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Documento 280 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/10/2001 NUMERO Sab PAGINA 002 TITOLO Civili in fuga sotto i bombardamenti SOMMARIO A migliaia diretti verso il Pakistan. Le organizzazioni umanitarie temono il collasso AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan.ultima edizione.profughi. situazione. dichiarazioni dell' Fatana Gailani Afghanistan Women Council, LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FULL PAGE S PESHAWAR - Nasreen mostra le ciabatte di plastica. «E' con queste che sono scappata da Kabul. A volto scoperto. Non avevo neanche il chador addosso». In fuga sotto le bombe, trascinando i figli per mano. «Siamo saltati su un taxi, il primo che è passato. Via dall' Afghanistan, il più lontano possibile dalla guerra». Nasreen ha 40 anni, ne dimostra venti di più. Il viso cotto dal sole, quattro stracci addosso. «Siamo morti di fame, non abbiamo più soldi, dateci qualcosa per carità». Altre braccia si tendono tra la folla. Altri volti di donne stravolte dalla rabbia, bambini appesi al collo, ragazzini febbricitanti. «Kandahar è distrutta, la mia casa è crollata - urla un' altra donna -. Ci sono morti dappertutto. E che cosa fa il Pakistan? Non fa nulla per noi». Grida, ressa e spintoni contro un cancello. Fila dietro la porta di un ambulatorio. Sulle sterrate di Hayat Abat, il quartiere dei fuoriusciti afghani alla periferia di Peshawar, un centinaio di famiglie chiedono cibo e medicine ai volontari dell' Afghanistan Women Council, un' organizzazione umanitaria che si occupa dell' assistenza ai profughi. «Facciamo quello che possiamo - dice la presidente Fatana Gailani -. Ma la situazione è disperata. Ogni giorno arrivano nuovi rifugiati e non c' è nessuna struttura pronta ad accoglierli». Nessun campo allestito. Nessun aiuto ufficiale per chi passa la frontiera. Chi viene dall' Afghanistan, in fuga dai bombardamenti angloamericani, si accampa dove può. I disperati nella melma di Jalozai, una distesa di tende di plastica e fogne a cielo aperto. I più fortunati nelle case di amici e parenti, gli ex rifugiati di vent' anni di guerre. «Qualcosa deve cambiare - dice Fatana Gailani -. E' il momento che tutti comincino a lavorare seriamente». L' emergenza è cominciata davvero. Lo ammettono le agenzie umanitarie: «E' il giorno peggiore dall' inizio dei bombardamenti», dichiara Ron Redmond, portavoce dell' Onu in Pakistan. Diecimila persone hanno passato la frontiera nell' ultima settimana, 3.500 solamente ieri. «Il flusso è continuo, la situazione caotica». Il panico collettivo. I profughi arrivati da Kandahar raccontano di aver visto cadaveri lungo le strade, gente morire negli ospedali per mancanza di medicine, bambini stremati dalla fame. E passa solo chi paga: 3 mila rupie a testa, 50 dollari, una somma enorme per qualunque afghano. Ci sono stati scontri alla frontiera: i profughi contro le guardie, resse per forzare i cancelli. Le agenzie umanitarie prevedono un milione e mezzo di persone. Il portavoce dell' Onu è ottimista: «L' arrivo dei profughi sarà accolto con nuove regole dal governo pakistano». Quel confine di Chaman, a sud nel Beluchistan, l' altro di Torkham a un' ora di strada di Peshawar, chiusi o aperti a secondo degli umori dei doganieri, si trasformeranno in punti d' ingresso ufficiali? «Aspettiamo l' autorizzazione per portare acqua e cibo ai nuovi profughi», dice Redmond. Ma il governo del Pakistan, con 2 milioni e mezzo di rifugiati in casa, prende tempo: teme che la nuova marea di afghani destabilizzi il Paese. Apre le frontiere solo per i feriti. Chiede alle organizzazioni umanitarie di occuparsi degli sfollati rimasti all' interno dell' Afghanistan e di lasciar perdere gli altri. La richiesta ha già creato una crisi politica con le organizzazioni non governative (Ong): «I nostri autisti hanno paura a guidare all' interno del Paese, visto gli errori così frequenti nei bombardamenti americani», dice Justin Forsyth, portavoce della britannica Oxfam. Le Ong propongono di sospendere i raid. Da Londra contrattaccano: «L' unico modo per evitare una crisi umanitaria è rimuovere i talebani dal potere», dice Clare Short, ministro britannico agli Aiuti internazionali. Pronta la risposta dal fronte della carità: «Il ministro è influenzato dai suoi padrini politici», contesta la portavoce di Oxfam, ricordando che diverse aree dell' Afghanistan saranno presto bloccate dalla neve. «Dobbiamo distribuire 70 mila tonnellate di cibo e i bombardamenti non ci permettono di farlo». Il caos nella gestione del caos. Maria Grazia Cutuli Documento 281 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 21/10/2001 NUMERO Dom PAGINA 005 OCCHIELLO IL GRANDE GIOCO DEGLI «OPPOSITORI» TITOLO E nella retrovia di Peshawar si prepara il dopoguerra a suon di dollari AUTORE Alberizzi Massimo, Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dichiarazioni di Haji Mohammed Zaman rientrato da Parigi per rifondare l' esercito del re. a Peshawar la rete degli oppositori al regime dei talebani LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE PROPAGANDA Un militante pro talebani in Pakistan Stephen Shaver/Ansa FULL PAGE S IL GRANDE GIOCO DEGLI «OPPOSITORI» E nella retrovia di Peshawar si prepara il dopoguerra a suon di dollari DAI NOSTRI INVIATI PESHAWAR - E' il ritorno degli ex mujaheddin, dei capi guerriglia, dei vecchi comandanti pronti a riprendere le armi per entrare nel «grande gioco» in cui si deciderà il futuro dell' Afghanistan. Nelle retrovie di Peshawar, alla frontiera pakistana, riappaiono come negli anni Ottanta - gruppi e fazioni decisi ad approfittare della campagna militare americana per affossare il regime dei talebani, ma soprattutto per garantirsi un ruolo in un prossimo governo del Paese. E' un nuovo fronte in maggioranza pashtun, nutrito di esuli e oppositori, che si differenzia dall' Alleanza del Nord con il suo mosaico di litigiose etnie. Uno schieramento con un unico referente: re Zahir Shah, l' ex monarca esiliato a Roma, attorno al quale si continuano a tessere le alleanze più varie. L' ultimo leader tornato sulla ribalta di Peshawar si chiama Haji Mohammed Zaman. Ha 44 anni, due mogli, dieci figli e un passato sulle trincee antisovietiche. E' rientrato da Parigi per rifondare l' esercito del re, mettendo assieme i vecchi capi militari della sua provincia, quella di Nangarhar nell' Est dell' Afghanistan, e altri seguaci nelle regioni di Kunan, Nooristan, Laghman, dove i talebani sono più deboli. «Ho contatti con 160 comandanti, tutti disposti a combattere contro gli integralisti - spiega, accovacciato su un tappeto -. Abbiamo appena raggiunto un accordo per unificare le differenti fazioni. Ma prima di passare alle armi ci proponiamo un altro obiettivo: parlare con i talebani, chiedere loro che si arrendano». Il progetto è nato a Roma, a fine settembre, durante la riunione nella quale re Zahir Shah ha incontrato esponenti dell' opposizione afghana assieme ad alcuni membri dell' Alleanza del Nord. «Il patto è chiaro: creare un primo gabinetto che comprenda esponenti di vari gruppi». Non è la loya jirga di cui si parla tanto, l' antico consiglio supremo, ma l' abbozzo di un futuro governo trasversale. Amici e nemici, tutti attorno a un tavolo? Il re negozia con l' Alleanza del Nord, mentre i pashtun sgomitano per avere la loro parte. E anche i talebani, perché no? La novità, nel gioco delle alleanze, è proprio questa: individuare le ali «moderate» con cui poter trattare e alle quali offrire future responsabilità. Il ministro degli esteri Muttawakil? Il capo delle operazioni militari Jaluddin Haqqani? A Peshawar si hanno idee diverse sul ruolo dei fondamentalisti. Zaman non si perde in dettagli: «A Kabul ci sono migliaia di studenti coranici pronti a rovesciare il regime». Riunioni pubbliche, contatti segreti, trame all' ombra degli americani. A Peshawar passa di tutto in questi giorni. Ma ancora una volta si aspetta che siano gli Stati Uniti a legittimare azioni «parallele» contro il regime di Kabul. Denaro e armi, in altre parole. Ogni gruppo cerca di accaparrarsi la sua parte. Per il momento, è solo un' attesa: «Ho incontrato sia esponenti del congresso americano sia del Pentagono dice Mohammed Zaman -. Tante promesse, ma non abbiamo ancora ricevuto un soldo». Qualcosa sarebbe invece già arrivato nelle mani di un altro veterano della Jihad, il comandante Abdul Haq, eroe di guerra con un piede perso in battaglia, residenza e affari miliardari a Dubai. Anche lui recluta combattenti, tratta con i dissidenti, prepara la fronda ai talebani. Il suo piano d' intervento, una rivolta nazionale fomentata dal basso, è stato tradito dai bombardamenti statunitensi: «Stavamo procedendo velocemente», dice. Abdul Haq nega di aspirare alla carica di primo ministro, così come di aver ricevuto soldi dall' America: «Hanno detto che sono stato pagato da Washington, dall' intelligence pakistana, dall' Iran. La verità è che non ho visto un centesimo, mentre le bombe occidentali sui talebani rischiano di creare nuovi consensi attorno al regime». Anche lui è amico del re. Anche lui è convinto che bisogna creare una struttura politica sulla quale fondare un nuovo esercito. Ma l' ordine è di aspettare. La rete degli oppositori è fittissima. Amici, nemici, non ha importanza. Tutti assieme in attesa del banchetto finale. Gruppi e fazioni, con la benedizione di anziani e capi tribali, intensificano le attività diplomatiche sulla rotta RomaPeshawar. Ancora il re. Dopo la delegazione inviata da Zahir Shah in Pakistan nei giorni scorsi, oggi sono gli afghani a muoversi. Un gruppo di monarchici arriva in Italia a trattare con il vecchio sovrano. Massimo A. Alberizzi Maria Grazia Cutuli Documento 282 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 21/10/2001 NUMERO Dom PAGINA 006 OCCHIELLO LA PORTAVOCE DELL' ONU TITOLO «I profughi sono già decine di migliaia per i Paesi donatori restano fantasmi» AUTORE Cutuli Maria Grazia GENERE intervista ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan. profughi. aiuti umanitari. dichiarazioni Corinne Perthuis, portavoce dell' Unhcr, PERSONAGGI Perthuis Corinne LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE IN FUGA Padre e figlio FULL PAGE S LA PORTAVOCE DELL' ONU «I profughi sono già decine di migliaia per i Paesi donatori restano fantasmi» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - I profughi afghani continuano a riversarsi alle frontiere. Anche ieri migliaia di anziani, donne, bambini in fuga dai bombardamenti anglo-americani hanno passato il confine clandestinamente, entrando in Pakistan dal Beluchistan o dalle aree tribali attorno a Peshawar. Fantasmi senza status e senza nome. Ufficialmente non esistono. Tanto il governo del Pakistan quanto i donatori internazionali si rifiutano di riconoscere che l' emergenza umanitaria è già cominciata. «Le frontiere restano chiuse. Ogni giorno chiediamo che vengano aperte, che si proceda alla registrazione dei nuovi arrivati, alla distribuzione degli aiuti dice Corinne Perthuis, portavoce dell' Unhcr, l' Alto commissariato Onu per i rifugiati a Peshawar -. Ma non siamo ancora stati autorizzati a intervenire». Rimangono abbandonati a se stessi? «Non solo. L' esodo ha fatto fiorire traffici e corruzione. C' è chi si occupa degli spostamenti, dei trasporti, dei passaggi di frontiera. Tutto a danno dei rifugiati». Quanti sono i nuovi arrivati? «Il ministro degli Interni del Pakistan stima 2 mila arrivi al giorno. Dall' inizio della crisi, 60 mila persone avrebbero passato il confine, ma si tratta di una proiezione aritmetica. L' unica certezza è che non possiamo più considerarli profughi invisibili. Sono sotto gli occhi di tutti». Che cosa fa l' Unhcr per aiutarli? «Abbiamo cominciato a muoverci una settimana fa. Non ci importa che vengano riconosciuti come rifugiati. Stiamo preparando una strategia che ci permetta comunque di soccorrerli». In che modo? «Abbiamo diviso la regione di Peshawar in nove aree. In ciascuna, i nostri team stanno verificando quante persone sono arrivate veramente dall' Afghanistan. E da qui partiremo, per preparare i primi interventi sanitari. Poi passeremo alla scolarizzazione e alla distribuzione degli aiuti». Significa che fino ad ora non è stata prevista nessuna assistenza? «I nostri programmi umanitari in Pakistan sono stati sospesi sei anni fa, quando il governo ha decretato che i vecchi profughi afghani si erano ormai integrati». L' anno scorso ci sono stati nuovi arrivi. Come siete intervenuti? «Con programmi d' emergenza e niente di più. Ma tutto si è fermato». Ogni giorno davanti ai vostri cancelli ci sono decine di persone che consegnano delle lettere. Chiedono assistenza? «Spesso sono vecchi profughi che si spacciano per nuovi e sperano di ottenere qualcosa. Per evitare problemi abbiamo deciso che i prossimi interventi andranno a tutti gli afghani indipendentemente dalla loro data d' arrivo». Dove vivranno i nuovi profughi? «Si distribuiscono in parte nei vecchi campi, in parte presso le famiglie. Possiamo solo sperare che le strutture esistenti riescano ad assorbirli». Il governo ha previsto nuovi campi nell' area tribale. Quando saranno pronti? «Continuiamo a ispezionare i siti, ma è una follia. Bisogna passare decine di check point, superare ogni giorno nuovi ostacoli burocratici. L' area tribale è una regione fuori controllo: dovremmo creare campi profughi a due passi dal confine afghano, con i talebani arroccati sulle montagne». Il governo vi chiede di operare all' interno dell' Afghanistan. Riuscite a fare qualcosa? «L' ultimo dipendente dell' Unhcr rimasto in Afghanistan, un locale, ha lasciato Jalalabad ieri con la famiglia. La città è ormai deserta, come Kandahar e Kabul. Il Programma alimentare dell' Onu manda camion con gli aiuti, ma li consegna al governo». E gli appelli lanciati ai donatori? «Non hanno funzionato. Abbiamo chiesto 50 milioni di dollari (oltre 100 miliardi di lire) per assistere 300 mila persone. Ne abbiamo ricevuti 12. I donatori, Stati Uniti in testa, continuano a dire che la nostra stima (un milioni di rifugiati pronti a passare la frontiera) è gonfiata. Per la comunità internazionale l' emergenza non esiste». M. G. C. Documento 283 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 22/10/2001 NUMERO Lun PAGINA 005 OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO. I CIVILI Sabato le autorità hanno aperto la frontiera per qualche ora: in un solo giorno sono passati in 5 mila Nelle principali città afghane mancano l' acqua e la luce. Sei milioni di persone hanno urgente bisogno di cibo e vestiti TITOLO I profughi tirano pietre, la polizia spara SOMMARIO A migliaia bloccati al confine con il Pakistan. L' Onu pensa di chiedere la sospensione dei raid AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, profughi NOTE attacco Usa contro Afghanistan. profughi. situazione rifugiati. scheda: "Un popolo in fuga" LOCALITA' SOGGETTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE PANE AMARO Rifugiati afghani nei dintorni di Islamabad Pawel KopczynskiReuters, T FULL PAGE S ATTACCO AL TERRORISMO I CIVILI Sabato le autorità hanno aperto la frontiera per qualche ora: in un solo giorno sono passati in 5 mila Nelle principali città afghane mancano l' acqua e la luce. Sei milioni di persone hanno urgente bisogno di cibo e vestiti I profughi tirano pietre, la polizia spara A migliaia bloccati al confine con il Pakistan. L' Onu pensa di chiedere la sospensione dei raid DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - L' Afghanistan è una trappola, un' immensa prigione dai cancelli chiusi. Ancora profughi alla frontiera. Ancora un tentativo o una speranza di potere lasciare il Paese per entrare in Pakistan. Ieri, la folla che premeva al posto di frontiera di Chaman, nel Beluchistan, si è trovata in mezzo a due fuochi: i talebani alle spalle, le guardie pakistane davanti. Erano in 600 a chiedere di passare, anziani, donne, bambini provenienti da Kandahar, la capitale morale degli integralisti, martellata giorno e notte dai bombardamenti americani. Sono volati sassi tra i rifugiati, dall' altra parte proiettili. Doveva essere un avvertimento, colpi sparati in aria. Ma un ragazzo di 13 anni è rimasto ferito e due guardie pakistane sono rimaste colpite durante la sassaiola. La tensione è altissima. Già sabato, per far fronte alla nuova ondata di disperati in fuga dai bombardamenti, le autorità di frontiera di Chaman avevano deciso di aprire temporaneamente il confine. Secondo le stime dell' Unhcr, l' Alto commissariato Onu per i rifugiati, in un solo giorno 5 mila afghani sarebbero riusciti a passare il confine. Ma solo a Chaman ne rimangono altri 10-15 mila bloccati dalle autorità. Cortei di profughi si vedono anche nella zona di Torkham, punto di passaggio della North West Frontier, oltre l' area tribale nei dintorni di Peshawar. A Chaman arrivano gli abitanti di Kandahar, mentre a Peshawar quelli di Kabul. Migliaia di persone