità»68. Nel terzo atto inorridito da quanto ha visto – la sfilata dei vicini che a turno, nel secondo atto, sono venuti da lui accusandosi l’un l’altro del delitto che non hanno commesso – il protagonista imputa ai suoi vicini un nuovo delitto, stavolta realmente commesso:
ALBERTO. Mo’ volete sapere perché siete assassini? E che v’ ’o dico a ffa’? Che parlo a ffa’? Chisto, mo’, è ’o fatto ’e 66 Eduardo De Filippo, Le voci di dentro cit., p. 397.
67 Ivi, p. 412.
68 Eduardo DE FILIPPO intervistato da Enzo BIAGI, Eduardo, tragico anche se ride, «Corriere della Sera», 6 marzo 1977.
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zi’ Nicola... Parlo inutilmente? In mezzo a voi, forse, ci sono anch’io, e non me ne rendo conto. Avete sospettato l’uno dell’altro: ’o marito d’ ’a mugliera, ’a mugliera d’ ’o marito... ’a zia d’ ’o nipote... ’a sora d’ ’o frate... Io vi ho accusati e non vi siete ribellati, eppure eravate innocenti tutti quanti... Lo avete creduto possibile. Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni... il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasqua’, la stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacia con noi stessi, l’abbiamo uccisa... E vi sembra un assassinio da niente? Senza la stima si può arrivare al delitto. [...] Come facciamo a vivere, a guardarci in faccia? (Esaltato, guardando in alto verso il mezzanino) Avive ragione, zi’ Nico’! Nun vulive parla’ cchiù...69
La denuncia di Alberto ai Cimmaruta è quella di Eduardo alla società.
«Nella commedia c’è tutta la colpevolezza dell’Italia» dirà Huguette
Hatem: «i morti del fascismo, le guerre, l’assenza di rispetto e di stima
reciproca che conducono al delitto, e la ricerca del bene materiale. Eduardo
osserva la perdita dei valori morali. È l’Italia dell’ “ognuno per conto suo”
che Eduardo, sconfortato, mette in evidenza e traduce attraverso i segni e i
sogni dello spettacolo»70.
69 Eduardo DE FILIPPO, Le voci di dentro cit., pp. 436­437.
70 Huguette HATEM, 1948­1988.Quarant’anni di «Grande magia» e di «Voci di dentro», in L’arte della commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, a cura di Antonella OTTAI e Paola QUARENGHI, Roma, Bulzoni, 1990, p. 74. 256
2.4 L’ansia della guerra ne «La paura numero uno»
La paura numero uno, del 1950, porta in scena quel timor panico che serpeggia in quegli anni fra i popoli usciti vincenti o vinti dalla seconda guerra mondiale. I rapporti fra i due grandi blocchi, quello capitalistico dei paesi che hanno stretto il Patto Atlantico e quello comunista sovietico nato col Patto di Varsavia, si stanno lentamente incrinando; ci si avvia verso quella “guerra fredda” che avrà i suoi momenti culminanti nello scontro tra Corea del Nord (appoggiata dalla Cina) e Corea del Sud (sostenuta dagli Stati Uniti) nel 1950 e nella cosiddetta “crisi dei missili” nell’ottobre del 1962.
La commedia, in tre atti, è caratterizzata da una struttura complicata. Il protagonista Matteo viene indotto a credere che sia scoppiata la terza guerra mondiale, per esorcizzare la sua fobia di un conflitto ormai prossimo. Drammaturgicamente, questo casus belli è sostenuto da tre fattori: il contesto storico («qualunque giornale apre, di qualunque parte del mondo, di ogni tendenza politica, si convince sempre più che siamo in guerra»71), la finzione del cognato Arturo che insinua l’idea di una guerra ormai scoppiata, e la ricorrenza dell’Anno Santo, che porta in città pellegrini da tutto il mondo nei quali Matteo riconosce gli invasori.
L’opera sembra spaccarsi in due storie: quella di Matteo Generoso nei primi due atti, e quella di Luisa Conforto. Questi due personaggi, insieme a un terzo, minore, Antonio, sono accomunati da un’ansia che impedisce loro di portare avanti la vita di tutti i giorni. Matteo è immobilizzato dalla fobia del conflitto, e ha “disertato la vita”, come emerge da uno sfogo della moglie Virginia col fratello:
71 Eduardo DE FILIPPO, La paura numero uno, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, p. 464.
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VIRGINIA. Non lavora, non guadagna più una lira... [...] È diventato una pila elettrica. Se te lo vuoi fare amico devi parlare di guerra, di come scansare la morte, di come trovare un rifugio sicuro e in quale paese. Questi sono i discorsi e basta. E la casa va alla deriva... Pure la cucina è diventata inutile. Non mangia niente... è ridotto unno straccio, tu se lo vedi non lo riconosci più. [...]. Insomma, non l’ho perduto in guerra, il marito, lo devo perdere per debolezza? [...]
ARTURO. Virgi’, non ci burliamo. La preoccupazione della guerra ce l’abbiamo tutti quanti. [...] Matteo, l’ho sempre detto, è un uomo impressionabile... non ha saputo riaversi dopo i guai che ha passato per l’ultima guerra. Diciamo quello che è: Matteo, con una famiglia sulle spalle, se la vide brutta. Non trovava pace: sfolla a destra... sfolla a sinistra72.
La figura di Luisa, l’ansia della madre, è già stata analizzata73, mentre è interessante soffermarsi su Antonio. Costui, ci pare, non è solo la “macchietta del petulante”, ma è un tipo di uomo la cui vita si incaglia nei rigidi ingranaggi del “tutto per bene” («non dormo... se non vedo l’orizzonte pulito, netto, faccio ’e nuttate chiare chiare»74), caratterizzato dal refrain «io mi devo andare ad informare».
ANTONIO. Devo andare al Distretto per informarmi. Che c’è 72 Ivi, p. 456.
73 Cfr. cap. 2.3.3. Qui si osserva il personaggio in relazione al suo essere protettiva nei confronti del figlio fino al punto di murarlo in una stanza per paura che la guerra glielo porti via come già fece con il marito e con l’altro figlio. In finale di commedia Luisa Conforto si mostra sottomessa alla realtà, ma non accondiscendente. Separata dal figlio che si sposa, non potrà fare altro che sublimare la propria ansia sulla maniacale cura in ambito culinario.
74 Ivi, p. 476.
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di vero. Che classi chiamano. Se contano i dodici anni di soldato di prigionia che ho fatto... Se avranno considerazione di questo75.
E l’inevitabile conseguenza della sua petulanza non tarda ad arrivare:
ANTONIO. Stamattina mi è arrivata una carta dal Distretto. Eccola qua. (Frugandosi nelle tasche trova un foglio e lo mostra) Questa... (Dopo averla osservata bene) No, non è questa. Questo è un invito a presentarsi all’ufficio dello Stato Civile... chi sa che vanno truvanno... M’agg’ ’a ji’ a nfurmà. (Ha trovato quella che cercava) Eccola qua. [...] Perché io ci credetti che era scoppiata la guerra come ci avrebbe creduto chiunque... Di questi tempi, ce vo’ tanto... E naturalmente per mettermi a posto andai al Distretto a chiedere informazioni. Llà, s’arrevutaie. Volevano sapere io come l’avevo saputo, se ne ero proprio sicuro, se venivo da Roma... [...] Fissammo la data del matrimonio. Io sempre col patema d’animo: «Me chiammano... nun me chiammano...» Mi mandarono a chiamare, con una carta. «La cosa si è complicata. [...] Naturalmente fu fatto il vostro nome, ed ora la vostra pratica si trova a Roma, al ministero della guerra. L’ordine di arrestarvi come spia o propagatore di notizie false non è arrivato ancora, ma potrebbe arrivare da un momento all’altro»76.
Naturalmente, alla fine del terzo atto, dopo essersi andato ad informare ulteriormente, sarà richiamato alle armi. Interessante notare che questi tre personaggi credono veramente che la guerra sia scoppiata, non perché siano 75 Ivi, p. 466.
76 Ivi, p. 475.
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stati raggirati, ma perché “vogliono” crederlo: questo li autorizza a prendere le iniziative assurde che possono dar loro l’impressione di avere la situazione sotto controllo. L’attesa è peggiore della catastrofe. 2.5 Critica del sistema giudiziario: «Il sindaco del rione Sanità»
La commedia Il sindaco del rione Sanità, scritta nel 1960, rappresenta una “società nella società”, quella camorrista e povera cresciuta sulla propria ignoranza, abbandonata al proprio destino dalle istituzioni. Ripiegata su se stessa, questa torma di miserabili non riesce a fare altro che “tirare a campare” e regola le proprie questioni personali con una “giustizia privata” fatta di sparatorie e vendette personali. Solo allora le istituzioni si ricordano di loro e in tribunale vince chi può corrompere i testimoni. Interessante il racconto che Eduardo farà alcuni anni più tardi di una scena cui assistette in gioventù, in un tribunale, dove si trovò di fronte la realtà di questi “disgraziati”:
A quattordici quindici anni avevo un amico, nipote di un avvocato napoletano di nome Triola e abitante a Portalba. Fu lui a portarmi in tribunale per la prima volta. Mi viene alla memoria quanto vidi una mattina d’inverno in quelle squallide aule della sezione penale: tre ragazzi napoletani, smunti, magri, laceri, sudati, sporchi, incatenati tutti e tre insieme con catene e con bracciali, non so se di acciaio o di ferro. Dovevano essere giudicati per dei furtarelli, penso dovrebbero essere stati scippi commessi chissà quanto tempo prima. Quello che mi rimase veramente impresso fu questo: il primo ladruncolo fu giudicato e condannato, ma 260
non poté rassegnarsi ad aspettare che fossero giudicati anche gli altri due incatenati con lui. Naturalmente tra una sentenza e un’altra passa del tempo, perché in tribunale ci hanno fatto l’abitudine e questi disgraziati non fanno più pena a nessuno. Succede un po’ come ad un chirurgo che dopo le prime esperienze di studente, si abitua al sangue e taglia e quindi il magistrato impartiva ordini, l’usciere parlava forte di cose sue con altre persone; c’era indifferenza nei confronti del ragazzo condannato, il quale ad un certo punto si alzò e disse : “Io me ne voglio andare, mi avete condannato, fatemi portare via! Basta, qui non ci voglio restare!”
