Documento 280 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO

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Documento 280 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO
Documento 280 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/10/2001 NUMERO
Sab PAGINA 002
TITOLO Civili in fuga sotto i bombardamenti
SOMMARIO A migliaia diretti verso il Pakistan. Le organizzazioni umanitarie
temono il collasso
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan.ultima edizione.profughi. situazione.
dichiarazioni dell' Fatana Gailani Afghanistan Women Council,
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
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PESHAWAR - Nasreen mostra le ciabatte di plastica. «E' con queste che sono
scappata da Kabul. A volto scoperto. Non avevo neanche il chador addosso». In
fuga sotto le bombe, trascinando i figli per mano. «Siamo saltati su un taxi, il
primo che è passato. Via dall' Afghanistan, il più lontano possibile dalla
guerra». Nasreen ha 40 anni, ne dimostra venti di più. Il viso cotto dal sole,
quattro stracci addosso. «Siamo morti di fame, non abbiamo più soldi, dateci
qualcosa per carità». Altre braccia si tendono tra la folla. Altri volti di
donne stravolte dalla rabbia, bambini appesi al collo, ragazzini febbricitanti.
«Kandahar è distrutta, la mia casa è crollata - urla un' altra donna -. Ci sono
morti dappertutto. E che cosa fa il Pakistan? Non fa nulla per noi». Grida,
ressa e spintoni contro un cancello. Fila dietro la porta di un ambulatorio.
Sulle sterrate di Hayat Abat, il quartiere dei fuoriusciti afghani alla
periferia di Peshawar, un centinaio di famiglie chiedono cibo e medicine ai
volontari dell' Afghanistan Women Council, un' organizzazione umanitaria che si
occupa dell' assistenza ai profughi. «Facciamo quello che possiamo - dice la
presidente Fatana Gailani -. Ma la situazione è disperata. Ogni giorno arrivano
nuovi rifugiati e non c' è nessuna struttura pronta ad accoglierli». Nessun
campo allestito. Nessun aiuto ufficiale per chi passa la frontiera. Chi viene
dall' Afghanistan, in fuga dai bombardamenti angloamericani, si accampa dove
può. I disperati nella melma di Jalozai, una distesa di tende di plastica e
fogne a cielo aperto. I più fortunati nelle case di amici e parenti, gli ex
rifugiati di vent' anni di guerre. «Qualcosa deve cambiare - dice Fatana Gailani
-. E' il momento che tutti comincino a lavorare seriamente». L' emergenza è
cominciata davvero. Lo ammettono le agenzie umanitarie: «E' il giorno peggiore
dall' inizio dei bombardamenti», dichiara Ron Redmond, portavoce dell' Onu in
Pakistan. Diecimila persone hanno passato la frontiera nell' ultima settimana,
3.500 solamente ieri. «Il flusso è continuo, la situazione caotica». Il panico
collettivo. I profughi arrivati da Kandahar raccontano di aver visto cadaveri
lungo le strade, gente morire negli ospedali per mancanza di medicine, bambini
stremati dalla fame. E passa solo chi paga: 3 mila rupie a testa, 50 dollari,
una somma enorme per qualunque afghano. Ci sono stati scontri alla frontiera: i
profughi contro le guardie, resse per forzare i cancelli. Le agenzie umanitarie
prevedono un milione e mezzo di persone. Il portavoce dell' Onu è ottimista: «L'
arrivo dei profughi sarà accolto con nuove regole dal governo pakistano». Quel
confine di Chaman, a sud nel Beluchistan, l' altro di Torkham a un' ora di
strada di Peshawar, chiusi o aperti a secondo degli umori dei doganieri, si
trasformeranno in punti d' ingresso ufficiali? «Aspettiamo l' autorizzazione per
portare acqua e cibo ai nuovi profughi», dice Redmond. Ma il governo del
Pakistan, con 2 milioni e mezzo di rifugiati in casa, prende tempo: teme che la
nuova marea di afghani destabilizzi il Paese. Apre le frontiere solo per i
feriti. Chiede alle organizzazioni umanitarie di occuparsi degli sfollati
rimasti all' interno dell' Afghanistan e di lasciar perdere gli altri. La
richiesta ha già creato una crisi politica con le organizzazioni non governative
(Ong): «I nostri autisti hanno paura a guidare all' interno del Paese, visto gli
errori così frequenti nei bombardamenti americani», dice Justin Forsyth,
portavoce della britannica Oxfam. Le Ong propongono di sospendere i raid. Da
Londra contrattaccano: «L' unico modo per evitare una crisi umanitaria è
rimuovere i talebani dal potere», dice Clare Short, ministro britannico agli
Aiuti internazionali. Pronta la risposta dal fronte della carità: «Il ministro è
influenzato dai suoi padrini politici», contesta la portavoce di Oxfam,
ricordando che diverse aree dell' Afghanistan saranno presto bloccate dalla
neve. «Dobbiamo distribuire 70 mila tonnellate di cibo e i bombardamenti non ci
permettono di farlo». Il caos nella gestione del caos. Maria Grazia Cutuli
Documento 281 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 21/10/2001 NUMERO
Dom PAGINA 005
OCCHIELLO IL GRANDE GIOCO DEGLI «OPPOSITORI»
TITOLO E nella retrovia di Peshawar si prepara il dopoguerra a suon di dollari
AUTORE Alberizzi Massimo, Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dichiarazioni di Haji Mohammed Zaman
rientrato da Parigi per rifondare l' esercito del re. a Peshawar la rete degli
oppositori al regime dei talebani
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE PROPAGANDA Un militante pro talebani in Pakistan Stephen
Shaver/Ansa
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IL GRANDE GIOCO DEGLI «OPPOSITORI» E nella retrovia di Peshawar si prepara il
dopoguerra a suon di dollari DAI NOSTRI INVIATI PESHAWAR - E' il ritorno degli
ex mujaheddin, dei capi guerriglia, dei vecchi comandanti pronti a riprendere le
armi per entrare nel «grande gioco» in cui si deciderà il futuro dell'
Afghanistan. Nelle retrovie di Peshawar, alla frontiera pakistana, riappaiono come negli anni Ottanta - gruppi e fazioni decisi ad approfittare della campagna
militare americana per affossare il regime dei talebani, ma soprattutto per
garantirsi un ruolo in un prossimo governo del Paese. E' un nuovo fronte in
maggioranza pashtun, nutrito di esuli e oppositori, che si differenzia dall'
Alleanza del Nord con il suo mosaico di litigiose etnie. Uno schieramento con un
unico referente: re Zahir Shah, l' ex monarca esiliato a Roma, attorno al quale
si continuano a tessere le alleanze più varie. L' ultimo leader tornato sulla
ribalta di Peshawar si chiama Haji Mohammed Zaman. Ha 44 anni, due mogli, dieci
figli e un passato sulle trincee antisovietiche. E' rientrato da Parigi per
rifondare l' esercito del re, mettendo assieme i vecchi capi militari della sua
provincia, quella di Nangarhar nell' Est dell' Afghanistan, e altri seguaci
nelle regioni di Kunan, Nooristan, Laghman, dove i talebani sono più deboli. «Ho
contatti con 160 comandanti, tutti disposti a combattere contro gli integralisti
- spiega, accovacciato su un tappeto -. Abbiamo appena raggiunto un accordo per
unificare le differenti fazioni. Ma prima di passare alle armi ci proponiamo un
altro obiettivo: parlare con i talebani, chiedere loro che si arrendano». Il
progetto è nato a Roma, a fine settembre, durante la riunione nella quale re
Zahir Shah ha incontrato esponenti dell' opposizione afghana assieme ad alcuni
membri dell' Alleanza del Nord. «Il patto è chiaro: creare un primo gabinetto
che comprenda esponenti di vari gruppi». Non è la loya jirga di cui si parla
tanto, l' antico consiglio supremo, ma l' abbozzo di un futuro governo
trasversale. Amici e nemici, tutti attorno a un tavolo? Il re negozia con l'
Alleanza del Nord, mentre i pashtun sgomitano per avere la loro parte. E anche i
talebani, perché no? La novità, nel gioco delle alleanze, è proprio questa:
individuare le ali «moderate» con cui poter trattare e alle quali offrire future
responsabilità. Il ministro degli esteri Muttawakil? Il capo delle operazioni
militari Jaluddin Haqqani? A Peshawar si hanno idee diverse sul ruolo dei
fondamentalisti. Zaman non si perde in dettagli: «A Kabul ci sono migliaia di
studenti coranici pronti a rovesciare il regime». Riunioni pubbliche, contatti
segreti, trame all' ombra degli americani. A Peshawar passa di tutto in questi
giorni. Ma ancora una volta si aspetta che siano gli Stati Uniti a legittimare
azioni «parallele» contro il regime di Kabul. Denaro e armi, in altre parole.
Ogni gruppo cerca di accaparrarsi la sua parte. Per il momento, è solo un'
attesa: «Ho incontrato sia esponenti del congresso americano sia del Pentagono dice Mohammed Zaman -. Tante promesse, ma non abbiamo ancora ricevuto un soldo».
Qualcosa sarebbe invece già arrivato nelle mani di un altro veterano della
Jihad, il comandante Abdul Haq, eroe di guerra con un piede perso in battaglia,
residenza e affari miliardari a Dubai. Anche lui recluta combattenti, tratta con
i dissidenti, prepara la fronda ai talebani. Il suo piano d' intervento, una
rivolta nazionale fomentata dal basso, è stato tradito dai bombardamenti
statunitensi: «Stavamo procedendo velocemente», dice. Abdul Haq nega di aspirare
alla carica di primo ministro, così come di aver ricevuto soldi dall' America:
«Hanno detto che sono stato pagato da Washington, dall' intelligence pakistana,
dall' Iran. La verità è che non ho visto un centesimo, mentre le bombe
occidentali sui talebani rischiano di creare nuovi consensi attorno al regime».
Anche lui è amico del re. Anche lui è convinto che bisogna creare una struttura
politica sulla quale fondare un nuovo esercito. Ma l' ordine è di aspettare. La
rete degli oppositori è fittissima. Amici, nemici, non ha importanza. Tutti
assieme in attesa del banchetto finale. Gruppi e fazioni, con la benedizione di
anziani e capi tribali, intensificano le attività diplomatiche sulla rotta RomaPeshawar. Ancora il re. Dopo la delegazione inviata da Zahir Shah in Pakistan
nei giorni scorsi, oggi sono gli afghani a muoversi. Un gruppo di monarchici
arriva in Italia a trattare con il vecchio sovrano. Massimo A. Alberizzi Maria
Grazia Cutuli
Documento 282 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 21/10/2001 NUMERO
Dom PAGINA 006
OCCHIELLO LA PORTAVOCE DELL' ONU
TITOLO «I profughi sono già decine di migliaia per i Paesi donatori restano
fantasmi»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
GENERE intervista
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. profughi. aiuti umanitari. dichiarazioni
Corinne Perthuis, portavoce dell' Unhcr,
PERSONAGGI Perthuis Corinne
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE IN FUGA Padre e figlio
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LA PORTAVOCE DELL' ONU «I profughi sono già decine di migliaia per i Paesi
donatori restano fantasmi» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - I profughi afghani
continuano a riversarsi alle frontiere. Anche ieri migliaia di anziani, donne,
bambini in fuga dai bombardamenti anglo-americani hanno passato il confine
clandestinamente, entrando in Pakistan dal Beluchistan o dalle aree tribali
attorno a Peshawar. Fantasmi senza status e senza nome. Ufficialmente non
esistono. Tanto il governo del Pakistan quanto i donatori internazionali si
rifiutano di riconoscere che l' emergenza umanitaria è già cominciata. «Le
frontiere restano chiuse. Ogni giorno chiediamo che vengano aperte, che si
proceda alla registrazione dei nuovi arrivati, alla distribuzione degli aiuti dice Corinne Perthuis, portavoce dell' Unhcr, l' Alto commissariato Onu per i
rifugiati a Peshawar -. Ma non siamo ancora stati autorizzati a intervenire».
Rimangono abbandonati a se stessi? «Non solo. L' esodo ha fatto fiorire traffici
e corruzione. C' è chi si occupa degli spostamenti, dei trasporti, dei passaggi
di frontiera. Tutto a danno dei rifugiati». Quanti sono i nuovi arrivati? «Il
ministro degli Interni del Pakistan stima 2 mila arrivi al giorno. Dall' inizio
della crisi, 60 mila persone avrebbero passato il confine, ma si tratta di una
proiezione aritmetica. L' unica certezza è che non possiamo più considerarli
profughi invisibili. Sono sotto gli occhi di tutti». Che cosa fa l' Unhcr per
aiutarli? «Abbiamo cominciato a muoverci una settimana fa. Non ci importa che
vengano riconosciuti come rifugiati. Stiamo preparando una strategia che ci
permetta comunque di soccorrerli». In che modo? «Abbiamo diviso la regione di
Peshawar in nove aree. In ciascuna, i nostri team stanno verificando quante
persone sono arrivate veramente dall' Afghanistan. E da qui partiremo, per
preparare i primi interventi sanitari. Poi passeremo alla scolarizzazione e alla
distribuzione degli aiuti». Significa che fino ad ora non è stata prevista
nessuna assistenza? «I nostri programmi umanitari in Pakistan sono stati sospesi
sei anni fa, quando il governo ha decretato che i vecchi profughi afghani si
erano ormai integrati». L' anno scorso ci sono stati nuovi arrivi. Come siete
intervenuti? «Con programmi d' emergenza e niente di più. Ma tutto si è
fermato». Ogni giorno davanti ai vostri cancelli ci sono decine di persone che
consegnano delle lettere. Chiedono assistenza? «Spesso sono vecchi profughi che
si spacciano per nuovi e sperano di ottenere qualcosa. Per evitare problemi
abbiamo deciso che i prossimi interventi andranno a tutti gli afghani
indipendentemente dalla loro data d' arrivo». Dove vivranno i nuovi profughi?
«Si distribuiscono in parte nei vecchi campi, in parte presso le famiglie.
Possiamo solo sperare che le strutture esistenti riescano ad assorbirli». Il
governo ha previsto nuovi campi nell' area tribale. Quando saranno pronti?
«Continuiamo a ispezionare i siti, ma è una follia. Bisogna passare decine di
check point, superare ogni giorno nuovi ostacoli burocratici. L' area tribale è
una regione fuori controllo: dovremmo creare campi profughi a due passi dal
confine afghano, con i talebani arroccati sulle montagne». Il governo vi chiede
di operare all' interno dell' Afghanistan. Riuscite a fare qualcosa? «L' ultimo
dipendente dell' Unhcr rimasto in Afghanistan, un locale, ha lasciato Jalalabad
ieri con la famiglia. La città è ormai deserta, come Kandahar e Kabul. Il
Programma alimentare dell' Onu manda camion con gli aiuti, ma li consegna al
governo». E gli appelli lanciati ai donatori? «Non hanno funzionato. Abbiamo
chiesto 50 milioni di dollari (oltre 100 miliardi di lire) per assistere 300
mila persone. Ne abbiamo ricevuti 12. I donatori, Stati Uniti in testa,
continuano a dire che la nostra stima (un milioni di rifugiati pronti a passare
la frontiera) è gonfiata. Per la comunità internazionale l' emergenza non
esiste». M. G. C.
Documento 283 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 22/10/2001 NUMERO
Lun PAGINA 005
OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO. I CIVILI Sabato le autorità hanno aperto la
frontiera per qualche ora: in un solo giorno sono passati in 5 mila Nelle
principali città afghane mancano l' acqua e la luce. Sei milioni di persone
hanno urgente bisogno di cibo e vestiti
TITOLO I profughi tirano pietre, la polizia spara
SOMMARIO A migliaia bloccati al confine con il Pakistan. L' Onu pensa di
chiedere la sospensione dei raid
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, profughi
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. profughi. situazione rifugiati. scheda: "Un
popolo in fuga"
LOCALITA' SOGGETTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE PANE AMARO Rifugiati afghani nei dintorni di Islamabad
Pawel KopczynskiReuters, T
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ATTACCO AL TERRORISMO I CIVILI Sabato le autorità hanno aperto la frontiera per
qualche ora: in un solo giorno sono passati in 5 mila Nelle principali città
afghane mancano l' acqua e la luce. Sei milioni di persone hanno urgente bisogno
di cibo e vestiti I profughi tirano pietre, la polizia spara A migliaia bloccati
al confine con il Pakistan. L' Onu pensa di chiedere la sospensione dei raid DAL
NOSTRO INVIATO PESHAWAR - L' Afghanistan è una trappola, un' immensa prigione
dai cancelli chiusi. Ancora profughi alla frontiera. Ancora un tentativo o una
speranza di potere lasciare il Paese per entrare in Pakistan. Ieri, la folla che
premeva al posto di frontiera di Chaman, nel Beluchistan, si è trovata in mezzo
a due fuochi: i talebani alle spalle, le guardie pakistane davanti. Erano in 600
a chiedere di passare, anziani, donne, bambini provenienti da Kandahar, la
capitale morale degli integralisti, martellata giorno e notte dai bombardamenti
americani. Sono volati sassi tra i rifugiati, dall' altra parte proiettili.
Doveva essere un avvertimento, colpi sparati in aria. Ma un ragazzo di 13 anni è
rimasto ferito e due guardie pakistane sono rimaste colpite durante la
sassaiola. La tensione è altissima. Già sabato, per far fronte alla nuova ondata
di disperati in fuga dai bombardamenti, le autorità di frontiera di Chaman
avevano deciso di aprire temporaneamente il confine. Secondo le stime dell'
Unhcr, l' Alto commissariato Onu per i rifugiati, in un solo giorno 5 mila
afghani sarebbero riusciti a passare il confine. Ma solo a Chaman ne rimangono
altri 10-15 mila bloccati dalle autorità. Cortei di profughi si vedono anche
nella zona di Torkham, punto di passaggio della North West Frontier, oltre l'
area tribale nei dintorni di Peshawar. A Chaman arrivano gli abitanti di
Kandahar, mentre a Peshawar quelli di Kabul. Migliaia di persone in cerca di
alloggio e di cibo, si consegnano in mano alle mafie locali per essere
trasportate fino alle città. Nonostante il confine chiuso, i passaggi
clandestini continuano a pieno ritmo. Nell' uno e nell' altro senso. Si
tratterebbe, secondo fonti delle Nazioni Unite, di profughi che ritornano
indietro per rintracciare i parenti dispersi lunga la fuga. Nel caos sono
rimaste divise intere famiglie. Poco importa che nelle principali città dell'
Afghanistan manchi l' acqua e la luce, che scarseggi il cibo, che 6 milioni di
persone abbiano urgente bisogno di viveri e aiuti. Niente si sblocca sul fronte
umanitario. Il Pakistan, dove aver aperto sabato la frontiera per qualche ora,
l' ha richiusa per tutta la giornata di ieri, senza promettere o garantire
accoglienza a chi fugge dalla guerra. Anche la comunità internazionale rimane
sorda agli appelli. Le Nazioni Unite, con un gesto senza precedenti, si
preparano a chiedere una sospensione dei raid aerei sulle principali città
afghane per tentare almeno di riprendere i programmi di assistenza all' interno
del Paese. Ma la richiesta, avanzata qualche giorno fa dalle organizzazioni non
umanitarie, rischia di far esplodere l' ennesima controversia politica. E' stato
il ministro britannico agli aiuti internazionali Clare Short a dichiarare nei
giorni scorsi che non c' è un rapporto di causa ed effetto tra le bombe e l'
incapacità delle agenzie umanitarie di distribuire gli aiuti. La stessa
amministrazione americana ha ribadito che i raid andranno avanti, che nessuna
tregua è prevista. In altre parole, che la rete umanitaria si organizzi in modo
diverso. Come, è difficile dirlo. Gli staff internazionali sono stati evacuati
da tempo, le maggiori sedi delle agenzie internazionali sono state saccheggiate
o sigillate dai talebani, il personale locale minacciato. Il Programma
alimentare dell' Onu (Pam) continua a spedire convogli in Afghanistan, ma
restano comunque tagliate fuori le aree più remote del Paese. Ed è difficile
verificare, per la mancanza di comunicazione, a chi finiscano veramente gli
aiuti. L' ultimo ostacolo sono gli autisti: ce ne sono sempre di meno, racconta
Michel Huggings, portavoce dell' agenzia Onu, disposti a guidare sulle piste
afghane sotto i bombardamenti e senza contatti radio. Anche il carburante
potrebbe diventare un problema. I prezzi salgono, mentre benzina e diesel
spariscono dall' Afghanistan. M.G.C. Un popolo in fuga PROFUGHI Il grande esodo
afghano risale all' occupazione sovietica (1979-89). Secondo l' Alto
commissariato per i rifugiati dell' Onu (UNHCR), oggi più di 2 milioni di
afghani risiedono in Pakistan e altri 2 milioni in Iran CONFINI L' UNHCR calcola
che dall' 11 settembre circa 15-20 mila profughi siano riusciti a passare
illegalmente il confine con il Pakistan. Venerdì scorso le autorità di frontiera
hanno aperto temporaneamente il valico di Chaman: sono passate 5.000 persone in
un giorno PREVISIONI L' UNHCR stima in 1 milione i «profughi potenziali» diretti
in Pakistan, più 400 mila in Iran e 100 mila fra Turkmenistan e Tagikistan
Documento 284 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 22/10/2001 NUMERO
Lun PAGINA 005
OCCHIELLO IL REPORTAGE. RECLUTE PAKISTANE
TITOLO Il megafono del mullah chiama alle armi
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, religione musulmana
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. in Pakistan i mullah e i partiti religiosi
reclutano volontari filo talebani
LOCALITA' SOGGETTO PAKISTAN
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE ALLAH E' GRANDE Una riunione di sostenitori dei talebani
in una moschea di Peshawar, in Pakistan (Zainal Abd Halim / Reuters)
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Il megafono del mullah chiama alle armi DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Sangue,
soldi, braccia per la Jihad. «Venite fratelli, versate il vostro contributo e
Allah vi ricompenserà». Sulle arterie principali di Peshawar, megafoni e
striscioni suonano la grancassa della mobilitazione. La macchina propagandistica
dei mullah pakistani ha montato campi di reclutamento, baracchini e ospedali a
cielo aperto per registrare donazioni e disponibilità. Un primo punto di
raccolta è a ridosso del Jinnah Park, i giardini pubblici intestati al padre
della nazione. Sono un paio di banchetti, presieduti da zelanti attivisti con il
turbante nero, dove si promettono arruolamenti per chi vuole combattere con i
talebani. Basta dare nome, indirizzo, numero di telefono. «E la chiamata
arriverà». Scribacchini barbuti prendono nota su un quadernone da scuola
elementare. «Per oggi siamo a 300». Avanti un altro. «Ecco, i nostri volontari
per l' Afghanistan». Attaccate alle assi di legno immagini di mitra, spade dell'
Islam, foto di martiri kashmiri dai corpi straziati. Sfaccendati e poveri
straccioni sporgono il naso a spiare chi partirà. Agenti politici si accarezzano
il gilet. Venditori ambulanti si trascinano in spalla fondine di pistola e gilet
mimetici. Si fa avanti un aspirante combattente, felice di potersi
autodenunciare. Si chiama Nasir Ahmed, è un afghano di 20 anni dalla faccia
lunga e triste, emigrato a Peshawar lo scorso inverno per vendere vestiti al
bazaar. Racconta: «Ho già combattuto con i talebani, nel 1996, quando abbiamo
conquistato Kabul. Da lì vengo e lì voglio tornare per difendere il mio Paese
dagli americani». Altri danno soldi, poche rupie a testa, a fine giornata non
sono nemmeno cento dollari, un mucchietto di banconote su un telo blu, ma «è il
gesto che vale» dicono i mullah. I partiti religiosi, come il Jamiat Ulema
Islam, contano sulle associazioni giovanili per tenere alta la propaganda filo
talebani. Studenti religiosi e soprattutto studenti laici per dimostrare che è
il popolo intero a volere la Jihad. Ma le trincee afghane, passaporto per i
paradisi di Allah, sono ancora lontane. «Il nostro obiettivo è reclutare 50 mila
guerriglieri - dice Obeid Kureish, un pakistano di 22 anni che si occupa degli
arruolamenti -. Quando avremo raggiunto questa cifra chiuderemo le iscrizioni».