in cerca di alloggio e di cibo, si consegnano in mano alle mafie locali per essere trasportate fino alle città. Nonostante il confine chiuso, i passaggi clandestini continuano a pieno ritmo. Nell' uno e nell' altro senso. Si tratterebbe, secondo fonti delle Nazioni Unite, di profughi che ritornano indietro per rintracciare i parenti dispersi lunga la fuga. Nel caos sono rimaste divise intere famiglie. Poco importa che nelle principali città dell' Afghanistan manchi l' acqua e la luce, che scarseggi il cibo, che 6 milioni di persone abbiano urgente bisogno di viveri e aiuti. Niente si sblocca sul fronte umanitario. Il Pakistan, dove aver aperto sabato la frontiera per qualche ora, l' ha richiusa per tutta la giornata di ieri, senza promettere o garantire accoglienza a chi fugge dalla guerra. Anche la comunità internazionale rimane sorda agli appelli. Le Nazioni Unite, con un gesto senza precedenti, si preparano a chiedere una sospensione dei raid aerei sulle principali città afghane per tentare almeno di riprendere i programmi di assistenza all' interno del Paese. Ma la richiesta, avanzata qualche giorno fa dalle organizzazioni non umanitarie, rischia di far esplodere l' ennesima controversia politica. E' stato il ministro britannico agli aiuti internazionali Clare Short a dichiarare nei giorni scorsi che non c' è un rapporto di causa ed effetto tra le bombe e l' incapacità delle agenzie umanitarie di distribuire gli aiuti. La stessa amministrazione americana ha ribadito che i raid andranno avanti, che nessuna tregua è prevista. In altre parole, che la rete umanitaria si organizzi in modo diverso. Come, è difficile dirlo. Gli staff internazionali sono stati evacuati da tempo, le maggiori sedi delle agenzie internazionali sono state saccheggiate o sigillate dai talebani, il personale locale minacciato. Il Programma alimentare dell' Onu (Pam) continua a spedire convogli in Afghanistan, ma restano comunque tagliate fuori le aree più remote del Paese. Ed è difficile verificare, per la mancanza di comunicazione, a chi finiscano veramente gli aiuti. L' ultimo ostacolo sono gli autisti: ce ne sono sempre di meno, racconta Michel Huggings, portavoce dell' agenzia Onu, disposti a guidare sulle piste afghane sotto i bombardamenti e senza contatti radio. Anche il carburante potrebbe diventare un problema. I prezzi salgono, mentre benzina e diesel spariscono dall' Afghanistan. M.G.C. Un popolo in fuga PROFUGHI Il grande esodo afghano risale all' occupazione sovietica (1979-89). Secondo l' Alto commissariato per i rifugiati dell' Onu (UNHCR), oggi più di 2 milioni di afghani risiedono in Pakistan e altri 2 milioni in Iran CONFINI L' UNHCR calcola che dall' 11 settembre circa 15-20 mila profughi siano riusciti a passare illegalmente il confine con il Pakistan. Venerdì scorso le autorità di frontiera hanno aperto temporaneamente il valico di Chaman: sono passate 5.000 persone in un giorno PREVISIONI L' UNHCR stima in 1 milione i «profughi potenziali» diretti in Pakistan, più 400 mila in Iran e 100 mila fra Turkmenistan e Tagikistan Documento 284 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 22/10/2001 NUMERO Lun PAGINA 005 OCCHIELLO IL REPORTAGE. RECLUTE PAKISTANE TITOLO Il megafono del mullah chiama alle armi AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, religione musulmana NOTE attacco Usa contro Afghanistan. in Pakistan i mullah e i partiti religiosi reclutano volontari filo talebani LOCALITA' SOGGETTO PAKISTAN LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE ALLAH E' GRANDE Una riunione di sostenitori dei talebani in una moschea di Peshawar, in Pakistan (Zainal Abd Halim / Reuters) FULL PAGE S Il megafono del mullah chiama alle armi DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Sangue, soldi, braccia per la Jihad. «Venite fratelli, versate il vostro contributo e Allah vi ricompenserà». Sulle arterie principali di Peshawar, megafoni e striscioni suonano la grancassa della mobilitazione. La macchina propagandistica dei mullah pakistani ha montato campi di reclutamento, baracchini e ospedali a cielo aperto per registrare donazioni e disponibilità. Un primo punto di raccolta è a ridosso del Jinnah Park, i giardini pubblici intestati al padre della nazione. Sono un paio di banchetti, presieduti da zelanti attivisti con il turbante nero, dove si promettono arruolamenti per chi vuole combattere con i talebani. Basta dare nome, indirizzo, numero di telefono. «E la chiamata arriverà». Scribacchini barbuti prendono nota su un quadernone da scuola elementare. «Per oggi siamo a 300». Avanti un altro. «Ecco, i nostri volontari per l' Afghanistan». Attaccate alle assi di legno immagini di mitra, spade dell' Islam, foto di martiri kashmiri dai corpi straziati. Sfaccendati e poveri straccioni sporgono il naso a spiare chi partirà. Agenti politici si accarezzano il gilet. Venditori ambulanti si trascinano in spalla fondine di pistola e gilet mimetici. Si fa avanti un aspirante combattente, felice di potersi autodenunciare. Si chiama Nasir Ahmed, è un afghano di 20 anni dalla faccia lunga e triste, emigrato a Peshawar lo scorso inverno per vendere vestiti al bazaar. Racconta: «Ho già combattuto con i talebani, nel 1996, quando abbiamo conquistato Kabul. Da lì vengo e lì voglio tornare per difendere il mio Paese dagli americani». Altri danno soldi, poche rupie a testa, a fine giornata non sono nemmeno cento dollari, un mucchietto di banconote su un telo blu, ma «è il gesto che vale» dicono i mullah. I partiti religiosi, come il Jamiat Ulema Islam, contano sulle associazioni giovanili per tenere alta la propaganda filo talebani. Studenti religiosi e soprattutto studenti laici per dimostrare che è il popolo intero a volere la Jihad. Ma le trincee afghane, passaporto per i paradisi di Allah, sono ancora lontane. «Il nostro obiettivo è reclutare 50 mila guerriglieri - dice Obeid Kureish, un pakistano di 22 anni che si occupa degli arruolamenti -. Quando avremo raggiunto questa cifra chiuderemo le iscrizioni». Traguardo vicino: ne avrebbero registrati 40 mila. Lavoro assiduo, ma forse inutile. I primi 2 mila combattenti mandati in Afghanistan, sono stati rispediti indietro. «I talebani non li hanno voluti. Hanno problemi a sostenere i propri soldati, per poterne mantenere altri. Ma ci hanno assicurato che quando comincerà la vera invasione di terra delle truppe americane ci chiederanno aiuto». Gli agit-prop procedono comunque: cercano forze giovani da mandare sul terreno. Età degli iscritti: dai 22 anni ai 30. Professione: studenti, commercianti, pochi sarebbero i nullafacenti. «Li abbiamo divisi in tre categorie. La prima comprende quelli che hanno già combattuto in Kashmir e in Afghanistan. Saranno organizzati in commandos e mandati in prima linea. Ci sono poi i soldati semplici, con minore esperienza, e per finire i ragazzi che non hanno mai partecipato a nessuna guerra. All' inizio rimarranno nelle retrovie, man mano impareranno dai più anziani». Se l' appello dovesse scattare, assicura l' arruolatore, basteranno 24 ore a spedire i volontari oltre frontiera. «Il distretto di Peshawar è stato diviso in nove zone e ogni zona con un suo capo, capace di trasmettere immediatamente l' ordine di mobilitazione». Partiranno a mani nude: kalashnikov e bazooka saranno consegnati al di là del confine. Patto di sangue con i talebani? Sulla strada di Ayat Abad, la township degli afghani, davanti alla facciata di una grande moschea in costruzione, ecco aprirsi un' improvvisata corsia d' ospedale. Sui lettini di legno e rafia, disposti a quadrato ai bordi della strada, si rilassano una mezza dozzina di donatori di plasma, con la manica ancora sollevata e un batuffolo di cotone a tamponare la puntura. «Dono il mio sangue ai fratelli musulmani - dice con una certa enfasi Omar Bareshi, autoqualificatosi come presidente di un' associazione di studenti laici -. E' per Osama, è per i feriti, è per la nostra madre patria». C' è anche un' ambulanza parcheggiata tra bancarelle di frutta, un medico - il dottor Aklhaq Ahmad - e degli infermieri che si passano da una mano all' altra sacche di sangue. Quindici donatori alle 11 del mattino. Aghi e siringhe buttati dove capita, tra mosche e rifiuti. «Il sangue viene analizzato contro l' Hiv, l' epatite, altre malattie - assicura il medico -, e poi consegnato al consolato afghano che lo recapiterà ai talebani». Forse questo arriverà prima dei combattenti. I megafoni insistono: «Fratelli musulmani date il vostro contributo e Allah vi ricompenserà». Maria Grazia Cutuli Documento 285 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 23/10/2001 NUMERO Mar PAGINA 009 OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO I CIVILI Nel Nord, attraverso l' area tribale, entrano a centinaia ogni giorno senza alcun controllo da parte delle autorità Secondo il governo, l' Onu deve distribuire aiuti all' interno del Paese bombardato per impedire alla gente di fuggire TITOLO Il Pakistan fa muro: «Niente profughi» SOMMARIO Ancora scontri tra guardie di frontiera e afghani che tentano di superare il filo spinato. Islamabad rifiuta di aprire i confini e di registrare la presenza delle migliaia di rifugiati illegali AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, profughi NOTE attacco Usa contro Afghanistan. situazione profughi LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE TERRA DI NESSUNO Profughi afghani tentano di passare il confine con il Pakistan nella zona di Chaman. Sono stati presi tra i due fuochi dei talebani e delle guardie di frontiera pakistane Zia Mazha/Ap FULL PAGE S Il Pakistan fa muro: «Niente profughi» Ancora scontri tra guardie di frontiera e afghani che tentano di superare il filo spinato DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - L' Onu denuncia: «Duecentosessanta famiglie arrivate nel campo di Jalozai». Le autorità pakistane negano: «Nessun profugo nuovo da queste parti». Sembra una commedia dell' assurdo ed è invece uno scontro politico. Ore 12 del mattino, periferia di Peshawar. Il peggiore dei mondi possibili, il campo di Jalozai, una distesa di teloni di plastica, tende costruite con stracci, acquitrini maleodoranti, fogne a cielo aperto, è custodito dai soliti poliziotti in divisa. Da settimane continuano ad arrivare centinaia di persone in fuga dall' Afghanistan. Ma per entrare, qui come in altri campi, ci vuole un' autorizzazione speciale, difficile da ottenere. Ogni notizia viene filtrata all' entrata. «Nessun profugo nuovo», insistono i responsabili del campo. E i dati dell' Onu sui rifugiati? Gli afghani che si incontrano in città? Non esistono, non ci sono. E se ci sono, non figurano come tali. All' Afghan Refu gees Commissariate, l' organismo locale che da oltre vent' anni sorveglia i campi, non ci sono funzionari autorizzati a parlare con la stampa. L' unico che lo fa, chiede l' anonimato: «L' Alto commissariato Onu continua a dire che 1000 afgani passano la frontiera ogni giorno. Dove sono? Dove vanno? Entrano illegalmente, e pertanto non possono essere considerati profughi». Ancora la commedia dell' assurdo. Poi l' uomo ammette: «Sì, qualcuno arriva in Pakistan, ma non più di 20 o 30 famiglie al giorno». Il problema è un altro: «Abbiamo due milioni di vecchi rifugiati in questa zona, quelli arrivati dal 1979 in poi, gestiamo 48 campi e siamo al limite. Non possiamo permettere nessuna altra entrata». A 16 giorni dall' inizio dei bombardamenti angloamericani sull' Afghanistan, le frontiere pakistane continuano a rimanere chiuse. A Peshawar funziona. Chi vuole entrare, può farlo comunque attraverso le aree tribali, amministrate dai capi locali, senza alcun controllo da parte del governo federale. Più giù, a Chaman, la terra di nessuno si apre in pieno deserto. Quelli che scappano da Kandahar sono da giorni intrappolati sotto il sole, chiusi tra le milizie integraliste e le guardie di frontiera. Quindicimila persone, secondo l' Unhcr. Ieri sono passati in mille, buttandosi contro il filo spinato, sfondando la frontiera, tirando sassi. I talebani hanno tentato di fermarli a bastonate, le guardie pakistane sparando in aria, ripetendo gli stessi scontri del giorno prima, durante i quali sono rimaste ferite cinque persone. Ma a fine giornata, il portavoce del ministro degli Esteri Riaz Muhammed Khan ribadiva: «La scelta giusta è tenere chiuse le frontiere. Il Pakistan non può permettersi un flusso massiccio di nuovi rifugiati». I rappresentanti del governo ripetono la stessa musica: l' Onu deve occuparsi di distribuire gli aiuti all' interno dell' Afghanistan per impedire alla gente di fuggire. E le bombe? L' emergenza continua a essere negata. A Peshawar molti dei nuovi arrivati scompaiono nelle case di Hayat Abad, il quartiere afghano, ospitati da parenti e amici. Nessuno li registra, nessuno li scheda, nessuno li vede. Altri si accampano dove possono. A ridosso di Nasir Bagh, un altro insediamento creato dai vecchi rifugiati, tra case di fango, mercati puzzolenti, canali di scarico, ce ne sono un migliaia che hanno trovato alloggio in un fazzoletto di terra, nascosto dietro un cancello e una muraglia terrosa. Lo spazio appartiene a un proprietario terriero dell' area tribale. Per restare lì, gli afghani pagano 200 rupie al mese, quasi ottomila lire, un piccolo capitale da queste parti. L' emergenza umanitaria passa al libero mercato. M.G.C. Documento 286 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 23/10/2001 NUMERO Mar PAGINA 009 OCCHIELLO FRONTE UMANITARIO TITOLO Dal chirurgo ai volontari: gli italiani in prima linea AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, profughi NOTE attacco Usa contro Afghanistan. aiuti umanitari alla popolazione civile. scheda: gli aiuti (organizzazioni presenti sul territorio e in Pakistan) LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE T gli aiuti. CIBO. Bambini afghani mangiano in un campo di Jalalabad FULL PAGE S FRONTE UMANITARIO Dal chirurgo ai volontari: gli italiani in prima linea DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Qualche settimana fa lo si vedeva con il passo nervoso di sempre, nella hall del Pearl Continental di Peshawar a cercare il modo per rientrare in Afghanistan. Dopo la chiusura del suo ospedale di Kabul, per mano della polizia religiosa dei talebani, dopo lo scoppio della crisi con gli Stati Uniti, tutte le strade sembravano chiuse. Poi ce l' ha fatta. Gino Strada, il chirurgo italiano di Emergency, è tornato. Stavolta sulla linea del fuoco, nel suo primo ospedale, costruito ad Anabah all' ingresso della valle del Panshir, nei territori controllati dall' Alleanza del Nord. Ha ancora il passo nervoso, ma ogni mattina respira aria di guerra. Proiettili e schegge da estrarre. Feriti da mina da operare. Mu ja hed din da rianimare. Tra gli italiani coinvolti nelle attività umanitarie della regione, Gino Strada è il più conosciuto. Il volto mediatico dell' emergenza. Si sono raccolti fondi per i suoi ospedali. Si sono lanciate campagne per sostenere le sue attività. Una sorta di console del nostro governo. Ma ci sono altri, una decina o poco più, che in questa crisi giocano ruoli chiave. Alberto Cairo, per esempio. Un piemontese dal volto scavato, barba brizzolata, occhialini di metallo. Il suo centro di Kabul, un laboratorio dove si producono protesi per i mutilati di guerra, è diventato in pochi anni una delle strutture più efficienti della città. Nemmeno i talebani, generalmente diffidenti verso gli operatori umanitari, hanno mai avuto da ridire sul lavoro di questo fisioterapista dal carattere schivo, arrivato in Afghanistan 12 anni fa come funzionario del Comitato della Croce Rossa internazionale. L' hanno lasciato fare, affidando alle sue mani i moncherini dei loro parenti, degli ufficiali, dei civili che incappavano sulle mine abbandonate nel Paese. Un asceta, Cairo. Dodici ore di lavoro al giorno, serate in casa, nessuna apparizione nel club degli espatriati. «Più afghano degli afghani», dicono gli amici. Più contrariato di chiunque altro, quando gli è stato ordinato di lasciare Kabul. Oggi si trova a Faisabad, anche lui nelle aree controllate dall' opposizione, a fabbricare protesi in un nuovo laboratorio della Croce Rossa. Ad Islamabad ha lasciato un collega, Mario Musa, il portavoce dell' organizzazione, impeccabile nei suoi gilet di taglio locale, ciuffo alla Di Caprio sulla fronte. Nato a Como 32 anni fa, Musa è passato da Jaffna, nello Sri Lanka dei Tamil, al Congo Brazzaville durante la guerra civile, prima di arrivare in Afghanistan. A Kabul si occupava di «comunicazione». «Avevano ottenuto uno spazio su Radio Sharia, la radio dei mullah, per far passare messaggi in difesa dei diritti umani». Tra una fatwa e l' altra, si era inventato persino una soap opera «didattica» ambientata in un villaggio afghano. In Pakistan, rilascia interviste: savoir faire e volto perfetto per la tivù. Rambo e burocrati, star e cervelli. Tra gli italiani si intrecciano vocazioni diverse. Antonio Donini è per esempio la vera