Non gli diedero ascolto anzi lo obbligarono a sedersi. Improvvisamente nel giovane esplosero violente la rabbia, la ribellione. Per sfogarle si batté le catene e i bracciali sulla fronte così forte che schizzi di sangue macchiarono le pareti e il suo viso divenne una maschera di sangue. Di nuovo allora fu portato via, il presidente fece sgombrare l’aula. Tutti uscirono e allora anche io fui contento di tornare a respirare aria libera77.
In quest'opera Antonio Barracano, antica figura di “camorrista nobile”, decide di elevarsi a sindaco del rione, sostituendosi all’autorità dormiente e prendendo sotto la sua ala quei diseredati che non hanno speranze, risolvendo controversie oppure – quando è troppo tardi – facendo curare i feriti. Per fare questo per trenta anni si è valso della collaborazione di un medico, Fabio Della Ragione, che condivide con lui la sua missione, ma non più i suoi principî. Ormai stanco, convinto di avere per tanti anni “girato a vuoto”, decide di partire per l’America.
77 Eduardo DE FILIPPO, Il teatro e il mio lavoro, in Adunanze straordinarie per il conferimento del premio Feltrinelli, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, pp. 215­221.
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FABIO. [...] abbiamo rischiato la galera, io e voi, non una ma milioni di volte, per agevolare una classe di uomini spregevole e abietta, che è poi la vera piaga di una società costituita.
ANTONIO. La vera vittima, volete dire.
FABIO. Vittima?
ANTONIO. È naturale. Perché si tratta di gente ignorante, e la società mette a frutto l’ignoranza di questa gente. Professo’, sui delitti e sui reati che commettono gli ignoranti si muove e vive l’intera macchina mangereccia della società costituita. L’ignoranza è un titolo di rendita. Mettetevi un ignorante vicino e campate bene per tutta la vita. Ma l’ignorante ha capito. Ha capito che «chi tiene santi va in Paradiso», e dice: «Se vado in tribunale per appianare questa vertenza, con tutto che ho ragione, può darsi che la parte avversaria o si serve dei “santi” che probabilmente tiene in paradiso, o presenta tre o quattro testimoni falsi...» I quali si pagano, lo sapete: stanno all’entrata del tribunale stesso: si affittano. [...] Prove non ce ne sono, e se ce ne sono spariscono perché ’e denare teneno ’e piede, ’e denare teneno ’e rote e l’ignorante non solo perde la causa ma si piglia pure quattro querele per diffamazione. Ora mo, l’ignorante invece di correre il pericolo di andare in tribunale va direttamente, di persona, dalla parte avversaria per farsi giustizia con le sue mani. Lui va carcerato lo stesso, è vero, ma la parte avversaria se ne va al camposanto. [...]
FABIO. E che significa?
ANTONIO. Che chi tiene santi, va in paradiso, e chi non ne tiene...
FABIO. ...va all’inferno.
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ANTONIO. No, viene da me78.
Ma il dottore Della Ragione si oppone:
FABIO. E mentre noi ci adoperiamo per mettere pace con giustizia, gli ignoranti continuano ad ammazzarsi come tanti conigli.
ANTONIO. Ma in trent’anni quanti ferimenti e delitti abbiamo evitati.
FABIO Sono assai: è un mare di gente. Come potete pretendere di portare a termine un’impresa cosi sproporzionata, assurda! E poi, io sono stanco di aggiustare teste, ricucire pance, estrarre proiettili da gambe, braccia, spalle...79 Nel secondo atto la vicenda si complica e don Antonio, nel tentativo di evitare un parricidio, si trova per nemico un panettiere, Arturo, che ha sbattuto fuori casa il figlio e la sua fidanzata incinta.
Il terzo atto infine si apre su don Antonio morente, colpito con una pugnalata da Arturo. Ma in punto di morte il “sindaco” impone al dottore il segreto sulla vicenda, per fermare la catena di delitti che ne deriverebbe: «I figli miei lo sapevano che io ero andato a parlare con Arturo Santaniello... avrebbero immediatamente stabilita la verità. Gennaro e Amedeo contro Santaniello. Altro sangue, altre vendette. Basta, professo’... basta!... Noi abbiamo lavorato insieme trentacinque anni per restringere il più possibile la piaga dei reati, non per allargarla»80.
78 Eduardo DE FILIPPO, Il sindaco del rione Sanità, in Cantata dei giorni dispari, vol. III, Torino, Einaudi, 1998, pp. 37­38.
79 Ivi, p. 38.
80 Ivi, p. 78.
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Ma nell’amarissimo finale il dottor Fabio Della Ragione, che dovrebbe firmare sul referto medico la morte per collasso cardiaco, si ribella:
FABIO. Qua abbiamo preso l'abitudine di mandare continuamente la coscienza in lavanderia. Ma non soltanto noi: tutti senza salvare la faccia di nessuno, dal pezzo grosso fino all'ultima ruota del carro. E io dovrei eseguire scrupolosamente la volontà di don Antonio per salvare chi? Due carogne che hanno paura di dire la verità, due schifosi che preferiscono la bugia, l'ipocrisia, la minaccia, il ricatto... Fa comodo a tutti un Antonio Barracano che se ne va all'altro mondo per collasso cardiaco dopo avere speso una vita intera per limitare la catena dei reati e dei delitti. Avrebbe dovuto spenderla per allargarla. Come spenderò i miei ultimi anni [...]. Io faccio il referto medico come mi detta la coscienza. Usciranno i figli di don Antonio, i parenti di don Arturo, i compari, i comparielli, gli amici, i protettori: una carneficina, una guerra fino alla distruzione totale. Meglio cosi. Può darsi che da questa distruzione viene fuori un mondo come lo sognava il povero don Antonio, «meno rotondo ma un poco più quadrato». E comincio io col firmare il vero referto col mio nome e cognome: Fabio Della Ragione. Scannatemi, uccidetemi, ma avrò la gioia di scriverci sotto: in fede81. In questo finale la Barsotti vede l'introduzione di un terzo sistema significante, accanto a quello della “giustizia pubblica” e quello della “giustizia privata”. Si afferma dunque un sistema semantico nuovo, rispetto al 81 Ivi, p. 89. 264
primo, per cui si nega la legittimità d’ogni giustizia privata, che si fonda comunque sulla connivenza e sul “silenzio”. Il fatto che, drammaturgicamente, questo secondo sistema sia affermato “alla fine” del testo [...], trascina senza dubbio il senso dell’opera verso quest’ultimo punto di vista; e tuttavia, trattandosi di un testo artistico, non d’una “tesi” ideologica o politica, i due sistemi formano un’unica struttura, nella quale funzionato contemporaneamente in un complesso “gioco” reciproco. Proprio perché il disegno di Antonio Barracano [...] conserva nell’insieme artistico attrattiva e grandezza, la sua negazione finale è tanto più significante e poetica82.
A proposito del monologo finale Eduardo disse che «la rabbia del Dottore, non è un atto di violenza, bensì un atto di amore disperato verso Antonio Barracano, il quale è morto per gente che non meritava il suo sacrificio; per lo meno, pensa il Dottore, che questa gente prenda delle responsabilità, affronti la realtà, invece di nascondersi dietro la generosità del “Sindaco” che con il suo gran cuore ha arrangiato le cose in modo che tutti siano al sicuro, coperti dalla sua morte»83.
Più negativa la visione di Codignola, il quale analizza la posizione del protagonista in chiusura di commedia, e vi rintraccia la difesa della famiglia a tutti i costi:
[...] la decisione finale di don Antonio può essere 82 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo, in Eduardo in maschera. Incontri sul suo teatro, a cura di Manola Bussagli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 55. Cfr. anche Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo: fra mondo del teatro e teatro del mondo, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 421­422.
83 Eduardo DE FILIPPO, lettera alla professoressa Giuliana Beato, Roma, 3 luglio 1978, cit. in Emilio POZZI, Parole mbrugliate, Roma, Bulzoni, 2007, p. 218.
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interpretata in due modi opposti. Il primo è una riaffermazione del principio della camorra; don Antonio si comporta nel proprio caso come si è sempre comportato nei casi che era chiamato a dirimere: esclusione delle autorità, mantenimento della pace, limitazione del sangue versato. Un infortunio sul lavoro, insomma, che egli è in grado di controllare. L’istituto della camorra non è coinvolto. [...] Questa è la motivazione dichiarata, ma non ci convince del tutto. C’è un secondo significato, quello dei fatti, dell’azione drammatica, che ci sembra assai più suggestivo. Davanti a che cosa il vecchio camorrista s’inchina? Davanti alle autorità dell’istituto familiare. [...] La camorra dunque, il solo istituto collettivo spontaneo che la società descritta da Eduardo riconosce, cede e si ritira davanti all’istituto della famiglia84.
2.6 «Il monumento»
La poetica eduardiana trova uno dei suoi momenti più originali nella commedia Il monumento, del 1970. Intorno a un monumento si ritrova un folto gruppo di emarginati: «travestiti, prostitute, piccoli contrabbandieri, venditori ambulanti»85. Più esattamente questi personaggi si radunano “dentro” il monumento, all’interno del quale è stata ricavata una piccola abitazione dove il protagonista Ascanio Penna, «ex maresciallo ausiliario», vive con «la sua donna», Sabina Squillace prostituta, e Nazareno Scorzese detto Paganini, suonatore di violino ambulante. 84 Luciano CODIGNOLA, Il teatro di Eduardo, in Il teatro della guerra fredda e altre cose, Università di Urbino, Argalia, 1969, pp. 50­51.