Traguardo vicino: ne avrebbero registrati 40 mila. Lavoro assiduo, ma forse
inutile. I primi 2 mila combattenti mandati in Afghanistan, sono stati rispediti
indietro. «I talebani non li hanno voluti. Hanno problemi a sostenere i propri
soldati, per poterne mantenere altri. Ma ci hanno assicurato che quando
comincerà la vera invasione di terra delle truppe americane ci chiederanno
aiuto». Gli agit-prop procedono comunque: cercano forze giovani da mandare sul
terreno. Età degli iscritti: dai 22 anni ai 30. Professione: studenti,
commercianti, pochi sarebbero i nullafacenti. «Li abbiamo divisi in tre
categorie. La prima comprende quelli che hanno già combattuto in Kashmir e in
Afghanistan. Saranno organizzati in commandos e mandati in prima linea. Ci sono
poi i soldati semplici, con minore esperienza, e per finire i ragazzi che non
hanno mai partecipato a nessuna guerra. All' inizio rimarranno nelle retrovie,
man mano impareranno dai più anziani». Se l' appello dovesse scattare, assicura
l' arruolatore, basteranno 24 ore a spedire i volontari oltre frontiera. «Il
distretto di Peshawar è stato diviso in nove zone e ogni zona con un suo capo,
capace di trasmettere immediatamente l' ordine di mobilitazione». Partiranno a
mani nude: kalashnikov e bazooka saranno consegnati al di là del confine. Patto
di sangue con i talebani? Sulla strada di Ayat Abad, la township degli afghani,
davanti alla facciata di una grande moschea in costruzione, ecco aprirsi un'
improvvisata corsia d' ospedale. Sui lettini di legno e rafia, disposti a
quadrato ai bordi della strada, si rilassano una mezza dozzina di donatori di
plasma, con la manica ancora sollevata e un batuffolo di cotone a tamponare la
puntura. «Dono il mio sangue ai fratelli musulmani - dice con una certa enfasi
Omar Bareshi, autoqualificatosi come presidente di un' associazione di studenti
laici -. E' per Osama, è per i feriti, è per la nostra madre patria». C' è anche
un' ambulanza parcheggiata tra bancarelle di frutta, un medico - il dottor
Aklhaq Ahmad - e degli infermieri che si passano da una mano all' altra sacche
di sangue. Quindici donatori alle 11 del mattino. Aghi e siringhe buttati dove
capita, tra mosche e rifiuti. «Il sangue viene analizzato contro l' Hiv, l'
epatite, altre malattie - assicura il medico -, e poi consegnato al consolato
afghano che lo recapiterà ai talebani». Forse questo arriverà prima dei
combattenti. I megafoni insistono: «Fratelli musulmani date il vostro contributo
e Allah vi ricompenserà». Maria Grazia Cutuli
Documento 285 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 23/10/2001 NUMERO
Mar PAGINA 009
OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO I CIVILI Nel Nord, attraverso l' area tribale,
entrano a centinaia ogni giorno senza alcun controllo da parte delle autorità
Secondo il governo, l' Onu deve distribuire aiuti all' interno del Paese
bombardato per impedire alla gente di fuggire
TITOLO Il Pakistan fa muro: «Niente profughi»
SOMMARIO Ancora scontri tra guardie di frontiera e afghani che tentano di
superare il filo spinato. Islamabad rifiuta di aprire i confini e di registrare
la presenza delle migliaia di rifugiati illegali
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, profughi
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. situazione profughi
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE TERRA DI NESSUNO Profughi afghani tentano di passare il
confine con il Pakistan nella zona di Chaman. Sono stati presi tra i due fuochi
dei talebani e delle guardie di frontiera pakistane Zia Mazha/Ap
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Il Pakistan fa muro: «Niente profughi» Ancora scontri tra guardie di frontiera e
afghani che tentano di superare il filo spinato DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - L'
Onu denuncia: «Duecentosessanta famiglie arrivate nel campo di Jalozai». Le
autorità pakistane negano: «Nessun profugo nuovo da queste parti». Sembra una
commedia dell' assurdo ed è invece uno scontro politico. Ore 12 del mattino,
periferia di Peshawar. Il peggiore dei mondi possibili, il campo di Jalozai, una
distesa di teloni di plastica, tende costruite con stracci, acquitrini
maleodoranti, fogne a cielo aperto, è custodito dai soliti poliziotti in divisa.
Da settimane continuano ad arrivare centinaia di persone in fuga dall'
Afghanistan. Ma per entrare, qui come in altri campi, ci vuole un'
autorizzazione speciale, difficile da ottenere. Ogni notizia viene filtrata all'
entrata. «Nessun profugo nuovo», insistono i responsabili del campo. E i dati
dell' Onu sui rifugiati? Gli afghani che si incontrano in città? Non esistono,
non ci sono. E se ci sono, non figurano come tali. All' Afghan Refu gees
Commissariate, l' organismo locale che da oltre vent' anni sorveglia i campi,
non ci sono funzionari autorizzati a parlare con la stampa. L' unico che lo fa,
chiede l' anonimato: «L' Alto commissariato Onu continua a dire che 1000 afgani
passano la frontiera ogni giorno. Dove sono? Dove vanno? Entrano illegalmente, e
pertanto non possono essere considerati profughi». Ancora la commedia dell'
assurdo. Poi l' uomo ammette: «Sì, qualcuno arriva in Pakistan, ma non più di 20
o 30 famiglie al giorno». Il problema è un altro: «Abbiamo due milioni di vecchi
rifugiati in questa zona, quelli arrivati dal 1979 in poi, gestiamo 48 campi e
siamo al limite. Non possiamo permettere nessuna altra entrata». A 16 giorni
dall' inizio dei bombardamenti angloamericani sull' Afghanistan, le frontiere
pakistane continuano a rimanere chiuse. A Peshawar funziona. Chi vuole entrare,
può farlo comunque attraverso le aree tribali, amministrate dai capi locali,
senza alcun controllo da parte del governo federale. Più giù, a Chaman, la terra
di nessuno si apre in pieno deserto. Quelli che scappano da Kandahar sono da
giorni intrappolati sotto il sole, chiusi tra le milizie integraliste e le
guardie di frontiera. Quindicimila persone, secondo l' Unhcr. Ieri sono passati
in mille, buttandosi contro il filo spinato, sfondando la frontiera, tirando
sassi. I talebani hanno tentato di fermarli a bastonate, le guardie pakistane
sparando in aria, ripetendo gli stessi scontri del giorno prima, durante i quali
sono rimaste ferite cinque persone. Ma a fine giornata, il portavoce del
ministro degli Esteri Riaz Muhammed Khan ribadiva: «La scelta giusta è tenere
chiuse le frontiere. Il Pakistan non può permettersi un flusso massiccio di
nuovi rifugiati». I rappresentanti del governo ripetono la stessa musica: l' Onu
deve occuparsi di distribuire gli aiuti all' interno dell' Afghanistan per
impedire alla gente di fuggire. E le bombe? L' emergenza continua a essere
negata. A Peshawar molti dei nuovi arrivati scompaiono nelle case di Hayat Abad,
il quartiere afghano, ospitati da parenti e amici. Nessuno li registra, nessuno
li scheda, nessuno li vede. Altri si accampano dove possono. A ridosso di Nasir
Bagh, un altro insediamento creato dai vecchi rifugiati, tra case di fango,
mercati puzzolenti, canali di scarico, ce ne sono un migliaia che hanno trovato
alloggio in un fazzoletto di terra, nascosto dietro un cancello e una muraglia
terrosa. Lo spazio appartiene a un proprietario terriero dell' area tribale. Per
restare lì, gli afghani pagano 200 rupie al mese, quasi ottomila lire, un
piccolo capitale da queste parti. L' emergenza umanitaria passa al libero
mercato. M.G.C.
Documento 286 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 23/10/2001 NUMERO
Mar PAGINA 009
OCCHIELLO FRONTE UMANITARIO
TITOLO Dal chirurgo ai volontari: gli italiani in prima linea
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, profughi
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. aiuti umanitari alla popolazione civile.
scheda: gli aiuti (organizzazioni presenti sul territorio e in Pakistan)
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE T gli aiuti. CIBO. Bambini afghani mangiano in un campo
di Jalalabad
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FRONTE UMANITARIO Dal chirurgo ai volontari: gli italiani in prima linea DAL
NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Qualche settimana fa lo si vedeva con il passo nervoso
di sempre, nella hall del Pearl Continental di Peshawar a cercare il modo per
rientrare in Afghanistan. Dopo la chiusura del suo ospedale di Kabul, per mano
della polizia religiosa dei talebani, dopo lo scoppio della crisi con gli Stati
Uniti, tutte le strade sembravano chiuse. Poi ce l' ha fatta. Gino Strada, il
chirurgo italiano di Emergency, è tornato. Stavolta sulla linea del fuoco, nel
suo primo ospedale, costruito ad Anabah all' ingresso della valle del Panshir,
nei territori controllati dall' Alleanza del Nord. Ha ancora il passo nervoso,
ma ogni mattina respira aria di guerra. Proiettili e schegge da estrarre. Feriti
da mina da operare. Mu ja hed din da rianimare. Tra gli italiani coinvolti nelle
attività umanitarie della regione, Gino Strada è il più conosciuto. Il volto
mediatico dell' emergenza. Si sono raccolti fondi per i suoi ospedali. Si sono
lanciate campagne per sostenere le sue attività. Una sorta di console del nostro
governo. Ma ci sono altri, una decina o poco più, che in questa crisi giocano
ruoli chiave. Alberto Cairo, per esempio. Un piemontese dal volto scavato, barba
brizzolata, occhialini di metallo. Il suo centro di Kabul, un laboratorio dove
si producono protesi per i mutilati di guerra, è diventato in pochi anni una
delle strutture più efficienti della città. Nemmeno i talebani, generalmente
diffidenti verso gli operatori umanitari, hanno mai avuto da ridire sul lavoro
di questo fisioterapista dal carattere schivo, arrivato in Afghanistan 12 anni
fa come funzionario del Comitato della Croce Rossa internazionale. L' hanno
lasciato fare, affidando alle sue mani i moncherini dei loro parenti, degli
ufficiali, dei civili che incappavano sulle mine abbandonate nel Paese. Un
asceta, Cairo. Dodici ore di lavoro al giorno, serate in casa, nessuna
apparizione nel club degli espatriati. «Più afghano degli afghani», dicono gli
amici. Più contrariato di chiunque altro, quando gli è stato ordinato di
lasciare Kabul. Oggi si trova a Faisabad, anche lui nelle aree controllate dall'
opposizione, a fabbricare protesi in un nuovo laboratorio della Croce Rossa. Ad
Islamabad ha lasciato un collega, Mario Musa, il portavoce dell' organizzazione,
impeccabile nei suoi gilet di taglio locale, ciuffo alla Di Caprio sulla fronte.
Nato a Como 32 anni fa, Musa è passato da Jaffna, nello Sri Lanka dei Tamil, al
Congo Brazzaville durante la guerra civile, prima di arrivare in Afghanistan. A
Kabul si occupava di «comunicazione». «Avevano ottenuto uno spazio su Radio
Sharia, la radio dei mullah, per far passare messaggi in difesa dei diritti
umani». Tra una fatwa e l' altra, si era inventato persino una soap opera
«didattica» ambientata in un villaggio afghano. In Pakistan, rilascia
interviste: savoir faire e volto perfetto per la tivù. Rambo e burocrati, star e
cervelli. Tra gli italiani si intrecciano vocazioni diverse. Antonio Donini è
per esempio la vera eminenza dell' emergenza. Nato a Trento 55 anni fa,
cresciuto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia, dovunque lo portasse
il padre, direttore dell' istituto italiano di cultura, Donini coordina tutte le
attività umanitarie dell' Onu per l' Afghanistan. Vive a Islamabad, parla
italiano con accento inglese, ha sempre un sorriso sornione sotto i baffi e un
collegamento costante con New York. Con lui lavora una donna: Letizia Rossano,
34 anni, trasferita in Pakistan due anni e mezzo fa con figlia e marito. Un
altro italiano ai vertici è Filippo Grandi, responsabile dell' Alto
commissariato per i rifugiati nella regione. Gli anni scorsi l' avevano visto a
Goma, nell' ex Zaire, a gestire l' emergenza seguita al genocidio ruandese. Poi
è passato al quartier generale, come assistente di Sadako Ogata. Oggi è di nuovo
in prima linea, sempre in viaggio tra Pakistan e Iran, i due Paesi sui quali
rischiano di riversarsi maree di nuovi rifugiati. Pochi i volontari delle
organizzazioni non governative. Giorgio Tarditi, 29 anni, responsabile dei
progetti di Coopi, è arrivato sei mesi fa in Afghanistan, dopo essere passato
per il Congo, il Ruan da e il Kosovo. Oggi ha lasciato gli staff locali a
gestire i programmi sanitari e si è trasferito a Pesha war, dove lavora alla
costruzione dei nuovi campi profughi. Bombe o non bombe, anche lui vorrebbe
tornare in Afghanistan. Maria Grazia Cutuli Gli aiuti ONU In Afghanistan operano
due agenzie dell' Onu: l' Unicef (il Fondo delle Nazioni Unite per l' infanzia)
e l' Unhcr (l' Alto commissariato Onu per i rifugiati). Il Pam (Programma
alimentare mondiale) provvede a distribuire cibo alla popolazione CARITAS L'
organizzazione umanitaria cattolica si occupa in Afghanistan soprattutto dell'
assistenza ai profughi CROCE ROSSA Raccoglie e porta aiuti per l' assistenza
sanitaria, ma anche per procurare tende e alimenti ai profughi BAMBINI Degli
aiuti all' infanzia si occupano in particolare le organizzazioni non governative
«Save the children» e «Terre des hommes» FERITI In Afghanistan operano medici e
infermieri di Emergency (fondata dall' italiano Gino Strada, nella foto) e
«Medici senza frontiere»
Documento 287 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 24/10/2001 NUMERO
Mer PAGINA 003
OCCHIELLO L' APPELLO DI MEDECINS SANS FRONTIERES
TITOLO «Non possiamo distribuire aiuti mentre attaccano»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. aiuti umanitari. profughi. dichiarazioni di
Diderik Zan Helsema, portavoce di Médecins sans frontières. appello per una
tregua
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
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L' APPELLO DI MEDECINS SANS FRONTIERES «Non possiamo distribuire aiuti mentre
attaccano» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - «Non vogliamo credere che siano i
civili l' obiettivo di questa guerra. Ma siamo molto preoccupati. Ogni giorno
vediamo peggiorare le condizioni di sicurezza all' interno dell' Afghanistan».
Diderik Zan Helsema, portavoce di Médecins sans frontières (Medici senza
frontiere) in Pakistan, commenta i bombardamenti sull' ospedale di Herat,
denunciando la mancanza di regole e di garanzia per chi svolge attività
umanitaria. «Siamo abituati a lavorare in guerra, ma qui gli spazi d' intervento
continuano a ridursi. Non possiamo distribuire cibo e medicinali assieme alle
bombe». Le organizzazioni umanitarie hanno chiesto un cessate il fuoco. Vi siete
uniti all' appello? «Capiamo i motivi, ma abbiamo deciso di non fermare la
richiesta. Un mese di tregua non è sufficiente ad assicurare assistenza
umanitaria in tutto il Paese». Senza interferenze? «Se qualcuno pretende di
condizionare o controllare gli aiuti, rischiamo di perdere la fiducia della
gente». Nei giorni scorsi sono state bombardate le sedi di agenzie umanitarie.
E' un errore? O i talebani hanno spostato armi pesanti vicino a strutture
civili, trasformandole in bersagli? «La situazione è molto caotica. Siamo stati
avvertiti del rischio che i talebani spostassero le armi pesanti vicino alle
strutture umanitarie. Ma non abbiamo prove. Sappiamo solo che alcuni dei nostri
depositi sono stati sigillati. Se siano stati i talebani o altri, gli arabi per
esempio, è difficile dirlo. Ma non è questo che ci preoccupa: siamo disposti a
correre rischi, ma abbiamo bisogno di garanzie». M.G.C.
Documento 288 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 25/10/2001 NUMERO
Gio PAGINA 008
OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO FRONTE POLITICO Un fronte formato in maggioranza
da pashtun delusi dalle milizie coraniche pronti a far tornare l' ex re Zahir
Shah In tutto un migliaio di dissidenti disposti a trattare anche con le altre
etnie (uzbeka, tagika e hazara) raggruppate al Nord
TITOLO I capi tribù lanciano l' Alleanza del Sud
SOMMARIO Nasce in Pakistan una nuova opposizione ai talebani: «Salveremo noi l'
Afghanistan»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afganistan. nuovo fronti anti talebani , guidato da Pir
Sayed Ahmed Gailani, che raggruppa dissidenti ed esuli e sostiene il ritorno del
re.
PERSONAGGI Gailani Pir Sayed Ahmed
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
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I capi tribù lanciano l' Alleanza del Sud Nasce in Pakistan una nuova
opposizione ai talebani: «Salveremo noi l' Afghanistan» DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - Pir Sayed Ahmed Gailani, immobile nell' abito nero dai galloni
dorati, l' espressione ieratica, uno zuccotto d' astrakan in testa, troneggia
come un cardinale sul palco montato nella Nishtar Hall di Peshawar. E' un ex
capo mujaheddin, imparentato con il re dell' Afghanistan, discendente di
Maometto, leader di una setta sufi. L' uomo con il carisma adatto a
rappacificare le litigiose anime dell' etnia pashtun. Un migliaio di capi
tribali, esponenti politici, vecchi comandanti dai turbanti di seta, le barbe
colorate di henné, i visi bruniti dai tratti orientali, non gli tolgono gli
occhi di dosso. «Fratelli, l' Afghanistan oscilla tra la vita e la morte - dice
Gailani con tono profondo -. Uniamo le nostre mani. Facciamo uno sforzo per
fermare le operazioni militari e procedere alla ricostruzione del nostro Paese».
La platea si alza in piedi. Braccia in alto, dita che si intrecciano. Un urlo
comune: «Uniamo le nostre forze». Nasce così nei territori del nord-ovest
pakistano, durante una grande assemblea corale che si concluderà oggi, l'
Alleanza del Sud: un nuovo fronte, formato da dissidenti ed espatriati afghani,
che dovrebbe spianare la strada al ritorno di re Zahir Shah in Afghanistan e
alla prossima leadership di Kabul. Il governo pakistano ha offerto la sede per
la conferenza. Gli Stati Uniti hanno dato l' assenso. Tra i personaggi che
affollano la sala mancano gli ospiti più importanti. Gailani è appena stato a
Roma a garantire fedeltà all' ex sovrano, ma la promessa delegazione del re non
si è presentata. La platea è delusa. «Tutta questa gente è venuta qui solo per
incontrare i messaggeri del monarca», borbotta qualcuno. L' Alleanza del Nord,
il vero fronte combattente dell' opposizione, ha mandato un solo esponente.
Ufficialmente disertano pure i talebani «moderati», anche loro invitati alla
conferenza: ci sono solo un paio di funzionari di basso rango, nascosti tra la
folla. Ma per Gailani è comunque un successo: «Non pensavamo di poter mettere
assieme i membri di tante fazioni - dice il figlio Ahmed -. Sono presenti tutti
i segmenti dell' opposizione afghana». E' questa la sfida del «pir» Gailani, l'
«uomo pio» delle gerarchie islamiche: lanciare un appello all' unità che
comprenda anche esponenti delle milizie di Allah. La platea si spacca: «I
talebani non hanno soddisfatto le aspettative della gente», dice Qazi Mohammed
Amin Waqad, uno dei leader storici della jihad contro i russi. «Se ne tornino
nelle scuole coraniche», aggiunge l' esponente di un altro partito. Asad Ullah,
uno dei talebani in incognito, ascolta senza scomporsi: «Sono venuto qui di mia
iniziativa, ma questo non significa che ci sia una spaccatura all' interno del
nostro movimento. I talebani sono uniti e per niente disposti a cedere il potere
a re Zahir Shah». Se l' ex sovrano vuole tornare in Afghanistan - è la posizione
degli integralisti - lo faccia, ma sotto la legge coranica. L' altro nodo è il
ruolo dell' Alleanza del Nord, rappresentata da uzbeki, tagiki, hazara. Il re,
secondo notizie arrivate da Roma nei giorni scorsi, avrebbe già preparato un suo
gabinetto, formato da 120 membri: 50 scelti da lui, 50 dall' Alleanza, il resto
di etnia pashtun. Gailani padre tace. Mentre il figlio sbotta: «Non se ne parla
nemmeno. E' impensabile che l' Alleanza prenda una quota così ampia». L'
assemblea di Peshawar, dominata dai pashtun, ha un' altra agenda: stop ai
bombardamenti americani sull' Afghanistan, formazione di un governo di tecnici
in cui vengano rappresentate tutte le componenti dell' opposizione, preparazione
di una nuova Costituzione in linea con la religione islamica. Pir Sayed Ahmed
Gailani insiste sulla «loja jirga», l' antico consiglio degli anziani, e chiede
che a guerra finita intervenga una forza Onu. E ha anche un programma di lotta:
«Gli studenti coranici che condividono le nostre idee dovrebbero avvicinarsi a
noi». E' questo l' incarico dell' Alleanza del Sud: far pressione sui comandanti
locali, spingere alla defezione, preparare una rivolta dal basso. Delegati al
compito due vecchie glorie della jihad: Abdul Haq e Haji Mohamed Zaman. Il primo
non si vede alla conferenza di Peshawar. Sarebbe appunto in Afghanistan, a
Jalalabad, a preparare il terreno per le diserzioni. L' altro partecipa e si
schiera con l' assemblea. Piccole trame del «grande gioco»? Dietro gli sforzi di
Pir Sayed Ahmed Gailani c' è il tentativo di far largo alla componente pashtun
che rappresenta quasi la metà degli afghani. Ma sul futuro governo del re,
pesano altri attori. L' Iran, per esempio, contrario ai talebani. La Russia,
vicina all' Alleanza del Nord, altrettanto ostile agli integralisti. Il Pakistan
sta dalla parte opposta. Vuole salvare i talebani, di cui è stato sponsor per
anni, mentre preferirebbe veder scomparire i guerriglieri del Nord. Nelle ultime
48 ore è però successo qualcosa che imbarazza profondamente il governo di
Islamabad davanti all' alleato statunitense: durante un raid americano su Kabul
sono stati uccisi guerriglieri pakistani che combattevano con gli integralisti.
Sono i miliziani dell' Herakat el Mujaheddin, una delle associazioni messe al
bando da George Bush. Qualcuno ieri mattina ha tentato di far passare i cadaveri
di sei di loro dal confine di Torkham, vicino a Peshawar, ma i doganieri li
hanno rifiutati. I corpi sono arrivati comunque, attraverso l' area tribale. E
in serata, a Rawalpindi, si preparavano già i funerali dei «martiri di Allah».