eminenza dell' emergenza. Nato a Trento 55 anni fa, cresciuto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia, dovunque lo portasse il padre, direttore dell' istituto italiano di cultura, Donini coordina tutte le attività umanitarie dell' Onu per l' Afghanistan. Vive a Islamabad, parla italiano con accento inglese, ha sempre un sorriso sornione sotto i baffi e un collegamento costante con New York. Con lui lavora una donna: Letizia Rossano, 34 anni, trasferita in Pakistan due anni e mezzo fa con figlia e marito. Un altro italiano ai vertici è Filippo Grandi, responsabile dell' Alto commissariato per i rifugiati nella regione. Gli anni scorsi l' avevano visto a Goma, nell' ex Zaire, a gestire l' emergenza seguita al genocidio ruandese. Poi è passato al quartier generale, come assistente di Sadako Ogata. Oggi è di nuovo in prima linea, sempre in viaggio tra Pakistan e Iran, i due Paesi sui quali rischiano di riversarsi maree di nuovi rifugiati. Pochi i volontari delle organizzazioni non governative. Giorgio Tarditi, 29 anni, responsabile dei progetti di Coopi, è arrivato sei mesi fa in Afghanistan, dopo essere passato per il Congo, il Ruan da e il Kosovo. Oggi ha lasciato gli staff locali a gestire i programmi sanitari e si è trasferito a Pesha war, dove lavora alla costruzione dei nuovi campi profughi. Bombe o non bombe, anche lui vorrebbe tornare in Afghanistan. Maria Grazia Cutuli Gli aiuti ONU In Afghanistan operano due agenzie dell' Onu: l' Unicef (il Fondo delle Nazioni Unite per l' infanzia) e l' Unhcr (l' Alto commissariato Onu per i rifugiati). Il Pam (Programma alimentare mondiale) provvede a distribuire cibo alla popolazione CARITAS L' organizzazione umanitaria cattolica si occupa in Afghanistan soprattutto dell' assistenza ai profughi CROCE ROSSA Raccoglie e porta aiuti per l' assistenza sanitaria, ma anche per procurare tende e alimenti ai profughi BAMBINI Degli aiuti all' infanzia si occupano in particolare le organizzazioni non governative «Save the children» e «Terre des hommes» FERITI In Afghanistan operano medici e infermieri di Emergency (fondata dall' italiano Gino Strada, nella foto) e «Medici senza frontiere» Documento 287 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 24/10/2001 NUMERO Mer PAGINA 003 OCCHIELLO L' APPELLO DI MEDECINS SANS FRONTIERES TITOLO «Non possiamo distribuire aiuti mentre attaccano» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan. aiuti umanitari. profughi. dichiarazioni di Diderik Zan Helsema, portavoce di Médecins sans frontières. appello per una tregua LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FULL PAGE S L' APPELLO DI MEDECINS SANS FRONTIERES «Non possiamo distribuire aiuti mentre attaccano» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - «Non vogliamo credere che siano i civili l' obiettivo di questa guerra. Ma siamo molto preoccupati. Ogni giorno vediamo peggiorare le condizioni di sicurezza all' interno dell' Afghanistan». Diderik Zan Helsema, portavoce di Médecins sans frontières (Medici senza frontiere) in Pakistan, commenta i bombardamenti sull' ospedale di Herat, denunciando la mancanza di regole e di garanzia per chi svolge attività umanitaria. «Siamo abituati a lavorare in guerra, ma qui gli spazi d' intervento continuano a ridursi. Non possiamo distribuire cibo e medicinali assieme alle bombe». Le organizzazioni umanitarie hanno chiesto un cessate il fuoco. Vi siete uniti all' appello? «Capiamo i motivi, ma abbiamo deciso di non fermare la richiesta. Un mese di tregua non è sufficiente ad assicurare assistenza umanitaria in tutto il Paese». Senza interferenze? «Se qualcuno pretende di condizionare o controllare gli aiuti, rischiamo di perdere la fiducia della gente». Nei giorni scorsi sono state bombardate le sedi di agenzie umanitarie. E' un errore? O i talebani hanno spostato armi pesanti vicino a strutture civili, trasformandole in bersagli? «La situazione è molto caotica. Siamo stati avvertiti del rischio che i talebani spostassero le armi pesanti vicino alle strutture umanitarie. Ma non abbiamo prove. Sappiamo solo che alcuni dei nostri depositi sono stati sigillati. Se siano stati i talebani o altri, gli arabi per esempio, è difficile dirlo. Ma non è questo che ci preoccupa: siamo disposti a correre rischi, ma abbiamo bisogno di garanzie». M.G.C. Documento 288 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 25/10/2001 NUMERO Gio PAGINA 008 OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO FRONTE POLITICO Un fronte formato in maggioranza da pashtun delusi dalle milizie coraniche pronti a far tornare l' ex re Zahir Shah In tutto un migliaio di dissidenti disposti a trattare anche con le altre etnie (uzbeka, tagika e hazara) raggruppate al Nord TITOLO I capi tribù lanciano l' Alleanza del Sud SOMMARIO Nasce in Pakistan una nuova opposizione ai talebani: «Salveremo noi l' Afghanistan» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afganistan. nuovo fronti anti talebani , guidato da Pir Sayed Ahmed Gailani, che raggruppa dissidenti ed esuli e sostiene il ritorno del re. PERSONAGGI Gailani Pir Sayed Ahmed LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FULL PAGE S I capi tribù lanciano l' Alleanza del Sud Nasce in Pakistan una nuova opposizione ai talebani: «Salveremo noi l' Afghanistan» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Pir Sayed Ahmed Gailani, immobile nell' abito nero dai galloni dorati, l' espressione ieratica, uno zuccotto d' astrakan in testa, troneggia come un cardinale sul palco montato nella Nishtar Hall di Peshawar. E' un ex capo mujaheddin, imparentato con il re dell' Afghanistan, discendente di Maometto, leader di una setta sufi. L' uomo con il carisma adatto a rappacificare le litigiose anime dell' etnia pashtun. Un migliaio di capi tribali, esponenti politici, vecchi comandanti dai turbanti di seta, le barbe colorate di henné, i visi bruniti dai tratti orientali, non gli tolgono gli occhi di dosso. «Fratelli, l' Afghanistan oscilla tra la vita e la morte - dice Gailani con tono profondo -. Uniamo le nostre mani. Facciamo uno sforzo per fermare le operazioni militari e procedere alla ricostruzione del nostro Paese». La platea si alza in piedi. Braccia in alto, dita che si intrecciano. Un urlo comune: «Uniamo le nostre forze». Nasce così nei territori del nord-ovest pakistano, durante una grande assemblea corale che si concluderà oggi, l' Alleanza del Sud: un nuovo fronte, formato da dissidenti ed espatriati afghani, che dovrebbe spianare la strada al ritorno di re Zahir Shah in Afghanistan e alla prossima leadership di Kabul. Il governo pakistano ha offerto la sede per la conferenza. Gli Stati Uniti hanno dato l' assenso. Tra i personaggi che affollano la sala mancano gli ospiti più importanti. Gailani è appena stato a Roma a garantire fedeltà all' ex sovrano, ma la promessa delegazione del re non si è presentata. La platea è delusa. «Tutta questa gente è venuta qui solo per incontrare i messaggeri del monarca», borbotta qualcuno. L' Alleanza del Nord, il vero fronte combattente dell' opposizione, ha mandato un solo esponente. Ufficialmente disertano pure i talebani «moderati», anche loro invitati alla conferenza: ci sono solo un paio di funzionari di basso rango, nascosti tra la folla. Ma per Gailani è comunque un successo: «Non pensavamo di poter mettere assieme i membri di tante fazioni - dice il figlio Ahmed -. Sono presenti tutti i segmenti dell' opposizione afghana». E' questa la sfida del «pir» Gailani, l' «uomo pio» delle gerarchie islamiche: lanciare un appello all' unità che comprenda anche esponenti delle milizie di Allah. La platea si spacca: «I talebani non hanno soddisfatto le aspettative della gente», dice Qazi Mohammed Amin Waqad, uno dei leader storici della jihad contro i russi. «Se ne tornino nelle scuole coraniche», aggiunge l' esponente di un altro partito. Asad Ullah, uno dei talebani in incognito, ascolta senza scomporsi: «Sono venuto qui di mia iniziativa, ma questo non significa che ci sia una spaccatura all' interno del nostro movimento. I talebani sono uniti e per niente disposti a cedere il potere a re Zahir Shah». Se l' ex sovrano vuole tornare in Afghanistan - è la posizione degli integralisti - lo faccia, ma sotto la legge coranica. L' altro nodo è il ruolo dell' Alleanza del Nord, rappresentata da uzbeki, tagiki, hazara. Il re, secondo notizie arrivate da Roma nei giorni scorsi, avrebbe già preparato un suo gabinetto, formato da 120 membri: 50 scelti da lui, 50 dall' Alleanza, il resto di etnia pashtun. Gailani padre tace. Mentre il figlio sbotta: «Non se ne parla nemmeno. E' impensabile che l' Alleanza prenda una quota così ampia». L' assemblea di Peshawar, dominata dai pashtun, ha un' altra agenda: stop ai bombardamenti americani sull' Afghanistan, formazione di un governo di tecnici in cui vengano rappresentate tutte le componenti dell' opposizione, preparazione di una nuova Costituzione in linea con la religione islamica. Pir Sayed Ahmed Gailani insiste sulla «loja jirga», l' antico consiglio degli anziani, e chiede che a guerra finita intervenga una forza Onu. E ha anche un programma di lotta: «Gli studenti coranici che condividono le nostre idee dovrebbero avvicinarsi a noi». E' questo l' incarico dell' Alleanza del Sud: far pressione sui comandanti locali, spingere alla defezione, preparare una rivolta dal basso. Delegati al compito due vecchie glorie della jihad: Abdul Haq e Haji Mohamed Zaman. Il primo non si vede alla conferenza di Peshawar. Sarebbe appunto in Afghanistan, a Jalalabad, a preparare il terreno per le diserzioni. L' altro partecipa e si schiera con l' assemblea. Piccole trame del «grande gioco»? Dietro gli sforzi di Pir Sayed Ahmed Gailani c' è il tentativo di far largo alla componente pashtun che rappresenta quasi la metà degli afghani. Ma sul futuro governo del re, pesano altri attori. L' Iran, per esempio, contrario ai talebani. La Russia, vicina all' Alleanza del Nord, altrettanto ostile agli integralisti. Il Pakistan sta dalla parte opposta. Vuole salvare i talebani, di cui è stato sponsor per anni, mentre preferirebbe veder scomparire i guerriglieri del Nord. Nelle ultime 48 ore è però successo qualcosa che imbarazza profondamente il governo di Islamabad davanti all' alleato statunitense: durante un raid americano su Kabul sono stati uccisi guerriglieri pakistani che combattevano con gli integralisti. Sono i miliziani dell' Herakat el Mujaheddin, una delle associazioni messe al bando da George Bush. Qualcuno ieri mattina ha tentato di far passare i cadaveri di sei di loro dal confine di Torkham, vicino a Peshawar, ma i doganieri li hanno rifiutati. I corpi sono arrivati comunque, attraverso l' area tribale. E in serata, a Rawalpindi, si preparavano già i funerali dei «martiri di Allah». Maria Grazia Cutuli Documento 289 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 26/10/2001 NUMERO Ven PAGINA 009 OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO. L' AFGHANISTAN TITOLO I capi antitalebani: «Fermare i raid» SOMMARIO L' appello dei leader delle tribù afghane riuniti a Peshawar: «Evitare un vuoto politico a Kabul» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, politica interna NOTE attaco Usa all' Afghanistan. il primo incontro dell' Assemblea per la pace e l' Unità nazionale dell' Afghanistan. cronaca LOCALITA' SOGGETTO Afghanistan LOCALITA' EVENTO Afghanistan FOTO, GRAFICI, TABELLE Una ragazzina pakistana con un mitra giocattolo durante una manifestazione fondamentalista, SAGGI L' assemblea degli anziani riuniti per la «Conferenza per la pace e l' unità nazionale in Afghanistan», che si è tenuta ieri e l' altro ieri a Peshawar, in Pakistan, per discutere del dopo talebani (Shabbir Hussain Imam/Ap) FULL PAGE S I capi antitalebani: «Fermare i raid» L' appello dei leader delle tribù afghane riuniti a Peshawar: «Evitare un vuoto politico a Kabul» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Ogni viso racconta un clan, una tribù, un' idea politica diversa. Mille e cinquecento persone, strette sui gradoni di una platea, in un ondeggiare di turbanti di seta, scialli variopinti, barbe fluenti, concludono il primo incontro dell' Assemblea per la pace e l' Unità nazionale dell' Afghanistan tentando di pianificare il futuro di un Paese devastato da vent' anni di guerra e colpito da settimane di bombardamenti americani. Ma non basta un memorandum finale a garantire l' ottimismo. Nella Nishtar Hall di Peshawar, profughi e oppositori afghani si ritrovano con gli stessi dubbi che in questi giorni attanagliano tanto l' amministrazione Usa, quanto le potenze regionali, dall' Iran alla Russia, dal Pakistan alla Cina. Che cosa ne sarà dell' Afghanistan, una volta caduto il regime dei talebani? E' davvero così semplice creare un nuovo governo che si regga su un leader di facciata, come l' ex monarca Zahir Shah? L' organizzatore della Conferenza, Pir Sayed Ahmed Gailani, il grande vecchio del fronte monarchico, l' ex capo di un gruppo mujaheddin che da anni spera nella restaurazione della corona, è costretto al realismo. Troppi protagonisti sulla scena, troppe etnie in lotta tra loro per poter credere in un futuro di pace e stabilità. «Le operazioni militari portate avanti dagli Stati Uniti e dalle forze alleate - recita leggendo la risoluzione finale - potrebbero causare la caduta dei talebani, ma creeranno un vuoto politico». Un altro bagno di sangue. Un buco nero che rischia di essere riempito da «un particolare gruppo». Gailani non lo dice esplicitamente, ma tutti sanno che il nemico è l' Alleanza del Nord, quell' accozzaglia di fazioni che dal ' 94 combatte contro i talebani. E' lo stesso timore degli Stati Uniti, che stanno infatti tentando di rallentare l' avanzata dei guerriglieri su Kabul. I bombardamenti devono finire al più presto, su questo l' Assemblea concorda. Bisogna preparare il terreno per una soluzione politica, proteggere la popolazione e prevenire altre distruzioni. Disarmare Kabul, se necessario, trasformando la capitale in una zona franca. La risoluzione insiste sulla Loya Jirga, il Consiglio supremo in vigore sotto la monarchia, «istituzione che fa parte della tradizione e della politica della nostra nazione», con un aiuto esterno. Quello dell' Onu con una forza di pace. Quello dell' Organizzazione degli Stati islamici affinché l' Afghanistan non si smembri, come è successo nei primi anni Novanta, nei feudi dei signori della guerra. Gailani continua a credere nel re, nella sua capacità di imporre una «politica moderata e bilanciata», ma sottolinea che l' equilibrio nascerà anche dalle quote di potere distribuite ai gruppi etnici, primo tra tutti quello maggioritario pashtun contro i tagiki, gli uzbeki, gli hazara dell' Alleanza del Nord. Il grande vecchio, austero nell' abito tradizionale di maestro sufi, avrebbe voluto che a questa conferenza partecipassero gli studenti coranici, anche loro di etnia pashtun. L' aveva sperato fino all' ultimo. Ma nessuno dei leader si è presentato. I tre talebani che hanno raggiunto Peshawar preferiscono restare in incognito. Qasi Amin Waqad, un ex leader della Jihad contro i sovietici, propone una grande marcia su Jalalabad in Afghanistan. Può sembrare demagogia, ma per l' Assemblea degli espatriati significa riallacciare un filo con chi sta dall' altra parte. Si insinua un dubbio: forse il governo degli integralisti, non è stato il peggiore che l' Afghanistan abbia avuto. Ha calpestato i diritti umani, è vero. Ma la vera macchia, quella che ha spinto gli Usa a muoversi, è un' altra. Gailani non cita Osama, né la sua brigata di arabi. Chiede però «con toni decisi» che «gli stranieri smettano di approfittare dell' ospitalità degli afghani e lascino subito il Paese». E' la condizione numero uno per salvare l' Afghanistan. Dall' altra parte arrivano però solo proteste. In contemporanea alla chiusura del meeting i partiti pakistani filotalebani si riuniscono in una moschea di Peshawar con l' intento di marciare contro la Conferenza per la pace e l' Unità nazionale. La polizia li blinda. A fine mattinata non sono più di un centinaio, ma al centro del bazar rimangono i baracchini con le foto di Osama e i banchetti per raccogliere soldi a sostegno della Jihad. Non basta il pugno duro del presidente Pervez Musharraf a zittire gli estremisti. Tra il Pakistan integralista e l' Afghanistan dei talebani il corridoio rimane aperto. Una trentina di volontari pakistani sono stati uccisi a Kabul durante un raid americano. Ieri in occasione dei funerali di una delle vittime, hanno sfilato in 2 mila per le strade di Karachi, urlando slogan antiamericani. Tra polizia e manifestanti si è sfiorato lo scontro. Poi è apparso il fratello del morto a celebrare il sacrificio del martire. Nella Nishtar Hall Gailani ricorda che non è una Jihad quella che si combatte in Afghanistan. Solo una guerra civile, ma rischia di lasciare un grande vuoto. Maria Grazia Cutuli Documento 290 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 