85 Eduardo DE FILIPPO, Il monumento, in Cantata dei giorni dispari, vol. III, Torino, Einaudi, 1998, p. 447.
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Già dalla scenografia si indovina il motivo dominante dell’intera commedia: l’isolamento. Anche l’ambiente, nella sua desolazione (che ci ricorda il Beckett di Aspettando Godot), sembra astratto dalla realtà circostante: «quell’insieme di pietre morte, sopraffatte dalla prepotenza rigogliosa della vegetazione, appare come un enorme semicerchio di stoffa serica, scolorita e sbrindellata. Più confuso è il centro del semicerchio, dove l’addensarsi della nebbia lascia appena intravvedere la sagoma sfocata di un monumento [...]»86. Se l’evanescenza di questo luogo lo ha isolato dal presente in cui è inserito, la guerra sembra averne eroso il passato: L’oltraggio dei bombardamenti ha cancellato dai bassorilievi del vecchio marmo ogni traccia di figura allegorica, e reso pressoché illeggibile sia il nome dell’eroico generale o filosofo o musicista a cui fu dedicato il ricordo marmoreo, sia le lettere romane che testimoniavano la data dell’inaugurazione87.
In quello spazio angusto vive Ascanio da quando ha lasciato l’esercito. All’inizio del secondo atto lo racconta a un frequentatore del monumento, il magliaro Arturo. In caserma i soldati, «tutti ragazzi che non avevano ancora compiuto vent’anni», lo chiamavano “mamma” scherzando, ma lui aveva capito che «in quello scherzo c’era il bisogno di sentirsi attaccati alle sottane della mamma vera che avevano lasciato al paese»88.
Successivamente, in una toccante analessi, emerge il motivo per cui Ascanio di è isolato dal mondo, nel momento in cui i “suoi” ragazzi gli 86 Ivi, did., p. 449.
87 Ibidem. 88 Ivi, p. 470.
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sono stati portati via dall’orrore della guerra:
ASCANIO. L’ultima volta che ho sentito un soldato chiamarmi [mamma] fu l’8 settembre, quando i tedeschi entrarono in caserma con i carri armati e le mitragliatrici e ci imposero la resa. [...] Fuori, ordini precisi: tutti i soldati miei, i ragazzi miei, messi in ginocchio da una parte, e due rulli compressori procedevano in senso inverso, schiacciando i nostri fucili, che i soldati stessi avevano dovuto ammassare al centro del cortile. [...] Mi cacciarono via. Non volevano un borghese tra i piedi, e mi misero fuori della caserma con un calcio... [...] Mi alzai da terra con la fronte spaccata, e rimasi di spalle perché non avevo il coraggio di dare un ultimo sguardo in caserma. Per cominciare la decimazione, il plotone di esecuzione lo avevano già formato. Fu un attimo prima di una scarica che sentii gridare un soldato: «Addio, mamma!...»89.
Ma il maresciallo ausiliario Ascanio Penna non si rende conto di essere stato partecipe , si è isolato, “compresso” nel monumento, dal quale non si allontana se non per spingersi sulla savonarola («schiatto, ma non esco»90); per i ventidue anni di servizio militare ha preteso in cambio solo di rubare l’allacciamento per la luce, il gas e l’acqua. «E un monumento», commenta inopportuno l’arrogante “magliaro” Arturo. La risposta del maresciallo è secca:
ASCANIO (accusa la frecciata, ma poi reagisce con durezza, dopo un attimo di silenzio). Si, l’ho voluto! (Si domina) 89 Ivi, p. 471.
90 Ivi, p. 480.
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Ma per starci dentro, non sopra91.
Assieme a lui si è estraniata dal mondo Sabina e, quando il magliaro le rinfaccia di essersi rinchiusa in una tomba, gli risponde: «Mi sono chiusa in un libro di storia vera, piena di spaventi, strilli, amarezze... ma di vergogna, no». Nient’altro avrebbe potuto fare Sabina che chiudersi nel ricordo di quello che fu, della guerra che ha strappato il maresciallo alla sua caserma; solo il ricordo resta, ma nessun riconoscimento. Sembra la storia di un altro reduce eduardiano, Gennaro Jovine (Napoli milionaria!), che tornato dal conflitto trova una società “evoluta” con la quale non riesce a mettersi al passo. Mentre però Gennaro è riuscito a comprendere quello che stava succedendo intorno a lui cercando di riportare la famiglia sulla retta via, Ascanio si aliena dalla società ripiegandosi nel suo ricordo, e non cresce con essa, non cerca neanche di cambiarla; non sviluppa nuovi valori ma rimane ancorato a quelli passati (la retorica del combattente è molto forte in Ascanio e Sabina) e l’esperienza della guerra, non raccolta, è sterile narrazione:
SABINA. Pure il Maresciallo la racconta, e tutti gli amici, compreso tu, seduti intorno a lui... Una mezz’oretta si passa volentieri con lui. Tranne il passatempo, però, che cosa rimane agli altri del racconto suo? Niente. Tutti estranei, come se fossero cose successe in un altro pianeta. Una parola di incoraggiamento per dire qualche cosa, una piegata di spalle, «Ciao, Sabina, buona notte, Maresciallo», e se ne vanno. Ed è giusto: da un fatto vero puoi fare mille racconti, ma da mille racconti un fatto vero non lo puoi fare mai più92.
91 Ivi, p. 464.
92 Ivi, p. 485. Il corsivo è nostro.
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I “dimenticati” come il maresciallo e gli emarginati che gravitano attorno al monumento sono considerati dal brigadiere Delledonne la “feccia del paese”. Ma Ascanio precisa che «la feccia entra qua dentro, non esce: viene da fuori...»93. La soluzione per questa categoria sembra essere solo l’annientamento. Così, quando Ascanio cita la poesia di Salvatore Di Giacomo Lassamme fa’ a Dio, nella quale un intero rione di miserabili viene sottratto alla realtà e portato in paradiso da San Pietro («una specie di campo di eliminazione!»94), Paganini osserva: «sulla terra rimarrebbe solo la felicità, la ricchezza, l’allegria!»95.
Infine Ascanio, divenuto «nella sua specularità con l’Oggetto, il monumento, materia di introversione visionaria»96, non potrà che morire nel momento in cui “il mondo di fuori” cercherà di farlo uscire. Ma prima Guarnaschelli, avventore e “io epico” dell’autore, cercherà di convincerlo a desistere e tornare alla società, introducendo un terzo sistema semantico, oltre a quello nostalgico di Ascanio e Sabina e quello attualista del brigadiere Delledonne (le istituzioni):
GUARNASCHELLI. Vogliamo arrivare alle barricate? Con la frase che ha detto lei: «Si stava meglio quando si stava peggio», e con quella che ha detto il Maresciallo, «Io ho quel che ho donato», avete avvalorato quello che ho sempre sospettato di voi due: siete personaggi fuori del tempo, pezzi da museo, oggi che di retorica ne abbiamo piene le tasche. Ve l’hanno ficcata in testa questa mentalità, e chi ve la toglie più? È finita l’epoca 93 Ivi, p. 488.
94 Ivi, p. 453.
95 Ibidem.
96 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 492.
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dell’eroismo a qualunque costo. Il mondo sta camminando... e gli occhi bendati non li vuole avere più nessuno. Si accontenti di avere sbagliato una volta, Maresciallo. Posso capire l’amarezza di un uomo che si è visto crollare intorno tutti i miti in cui aveva creduto ciecamente, ma la testardaggine no. La testardaggine, senza ragionamento, trascinò, allora, l’intero paese in una tragedia spaventosa... e la stessa testardaggine ha costretto lei a chiudersi qua dentro e a viverci per tanti anni come una talpa97.
Ma per il maresciallo ormai è troppo tardi. L’ultimo addio, in chiusura di commedia, sarà ancora di Guarnaschelli, rivolgendo al corpo esanime la sua dichiarazione contro la retorica del monumento, e dichiarando la compartecipazione di questa al tragico episodio della fucilazione dei soldati.
GUARNASCHELLI. Signor Maresciallo, le parole sono vecchie perché sono servite sempre a coprire la verità con la retorica, che è vecchia di almeno duemila anni. Non ne possiamo più, basta! Non ne possono più neanche le parole: vogliono diventare nuove, cioè vere. E quale occasione migliore di questa hanno per diventare vere? Signor Maresciallo, le sue ultime parole «vecchie» sono state queste, e le voglio ricordare a tutti: «In questo monumento non ci sono venuto a vivere, ci sono venuto a morire». E ha mantenuto la parola. Le sfuggirono però i cimiteri militari. Ce ne stanno a migliaia sparsi per tutto il mondo, di antichi e di moderni. In uno di quelli moderni avrebbe potuto trovare posto lei. Ma forse sarebbe stato 97 Eduardo DE FILIPPO, Il monumento cit., pp. 497­498.
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imprudente da parte sua consegnarsi nelle mani di migliaia di ragazzi ai quali non si stancava mai di ripetere: «Classe di ferro, la tua». Tutte classi di ferro, erano, ma di una certa qualità di ferro che quando viene colpita dal piombo si trasforma in carne umana macellata. Lei non fu colpito dal piombo, ma da un «metallo» sciagurato e assai più distruttivo del piombo: la retorica dell’eroismo. Povero Maresciallo, di questa retorica ne rimase pieno fino alla gola... Peccato che dopo tolto il lenzuolo toglieranno anche lei da là sopra98.
98 Ivi, pp. 501­502. Lo stesso autore ha definito la denuncia di questa commedia: «le parole come patria, eroismo, guerra, svuotate del significato vero e umano diventano anacronismi retorici e senza alcun senso per chi deve subire il potere». Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di studenti, Roma, Teatro Eliseo, 1976, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Bompiani, Milano, 1986, p. 173.
