La mia esperienza di exchange student negli Stati

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La mia esperienza di exchange student negli Stati
Maria Elena Vaccari, 5M del liceo Galvani
La mia esperienza di exchange student negli Stati Uniti
“Maaa, che ne dici se andassi a fare il quarto anno di liceo in America?” Ricordo ancora il viso di mia
madre. Credo fosse sull’orlo di una crisi di panico. Un intero anno scolastico, caspita. Nove mesi lontano
da famiglia, amici, compagni di classe; lontano dalla tua casa, dalla tua camera, dal tuo letto e da tutti gli
ambienti in cui hai vissuto la tua vita. Bum! Da un giorno all’altro scaraventata dall’altra parte del mondo.
E la mia host mum, la mia mamma ospitante, come sarà? La mente di un exchange student, un ragazzo di
scambio, al momento della partenza è incontrollabile. E così il 18 agosto del 2011 salgo su un volo Milano
– Atlanta, probabilmente un volo qualsiasi per piloti e hostess, ma per me non è altro che un nuovo inizio.
La mattina, dopo 2 giorni di viaggio, 3 aerei , 7 ore
perse, e sotto effetto del jet-lag, mi sveglio in una
stanza diversa dalla mia, in una stanza in cui rimarrò
per nove mesi. Sembrava un tempo così infinitamente
lungo, e alla fine si è rivelato forse troppo breve. Sono
finita in un paesino di nome Patch Grove, nel
Wisconsin. Popolazione: 198. Dalle finestre di tutta la
casa si vede un unico panorama: eterni campi di
grano, interrotti ogni tanto dai trattori che raccolgono
i
frutti del terreno. La scuola, la River Ridge High
School, ha meno di 200 studenti: nell’arco della prima
settimana conosco praticamente tutti. E così, fra una
partita di football e una di baseball, fra un evento per
raccolta fondi a scuola e una visita a casa dei nonni,
fra un salto al centro commerciale più vicino (a un’ora
di distanza) e un giro da Walmart per fare la spesa per la casa, nove mesi sono volati. Ho imparato a
convivere con la mia nuova famiglia, con Barb e Al, la mamma e il papà, e con Morghan, Madison e
McKenzie, le mie tre sorelline di rispettivamente 10, 13 e 16 anni. Ce l’hanno messa veramente tutta per
farmi sentire parte integrante della loro famiglia, e ci sono riusciti, questo e’ certo.
Ad una mia insegnante scrivevo: «Stare qui mi sta facendo capire come in fondo il nostro paese sia
importante e riconosciuto: a parte tutti i termini scientifici e formali che derivano dal latino (nelle verifiche
di lessico e di anatomia sono sempre quella che va meglio!), per quel poco che c’è attorno a questo
paesino sperduto nel nulla, l’Italia è veramente dappertutto. Nei supermercati, se un cibo ha un nome che
suona italiano è sempre quello che ha il prezzo più alto (anche se spesso c’è da dubitare della reale
“italianità” dei prodotti...), e c’è addirittura un tipo di salume che assomiglia (molto) vagamente alla
mortadella che si chiama “Bologna”! (pronunciato “boloni”). I prodotti della Buitoni, della Barilla o della
Ferrero mi fanno sentire a casa. Nei documentari, film e programmi che mostrano a scuola e in televisione
c’è quasi sempre qualcosa riferito positivamente all’Italia: un luogo, una persona, un alimento, un
oggetto, una marca, un’idea. In America “Italiano” è sinonimo di “qualità”. Mai ho sentito parlare così
spesso e in questi termini di altri paesi europei. E una delle cose che mi gratifica (o sconcerta?) di più, è
che in questo piccolo paese della provincia americana c’è persino qualche ragazzo del liceo che non sa che
anche la Mafia è un “prodotto” d’importazione italiana. »
Se rifarei quest’esperienza? Cento, mille, un milione di volte, se possibile. Non ho il minimo dubbio.
Maria Elena Vaccari, 5M del liceo Galvani