27/10/2001 NUMERO Sab PAGINA 005 OCCHIELLO IL PERSONAGGIO TITOLO Giustiziato dai talebani leader dell' opposizione SOMMARIO Abdul Haq era entrato in Afghanistan per conto dell' ex re. Gli elicotteri Usa avrebbero tentato di salvarlo. L' eroe della resistenza e le sue quattordici ferite AUTORE Cutuli Maria Grazia, Mo Ettore GENERE biografia ARGOMENTO giustizia pena morte, dissenso NOTE 2 artt. giustiziato ieri a Kabul Abdul Haq, comandante storico della resistenza antisovietica. ritratto di Abdul Haq. scheda: vittime storiche, profili di Afizullah Amin, Muhammad Najibullah e Ahmed Shah Massud PERSONAGGI Haq Abdul LOCALITA' SOGGETTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE TG Vittime storiche: Amin, Najibullah, Massud, ORIZZONTI PERDUTI Un combattente dell' Alleanza del Nord sulla linea del fronte a 50 chilometri da Kabul (Di Lauro/Ap), Il mullah Omar FULL PAGE S Giustiziato dai talebani leader dell' opposizione Abdul Haq era entrato in Afghanistan per conto dell' ex re. Gli elicotteri Usa avrebbero tentato di salvarlo DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Era l' uomo dalle mille vite. Il mujaheddin sopravvissuto alla trincea. L' eroe dal piede perso su un sentiero minato. L' esule fuggito a Dubai. L' imprenditore diventato miliardario. Abdul Haq, comandante storico della resistenza antisovietica, era tornato in Pakistan a fine settembre, con un incarico molto particolare: coordinare la rivolta delle tribù pashtun contro i talebani e preparare il ritorno del re in Afghanistan. La missione si è trasformata in una trappola. L' uomo dalle mille risorse, rispedito in prima linea dagli americani, è stato impiccato ieri pomeriggio in una caserma alla periferia di Kabul. Aveva 43 anni Abdul Haq, barba bianca, 100 chili addosso, una protesi al piede destro. I suoi modi erano affabili, la sua villa alla periferia di Peshawar sempre aperta ai giornalisti. «Ci sono diversi talebani pronti alla defezione - aveva detto durante l' intervista al Corriere una settimana fa -. Ma non è ancora il momento per intervenire». Mentiva? Il 21 ottobre il comandante ha passato il confine a cavallo, attraverso l' area tribale con sette uomini di scorta. A Peshawar lo si sapeva. E si mormorava: «Ha preso le armi? Sta tentando di comprare i talebani?». Ieri la versione degli studenti coranici: Abdul Haq è stato catturato con un borsa piena di dollari e due telefoni satellitari ad Azra, nel distretto orientale di Logar. I signori di Kabul divulgano la loro versione: il comandante, accerchiato, avrebbe tentato di chiamare in aiuto gli americani. Pochi minuti dopo, ecco gli Apaches volteggiare in cielo. Si spara dall' alto. Si risponde da terra. Sette feriti, tre talebani e quattro civili. Poi il prigioniero viene trascinato altrove con la sua scorta. Una corte di ulema, i giureconsulti dell' Islam, condannano a morte lui e un collaboratore come «agenti degli americani». In un hotel di Peshawar, il fratello del comandante, Haji Mohammed, altro veterano della Jihad, dà altre spiegazioni: «Abdul Haq era partito in missione di pace, voleva incontrare la sua gente, i capi tribali delle province dell' est». Nessun satellitare, nessuna valigia piena di dollari. Il vecchio non sa ancora dell' impiccagione, lancia a un appello ai talebani perché lo rilascino. Poche ore dopo, nella villa dai pavimenti di marmo è un altro fratello, Daud Arsala, appena tornato dagli Stati Uniti, a scrollare le spalle: «Abdul ha sempre avuto dei contatti con i talebani. Questa era la sua seconda missione». Era stato scelto anche per questo, l' uomo dalle mille vite. Per le sue amicizie, per la famiglia alla quale appartiene, signori del distretto orientale di Niangharar, per la rete di relazioni che il suo clan si era assicurato. Era tornato da Dubai, dove viveva dopo che gli avevano assassinato la moglie e il figlio, con l' assenso di Washington e su chiamata del re. «Stiamo cercando di creare una struttura politica attorno all' ex sovrano sulla quale basare poi una struttura militare», aveva detto nell' intervista. «Prima di tutto dobbiamo negoziare». Aveva un piano: una grande rivolta nazionale. Oggi l' entourage del re si dice scioccato. Ma dall' Afghanistan incalzano solo dichiarazioni di guerra. L' ultimo appello viene dal mullah Omar. Il leader supremo chiede ai musulmani di tutto il mondo tre giorni di mobilitazione a favore dei talebani. L' uomo dalle mille vite ha sbagliato il momento: non è tempo di negoziare. Maria Grazia Cutuli AFIZULLAH AMIN Il 16 settembre 1979 il presidente afghano Mohamed Nur Taraki viene ucciso e al suo posto sale al potere Afizullah Amin, numero due del regime. La sua presidenza dura solo cento giorni: il 27 dicembre inizia l' invasione dell' Armata Rossa e Amin, sgradito all' Unione Sovietica, viene processato e giustiziato. Marxista ortodosso, era inviso a Mosca perché ritenuto troppo coriaceo, troppo duro con i ribelli islamici, in una parola troppo stalinista MUHAMMAD NAJIBULLAH Filosovietico, divenne presidente dell' Afghanistan nel 1987 e mantenne il potere anche dopo il ritiro dell' Armata Rossa (1989) fino al 1992, quando i mujaheddin presero Kabul. Anziché scappare, restò segregato in un ufficio dell' Onu della capitale che divenne il suo rifugio-prigione. Quando nel 1996 i talebani entrarono a Kabul, Najibullah fu catturato, giustiziato e il suo cadavere fu impiccato nello stadio di calcio della capitale AHMED SHAH MASSUD Figlio di un colonnello tagiko e laureato in ingegneria al Politecnico di Kabul, in seguito all' invasione sovietica Massud si diede alla resistenza, guadagnandosi il soprannome di «leone del Panshir». Entrato a Kabul nel 1992 alla testa dei suoi mujaheddin, ne fu ricacciato dai talebani nel ' 96. Da allora ha continuato a combattere contro gli studenti coranici fino al 9 settembre, quando è rimasto ucciso in un attentato JABAL SARAJ (Afghanistan) La notizia della tragica fine di Abdul Haq mi raggiunge proprio qui, in questa polverosa borgata quasi all' imbocco della valle del Panshir, e a una sessantina di chilometri da Kabul, che è diventata il quartier generale dell' Alleanza del Nord da sei anni in lotta contro i talebani. Non ho bisogno di consultare appunti o i tagli di giornale per ricordare quest' ultimo martire e quest' ultima vittima dei fanatici seguaci del mullah Omar. Dopo Ahmad Sha Massud, eliminato da due kamikaze arabi il 9 settembre scorso, Abdul Haq era uno dei comandanti mujaheddin che più ho stimato e che da tempo avevo collocato nella galleria degli eroi della guerra afghana. L' avevo incontrato nell' estate del ' 79, sei mesi prima dell' invasione sovietica, a Peshawar, la farraginosa città pakistana sulla frontiera con l' Afghanistan, dov' erano acquartierate le «sette sorelle», cioè i sette partiti islamici afghani che avevano dichiarato guerra al regime filosovietico di Kabul e che poi per dieci anni avrebbero combattuto le truppe dell' Armata Rossa, costringendole al ritiro nel febbraio dell' 89. Abdul Haq faceva parte dello Hezb-i-Islami, un piccolo gruppo che aveva rotto i ponti col partito omonimo, fortissimo, guidato dal superfalco della Jihad (la guerra santa) Gulbuddin Hekmatyar: il capo di questa frazione secessionista, numericamente modesta ma audace ed efficientissima nella lotta armata, era un' anziano leader islamico, Yunis Khalés, laconico e fatto di filo di ferro, la barba rossa fluente, sempre col vecchio Enfield a tracolla. L' ultima vittima dei talebani aveva cominciato molto presto la sua personale Jihad contro il regime scaturito, nel ' 78, dalla cosiddetta «Rivoluzione d' Aprile», che portò al potere il triumvirato comunista Karmal-Taraki-Amin. Abdul Haq frequentava ancora i banchi di scuola di Jalalabad da dove contava di trasferirsi alla facoltà di Agraria. «La mia ribellione scattò molto presto - mi raccontò un giorno nel suo rifugio montano di Tizine, 30 chilometri a Sud-Est di Kabul -. Mi ricordo di un insegnante che approfittava di ogni lezione, fosse lingua o matematica, per inculcarci idee socialiste». E' ancora poco più che adolescente quando si tuffa nella lotta clandestina. Viene arrestato un paio di volte dalla polizia del regime, la Khalq. «Mi minacciarono anche di mettermi al muro continuò a raccontarmi senza toni eroici -. Poi però dicevano: "E' ancora troppo piccolo, è un moccioso, non ci sarebbe neanche gusto". E mi davano uno scappellotto e mi cacciavano via. Fu un grosso sbaglio. Non sapevano, allora, che da grande gli avrei dato molto fastidio. Proprio come sto facendo ora». Abdul Haq non ha più tempo per la scuola e non sogna più un diploma come agronomo. Impara a fabbricare esplosivi, a maneggiare il fucile, a far pratica di agguati e di imboscate. Dice che i suoi cosiddetti «corsi universitari» li ha fatti prima nella sua terra, la provincia di Nangarhar (la stessa del suo capo, Yunis Khalés), poi in quella di Paktya, infine attorno e dentro Kabul. Paga caro il suo apprendistato di guerrigliero. Ha cicatrici su tutto il corpo, è stato ferito al naso, alla schiena, alla testa, al petto: «Quattordici in tutto», precisò quel giorno nel suo rifugio. Ma già allora aveva sotto il suo controllo 5 mila mujaheddin, ben addestrati e disciplinati e con un discreto equipaggiamento, che si dedicavano di preferenza alla guerriglia urbana. «Ma sono operazioni di estrema difficoltà - spiegava nei momenti di relax -. I rischi sono doppi o tripli. Kabul, poi, è una fortezza, protetta da una triplice cinta umana con 35 mila soldati russi e afghani e una catena serrata di posti di blocco». Era molto robusto Abdul Haq. Spalle e braccia da lottatore, gambe come tronchi d' albero. Piuttosto schivo come carattere, misurava le parole e muoveva poco la testa sul collo taurino. Ma aveva lo sguardo dei buoni. Era riuscito a creare dentro la capitale un' organizzazione underground ben oliata e scaltra, una rete di informatori camaleonti, pescati tra solerti burocrati e funzionari governativi che facevano il doppio gioco, impiegati modello di giorno, agenti sovversivi di notte. Nel giro di due-tre anni, Abdul Haq era diventato il re dei dinamitardi e dei guastatori. Se la città piombava nel buio per settimane e il telefono non funzionava; se bruciavano i depositi di carburante e i distributori di benzina, se c' era un blackout alla tv; se mancava la farina per il pane; se scoppiava una bomba durante il convegno dei marxisti parchamiti; se un giorno veniva rapito un illustre scienziato sovietico (Orimyuk, poi eliminato)... potevate star certi che dietro tutti questi «inconvenienti» c' era lui, sempre lui, Abdul Haq. «Il mio obiettivo - mi disse una volta quando lo andai a trovare, cosa che facevo spesso, nella sua villetta a due piani color ciclamino, vicino all' università di Peshawar - è sempre quello di colpire i russi là dove gli fa più male. Questa guerra che ci hanno imposto deve costar loro sempre più cara, in rubli e vite umane. Gli abbiamo distrutto strutture industriali e militari per miliardi di dollari». E' stato una minaccia vivente per le caserme di polizia, per le guarnigioni, per le fabbriche, i ministeri, le centrali elettriche come quella di Sarobi, i mulini e i silos, la sede della radio e della televisione, l' ambasciata sovietica, il quartiere residenziale dei russi a Mikrorayon, che ogni sera si chiedevano, prima di spegnere la luce sul comodino: «Che farà stanotte quel demonio di Abdul Haq?». Gli «sciuravì», i russi, cercarono anche di comprarlo. Era l' inizio dell' 83. Gli proposero una tregua, come avevano già fatto col leone del Panshir, Massud, strofinandogli sotto il naso una montagna di banconote. «Mi offrirono ventisette milioni di afghani - mi raccontò una volta - perché lasciassi perdere Kabul per qualche tempo. Erano infastiditi soprattutto dai nostri attacchi alle centrali elettriche e ai piloni della luce. Declinai l' offerta, naturalmente. E poi, quei soldi non valevano nulla, li stampavano a tonnellate. Ma io già avevo in mente un progetto che li avrebbe messi in braghe di tela...». L' attacco al deposito di Kargha fu il suo capolavoro. Il deposito, 18 chilometri ad ovest di Kabul, nella Paghman Valley, era un superarsenale e conteneva nidiate di missili terra-aria Sam 2 e uno stock micidiale di armi e munizioni che i russi provvedevano a rabboccare ogni mese. Esplose la notte del 27 agosto dell' 86, un botto tremendo che mandò in frantumi tutti i vetri delle finestre della capitale, mentre il cielo era avvampato di rosso, come per l' eruzione improvvisa di un vulcano. I ragazzi di Abdul Haq lo avevano colpito con una grandinata di missili terra-terra 107 mm. provocando un rogo infernale. Erano stati in molti ad attribuirsi il colpo, «quel» colpo. E lui li lasciava dire e sorrideva, divertito. L' ultima volta che l' ho visto, a Peshawar, fu dopo che aveva perso un piede (il destro, mi pare), saltando su una mina. Era di ritorno dalla Germania, dove lo avevano operato. Disse, con un sorriso in quel suo faccione largo e gentile, «per camminare me ne basta uno». Ettore Mo Documento 291 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 28/10/2001 NUMERO Dom PAGINA 002 OCCHIELLO ASPIRANTI MARTIRI TITOLO Verso il confine, armati di asce e bazooka SOMMARIO Sono civili trasformati in combattenti Battaglioni di soldati vestiti di stracci AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE ultima edizione. tra i volontari della guerra santa, Jihad, diretti verso l' Afghanistan pronti a combattere a fianco dei talebani. ( Lega Araba ) LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE RESISTENZA Shah Wazir, 70 anni, pakistano, in viaggio verso l' Afghanistan (Ap/Khan) FULL PAGE S ASPIRANTI MARTIRI Verso il confine, armati di asce e bazooka DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Impossibile contarli. Arrivano a migliaia dai villaggi, dalle campagne, dalle città del Pakistan. Viaggiano su camion variopinti, autobus senza porte, pick up attrezzati come arsenali. Brandiscono pistole, kalashnikov, bazooka, lanciagranate. Esibiscono pezzi d' artiglieria pesante. Non c' è arma che manchi alla carovana di Allah. Persino asce e bastoni, portati in dotazione per la santabarbara della Jihad. A Temergarah, nel cuore dell' integralismo islamico, quattro ore di macchina a nord di Peshawar, due di meno dalla frontiera con l' Afghanistan, i volontari della guerra santa mostrano per la prima volta oltre ai muscoli anche i fucili. Oltre alla rabbia, la determinazione. Sono civili trasformati in combattenti. Battaglioni di soldati vestiti di stracci. Teste coperte dai turbanti pashtun. Visi feroci sotto le barbe d' ordinanza. Non è la solita parata propagandistica, organizzata dai partiti religiosi. Dopo settimane di appelli alla fratellanza islamica e di minacce all' Occidente, le nuove reclute, tutte pakistane, sono pronte a partire davvero. A superare il confine, per unirsi ai Talebani nella lotta contro il nemico americano. Diecimila, dice qualcuno. Forse di meno, forse di più. Non sono i numeri che contano. E' il passaggio dei loro convogli per le strade del Pakistan a impressionare. E' il fatto che non ci sia nessuno a fermarli. Né la polizia, né i corpi speciali. Né l' apparato di sicurezza del presidente Pervez Musharraf. A Temergarah le regole sono saltate. Il politicamente corretto non funziona. Tutto quello che dichiara il governo - pieno supporto alla campagna militare americana in Afghanistan - viene smentito da questa folla in armi che si mobilita, oltre una frontiera ufficialmente sbarrata, per combattere in nome di Allah. E' un mullah, un fuoriuscito del partito religioso Jamiat Islam, a trascinare le folle. Ad ogni appello, nuove reclute. «Partecipare alla Jihad contro gli aggressori è un obbligo per ogni fedele - dice il leader -. E' una lezione esemplare per tutti coloro che non sono musulmani». Il suo vivaio si chiama Tehrik Nefaz-i-Shariah Muhammadi, «Movimento per il consolidamento della sharia di Maometto». E' un gruppo fondamentalista che si è fatto conoscere per i boicottaggi alle elezioni considerate anti-islamiche e che sogna di trasformare il Pakistan in uno Stato governato dalla legge coranica. I suoi attivisti si preparavano da settimane alla grande partenza. Si raggruppano nei cinque campi allestiti al centro di Temergarah, tra bancarelle e baracchini decorati da foto di Osama. Chiedono le dimissioni del presidente Musharraf. Urlano slogan. Agitano i fucili. La notte è stata dura. Passata al freddo in attesa di ordini, con il sostegno dei mullah che dalla moschea distribuivano tè verde, cibo e coperte. «Posso vivere o morire, non mi importa - dice Hussain Khan, un muratore di 18 anni, in una mano il kalashinikov, nell' altra una tazza di tè -. Sarò un uomo fortunato perché avrò combattuto al servizio dell' Islam». Al mattino, parte la marcia. La carovana si mette in moto, con il mullah Sufi Mohammed in testa. Un vecchio salta sull' ultimo pick up: «Ho 70 anni e non potevo immaginare una felicità più grande di andare incontro alla morte come martire