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III.3 Politica: Il figlio di Pulcinella
In questo paragrafo si analizza Il figlio di Pulcinella, una commedia allegorica di denuncia non solo sociale, ma nettamente politica. I rapporti di Eduardo con i politici italiani furono sempre tutt’altro che sereni, sebbene fosse spesso identificato come “uomo di sinistra”. A questo proposito molto interessante è il racconto fatto da Carlo Molfese intervistato da Emilio Pozzi:
L’idea che Eduardo sia un uomo di sinistra, a mio parere, deve essere ridimensionata. Eduardo ideologicamente non era né di destra né di sinistra. Aveva un’ideologia che era un’ideologia sociale, un’ideologia di rapporto personale, di rapporto di educazione, di correttezza legata all’uomo in quanto tale, in quanto essere umano. Per di più lui era fuori da ogni forma di organizzazione di partito perché era, per natura, un uomo libero. [...] Lui è stato molto amico di Valenzi, che era un uomo di sinistra che è stato per alcuni anni sindaco di Napoli. Mi ricordo che Valenzi, in occasione dell’inaugurazione della mostra al San Ferdinando, confessò a Eduardo l’enorme difficoltà di amministrare una città come Napoli, nonostante tutte le cose che lui aveva avviato. Eduardo gli chiese: «Ma perché questa difficoltà?». E lui gli rispose: «Perché, Eduardo mio, le delibere che noi, Consiglio eletto, stabiliamo e deliberiamo non vengono mai attuate. Le delibere rimangono lì anni e anni e non se ne fa più niente». Eduardo, proprio per la sua ignoranza di quelli che erano i meccanismi della politica ma allo stesso tempo secondo la sua indole di uomo libero, gli disse: «Tu devi fare una 273
cosa! Fai un grande comizio a piazza Plebiscito, fai venire un milione di napoletani e dici loro: guardate, io voglio fare questo, questo e questo e non lo posso fare perché questi sono i problemi.... Se sei stato eletto dal popolo è al popolo che lo devi dire». Solo che questa è una posizione abbastanza platonica di concepire la politica, tant’è vero che Valenzi gli rispose: «Non lo posso fare perché questo vuol dire mettere in crisi la credibilità del partito». Allora Eduardo, senza neanche farlo finire di parlare, gli disse con tono affettuoso: «Allora va a fanculo tu e il tuo partito»99.
3.1 Storia e fortuna scenica della commedia
Il figlio di Pulcinella è una commedia scritta nel 1958 che esordisce in due tempi e diciotto quadri al Teatro Quirino di Roma il 20 ottobre 1962. Il dramma sarà pubblicato per la prima volta sulla rivista «Sipario» nel 1960. È la seconda delle tre commedie che formano il cosiddetto “ciclo del realismo fantastico”100, preceduta da De Pretore Vincenzo (1957) e seguita da Tommaso d’Amalfi (1962)101.
La critica accolse la commedia con qualche perplessità. Vito Pandolfi parla di un “handicap” drammaturgico che trova la sua soluzione nella messa in scena:
99 Carlo Molfese intervistato da Emilio Pozzi, Roma, 6 luglio 1991, cit. in Emilio POZZI, Parole mbrugliate cit., p. 231.
100 Filosa per questa commedia parla addirittura di «intuizione surrealista». Carlo FILOSA, Eduardo De Filippo. Poeta comico del «tragico quotidiano», Napoli, La Nuova Cultura, 1978, pp. 30­31.
101 Per un’analisi dei rapporti fra le tre commedie cfr. Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., pp. 406­409.
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Alla lettura la commedia suscita qualche perplessità perché il suo simbolismo vi appare a volte troppo lineare e scoperto, non sufficientemente elaborato e d’altronde in netto contrasto con la maggioranza delle scene affidate a un realismo minore, spicciolo. Sul palcoscenico Eduardo ha saputo superare con notevole disinvoltura questo handicap; e anche l’evidente gioco di affermazioni, assume una più agile veste dialettica, una volta assunta veste di spettacolo102.
All’indomani della prima rappresentazione Renzo Tian lodò l’opera, ma non l’innovativo personaggio venuto dall’America:
Il Pulcinella che Eduardo ci propone è un Pulcinella morto, che attende di essere sepolto: morto sotto il peso secolare della miseria, della fame, delle mortificazioni, degli opportunismi, delle finzioni buffonesche, delle funamboliche dissimulazioni di cui è impastato fin nel midollo il personaggio dalla bianca casacca. [...] Ma ecco il colpo di scena: Pulcinella è padre di un figlio. [...] John, il figlio americano è tornato in Italia, [...] dice sempre la verità, respinge in blocco l'eredità paterna di timorose menzogne e di buffonesca dissimulazione, [...] se ne va a faccia pulita, mentre la vecchia maschera si affloscia ormai veramente spezzata. Rimane [...] da osservare come Eduardo dia il meglio del suo estro di autore nella dolente e malinconica osservazione dell'antica maschera decaduta piuttosto che nell'innesto del nuovo personaggio, che rimane allo stato di generosa enunciazione103.
102 Vito PANDOLFI, «Il Dramma», novembre 1962.
103 Renzo TIAN, «Il Messaggero», Roma, 21 ottobre 1962.
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Analizzando la commedia sul piano “metafisico” e su quello “reale”, Virdia commenta:
Racconto moderno di una favola antica, suona il sottotitolo della commedia Il figlio di Pulcinella E' un sottotitolo che denuncia indirettamente ma chiaramente le ambizioni di questo straordinario e per molti versi geniale uomo di teatro e scrittore, più che legittime, per un artista delle sue dimensioni e del suo valore, il che non significa che su un piano critico non se ne possa e non se ne debba discutere il risultato e l'efficacia; quella anzitutto di portare il suo teatro, che è essenzialmente teatro popolare, a un livello surreale e metafisico, in secondo luogo quello di ricavare da questa dimensione surreale e metafisica, una tesi, o comunque una morale, e in terzo luogo l'occasione di una satira politica diretta. Felicissima, per esempio, la trovata di immettere una figura come quella dell'immortale maschera napoletana in una vicenda e in un ambiente contemporanei, e felicissima quella di una sua “voce di dentro” che si materializza in una donna­lucertola in perenne colloquio con lui. La commedia si svolge su due piani: uno, quello di una realtà media borghese, osservata con l'occhio divertito, con l'implacabile fantasia di Eduardo, che ha saputo cogliere da par suo i particolari obbrobriosi e incresciosi, l'altro, quello metafisico di Pulcinella e del suo mondo. [...] Pulcinella carico di ingenuità e di furfanteria, di pietà e di cinismo, e infine di consapevole malinconia, cosicché alla fine anche il piccolo moralismo del testo si traduce con un alto e polemico richiamo alla dignità dell'uomo . Un grande, nuovissimo Pulcinella104.
104 Ferdinando VIRDIA, «Sipario», Roma, n. 199, 1962.
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Mentre dalle pagine de «Il Mondo» Chiaromonte analizza la “maschera” di Pulcinella contestualizzandone l’ambito semantico:
La maschera di Pulcinella è infatti, per il nostro attore, il marchio del suo contraddittorio e inevitabile destino: rappresenta la smorfia raggelata e ormai inespressiva che egli, come artista, vuole con tutte le forze strapparsi dal viso per sostituirvi un volto unicamente umano; ma rappresenta anche la nobiltà della sua arte, la sua antichissima origine, il volto mezzo umano mezzo demoniaco del satiro, simbolo di una comicità primordiale e di un rapporto insuperabilmente autentico con la natura.
Rappresenta anche, la maschera di Pulcinella, il simbolo della condizione propriamente infernale di quel popolo al quale l’attore s'ispira, ma che egli sa ormai quasi inesistente nel senso antico e genuino. Sicché la sua arte è un misto di elegia e di scherno, di rimpianto e di rivolta105.
3.2 Contesto storico
La vicenda è ambientata nell’Italia degli anni Cinquanta. Nel 1950, per rispondere alle manifestazioni dei contadini meridionali contro lo sfruttamento della mezzadria – sostenuti dal Partito Comunista –, il governo democristiano guidato da Alcide De Gasperi istituisce la Cassa del Mezzogiorno; volta ad un recupero del divario fra Nord e Sud del paese, con iniezioni di capitali e realizzazioni di opere pubbliche, l’esito 105 Nicola CHIAROMONTE, «Il Mondo», 6 novembre 1962, ora in Scritti sul teatro, Torino, Einaudi, 1976, pp. 189­191.
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dell’iniziativa ha avuto esito sfavorevole106.
Nel 1951 il governo vara la riforma agraria nel Mezzogiorno che distribuisce le terre incolte ai contadini, mentre l’anno successivo si intensificherà il fenomeno migratorio verso il nord, che comincia a conoscere il “miracolo economico”. Nello stesso anno l’armatore Achille Lauro viene eletto sindaco di Napoli, carica che manterrà fino al 1958. Durante il suo mandato ebbe inizio il fenomeno della speculazione edilizia che anni dopo Francesco Rosi avrebbe raccontato in un suo film, Le mani sulla città.
Nel febbraio del 1953 l’opposizione contesterà duramente il governo per l’approvazione della cosiddetta “legge­truffa”, che prevede un premio di maggioranza per la coalizione vincente. Ma alle elezioni politiche in giugno la coalizione di centro capeggiata dalla Democrazia Cristiana non raggiunge il quorum necessario per il premio e De Gasperi si dimette tornando alla segreteria del partito.
Nel 1954 il Partito Nazionale Monarchico subisce una scissione interna, dalla quale si forma il Partito Monarchico Popolare, guidato da Achille Lauro.
Nel 1955 il paese conosce un periodo di forte instabilità politica. Nel giro di pochi mesi si succedono vari presidenti del Consiglio: Giuseppe Pella, Amintore Fanfani, Mario Scelba e Antonio Segni.
Intanto l’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS e la denuncia dei crimini dello stalinismo scuote fortemente il Partito Comunista. Nel congresso del 1956 viene riconfermato il leader Palmiro Togliatti, che però perde molti iscritti al partito, fra i quali Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini.
Il congresso del Partito Socialista del 1957 sancisce definitivamente la fine dell’alleanza con il Partito Comunista. Il neoeletto segretario Pietro 106 Per approfondimenti cfr. Gian Antonio STELLA, Lo spreco, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.
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Nenni propone una politica di riavvicinamento alla Democrazia Cristiana e una riunificazione col Partito Social Democratico. Nel 1958 le elezioni politiche segnano una netta ripresa della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista. Amintore Fanfani vara il suo secondo governo. L’anno successivo Antonio Segni va al governo con l’appoggio esterno del Partito Liberale e del Partito Monarchico.