Maria Grazia Cutuli
Documento 289 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 26/10/2001 NUMERO
Ven PAGINA 009
OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO. L' AFGHANISTAN
TITOLO I capi antitalebani: «Fermare i raid»
SOMMARIO L' appello dei leader delle tribù afghane riuniti a Peshawar: «Evitare
un vuoto politico a Kabul»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, politica interna
NOTE attaco Usa all' Afghanistan. il primo incontro dell' Assemblea per la pace
e l' Unità nazionale dell' Afghanistan. cronaca
LOCALITA' SOGGETTO Afghanistan
LOCALITA' EVENTO Afghanistan
FOTO, GRAFICI, TABELLE Una ragazzina pakistana con un mitra giocattolo durante
una manifestazione fondamentalista, SAGGI L' assemblea degli anziani riuniti per
la «Conferenza per la pace e l' unità nazionale in Afghanistan», che si è tenuta
ieri e l' altro ieri a Peshawar, in Pakistan, per discutere del dopo talebani
(Shabbir Hussain Imam/Ap)
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I capi antitalebani: «Fermare i raid» L' appello dei leader delle tribù afghane
riuniti a Peshawar: «Evitare un vuoto politico a Kabul» DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - Ogni viso racconta un clan, una tribù, un' idea politica diversa.
Mille e cinquecento persone, strette sui gradoni di una platea, in un ondeggiare
di turbanti di seta, scialli variopinti, barbe fluenti, concludono il primo
incontro dell' Assemblea per la pace e l' Unità nazionale dell' Afghanistan
tentando di pianificare il futuro di un Paese devastato da vent' anni di guerra
e colpito da settimane di bombardamenti americani. Ma non basta un memorandum
finale a garantire l' ottimismo. Nella Nishtar Hall di Peshawar, profughi e
oppositori afghani si ritrovano con gli stessi dubbi che in questi giorni
attanagliano tanto l' amministrazione Usa, quanto le potenze regionali, dall'
Iran alla Russia, dal Pakistan alla Cina. Che cosa ne sarà dell' Afghanistan,
una volta caduto il regime dei talebani? E' davvero così semplice creare un
nuovo governo che si regga su un leader di facciata, come l' ex monarca Zahir
Shah? L' organizzatore della Conferenza, Pir Sayed Ahmed Gailani, il grande
vecchio del fronte monarchico, l' ex capo di un gruppo mujaheddin che da anni
spera nella restaurazione della corona, è costretto al realismo. Troppi
protagonisti sulla scena, troppe etnie in lotta tra loro per poter credere in un
futuro di pace e stabilità. «Le operazioni militari portate avanti dagli Stati
Uniti e dalle forze alleate - recita leggendo la risoluzione finale - potrebbero
causare la caduta dei talebani, ma creeranno un vuoto politico». Un altro bagno
di sangue. Un buco nero che rischia di essere riempito da «un particolare
gruppo». Gailani non lo dice esplicitamente, ma tutti sanno che il nemico è l'
Alleanza del Nord, quell' accozzaglia di fazioni che dal ' 94 combatte contro i
talebani. E' lo stesso timore degli Stati Uniti, che stanno infatti tentando di
rallentare l' avanzata dei guerriglieri su Kabul. I bombardamenti devono finire
al più presto, su questo l' Assemblea concorda. Bisogna preparare il terreno per
una soluzione politica, proteggere la popolazione e prevenire altre distruzioni.
Disarmare Kabul, se necessario, trasformando la capitale in una zona franca. La
risoluzione insiste sulla Loya Jirga, il Consiglio supremo in vigore sotto la
monarchia, «istituzione che fa parte della tradizione e della politica della
nostra nazione», con un aiuto esterno. Quello dell' Onu con una forza di pace.
Quello dell' Organizzazione degli Stati islamici affinché l' Afghanistan non si
smembri, come è successo nei primi anni Novanta, nei feudi dei signori della
guerra. Gailani continua a credere nel re, nella sua capacità di imporre una
«politica moderata e bilanciata», ma sottolinea che l' equilibrio nascerà anche
dalle quote di potere distribuite ai gruppi etnici, primo tra tutti quello
maggioritario pashtun contro i tagiki, gli uzbeki, gli hazara dell' Alleanza del
Nord. Il grande vecchio, austero nell' abito tradizionale di maestro sufi,
avrebbe voluto che a questa conferenza partecipassero gli studenti coranici,
anche loro di etnia pashtun. L' aveva sperato fino all' ultimo. Ma nessuno dei
leader si è presentato. I tre talebani che hanno raggiunto Peshawar preferiscono
restare in incognito. Qasi Amin Waqad, un ex leader della Jihad contro i
sovietici, propone una grande marcia su Jalalabad in Afghanistan. Può sembrare
demagogia, ma per l' Assemblea degli espatriati significa riallacciare un filo
con chi sta dall' altra parte. Si insinua un dubbio: forse il governo degli
integralisti, non è stato il peggiore che l' Afghanistan abbia avuto. Ha
calpestato i diritti umani, è vero. Ma la vera macchia, quella che ha spinto gli
Usa a muoversi, è un' altra. Gailani non cita Osama, né la sua brigata di arabi.
Chiede però «con toni decisi» che «gli stranieri smettano di approfittare dell'
ospitalità degli afghani e lascino subito il Paese». E' la condizione numero uno
per salvare l' Afghanistan. Dall' altra parte arrivano però solo proteste. In
contemporanea alla chiusura del meeting i partiti pakistani filotalebani si
riuniscono in una moschea di Peshawar con l' intento di marciare contro la
Conferenza per la pace e l' Unità nazionale. La polizia li blinda. A fine
mattinata non sono più di un centinaio, ma al centro del bazar rimangono i
baracchini con le foto di Osama e i banchetti per raccogliere soldi a sostegno
della Jihad. Non basta il pugno duro del presidente Pervez Musharraf a zittire
gli estremisti. Tra il Pakistan integralista e l' Afghanistan dei talebani il
corridoio rimane aperto. Una trentina di volontari pakistani sono stati uccisi a
Kabul durante un raid americano. Ieri in occasione dei funerali di una delle
vittime, hanno sfilato in 2 mila per le strade di Karachi, urlando slogan
antiamericani. Tra polizia e manifestanti si è sfiorato lo scontro. Poi è
apparso il fratello del morto a celebrare il sacrificio del martire. Nella
Nishtar Hall Gailani ricorda che non è una Jihad quella che si combatte in
Afghanistan. Solo una guerra civile, ma rischia di lasciare un grande vuoto.
Maria Grazia Cutuli
Documento 290 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 27/10/2001 NUMERO
Sab PAGINA 005
OCCHIELLO IL PERSONAGGIO
TITOLO Giustiziato dai talebani leader dell' opposizione
SOMMARIO Abdul Haq era entrato in Afghanistan per conto dell' ex re. Gli
elicotteri Usa avrebbero tentato di salvarlo. L' eroe della resistenza e le sue
quattordici ferite
AUTORE Cutuli Maria Grazia, Mo Ettore
GENERE biografia
ARGOMENTO giustizia pena morte, dissenso
NOTE 2 artt. giustiziato ieri a Kabul Abdul Haq, comandante storico della
resistenza antisovietica. ritratto di Abdul Haq. scheda: vittime storiche,
profili di Afizullah Amin, Muhammad Najibullah e Ahmed Shah Massud
PERSONAGGI Haq Abdul
LOCALITA' SOGGETTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE TG Vittime storiche: Amin, Najibullah, Massud, ORIZZONTI
PERDUTI Un combattente dell' Alleanza del Nord sulla linea del fronte a 50
chilometri da Kabul (Di Lauro/Ap), Il mullah Omar
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Giustiziato dai talebani leader dell' opposizione Abdul Haq era entrato in
Afghanistan per conto dell' ex re. Gli elicotteri Usa avrebbero tentato di
salvarlo DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Era l' uomo dalle mille vite. Il
mujaheddin sopravvissuto alla trincea. L' eroe dal piede perso su un sentiero
minato. L' esule fuggito a Dubai. L' imprenditore diventato miliardario. Abdul
Haq, comandante storico della resistenza antisovietica, era tornato in Pakistan
a fine settembre, con un incarico molto particolare: coordinare la rivolta delle
tribù pashtun contro i talebani e preparare il ritorno del re in Afghanistan. La
missione si è trasformata in una trappola. L' uomo dalle mille risorse,
rispedito in prima linea dagli americani, è stato impiccato ieri pomeriggio in
una caserma alla periferia di Kabul. Aveva 43 anni Abdul Haq, barba bianca, 100
chili addosso, una protesi al piede destro. I suoi modi erano affabili, la sua
villa alla periferia di Peshawar sempre aperta ai giornalisti. «Ci sono diversi
talebani pronti alla defezione - aveva detto durante l' intervista al Corriere
una settimana fa -. Ma non è ancora il momento per intervenire». Mentiva? Il 21
ottobre il comandante ha passato il confine a cavallo, attraverso l' area
tribale con sette uomini di scorta. A Peshawar lo si sapeva. E si mormorava: «Ha
preso le armi? Sta tentando di comprare i talebani?». Ieri la versione degli
studenti coranici: Abdul Haq è stato catturato con un borsa piena di dollari e
due telefoni satellitari ad Azra, nel distretto orientale di Logar. I signori di
Kabul divulgano la loro versione: il comandante, accerchiato, avrebbe tentato di
chiamare in aiuto gli americani. Pochi minuti dopo, ecco gli Apaches volteggiare
in cielo. Si spara dall' alto. Si risponde da terra. Sette feriti, tre talebani
e quattro civili. Poi il prigioniero viene trascinato altrove con la sua scorta.
Una corte di ulema, i giureconsulti dell' Islam, condannano a morte lui e un
collaboratore come «agenti degli americani». In un hotel di Peshawar, il
fratello del comandante, Haji Mohammed, altro veterano della Jihad, dà altre
spiegazioni: «Abdul Haq era partito in missione di pace, voleva incontrare la
sua gente, i capi tribali delle province dell' est». Nessun satellitare, nessuna
valigia piena di dollari. Il vecchio non sa ancora dell' impiccagione, lancia a
un appello ai talebani perché lo rilascino. Poche ore dopo, nella villa dai
pavimenti di marmo è un altro fratello, Daud Arsala, appena tornato dagli Stati
Uniti, a scrollare le spalle: «Abdul ha sempre avuto dei contatti con i
talebani. Questa era la sua seconda missione». Era stato scelto anche per
questo, l' uomo dalle mille vite. Per le sue amicizie, per la famiglia alla
quale appartiene, signori del distretto orientale di Niangharar, per la rete di
relazioni che il suo clan si era assicurato. Era tornato da Dubai, dove viveva
dopo che gli avevano assassinato la moglie e il figlio, con l' assenso di
Washington e su chiamata del re. «Stiamo cercando di creare una struttura
politica attorno all' ex sovrano sulla quale basare poi una struttura militare»,
aveva detto nell' intervista. «Prima di tutto dobbiamo negoziare». Aveva un
piano: una grande rivolta nazionale. Oggi l' entourage del re si dice scioccato.
Ma dall' Afghanistan incalzano solo dichiarazioni di guerra. L' ultimo appello
viene dal mullah Omar. Il leader supremo chiede ai musulmani di tutto il mondo
tre giorni di mobilitazione a favore dei talebani. L' uomo dalle mille vite ha
sbagliato il momento: non è tempo di negoziare. Maria Grazia Cutuli AFIZULLAH
AMIN Il 16 settembre 1979 il presidente afghano Mohamed Nur Taraki viene ucciso
e al suo posto sale al potere Afizullah Amin, numero due del regime. La sua
presidenza dura solo cento giorni: il 27 dicembre inizia l' invasione dell'
Armata Rossa e Amin, sgradito all' Unione Sovietica, viene processato e
giustiziato. Marxista ortodosso, era inviso a Mosca perché ritenuto troppo
coriaceo, troppo duro con i ribelli islamici, in una parola troppo stalinista
MUHAMMAD NAJIBULLAH Filosovietico, divenne presidente dell' Afghanistan nel 1987
e mantenne il potere anche dopo il ritiro dell' Armata Rossa (1989) fino al
1992, quando i mujaheddin presero Kabul. Anziché scappare, restò segregato in un
ufficio dell' Onu della capitale che divenne il suo rifugio-prigione. Quando nel
1996 i talebani entrarono a Kabul, Najibullah fu catturato, giustiziato e il suo
cadavere fu impiccato nello stadio di calcio della capitale AHMED SHAH MASSUD
Figlio di un colonnello tagiko e laureato in ingegneria al Politecnico di Kabul,
in seguito all' invasione sovietica Massud si diede alla resistenza,
guadagnandosi il soprannome di «leone del Panshir». Entrato a Kabul nel 1992
alla testa dei suoi mujaheddin, ne fu ricacciato dai talebani nel ' 96. Da
allora ha continuato a combattere contro gli studenti coranici fino al 9
settembre, quando è rimasto ucciso in un attentato JABAL SARAJ (Afghanistan) La notizia della tragica fine di Abdul Haq mi raggiunge proprio qui, in questa
polverosa borgata quasi all' imbocco della valle del Panshir, e a una sessantina
di chilometri da Kabul, che è diventata il quartier generale dell' Alleanza del
Nord da sei anni in lotta contro i talebani. Non ho bisogno di consultare
appunti o i tagli di giornale per ricordare quest' ultimo martire e quest'
ultima vittima dei fanatici seguaci del mullah Omar. Dopo Ahmad Sha Massud,
eliminato da due kamikaze arabi il 9 settembre scorso, Abdul Haq era uno dei
comandanti mujaheddin che più ho stimato e che da tempo avevo collocato nella
galleria degli eroi della guerra afghana. L' avevo incontrato nell' estate del '
79, sei mesi prima dell' invasione sovietica, a Peshawar, la farraginosa città
pakistana sulla frontiera con l' Afghanistan, dov' erano acquartierate le «sette
sorelle», cioè i sette partiti islamici afghani che avevano dichiarato guerra al
regime filosovietico di Kabul e che poi per dieci anni avrebbero combattuto le
truppe dell' Armata Rossa, costringendole al ritiro nel febbraio dell' 89. Abdul
Haq faceva parte dello Hezb-i-Islami, un piccolo gruppo che aveva rotto i ponti
col partito omonimo, fortissimo, guidato dal superfalco della Jihad (la guerra
santa) Gulbuddin Hekmatyar: il capo di questa frazione secessionista,
numericamente modesta ma audace ed efficientissima nella lotta armata, era un'
anziano leader islamico, Yunis Khalés, laconico e fatto di filo di ferro, la
barba rossa fluente, sempre col vecchio Enfield a tracolla. L' ultima vittima
dei talebani aveva cominciato molto presto la sua personale Jihad contro il
regime scaturito, nel ' 78, dalla cosiddetta «Rivoluzione d' Aprile», che portò
al potere il triumvirato comunista Karmal-Taraki-Amin. Abdul Haq frequentava
ancora i banchi di scuola di Jalalabad da dove contava di trasferirsi alla
facoltà di Agraria. «La mia ribellione scattò molto presto - mi raccontò un
giorno nel suo rifugio montano di Tizine, 30 chilometri a Sud-Est di Kabul -. Mi
ricordo di un insegnante che approfittava di ogni lezione, fosse lingua o
matematica, per inculcarci idee socialiste». E' ancora poco più che adolescente
quando si tuffa nella lotta clandestina. Viene arrestato un paio di volte dalla
polizia del regime, la Khalq. «Mi minacciarono anche di mettermi al muro continuò a raccontarmi senza toni eroici -. Poi però dicevano: "E' ancora troppo
piccolo, è un moccioso, non ci sarebbe neanche gusto". E mi davano uno
scappellotto e mi cacciavano via. Fu un grosso sbaglio. Non sapevano, allora,
che da grande gli avrei dato molto fastidio. Proprio come sto facendo ora».
Abdul Haq non ha più tempo per la scuola e non sogna più un diploma come
agronomo. Impara a fabbricare esplosivi, a maneggiare il fucile, a far pratica
di agguati e di imboscate. Dice che i suoi cosiddetti «corsi universitari» li ha
fatti prima nella sua terra, la provincia di Nangarhar (la stessa del suo capo,
Yunis Khalés), poi in quella di Paktya, infine attorno e dentro Kabul. Paga caro
il suo apprendistato di guerrigliero. Ha cicatrici su tutto il corpo, è stato
ferito al naso, alla schiena, alla testa, al petto: «Quattordici in tutto»,
precisò quel giorno nel suo rifugio. Ma già allora aveva sotto il suo controllo
5 mila mujaheddin, ben addestrati e disciplinati e con un discreto
equipaggiamento, che si dedicavano di preferenza alla guerriglia urbana. «Ma
sono operazioni di estrema difficoltà - spiegava nei momenti di relax -. I
rischi sono doppi o tripli. Kabul, poi, è una fortezza, protetta da una triplice
cinta umana con 35 mila soldati russi e afghani e una catena serrata di posti di
blocco». Era molto robusto Abdul Haq. Spalle e braccia da lottatore, gambe come
tronchi d' albero. Piuttosto schivo come carattere, misurava le parole e muoveva
poco la testa sul collo taurino. Ma aveva lo sguardo dei buoni. Era riuscito a
creare dentro la capitale un' organizzazione underground ben oliata e scaltra,
una rete di informatori camaleonti, pescati tra solerti burocrati e funzionari
governativi che facevano il doppio gioco, impiegati modello di giorno, agenti
sovversivi di notte. Nel giro di due-tre anni, Abdul Haq era diventato il re dei
dinamitardi e dei guastatori. Se la città piombava nel buio per settimane e il
telefono non funzionava; se bruciavano i depositi di carburante e i distributori
di benzina, se c' era un blackout alla tv; se mancava la farina per il pane; se
scoppiava una bomba durante il convegno dei marxisti parchamiti; se un giorno
veniva rapito un illustre scienziato sovietico (Orimyuk, poi eliminato)...
potevate star certi che dietro tutti questi «inconvenienti» c' era lui, sempre
lui, Abdul Haq. «Il mio obiettivo - mi disse una volta quando lo andai a
trovare, cosa che facevo spesso, nella sua villetta a due piani color ciclamino,
vicino all' università di Peshawar - è sempre quello di colpire i russi là dove
gli fa più male. Questa guerra che ci hanno imposto deve costar loro sempre più
cara, in rubli e vite umane. Gli abbiamo distrutto strutture industriali e
militari per miliardi di dollari». E' stato una minaccia vivente per le caserme
di polizia, per le guarnigioni, per le fabbriche, i ministeri, le centrali
elettriche come quella di Sarobi, i mulini e i silos, la sede della radio e
della televisione, l' ambasciata sovietica, il quartiere residenziale dei russi
a Mikrorayon, che ogni sera si chiedevano, prima di spegnere la luce sul
comodino: «Che farà stanotte quel demonio di Abdul Haq?». Gli «sciuravì», i
russi, cercarono anche di comprarlo. Era l' inizio dell' 83. Gli proposero una
tregua, come avevano già fatto col leone del Panshir, Massud, strofinandogli
sotto il naso una montagna di banconote. «Mi offrirono ventisette milioni di
afghani - mi raccontò una volta - perché lasciassi perdere Kabul per qualche
tempo. Erano infastiditi soprattutto dai nostri attacchi alle centrali
elettriche e ai piloni della luce. Declinai l' offerta, naturalmente. E poi,
quei soldi non valevano nulla, li stampavano a tonnellate. Ma io già avevo in
mente un progetto che li avrebbe messi in braghe di tela...». L' attacco al
deposito di Kargha fu il suo capolavoro. Il deposito, 18 chilometri ad ovest di
Kabul, nella Paghman Valley, era un superarsenale e conteneva nidiate di missili
terra-aria Sam 2 e uno stock micidiale di armi e munizioni che i russi
provvedevano a rabboccare ogni mese. Esplose la notte del 27 agosto dell' 86, un
botto tremendo che mandò in frantumi tutti i vetri delle finestre della
capitale, mentre il cielo era avvampato di rosso, come per l' eruzione
improvvisa di un vulcano. I ragazzi di Abdul Haq lo avevano colpito con una
grandinata di missili terra-terra 107 mm. provocando un rogo infernale. Erano
stati in molti ad attribuirsi il colpo, «quel» colpo. E lui li lasciava dire e
sorrideva, divertito. L' ultima volta che l' ho visto, a Peshawar, fu dopo che
aveva perso un piede (il destro, mi pare), saltando su una mina. Era di ritorno
dalla Germania, dove lo avevano operato. Disse, con un sorriso in quel suo
faccione largo e gentile, «per camminare me ne basta uno». Ettore Mo
Documento 291 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 28/10/2001 NUMERO
Dom PAGINA 002
OCCHIELLO ASPIRANTI MARTIRI
TITOLO Verso il confine, armati di asce e bazooka
SOMMARIO Sono civili trasformati in combattenti Battaglioni di soldati vestiti
di stracci
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE ultima edizione. tra i volontari della guerra santa, Jihad, diretti verso
l' Afghanistan pronti a combattere a fianco dei talebani. ( Lega Araba )
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE RESISTENZA Shah Wazir, 70 anni, pakistano, in viaggio
verso l' Afghanistan (Ap/Khan)
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ASPIRANTI MARTIRI Verso il confine, armati di asce e bazooka DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - Impossibile contarli. Arrivano a migliaia dai villaggi, dalle
campagne, dalle città del Pakistan. Viaggiano su camion variopinti, autobus
senza porte, pick up attrezzati come arsenali. Brandiscono pistole, kalashnikov,
bazooka, lanciagranate. Esibiscono pezzi d' artiglieria pesante. Non c' è arma
che manchi alla carovana di Allah. Persino asce e bastoni, portati in dotazione
per la santabarbara della Jihad. A Temergarah, nel cuore dell' integralismo
islamico, quattro ore di macchina a nord di Peshawar, due di meno dalla
frontiera con l' Afghanistan, i volontari della guerra santa mostrano per la
prima volta oltre ai muscoli anche i fucili. Oltre alla rabbia, la
determinazione. Sono civili trasformati in combattenti. Battaglioni di soldati
vestiti di stracci. Teste coperte dai turbanti pashtun. Visi feroci sotto le
barbe d' ordinanza. Non è la solita parata propagandistica, organizzata dai
partiti religiosi. Dopo settimane di appelli alla fratellanza islamica e di
minacce all' Occidente, le nuove reclute, tutte pakistane, sono pronte a partire
davvero. A superare il confine, per unirsi ai Talebani nella lotta contro il
nemico americano. Diecimila, dice qualcuno. Forse di meno, forse di più. Non
sono i numeri che contano. E' il passaggio dei loro convogli per le strade del
Pakistan a impressionare. E' il fatto che non ci sia nessuno a fermarli. Né la
polizia, né i corpi speciali. Né l' apparato di sicurezza del presidente Pervez
Musharraf. A Temergarah le regole sono saltate. Il politicamente corretto non
funziona. Tutto quello che dichiara il governo - pieno supporto alla campagna
militare americana in Afghanistan - viene smentito da questa folla in armi che
si mobilita, oltre una frontiera ufficialmente sbarrata, per combattere in nome
di Allah. E' un mullah, un fuoriuscito del partito religioso Jamiat Islam, a
trascinare le folle. Ad ogni appello, nuove reclute. «Partecipare alla Jihad
contro gli aggressori è un obbligo per ogni fedele - dice il leader -. E' una
lezione esemplare per tutti coloro che non sono musulmani». Il suo vivaio si
chiama Tehrik Nefaz-i-Shariah Muhammadi, «Movimento per il consolidamento della
sharia di Maometto». E' un gruppo fondamentalista che si è fatto conoscere per i
boicottaggi alle elezioni considerate anti-islamiche e che sogna di trasformare
il Pakistan in uno Stato governato dalla legge coranica. I suoi attivisti si
preparavano da settimane alla grande partenza. Si raggruppano nei cinque campi
allestiti al centro di Temergarah, tra bancarelle e baracchini decorati da foto
di Osama. Chiedono le dimissioni del presidente Musharraf. Urlano slogan.