d' Allah». Il convoglio raggiunge l' area tribale di Bajuar, a otto chilometri dalla frontiera con l' Afghanistan. «I Talebani ci aspettano - dicono i capi -. E' il mullah Omar in persona ad averci chiamati». Ma forse è una favola. Diecimila persone in arrivo sono diecimila bocche da nutrire, diecimila ospiti da mettere al riparo. I Talebani hanno chiesto più volte di frenare la corsa al reclutamento. Chissà. I leader sostengono di avere ritardato l' ingresso in Afghanistan per via della selezione. Scrupolosa: in trincea solo i giovani e i forti. Gli altri a casa, lodati comunque per la loro disponibilità. Terra senza legge, il Nord-Ovest del Pakistan. Il ministro degli Interni Moimuddin Haider minaccia di arrestare chiunque passerà la frontiera. Ma il confine con l' Afghanistan corre per 2.500 chilometri. Varchi clandestini, montagne e sentieri hanno sempre reso la «Durand line», la linea di spartizione tracciata dai britannici, una demarcazione illusoria. Il Pakistan è sempre stato un serbatoio di combattenti per l' Afghanistan. Oggi è la trincea dove si scontrano due civiltà. Altri uomini armati bloccano la Karakoram High way, la via della seta in direzione della Cina, il corridoio attraverso il quale Marco Polo rivelò all' Occidente le meraviglie del lontano Oriente. Oggi è l' autostrada per i commerci dell' Asia. I militanti di Allah hanno chiuso il passaggio. Maria Grazia Cutuli Documento 292 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 29/10/2001 NUMERO Lun PAGINA 003 OCCHIELLO PERSECUZIONE RELIGIOSA TITOLO Nel villaggio assediato dei cattolici: «Ci hanno abbandonato» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO religione cristiana, religione cattolica NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo strage di cristiani in una chiesa di Bahawalpur in Pakistan. la condizione dei cattolici a Tosefabad, paese nei pressi di Peshawar. LOCALITA' SOGGETTO PAKISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE IL LUTTO I corpi dei cristiani massacrati a Bahawalpur, in Pakistan, vegliati dai parenti (Ansa /Abdul Sattar Qamar) FULL PAGE S PERSECUZIONE RELIGIOSA Nel villaggio assediato dei cattolici: «Ci hanno abbandonato» DAL NOSTRO INVIATO YOSEFABAD (Pakistan) - «L' unica soluzione sarebbe il muro», dice Wilson John, studente di informatica, indicando il confine tra i due villaggi, quello cattolico (il suo) e quello musulmano. «L' abbiamo chiesto alle autorità, ma dicono che costa troppo». A Yosefabad, cinquemila abitanti persi a mezz' ora di strada da Peshawar, la segregazione è una condanna, ma anche una scelta. «Apparteniamo a due mondi diversi - continua lo studente -. I nostri bambini non giocheranno mai con quelli degli islamici, i nostri amici non staranno mai da quella parte». Prima vengono le baracche dei musulmani, la moschea di Subanabad, alcuni depositi dell' esercito. Poi c' è il deserto, un orizzonte di sabbia costellato da fortini di fango, dove sono nate, accatastate l' una sull' altra, le casette di Yosefabad. «Certo che abbiamo paura, dopo quello che è successo nella chiesa di Bahawalpur - continua il ragazzo -. I musulmani sono tutti armati, gli unici che non portano fucili siamo noi cattolici». Nelle ultime settimane, dopo gli appelli alla Jihad degli estremisti islamici, la paura è diventata ansia. «Ogni famiglia ha messo a disposizione un volontario. Abbiamo formato squadre di 15-20 persone che ogni notte si danno il cambio per pattugliare il villaggio». Sono poco meno di un milione e mezzo i cattolici del Pakistan, una minoranza di origine indiana, formata da ex intoccabili convertiti al vangelo per sfuggire al sistema delle caste. Accerchiati da 140 milioni di islamici, vivono nel «Paese dei puri» svolgendo i lavori più umili. Sguatteri e camerieri. «Studiare informatica è un privilegio», dice Wilson John. La chiesa è un cubo di pietra grigia: solo una piccola e discreta croce rossa, sulla facciata, la distingue dal resto delle case. Oggi, domenica, tutto il villaggio aspetta la messa. E' Padre William, parroco della Chiesa St. Michael di Peshawar, a celebrarla. Il sacerdote arriva con una vecchia berlina. «Da quando è cominciata la guerra in Afghanistan - dice - a noi religiosi sono arrivate strane lettere. Come questa». Porge un foglio indirizzato a lui, in qualità di direttore della scuola di St. Michael: «Avete chiuso la scuola per una settimana dopo l' attacco americano. Se la riaprirete, la bombarderemo». Il messaggio porta la firma dell' Iqalabi, un gruppo del Jamiat Ulema Islam. Anche i preti della chiesa di Bahawalpur avevano ricevuto una lettera simile. Sono davvero gli attivisti del partito religioso più importante del Pakistan a minacciare la vita dei cattolici? Il parroco scrolla le spalle. Il suo telefono è sotto controllo, i suoi gesti spiati. «Credo che la strage di Bahawalpur sia collegata ai bombardamenti sull' Afghanistan. E alla "crociata" di Bush. Crociata è una parola delicata, in un momento come questo può assumere significati molto pericolosi». Guerra tra religioni? I cattolici hanno finora sperimentato i rigori di istituzioni, pesantemente condizionati dalla sharia, il codice islamico. La legge contro la blasfemia, adottata nel 1986, prevede anche la pena di morte per chiunque venga accusato di offendere Allah e il suo profeta Maometto. Bastano due testimoni musulmani a formulare l' accusa. Tre anni fa, dopo la condanna di un cattolico, Ayub Masih, un vescovo si è suicidato per protesta davanti alla corte. Altri due imputati sono stati assolti, ma sono stati assassinati i due avvocati che li avevano difesi. Attualmente 2.500 cristiani si trovano nelle prigioni del Pakistan accusati di blasfemia. Padre William scuote la testa: «La strage di Bahawalpur potrebbe essere solo l' inizio». E' l' ora della messa. «Poi tutti a casa», dice lo studente d' informatica. Di notte solo le ronde rimangono a pattugliare il villaggio. Maria Grazia Cutuli Documento 293 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 29/10/2001 NUMERO Lun PAGINA 003 OCCHIELLO ATTACCO AL TERRORISMO STRAGE IN CHIESA Nell' edificio c' erano cento persone. Uccisi anche i due poliziotti musulmani che stavano di guardia alla porta I terroristi hanno gridato: «Questo Paese e l' Afghanistan saranno la vostra tomba». Il generale Musharraf: «Li prenderemo» TITOLO Pakistan, venti assassinati in chiesa SOMMARIO Sei uomini aprono il fuoco sui fedeli protestanti invocando Allah: «E' soltanto l' inizio» La suora: «Sapevamo che ci avrebbero attaccati, ma nessuno è stato in grado di difenderci» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO reati omicidi, reati attentati NOTE attacco Usa contro Afghanistan. strage di cristiani in una chiesa di Bahawalpur. 20 morti sei feriti gravi tra i fedeli protestanti. bomba su autobus nei pressi Quetta 2 morti e 25 feriti LOCALITA' EVENTO BAHAWALPUR. PAKISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE DOLORE I parenti davanti a San Domenico (Tanveer/ Ap) FULL PAGE S Pakistan, venti assassinati in chiesa Sei uomini aprono il fuoco sui fedeli protestanti invocando Allah: «E' soltanto l' inizio» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - L' invocazione di rito: «Allah Akbar», Dio è grande. Poi gli spari. Raffiche sui fedeli inginocchiati per la preghiera. Mitragliate contro le mura. Ancora un grido: «L' Afghanistan e il Pakistan saranno la tomba dei cristiani». Sono le nove del mattino quando sei uomini armati entrano in una chiesa di Bahawalpur, città del Punjab nel Pakistan orientale, facendo strage davanti all' altare. Arrivano a bordo di tre moto, con passi pesanti e borse in mano, dalle quali tirano fuori kalashnikov e proiettili. La chiesa diventa un mattatoio. «Non è che l' inizio», urlano invasati. I cento disperati cercano riparo. Si sdraiano per terra, si nascondono dietro l' altare. Ma i corpi cadono già l' uno sull' altro. Sedici fedeli muoiono sul colpo, tra i quali quattro donne, quattro bambini, un celebrante. Altre quattro persone spirano all' ospedale. Sei rimangono gravemente ferite. «Non è che l' inizio», ripetono gli uomini mascherati. Sangue sui paramenti sacri, sui banchi. Un altro cadavere sulla porta della chiesa: uno dei due poliziotti musulmani di guardia all' edificio. E' la prima volta che la comunità cristiana pakistana, per quanto perseguitata, subisce un attacco così sanguinario. Nella regione del Punjab, come in altre aree del Paese, finora c' erano state solo lotte fratricide, sunniti contro sciiti, centinaia di morti nelle moschee. Contro i cristiani saccheggi, roghi, distruzioni di chiese, mai una carneficina come questa. Negli ultimi giorni però qualcosa sta cambiando. L' aumentare dei bombardamenti anglo-americani sull' Afghanistan fomenta l' odio anti-occidentale. Volontari islamici si ammassano alla frontiera, per andare a combattere a fianco dei talebani. Molte aree sono fuori controllo. Ieri è esploso anche un ordigno su un autobus a 10 chilometri da Quetta, nel Belucistan: due morti e 25 feriti. Forse una vendetta tra gruppi tribali. Ma lo stesso presidente Pervez Musharraf sembra fatichi a frenare violenze e proteste. Saranno i cristiani i nuovi obiettivi della Jihad? A Bahawalpur, padre Rukes racconta: «La chiesa si è trasformata in un cimitero. Un incubo per chi era venuto a pregare Dio». E una suora, Naseen George, accusa: «Sin da quando è cominciata la guerra in Afghanistan sapevamo che saremmo stati attaccati. Avevamo chiesto protezione alla polizia, ma nessuno è stato capace di difenderci». I religiosi avevano ricevuto telefonate e lettere di minaccia, firmate dal Jamiat Ulema Islam, uno dei principali partiti integralisti, lo stesso organizza manifestazioni di protesta contro gli Usa, reclutamenti e donazioni per la Jihad. A Bahawalpur St. Dominic è l' unica chiesa in mezzo a centinaia di moschee, frequentata da 7 mila fedeli, l' unica ad accogliere sia cattolici sia protestanti. Il commando puntava probabilmente a colpire i primi, più numerosi. Ma per un cambio di orario la strage è avvenuta durante la celebrazione protestante. «Un atto diabolico, un tragico gesto di intolleranza», scrive il Papa in un telegramma di condoglianze. Il generale Musharraf assicura che si farà personalmente carico dell' inchiesta. «Consegneremo i colpevoli alla giustizia». Molti musulmani si schierano con i cristiani e proclamano uno sciopero generale di due giorni. La guerra di religione fa paura anche a loro. O forse temono la guerra in casa. M.G.C. Documento 294 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 30/10/2001 NUMERO Mar PAGINA 009 OCCHIELLO UNA FAMIGLIA ASSEDIATA TITOLO «Ci tolgono la luce e ci ingiuriano perché siamo cattolici» SOMMARIO Nella casa-ghetto dove abitano i Latif: padre, madre e cinque figlie, unici cristiani in un quartiere integralista di Peshawar AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, religione NOTE ultima edizione. attacco USA contro l' Afghanistan. la situazione difficile di una famiglia cattolica a Peshawar. dichiarazioni LOCALITA' SOGGETTO PESHAWAR. PAKISTAN LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FULL PAGE S UNA FAMIGLIA ASSEDIATA «Ci tolgono la luce e ci ingiuriano perché siamo cattolici» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Un pappagallo spelacchiato gracchia in un angolo: «Thanks Jesus», grazie Gesù. Le immagini del Cristo, riprodotte con i colori brillanti dell' aerografo, tappezzano ogni muro. Altarini e lumini sono sparsi per la casa, tra letti, tappeti, povere, cianfrusaglie. Michael Latif, 56 anni, dattilografo presso il ministero dell' Interno, una moglie e cinque figlie, non fa mistero della sua fede: «Sono l' unico cattolico in un quartiere musulmano». Ma in una città come Peshawar, capitale dell' integralismo islamico nel nord-ovest del Pakistan, equivale a portarsi in fronte una lettera scarlatta. «I nostri vicini fanno di tutto per scacciarci. E' uno stillicidio quotidiano. Un giorno ci tagliano la luce, un altro il gas. Un altro ancora intasano le fognature. E non manca notte che qualcuno non bussi alla porta gridando per poi scappare via». La sua via crucis è cominciata cinque anni fa, quando ha deciso di spostarsi da un' area mista per venire ad abitare in un complesso di palazzine gialle, dai muri scrostati, dove gli appartamenti di proprietà del governo federale vengono affittati a zero rupie. «La casa mi piaceva, è grande abbastanza per ospitare tutta la famiglia. Abbiamo una terrazza. E credevo che i vantaggi avrebbero superato i fastidi di vivere circondati dagli islamici». Si sbagliava. Le tre camere si sono trasformate in un piccolo ghetto, guardato con odio e sospetto dai vicini. Le rappresaglie si sono intensificate dopo l' 11 settembre, il giorno degli attacchi terroristici agli Stati Uniti, la data che ha visto nascere nuove barricate tra religioni e civiltà. «In Pakistan noi cattolici siamo sempre stati visti come degli infedeli, ma adesso è peggio: ci considerano occidentali». L' ultimo avvertimento è arrivato domenica, dopo la strage di cristiani alla chiesa di Bahawalpur, nel Punjab. «Alle cinque del pomeriggio ci hanno tolto di nuovo la luce». Paura? Michael Latif ne ha: «Ma non abbandoneremo per questo la strada tracciata da Cristo», dice con enfasi. Non è solo nella sua battaglia. Nella stanza della preghiera, una camera ingombra di tappeti, ci sono anche le cinque figlie, ferventi focolarine. A piedi nudi secondo la tradizione musulmana, a capo scoperto secondo l' usanza cattolica. Snowbar è la maggiore. Ha 25 anni e una laurea in giurisprudenza. «Gli anni scolastici sono stati un incubo. In classe ero l' unica donna in mezzo a studenti musulmani. Tutti, a cominciare dagli insegnanti, erano convinti di potersi prendere ogni tipo di libertà. "La vostra religione vi autorizza a commettere l' adulterio", mi dicevano». Molestie anche nel quartiere: «Ogni volta che nostro padre esce - aggiunge la sorella, Saddaf, 23 anni, studentessa di medicina - vengono a bussare alla porta, a gridarci sconcezze». La differenza principale tra loro e le musulmane è il velo. «Quelle si coprono dalla testa ai piedi con il chador - continua Saddaf -. Hanno l' ossessione di non mostrare il loro viso. A noi basta un fazzoletto sui capelli. E se non vivessimo in Pakistan, faremmo a meno anche di quello». In casa portano comunque vestiti tradizionali. Il padre la schewal kamice pakistana, le ragazze abiti lunghi con pantaloni fino alle caviglie. Ma sarebbero felici di mangiare carne di maiale, se ne trovassero sul mercato. Di bere il buon vino che viene servito nella parrocchia di Peshawar durante la comunione domenicale. Usanze diverse, nomi diversi. Come Michael. Tutti i cattolici portano traccia di un battesimo sin dalla registrazione all' anagrafe. Si chiamano William, George, John, uniti a cognomi musulmani. Molti Mesieh, versione locale di Messia. Latif spiega: «Siamo cattolici da almeno due generazioni. Lo era mio nonno e lo era mio padre. Loro, come quasi tutti i cristiani del Pakistan, arrivano dall' India, dove sono stati convertiti dai missionari durante il periodo britannico. Io invece sono nato a Peshawar». Sono ex hindu i cattolici pakistani, ex intoccabili. I più poveri dei poveri. La loro origine ha lasciato un marchio sulla comunità. «La maggior parte vive nella miseria più assoluta: sguatteri e camerieri. E' difficile trovare un lavoro diverso». Segrete le nuove conversioni. Tradire Allah per Gesù, secondo la legge, comporta la pena di morte. Prima del golpe del 1999, con il quale il presidente Pervez Musharraf è arrivato al potere, i cattolici pakistani avevano quattro seggi in Parlamento. Oggi hanno un ministro, S.K. Tressler, con mandato sullo sport e la gioventù, impegnato nella promozione del dialogo interconfessionale. Ma nemmeno il capo dello Stato nel suo tentativo di laicizzazione del Pakistan, ha potuto cambiare le regole che mettono nell' angolo i cattolici. La strage di Bahawalpur è stata la prova. «D' ora in poi, cammineremo a testa ancora più bassa», dice Michael Latif. Maria Grazia Cutuli Documento 295 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 30/10/2001 NUMERO Mar PAGINA 009 TITOLO Strage in chiesa, in diecimila ai funerali AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO reati attentati, reati omicidi NOTE ultima edizione. attacco USA contro l' Afghanistan. strage di cristiani in una chiesa di Bahawalpur. ieri i funerali LOCALITA' EVENTO BAHAWALPUR. PAKISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE DOLORE I parenti dei 20 cristiani uccisi domenica durante la messa a Bahawalpur, nel Pakistan orientale Asim Tanvir/Reuters FULL PAGE S Strage in chiesa, in diecimila ai funerali DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR Qualcuno ha gridato «Vendetta» davanti alle salme. Altri hanno circondato la chiesa della strage, cantando «il sangue dei nostri martiri porterà alla rivoluzione». Altri ancora hanno pianto chiedendo giustizia. Diecimila persone hanno celebrato ieri a Bahawalpur, città del Punjab, i