3.3 Sinossi
La commedia si apre su una “scena simultanea” che mette in luce, a seconda del momento, uno dei “luoghi deputati”. Quello centrale, il più vasto, rappresenta il soggiorno della casa del barone Carolis De Pecorellis Vofà Vofà. La stanza ha sullo sfondo un balcone che apre sul panorama di Napoli; in fondo a sinistra un corridoio disimpegna l’appartamento; più verso il proscenio, sempre sullo stesso lato, un’altra porta introduce nella cucina, dalla quale una scala a chiocciola porta sul terrazzo della casa. Dalla parete destra del soggiorno invece si accede allo studio del barone, che a seconda della scena diventa l’esterno di una caratteristica pizzeria napoletana.
Qui inizia il primo atto, mentre il settore centrale (il soggiorno) e quello di sinistra (la cucina) sono nascosti da una fitta penombra. È sera, il cameriere del barone, Vincenzo, siede a un tavolo con il “compagno” Salvatore; entra l’autista del barone, Alfredo. I due servitori si tengono a distanza, essendo avversari sul piano politico: il primo è comunista, l’altro democristiano. Entra Renato, giovane pittore con molto talento e pochi soldi, siede accanto a Vincenzo e chiede informazioni su Mimmina, la 279
figlia del barone, della quale era amante ma che lo ha lasciato per sposare il vecchio e ricco magnate della benzina Nicola Sapore. In quel momento entra quest’ultimo, e offre a Renato dei soldi per desistere dai suoi intenti, ma il giovane reagisce violentemente.
La scena si sposta sul terrazzo della casa, dove un fascio di luce lunare illumina la misera baracca dove Pulcinella è stato abbandonato. Questi, con l’usuale mezza maschera nera su una smorfia di amarezza e con una casacca inusitatamente sporca, timidamente esce dalla baracca e inizia un melanconico dialogo col pubblico; viene interrotto dalla voce femminile di una lucertola, Catarinella, sua unica compagnia. Dalla conversazione fra i due emergono i motivi per cui Pulcinella è stato abbandonato: i padroni non avevano più bisogno di lui.
Entra il barone, che parlando con la figlia la invita a sposare il giovane Renato, ma la ragazza lo convince dal momento che il vecchio pretendente si è offerto di sostenere economicamente la campagna elettorale; il padre infatti è deciso a candidarsi con i monarchici e, consigliato dalla moglie, richiama Pulcinella per sfoggiarlo al suo fianco come testimonial, testa di ponte per il consenso popolare.
Nel secondo atto la scena non cambia, ma dal terrazzo è scomparsa la baracca di Pulcinella: al suo posto troviamo un gruppo di piante ornamentali e un completo da giardino in ferro battuto. Dalle case circostanti si scorge il terrazzo di Renato, dedito al suo lavoro. Entrano Pulcinella e il barone, intenti a far sistemare altre piante per il terrazzo. Rimasto solo con Pulcinella, Vincenzo lo convince a firmare la tessera del partito comunista, lusingandolo con promesse di pantagruelici pasti. La stessa operazione, con lo stesso esito, faranno successivamente il democristiano Alfredo e il monarchico barone. Catarinella cercherà di fare 280
riflettere Pulcinella, il quale però, obbedendo al suo padrone, la scaccerà con una scopa. Renato intanto si rivolge dal suo terrazzo al barone, rinfacciandogli la meschinità del matrimonio combinato che si sta preparando.
Arriva Nicola Sapore, che saluta il futuro suocero porgendogli un assegno da trenta milioni di lire. Poco dopo entra l’avvocato Anselmo Raganelli, allarmatissimo: ha saputo che sta per arrivare dall’America il figlio di Pulcinella. Interrogato, quest’ultimo nega, mentre la serva Annetta, alla quale la maschera si era promesso in matrimonio, sviene. Sollecitato da Catarinella ricorda quando, abbandonato dal barone durante la guerra, scappando dai bombardamenti degli alleati si rifugiò in un campo di cavoli; qui, piangendo per la disperazione di morire solo, ne strappò uno urlando «figlio mio!». Salvatosi, avrebbe poi incontrato un soldato americano che, incuriosito dal cavolo che Pulcinella stringeva sotto la casacca, gli avrebbe chiesto l’ortaggio in cambio di una scatoletta di carne, alla quale l’affamata maschera non seppe rifiutare. Cresciuto in America, il ragazzo, chiamato John, ha la faccia mezza bianca e mezza nera, come il padre; ma a differenza di questo dice tutto quello che pensa, motivo per cui è stato rimandato al paese natio. Il figlio entra in scena e Pulcinella lo abbraccia. Mentre la luce si concentra sul settore sinistro del palcoscenico, si vedono Renato nella pizzeria e poi Mimmina nel soggiorno struggersi di malinconia per il matrimonio che si celebrerà pochi giorni dopo.
La scena successiva illumina il terrazzo, sul quale si svolgono i festeggiamenti per le avvenute nozze tra Mimmina e Nicola Sapore. Quest’ultimo, sopraffatto dall’emozione viene colto da un malore e muore. Il barone è soddisfatto: il matrimonio ormai è stato celebrato e il patrimonio dell’industriale entrerà completamente nelle tasche della sua 281
famiglia. Purtroppo uno degli invitati, direttore della banca di Sapore, informa il barone che i suoi affari reggevano su un vorticoso giro di cambiali, e che l’industria si avvia verso la bancarotta.
Il terzo atto si apre su una scena imponente: sul terrazzo Pulcinella ha dato fuoco a cataste di rottami di legna, ove ha messo in bilico tre gigantesche caldaie di rame, nelle quali, equivocando, sta facendo cuocere la pasta che il barone aveva promesso di portare in tutte le case (cruda). Dopo le lamentele dei vicini il padrone riesce a riportare la situazione alla normalità, facendo spegnere il fuoco. Intanto in cucina Annetta tenta di sedurre John e questi la asseconda, ma dopo averla fatta spogliare, la scaccia accusandola di essersi prostituita per “comprare un marito”: infatti la bella e opportunista serva rivolge le sue grazie di volta in volta all’ultimo lacchè del barone, secondo l’antico adagio: «si riconosce il cane per il padrone».
Intanto da un dialogo fra il padrone e la moglie si viene a sapere che Mimmina è partita con Renato e aspetta un bambino da lui. La conversazione viene interrotta dall’avvocato Raganelli che nella sua visita viene informato della cattiva condotta di John; il ragazzo, diversamente dal padre, è di indole riflessiva, malinconica, a tratti sardonica, e si rifiuta di seguire le orme paterne, strappando o buttando la casacca pulcinellesca che il barone di volta in volta gli fa preparare. Pulcinella viene convinto dal barone a mostrarsi autoritario nei confronti del figlio, ma non ottiene risultati.
La scena successiva trasforma l’intero palcoscenico in una piazza di Napoli, dove il barone sta tenendo un retorico comizio affiancato dalla moglie e da Pulcinella, che involontariamente mette in ridicolo il padrone scatenando l’ilarità della folla e minandone la reputazione. Intanto 282
Mimmina e Renato, fuori da una pizzeria di un altro paese, leggono le lettere ricevute dai genitori, e appaiono felici.
Pulcinella invece, in vista della partenza dei padroni per un nuovo comizio, ha organizzato sul terrazzo una cerimonia con tutte le altre maschere della Commedia dell’Arte, per presentare ufficialmente suo figlio. Ma John, scoperto che la sua faccia mezza nera altro non è che una maschera, decide di rinunciare al suo ruolo di servitore perché non vuole avere più padroni da fregare, lasciando nell’epilogo della commedia la speranza di un’Italia che non sia più «il paese di Pulcinella».
3.4 Analisi della commedia
Il titolo di questa commedia, Il figlio di Pulcinella107, è puramente enunciativo. Il valore significante è affidato al sottotitolo: Racconto moderno da una favola antica. La modernità del racconto risiede nel suo diretto riferimento alla vita politica di quegli anni, mentre l’antichità della favola è quella di Pulcinella Cetrulo, la maschera acerrana elevata ad immagine del popolo. Ma i personaggi in quest’opera sono sempre allegorici. Il padrone, figura particolarissima, ha tre referenti: in qualità di barone egli impersona la nobiltà decaduta; come monarchico richiama direttamente il recente governo della città sotto il duplice mandato di Achille Lauro; nell’analessi di Pulcinella del secondo atto, la rievocazione dell’abbandono da parte del padrone nella seconda guerra mondiale lo accosta direttamente alle vicende del re Vittorio Emanuele III. Il servo “ribelle”, Vincenzo – che definirà il 107 Eduardo DE FILIPPO, Il figlio di Pulcinella, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998. D’ora in avanti le citazioni al testo in esame faranno sempre riferimento a questa edizione.
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suo padrone un «discendente diretto del feudalesimo medioevale» (II, p. 289) –, rappresenta la retorica del Partito Comunista, mentre l’autista deferente e bigotto, Alfredo, incarna lo spirito della Democrazia Cristiana. L’«affarista» Nicola Sapore porta in scena la classe economica italiana, legata a quella politica dominante (sposerà la figlia del barone, e sarà ossequiato da Alfredo). Nell’avvocato Anselmo Raganelli, antipatico a Pulcinella (il popolo), vediamo la personificazione della magistratura. Annetta, la serva di casa, è simbolo di certa mentalità opportunista, qualunquista e “voltagabbana” (concederà i suoi favori prima a Vincenzo, poi a Pulcinella e infine al figlio di questi, John). Singolare inoltre il personaggio di Catarinella, una figura fantastica di lucertola con la quale Pulcinella potrà sfogarsi e che cercherà di guidarlo nel corso della commedia, anche quando il barone, infastidito, gli chiederà di scacciarla (II, p. 302). Come ha notato Mario Mignone, «questo accorgimento di far parlare un animale per esprimere l’inconscio, è una reminiscenza delle antiche farse pulcinellesche»108. Ma più che l’inconscio, in Catarinella ci sembra di vedere una figura di guida che la società­Pulcinella sublima in questa immaginaria lucertola: «non sono io che ti parlo», dirà l’animale, «sei tu stesso che ti interroghi» (I, p. 273); associamo a questa figura l’istituzione teatrale, guida che permette alla società di rappresentarsi e confrontarsi con se stessa.