Agitano i fucili. La notte è stata dura. Passata al freddo in attesa di ordini,
con il sostegno dei mullah che dalla moschea distribuivano tè verde, cibo e
coperte. «Posso vivere o morire, non mi importa - dice Hussain Khan, un muratore
di 18 anni, in una mano il kalashinikov, nell' altra una tazza di tè -. Sarò un
uomo fortunato perché avrò combattuto al servizio dell' Islam». Al mattino,
parte la marcia. La carovana si mette in moto, con il mullah Sufi Mohammed in
testa. Un vecchio salta sull' ultimo pick up: «Ho 70 anni e non potevo
immaginare una felicità più grande di andare incontro alla morte come martire d'
Allah». Il convoglio raggiunge l' area tribale di Bajuar, a otto chilometri
dalla frontiera con l' Afghanistan. «I Talebani ci aspettano - dicono i capi -.
E' il mullah Omar in persona ad averci chiamati». Ma forse è una favola.
Diecimila persone in arrivo sono diecimila bocche da nutrire, diecimila ospiti
da mettere al riparo. I Talebani hanno chiesto più volte di frenare la corsa al
reclutamento. Chissà. I leader sostengono di avere ritardato l' ingresso in
Afghanistan per via della selezione. Scrupolosa: in trincea solo i giovani e i
forti. Gli altri a casa, lodati comunque per la loro disponibilità. Terra senza
legge, il Nord-Ovest del Pakistan. Il ministro degli Interni Moimuddin Haider
minaccia di arrestare chiunque passerà la frontiera. Ma il confine con l'
Afghanistan corre per 2.500 chilometri. Varchi clandestini, montagne e sentieri
hanno sempre reso la «Durand line», la linea di spartizione tracciata dai
britannici, una demarcazione illusoria. Il Pakistan è sempre stato un serbatoio
di combattenti per l' Afghanistan. Oggi è la trincea dove si scontrano due
civiltà. Altri uomini armati bloccano la Karakoram High way, la via della seta
in direzione della Cina, il corridoio attraverso il quale Marco Polo rivelò all'
Occidente le meraviglie del lontano Oriente. Oggi è l' autostrada per i commerci
dell' Asia. I militanti di Allah hanno chiuso il passaggio. Maria Grazia Cutuli
Documento 292 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 29/10/2001 NUMERO
Lun PAGINA 003
OCCHIELLO PERSECUZIONE RELIGIOSA
TITOLO Nel villaggio assediato dei cattolici: «Ci hanno abbandonato»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO religione cristiana, religione cattolica
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo strage di cristiani in una chiesa di
Bahawalpur in Pakistan. la condizione dei cattolici a Tosefabad, paese nei
pressi di Peshawar.
LOCALITA' SOGGETTO PAKISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE IL LUTTO I corpi dei cristiani massacrati a Bahawalpur,
in Pakistan, vegliati dai parenti (Ansa /Abdul Sattar Qamar)
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PERSECUZIONE RELIGIOSA Nel villaggio assediato dei cattolici: «Ci hanno
abbandonato» DAL NOSTRO INVIATO YOSEFABAD (Pakistan) - «L' unica soluzione
sarebbe il muro», dice Wilson John, studente di informatica, indicando il
confine tra i due villaggi, quello cattolico (il suo) e quello musulmano. «L'
abbiamo chiesto alle autorità, ma dicono che costa troppo». A Yosefabad,
cinquemila abitanti persi a mezz' ora di strada da Peshawar, la segregazione è
una condanna, ma anche una scelta. «Apparteniamo a due mondi diversi - continua
lo studente -. I nostri bambini non giocheranno mai con quelli degli islamici, i
nostri amici non staranno mai da quella parte». Prima vengono le baracche dei
musulmani, la moschea di Subanabad, alcuni depositi dell' esercito. Poi c' è il
deserto, un orizzonte di sabbia costellato da fortini di fango, dove sono nate,
accatastate l' una sull' altra, le casette di Yosefabad. «Certo che abbiamo
paura, dopo quello che è successo nella chiesa di Bahawalpur - continua il
ragazzo -. I musulmani sono tutti armati, gli unici che non portano fucili siamo
noi cattolici». Nelle ultime settimane, dopo gli appelli alla Jihad degli
estremisti islamici, la paura è diventata ansia. «Ogni famiglia ha messo a
disposizione un volontario. Abbiamo formato squadre di 15-20 persone che ogni
notte si danno il cambio per pattugliare il villaggio». Sono poco meno di un
milione e mezzo i cattolici del Pakistan, una minoranza di origine indiana,
formata da ex intoccabili convertiti al vangelo per sfuggire al sistema delle
caste. Accerchiati da 140 milioni di islamici, vivono nel «Paese dei puri»
svolgendo i lavori più umili. Sguatteri e camerieri. «Studiare informatica è un
privilegio», dice Wilson John. La chiesa è un cubo di pietra grigia: solo una
piccola e discreta croce rossa, sulla facciata, la distingue dal resto delle
case. Oggi, domenica, tutto il villaggio aspetta la messa. E' Padre William,
parroco della Chiesa St. Michael di Peshawar, a celebrarla. Il sacerdote arriva
con una vecchia berlina. «Da quando è cominciata la guerra in Afghanistan - dice
- a noi religiosi sono arrivate strane lettere. Come questa». Porge un foglio
indirizzato a lui, in qualità di direttore della scuola di St. Michael: «Avete
chiuso la scuola per una settimana dopo l' attacco americano. Se la riaprirete,
la bombarderemo». Il messaggio porta la firma dell' Iqalabi, un gruppo del
Jamiat Ulema Islam. Anche i preti della chiesa di Bahawalpur avevano ricevuto
una lettera simile. Sono davvero gli attivisti del partito religioso più
importante del Pakistan a minacciare la vita dei cattolici? Il parroco scrolla
le spalle. Il suo telefono è sotto controllo, i suoi gesti spiati. «Credo che la
strage di Bahawalpur sia collegata ai bombardamenti sull' Afghanistan. E alla
"crociata" di Bush. Crociata è una parola delicata, in un momento come questo
può assumere significati molto pericolosi». Guerra tra religioni? I cattolici
hanno finora sperimentato i rigori di istituzioni, pesantemente condizionati
dalla sharia, il codice islamico. La legge contro la blasfemia, adottata nel
1986, prevede anche la pena di morte per chiunque venga accusato di offendere
Allah e il suo profeta Maometto. Bastano due testimoni musulmani a formulare l'
accusa. Tre anni fa, dopo la condanna di un cattolico, Ayub Masih, un vescovo si
è suicidato per protesta davanti alla corte. Altri due imputati sono stati
assolti, ma sono stati assassinati i due avvocati che li avevano difesi.
Attualmente 2.500 cristiani si trovano nelle prigioni del Pakistan accusati di
blasfemia. Padre William scuote la testa: «La strage di Bahawalpur potrebbe
essere solo l' inizio». E' l' ora della messa. «Poi tutti a casa», dice lo
studente d' informatica. Di notte solo le ronde rimangono a pattugliare il
villaggio. Maria Grazia Cutuli
Documento 293 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 29/10/2001 NUMERO
Lun PAGINA 003
OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO STRAGE IN CHIESA Nell' edificio c' erano cento
persone. Uccisi anche i due poliziotti musulmani che stavano di guardia alla
porta I terroristi hanno gridato: «Questo Paese e l' Afghanistan saranno la
vostra tomba». Il generale Musharraf: «Li prenderemo»
TITOLO Pakistan, venti assassinati in chiesa
SOMMARIO Sei uomini aprono il fuoco sui fedeli protestanti invocando Allah: «E'
soltanto l' inizio» La suora: «Sapevamo che ci avrebbero attaccati, ma nessuno è
stato in grado di difenderci»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO reati omicidi, reati attentati
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. strage di cristiani in una chiesa di
Bahawalpur. 20 morti sei feriti gravi tra i fedeli protestanti. bomba su autobus
nei pressi Quetta 2 morti e 25 feriti
LOCALITA' EVENTO BAHAWALPUR. PAKISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE DOLORE I parenti davanti a San Domenico (Tanveer/ Ap)
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Pakistan, venti assassinati in chiesa Sei uomini aprono il fuoco sui fedeli
protestanti invocando Allah: «E' soltanto l' inizio» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR
- L' invocazione di rito: «Allah Akbar», Dio è grande. Poi gli spari. Raffiche
sui fedeli inginocchiati per la preghiera. Mitragliate contro le mura. Ancora un
grido: «L' Afghanistan e il Pakistan saranno la tomba dei cristiani». Sono le
nove del mattino quando sei uomini armati entrano in una chiesa di Bahawalpur,
città del Punjab nel Pakistan orientale, facendo strage davanti all' altare.
Arrivano a bordo di tre moto, con passi pesanti e borse in mano, dalle quali
tirano fuori kalashnikov e proiettili. La chiesa diventa un mattatoio. «Non è
che l' inizio», urlano invasati. I cento disperati cercano riparo. Si sdraiano
per terra, si nascondono dietro l' altare. Ma i corpi cadono già l' uno sull'
altro. Sedici fedeli muoiono sul colpo, tra i quali quattro donne, quattro
bambini, un celebrante. Altre quattro persone spirano all' ospedale. Sei
rimangono gravemente ferite. «Non è che l' inizio», ripetono gli uomini
mascherati. Sangue sui paramenti sacri, sui banchi. Un altro cadavere sulla
porta della chiesa: uno dei due poliziotti musulmani di guardia all' edificio.
E' la prima volta che la comunità cristiana pakistana, per quanto perseguitata,
subisce un attacco così sanguinario. Nella regione del Punjab, come in altre
aree del Paese, finora c' erano state solo lotte fratricide, sunniti contro
sciiti, centinaia di morti nelle moschee. Contro i cristiani saccheggi, roghi,
distruzioni di chiese, mai una carneficina come questa. Negli ultimi giorni però
qualcosa sta cambiando. L' aumentare dei bombardamenti anglo-americani sull'
Afghanistan fomenta l' odio anti-occidentale. Volontari islamici si ammassano
alla frontiera, per andare a combattere a fianco dei talebani. Molte aree sono
fuori controllo. Ieri è esploso anche un ordigno su un autobus a 10 chilometri
da Quetta, nel Belucistan: due morti e 25 feriti. Forse una vendetta tra gruppi
tribali. Ma lo stesso presidente Pervez Musharraf sembra fatichi a frenare
violenze e proteste. Saranno i cristiani i nuovi obiettivi della Jihad? A
Bahawalpur, padre Rukes racconta: «La chiesa si è trasformata in un cimitero. Un
incubo per chi era venuto a pregare Dio». E una suora, Naseen George, accusa:
«Sin da quando è cominciata la guerra in Afghanistan sapevamo che saremmo stati
attaccati. Avevamo chiesto protezione alla polizia, ma nessuno è stato capace di
difenderci». I religiosi avevano ricevuto telefonate e lettere di minaccia,
firmate dal Jamiat Ulema Islam, uno dei principali partiti integralisti, lo
stesso organizza manifestazioni di protesta contro gli Usa, reclutamenti e
donazioni per la Jihad. A Bahawalpur St. Dominic è l' unica chiesa in mezzo a
centinaia di moschee, frequentata da 7 mila fedeli, l' unica ad accogliere sia
cattolici sia protestanti. Il commando puntava probabilmente a colpire i primi,
più numerosi. Ma per un cambio di orario la strage è avvenuta durante la
celebrazione protestante. «Un atto diabolico, un tragico gesto di intolleranza»,
scrive il Papa in un telegramma di condoglianze. Il generale Musharraf assicura
che si farà personalmente carico dell' inchiesta. «Consegneremo i colpevoli alla
giustizia». Molti musulmani si schierano con i cristiani e proclamano uno
sciopero generale di due giorni. La guerra di religione fa paura anche a loro. O
forse temono la guerra in casa. M.G.C.
Documento 294 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 30/10/2001 NUMERO
Mar PAGINA 009
OCCHIELLO UNA FAMIGLIA ASSEDIATA
TITOLO «Ci tolgono la luce e ci ingiuriano perché siamo cattolici»
SOMMARIO Nella casa-ghetto dove abitano i Latif: padre, madre e cinque figlie,
unici cristiani in un quartiere integralista di Peshawar
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, religione
NOTE ultima edizione. attacco USA contro l' Afghanistan. la situazione difficile
di una famiglia cattolica a Peshawar. dichiarazioni
LOCALITA' SOGGETTO PESHAWAR. PAKISTAN
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
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UNA FAMIGLIA ASSEDIATA «Ci tolgono la luce e ci ingiuriano perché siamo
cattolici» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Un pappagallo spelacchiato gracchia in
un angolo: «Thanks Jesus», grazie Gesù. Le immagini del Cristo, riprodotte con i
colori brillanti dell' aerografo, tappezzano ogni muro. Altarini e lumini sono
sparsi per la casa, tra letti, tappeti, povere, cianfrusaglie. Michael Latif, 56
anni, dattilografo presso il ministero dell' Interno, una moglie e cinque
figlie, non fa mistero della sua fede: «Sono l' unico cattolico in un quartiere
musulmano». Ma in una città come Peshawar, capitale dell' integralismo islamico
nel nord-ovest del Pakistan, equivale a portarsi in fronte una lettera
scarlatta. «I nostri vicini fanno di tutto per scacciarci. E' uno stillicidio
quotidiano. Un giorno ci tagliano la luce, un altro il gas. Un altro ancora
intasano le fognature. E non manca notte che qualcuno non bussi alla porta
gridando per poi scappare via». La sua via crucis è cominciata cinque anni fa,
quando ha deciso di spostarsi da un' area mista per venire ad abitare in un
complesso di palazzine gialle, dai muri scrostati, dove gli appartamenti di
proprietà del governo federale vengono affittati a zero rupie. «La casa mi
piaceva, è grande abbastanza per ospitare tutta la famiglia. Abbiamo una
terrazza. E credevo che i vantaggi avrebbero superato i fastidi di vivere
circondati dagli islamici». Si sbagliava. Le tre camere si sono trasformate in
un piccolo ghetto, guardato con odio e sospetto dai vicini. Le rappresaglie si
sono intensificate dopo l' 11 settembre, il giorno degli attacchi terroristici
agli Stati Uniti, la data che ha visto nascere nuove barricate tra religioni e
civiltà. «In Pakistan noi cattolici siamo sempre stati visti come degli
infedeli, ma adesso è peggio: ci considerano occidentali». L' ultimo
avvertimento è arrivato domenica, dopo la strage di cristiani alla chiesa di
Bahawalpur, nel Punjab. «Alle cinque del pomeriggio ci hanno tolto di nuovo la
luce». Paura? Michael Latif ne ha: «Ma non abbandoneremo per questo la strada
tracciata da Cristo», dice con enfasi. Non è solo nella sua battaglia. Nella
stanza della preghiera, una camera ingombra di tappeti, ci sono anche le cinque
figlie, ferventi focolarine. A piedi nudi secondo la tradizione musulmana, a
capo scoperto secondo l' usanza cattolica. Snowbar è la maggiore. Ha 25 anni e
una laurea in giurisprudenza. «Gli anni scolastici sono stati un incubo. In
classe ero l' unica donna in mezzo a studenti musulmani. Tutti, a cominciare
dagli insegnanti, erano convinti di potersi prendere ogni tipo di libertà. "La
vostra religione vi autorizza a commettere l' adulterio", mi dicevano». Molestie
anche nel quartiere: «Ogni volta che nostro padre esce - aggiunge la sorella,
Saddaf, 23 anni, studentessa di medicina - vengono a bussare alla porta, a
gridarci sconcezze». La differenza principale tra loro e le musulmane è il velo.
«Quelle si coprono dalla testa ai piedi con il chador - continua Saddaf -. Hanno
l' ossessione di non mostrare il loro viso. A noi basta un fazzoletto sui
capelli. E se non vivessimo in Pakistan, faremmo a meno anche di quello». In
casa portano comunque vestiti tradizionali. Il padre la schewal kamice
pakistana, le ragazze abiti lunghi con pantaloni fino alle caviglie. Ma
sarebbero felici di mangiare carne di maiale, se ne trovassero sul mercato. Di
bere il buon vino che viene servito nella parrocchia di Peshawar durante la
comunione domenicale. Usanze diverse, nomi diversi. Come Michael. Tutti i
cattolici portano traccia di un battesimo sin dalla registrazione all' anagrafe.
Si chiamano William, George, John, uniti a cognomi musulmani. Molti Mesieh,
versione locale di Messia. Latif spiega: «Siamo cattolici da almeno due
generazioni. Lo era mio nonno e lo era mio padre. Loro, come quasi tutti i
cristiani del Pakistan, arrivano dall' India, dove sono stati convertiti dai
missionari durante il periodo britannico. Io invece sono nato a Peshawar». Sono
ex hindu i cattolici pakistani, ex intoccabili. I più poveri dei poveri. La loro
origine ha lasciato un marchio sulla comunità. «La maggior parte vive nella
miseria più assoluta: sguatteri e camerieri. E' difficile trovare un lavoro
diverso». Segrete le nuove conversioni. Tradire Allah per Gesù, secondo la
legge, comporta la pena di morte. Prima del golpe del 1999, con il quale il
presidente Pervez Musharraf è arrivato al potere, i cattolici pakistani avevano
quattro seggi in Parlamento. Oggi hanno un ministro, S.K. Tressler, con mandato
sullo sport e la gioventù, impegnato nella promozione del dialogo
interconfessionale. Ma nemmeno il capo dello Stato nel suo tentativo di
laicizzazione del Pakistan, ha potuto cambiare le regole che mettono nell'
angolo i cattolici. La strage di Bahawalpur è stata la prova. «D' ora in poi,
cammineremo a testa ancora più bassa», dice Michael Latif. Maria Grazia Cutuli
Documento 295 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 30/10/2001 NUMERO
Mar PAGINA 009
TITOLO Strage in chiesa, in diecimila ai funerali
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO reati attentati, reati omicidi
NOTE ultima edizione. attacco USA contro l' Afghanistan. strage di cristiani in
una chiesa di Bahawalpur. ieri i funerali
LOCALITA' EVENTO BAHAWALPUR. PAKISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE DOLORE I parenti dei 20 cristiani uccisi domenica durante
la messa a Bahawalpur, nel Pakistan orientale Asim Tanvir/Reuters
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Strage in chiesa, in diecimila ai funerali DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR Qualcuno ha gridato «Vendetta» davanti alle salme. Altri hanno circondato la
chiesa della strage, cantando «il sangue dei nostri martiri porterà alla
rivoluzione». Altri ancora hanno pianto chiedendo giustizia. Diecimila persone
hanno celebrato ieri a Bahawalpur, città del Punjab, i funerali dei cristiani
uccisi domenica da sei uomini mascherati nella chiesa di St. Dominic. Quindici
cadaveri, è il conto finale, più il corpo del poliziotto musulmano che montava
la guardia all' edificio. Negozi e scuole hanno chiuso in segno di lutto, mentre
la polizia formava un cordone protettivo attorno alla minoranza cristiana.
Agenti dispiegati attorno alla chiesa, alle moschee e ogni altro luogo sacro
della città, hanno impedito proteste e rivolte. Nessuno ha ancora rivendicato la
strage. Ma le frasi pronunciate dagli uomini del commando, «Allah Akbar», o
anche «l' Afghanistan e il Pakistan saranno la tomba dei cristiani», lasciano
pensare a una rappresaglia degli integralisti islamici contro l' attacco
angloamericano ai talebani. Durante la notte sono stati arrestati 100 attivisti.
I rapporti tra la maggioranza musulmana e la minoranza cristiana, che
rappresenta l' 1% della popolazione del Pakistan, non sono mai stati facili. Ma
è la prima volta in 54 anni di storia del Paese che si arriva a un eccidio.
M.G.C.
Documento 296 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 02/11/2001 NUMERO
Ven PAGINA 003
OCCHIELLO MILLE VOLONTARI PER LA JIHAD
TITOLO Ma «i migliori» sono già coi talebani
SOMMARIO I più giovani hanno passato il confine ieri e sono stati presi in
consegna dagli uomini del mullah Omar
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE Attacco Usa contro Afghanistan. già partiti per unirsi ai talebani i primi
volontari dal Pakistan.
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FULL PAGE S
MILLE VOLONTARI PER LA JIHAD Ma «i migliori» sono già coi talebani DAL NOSTRO
INVIATO MINGAORE (Pakistan) - Sono partiti i migliori, come avevano chiesto i
talebani. I più giovani, i più addestrati, i combattenti capaci di usare l'
artiglieria pesante e la contraerea per contrastare i cacciabombardieri
angloamericani. Dopo una settimana di attesa, mille volontari pakistani sono
stati autorizzati ieri dalle milizie coraniche a passare il confine con l'
Afghanistan. Sono partiti con un arsenale formato da missili, lanciagranate,
kalashnikov, eludendo i controlli di frontiera sui sentieri del Nawa Pass. Dall'
altra parte, nella provincia di Kunar, i soldati del mullah Omar hanno preparato
50 camion per trasportarli negli accampamenti. «I musulmani di tutto il mondo
sono con noi - ha detto il loro leader, il maulana Sufi Mohammed -. Se non
combatteremo oggi in Afghanistan, domani l' America sarà libera di attaccare
qualunque Paese islamico». Osama Bin Laden può dirsi contento. Proprio lo
sceicco del terrore, attraverso Al Jazira, la televisione del Qatar, aveva
invitato i «fratelli» pakistani a ribellarsi al governo, alleato con gli
americani, per schierarsi contro la «crociata cristiana» di George Bush. I mille
volontari sono la prima «brigata della jihad» ufficialmente coinvolta nello
scontro con l' Occidente. La testa di ponte per altri 9 mila pashtun, che
restano in armi nell' area tribale, aspettando l' ordine per passare. L'
avanguardia di un nuovo esercito, reclutato nelle retrovie del Pakistan dal
Tehrik Nefaz-i-Sharia Mohammedi, il Movimento per l' applicazione della sharia
(la legge islamica), che fa molto temere per la stabilità della regione. Il
quartiere generale dei volontari si trova a tre ore di macchina da Peshawar, tra
le montagne di Swat, nel cuore più radicale dell' integralismo pakistano. In una
madrassa di Mingaore, una città bazar dalle coloratissime architetture
orientali, il maulana Fazal-i-Haq, presidente del movimento, autoelogia la sua
campagna per la jihad. «I reclutamenti sono cominciati subito dopo l' attacco
americano sull' Afghanistan. Chiunque volesse iscriversi, doveva specificare che
arma aveva a disposizione e quanto denaro era disposto a versare per il proprio
mantenimento durante la jihad». Sono stati raccolti 20 milioni di rupie, oltre
700 milioni di lire, sufficienti a tenere in piedi il nuovo esercito per almeno
sei mesi. Sono arrivate donazioni da ogni parte, compresi 100 chili d' oro
regalati dalle donne. In quanto alle armi, ci sarebbe di tutto. Persino i famosi
Stinger venduti dagli Usa ai mujaheddin durante la guerra contro i sovietici.
«Abbiamo selezionato solo coloro che avevano già esperienza in prima linea»
dice. L' ulteriore scrematura sarebbe stata fatta dai talebani: «Solo volontari
capaci di usare l' artiglieria pesante» avrebbero detto gli emissari del mullah
Omar durante gli incontri preparatori con i capi del movimento. «Molti volontari
dovranno aspettare ancora - aggiunge il maulana. - Saranno chiamati solo quando
le truppe occidentali attaccheranno sul terreno». A vederla nelle immagini
scattate dai fotografi locali questa armata alla quale nessun occidentale ha
potuto finora avvicinarsi sembra un esercito resuscitato da un incubo della
storia. Bambini, adulti, vecchi dalle barbe bianche impugnano moschetti d'
inizio secolo, asce, spade fino ai lanciagranate di fabbricazione sovietica:
sono destinati in gran parte a bivaccare a Bajour a 5 chilometri dalla
frontiera. E' stato consegnato loro un intero villaggio, Lagharai, dove si
preparano - se necessario - a restare tutto l' inverno. Poco importa che il
presidente Pervez Musharraf in altre parti del Paese tenti di frenare gli
integralisti, cercando nuove alleanze sul fronte laico. O che intensifichi le
pressioni sul regime di Kabul affinché respinga i volontari pakistani. Il
maulana Fazal-i-Haq ricorda che gli attivisti del Movimento per l'
implementazione della sharia nel 1994, dopo il fallito tentativo del governo di
imporre una legge speciale sull' area, sono riusciti con una rivolta popolare a
prendere il controllo di aeroporti, stazioni di polizia, edifici istituzionali.