funerali dei cristiani uccisi domenica da sei uomini mascherati nella chiesa di St. Dominic. Quindici cadaveri, è il conto finale, più il corpo del poliziotto musulmano che montava la guardia all' edificio. Negozi e scuole hanno chiuso in segno di lutto, mentre la polizia formava un cordone protettivo attorno alla minoranza cristiana. Agenti dispiegati attorno alla chiesa, alle moschee e ogni altro luogo sacro della città, hanno impedito proteste e rivolte. Nessuno ha ancora rivendicato la strage. Ma le frasi pronunciate dagli uomini del commando, «Allah Akbar», o anche «l' Afghanistan e il Pakistan saranno la tomba dei cristiani», lasciano pensare a una rappresaglia degli integralisti islamici contro l' attacco angloamericano ai talebani. Durante la notte sono stati arrestati 100 attivisti. I rapporti tra la maggioranza musulmana e la minoranza cristiana, che rappresenta l' 1% della popolazione del Pakistan, non sono mai stati facili. Ma è la prima volta in 54 anni di storia del Paese che si arriva a un eccidio. M.G.C. Documento 296 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 02/11/2001 NUMERO Ven PAGINA 003 OCCHIELLO MILLE VOLONTARI PER LA JIHAD TITOLO Ma «i migliori» sono già coi talebani SOMMARIO I più giovani hanno passato il confine ieri e sono stati presi in consegna dagli uomini del mullah Omar AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE Attacco Usa contro Afghanistan. già partiti per unirsi ai talebani i primi volontari dal Pakistan. LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FULL PAGE S MILLE VOLONTARI PER LA JIHAD Ma «i migliori» sono già coi talebani DAL NOSTRO INVIATO MINGAORE (Pakistan) - Sono partiti i migliori, come avevano chiesto i talebani. I più giovani, i più addestrati, i combattenti capaci di usare l' artiglieria pesante e la contraerea per contrastare i cacciabombardieri angloamericani. Dopo una settimana di attesa, mille volontari pakistani sono stati autorizzati ieri dalle milizie coraniche a passare il confine con l' Afghanistan. Sono partiti con un arsenale formato da missili, lanciagranate, kalashnikov, eludendo i controlli di frontiera sui sentieri del Nawa Pass. Dall' altra parte, nella provincia di Kunar, i soldati del mullah Omar hanno preparato 50 camion per trasportarli negli accampamenti. «I musulmani di tutto il mondo sono con noi - ha detto il loro leader, il maulana Sufi Mohammed -. Se non combatteremo oggi in Afghanistan, domani l' America sarà libera di attaccare qualunque Paese islamico». Osama Bin Laden può dirsi contento. Proprio lo sceicco del terrore, attraverso Al Jazira, la televisione del Qatar, aveva invitato i «fratelli» pakistani a ribellarsi al governo, alleato con gli americani, per schierarsi contro la «crociata cristiana» di George Bush. I mille volontari sono la prima «brigata della jihad» ufficialmente coinvolta nello scontro con l' Occidente. La testa di ponte per altri 9 mila pashtun, che restano in armi nell' area tribale, aspettando l' ordine per passare. L' avanguardia di un nuovo esercito, reclutato nelle retrovie del Pakistan dal Tehrik Nefaz-i-Sharia Mohammedi, il Movimento per l' applicazione della sharia (la legge islamica), che fa molto temere per la stabilità della regione. Il quartiere generale dei volontari si trova a tre ore di macchina da Peshawar, tra le montagne di Swat, nel cuore più radicale dell' integralismo pakistano. In una madrassa di Mingaore, una città bazar dalle coloratissime architetture orientali, il maulana Fazal-i-Haq, presidente del movimento, autoelogia la sua campagna per la jihad. «I reclutamenti sono cominciati subito dopo l' attacco americano sull' Afghanistan. Chiunque volesse iscriversi, doveva specificare che arma aveva a disposizione e quanto denaro era disposto a versare per il proprio mantenimento durante la jihad». Sono stati raccolti 20 milioni di rupie, oltre 700 milioni di lire, sufficienti a tenere in piedi il nuovo esercito per almeno sei mesi. Sono arrivate donazioni da ogni parte, compresi 100 chili d' oro regalati dalle donne. In quanto alle armi, ci sarebbe di tutto. Persino i famosi Stinger venduti dagli Usa ai mujaheddin durante la guerra contro i sovietici. «Abbiamo selezionato solo coloro che avevano già esperienza in prima linea» dice. L' ulteriore scrematura sarebbe stata fatta dai talebani: «Solo volontari capaci di usare l' artiglieria pesante» avrebbero detto gli emissari del mullah Omar durante gli incontri preparatori con i capi del movimento. «Molti volontari dovranno aspettare ancora - aggiunge il maulana. - Saranno chiamati solo quando le truppe occidentali attaccheranno sul terreno». A vederla nelle immagini scattate dai fotografi locali questa armata alla quale nessun occidentale ha potuto finora avvicinarsi sembra un esercito resuscitato da un incubo della storia. Bambini, adulti, vecchi dalle barbe bianche impugnano moschetti d' inizio secolo, asce, spade fino ai lanciagranate di fabbricazione sovietica: sono destinati in gran parte a bivaccare a Bajour a 5 chilometri dalla frontiera. E' stato consegnato loro un intero villaggio, Lagharai, dove si preparano - se necessario - a restare tutto l' inverno. Poco importa che il presidente Pervez Musharraf in altre parti del Paese tenti di frenare gli integralisti, cercando nuove alleanze sul fronte laico. O che intensifichi le pressioni sul regime di Kabul affinché respinga i volontari pakistani. Il maulana Fazal-i-Haq ricorda che gli attivisti del Movimento per l' implementazione della sharia nel 1994, dopo il fallito tentativo del governo di imporre una legge speciale sull' area, sono riusciti con una rivolta popolare a prendere il controllo di aeroporti, stazioni di polizia, edifici istituzionali. Ma forse è solo un gioco delle parti. Musharraf, secondo alcuni, sta lasciando mano libera alla brigata della jihad per alzare il suo prezzo con gli americani. Alla vigilia della sua visita a Washington, agiterebbe il fantasma dell' instabilità per ottenere di più dagli alleati. Maria Grazia Cutuli Documento 297 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 03/11/2001 NUMERO Sab PAGINA 008 OCCHIELLO Il Pentagono, sempre meno convinto di spingere l' Alleanza del Nord verso Kabul, sembra puntare su altre fazioni TITOLO I talebani braccano l' inviato del monarca SOMMARIO Caccia sulle montagne a Hamid Karzai, entrato nel Paese per fomentare una sollevazione AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE I talebani danno la caccia da giorni a Hamid Karzai in missione segreta LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE CORANO E MOSCHETTO Una pattuglia di talebani, letteralmente «studenti coranici» Khursheed/Reuters FULL PAGE S Il Pentagono, sempre meno convinto di spingere l' Alleanza del Nord verso Kabul, sembra puntare su altre fazioni I talebani braccano l' inviato del monarca Caccia sulle montagne a Hamid Karzai, entrato nel Paese per fomentare una sollevazione DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - I fronti si moltiplicano per i talebani. Oltre ai bombardamenti aerei americani e agli attacchi dell' Alleanza del Nord, le milizie integraliste devono respingere i partigiani dell' ex re Zahir Shah, sponsorizzati dagli Stati Uniti per sobillare la rivolta dentro l' Afghanistan. Dopo Abdul Haq, l' ex leader della Jihad catturato e ucciso una settimana fa, c' è un altro comandante in missione segreta nel Paese, braccato dalle milizie coraniche, ricercato con un centinaio di uomini, inseguito per le valli e le montagne del distretto di Oruzgan. È Hamid Karzai, 46 anni, combattente durante la guerra contro i russi, viceministro degli Esteri nel governo dei mujaheddin alla caduta del regime filosovietico di Najibullah, nuova promessa dell' insurrezione. I talebani gli danno la caccia da giorni in una delle regioni più inaccessibili dell' Afghanistan, chiedendosi ancora come sia riuscito ad arrivare fin là. Per giungere alla sua base, nell' area di Dehrawad, i miliziani del mullah Omar hanno marciato per nove ore tra i crepacci ocra di un paesaggio lunare. Hanno combattuto. Si sono scontrati con i suoi uomini. Hanno voluto fare credere di averlo catturato, addirittura ucciso, come Abdul Haq. Ma all' alba di ieri, il «morto» è resuscitato. Alle 6.30 Hamid Karzai in persona ha telefonato al fratello Ahmed, che si trova a Quetta, in Pakistan: «C' è stato uno scontro pesante - ha confermato -. Ma stiamo tutti bene, solo uno dei nostri è stato leggermente ferito». Un avversario più temibile del previsto? L' Afghanistan Islamic Press, l' agenzia che fa da megafono al regime, ha insistito per tutta la giornata: due uomini sarebbero morti, altri 25 catturati rischierebbero l' impiccagione come agenti americani. Poi Kabul ha dovuto smentire: «Gli oppositori sono sfuggiti alla caccia», ha dichiarato un portavoce dei talebani, Mohammed Tajeb Agha. Il comandante avrebbe anzi catturato una dozzina di studenti coranici. La missione di Karzai si colora di giallo, come quella tragica e sfortunata di Abdul Haq. Fa parte di uno stesso piano d' attacco? Segna l' inizio di una nuova strategia americana? Il Pentagono, sempre meno convinto di spingere l' Alleanza del Nord con le sue litigiose etnie alla conquista di Kabul, già da tempo sembra puntare su altre fazioni. Secondo il ministro dell' informazione dei talebani, Qari Fazil Rabi, ci sono elicotteri statunitensi a offrire copertura aerea agli infiltrati. «Hanno sparato sui nostri soldati mentre attaccavano gli oppositori». E ancora: «Hanno lanciato 600 fucili ai ribelli». «Li hanno scaricati al centro dell' Afghanistan, in una regione impossibile da raggiungere se non in volo». Propaganda, secondo Qayum, altro fratello del comandante, residente negli Stati Uniti: «Vogliono spacciare Karzai per una marionetta di Washington». Un copione molto simile a quello che ha accompagnato la fine di Abdul Haq. In quel caso si è parlato di Apache chiamati in soccorso, di uomini Cia presenti tra gli oppositori, di misteriose valigie piene di dollari per comprare i talebani locali. Un intrigo parzialmente confermato dal Pentagono: era un Predator, un aereo spia dotato di missili Hellfire, a essere stato inutilmente mandato sul posto. Lo scenario comincia a ricordare i tempi della Jihad, le troppe fazioni sponsorizzate dalla Cia contro l' invasore sovietico, le retrovie pachistane gremite di combattenti, le infiltrazioni di mujaheddin alle frontiere. Con una variante: il ruolo di Zahir Shah, l' ex monarca esiliato a Roma, attorno al quale si intrecciano le alleanze che dovrebbero portare alla formazione di un futuro governo con l' instaurazione della Loya Jirga, l' antico consiglio supremo multietnico e trasversale. Anche Hamid Karzai, come Abdul Haq, è un esponente pashtun. È uno degli uomini a cui il sovrano ha affidato il compito di creare il suo nuovo esercito. Le similitudini tra il comandante vivo e quello assassinato sono tante: entrambi facevano affari a Dubai, entrambi sono stati richiamati dagli Emirati per organizzare la resistenza. Ma i legami tra Zahir Shah e Karzai sono anche più stretti di quelli con Abdul Haq. È un intreccio di ricordi personali, comunanze politiche, appartenenze tribali. Comparso a Peshawar un paio di settimane fa, sarebbe entrato in Afghanistan dal Beluchistan, in contemporanea con Abdul Haq. Ma con una missione diversa: se il primo doveva cercare di far passare dalla propria parte i talebani moderati, Karzai cerca consensi all' interno della sua tribù per scardinare il potere del mullah Omar e della sua nomenklatura. Maria Grazia Cutuli Documento 298 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 04/11/2001 NUMERO Dom PAGINA 002 OCCHIELLO scontro di culture TITOLO Ma nei cinema pakistani trionfano Stallone e Schwarzenegger SOMMARIO «Sanno lottare, sanno combattere, sanno uccidere» Il pubblico «di frontiera» chiede azione, sangue e intrighi AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO cinema LOCALITA' SOGGETTO PAKISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE Il cinema Falak Seer di Peshawar (Digaetano) FULL PAGE S Ma nei cinema pakistani trionfano Stallone e Schwarzenegger DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Gli eroi hanno il fisico taurino di Jean Claude Van Damme, la mascella feroce di Arnold Schwarzenegger, la forza bestiale di Sylvester Stallone. Poco importa che siano attori occidentali, protagonisti di film americani. Al Falak Seer, una delle principali sale cinematografiche di Peshawar, le locandine parlano chiaro: conta che portino un mitra in mano, una cartucciera sul petto, una bandana legata in fronte. «Sanno lottare, sanno combattere, sanno uccidere», dice Abdullah Ahmed, 20 anni, militare in libera uscita. «Sono i migliori - ridacchia un compagno -. Quasi più forti dei nostri attori». Azione, sangue, intrighi. E' quello che basta al pubblico del Pakistan. Non c' è propaganda anti-americana che tenga, solidarietà con i «fratelli» afghani, bombardati dai B-52 statunitensi, che faccia cambiare idea agli spettatori. «Il cinema è un mondo a parte - sentenzia Abdullah Ahmed -. Non vedo nessun rapporto tra un bel film e i missili lanciati su Kabul». Lo show-business non conosce frontiera, né tanto meno scontro di civiltà. Nonostante la campagna militare americana sull' Afghanistan, l' industria di Hollywood continua a rifornire tutti i Paesi musulmani, dal Libano alla Siria, dal Pakistan alla Malesia. Non è la fetta di mercato più consistente. Rappresenta solo il 10% del «box office», ma i guru del botteghino pronosticano affari in espansione. Gli incidenti di percorso, come quelli di Quetta, la capitale del Baluchistan, dove gli integralisti hanno bruciato tre cinema che trasmettevano pellicole americane, significano poco. «Quetta è abitata al 75 per cento da afghani commenta Mohammed Ismail, uno degli impiegati del Falak Seer di Peshawar. - Da noi, è diverso. Abbiamo visto gli integralisti e i mullah sfilare davanti al cinema, senza che arrivasse nemmeno una pietra». La facciata del Falak Seer, un edificio cadente decorato da colonne e fregi orientali, costruito dai governatori britannici negli anni ' 40, mostra al momento il truculento cartellone di un film in urdu, «Potere e poltrona», un poliziesco a base di innocenti in catene che ululano al cielo la loro rabbia, con i polsi sanguinanti, davanti ai mitra e agli sguardi spietati dei loro aguzzini. E' uno dei tanti musical prodotti negli studi di Lahore, in concorrenza con l' industria di Bollywood, l' Hollywood di Bombay, messa al bando dal governo pachistano come riflesso dei pessimi rapporti con l' India. Ma la programmazione delle prossime settimane torna sui lungometraggi americani. Nell' ordine: «Universal Soldier» con Van Damme, «Commando» con Arnold Schwarzenegger, «Demolition man» con Sylvester Stallone. Se Van Damme, ex campione di arti marziali, è l' idolo locale di un pubblico composto prevalentemente da giovani sotto i trent' anni, di bassissima estrazione sociale e pochissima cultura, a sbancare i botteghini è stato però Leonardo Di Caprio con Titanic. «Quattro settimane di programmazione - precisa il direttore del cinema, Zaur Din. - Più di un milione di spettatori». Affluenza tale che per la prima volta si sono viste in sala anche le donne, le studentesse dei college in visita speciale. Poca fortuna sembrano avere invece le attrici straniere. All' entrata del Falak Seer, un gruppetto di ragazzi ricorda solo il nome di Julia Roberts. E la faccia di «quell' altra», «la protagonista di Desperado». «Bella, certo - dice Asmat Guri, studente universitario - . Però questi film pieni di sesso fanno male ai giovani». E' la voce più severa: «Ho sentito dire che Hollywood sta producendo un film su Osama Bin Laden. Spero che non lo portino qui. Osama è il nostro eroe e non vogliamo che venga insultato». Meglio la produzione di Lahore? I film Usa offrono alcuni vantaggi: «Per ragioni di distribuzione sono più economici delle pellicole locali», dice il direttore del Falak Seer. Ma alla fine, a Peshawar, solo 5 cinema su 13 si avventurano in questo business. E anche il calendario del Falak Seer mostra 12 produzioni hollywoodiane contro 30 pachistane. «E' un problema di lingua - dice ancora lo studente Asmat Guri -. I film americani non sono tradotti, così molti preferiscono quelli in urdu». Ragione pratica o scontro di culture? Maria Grazia Cutuli Documento 299 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 06/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 008 OCCHIELLO LA MISSIONE DEL MONARCHICO TITOLO Karzai, la primula rossa del re, sfugge ai talebani SOMMARIO Ex mujaheddin, 46 anni, prima del mullah Omar la sua famiglia «regnava» su Kandahar Per il regime «è stato giustiziato». Ma suo fratello in Pakistan dice: «E' vivo, ci chiama ogni giorno» AUTORE Cutuli Maria Grazia GENERE biografia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan. trattative diplomatiche. missione speciale inviato del re Ahmid Karzai PERSONAGGI Karzai Ahmid LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE IN SELLA Afghani nel Nord del Paese Fedosenko/Reuters FULL PAGE S Karzai, la primula rossa del re, sfugge ai talebani DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - La telefonata arriva puntuale almeno una volta al giorno. Mentre i talebani annunciano di averlo ucciso, Ahmid Karzai, il comandante del fronte filomonarchico in missione speciale in Afghanistan, continua a chiamare da un satellitare la famiglia a Quetta, in Pa kistan. L' ultimo contatto ieri sera alle 8. «Karzai sta bene - conferma il fratello Ahmed al Corriere -. È ancora in Afghanistan, libero di muoversi e di portare a termine il suo compito. Ha con sé tutti gli uomini con i quali è partito. Nessuno è stato catturato o ucciso». Misteri di una guerra invisibile, combattuta anche con ex mu jaheddin spediti da Washington nelle sabbie mobili afghane a fomentare la ribellione contro il regime integralista. Chi mente? Chi dice la verità? Stando alla versione di Ariana, agenzia di stampa vicina ai talebani, Ahmid Karzai, catturato giovedì scorso con altri 25 infiltrati nella provincia di Oruzgan, sarebbe stato giustiziato ieri assieme a un cittadino statunitense. La grancassa del regime mantiene però toni sommessi. Nessun dettaglio sull' identità del secondo uomo. Nessun particolare sull' esecuzione. Il comandante avrebbe subìto lo stesso trattamento riservato ad Abdul Haq, l' eroe della resistenza anti-sovietica ucciso una decina di giorni fa: eliminato come agente degli americani. Ma quel filo telefonico tra le montagne di Oruzgan e le retrovie di Quetta indebolisce la tesi di Kabul. A sentire la voce di Ahmid Karzai non è stato solo il fratello, ma anche gli ascoltatori della Bbc in lingua pashtun. Sabato notte in un' intervista, il comandante ha riferito che i suoi sforzi per convincere la popolazione a ribellarsi ai talebani stanno ottenendo successo e che «moltissima gente è stufa del regime». Il leader dell' insurrezione, sebbene braccato, sembra deciso a portare a termine il suo compito. «Ho grandi cose da fare in Afghanistan». Grandi imprese e grandi rischi. Miscela perfetta per accreditarsi come nuova stella della guerra di «liberazione». L' investitura è doppia. Hamid Karzai, 46 anni, entrato in Afghanistan con la copertura degli Stati Uniti e la benedizione di re Zahir Shah, si propone di liberare il Paese dagli arabi di Osama Bin Laden, e di prepararlo a un governo post-talebano, basato sulla «Loja Jirga», il Consiglio supremo della tradizione monarchica. I rapporti con i suoi sponsor sono di lunga data. Il padre, Abdul Ahad Karzai, capo dei Popalzai, la stessa tribù pash tun del sovrano, fu ministro e senatore del regno. Ucciso nel ' 99 a Quetta, ha lasciato al figlio la guida del suo clan. Ahmid si era già conquistato una discreta fama negli anni Ottanta combattendo contro i sovietici, poi come vice- ministro degli Esteri nel governo dei mu jaheddin e, a partire dal 1993, come leader politico in esilio a Quetta. L' assassinio del padre- si sospetta, per mano dei talebani - l' ha spinto ad impegnarsi ancora di più nella resistenza contro il regime degli studenti coranici. A lungo è stato inascoltato. «Ho sempre detto agli americani che il nostro Paese ha perso la sovranità e l' indipendenza - si lamentava tempo fa - così come ho sempre denunciato la presenza dei terroristi. Ma nessuno se ne voleva occupare: era qualcosa che riguardava solo gli afghani». Capace di portare con la stessa disinvoltura la cravatta e gli abiti tradizionali pashtun, Karzai ha viaggiato molto in Europa e negli Stati Uniti, dove vivono 5 dei suoi fratelli. L' hanno visto discutere a Washington su come organizzare i capi tribali e altrettanto a Roma, presso la corte in esilio di re Zahir Shah. «E' stato in Italia l' 8 settembre - conferma il fratello Ahmed - a parlare con il re». Un politico più che un guerrigliero: «E' quella la sua passione, il suo impegno numero uno». E' a Kandahar, dominio di famiglia diventato dal 1994 in poi feudo del mullah Omar, l' emiro dei talebani, che Karzai dovrebbe operare. E' qui che riallaccerebbe gli antichi rapporti familiari per convincere i capi tribali alla defezione. Una grande missione su un pericoloso crinale. Vita o morte, per l' uomo che vuole farsi eroe. Maria Grazia Cutuli Documento 300 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 08/11/2001 NUMERO Gio PAGINA 012 TITOLO Cento uomini-bomba contro le forze alleate SOMMARIO Un giornale pakistano svela la minaccia «I kamikaze sono legati a gruppi palestinesi» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan. allarme terrorismo. l' internazionale della jihad LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE TALEBANI Mitra e lanciarazzi sono l' armamento base dei talebani (Mian Khursheed/Reuters) NEL MIRINO Volantini con il volto del mullah Omar lanciati dagli americani in Afghanistan FULL PAGE S Cento uomini-bomba contro le forze alleate Un giornale pakistano svela la minaccia «I kamikaze sono legati a gruppi palestinesi» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - L' internazionale della jihad continua a fare seguaci. Per rafforzare le armate dei talebani, sarebbero arrivati in Afghanistan, oltre a migliaia di combattenti islamici, anche un centinaio di «martiri», votati agli attentati kamikaze contro le truppe occidentali. Li chiamano «feddayn», come i guerriglieri palestinesi degli anni Settanta. Portano divise nere, blu o verdi, con versi del Corano sul petto, imbracciano mitragliatrici tedesche o sovietiche, hanno libero accesso presso le installazioni militari. Formano squadroni della morte, addestrati per le imboscate, abili ad acquattarsi carichi di esplosivo dentro i palazzi di città, sui passi di montagna o negli anfratti di una trincea. «Non si sa da quali Paesi vengono - dice Hamid, un giornalista del quotidiano pakistano Frontier Post che ha pubblicato la notizia -. Ma il loro stile ricorda quello dei combattenti palestinesi». Stile, e non solo. Li coordinerebbe un marocchino, vicino al palestinese Heshem Menqarah, membro delle forze di sicurezza di Al Fatah, l' organizzazione di Yasser Arafat. Non sarebbe la prima volta che i Territori palestinesi offrono volontari per la causa afghana, mescolati nelle file dell' internazionale islamica a ceceni, yemeniti, sauditi, sudanesi, algerini. Lo stesso Abdul Yosuf Azzam, maestro spirituale di Osama Bin Laden, era palestinese di Jenin. Fu l' uomo che creò a Peshawar in Pakistan, durante l' invasione sovietica, il Beit ul Ansar, l' ufficio per il reclutamento dei mujaheddin in tutto il mondo. Ucciso assieme a due figli in un attentato nel 1989, Azzam ha lasciato una schiera di eredi. I più fedeli stanno in Pakistan, come i membri dell' Herakat ul Mujaheddin, una delle organizzazioni terroristiche messe al bando dal presidente americano George W. Bush. Prima dell' 11 settembre combattevano in Kashmir contro gli indiani. Oggi raccolgono guerriglieri di varie nazionalità da spedire in Afghanistan. Uno degli uffici, dove avverrebbe il reclutamento, si nasconde in una stradina di campagna alla periferia di Peshawar. Il portone si apre solo un attimo, su un cortile ingombro di casse, coperte da teli di plastica. Un uomo sulla trentina, dal viso allungato, lunghi riccioli castani fuori dal turbante, barba fluente si sporge con aria minacciosa. «Via da qui, immediatamente. O salterete in aria, voi e la vostra macchina». Alle sue spalle, due guardie caricano i kalashnikov. Accetta invece di parlare, sotto copertura di anonimato, uno dei responsabili incontrato a Rawalpindi: «Continuiamo ad addestrare decine di volontari da ogni parte del mondo - dice -. Ma i talebani chiedono gente che sappia veramente combattere». Come altre organizzazioni specializzate nella guerriglia in Kashmir, l' Herakat ul Mujaheddin ha già spedito a Kabul i suoi miliziani migliori: una trentina sono rimasti uccisi un paio di settimane fa sotto i bombardamenti americani. Dal Pakistan continuano ad arrivare anche i volontari del Tehrik Nefa-i-Shariah, il Movimento per l' applicazione della sharia (la legge coranica), un' organizzazione ultra fondamentalista che ha concentrato sulla frontiera oltre 10 mila combattenti. Diverse migliaia sono già al fronte. E' la prima linea, l' ossessione del governo di Kabul. I 40 mila soldati talebani non bastano. Il mullah Omar ha preferito affidare il controllo delle zone più calde, oltre che ai nuovi volontari, agli arabi di Osama Bin Laden. Ed è stato lo sceicco del terrore a scegliere gli uomini giusti nei punti cruciali. Il quotidiano pakistano Dawn cita: Shawqi Islamboli, fratello di Khalid Islamboli, l' attentatore che uccise il presidente egiziano Anwar Sadat, a nord di Kabul; Abu Janab nella provincia orientale di Nangarhar; Abdul Hadi Iraqi, ex ufficiale iracheno esperto di esplosivi, nella città settentrionale di Toloqan. A coordinare l' offensiva di terra, c' è la 55esima brigata, il nucleo più duro delle forze di Osama. Efficienti, allenati, spietati. Sono i «terroristi» ai quali George W. Bush vuole dare la caccia. Gente che non ha niente da perdere. Maria Grazia Cutuli ATTACCO AL TERRORISMO LA GUERRA Fanno parte di quell' «internazionale islamica» che è composta da ceceni, yemeniti, sauditi, sudanesi e algerini Uno degli «uffici di collocamento» per i volontari della jihad si trova in una stradina alla periferia di Peshawar Documento 301 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 10/11/2001 NUMERO Sab PAGINA 002 OCCHIELLO In Pakistan poche migliaia di persone hanno aderito alla protesta anti-americana. Arrestati molti estremisti islamici TITOLO «Lunga vita a Osama»: la polizia spara e uccide quattro manifestanti SOMMARIO Gli scontri in una città del Punjab: la folla cercava di bloccare un treno AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO manifestazioni NOTE manifestazione antiamericana in Pakistan LOCALITA' EVENTO PESHAWAR. PAKISTAN FULL PAGE S In Pakistan poche migliaia di persone hanno aderito alla protesta antiamericana. Arrestati molti estremisti islamici «Lunga vita a Osama»: la polizia spara e uccide quattro manifestanti DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Le manifestazioni anti-americane, convocate dai partiti della Jihad, non scalfiscono la politica del generale Pervez Musharraf. Neanche quattro dimostranti uccisi dalla polizia nel Punjab, in un venerdì di sfida, sciopero e preghiera, intaccano l' immagine monolitica che il governo del Pakistan vuole offrire agli alleati occidentali. La protesta, guidata dai 35 partiti religiosi che formano il «Consiglio di difesa per l' Afghanistan», esplode a Rawalpindi, a Peshawar, a Quetta, a Karachi, ma resta marginale. Sempre meno gente disposta a seguirla. Poche migliaia e senza troppa grinta. E' solo a Shadon Lund, una città del Punjab a 150 chilometri da Multan, che si arriva allo scontro. Quattro mila manifestanti tentano di bloccare il treno che da Lahore va verso Quetta. La polizia spara sulla folla. «Tre dimostranti uccisi sul colpo, una quarta morta durante il trasporto in ospedale, altre cinque ferite», elenca il ministro degli Interni Moinuddin Haider. Minacciando: «Non siamo disposti a sopportare niente che danneggi la vita pubblica». Tolleranza zero. Musharraf ha già annunciato che quando tornerà dagli Stati Uniti, le manifestazioni saranno definitivamente interdette. A Shadon Lund, esponenti del Jamiat Ulema Islam, uno dei principali partiti fondamentalisti, dichiarano di aver preso in ostaggio quattro poliziotti. Ma il governo non reagisce. Preferisce pubblicizzare gli arresti: centinaia di estremisti ammanettati a scopo «preventivo», altri durante le proteste. A cominciare dai leader religiosi: Fazlur Rehman, capo del Jamiat Ulema Islam, rimesso in detenzione per l' ennesima volta, e Qasi Hussein Ahmed, numero uno del Jamiat Islami, arrestato per sedizione dopo aver chiesto la rimozione del generale Pervez Musharraf. A Peshawar la folla grida: «Osama governerà, lunga vita a Osama». Ma nei vicoli del centro, bastano un paio di candelotti lacrimogeni a disperdere gli estremisti. Anche lo sciopero riesce a metà. «Stamattina i negozi erano tutti aperti. Appena questi finiscono la protesta alziamo nuovamente le saracinesche», confessa Niaz Alì, bottegaio del bazar. I leader sfilano su un camion sventolando vecchie bandiere. Ma nel quartier generale di un altro partito religioso, il Sipah-e-Sahabu, al quinto piano di un palazzo pericolante, ci sono solo i rappresentanti della sezione giovanile: «Vogliamo protestare contro le violazioni dei diritti umani commesse in Afghanistan». Nella linea dura adottata dal governo c' è una pericolosa zona d' ombra. I volontari armati che continuano a partire a migliaia per l' Afghanistan. Reclutati da organizzazioni diverse da quelle che scendono in piazza, passano il confine senza che nessuno li fermi. Combattono in prima linea con i talebani, fiancheggiano la brigata araba di Osama Bin Laden. Forse il Pakistan non è così monolitico come il suo presidente vorrebbe far credere. Maria Grazia Cutuli Documento 302 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 13/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 014 TITOLO «Non siamo battuti Li aspettiamo tra i nostri monti» SOMMARIO I talebani si preparano a lasciare le città «Potremmo resistere anche dieci anni» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco USA contro l' Afghanistan. avvicinamento dell' Alleanza del Nord a Kabul. la strategia dei talebani spiegata da attivisti di organizzazioni vicine al mullah Omar e a Bin Laden LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE VOLONTARI CORANICI Miliziani talebani mostrano le armi nella piazza dei martiri di Kandahar, la città del mullah Omar Banaras/Ansa FULL PAGE S «Non siamo battuti Li aspettiamo tra i nostri monti» I talebani si preparano a lasciare le città «Potremmo resistere anche dieci anni» DA UNO DEI NOSTRI INVIATI ISLAMABAD - I talebani si preparano a lasciare le principali città dell' Afghanistan. Dopo la caduta di Mazar-i-Sharif, la perdita di Kunan, l' avanzata su Herat e Kabul, le milizie integraliste entrano in una seconda fase della guerra, che vedrà i combattenti di Allah arroccarsi sulle montagne, scavare trincee nei deserti, allestire nuove linee difensive nelle aree più inaccessibili del Paese. Non è una sconfitta, dicono i loro fiancheggiatori. Solamente una «ritirata strategica», per ricompattare le file della jihad resuscitando le stesse tecniche di guerriglia utilizzate contro gli invasori britannici nell' Ottocento e contro le truppe sovietiche negli anni Ottanta. La nuova strategia viene illustrata al Corriere dai membri di due organizzazioni pakistane - vicine tanto al mullah Omar, il capo supremo dei talebani, quanto a Osama Bin Laden - attivamente coinvolte nella «guerra santa» contro l' Occidente. Il primo è Hussain Hamad Deeshani, comandante militare dell' Herakatul-Jihad Islami, un gruppo a cui appartengono diversi «terroristi» apparsi sulle liste nere dell' Fbi. Tornato dall' Afghanistan qualche giorno fa, si trova a Islamabad di passaggio, in attesa di ripartire per il fronte. «La resa di Mazari-Sharif è stata concordata dai talebani assieme ai capi dell' Alleanza del Nord - sostiene -. E' una ritirata che ci permette di mettere in salvo uomini e armi per poter contrattaccare in un secondo momento». Anche la «consegna» di Kabul, secondo lui, non sarebbe lontana: i talebani starebbero solo prendendo tempo, in attesa di consolidare le posizioni difensive sulle montagne. Sarebbero preparati a cedere tutte le città, «compresa Kandahar», la capitale morale delle milizie coraniche, per arroccarsi alla periferia e sferrare da lì attacchi micidiali. «I bombardamenti statunitensi hanno causato danni molto gravi ai talebani riconosce Hussain Hamad Deeshani -. Ma tutti noi che operiamo in Afghanistan siamo in grado di resistere alla macchia per altri dieci anni. La stessa Alleanza del Nord finirà per passare dalla nostra parte». Il caos nel futuro del Paese? O le ultime battute di una propaganda sempre meno convincente? L' Herakat-ul-Jihad Islami ha perso un' ottantina di uomini nei raid americani, ma il comandante va avanti come un predicatore: «Sapete quanti sono stati i morti tra i talebani, gli arabi e i pakistani? Cinquecento miliziani, non di più. Che volete che sia?». Pilastro della futura guerriglia, per un' armata non convenzionale come quella del mullah Omar, restano le legioni straniere. Assieme ai volontari dell' Herakat-ul-Jihad Islami, operano in Afghanistan altre due associazione pakistane nate dallo stesso ceppo, durante gli anni dell' invasione sovietica: l' Herakat-ul-Mujaheddin e l' Esercito di Maometto, entrambe messe all' indice da George Bush per attività terroristiche. Al loro fianco, arabi di ogni nazionalità, non necessariamente inquadrati dentro Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. «Se fino all' 11 settembre il mullah Omar poteva contare sull' aiuto di 12 mila arabi, oggi il numero di