La scenografia è ritagliata sulla complessità dell’intreccio. Il palcoscenico è diviso in tre settori: quello centrale rappresenta il soggiorno, quello di sinistra la cucina e quello di destra, di volta in volta, lo studio del barone o «l’esterno di una caratteristica pizzeria napoletana». Sovrastante questa struttura, collegata alla cucina da una scala a chiocciola, vi sarà una terrazza; ivi, nel primo atto, «una capanna poco più grande di un canile»(I, 108 Mario MIGNONE, Il teatro di Eduardo De Filippo. Critica sociale, Roma, Trevi, 1974, p. 220.
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did., p. 256), dalla quale uscirà Pulcinella nel primo atto. Nel terzo invece tutta l’area si trasformerà in una piazza di Napoli, per il comizio elettorale del barone.
La prima scena si svolge fuori dalla pizzeria e introduce i servi del barone, Vincenzo e Alfredo. Dal dialogo fra i due si scorgono reminiscenze dei personaggi di Guareschi, Peppone e Don Camillo109, il comunista e il cattolico:
VINCENZO. Io non capisco: ma tu ti confessi ogni giorno?
ALFREDO. Ogni giorno.
VINCENZO. E che gli vai a dire al sacerdote, sempre le stesse cose?
ALFREDO. Ormai mi conosce, non mi confessa più. Quando mi vede entrare in chiesa, pure da lontano, mi fa segno con la mano così... (imita il gesto abituale con cui i sacerdoti dànno l’assoluzione ai penitenti) mi dà la comunione, e me ne vado. (I, p. 256).
Arriva Renato, che siede al tavolo con Vincenzo chiedendo informazioni sulla figlia del barone. Durante questa breve scena viene introdotta la storia d’amore fra i due, interrotta da Mimmina per sposare il ricco Nicola Sapore; proprio quest’ultimo si presenta al giovane offrendogli l’appoggio finanziario per la sua attività di pittore, oltre a una lasciva connivenza:
NICOLA. Dopo il matrimonio, per lanciarvi definitivamente, vi porto mia moglie e voi le fate un ritratto. Durante le 109 Incentrati su questi personaggi sono questi romanzi di Giovannino Guareschi: Don Camillo (1948), Don Camillo e il suo gregge (1953), Il compagno don Camillo (1963), poi ridotti per il cinema negli anni Cinquanta e Sessanta.
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prime pose, mi viene sonno e mi addormento. Per le pose successive, siccome io sarò impegnato per i fatti miei, mia moglie verrà sola. (I, p. 263)
Alla violenta reazione di Renato, trascinato fuori scena da Vincenzo e dal pizzaiolo, l’imprenditore, flemmatico, siede al tavolo per ordinare la sua cena, ma non prima di aver pagato al proprietario del locale i debiti del pittore, assumendosi l’onere di tutte le sue consumazioni: «Pago io, fallo mangiare» (I, p. 264).
La scena si oscura e un intenso raggio di luna investe la baracca dalla cui porta esce Pulcinella. Le sembianze dell’illustre «Acerretano» oltre ad essere mutate dall’ultima volta che il suo nome figurò sui cartelloni del San Carlino, precisamente per la tragica rappresentazione del dramma: «La dama bianca»110, presentano altresì segni caratteristici insoliti che suscitano in chi li osservi da critico e da cultore delle tradizioni, un vivo senso di sgomento e commozione insieme. Mentre, ad esempio, la tradizionale macchia che gli deturpa per metà il volto, è nerissima e lucida, gli angoli della bocca, smorta e tagliata ad arco su di uno spesso e sfacciato intonaco di biacca, si appesantiscono in due pieghe pessimistiche che si disperdono fra le innumerevoli grinze del mento e quelle a festoni del collo. [...] Quella poi che dovrebbe essere la sua principale caratteristica, e cioè l’immacolata casacca, trionfo e splendore del suo glorioso passato, non è altro ormai che 110 Eduardo si riferisce alla messinscena della commedia di Giacomo Marulli il 26 marzo 1876, durante la quale morì in scena Antonio Petito. Cfr. Salvatore DI GIACOMO, Storia del teatro San Carlino, Napoli, Berisio, 1967.
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un misero cencio, sporco e rattoppato, da prendersi con le pinze. [...] In compenso sono ancora vivissimi in lui l’intuito immediato, l’antica saggezza, lo spirito giovanile e l’arte di sapersi barcamenare a seconda «dell’aria che spira». Eccolo infatti ad affrontare il pubblico a tu per tu, con l’aria scanzonata e sfacciata che gli fu propria in ogni tempo. (I, did., p. 266) In un serrato dialogo con il pubblico, Pulcinella si rivolge agli spettatori della galleria ristabilendo in teatro quei dislivelli sociali che saranno presenti nella commedia: «Lasciate parlare i signori che stanno nei palchi e nelle poltrone, che hanno pagato profumatamente» (I, p. 267).
All’improvviso, «da un punto misterioso echeggia una voce dolcissima e giovanile di donna»: è Catarinella, la lucertola alter ego di Pulcinella. Dal dialogo fra i due emerge lo stato inumano in cui Pulcinella è stato abbandonato dai suoi padroni, i quali lo mantengono in vita coi residui della cucina perché «non ci vogliono rimettere nemmeno la coscienza». (I, pp. 269­270).
D’altronde Pulcinella non può morire. Catarinella ne è convinta: «[...] la tua struttura fisica naturale è come quella dei funghi. Quando tutti ti credono morto, tu sbuchi nei punti più incredibili... in Francia come in America, a Londra come in Brasile... in Russia, in Cina, in Giappone»; ma lo avverte: «Di questa realtà non avrai mai la certezza perché i tuoi padroni hanno interesse a non fartela avere» (I, p. 270). I “padroni” lo hanno confinato lassù, gli stessi che gli hanno sempre fatto credere di essere «il servo sciocco» perché, citando un altro protagonista Eduardiano, il Gennaro Jovine di Napoli milionaria!: «È il loro interesse di dire che il popolo è indolente, è analfabeta, non è maturo... E tanto fanno e tanto diceno, ca se 287
pigliano ’e rrétene mmano e addeventano ’e padrune»111.
Il dialogo è interrotto dal barone: di ritorno dalla villeggiatura con la moglie e la figlia, entra inveendo contro la servitù. Dalla scena coi familiari che segue si capisce che il barone vuole mettersi in politica, ma la figlia disapprova: «Perché insisti nell’idea di voler scatenare una campagna elettorale che dovrebbe affermare l’ennesimo partito sballato di tua invenzione che, secondo te, dovrebbe portarti al trionfo?» (I, p. 277). Per tutta risposta il padre la accusa di essersi fatta circuire dalla serva, lasciandosi convincere a sposare Nicola Sapore. Ma il motivo è un altro, lei vuole assaporare quell’agiatezza che il declino della sua famiglia non possono garantirle. Anche la madre è d’accordo, tanto più che l’industriale ha promesso di finanziare la campagna elettorale del barone. «Ma ci vuole il consenso popolare», le risponde questi: «E che aspetti per chiamare Pulcinella?» (I, p. 280). Le sorti della classe politica sembrano intrecciate a quelle dell’emergente industria, senza esitare a fare largo uso dell’ipocrisia per raggiungere e mantenere le proprie poltrone con il consenso popolare, Pulcinella. Quest’ultimo, in un primo momento titubante, si lascia convincere dalle lusinghe:
BARONE. Dico che devi mettere via questi stracci che hai addosso. Ti metterò a nuovo dalla testa ai piedi [...] dividerò con te qualunque cosa. Un milione? Mezzo a te. Dieci milioni? Cinque a te. E tu lo dirai a tutti. Tutta Napoli dovrà sapere quali saranno le leggi che solleciterà il barone Arrigo Carolis De Pecorellis Vofà Vofà, non appena sarà deputato. (I, pp. 283­284)
Nel secondo atto il terrazzo ha subito un mutamento: la baracca di 111 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., p. 28.
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Pulcinella non c’è più, sostituita da un giardinetto fatto di piante e un completo in ferro battuto. Ma dietro alla facciata vi è «lo stesso complesso del primo atto» (II, p. 286). Mentre Renato, dalla terrazza dirimpetto lavora ad una tela cantando un’aria nostalgica, Vincenzo propone ad Annetta una «tarantella», ma al suo rifiuto reagisce impermalito: «E già... adesso siamo stati messi in disparte. Adesso siamo tornati agli antichi amori. Adesso ci sta un’altra volta Pulcinella ripulito e rinnovato» (II, p. 287).
Nella scena successiva Pulcinella si trova solo con Vincenzo, il quale gli mostra la tessera del partito chiedendo alla maschera analfabeta di “mettere la croce” su un «modulo rosso». Pulcinella è perplesso ma il servo gli spiega che cosa è – o dovrebbe essere – il suo partito:
VINCENZO. Il comunismo è il partito del popolo.
PULCINELLA. Non è tuo?
VINCENZO. No. [...]
PULCINELLA. E allora che t’interessa se io firmo o non firmo?
VINCENZO. Voglio dire che non sono io il padrone e che non lo sei nemmeno tu. E questo è il punto. Per darti un’idea esatta di quello che è il comunismo ti dico subito: se il partito esce vittorioso da queste elezioni, padroni non ce ne saranno più.
PULCINELLA (spaventato). Uh, mammina... e io dove vado a servire?
VINCENZO. Ma non ti dovrai preoccupare per questo. [...] Voglio dire che non ci saranno più padroni da servire.
PULCINELLA. Ma un padrone ci deve essere.
VINCENZO. E ci sta. [...] Lo stato. (II, p. 294)
Ottenuta l’ambita croce si congratula col nuovo “compagno” 289
mostrandogli i benefici del suo tesseramento: il pacco dono, pieno di «frutta, formaggio, farina, dolci... la stoffa per un vestito nuovo ed un paio di scarpe» (II, p. 295).