Ma forse è solo un gioco delle parti. Musharraf, secondo alcuni, sta lasciando
mano libera alla brigata della jihad per alzare il suo prezzo con gli americani.
Alla vigilia della sua visita a Washington, agiterebbe il fantasma dell'
instabilità per ottenere di più dagli alleati. Maria Grazia Cutuli
Documento 297 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 03/11/2001 NUMERO
Sab PAGINA 008
OCCHIELLO Il Pentagono, sempre meno convinto di spingere l' Alleanza del Nord
verso Kabul, sembra puntare su altre fazioni
TITOLO I talebani braccano l' inviato del monarca
SOMMARIO Caccia sulle montagne a Hamid Karzai, entrato nel Paese per fomentare
una sollevazione
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE I talebani danno la caccia da giorni a Hamid Karzai in missione segreta
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE CORANO E MOSCHETTO Una pattuglia di talebani,
letteralmente «studenti coranici» Khursheed/Reuters
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Il Pentagono, sempre meno convinto di spingere l' Alleanza del Nord verso Kabul,
sembra puntare su altre fazioni I talebani braccano l' inviato del monarca
Caccia sulle montagne a Hamid Karzai, entrato nel Paese per fomentare una
sollevazione DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - I fronti si moltiplicano per i
talebani. Oltre ai bombardamenti aerei americani e agli attacchi dell' Alleanza
del Nord, le milizie integraliste devono respingere i partigiani dell' ex re
Zahir Shah, sponsorizzati dagli Stati Uniti per sobillare la rivolta dentro l'
Afghanistan. Dopo Abdul Haq, l' ex leader della Jihad catturato e ucciso una
settimana fa, c' è un altro comandante in missione segreta nel Paese, braccato
dalle milizie coraniche, ricercato con un centinaio di uomini, inseguito per le
valli e le montagne del distretto di Oruzgan. È Hamid Karzai, 46 anni,
combattente durante la guerra contro i russi, viceministro degli Esteri nel
governo dei mujaheddin alla caduta del regime filosovietico di Najibullah, nuova
promessa dell' insurrezione. I talebani gli danno la caccia da giorni in una
delle regioni più inaccessibili dell' Afghanistan, chiedendosi ancora come sia
riuscito ad arrivare fin là. Per giungere alla sua base, nell' area di Dehrawad,
i miliziani del mullah Omar hanno marciato per nove ore tra i crepacci ocra di
un paesaggio lunare. Hanno combattuto. Si sono scontrati con i suoi uomini.
Hanno voluto fare credere di averlo catturato, addirittura ucciso, come Abdul
Haq. Ma all' alba di ieri, il «morto» è resuscitato. Alle 6.30 Hamid Karzai in
persona ha telefonato al fratello Ahmed, che si trova a Quetta, in Pakistan: «C'
è stato uno scontro pesante - ha confermato -. Ma stiamo tutti bene, solo uno
dei nostri è stato leggermente ferito». Un avversario più temibile del previsto?
L' Afghanistan Islamic Press, l' agenzia che fa da megafono al regime, ha
insistito per tutta la giornata: due uomini sarebbero morti, altri 25 catturati
rischierebbero l' impiccagione come agenti americani. Poi Kabul ha dovuto
smentire: «Gli oppositori sono sfuggiti alla caccia», ha dichiarato un portavoce
dei talebani, Mohammed Tajeb Agha. Il comandante avrebbe anzi catturato una
dozzina di studenti coranici. La missione di Karzai si colora di giallo, come
quella tragica e sfortunata di Abdul Haq. Fa parte di uno stesso piano d'
attacco? Segna l' inizio di una nuova strategia americana? Il Pentagono, sempre
meno convinto di spingere l' Alleanza del Nord con le sue litigiose etnie alla
conquista di Kabul, già da tempo sembra puntare su altre fazioni. Secondo il
ministro dell' informazione dei talebani, Qari Fazil Rabi, ci sono elicotteri
statunitensi a offrire copertura aerea agli infiltrati. «Hanno sparato sui
nostri soldati mentre attaccavano gli oppositori». E ancora: «Hanno lanciato 600
fucili ai ribelli». «Li hanno scaricati al centro dell' Afghanistan, in una
regione impossibile da raggiungere se non in volo». Propaganda, secondo Qayum,
altro fratello del comandante, residente negli Stati Uniti: «Vogliono spacciare
Karzai per una marionetta di Washington». Un copione molto simile a quello che
ha accompagnato la fine di Abdul Haq. In quel caso si è parlato di Apache
chiamati in soccorso, di uomini Cia presenti tra gli oppositori, di misteriose
valigie piene di dollari per comprare i talebani locali. Un intrigo parzialmente
confermato dal Pentagono: era un Predator, un aereo spia dotato di missili
Hellfire, a essere stato inutilmente mandato sul posto. Lo scenario comincia a
ricordare i tempi della Jihad, le troppe fazioni sponsorizzate dalla Cia contro
l' invasore sovietico, le retrovie pachistane gremite di combattenti, le
infiltrazioni di mujaheddin alle frontiere. Con una variante: il ruolo di Zahir
Shah, l' ex monarca esiliato a Roma, attorno al quale si intrecciano le alleanze
che dovrebbero portare alla formazione di un futuro governo con l' instaurazione
della Loya Jirga, l' antico consiglio supremo multietnico e trasversale. Anche
Hamid Karzai, come Abdul Haq, è un esponente pashtun. È uno degli uomini a cui
il sovrano ha affidato il compito di creare il suo nuovo esercito. Le
similitudini tra il comandante vivo e quello assassinato sono tante: entrambi
facevano affari a Dubai, entrambi sono stati richiamati dagli Emirati per
organizzare la resistenza. Ma i legami tra Zahir Shah e Karzai sono anche più
stretti di quelli con Abdul Haq. È un intreccio di ricordi personali, comunanze
politiche, appartenenze tribali. Comparso a Peshawar un paio di settimane fa,
sarebbe entrato in Afghanistan dal Beluchistan, in contemporanea con Abdul Haq.
Ma con una missione diversa: se il primo doveva cercare di far passare dalla
propria parte i talebani moderati, Karzai cerca consensi all' interno della sua
tribù per scardinare il potere del mullah Omar e della sua nomenklatura. Maria
Grazia Cutuli
Documento 298 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 04/11/2001 NUMERO
Dom PAGINA 002
OCCHIELLO scontro di culture
TITOLO Ma nei cinema pakistani trionfano Stallone e Schwarzenegger
SOMMARIO «Sanno lottare, sanno combattere, sanno uccidere» Il pubblico «di
frontiera» chiede azione, sangue e intrighi
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO cinema
LOCALITA' SOGGETTO PAKISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE Il cinema Falak Seer di Peshawar (Digaetano)
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Ma nei cinema pakistani trionfano Stallone e Schwarzenegger DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - Gli eroi hanno il fisico taurino di Jean Claude Van Damme, la
mascella feroce di Arnold Schwarzenegger, la forza bestiale di Sylvester
Stallone. Poco importa che siano attori occidentali, protagonisti di film
americani. Al Falak Seer, una delle principali sale cinematografiche di
Peshawar, le locandine parlano chiaro: conta che portino un mitra in mano, una
cartucciera sul petto, una bandana legata in fronte. «Sanno lottare, sanno
combattere, sanno uccidere», dice Abdullah Ahmed, 20 anni, militare in libera
uscita. «Sono i migliori - ridacchia un compagno -. Quasi più forti dei nostri
attori». Azione, sangue, intrighi. E' quello che basta al pubblico del Pakistan.
Non c' è propaganda anti-americana che tenga, solidarietà con i «fratelli»
afghani, bombardati dai B-52 statunitensi, che faccia cambiare idea agli
spettatori. «Il cinema è un mondo a parte - sentenzia Abdullah Ahmed -. Non vedo
nessun rapporto tra un bel film e i missili lanciati su Kabul». Lo show-business
non conosce frontiera, né tanto meno scontro di civiltà. Nonostante la campagna
militare americana sull' Afghanistan, l' industria di Hollywood continua a
rifornire tutti i Paesi musulmani, dal Libano alla Siria, dal Pakistan alla
Malesia. Non è la fetta di mercato più consistente. Rappresenta solo il 10% del
«box office», ma i guru del botteghino pronosticano affari in espansione. Gli
incidenti di percorso, come quelli di Quetta, la capitale del Baluchistan, dove
gli integralisti hanno bruciato tre cinema che trasmettevano pellicole
americane, significano poco. «Quetta è abitata al 75 per cento da afghani commenta Mohammed Ismail, uno degli impiegati del Falak Seer di Peshawar. - Da
noi, è diverso. Abbiamo visto gli integralisti e i mullah sfilare davanti al
cinema, senza che arrivasse nemmeno una pietra». La facciata del Falak Seer, un
edificio cadente decorato da colonne e fregi orientali, costruito dai
governatori britannici negli anni ' 40, mostra al momento il truculento
cartellone di un film in urdu, «Potere e poltrona», un poliziesco a base di
innocenti in catene che ululano al cielo la loro rabbia, con i polsi
sanguinanti, davanti ai mitra e agli sguardi spietati dei loro aguzzini. E' uno
dei tanti musical prodotti negli studi di Lahore, in concorrenza con l'
industria di Bollywood, l' Hollywood di Bombay, messa al bando dal governo
pachistano come riflesso dei pessimi rapporti con l' India. Ma la programmazione
delle prossime settimane torna sui lungometraggi americani. Nell' ordine:
«Universal Soldier» con Van Damme, «Commando» con Arnold Schwarzenegger,
«Demolition man» con Sylvester Stallone. Se Van Damme, ex campione di arti
marziali, è l' idolo locale di un pubblico composto prevalentemente da giovani
sotto i trent' anni, di bassissima estrazione sociale e pochissima cultura, a
sbancare i botteghini è stato però Leonardo Di Caprio con Titanic. «Quattro
settimane di programmazione - precisa il direttore del cinema, Zaur Din. - Più
di un milione di spettatori». Affluenza tale che per la prima volta si sono
viste in sala anche le donne, le studentesse dei college in visita speciale.
Poca fortuna sembrano avere invece le attrici straniere. All' entrata del Falak
Seer, un gruppetto di ragazzi ricorda solo il nome di Julia Roberts. E la faccia
di «quell' altra», «la protagonista di Desperado». «Bella, certo - dice Asmat
Guri, studente universitario - . Però questi film pieni di sesso fanno male ai
giovani». E' la voce più severa: «Ho sentito dire che Hollywood sta producendo
un film su Osama Bin Laden. Spero che non lo portino qui. Osama è il nostro eroe
e non vogliamo che venga insultato». Meglio la produzione di Lahore? I film Usa
offrono alcuni vantaggi: «Per ragioni di distribuzione sono più economici delle
pellicole locali», dice il direttore del Falak Seer. Ma alla fine, a Peshawar,
solo 5 cinema su 13 si avventurano in questo business. E anche il calendario del
Falak Seer mostra 12 produzioni hollywoodiane contro 30 pachistane. «E' un
problema di lingua - dice ancora lo studente Asmat Guri -. I film americani non
sono tradotti, così molti preferiscono quelli in urdu». Ragione pratica o
scontro di culture? Maria Grazia Cutuli
Documento 299 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 06/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 008
OCCHIELLO LA MISSIONE DEL MONARCHICO
TITOLO Karzai, la primula rossa del re, sfugge ai talebani
SOMMARIO Ex mujaheddin, 46 anni, prima del mullah Omar la sua famiglia «regnava»
su Kandahar Per il regime «è stato giustiziato». Ma suo fratello in Pakistan
dice: «E' vivo, ci chiama ogni giorno»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
GENERE biografia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. trattative diplomatiche. missione speciale
inviato del re Ahmid Karzai
PERSONAGGI Karzai Ahmid
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE IN SELLA Afghani nel Nord del Paese Fedosenko/Reuters
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Karzai, la primula rossa del re, sfugge ai talebani DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR
- La telefonata arriva puntuale almeno una volta al giorno. Mentre i talebani
annunciano di averlo ucciso, Ahmid Karzai, il comandante del fronte filomonarchico in missione speciale in Afghanistan, continua a chiamare da un
satellitare la famiglia a Quetta, in Pa kistan. L' ultimo contatto ieri sera
alle 8. «Karzai sta bene - conferma il fratello Ahmed al Corriere -. È ancora in
Afghanistan, libero di muoversi e di portare a termine il suo compito. Ha con sé
tutti gli uomini con i quali è partito. Nessuno è stato catturato o ucciso».
Misteri di una guerra invisibile, combattuta anche con ex mu jaheddin spediti da
Washington nelle sabbie mobili afghane a fomentare la ribellione contro il
regime integralista. Chi mente? Chi dice la verità? Stando alla versione di
Ariana, agenzia di stampa vicina ai talebani, Ahmid Karzai, catturato giovedì
scorso con altri 25 infiltrati nella provincia di Oruzgan, sarebbe stato
giustiziato ieri assieme a un cittadino statunitense. La grancassa del regime
mantiene però toni sommessi. Nessun dettaglio sull' identità del secondo uomo.
Nessun particolare sull' esecuzione. Il comandante avrebbe subìto lo stesso
trattamento riservato ad Abdul Haq, l' eroe della resistenza anti-sovietica
ucciso una decina di giorni fa: eliminato come agente degli americani. Ma quel
filo telefonico tra le montagne di Oruzgan e le retrovie di Quetta indebolisce
la tesi di Kabul. A sentire la voce di Ahmid Karzai non è stato solo il
fratello, ma anche gli ascoltatori della Bbc in lingua pashtun. Sabato notte in
un' intervista, il comandante ha riferito che i suoi sforzi per convincere la
popolazione a ribellarsi ai talebani stanno ottenendo successo e che «moltissima
gente è stufa del regime». Il leader dell' insurrezione, sebbene braccato,
sembra deciso a portare a termine il suo compito. «Ho grandi cose da fare in
Afghanistan». Grandi imprese e grandi rischi. Miscela perfetta per accreditarsi
come nuova stella della guerra di «liberazione». L' investitura è doppia. Hamid
Karzai, 46 anni, entrato in Afghanistan con la copertura degli Stati Uniti e la
benedizione di re Zahir Shah, si propone di liberare il Paese dagli arabi di
Osama Bin Laden, e di prepararlo a un governo post-talebano, basato sulla «Loja
Jirga», il Consiglio supremo della tradizione monarchica. I rapporti con i suoi
sponsor sono di lunga data. Il padre, Abdul Ahad Karzai, capo dei Popalzai, la
stessa tribù pash tun del sovrano, fu ministro e senatore del regno. Ucciso nel
' 99 a Quetta, ha lasciato al figlio la guida del suo clan. Ahmid si era già
conquistato una discreta fama negli anni Ottanta combattendo contro i sovietici,
poi come vice- ministro degli Esteri nel governo dei mu jaheddin e, a partire
dal 1993, come leader politico in esilio a Quetta. L' assassinio del padre- si
sospetta, per mano dei talebani - l' ha spinto ad impegnarsi ancora di più nella
resistenza contro il regime degli studenti coranici. A lungo è stato
inascoltato. «Ho sempre detto agli americani che il nostro Paese ha perso la
sovranità e l' indipendenza - si lamentava tempo fa - così come ho sempre
denunciato la presenza dei terroristi. Ma nessuno se ne voleva occupare: era
qualcosa che riguardava solo gli afghani». Capace di portare con la stessa
disinvoltura la cravatta e gli abiti tradizionali pashtun, Karzai ha viaggiato
molto in Europa e negli Stati Uniti, dove vivono 5 dei suoi fratelli. L' hanno
visto discutere a Washington su come organizzare i capi tribali e altrettanto a
Roma, presso la corte in esilio di re Zahir Shah. «E' stato in Italia l' 8
settembre - conferma il fratello Ahmed - a parlare con il re». Un politico più
che un guerrigliero: «E' quella la sua passione, il suo impegno numero uno». E'
a Kandahar, dominio di famiglia diventato dal 1994 in poi feudo del mullah Omar,
l' emiro dei talebani, che Karzai dovrebbe operare. E' qui che riallaccerebbe
gli antichi rapporti familiari per convincere i capi tribali alla defezione. Una
grande missione su un pericoloso crinale. Vita o morte, per l' uomo che vuole
farsi eroe. Maria Grazia Cutuli
Documento 300 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 08/11/2001 NUMERO
Gio PAGINA 012
TITOLO Cento uomini-bomba contro le forze alleate
SOMMARIO Un giornale pakistano svela la minaccia «I kamikaze sono legati a
gruppi palestinesi»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. allarme terrorismo. l' internazionale della
jihad
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE TALEBANI Mitra e lanciarazzi sono l' armamento base dei
talebani (Mian Khursheed/Reuters) NEL MIRINO Volantini con il volto del mullah
Omar lanciati dagli americani in Afghanistan
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Cento uomini-bomba contro le forze alleate Un giornale pakistano svela la
minaccia «I kamikaze sono legati a gruppi palestinesi» DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - L' internazionale della jihad continua a fare seguaci. Per rafforzare
le armate dei talebani, sarebbero arrivati in Afghanistan, oltre a migliaia di
combattenti islamici, anche un centinaio di «martiri», votati agli attentati
kamikaze contro le truppe occidentali. Li chiamano «feddayn», come i
guerriglieri palestinesi degli anni Settanta. Portano divise nere, blu o verdi,
con versi del Corano sul petto, imbracciano mitragliatrici tedesche o
sovietiche, hanno libero accesso presso le installazioni militari. Formano
squadroni della morte, addestrati per le imboscate, abili ad acquattarsi carichi
di esplosivo dentro i palazzi di città, sui passi di montagna o negli anfratti
di una trincea. «Non si sa da quali Paesi vengono - dice Hamid, un giornalista
del quotidiano pakistano Frontier Post che ha pubblicato la notizia -. Ma il
loro stile ricorda quello dei combattenti palestinesi». Stile, e non solo. Li
coordinerebbe un marocchino, vicino al palestinese Heshem Menqarah, membro delle
forze di sicurezza di Al Fatah, l' organizzazione di Yasser Arafat. Non sarebbe
la prima volta che i Territori palestinesi offrono volontari per la causa
afghana, mescolati nelle file dell' internazionale islamica a ceceni, yemeniti,
sauditi, sudanesi, algerini. Lo stesso Abdul Yosuf Azzam, maestro spirituale di
Osama Bin Laden, era palestinese di Jenin. Fu l' uomo che creò a Peshawar in
Pakistan, durante l' invasione sovietica, il Beit ul Ansar, l' ufficio per il
reclutamento dei mujaheddin in tutto il mondo. Ucciso assieme a due figli in un
attentato nel 1989, Azzam ha lasciato una schiera di eredi. I più fedeli stanno
in Pakistan, come i membri dell' Herakat ul Mujaheddin, una delle organizzazioni
terroristiche messe al bando dal presidente americano George W. Bush. Prima
dell' 11 settembre combattevano in Kashmir contro gli indiani. Oggi raccolgono
guerriglieri di varie nazionalità da spedire in Afghanistan. Uno degli uffici,
dove avverrebbe il reclutamento, si nasconde in una stradina di campagna alla
periferia di Peshawar. Il portone si apre solo un attimo, su un cortile ingombro
di casse, coperte da teli di plastica. Un uomo sulla trentina, dal viso
allungato, lunghi riccioli castani fuori dal turbante, barba fluente si sporge
con aria minacciosa. «Via da qui, immediatamente. O salterete in aria, voi e la
vostra macchina». Alle sue spalle, due guardie caricano i kalashnikov. Accetta
invece di parlare, sotto copertura di anonimato, uno dei responsabili incontrato
a Rawalpindi: «Continuiamo ad addestrare decine di volontari da ogni parte del
mondo - dice -. Ma i talebani chiedono gente che sappia veramente combattere».
Come altre organizzazioni specializzate nella guerriglia in Kashmir, l' Herakat
ul Mujaheddin ha già spedito a Kabul i suoi miliziani migliori: una trentina
sono rimasti uccisi un paio di settimane fa sotto i bombardamenti americani. Dal
Pakistan continuano ad arrivare anche i volontari del Tehrik Nefa-i-Shariah, il
Movimento per l' applicazione della sharia (la legge coranica), un'
organizzazione ultra fondamentalista che ha concentrato sulla frontiera oltre 10
mila combattenti. Diverse migliaia sono già al fronte. E' la prima linea, l'
ossessione del governo di Kabul. I 40 mila soldati talebani non bastano. Il
mullah Omar ha preferito affidare il controllo delle zone più calde, oltre che
ai nuovi volontari, agli arabi di Osama Bin Laden. Ed è stato lo sceicco del
terrore a scegliere gli uomini giusti nei punti cruciali. Il quotidiano
pakistano Dawn cita: Shawqi Islamboli, fratello di Khalid Islamboli, l'
attentatore che uccise il presidente egiziano Anwar Sadat, a nord di Kabul; Abu
Janab nella provincia orientale di Nangarhar; Abdul Hadi Iraqi, ex ufficiale
iracheno esperto di esplosivi, nella città settentrionale di Toloqan. A
coordinare l' offensiva di terra, c' è la 55esima brigata, il nucleo più duro
delle forze di Osama. Efficienti, allenati, spietati. Sono i «terroristi» ai
quali George W. Bush vuole dare la caccia. Gente che non ha niente da perdere.
Maria Grazia Cutuli ATTACCO AL TERRORISMO LA GUERRA Fanno parte di quell'
«internazionale islamica» che è composta da ceceni, yemeniti, sauditi, sudanesi
e algerini Uno degli «uffici di collocamento» per i volontari della jihad si
trova in una stradina alla periferia di Peshawar
Documento 301 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 10/11/2001 NUMERO
Sab PAGINA 002
OCCHIELLO In Pakistan poche migliaia di persone hanno aderito alla protesta
anti-americana. Arrestati molti estremisti islamici
TITOLO «Lunga vita a Osama»: la polizia spara e uccide quattro manifestanti
SOMMARIO Gli scontri in una città del Punjab: la folla cercava di bloccare un
treno
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO manifestazioni
NOTE manifestazione antiamericana in Pakistan
LOCALITA' EVENTO PESHAWAR. PAKISTAN
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In Pakistan poche migliaia di persone hanno aderito alla protesta antiamericana. Arrestati molti estremisti islamici «Lunga vita a Osama»: la polizia
spara e uccide quattro manifestanti DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Le
manifestazioni anti-americane, convocate dai partiti della Jihad, non
scalfiscono la politica del generale Pervez Musharraf. Neanche quattro
dimostranti uccisi dalla polizia nel Punjab, in un venerdì di sfida, sciopero e
preghiera, intaccano l' immagine monolitica che il governo del Pakistan vuole
offrire agli alleati occidentali. La protesta, guidata dai 35 partiti religiosi
che formano il «Consiglio di difesa per l' Afghanistan», esplode a Rawalpindi, a
Peshawar, a Quetta, a Karachi, ma resta marginale. Sempre meno gente disposta a
seguirla. Poche migliaia e senza troppa grinta. E' solo a Shadon Lund, una città
del Punjab a 150 chilometri da Multan, che si arriva allo scontro. Quattro mila
manifestanti tentano di bloccare il treno che da Lahore va verso Quetta. La
polizia spara sulla folla. «Tre dimostranti uccisi sul colpo, una quarta morta
durante il trasporto in ospedale, altre cinque ferite», elenca il ministro degli
Interni Moinuddin Haider. Minacciando: «Non siamo disposti a sopportare niente
che danneggi la vita pubblica». Tolleranza zero. Musharraf ha già annunciato che
quando tornerà dagli Stati Uniti, le manifestazioni saranno definitivamente
interdette. A Shadon Lund, esponenti del Jamiat Ulema Islam, uno dei principali
partiti fondamentalisti, dichiarano di aver preso in ostaggio quattro
poliziotti. Ma il governo non reagisce. Preferisce pubblicizzare gli arresti:
centinaia di estremisti ammanettati a scopo «preventivo», altri durante le
proteste. A cominciare dai leader religiosi: Fazlur Rehman, capo del Jamiat
Ulema Islam, rimesso in detenzione per l' ennesima volta, e Qasi Hussein Ahmed,
numero uno del Jamiat Islami, arrestato per sedizione dopo aver chiesto la
rimozione del generale Pervez Musharraf. A Peshawar la folla grida: «Osama
governerà, lunga vita a Osama». Ma nei vicoli del centro, bastano un paio di
candelotti lacrimogeni a disperdere gli estremisti. Anche lo sciopero riesce a
metà. «Stamattina i negozi erano tutti aperti. Appena questi finiscono la
protesta alziamo nuovamente le saracinesche», confessa Niaz Alì, bottegaio del
bazar. I leader sfilano su un camion sventolando vecchie bandiere. Ma nel
quartier generale di un altro partito religioso, il Sipah-e-Sahabu, al quinto
piano di un palazzo pericolante, ci sono solo i rappresentanti della sezione
giovanile: «Vogliamo protestare contro le violazioni dei diritti umani commesse
in Afghanistan». Nella linea dura adottata dal governo c' è una pericolosa zona
d' ombra. I volontari armati che continuano a partire a migliaia per l'
Afghanistan. Reclutati da organizzazioni diverse da quelle che scendono in
piazza, passano il confine senza che nessuno li fermi. Combattono in prima linea
con i talebani, fiancheggiano la brigata araba di Osama Bin Laden. Forse il
Pakistan non è così monolitico come il suo presidente vorrebbe far credere.