Uscito Vincenzo Pulcinella si troverà solo con Alfredo ch gli propone il tesseramento. Naturalmente anche il partito democristiano «vuole il bene del popolo», e quando viene Natale arriveranno i primi benefici: ancora una volta il pacco dono. Pulcinella accetta di mettere la croce anche sul «modulo giallo»: «popolo mio... per te, solo per te io firmo sempre!» (II, p. 298), ma la sua esultanza sconcerta il democristiano:
PULCINELLA (spalanca sinceramente le braccia ed esclama commosso). Caro compagno!
ALFREDO (scatta furente come morso da una vipera). Ah no! Questo non me lo dovevi fare!
PULCINELLA. E che ho fatto? (Tenero ed affettuoso) Io ti ho chiamato compagno.
ALFREDO (turandosi le orecchie inorridito) Zitto! Non proseguire, per carità! Vogliamo andare all’inferno tutti e due? Tu per avere pronunciata la parola maledetta ed io per averla ascoltata?
PULCINELLA. Non capisco...
ALFREDO (con ammirazione) Che anima pura... Che purezza di sentimenti... [...] Andrai in paradiso.
PULCINELLA. E se capisco?
ALFREDO. All’inferno. (II, p. 298)
Intanto dal terrazzo il barone, mentre prepara per i festeggiamenti al prossimo matrimonio fra Mimmina e Nicola, viene apostrofato da Renato, che lo mette di fronte alla penosa realtà:
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RENATO. Con questa semina, quale poteva essere il raccolto? Vostra moglie vi disistima, e vostra figlia si vende al maggiore offerente. E Nicola Sapore vi darà pure i quattrini della vostra campagna elettorale... [...] Continuate, continuate ad illudervi, mettetevi lo scafandro da palombaro per inseguire o catturare farfalle sott’acqua, auguri. (II, pp. 301­302)
Il giovane esce di scena: Pulcinella e il suo padrone rimangono soli. È il momento del tesseramento al Partito Monarchico (il «modulo blu»). Il pacco dono del barone, più sostanzioso, sono quei maccheroni che Achille Lauro distribuì al popolo nella sua campagna elettorale:
BARONE. Poi vorrei distribuire dei maccheroni al popolo. [...] Facciamo così (annotando) maccheroni duecentomila chili. [...] Poi barattoli di pelati... parmigiano... Quando sarà il momento, ti darò l’ordine. Poi, appena saranno pronti i maccheroni, pomodori e formaggio, tu farai il giro dei quartieri e ne distribuirai un chilo a testa. (II, pp. 305­
306)
Ma ottenuta l’agognata firma il barone, quando il servo muove per abbracciarlo, ristabilisce le distanze sociali:
BARONE (duro). E perché hai firmato, io dovrei abbracciarmi con te? Non ti permettere più di pensare nemmeno lontanamente una cosa simile.
PULCINELLA. Ma siamo dello stesso partito!
BARONE. Ma io sono sempre il barone Arrigo Carolis De Pecorellis Vofà Vofà. E tu sei sempre Pulcinella Cetrulo il 291
mio servo. Adesso lasciami solo; togliti dai piedi! (II, p. 306)
Catarinella rimprovera Pulcinella e questi risponde con opportunista servilismo: «[...] quando mi fa sentire la fermezza del tono padronale, si risveglia in me l’amore e la tenerezza antica per la livrea vassallesca; mi faccio “il paro e lo sparo”» (II, p. 307).
Entrano Mimmina e la madre, accompagnate da Nicola che ha portato al barone un assegno bancario di trenta milioni. Questi incassa rassicurando il futuro genero: «fra pochi giorni vi preciserò pure in quale zona dobbiamo comprare una quarantina di migliaia di metri quadrati di terreno» (II, p. 309). La battuta non è casuale e sembra alludere a quella speculazione edilizia per la quale si rese tristemente famoso il governo della città sotto Lauro. Arriva l’avvocato Raganelli, recando una gravissima notizia: Pulcinella avrebbe un figlio, cresciuto in America e adesso “rimandato” dal padre. Questi in un primo momento non lo riconosce, ma poi ricorda nella sua analessi i giorni della guerra, un racconto allegorico che richiama, lo abbiamo detto, l’abbandono della monarchia durante la guerra112:
112 Nell’estate del 1943 la Sicilia viene invasa dalle truppe alleate. Il 25 luglio il re destituisce e fa arrestare Mussolini. Roma viene unilateralmente dichiarata “città aperta” (quindi passiva nei confronti degli invasori a tutela della popolazione civile e dei beni artistici) dal nuovo capo del governo, il maresciallo Badoglio. Ciononostante subisce massicci bombardamenti dalla forze alleate. Il 3 settembre il re e il maresciallo Badoglio firmano con gli angloamericani l’“armistizio di Cassibile”, noto anche come “armistizio dell’8 settembre”, dal giorno della sua entrata in vigore. In quel giorno l’annuncio viene diramato alla radio l’annuncio delle cessate ostilità con l’Inghilterra e gli Stati Uniti: i tedeschi, fino allora alleati, sono adesso nemici. All’alba del giorno seguente, il 9 settembre 1943, il re e la sua famiglia, con il maresciallo Badoglio, abbandonarono precipitosamente la capitale per dirigersi a Brindisi, lasciando le truppe e gli apparati statali senza ordini né disposizioni, impreparate ad affrontare la rappresaglia dei nazisti, che in poche decine di ore occuparono agevolmente due terzi del territorio nazionale catturando quasi seicentomila soldati italiani e trasformando l’Italia in un 292
PULCINELLA. [...] Si, mi ricordo... non avevo più speranza di salvarmi. C’erano ancora i tedeschi. E gli americani non ci davano pace: bombardamenti notte e giorno. Vi ricordate, signor barone... ce ne andammo sfollati a Mondragone, in quella casa di campagna di vostra proprietà, che poi fu bombardata e distrutta. Dopo poco tempo, una mattina, ve preparasteve ’e valigie. (Ripetendo le parole precise del barone e rifacendo il tono signorile della sua voce) «Pulcinella, io non posso rimanere qua, ho il dovere di salvare mia moglie e mia figlia. C’è un mio amico che con mezzi di fortuna ci conduce a Roma tutti e tre. Guardami negli occhi...» E io ve guardaie. «Tu, in questo momento, non sei il mio servo ma il mio migliore amico. Pulcinella, ti affido la casa». [...] Dopo poche ore che ve n’eravate andati voi si scatenò l’inferno! Ogni bomba che cadeva, pure si cadeva luntano, ’a casa tremmava. Questa musica durò tre giorni. [...] Come se avessero avuto un comando preciso, si spalancarono le finestre tutte insieme, e tutte insieme se rumpettero ’e lastre... E assieme alle finestre si era aperta pure la porta: dopo tre giorni finalmente vedette ’a luce. [...] E io correvo... e il bagliore dei bombardamenti mi faceva vedere la strada. [...] Correvo e dicevo: «Moro... moro... mo moro! E moro sulo. Moro e nisciuno me vede... Moro e nisciune me chiagne! E che resta ’e me? Niente!» A nu certo punto me mettette a strillà: «Figlio mio!» Me menaie mmiez’ a campagna addò ce steva un campo ’e cappuccie, e ne sradicaie una, ’a cchiù grossa. [...] E m’ ’a tenette abbracciata tutta ’a notte; me l’accarezzavo, m’ ’a vasavo... Chiagnevo e durmevo. (Ora imita il parlare provinciale di un tizio) «Chi sei tu?» S’era fatto giorno e campo di battaglia fra i tedeschi e gli angloamericani per i venti mesi successivi.
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mi trovai davanti a quattro soldati. Erano americani. [...] «Sono Pulcinella» dicette io. «E che tiene annascosto sotto allu cammesone?». «Lu figlio mio». «Lu figlio tuio? [...] Me lo vuoi regalare? Lu voglio portare a mammella in America... Si me lo regali, io te do la carne». E me mettette na scatola ’e carne aperta sotto ’o naso... Nu profumo! [...] E pe’ na scatola ’e carne se pigliaie ’o figlio mio... Il figlio nato dalla sofferenza e dal dolore, dalla rinuncia... nell’epoca della miseria, del terrore, dell’eroismo: l’unico figlio carnale dell’umiliato e martoriato padre, Pulcinella Cetrulo. (II, pp. 313­314)
L’avvocato introduce John, il figlio di Pulcinella, e sull’abbraccio dei due cala la luce e la scena si sposta sull’esterno della pizzeria. Qui si vede Renato pagare il conto al gestore – non ha accettato il mantenimento di Nicola. La scena malinconica del pittore «con un nodo alla gola che difficilmente gli permetterà di mangiare» è affiancata da quella di Mimmina che, preparando il vestito per le nozze che si celebreranno il giorno dopo, si abbandona al ricordo nostalgico del giovane. Come intermezzo fra queste due scene un uomo e una donna siedono a un tavolo della pizzeria, confidando al gestore lo strazio di dover affidare il loro bambino dal compare in Sicilia, non avendo le capacità per mantenerlo. L’ultima scena del secondo atto si svolge nel soggiorno, dove il barone dà un ricevimento per l’avvenuto matrimonio tra Nicola e Mimmina; fra i servitori troviamo anche John. Lo sposo novello, nel momento di fare un discorso, viene colto da un malore. Interessante il modo in cui Eduardo sfrutta l’impianto scenico delle luci per rappresentare l’angoscia del malessere:
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Nicola straluna gli occhi divenuti ormai vitrei e li fissa lungamente nel vuoto. Un violento bagliore rosso investe per un attimo tutto il soggiorno; per un altro attimo quel bagliore diventa di un verde violento; immediatamente dopo diviene bianco accecante tipo corto circuito. Finalmente buio completo per pochi secondi. Quando la luce torna come prima, gli invitati sono allibiti e non osano guardarsi in faccia l’un l’altro. Nicola Sapore con il volto segnato da una grottesca e orribile smorfia è come impietrito. La pantomima è finita. (II, did., p. 320)
Portato nello studio, il barone ne constata il decesso. Nell’avvertire la moglie evidenzia l’opportunità che scaturisce per lui da questo funesto avvenimento: «Non capisci: per noi è stato un bene! Lui se n’è andato e pace all’anima sua... ma le sue sostanze restano qua... Mimmina è ricca» (II, p. 320). Ma un invitato, «l’uomo dalla faccia verde», che per tutta la cerimonia non ha fatto che guardare l’orologio, si rivela: è il direttore generale della banca Salpi, la quale sosteneva il giro d’affari di Nicola valendosi di un vorticoso giro di cambiali. Mentre il barone si avvilisce e la baronessa si dispera Pulcinella dà ordine all’orchestrina jazz di suonare e fa esplodere i fuochi pirotecnici.