Maria Grazia Cutuli
Documento 302 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 13/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 014
TITOLO «Non siamo battuti Li aspettiamo tra i nostri monti»
SOMMARIO I talebani si preparano a lasciare le città «Potremmo resistere anche
dieci anni»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco USA contro l' Afghanistan. avvicinamento dell' Alleanza del Nord a
Kabul. la strategia dei talebani spiegata da attivisti di organizzazioni vicine
al mullah Omar e a Bin Laden
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE VOLONTARI CORANICI Miliziani talebani mostrano le armi
nella piazza dei martiri di Kandahar, la città del mullah Omar Banaras/Ansa
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«Non siamo battuti Li aspettiamo tra i nostri monti» I talebani si preparano a
lasciare le città «Potremmo resistere anche dieci anni» DA UNO DEI NOSTRI
INVIATI ISLAMABAD - I talebani si preparano a lasciare le principali città dell'
Afghanistan. Dopo la caduta di Mazar-i-Sharif, la perdita di Kunan, l' avanzata
su Herat e Kabul, le milizie integraliste entrano in una seconda fase della
guerra, che vedrà i combattenti di Allah arroccarsi sulle montagne, scavare
trincee nei deserti, allestire nuove linee difensive nelle aree più
inaccessibili del Paese. Non è una sconfitta, dicono i loro fiancheggiatori.
Solamente una «ritirata strategica», per ricompattare le file della jihad
resuscitando le stesse tecniche di guerriglia utilizzate contro gli invasori
britannici nell' Ottocento e contro le truppe sovietiche negli anni Ottanta. La
nuova strategia viene illustrata al Corriere dai membri di due organizzazioni
pakistane - vicine tanto al mullah Omar, il capo supremo dei talebani, quanto a
Osama Bin Laden - attivamente coinvolte nella «guerra santa» contro l'
Occidente. Il primo è Hussain Hamad Deeshani, comandante militare dell' Herakatul-Jihad Islami, un gruppo a cui appartengono diversi «terroristi» apparsi sulle
liste nere dell' Fbi. Tornato dall' Afghanistan qualche giorno fa, si trova a
Islamabad di passaggio, in attesa di ripartire per il fronte. «La resa di Mazari-Sharif è stata concordata dai talebani assieme ai capi dell' Alleanza del Nord
- sostiene -. E' una ritirata che ci permette di mettere in salvo uomini e armi
per poter contrattaccare in un secondo momento». Anche la «consegna» di Kabul,
secondo lui, non sarebbe lontana: i talebani starebbero solo prendendo tempo, in
attesa di consolidare le posizioni difensive sulle montagne. Sarebbero preparati
a cedere tutte le città, «compresa Kandahar», la capitale morale delle milizie
coraniche, per arroccarsi alla periferia e sferrare da lì attacchi micidiali. «I
bombardamenti statunitensi hanno causato danni molto gravi ai talebani riconosce Hussain Hamad Deeshani -. Ma tutti noi che operiamo in Afghanistan
siamo in grado di resistere alla macchia per altri dieci anni. La stessa
Alleanza del Nord finirà per passare dalla nostra parte». Il caos nel futuro del
Paese? O le ultime battute di una propaganda sempre meno convincente? L'
Herakat-ul-Jihad Islami ha perso un' ottantina di uomini nei raid americani, ma
il comandante va avanti come un predicatore: «Sapete quanti sono stati i morti
tra i talebani, gli arabi e i pakistani? Cinquecento miliziani, non di più. Che
volete che sia?». Pilastro della futura guerriglia, per un' armata non
convenzionale come quella del mullah Omar, restano le legioni straniere. Assieme
ai volontari dell' Herakat-ul-Jihad Islami, operano in Afghanistan altre due
associazione pakistane nate dallo stesso ceppo, durante gli anni dell' invasione
sovietica: l' Herakat-ul-Mujaheddin e l' Esercito di Maometto, entrambe messe
all' indice da George Bush per attività terroristiche. Al loro fianco, arabi di
ogni nazionalità, non necessariamente inquadrati dentro Al Qaeda, la rete di
Osama Bin Laden. «Se fino all' 11 settembre il mullah Omar poteva contare sull'
aiuto di 12 mila arabi, oggi il numero di volontari è cresciuto enormemente.
Arrivano da tutto il mondo, Occidente compreso. Abbiamo un ex militare
americano, convertito all' Islam, che ha combattuto in Cecenia e adesso si trova
con i nostri uomini. Ci sono volontari di nazionalità tedesca e persino italiana
- racconta un attivista dell' Herakat-ul-Mujaheddin - Alcuni sono immigrati,
altri no. Occidentali a tutti gli effetti». Il suo nome di copertura è Janghir,
ha 31 anni e una barba più lunga di quella di Osama. La sua iniziazione è
avvenuta da ragazzino durante la jihad contro i russi, il perfezionamento nell'
arte della guerra nel campo di addestramento di Khost, la centrale terroristica
afghana bombardata dagli americani nel 1998. «A ciascun gruppo è affidato il
controllo di una parte di territorio. Ma il comando resta ai talebani, sotto la
direzione di Jaluddin Haqqani, capo delle operazioni di terra», spiega. La
resistenza sulle montagne non fa paura a nessuno. «Siamo abituati a mangiare per
anni pane secco imbevuto nell' acqua o a dormire dentro una trincea». L' esodo
dalle città preannuncia una guerra di logoramento. Ma per quanto Janghir
richiami alla memoria i tempi della jihad, si tratterebbe di una resistenza
solitaria simile a quella dei ceceni contro Mosca più che a quella dei
mujaheddin degli anni Ottanta. Al momento non c' è nessuna superpotenza alle
spalle dei talebani. Nessun Paese disposto a sostenere una nuova guerriglia. Ci
sono i «martiri», però. «Combattenti come me addestrati a immolarsi. L' ordine
potrebbe arrivare in qualunque momento. Gli attentati dell' 11 settembre non
erano giustificati, perché non c' erano condizioni di guerra - dice Janghir -.
Ma da quando gli americani hanno cominciato a bombardare, colpire il nemico
diventa un atto legittimo». L' attivista dell' Herakat-ul-Mujaheddin lancia un
avvertimento: «State attenti tutti, anche voi italiani. Ricordatevi che nel
momento in cui le vostre truppe metteranno piede in Afghanistan, diventerete i
nostri bersagli». Maria Grazia Cutuli
Documento 303 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 14/11/2001 NUMERO
Mer PAGINA 011
OCCHIELLO LA CADUTA DI KABUL: SOCIETA' CIVILE
TITOLO «Toglieremo il burqa, ma sarà un altro incubo»
SOMMARIO Le attiviste afghane, rifugiate in Pakistan: «La nostra lotta continua,
i mujaheddin sono criminali come i talebani»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, donne
NOTE attacco USA contro l' Afghanistan. caduta di Kabul. l' Alleanza del Nord
promette alle donne condizioni di vita diverse ma non tutte ci credono. scheda:
condannate a non poter alzare la voce
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE SENZA VOLTO Una donna afghana con il viso coperto dal
burqa cammina mentre alle sue spalle si muove un carro armato dell' Alleanza del
Nord Yannis Behrakis Reuters
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«Toglieremo il burqa, ma sarà un altro incubo» Le attiviste afghane, rifugiate
in Pakistan: «La nostra lotta continua, i mujaheddin sono criminali come i
talebani» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - «Sorelle dell' Afghanistan», la
schiavitù è finita. «Tornate a lavorare negli uffici, a studiare nelle scuole,
recuperate i vostri diritti, d' accordo con i principi dell' Islam e della
nostra tradizione». Sorelle dell' Afghanistan - dicono i mujaheddin - gettate
via il burqa, mostrate il vostro viso, uscite per le strade. Il Medioevo è
passato, i talebani sono spariti. Dimenticate gli editti dei mullah, il mondo
delle ombre, l' angoscia della punizione. Non ci saranno più scorribande della
polizia religiosa, «sacre verghe» a bastonare le vostre schiene, minacce di
lapidazione contro le fedifraghe, cortine nere a oscurare le vostre finestre. L'
Alleanza del Nord promette un futuro radioso. Dirama comunicati. Invita le donne
a riprendere il proprio posto. Lascia che gli uomini si radano la barba, che la
musica ritorni nelle strade, che la vita ricominci senza l' ossessione della
sharia. Ma c' è chi non si lascia incantare dalle sirene della liberazione.
Questa è comunque una guerra, vinta dai nemici di ieri. E' un nuovo bagno di
sangue. E' l' incognita del caos. «Non è la Kabul che volevamo, tanto meno il
futuro che speravamo per la nostra città». Shikeba, 25 anni, attivista del Rawa,
l' associazione rivoluzionaria femminile dell' Afghanistan, ha lasciato il suo
Paese ad agosto del ' 96, due mesi prima che i talebani entrassero nella
capitale. «Ricordo ancora gli anni in cui i mujaheddin governavano a Kabul.
Ricordo le bombe, i saccheggi, gli stupri. Che volete ci importi del burqa? Sarà
un altro incubo». Combattevano giorno e notte i signori di Kabul. Uno contro l'
altro, a tirarsi granate tra le case della gente. «Criminali come i talebani.
Non credete che i mujaheddin fossero migliori. La guerra tra le fazioni ha
lasciato un' intera generazione senza istruzione e senza cultura. Sono stati
loro i primi a distruggere le scuole, devastare l' università, seminare la
povertà». Shikeba vive in Pakistan con la famiglia. Milita tra le file del Rawa
da quando aveva 15 anni. Sono stati i combattimenti tra i mujaheddin e i
talebani, oltre alla repressione contro le attiviste del suo movimento, a
trasformarla in una profuga. La ragazza ha passato la giornata al telefono,
cercando di parlare con le amiche rimaste a Kabul. Sempre la solita voce
irritante e metallica. «Salam Alekum, le linee sono momentaneamente interrotte».
«Impossibile parlare, sapere che cosa sta succedendo davvero». Le notizie
arrivate da Mazar-i-Sharif non la rallegrano: «Abbiamo parlato con membri della
nostra organizzazione. E' vero, hanno visto donne togliersi il burqa, gli uomini
rasarsi. Ma ci raccontano anche che la gente ha paura. Il ritorno dell' Alleanza
del Nord segna una nuova catastrofe per il nostro Paese». Tutti i membri del
Rawa, un' organizzazione femminista nata nel ' 77, la pensano come lei.
Cresciute nei campi profughi del Pakistan, le piccole eroine della dissidenza
laica credono che solo il ritorno di re Zahir Shah e l' instaurazione della Loja
Jirga possa garantire la pace. Sperano in un intervento dell' Onu, confortate
dalle parole pronunciate ieri da Kofi Annan: «Affrontare la condizione della
donna sarà una priorità per qualunque ruolo rivestito dalle Nazioni Unite in
Afghanistan». Vivono e lavorano in clandestinità, controllate dalla polizia e
dai servizi segreti. In questi anni, coperte dal burqa, con telecamere nascoste
sotto il velo, sono entrate e uscite dall' Afghanistan per documentare e
denunciare i crimini commessi dai talebani. Ma, anche, per aiutare e sostenere
la popolazione. Hanno creato scuole informali nelle case, hanno portato cibo,
hanno assistito le profughe nei campi oltre il confine. Combattono, dicono,
contro ogni forma di fondamentalismo islamico. Quello dei Talebani,
naturalmente. Ma allo stesso modo quello dell' Alleanza. «E' stato il
leggendario comandante Massud il primo a imporre il velo alle donne - racconta
Refit, un' altra attivista del Rawa -. E' con lui che è cominciata la
schiavitù». Nessun rispetto, nessuna garanzia. «Quando i mujaheddin sono entrati
a Kabul nel ' 92, le ragazze cresciute sotto il regime filo sovietico di
Najibullah erano abituate a vestire all' Occidentale, a uscire da sole, a
frequentare gli amici. Sono state trattate come puttane. I guerriglieri
sembravano bestie selvagge. Entravano nelle case con i kalashnikov e
costringevano i padri a consegnare le loro figlie. Gli stupri erano all' ordine
del giorno. Decine di ragazze si sono suicidate per evitare di essere
violentate». Tutto confermato in un rapporto pubblicato da Amnesty International
nel ' 95, l' ultimo anno in cui i mujaheddin sono rimasti al potere: storie
raccapriccianti di donne incinte sventrate ai check point, spose coatte di
comandanti militari, vedove lapidate per aver ripreso marito. Le attiviste del
Rawa escludono che si trattasse di un effetto della guerra. E forse esagerano.
Il regime di Massud, per chi ha visitato Kabul in quegli anni, era certamente
più tollerante rispetto a quello dei talebani. Ma loro insistono: «La gente ha
vissuto anni di terrore». I guerrieri coranici avrebbero solo chiuso il cerchio
dell' oscurantismo. «Hanno messo fine a ogni forma di libertà. Hanno
perseguitato sistematicamente le donne, hanno lasciato che il Paese sprofondasse
nella miseria - continua Shikeba - ma la differenza con i mujaheddin è minima.
Non basta permettere alle donne di buttar via il burqa per convincerci a
tornare. La nostra lotta continua, finché l' Afghanistan non sarà veramente
liberato». Maria Grazia Cutuli Condannate a non poter alzare la voce LAVORO E
STUDIO Le donne afghane non possono lavorare fuori casa e non possono
frequentare scuole o università (l' unica professione ammessa è quella di medico
o infermiere, visto che i talebani vietano alle pazienti di sesso femminile di
essere visitate da medici maschi) MOVIMENTO Non possono uscire di casa se non
accompagnate da un parente stretto (mahram). Non possono usare la bicicletta, né
guidare l' auto o la moto, né salire sui mezzi pubblici. Non possono fare sport
VISIBILITA' Devono indossare il burqa che le copre dalla testa ai piedi,
lasciando soltanto una piccola grata davanti agli occhi (le bambine possono
mostrare il volto ma solo fin quando non cresce loro il seno). Non possono
vivere in case che non abbiano i vetri oscurati, non possono affacciarsi al
balcone, non possono lavare i panni nei fiumi o in luoghi pubblici ASCOLTO Non
possono parlare ad alta voce o ridere in pubblico (nessuno sconosciuto deve
udirne la voce), non possono indossare scarpe con i tacchi (perché farebbero
troppo rumore). Una loro testimonianza resa in tribunale vale la metà di quella
di un uomo RELAZIONI CON L' ALTRO SESSO Non possono stringere la mano di un
uomo, non possono servirsi da un sarto, non possono essere visitate da un
medico. Se sospettate di una relazione adulterina sono condannate alla
lapidazione LA CADUTA DI KABUL SOCIETA' CIVILE L' Alleanza del Nord dirama
comunicati promettendo alle «sorelle» un futuro radioso. Ma non tutte ci credono
«Quando governavano Kabul gli stupri erano all' ordine del giorno». E un
rapporto di Amnesty International lo conferma
Documento 304 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 14/11/2001 NUMERO
Mer PAGINA 005
TITOLO ALLA QUARTA VOLTA GIOIA SENZA ILLUSIONI
AUTORE Cutuli Maria Grazia
GENERE stst
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco USA contro Afghanistan. caduta di Kabul. l' entrata in citta' dell'
Alleanza del Nord. cronologia liberazioni ed occupazioni della capitale.
commento
LOCALITA' SOGGETTO KABUL. AFGHANISTAN
LOCALITA' EVENTO KABUL. AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE T I NUMERI dati su Kabul
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ALLA QUARTA VOLTA GIOIA SENZA ILLUSIONI di MARIA GRAZIA CUTULI Era il paradiso
degli hippy, la tappa obbligata dei giovani che negli anni Settanta si
avventuravano sulle piste esotiche dell' Asia centrale. Le ragazze occidentali
arrivavano a Kabul in minigonna, gli uomini con i capelli lunghi e stracci
variopinti addosso. Si accampavano a Chicken Street per fumare hashish, comprare
vecchi argenti o souvenir d' epoca. Poi, il 28 aprile 1978, il colpo di Stato
marxista. Venti di guerra cominciano a soffiare sulla capitale afghana,
attraversata da maestosi boulevard, costellata da edifici sontuosi, affollata di
antichi bazar, intrigante e misteriosa anche nei suoi quartieri più poveri, tra
le case costruite col fango e le baracche della periferia. Mosca si prepara a
invadere l' Afghanistan. Le truppe sovietiche entrano a Kabul il 24 dicembre
1979. Gli oppositori islamici organizzano la resistenza dal Pakistan, con l'
appoggio degli americani. Comincia la guerra, ma la capitale non viene toccata.
Per dieci anni Kabul si salva dalla distruzione. Nascono nuovi quartieri,
casermoni del socialismo reale, ville e residenze per i boss della nomenklatura.
La città continua a vivere in un' atmosfera surreale, mentre i mujaheddin
combattono nei villaggi, nelle montagne, negli altri centri del Paese. I russi
si ritirano nel 1989. Kabul resiste tre anni sotto il governo filosovietico di
Najibullah. Ma la pace è una chimera. Nell' aprile 1992 i guerriglieri della
Jihad entrano in città. Cominciano a scontrarsi gli uni con gli altri. Il primo
che trasforma la capitale in un campo di battaglia è Gulbuddin Hekmatyar. Non c'
è palazzo, edificio, abitazione che si salvi dalle granate. Non c' è strada che
non venga cosparsa di mine. Kabul si trasforma in una landa spettrale, una
geologia di macerie, un mosaico di prime linee, dove la gente vive senza acqua,
senza luce, barricata dietro montagne di sacchi anti granata. I talebani
arrivano per la prima volta nel 1995. Sconfiggono tutti gli avversari, tranne
uno: il comandante Massud. Il «leone del Panshir» li ricaccia indietro. Ancora
bombe su Kabul. Ma il bazar continua a funzionare, le bancarelle a esporre merci
d' importazione. Nelle botteghe si trova frutta, verdura, crema Nivea e persino
Nutella. Il 26 settembre 1996 i guerrieri coranici conquistano la città. Non si
spara più. Kabul, nuovo laboratorio della sharia, la legge coranica, diventa
plumbea come un lager. «Meglio che le bombe dei mujaheddin», ripetono gli
abitanti. Rimangono solo i poveri, quelli che non sono riusciti a fuggire.
Mendicanti e diseredati, talmente afflitti da non stupirsi nemmeno, cinque anni
dopo, assediati per la quarta volta, dei bombardamenti americani. Ieri, all'
arrivo dei mujaheddin, hanno festeggiato per le strade di Kabul. Ma forse senza
troppe illusioni.
Documento 305 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 15/11/2001 NUMERO
Gio PAGINA 009
OCCHIELLO Ahmed Gailani
TITOLO «Via il burqa, ma le nostre donne devono tenere il velo»
SOMMARIO Il leader dello schieramento monarchico auspica «un ritorno alla nostra
cultura, senza eccessi»
AUTORE Cutuli Maria Grazia
GENERE intervista
ARGOMENTO guerra, donne
NOTE dopo caduta di Kabul. la liberazione delle donne afghane. dichiarazioni di
Pir Sayed Ahmed Gailani, il grande vecchio dello schieramento monarchico,
emigrato in Pakistan
PERSONAGGI Gailani Pir Sayed AhmedGailani
LOCALITA' SOGGETTO AFGHANISTAN
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE A VISO APERTO Una donna senza burqa nel centro di Kabul
Sayed Ahmed Gailani
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«Via il burqa, ma le nostre donne devono tenere il velo» DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - Né con il burqa né con la minigonna. La «liberazione» delle donne
afghane, dopo la foga puritana dei talebani, avverrà nel rispetto dei costumi
dell' Islam. Un cambiamento che potrà soddisfare tutti, anche quei moderati che
non hanno partecipato alla conquista di Kabul, ma che sperano di entrare in
futuro nel governo democratico dell' Afghanistan. «Un ritorno alla nostra
cultura, senza eccessi e senza fondamentalismi», dice Pir Sayed Ahmed Gailani,
il grande vecchio dello schieramento monarchico, emigrato in Pakistan dopo aver
guidato una delle fazioni della Jihad durante l' invasione sovietica. Il leader
pashtun è attivissimo in questi giorni nel promuovere il ritorno del re e l'
instaurazione della Loya Jirga come soluzione per l' Afghanistan, è anche capo
di una setta sufi. Da esponente politico, religioso, militare ha visto tre
generazioni femminili costrette a cambiare comportamenti e stili di vita a ogni
passaggio di regime. «Libertà assoluta sotto i comunisti: le ragazze che
uscivano da sole, andavano a ballare come in qualsiasi Paese occidentale. Poi
sono arrivati i mujaheddin. Per le donne afghane è stato durissimo: stupri,
violenze, suicidi per sfuggire alle bande criminali. L' era dei talebani non ha
lasciato scampo: bastava tirarsi su il burqa per essere bastonate dalla polizia
religiosa. Tre condizioni che rispecchiano altrettante forme di estremismo».
Qualcuna peggiore delle altre, o no? «In tutti e tre i casi, le afghane sono
state vittime di modelli imposti dall' alto, che non rispettavano né i diritti
umani né i principi corretti dell' Islam. L' unico momento in cui le donne hanno
vissuto in pace con la tradizione e con i loro diritti è stato durante la
monarchia e negli anni che hanno preceduto l' invasione sovietica». Perché
considera dannosa la libertà di cui godevano le ragazze durante il regime filocomunista? «Perché non aveva niente a che vedere con le nostre credenze e con le
nostre radici». Quali sono i diritti previsti per le donne islamiche?
«Innanzitutto l' istruzione. Qualunque ragazza deve essere messa in condizione
di frequentare la scuola, diplomarsi o laurearsi se vuole. Poi, il diritto al
lavoro: è giusto che le donne tornino a esercitare le proprie professioni, che
possano sedere fianco a fianco con gli uomini negli uffici». E' tempo di buttar
via il velo integrale? «Il burqa non fa parte della nostra tradizione. E' un
abito d' importazione che arriva da certe culture indiane. Se una donna vuole
indossarlo, lo faccia pure. Ma il governo non può renderlo obbligatorio». Niente
a che vedere con l' Islam? «No, il Corano prevede lo hjab, che è qualcosa di
molto diverso. Un mantello che copre il corpo lasciando scoperte solo le mani, i
piedi, la faccia. E' un indumento che offre dei vantaggi, come la shawal kamise
usata dagli uomini: non c' è bisogno di portare nient' altro sotto, al contrario
del burqa o del chador». Spariti i talebani, saranno ammessi abiti e costumi
occidentali? «Non ne vedo la necessità. Credo sia meglio che le donne afghane
continuino a vestire e a comportarsi secondo il loro stile. Nessuno di noi è
abituato a vedere décolleté o altri parti del corpo esibite o scoperte». Abiti a
parte, non crede che le donne afghane debbano cominciare a godere di una vera
parità con gli uomini? «Gli uomini devono cambiare la loro mentalità: più grave
del burqa è la mancanza di rispetto che i fondamentalisti mostrano nei confronti
delle proprie moglie, figlie o sorelle. Bisogna stabilire rapporti corretti tra
i due sessi». Corretti e paritari? «Cominciamo a riaprire le scuole, a far
tornare le donne al lavoro. Negli uffici, negli ospedali, nei mercati. E' giusto
che ciascuna riprenda il suo ruolo, che impari una professione. Sotto i
talebani, la popolazione afghana è scivolata nell' ignoranza e nella miseria».
Un governo che si ispira ai principi dell' Islam ha il diritto di decidere sulle
questioni morali? «No, se parliamo dei bandi decretati dai talebani. Non possono
essere gli editti dei mullah a sancire i comportamenti femminili, a decidere in
nome della legge coranica che cosa si deve o non si deve fare. Non è questo che
prescrive l' Islam». M. G. C.
Documento 306 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 15/11/2001 NUMERO
Gio PAGINA 009
TITOLO L' appello alle tribù dei capi monarchici
SOMMARIO Jalalabad, il cancello d' accesso all' Afghanistan presa da Younis
Khalis, eroe della lotta ai russi Il clan di Abdul Haq cercherà oggi di entrare
nella città per piantare la sua piccola bandiera
AUTORE Cutuli Maria Grazia
GENERE stst
ARGOMENTO guerra
NOTE dopo caduta di Kabul. diplomazia al lavoro. il futuro politico. la
conquista di Jalalabad dichiarazioni di Younis Khalis. scheda elenco tutte le
etnie del mosaico afgano
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE SU LA TESTA Afghani per le strade di Kabul con in testa i
tradizionali vassoi per il pane (Foto Associated Press)
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L' appello alle tribù dei capi monarchici Jalalabad, il cancello d' accesso all'
Afghanistan presa da Younis Khalis, eroe della lotta ai russi DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - I comandanti monarchici chiamano a raccolta le loro tribù. Decine,
centinaia, migliaia di pashtun armati siedono nei giardini delle case di
Peshawar, si accovacciano sulle moquette logore, si preparano all' attesa su
vecchi divani di velluto. E' un via vai continuo, un confabulare, un incalzare
di riunioni a porte chiuse, di consigli di guerra, di frasi a metà. «Domani lo
saprete». «Domani vedrete». Jalalabad non può essere lasciata in mano a un solo
gruppo. La sua conquista è merito di tutti, anche di quelli che non hanno
partecipato. Il suo destino un problema comune, cosa nostra per i clan afghani
che dalla frontiera gettano un occhio o danno una mano ai traffici di armi,
droga, merci di contrabbando destinati a passare attraverso la città. Porta d'
accesso all' Afghanistan, Jalalabad, nascosta a un' ora di macchina dietro l'
area tribale pakistana, dopo le montagne del Khyber Pass, oltre le coltivazioni
di oppio che hanno arricchito le casse dei talebani, circondata dai vecchi campi
d' addestramento di Osama Bin Laden, è stata il regno delle bande cecene che
proteggevano lo sceicco barbuto. Oggi è il cancello per l' Afghanistan liberato.
Non quello caduto sotto l' Alleanza del Nord. L' altro Afghanistan, il Paese che
i pashtun votati alla causa di re Zahir Shah non vogliono cedere alle etnie
nemiche. Chi l' ha presa davvero? «Younis Khalis», rispondono in casa di Abdul
Haq, lo sfortunato comandante ucciso dagli arabi di Osama, durante una recente
missione in Afghanistan per conto degli Usa. «Younis Khalis». Un nome che
riemerge dai libri di storia. Era il leader dell' Hizb-i-Islami durante la
resistenza contro i sovietici. Più onesto degli altri, dicono, se non altro per
essersi rifiutato di unirsi ai mujaheddin nel 1992 durante il sacco di Kabul. La
famiglia di Abdul Haq lo riconosce come proprio capo e si prepara, con centinaia
di seguaci, a raggiungerlo a Jalalabad. «Non è stata una conquista, ma una
negoziazione», dice Nasrullah Arsalai, fratello di Haq, tornato dalla Germania
tre settimane fa. Younis Khalis avrebbe convinto Abdul Kabir, governatore di
Jalalabad, a cedere la città. «Non aveva altra scelta, la gente era stufa dei
talebani». Gioco facile: Khalis viveva già a Jalalabad. Aveva buoni rapporti con
le milizie fondamentaliste. Il governatore era stato tra i suoi soldati durante
la Jihad. C' erano gli arabi, è vero. L' incubo dei comandanti pashtun che nelle
ultime settimane fremevano per entrare in città: l' altro ieri si parlava di 4
mila miliziani, più 5 mila volontari pakistani. Spariti? «Forse sulle montagne».
Forse sulla strada. Non importa. Il clan di Abdul Haq cercherà oggi di entrare
in città per piantare la sua piccola bandiera. L' Alleanza del Nord deve
rimanere fuori. Che se ne stia a Kabul. «Non abbiamo nessuna intenzione di
partecipare alle loro azioni militari», sottolinea Nasrullah. «Discuteremo con
loro del nuovo governo». Il re ci sarà? Abdul Haq si è sacrificato per Zahir
Shah. Su Younis Khalis nessuna certezza. Chi ha preso veramente Jalalabad? In
una seconda villa di Peshawar, altre tribù rivendicano la vittoria, i comandanti
delle province dell' Est. I seguaci del Haji Mohammed Zaman, barba rossiccia e
occhi chiari, tornato dall' esilio parigino per partecipare alla liberazione
dell' Afghanistan. Da un mese si autoqualificano come soldati del re, si dicono
pronti a partire, disposti ad accettare l' aiuto americano. Adesso non si
rassegnano a non essere arrivati in tempo. Con i kalashnikov e i walkie-talkie
in mano, curvano le schiene su una mappa militare. «Stanotte entreremo»,
annunciano tormentandosi le barbe. «Situazione confusa», sorride un osservatore.
E' Pir Sayed Ishaq Gailani, nipote di Ahmed, leader monarchico. Anche lui, ex
mujaheddin di cultura occidentale, appena arrivato da Roma dopo un incontro con
il re, è interessato alla partita. Ma per il momento la guarda da lontano. «Le
tribù dell' Est si stanno dando un gran da fare a cacciare i talebani. Oggi o
domani sceglieranno nuovi leader». La strada è aperta, la situazione confusa.
«L' Afghanistan si sta spaccando in due». Da una parte l' Alleanza del Nord,
dall' altra i pashtun seguaci del re. Maria Grazia Cutuli Le principali etnie
del mosaico afghano PASHTUN Sono il gruppo etnico più numeroso in Afghanistan:
13 milioni di persone, circa il 50 per cento del totale. Vivono nel Sud-est del
Paese e anche nel Pakistan nordoccidentale (la cosiddetta regione tribale). I
talebani sono prevalentemente di etnia pashtun TAGIKI Sono il gruppo dominante
nell' ex Repubblica sovietica del Tagikistan. In Afghanistan sono circa 3,5
milioni (il 15 per cento del totale e vivono nelle regioni del Nord) UZBEKI Sono
circa un milione. Di etnia turca, risiedono nel Nord del Paese, al confine con
l' Uzbekistan, da dove molti scapparono negli anni Venti per sfuggire alle
repressioni sovietiche HAZARA Sono poco più di un milione. L' espansione dei
pashtun nel XVIII secolo li ha relegati nelle zone montagnose centrali del
Paese, le più aride. In origine agricoltori, vivono oggi per lo più nelle aree
urbane FARSI I farsi, circa 600 mila contadini che parlano la stessa lingua dei
persiani, abitano le aree più occidentali del Paese, al confine con l' Iran,
come Belucistan e Brahui AIMAK Con questo nome si indicano circa 800 mila
persone raggruppate in otto tribù seminomadi che occupano le aree centrooccidentali dell' Afghanistan, fino al confine con il Turkmenistan LA CADUTA DI
KABUL FRONTE SUD I pashtun del sud non vogliono lasciare tutta la gloria ai
conquistatori di Kabul, le etnie dell' Alleanza del Nord Decine, centinaia,
migliaia di miliziani armati siedono nei giardini delle case di Peshawar
Documento 307 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 16/11/2001 NUMERO
Ven PAGINA 007
TITOLO Le milizie pashtun padrone di Jalalabad
SOMMARIO La città è stata liberata dai seguaci dell' ex re Zahir: «Siamo
contrari al predominio dell' Alleanza del Nord» La carovana dei conquistatori
scivola veloce lungo la pista deserta e terrosa Strade rischiarate da deboli
lampioni mostrano bazar senza merce e uomini in armi
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE dopo caduta di Kabul. la conquista di Jalalabad da parte delle milizie
Pashtun
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE AVANZATA VITTORIOSA Rinforzi dell' Alleanza del Nord
marciano in Afghanistan per sostenere i mujaheddin nell' eventualità di
contrattacchi talebani Getty Images/La Press
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Le milizie pashtun padrone di Jalalabad La città è stata liberata dai seguaci
dell' ex re Zahir: «Siamo contrari al predominio dell' Alleanza del Nord» DAL
NOSTRO INVIATO JALALABAD - Non c' è più dogana, non c' è più frontiera. Oltre il
Khyber Pass, l' ingresso in Afghanistan è segnato da una fila di catapecchie
vuote, che un tempo ospitavano un bazar di confine, chiuso tra montagne
inaccessibili. I talebani sono spariti. Hanno lasciato la strada che porta a
Jalalabad. Hanno consegnato la città, i suoi dintorni, l' intera regione alle
tribù dell' est. Pashtun come loro, ma sotto altre bandiere. Non ci sono arabi
sulla strada, volontari islamici, miliziani pakistani. Anche i sostenitori di
Osama, che avevano minacciato jihad o morte, si sono ritirati verso altri
territori. Scomparsi o forse inghiottiti negli anfratti imperscrutabili della
terra di nessuno. La carovana dei conquistatori scivola veloce lungo la pista
deserta e terrosa che rappresenta uno dei principali corridoi commerciali dell'
Afghanistan. È formata da pullman, da camion, da pick-up. Trasporta capi clan,
anziani, comandanti militari, tutti i membri della potente famiglia di Abdul
Haq, l' ex leader della jihad contro i russi, ucciso tre settimane fa durante
una missione in Afghanistan per conto degli americani. Tutti fedeli al re, il
vecchio Zahir Shah esiliato a Roma, viaggiano con le immaginette del sovrano
attaccate al cruscotto e i fucili tra le gambe. Sono in 2.000. Arrivati da
Peshawar, retrovia della resistenza in Pakistan. Tornano a unirsi alle fazioni
che hanno preso il controllo di Jalalabad. Premono per arrivare in tempo, prima
che altri gruppi strappino di mano il loro feudo d' origine. Temono agguati
sulla strada, colpi di coda dei guerrieri coranici. Ma il viaggio procede
tranquillo tra fortini di fango, accampamenti di profughi e i primi villaggi,
dove la folla festeggia l' arrivo dei fratelli pashtun, con una parata di
bazooka e lancia granate. «Welcome ai liberatori», gridano lungo la strada,
enfatizzando la gioia del momento con tre, quattro, cinque terrificanti tiri di
mortaio. «Sono i nuovi mujaheddin», esulta Rakim, il capo convoglio. Sgrana gli
occhi azzurri, urla al walkie-talkie, li attende fuori dal pullman per salutare
volti sconosciuti, ripetendo estasiato: «Non sono mai stato così felice in vita
mia». Un ingorgo di auto annuncia l' arrivo a Jalalabad, la nuova capitale dei
pashtun. Seconda città del Paese, conquistata senza sparare un colpo e,
soprattutto - dichiarano i capi tribali - senza l' intervento dell' Alleanza del
Nord. La prima pietra per contrastare i signori della guerra che, con la
copertura aerea americana, sono riusciti a riprendersi Kabul e l' Afghanistan
settentrionale. È qui che il Paese si spacca. È qui che si segna lo spartiacque
tra due gruppi di potere. Le etnie tagike, uzbeke, hazara che hanno fatto cadere
il bastione dei fondamentalisti e adesso vogliono dettare le condizioni per il
prossimo governo, e l' etnia dell' est che sostiene il re, i consigli tribali,
il ritorno alla tradizione. Jalalabad, principale snodo commerciale, città di
confine, meta di ogni traffico illecito, resta al centro dello scontro. Strade
rischiarate da deboli lampioni mostrano bazar senza merce, nascosti dietro il
fumo dei barbecue. Migliaia di uomini armati, bazooka in spalla, missili
anticarro sui pick-up, kalashnikov in mano, si aggirano inquieti coperti da
pesanti scialli di lana. Schieramenti di guerriglieri appaiono negli alberghi,
negli edifici pubblici, sugli scaloni che portano al palazzo del governatore,
Abdul Kabir, l' uomo dei talebani che ha consegnato la città senza sparare un
colpo. «Delegazioni», le chiamano, ed è quanto basta per dire che sono arrivati
da fuori. Non si vedono civili in giro, né tanto meno donne. Solo miliziani
barbuti col turbante, in tutto simili ai guerrieri coranici che se ne sono
andati via. L' oscurità copre ogni segno dei bombardamenti americani. La città è
stata presa mercoledì da Younis Khalis, comandante storico dell' Hezb-i-islami,
una delle fazioni che combatterono la guerra contro i russi. Ma già nessuno di
ricorda di lui. «È solo un prestanome del clan di Abdul Haq», dicono. Conta la
maniera come è stata presa Jalalabad. «Nessuno scontro, nessuna vittima racconta uno dei comandanti, Mohammed Azrat, bardato come un guerriero medievale
- c' è stato un meeting, si è discusso a lungo. Poi ieri notte sono entrati i
nostri mujaheddin senza dover premere nemmeno un grilletto». Mezze verità. In
città si è sparato, sussurrano altri. Ma non con i talebani. «Quelli sono
scappati a Kandahar, nel centro del Paese - aggiunge il comandante -. E con loro
gli arabi di Osama. Tutti via». A combattere sarebbero stati i pashtun contro
altri pashtun. Tribù arrivate dal distretto di Nangarhar, Laghaman, Nuristan,
tra i settemila e i diecimila mujaheddin, in bilico sulla guerra civile. La
nuova Jalalabad, vociante e spettrale nelle ore della notte, è una città molto
vicina al caos. «Problemi di sicurezza», li chiama Rakim, il capo convoglio
arrivato da Peshawar, invitando a non andare in giro per le strade. Vorrebbe
organizzare una conferenza stampa. Ma né lui, né i parenti di Abdul Haq, né i
pakistani di un' organizzazione umanitaria, stranamente presenti e attivi nel
palazzo del governatore, hanno deciso che cosa raccontare ai giornalisti
trasportati fin qui. Chi parla dietro le quinte, rivela una storia fatta di
intrecci familiari e di appartenenze, all' interno di una stessa famiglia, a
fronti diversi. Si litiga sulla nomina del prossimo governatore: quattro
comandanti in lizza, quattro milizie, quattro fazioni. E una grande spaccatura
tra chi vuole trasformare la città nell' avamposto dei pashtun, e chi vorrebbe
invece trascinarla sotto la stella d' influenza dell' Alleanza del Nord. Anche
il potente clan di Abdul Haq fa un gioco ambiguo: si dichiara indipendente,
sostiene il re, ma uno dei fratelli del comandante ucciso, Haji Kadir, ex
governatore di Jalalabad, favorito per la nomina, ha militato proprio con l'
Alleanza del Nord. La trattativa continua. Passa da una Shura all' altra,
consigli tribali sospesi sul vuoto di potere. Nella notte il rombo degli aerei
americani accompagna l' eco di un bombardamento. Jalalabad è una città assediata
più che liberata. L' anticamera forse di una guerra fratricida. Maria Grazia
Cutuli Strade rischiarate da deboli lampioni mostrano bazar senza merce dove si
aggirano migliaia di uomini armati LA FUGA DEI TALEBANI FRONTE SUD Non c' è più
dogana, non c' è più frontiera. L' ingresso in Afghanistan è segnato da una fila
di catapecchie vuote I sostenitori di Osama si sono ritirati verso altri
territori. Scomparsi o forse inghiottiti negli anfratti della terra di nessuno
Documento 308 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 17/11/2001 NUMERO
Sab PAGINA 002
TITOLO Terroristi e talebani fuggono in montagna
SOMMARIO Dopo la caduta di Jalalabad gli uomini dello sceicco si nascondono nei
tunnel a sud della città I miliziani coranici hanno portato via anche la cassa
della Banca Centrale I covi sono stati costruiti dai mujaheddin per resistere
all' invasione sovietica
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra, terrorismo
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo caduta di Jalalabad la fuga dei
militanti di Al Qaeda
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE TG LA STRUTTURA DI AL QAEDA CAVALLERIA MODERNA Soldati
americani delle forze speciali a cavallo perlustrano il territorio afghano
insieme ai mujaheddin antitalebani dell' Alleanza del Nord Ansa C AFGHANISTAN
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Terroristi e talebani fuggono in montagna Dopo la caduta di Jalalabad gli uomini
dello sceicco si nascondono nei tunnel a sud della città DAL NOSTRO INVIATO
JALALABAD (Afghanistan) - Si sono separati dalle famiglie piangendo. I militanti
di Al Qaeda sulle camionette cariche di armi, casse e fagotti, diretti verso le
montagne. Le mogli coperte dal burqa e i bambini in lacrime verso il confine con
il Pakistan. «Una scena da non crederci - racconta Zingle Bad Shah, un
infermiere di Jalalabad -. Faceva quasi pena vederli». Gli uomini di Osama Bin
Laden, gli spietati combattenti della congrega terroristica più pericolosa del
pianeta, colti in un momento di debolezza, mentre abbandonavano le proprie case,
incalzati dalle milizie tribali. Se ne sono andati a mezzogiorno di mercoledì,
arabi, pakistani, ceceni, dopo che i talebani hanno accettato di lasciare
Jalalabad ai capi clan delle province orientali dell' Afghanistan, liberando la
città dalla loro velenosa presenza. «Vinti più di qualunque altro - dice ancora
l' infermiere che abita a pochi metri dal loro compound. - Arroganti e
violenti». Spariti, grazie a Dio. Alcuni nell' area tribale del Pakistan. Altri,
più pericolosi, in un posto che si chiama Tora Bora, a 4 mila metri di altezza
sulla Spingar Montain, la Montagna Bianca, 40 chilometri a sud di Jalalabad. Un
rifugio sperimentato. Costruito dai vecchi mujaheddin per resistere ai
sovietici, offre una base formata da una ragnatela di tunnel sotterranei, dove
si sarebbero accampati assieme a gran parte delle milizie coraniche, fuggite
anche loro portandosi dietro l' intera cassa della Banca Centrale. Gli
americani, che negli anni ' 80 avevano contribuito coi loro finanziamenti a far
nascere luoghi come questi, hanno tentato di distruggere Tora Bora nel 1998. Ma
le bombe l' hanno scalfito appena. «Il campo non ha mai smesso di funzionare dice Alim Shah, uno dei comandanti pashtun che hanno preso il controllo di
Jalalabad -. Gli uomini di Osama possono sopravvivere dentro ai tunnel per
mesi». La rete di approvvigionamenti è garantita dal Pakistan. «È dalla
frontiera che arrivano viveri e munizioni». Gli americani ci provano ancora. Il
tonfo dei bombardamenti che fa tremare i vetri di Jalalabad rimbomba proprio da
lì, dalla roccaforte della Montagna Bianca. La rete era capillare, qui a
Jalalabad. Da una parte c' erano gli arabi: algerini, egiziani, sauditi. I più
potenti, con Atef come capo, il numero tre di Al Qaeda, che sarebbe stato ucciso
dagli americani. Dall' altra i volontari pakistani. Il gruppo dei ceceni,
tagiki, uzbeki. Quattromila persone, unite da una stessa fede: Al Qaeda, l'
internazionale del terrore. In questa terra di confine, gli «stranieri» facevano
parte della vita cittadina. Avevano sposato ragazze afghane, comprate dai padri
a suon di dollari. Avevano fatto figli. Le loro case e i loro campi di
addestramento - segreti e impenetrabili fino a qualche giorno fa - appaiono all'
improvviso accessibili a tutti: edifici svuotati e abbandonati, scheletri
insignificanti dietro muraglie di fango compresso e barriere di filo spinato.
Zingle Bad Shah, l' infermiere che li ha visti partire, mostra uno dei loro
quartieri. All' entrata, una parata di vecchi pezzi di artiglieria di marca
sovietica. I nuovi conquistatori, ragazzini dall' aria sfatta, accovacciati coi
vestiti laceri e i pakoul in testa, sorvegliano le granate allineate sui
gradini. Dentro, un mosaico di appartamenti, casette nuove dai tetti impagliati,
vestiti gettati alla rinfusa, libri, giocattoli. Su uno scaffale, volumi e
riviste in tedesco. «La moglie era una donna arrivata dalla Germania - racconta
l' infermiere -. Nessuno l' ha mai vista in faccia». Dietro le case, oltre una
rete di canali, si trova invece il centro di addestramento da cui passavano i
volontari islamici per imparare a confezionare esplosivi, prima di essere
spediti nelle basi operative come quella di Farm Hada, a 10 chilometri da
Jalalabad. Anche qui stanze vuote, residuati bellici e cianfrusaglie. Ma
qualcuno ha dimenticato un librone in arabo, un manuale del terrorismo. I
fantasmi di Al Qaeda aleggiano sulla città. «Non tutti gli arabi se ne sono
andati - racconta il giovane Mobares, un afghano vicino alla rete di Osama -.
Tanti si sono nascosti presso le famiglie delle loro mogli». Molti sono rimasti
in clandestinità. E aspettano, assieme ai talebani che si sono mimetizzati tra i
mujaheddin, di capire chi saranno i veri vincitori. Le tribù dell' Est non hanno
ancora trovato un accordo. «Jalalabad non è mai stata pericolosa come adesso -
sussurra qualcuno -. Tra poco si comincerà a sparare». Le brigate di Osama
potrebbero tornare. Maria Grazia Cutuli LA FUGA DEI TALEBANI LA CACCIA Il campo
di addestramento riceve viveri e munizioni dal vicino confine col Pakistan. Da
qui potrebbe partire il contrattacco In questa zona di frontiera la rete di Bin
Laden contava 4.000 uomini: tutti «stranieri» sposati a donne afghane
Documento 309 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 18/11/2001 NUMERO
Dom PAGINA 004
OCCHIELLO LA FUGA DEI TALEBANI DIRITTI CIVILI Il velo integrale è parte dei
costumi locali, la sottomissione agli uomini è un' eredità secolare che i
talebani hanno formalizzato Anche nel vicino Pakistan vigono le stesse regole:
perfino nella buona borghesia, i due sessi festeggiano in zone separate
TITOLO Jalalabad «libera» resta una prigione avvolta dal burqa
SOMMARIO Donne sottomesse alle tradizioni dei pashtun «Il nome di mia moglie?