L’apertura del sipario sul terzo atto ci svela lo stesso complesso, le prime ore del mattino. Pulcinella, fraintendendo le disposizioni del padrone, ha appiccato un grande fuoco sotto tre enormi caldaie, nella quali sta cucinando la pasta. La «cortina di fumo bianco latteo» ha ormai invaso tutta la scena e i vicini, estenuati, protestano: ne nasce una gazzarra. Il barone accorre e, scusatosi con i vicini, intima ai servitori di spegnere il fuoco. Pulcinella è mortificato ma Vincenzo, equivocando, si congratula con lui: «Io ti ho capito. [...] Ho capito che tu sei la mente più sveglia che ci 295
abbiamo nel partito. Il barone voleva distribuire la pasta al popolo per avere in cambio i voti, e tu l’hai boicottato. [...] Continua, continua così che farai carriera. Oggi vado al partito e ti segnalo». (III, p. 327)
Intanto John, rimasto solo con Annetta, la seduce, ma al momento di «fare li fatti» la interrompe, innestando una polemica contro la servetta furba e i suoi giochi di opportunismo: «Si stai spogliata, come fai a negare? Ti sei spogliata per vedere se potevi fare fesso a me come hai tentato tante volte di fare fesso a mio padre per vedere, alla fine dei conti, di trovare uno che cu’ lu matrimonio prende la responsabilità della tua persona, e ca se mette a tirare la carretta, come la tirano tanti poveri cristiani» (III, p. 332).
La scena si sposta nel soggiorno, dove il barone e la baronessa leggono una lettera di Mimmina, partita coronando finalmente il suo sogno d’amore con Renato. Essa è cambiata, adesso si rende conto che «si può vivere di poco», e al distacco ossequioso della servitù preferisce la simpatia degli amici del pittore, che la trattano da pari a pari. Ma, quando nella lettera comunica di essere incinta, i genitori non sembrano condividere la sua felicità, soprattutto la baronessa: «È una pazza, imbevuta di idee stravaganti della nuova generazione. Si sposi pure al più presto, è l’unica cosa che le rimane da fare, ma che non le salti in mente, il giorno che si vedranno con le spalle al muro, di presentarsi qua, con il marmocchietto... bastardelli per casa non ne voglio» (III, p. 334).
Nelle scene successive il barone si mostra insoddisfatto del comportamento di John. Egli vorrebbe farne un successore del padre, a cominciare dal nome: BARONE. Quando senti: «Pulcinellino!» lascia qualunque occupazione e corri da me dicendo: «Pronto, padrone». Apri quel pacco. (John esegue e tira fuori dal pacco un 296
abito completo da Pulcinella). Bravo! (John stende l’abito su di una poltrona). Questo lo ha portato il sarto poco fa. Lo indosserai tu. (John senza parlare lascia tutti in asso ed esce per la sinistra. I tre non si accorgono di questa uscita silenziosa). Così diventerai il vero figlio di tuo padre. (III, p. 337).
Ma sul “nuovo” Pulcinella il barone sembra non esercitare alcun potere, così ricorre al padre: «Poi farai una bella paternale a tuo figlio. Qui c’è il vestito che ha portato il sarto. Lo deve indossare, hai capito? Mostrati severo, fatti sentire. Se quando torno non lo trovo vestito come te, lo metto alla porta. Intesi?» (III, p. 339). Pulcinella cerca di convincere John che indossando la casacca «un pezzo di pane e companatico non [gli] mancherà mai». Ma il figlio, senza rispondere, esce113.
Finalmente vediamo il “candidato” barone all’opera. La scena è la perfetta parodia del tipico comizio elettorale:
Tutto il complesso si è trasformato in una festosa piazza di Napoli, con al centro in primo piano un arengario in legno improvvisato tappezzato e decorato con festoni nastri e coccarde tricolori. In piedi al centro del palco, davanti al microfono c’è il barone; alla sua destra ci sarà Cecilia, alla sinistra Pulcinella. Alle loro spalle quattro o cinque persone ben vestite e con la faccia d’occasione sono in ascolto e con le braccia conserte. Alle finestre e intorno al palco, la folla attende la conclusione del discorso. L’oratore è soddisfatto di come sono andate le cose. Le frasi ovvie e banali, ricche di promesse, gli hanno 113 Secondo Mario Mignone John «è ritornato forte di un’esperienza fatta in un mondo più duro, ma più preciso, più moderno anche se più feroce, con le idee più chiare su ciò che ritiene di dover fare e che sia suo diritto fare». Mario MIGNONE, Il teatro di Eduardo De Filippo cit., p. 215.
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creato intorno un’atmosfera favorevole. Ora non deve che pronunciare le parole della chiusura per stringere definitivamente in pugno la prima vittoria della sua campagna elettorale. (III, did., p. 340)
Effettivamente le frasi, anche in chiusura, sono ovvie e banali: spingono nelle solite direzioni («noi non rinunceremo mai alla lotta contro la miseria e la disoccupazione»), demonizzando il nemico («[...] i fiumi di inchiostro degli pseudointellettuali non riescono a sottrarre un solo uomo all’indigenza»), e offrono le stesse promesse di sempre («noi porteremo nuove fonti di lavoro nei paesi di montagna, [...] sorgeranno ospedali, scuole, [...] piazze monumentali, zone residenziali). Ma l’intervento di Pulcinella, il quale mostrerà le mutande «lacere e rattoppate» che il padrone ha promesso di sostituire con un paio nuovo, rovescerà le sorti del comizio.
In chiusura di commedia Pulcinella inviterà tutte le maschere italiane per presentare ufficialmente suo figlio: «Sono sicuro», dirà introducendolo, «che lui vorrà seguire le orme paterne, per non correre rischi nella vita e per assicurarsi in avvenire sicuro e tranquillo» (III, p. 348). Ma John senza parlare abbandona la compagnia. Raggiunto dal padre spiega:
JOHN. Gli amici tuoi che stanno sopra, sono tutti servitori, falsi e bugiardi, come sei falso e bugiardo tu. [...] Ma che vuoi da me, ma nun la vedi sta macchia mezza nera che tengo in faccia? Nun capisci che chesta è stata e sarà lu turmiento di tutta la vita mia? (Un singhiozzo gli ferma la parola in gola. Breve pausa, padre e figlio si guardano angosciati. Pulcinella ha capito il tormento del figlio e ne sente ora il peso e la responsabilità [...]). (III, pp. 348­
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Nell’amara confessione del giovane emerge anche la crudezza di una realtà nella quale non si è sentito accettato: «perché dicevano che io nun ero comm’a loro ma tenevo mezza faccia nera». Cambiando contesto cambiò solo il motivo dell’emarginazione: «allora me ne andai a campare cu li neri, ma succedeva la stessa cosa. Li neri dicevano che io tenevo mezza faccia bianca» (III, p. 349).
Il padre, commosso, gli svela “il segreto di Pulcinella”: quella che ha sul viso non è una macchia, ma una maschera. Solo con questa «tu puoi fregare lu padrone più di quello che lui stesso ti volesse dare», ma si può togliere, come fa Pulcinella mostrando «a suo figlio carnale il suo vero volto appassionato, dolente e tragico» (ibidem). Secondo Vito Pandolfi questa è «la storia del popolo napoletano che ha dovuto adottare la maschera per resistere (interiormente) alla tirannia del suo padrone»114. Anche John se la leva, ma per non rimetterla mai più, deciso a combattere questa tirannia, rifiutando la connivenza con essa, congedandosi dal padre e da tutta la realtà da lui rappresentata:
JOHN. Allora pozzo campà cu’ la faccia pulita e sincera?
PULCINELLA. No, figlio mio... nun po’ campà accussì.
JOHN. E pecché? Io nun voglio fregà a lu padrone, nun voglio campà de mbroglie a truffe, voglio guardà e voglio essere guardato dint’all’uocchie e voglio dicere: «Chest’è lu tuio e chest’è lu mio». (Allegro e pieno di entusiasmo) Lu munno m’aspetta papà... m’aspetta, cu’ la faccia pulita e sincera. Addio, papà. (Getta la maschera ai piedi di suo padre e si avvia svelto).
PULCINELLA (implorante). Fermati figlio mio! Lu munno è 114 Vito PANDOLFI, Eduardo De Filippo, in I contemporanei, vol. III, Milano, Marzorati, 1960, p. 369.
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malamente. Si vedono lu figlio di Pulcinella senza la maschera... l’accideno.
JOHN. Meglio nu figlio muorto cu’la faccia pulita ca nu figlio vivo cu’ la faccia sporca come la tiene tu. (III, p. 350)
La speranza è quella nella fine115 di un «paese di Pulcinella», dove i miserabili servi non debbano più nascondersi dietro la truffa ai padroni, non debbano limitarsi più a sopravvivere, a «tirare a campare», dove si possa finalmente abbassare la maschera del servilismo e ambire alla libertà di un volto.
Ma il vecchio Pulcinella ormai non può più cambiare, non può correre «verso una meta sognata ma irraggiungibile»; e quando la voce del padrone, fuori campo, lo chiama, Pulcinella risponde: «Pronto, padrone!» (Ibidem).
115 «Il figlio di Pulcinella è la morte di Pulcinella». Mario MIGNONE, Il teatro di Eduardo De Filippo cit., p. 218.
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