Mai su un giornale». Chi viene da una famiglia agiata, chi ha studiato e chi è
stato all' estero rifiuta il burqa. Chi arriva invece dai villaggi e dalle zone
rurali, dai quartieri poveri, non penserebbe mai di farne a meno
AUTORE Cutuli Maria Grazia
GENERE inchiesta
ARGOMENTO donne
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo caduta Jalalabad. reportage sulla
condizione delle donne
LOCALITA' SOGGETTO JALALABAD.AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE SOTTO CONTROLLO Una donna afghana cammina per Kabul con
un parente. I talebani sono fuggiti, ma molte donne hanno ancora paura di
togliere il burqa e uscire da sole Foto Raffaele Ciriello
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DAL NOSTRO INVIATO JALALABAD - Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono
donne a Jalalabad. La liberazione della città afghana dai talebani ha portato
nelle strade migliaia di miliziani armati, bande ubriache di vittoria, pronte a
contendersi il controllo del territorio sino all' ultimo vicolo o all' ultima
casa. Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gestisce il potere, decide il
futuro. In un' intera mattinata, appaiono tra le botteghe del suk solamente tre
sagome avvolte dal burqa, dal passo silenzioso e discreto, coperte come sempre
dietro la cortina di un poliestere. «Scoprirsi il viso? Non è il momento»,
farfuglia una delle tre, scivolando tra le bancarelle. «Il burqa è l' unica
protezione che abbiamo», dice la seconda, mentre la terza acconsente. «In una
situazione come questa, rischieremmo lo stupro». Fanno la spesa veloci, un po'
di frutta, cotone per cucire, pezzi di pane. E si dileguano con la stessa
andatura leggera con cui sono arrivate, strette una all' altra a difendersi dal
mondo di fuori. Non ci sono stati delitti a Jalalabad, com' è successo invece a
Kabul dopo l' arrivo dell' Alleanza del Nord. Nessun proclama dei mujaheddin che
inviti le donne afghane a tornare nei posti di lavoro e tra i banchi di scuola.
Le milizie tribali - ancorate alle coriacee tradizioni pashtun - hanno altro a
cui pensare. E non è certo il burqa, la segregazione femminile, la violazione
dei diritti umani, il peccato che rimproverano ai talebani. Il velo integrale fa
parte dei costumi locali. La sottomissione delle donne è un' eredità secolare
che le milizie coraniche hanno solo istituzionalizzato. «E la cultura fa la
differenza - dice Karmi Nazri, proprietario di una scuola d' inglese a Jalalabad
-. Chi viene da una famiglia agiata, chi ha studiato e chi è stato all' estero
rifiuta il burqa. Chi arriva invece dai villaggi e dalle zone rurali, dai
quartieri poveri, non penserebbe mai di farne a meno». I talebani non c'
entrano, secondo lui. Anche prima del loro arrivo in Afghanistan, la maggior
parte delle donne pashtun si copriva il viso. «Cambierà qualcosa? Non certo
adesso, con i guerriglieri in giro. Non c' è donna che può aver voglia di
mostrarsi in una situazione come questa». Forse in futuro, a poco a poco, una
volta che l' Afghanistan avrà preso un altro corso politico. «Ma mia moglie, no.
Lei il burqa l' ha sempre portato e lo porterà sino alla fine dei suoi giorni».
Come si chiama la moglie? Il professore d' inglese abbozza un sorriso
imbarazzato: «Non mi pare il caso che il suo nome compaia sui giornali». Nient'
altro da aggiungere. Anche Kamram Bashari, medico all' ospedale centrale di
Jalalabad, si mostra esterrefatto all' idea che le donne della sua famiglia
possano camminare a viso scoperto. «Non hanno mostrato la loro faccia nemmeno ai
propri cugini. Sono quelle che lavorano per il governo, le professioniste, le
dottoresse, che tra qualche mese forse alzeranno la testa, a rivendicare libertà
mai godute». La cultura pashtun è dura da sradicare. Anche nel vicino Pakistan
vigono le stesse regole: perfino nella buona borghesia, dove non c' è occasione
che non venga celebrata con sontuosi banchetti, uomini e donne festeggiano in
zone diverse, rigidamente separate. Ancor più nei campi profughi degli afghani:
il burqa serve a mascherare la povertà, a nascondare la vergogna di chi chiede
l' elemosina, a proteggersi dalla promiscuità. Era questo il significato
originario dallo hijab, l' abito prescritto dal Corano: un riparo per il corpo e
per lo spirito, in una società invadente come quella beduina, per mettere una
distanza tra sé e gli altri, e garantirsi un minimo d' intimità. A Peshawar, in
Pakistan, s' incontrano donne ultrafondamentaliste, colte, laureate, capaci di
parlare in perfetto inglese, che teorizzano la differenza tra i sessi. «É segno
di rispetto da parte degli uomini - dice una attivista del Jamiat Islami, uno
dei principali partiti religiosi -. Serve a difenderci dagli sguardi indiscreti,
a proteggersi da un eccesso di responsabilità. Non vogliamo diventare come voi
occidentali, oberate di lavoro, costrette a mantenervi da sole, a trascurare la
famiglia ed i figli». Persino le donne del Rawa, l' associazione rivoluzionaria
femminile dell' Afghanistan, ammettono il velo: «Fa parte della tradizione».
Quel che non accettano è che sia lo Stato ad imporlo, come nel caso dai
talebani. A Jalalabad le donne aspettano. «Ci vorrà del tempo perché i costumi
cambino», dice il dottor Kamran Bashari. Una vera stabilità politica chiarirà
quale sarà il ruolo femminile in Afghanistan. Maria Grazia Cutuli
Documento 310 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 19/11/2001 NUMERO
Lun PAGINA 007
OCCHIELLO LA FUGA DEI TALEBANI INCUBI Una pista di sabbia che si addentra in una
valle bruciata dal sole. Il centro di addestramento era protetto da carri armati
Fialette di vetro bianco. Sull' etichetta, scritte in cirillico: «gas sarin». C'
è anche l' indicazione dell' antidoto: «atropina»
TITOLO Un deposito di gas nervino nella base di Osama
SOMMARIO Contenitori di armi chimiche abbandonati in un campo di Al Qaeda sulle
colline di Jalalabad
AUTORE Cutuli Maria Grazia
ARGOMENTO guerra
NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo caduta Kabul. trovate fiale di gas
nervino in una base di Al Quaeda. scheda sarin
LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN
FOTO, GRAFICI, TABELLE t il killer invisibile (sarin) f ALL' INSEGUIMENTO L'
Alleanza del Nord ha conquistato a novembre il 70 per cento dell' Afghanistan
Dusan Vranic/Ap ALLA CACCIA Mujaheddin ispezionano un tunnel alla ricerca di
talebani o uomini di Al Qaeda Behrouz Mehri/Ansa
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Un deposito di gas nervino nella base di Osama Contenitori di armi chimiche
abbandonati in un campo di Al Qaeda sulle colline di Jalalabad DAL NOSTRO
INVIATO FARM HADA (Afghanistan) - Gas sarin: la scritta in caratteri cirillici
appare su un' etichetta rossa, incollata su una scatola di cartone. Dalla
confezione spuntano venti fialette di vetro, simili a piccoli termometri,
riempite di liquido giallo e pastoso. È una delle sostanze più velenose e letali
prodotte in laboratorio. Un gas nervino, un' arma chimica capace di uccidere al
solo contatto con la pelle. È stata trovata dal Corriere della Sera e dal
quotidiano spagnolo El Mundo dentro uno dei più grandi campi di Osama Bin Laden
in Afghanistan, una base abbandonata dopo la frettolosa ritirata dei talebani da
Jalalabad. Una scatola intera, forse dimenticata durante la fuga. Oppure
lasciata apposta, come segno di avvertimento ai futuri profanatori. L' abbiamo
scoperta a Farm Hada. Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un' ora
di macchina dalla città. Ci arriviamo percorrendo una pista di sabbia che si
addentra per chilometri in una vallata bruciata dal sole. Un' area inaccessibile
fino a qualche giorno fa. Off-limits per chiunque non fosse parte della rete di
Osama. Ora troviamo solo un check-point, controllato dai mujaheddin e una
vecchia sbarra di ferro a bloccare l' entrata. I miliziani ci salutano,
sorridono, lasciano che il nostro fuoristrada passi senza troppe obiezioni.
Oltre la barriera, piccole colline desertiche costellate da muraglie quadrate,
mimetizzate sullo sfondo di un paesaggio ocra: caserme, baracche d' argilla
protette da vecchi carri armati. L' autista guida lungo mulattiere tortuose. Si
ferma davanti a una fila di nicchie sterrate sul fianco di una montagnola. Da
lontano sembrano tunnel. In realtà sono trincee zeppe di pezzi di artiglieria,
bossoli, proiettili di granata. Una sorta di barriera difensiva, dietro la quale
si nasconde una banchina di cemento, circondata da muri di argilla, con un
cancello di ferro chiuso da un catenaccio. Attorno, container di metallo, una
casupola che doveva servire come posto di guardia e una baracca dal tetto di
lamiera, stipata di munizioni. Gli arabi devono essersene andati in fretta da
Farm Hada. Un' armata allo sbaraglio, se per terra c' è ancora una scodella
incrostata di cibo, un mucchio di stracci, e poco lontano, gettati alla rinfusa,
mine, ordigni esplosivi. E' qui che appare la scatola di cartone. Non riusciamo
a capire che cosa contiene. Il giornalista del Mundo, Julio Fuentes, la incide
sul lato, tirando fuori ad una ad una le fialette in vetro bianco, ampolle
sottili come siringhe da insulina, strozzate alle estremità e isolate una dall'
altra dentro piccoli scomparti di cartone. Ne contiamo una ventina. È l'
etichetta attaccata alla confezione a rivelare il contenuto: gas sarin, scritto
in russo, e, sotto, l' indicazione sull' antidoto da usare, l' atropina, l'
unica sostanza capace di contrastare gli effetti letali. Una traccia sinistra
dell' arsenale che potrebbe essere in mano ai combattenti di Osama. Una prova
che nelle caserme dello sceicco saudita non ci sono solo kalashnikov, missili o
granate, ma anche armi non convenzionali, utilizzabili da attacchi terroristici
in tutto il mondo. E forse non è un caso che tra tutte le basi abbandonate dagli
uomini di Al Qaeda in questi giorni, dopo la partenza dei talebani e l' arrivo
dei mujaheddin, Farm Hada sia una delle poche a non essere stata bombardata
dagli americani. Tiriamo via l' etichetta e, per precauzione, lasciamo le
ampolle. Troppo rischioso portarle via. Il gas Sarin ha effetti neuro-tossici.
Le abbandoniamo lì dove si trovano, sotto il sole. Intorno non si vede nessuno.
Il silenzio è pesante e sinistro. Non ci sono mujaheddin a custodire la base.
Non siamo neanche sicuri che l' area sia completamente libera dagli arabi di
Osama. Ma certo è che qualcuno deve essere passato da qui, dopo la partenza dei
membri di Al Qaeda, a mettere i lucchetti su ogni portone. «Gli uomini di Younis
Khalis», dice la nostra guida. I miliziani dello stesso leader politico che
mercoledì scorso, dopo un lungo negoziato, ha costretto i talebani a sloggiare
dalla regione. L' abbiamo visto Khalis, qualche giorno fa, entrare nel palazzo
del governatore, la barba tinta di arancione, uno zuccotto in testa, a passi
faticosi su un paio di stampelle. Lo accompagnavano i suoi fedeli, sorreggendolo
ad ogni gradino. Ha pronunciato poche parole, sillabe gutturali e cavernose per
annunciare la pace. Ma è lui il grande vecchio, il capo storico dell' Hezb-iIslami, una delle fazioni che combatterono la Jihad contro i sovietici, ad aver
concesso a Osama il permesso per costruire la base di Farm Hada sui suoi
terreni, all' interno del suo feudo. Era il 1996. Lo sceicco del terrore,
scacciato dal Sudan - raccontano a Jalalabad - si era accampato in una brigata
di arabi nel villaggio di Teerah, all' interno della zona tribale del Pakistan.
I capiclan lo avevano tollerato per un po' , poi l' avevano pregato di
andarsene. Osama si è spostato a Tora Bora, il rifugio sulla Spinghar Mountain,
la stessa parte dove gli arabi in fuga si sono arroccati in questi giorni. E
quindi a Jalalabad con l' assenso della Shura locale. È stato qui che ha
trattato con Khalis l' acquisto dei terreni. Il leader, che lo conosceva dai
tempi della Jihad, gli offrì ospitalità permettendo ai combattenti di Al Qaeda
d' installarsi nella sua roccaforte. Con l' arrivo dei talebani, all' ottobre
dello stesso anno, Osama si è trasferito a Kandahar, lasciando a Farm Hada uno
dei suoi principali avamposti militari. Per anni si sono nascosti qui dentro
alcuni degli uomini più ricercati dall' Fbi, come Atef, il numero tre di Al
Qaeda, morto venerdì sotto un bombardamento americano. Dentro la base, che si
stende per una decina di chilometri quadrati, vivevano anche alcune famiglie dei
seguaci di Osama - racconta un afghano che l' ha visitata qualche tempo fa - in
caseggiati protetti come bunker e sorvegliati dai miliziani armati, una
cinquantina in tutto; difficile dire quanti fossero complessivamente i
residenti. Da Farm Hada potrebbero essere passati a rotazione migliaia di
combattenti islamici, per prepararsi militarmente e spiritualmente alla Jihad
contro l' Occidente. All' interno degli edifici non mancava nulla: acqua
corrente e luce, fornita da enormi generatori, apparecchiature satellitari,
archivi e documenti. Oggi sono rimasti solamente mezzi militari, camion, pezzi
di artiglieria e un numero impressionante di munizioni. E il contenitore del gas
nervino. Poco lontano dalla zona in cui abbiamo trovato le fiale, sorgono le
ville di Younis Khalis e dei suoi comandanti. Costruzioni nascoste dietro fila
di mura. Si vedono bambini giocare davanti ai portoni e qualche camion passare
lungo la strada. Lo stesso Osama ha conservato una residenza nella zona. Ci
fermiamo a Dar Olum, l' ex «madrassa» dove venivano selezionati i giovani
combattenti, ragazzi preferibilmente orfani dai 15 ai 18 anni destinati agli
attacchi kamikaze. Maria Grazia Cutuli
Documento 311 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 004
OCCHIELLO RUANDA, 1997
TITOLO Al processo dei «boia» accusati per genocidio
AUTORE Cutuli Maria Grazia
NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio
reportage svolto in Ruanda nel 1997
PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia
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Al processo dei «boia» accusati per genocidio ... I loro volti impassibili, le
loro fisionomie umiliate in casacche rosa confetto, il colore scelto in Ruanda
per i detenuti, forse non passeranno ai posteri come quelle dei criminali
nazisti processati a Norimberga dopo la Seconda Guerra. E nemmeno come quelle
dei boia serbo-bosniaci ricercati dal Tribunale dell' Aja. Ma nonostante la
scarsa attenzione dei media, i processi per genocidio in Ruanda rappresentano un
avvenimento «epocale». Quasi 100 mila persone si trovano nelle prigioni ruandesi
per «crimine contro l' umanità». Fra di loro ex politici, ex ufficiali,
giornalisti, uomini d' affari, contadini. Ma anche donne, ecclesiastici,
bambini... I processi, cominciati a gennaio, si svolgono nel terrore. I
magistrati temono per la loro vita. I testimoni hanno paura a parlare. «O al
contrario parlano troppo», dice un esponente del Cladho, collettivo ruandese per
i diritti dell' uomo, e «accusano gente innocente solo per impadronirsi dei loro
beni». Non esistono testimoni a favore... E in più mancano gli avvocati. Dei 33
legali rimasti dopo il genocidio, nessuno vuole farsi carico di difendere i boia
del 1994...
Documento 312 di 316
P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 004
OCCHIELLO ISTANBUL, 2000
TITOLO Finta «fidanzata» turca sulla nave dei clandestini
AUTORE Cutuli Maria Grazia
NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio
reportage svolto a Istanbul nel 2000
PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia
FULL PAGE S
ISTANBUL, 2000 Finta «fidanzata» turca sulla nave dei clandestini Clandestino,
si fa per dire. A Istanbul tutto è possibile. La rete mafiosa che organizza
viaggi senza visto, crociere senza passaporto, odissee fino alle coste italiane,
ha agenti e mediatori dietro al porto di Karaköy, a due passi dall' Ufficio
della Dogana... E' il proprietario di una salumeria all' incrocio tra un vicolo
e la via principale, la Serap Galataiskele, a indicarci la strada: «Vuoi andare
in Italia? Fai un salto nell' ufficio qui sopra...». L' interprete che ci
accompagna è ormai nel ruolo. Clandestino per affari di cuore. «Sto con lei dice indicandomi -. Devo seguirla a Milano, ma ho qualche problema con i
documenti». «Questi che ti dico io lavorano benissimo - insiste il salumiere -.
Ha funzionato anche con mio fratello. Mille marchi e me l' hanno spedito in
Germania...». Il garzone ci porta su per le scale, fino a uno sgabuzzino dalle
pareti gialle, con una scrivania, due ritratti di Ataturk al muro e tre uomini
dentro... «Che tipo di viaggio?», chiede l' uomo alla scrivania. «Voglio uscire
dalla Turchia - risponde il finto Amed -. Devo seguire la mia fidanzata»...
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P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 004
OCCHIELLO BAMIYAN, 2001
TITOLO Nella valle dei Buddha distrutti dal fanatismo
AUTORE Cutuli Maria Grazia
NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio
reportage svolto a Bamiyan nel 2001
PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia
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BAMIYAN, 2001 Nella valle dei Buddha distrutti dal fanatismo ... La valle dove
sono stati distrutti i due Buddha giganti non è una vergogna da nascondere... I
talebani hanno deciso di aprirla a pochi giornalisti per mostrare che l' editto
emanato il 26 febbraio contro le statue preislamiche è stato rispettato, che
tutti gli «idoli» sono stati abbattuti... L' aereo è una carcassa che non vede
un pezzo di ricambio da anni, ma in pochi minuti raggiunge le alte quote,
sorvola il deserto a ovest di Kabul e punta verso le cime innevate dell' Hindu
Kush... Bamiyan appare dall' alto, una distesa gialla delimitata da un costone
traforato, e, a poca distanza l' una dall' altra, due orbite vuote, le due
nicchie che hanno ospitato per secoli i Buddha di pietra... Arrivano i toni
sommessi di Faiz Ahmed Faiz, portavoce del ministro degli Esteri: «Benvenuti a
Bamiyan, una delle regioni dove i talebani hanno portato pace e stabilità»... La
valle è deserta... Le jeep si fermano ai piedi del grande costone, un gruviera
di cappelle, di anfratti scavati nella roccia. I Buddha non esistono più... «Ci
hanno messo venti giorni a distruggerli - aggiunge un funzionario sottovoce -.
E' stato un lavoro duro e difficile»...
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P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 004
OCCHIELLO BENIN, 2001
TITOLO Tra i cacciatori di bambini venduti a 30 mila lire l' uno
AUTORE Cutuli Maria Grazia
NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio
reportage svolto in Benin nel 2001
PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia
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BENIN, 2001 Tra i cacciatori di bambini venduti a 30 mila lire l' uno Marthe
Assoclé non ha mai conosciuto il suo vero nome. L' ha sempre chiamata Mamà
Gabon, sin da quando a sette anni la portò via dal suo villaggio in Benin. L' ha
sempre avuta attorno, però, carceriera vigile e solerte. E' stata Mamà a
piazzarla presso una famiglia di Libreville, in Gabon. Lei a rispedirla
indietro, 9 anni dopo, quando è rimasta incinta. Marthe, che oggi ha 18 anni e
una figlia di 18 mesi, non sa nient' altro di Mamà Gabon: soltanto che si tratta
di una trafficante di bambini, un' intermediaria che ha continuato a guadagnare
sulla sua pelle. La coppia che ha adottato la ragazza, facendola lavorare al
mercato, ogni mese pagava infatti una percentuale alla megera. Mentre Marthe
faceva la schiava, Mamà Gabon intascava il suo compenso... A 4 anni un bambino è
già grande per poter essere consegnato ai trafficanti... ci sono gli adulatori,
coloro che devono convincere i genitori a cedere i figli in cambio di 30-40 mila
lire a testa... Le coltivazioni di cacao della Costa d' Avorio rappresentano gli
approdi più ambiti. Là un bambino può essere rivenduto a 700-900 mila lire...
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P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO
Mar PAGINA 004
OCCHIELLO L' ULTIMO REPORTAGE
TITOLO Quelle fialette di "sarin", arma segreta di Al Qaeda
AUTORE Cutuli Maria Grazia
NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio
ultimo reportage da Farm Hada dove aveva trovato la fabbrica di armi chimiche
PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia
FOTO, GRAFICI, TABELLE F la pagina del "Corriere della Sera" di ieri con l'
articolo di Maria Grazia Cutuli: "Un deposito di gas nervino nella base di
Osama"
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L' ULTIMO REPORTAGE di MARIA GRAZIA CUTULI FARM HADA (Afghanistan) - Gas sarin:
la scritta in caratteri cirillici appare su un' etichetta rossa, incollata su
una scatola di cartone. Dalla confezione spuntano venti fialette di vetro,
simili a piccoli termometri, riempite di liquido giallo e pastoso. E' una delle
sostanze più velenose e letali prodotte in laboratorio. Un gas nervino, un' arma
chimica capace di uccidere al solo contatto con la pelle... L' abbiamo scoperta
a Farm Hada. Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un' ora di
macchina dalla città. Ci arriviamo percorrendo una pista di sabbia che si
addentra per chilometri in una vallata bruciata dal sole. Un' area inaccessibile
fino a qualche giorno fa. Off-limits per chiunque non fosse parte della rete di
Osama... I miliziani ci salutano, lasciano che il nostro fuoristrada passi senza
troppe obiezioni. Oltre la barriera, piccole colline desertiche costellate da
muraglie quadrate, mimetizzate sullo sfondo di un paesaggio ocra: caserme,
baracche d' argilla protette da vecchi carri armati. L' autista guida lungo
mulattiere tortuose. Si ferma davanti a una fila di nicchie sterrate sul fianco
di una montagnola. Da lontano sembrano tunnel. In realtà sono trincee zeppe di
pezzi di artiglieria, bossoli, proiettili di granata. Una sorta di barriera
difensiva, dietro la quale si nasconde una banchina di cemento, di ferro chiuso
da un catenaccio. Attorno, container di metallo, una casupola che doveva servire
come posto di guardia e una baracca dal tetto di lamiera, stipata di munizioni.
Gli arabi devono essersene andati in fretta da Farm Hada. Un' armata allo
sbaraglio, se per terra c' è ancora una scodella incrostata di cibo, un mucchio
di stracci, e, poco lontano, gettati alla rinfusa, mine, ordigni esplosivi. E'
qui che appare la scatola di cartone. Non riusciamo a capire che cosa contiene.
Il giornalista del Mundo, Julio Fuentes, la incide sul lato, tirando fuori a una
a una le fialette in vetro bianco, ampolle sottili come siringhe da insulina,
strozzate alle estremità e isolate una dall' altra dentro piccoli scomparti di
cartone. Ne contiamo una ventina. E' l' etichetta attaccata alla confezione a
rivelare il contenuto: gas sarin, scritto in russo, e, sotto, l' indicazione
dell' antidoto da usare, l' atropina, l' unica sostanza capace di contrastare
gli effetti letali... Tiriamo via l' etichetta e, per precauzione, lasciamo le
ampolle. Troppo rischioso portarle via. Il gas sarin ha effetti neuro- tossici.
Le abbandoniamo lì dove si trovano, sotto il sole. Intorno non si vede nessuno.
Il silenzio è pesante e sinistro. Non ci sono mujaheddin a custodire la base.
Non siamo neanche sicuri che l' aerea sia completamente libera dagli arabi di
Osama...