volontari è cresciuto enormemente. Arrivano da tutto il mondo, Occidente compreso. Abbiamo un ex militare americano, convertito all' Islam, che ha combattuto in Cecenia e adesso si trova con i nostri uomini. Ci sono volontari di nazionalità tedesca e persino italiana - racconta un attivista dell' Herakat-ul-Mujaheddin - Alcuni sono immigrati, altri no. Occidentali a tutti gli effetti». Il suo nome di copertura è Janghir, ha 31 anni e una barba più lunga di quella di Osama. La sua iniziazione è avvenuta da ragazzino durante la jihad contro i russi, il perfezionamento nell' arte della guerra nel campo di addestramento di Khost, la centrale terroristica afghana bombardata dagli americani nel 1998. «A ciascun gruppo è affidato il controllo di una parte di territorio. Ma il comando resta ai talebani, sotto la direzione di Jaluddin Haqqani, capo delle operazioni di terra», spiega. La resistenza sulle montagne non fa paura a nessuno. «Siamo abituati a mangiare per anni pane secco imbevuto nell' acqua o a dormire dentro una trincea». L' esodo dalle città preannuncia una guerra di logoramento. Ma per quanto Janghir richiami alla memoria i tempi della jihad, si tratterebbe di una resistenza solitaria simile a quella dei ceceni contro Mosca più che a quella dei mujaheddin degli anni Ottanta. Al momento non c' è nessuna superpotenza alle spalle dei talebani. Nessun Paese disposto a sostenere una nuova guerriglia. Ci sono i «martiri», però. «Combattenti come me addestrati a immolarsi. L' ordine potrebbe arrivare in qualunque momento. Gli attentati dell' 11 settembre non erano giustificati, perché non c' erano condizioni di guerra - dice Janghir -. Ma da quando gli americani hanno cominciato a bombardare, colpire il nemico diventa un atto legittimo». L' attivista dell' Herakat-ul-Mujaheddin lancia un avvertimento: «State attenti tutti, anche voi italiani. Ricordatevi che nel momento in cui le vostre truppe metteranno piede in Afghanistan, diventerete i nostri bersagli». Maria Grazia Cutuli Documento 303 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 14/11/2001 NUMERO Mer PAGINA 011 OCCHIELLO LA CADUTA DI KABUL: SOCIETA' CIVILE TITOLO «Toglieremo il burqa, ma sarà un altro incubo» SOMMARIO Le attiviste afghane, rifugiate in Pakistan: «La nostra lotta continua, i mujaheddin sono criminali come i talebani» AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, donne NOTE attacco USA contro l' Afghanistan. caduta di Kabul. l' Alleanza del Nord promette alle donne condizioni di vita diverse ma non tutte ci credono. scheda: condannate a non poter alzare la voce LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE SENZA VOLTO Una donna afghana con il viso coperto dal burqa cammina mentre alle sue spalle si muove un carro armato dell' Alleanza del Nord Yannis Behrakis Reuters FULL PAGE S «Toglieremo il burqa, ma sarà un altro incubo» Le attiviste afghane, rifugiate in Pakistan: «La nostra lotta continua, i mujaheddin sono criminali come i talebani» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - «Sorelle dell' Afghanistan», la schiavitù è finita. «Tornate a lavorare negli uffici, a studiare nelle scuole, recuperate i vostri diritti, d' accordo con i principi dell' Islam e della nostra tradizione». Sorelle dell' Afghanistan - dicono i mujaheddin - gettate via il burqa, mostrate il vostro viso, uscite per le strade. Il Medioevo è passato, i talebani sono spariti. Dimenticate gli editti dei mullah, il mondo delle ombre, l' angoscia della punizione. Non ci saranno più scorribande della polizia religiosa, «sacre verghe» a bastonare le vostre schiene, minacce di lapidazione contro le fedifraghe, cortine nere a oscurare le vostre finestre. L' Alleanza del Nord promette un futuro radioso. Dirama comunicati. Invita le donne a riprendere il proprio posto. Lascia che gli uomini si radano la barba, che la musica ritorni nelle strade, che la vita ricominci senza l' ossessione della sharia. Ma c' è chi non si lascia incantare dalle sirene della liberazione. Questa è comunque una guerra, vinta dai nemici di ieri. E' un nuovo bagno di sangue. E' l' incognita del caos. «Non è la Kabul che volevamo, tanto meno il futuro che speravamo per la nostra città». Shikeba, 25 anni, attivista del Rawa, l' associazione rivoluzionaria femminile dell' Afghanistan, ha lasciato il suo Paese ad agosto del ' 96, due mesi prima che i talebani entrassero nella capitale. «Ricordo ancora gli anni in cui i mujaheddin governavano a Kabul. Ricordo le bombe, i saccheggi, gli stupri. Che volete ci importi del burqa? Sarà un altro incubo». Combattevano giorno e notte i signori di Kabul. Uno contro l' altro, a tirarsi granate tra le case della gente. «Criminali come i talebani. Non credete che i mujaheddin fossero migliori. La guerra tra le fazioni ha lasciato un' intera generazione senza istruzione e senza cultura. Sono stati loro i primi a distruggere le scuole, devastare l' università, seminare la povertà». Shikeba vive in Pakistan con la famiglia. Milita tra le file del Rawa da quando aveva 15 anni. Sono stati i combattimenti tra i mujaheddin e i talebani, oltre alla repressione contro le attiviste del suo movimento, a trasformarla in una profuga. La ragazza ha passato la giornata al telefono, cercando di parlare con le amiche rimaste a Kabul. Sempre la solita voce irritante e metallica. «Salam Alekum, le linee sono momentaneamente interrotte». «Impossibile parlare, sapere che cosa sta succedendo davvero». Le notizie arrivate da Mazar-i-Sharif non la rallegrano: «Abbiamo parlato con membri della nostra organizzazione. E' vero, hanno visto donne togliersi il burqa, gli uomini rasarsi. Ma ci raccontano anche che la gente ha paura. Il ritorno dell' Alleanza del Nord segna una nuova catastrofe per il nostro Paese». Tutti i membri del Rawa, un' organizzazione femminista nata nel ' 77, la pensano come lei. Cresciute nei campi profughi del Pakistan, le piccole eroine della dissidenza laica credono che solo il ritorno di re Zahir Shah e l' instaurazione della Loja Jirga possa garantire la pace. Sperano in un intervento dell' Onu, confortate dalle parole pronunciate ieri da Kofi Annan: «Affrontare la condizione della donna sarà una priorità per qualunque ruolo rivestito dalle Nazioni Unite in Afghanistan». Vivono e lavorano in clandestinità, controllate dalla polizia e dai servizi segreti. In questi anni, coperte dal burqa, con telecamere nascoste sotto il velo, sono entrate e uscite dall' Afghanistan per documentare e denunciare i crimini commessi dai talebani. Ma, anche, per aiutare e sostenere la popolazione. Hanno creato scuole informali nelle case, hanno portato cibo, hanno assistito le profughe nei campi oltre il confine. Combattono, dicono, contro ogni forma di fondamentalismo islamico. Quello dei Talebani, naturalmente. Ma allo stesso modo quello dell' Alleanza. «E' stato il leggendario comandante Massud il primo a imporre il velo alle donne - racconta Refit, un' altra attivista del Rawa -. E' con lui che è cominciata la schiavitù». Nessun rispetto, nessuna garanzia. «Quando i mujaheddin sono entrati a Kabul nel ' 92, le ragazze cresciute sotto il regime filo sovietico di Najibullah erano abituate a vestire all' Occidentale, a uscire da sole, a frequentare gli amici. Sono state trattate come puttane. I guerriglieri sembravano bestie selvagge. Entravano nelle case con i kalashnikov e costringevano i padri a consegnare le loro figlie. Gli stupri erano all' ordine del giorno. Decine di ragazze si sono suicidate per evitare di essere violentate». Tutto confermato in un rapporto pubblicato da Amnesty International nel ' 95, l' ultimo anno in cui i mujaheddin sono rimasti al potere: storie raccapriccianti di donne incinte sventrate ai check point, spose coatte di comandanti militari, vedove lapidate per aver ripreso marito. Le attiviste del Rawa escludono che si trattasse di un effetto della guerra. E forse esagerano. Il regime di Massud, per chi ha visitato Kabul in quegli anni, era certamente più tollerante rispetto a quello dei talebani. Ma loro insistono: «La gente ha vissuto anni di terrore». I guerrieri coranici avrebbero solo chiuso il cerchio dell' oscurantismo. «Hanno messo fine a ogni forma di libertà. Hanno perseguitato sistematicamente le donne, hanno lasciato che il Paese sprofondasse nella miseria - continua Shikeba - ma la differenza con i mujaheddin è minima. Non basta permettere alle donne di buttar via il burqa per convincerci a tornare. La nostra lotta continua, finché l' Afghanistan non sarà veramente liberato». Maria Grazia Cutuli Condannate a non poter alzare la voce LAVORO E STUDIO Le donne afghane non possono lavorare fuori casa e non possono frequentare scuole o università (l' unica professione ammessa è quella di medico o infermiere, visto che i talebani vietano alle pazienti di sesso femminile di essere visitate da medici maschi) MOVIMENTO Non possono uscire di casa se non accompagnate da un parente stretto (mahram). Non possono usare la bicicletta, né guidare l' auto o la moto, né salire sui mezzi pubblici. Non possono fare sport VISIBILITA' Devono indossare il burqa che le copre dalla testa ai piedi, lasciando soltanto una piccola grata davanti agli occhi (le bambine possono mostrare il volto ma solo fin quando non cresce loro il seno). Non possono vivere in case che non abbiano i vetri oscurati, non possono affacciarsi al balcone, non possono lavare i panni nei fiumi o in luoghi pubblici ASCOLTO Non possono parlare ad alta voce o ridere in pubblico (nessuno sconosciuto deve udirne la voce), non possono indossare scarpe con i tacchi (perché farebbero troppo rumore). Una loro testimonianza resa in tribunale vale la metà di quella di un uomo RELAZIONI CON L' ALTRO SESSO Non possono stringere la mano di un uomo, non possono servirsi da un sarto, non possono essere visitate da un medico. Se sospettate di una relazione adulterina sono condannate alla lapidazione LA CADUTA DI KABUL SOCIETA' CIVILE L' Alleanza del Nord dirama comunicati promettendo alle «sorelle» un futuro radioso. Ma non tutte ci credono «Quando governavano Kabul gli stupri erano all' ordine del giorno». E un rapporto di Amnesty International lo conferma Documento 304 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 14/11/2001 NUMERO Mer PAGINA 005 TITOLO ALLA QUARTA VOLTA GIOIA SENZA ILLUSIONI AUTORE Cutuli Maria Grazia GENERE stst ARGOMENTO guerra NOTE attacco USA contro Afghanistan. caduta di Kabul. l' entrata in citta' dell' Alleanza del Nord. cronologia liberazioni ed occupazioni della capitale. commento LOCALITA' SOGGETTO KABUL. AFGHANISTAN LOCALITA' EVENTO KABUL. AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE T I NUMERI dati su Kabul FULL PAGE S ALLA QUARTA VOLTA GIOIA SENZA ILLUSIONI di MARIA GRAZIA CUTULI Era il paradiso degli hippy, la tappa obbligata dei giovani che negli anni Settanta si avventuravano sulle piste esotiche dell' Asia centrale. Le ragazze occidentali arrivavano a Kabul in minigonna, gli uomini con i capelli lunghi e stracci variopinti addosso. Si accampavano a Chicken Street per fumare hashish, comprare vecchi argenti o souvenir d' epoca. Poi, il 28 aprile 1978, il colpo di Stato marxista. Venti di guerra cominciano a soffiare sulla capitale afghana, attraversata da maestosi boulevard, costellata da edifici sontuosi, affollata di antichi bazar, intrigante e misteriosa anche nei suoi quartieri più poveri, tra le case costruite col fango e le baracche della periferia. Mosca si prepara a invadere l' Afghanistan. Le truppe sovietiche entrano a Kabul il 24 dicembre 1979. Gli oppositori islamici organizzano la resistenza dal Pakistan, con l' appoggio degli americani. Comincia la guerra, ma la capitale non viene toccata. Per dieci anni Kabul si salva dalla distruzione. Nascono nuovi quartieri, casermoni del socialismo reale, ville e residenze per i boss della nomenklatura. La città continua a vivere in un' atmosfera surreale, mentre i mujaheddin combattono nei villaggi, nelle montagne, negli altri centri del Paese. I russi si ritirano nel 1989. Kabul resiste tre anni sotto il governo filosovietico di Najibullah. Ma la pace è una chimera. Nell' aprile 1992 i guerriglieri della Jihad entrano in città. Cominciano a scontrarsi gli uni con gli altri. Il primo che trasforma la capitale in un campo di battaglia è Gulbuddin Hekmatyar. Non c' è palazzo, edificio, abitazione che si salvi dalle granate. Non c' è strada che non venga cosparsa di mine. Kabul si trasforma in una landa spettrale, una geologia di macerie, un mosaico di prime linee, dove la gente vive senza acqua, senza luce, barricata dietro montagne di sacchi anti granata. I talebani arrivano per la prima volta nel 1995. Sconfiggono tutti gli avversari, tranne uno: il comandante Massud. Il «leone del Panshir» li ricaccia indietro. Ancora bombe su Kabul. Ma il bazar continua a funzionare, le bancarelle a esporre merci d' importazione. Nelle botteghe si trova frutta, verdura, crema Nivea e persino Nutella. Il 26 settembre 1996 i guerrieri coranici conquistano la città. Non si spara più. Kabul, nuovo laboratorio della sharia, la legge coranica, diventa plumbea come un lager. «Meglio che le bombe dei mujaheddin», ripetono gli abitanti. Rimangono solo i poveri, quelli che non sono riusciti a fuggire. Mendicanti e diseredati, talmente afflitti da non stupirsi nemmeno, cinque anni dopo, assediati per la quarta volta, dei bombardamenti americani. Ieri, all' arrivo dei mujaheddin, hanno festeggiato per le strade di Kabul. Ma forse senza troppe illusioni. Documento 305 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 15/11/2001 NUMERO Gio PAGINA 009 OCCHIELLO Ahmed Gailani TITOLO «Via il burqa, ma le nostre donne devono tenere il velo» SOMMARIO Il leader dello schieramento monarchico auspica «un ritorno alla nostra cultura, senza eccessi» AUTORE Cutuli Maria Grazia GENERE intervista ARGOMENTO guerra, donne NOTE dopo caduta di Kabul. la liberazione delle donne afghane. dichiarazioni di Pir Sayed Ahmed Gailani, il grande vecchio dello schieramento monarchico, emigrato in Pakistan PERSONAGGI Gailani Pir Sayed AhmedGailani LOCALITA' SOGGETTO AFGHANISTAN LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE A VISO APERTO Una donna senza burqa nel centro di Kabul Sayed Ahmed Gailani FULL PAGE S «Via il burqa, ma le nostre donne devono tenere il velo» DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - Né con il burqa né con la minigonna. La «liberazione» delle donne afghane, dopo la foga puritana dei talebani, avverrà nel rispetto dei costumi dell' Islam. Un cambiamento che potrà soddisfare tutti, anche quei moderati che non hanno partecipato alla conquista di Kabul, ma che sperano di entrare in futuro nel governo democratico dell' Afghanistan. «Un ritorno alla nostra cultura, senza eccessi e senza fondamentalismi», dice Pir Sayed Ahmed Gailani, il grande vecchio dello schieramento monarchico, emigrato in Pakistan dopo aver guidato una delle fazioni della Jihad durante l' invasione sovietica. Il leader pashtun è attivissimo in questi giorni nel promuovere il ritorno del re e l' instaurazione della Loya Jirga come soluzione per l' Afghanistan, è anche capo di una setta sufi. Da esponente politico, religioso, militare ha visto tre generazioni femminili costrette a cambiare comportamenti e stili di vita a ogni passaggio di regime. «Libertà assoluta sotto i comunisti: le ragazze che uscivano da sole, andavano a ballare come in qualsiasi Paese occidentale. Poi sono arrivati i mujaheddin. Per le donne afghane è stato durissimo: stupri, violenze, suicidi per sfuggire alle bande criminali. L' era dei talebani non ha lasciato scampo: bastava tirarsi su il burqa per essere bastonate dalla polizia religiosa. Tre condizioni che rispecchiano altrettante forme di estremismo». Qualcuna peggiore delle altre, o no? «In tutti e tre i casi, le afghane sono state vittime di modelli imposti dall' alto, che non rispettavano né i diritti umani né i principi corretti dell' Islam. L' unico momento in cui le donne hanno vissuto in pace con la tradizione e con i loro diritti è stato durante la monarchia e negli anni che hanno preceduto l' invasione sovietica». Perché considera dannosa la libertà di cui godevano le ragazze durante il regime filocomunista? «Perché non aveva niente a che vedere con le nostre credenze e con le nostre radici». Quali sono i diritti previsti per le donne islamiche? «Innanzitutto l' istruzione. Qualunque ragazza deve essere messa in condizione di frequentare la scuola, diplomarsi o laurearsi se vuole. Poi, il diritto al lavoro: è giusto che le donne tornino a esercitare le proprie professioni, che possano sedere fianco a fianco con gli uomini negli uffici». E' tempo di buttar via il velo integrale? «Il burqa non fa parte della nostra tradizione. E' un abito d' importazione che arriva da certe culture indiane. Se una donna vuole indossarlo, lo faccia pure. Ma il governo non può renderlo obbligatorio». Niente a che vedere con l' Islam? «No, il Corano prevede lo hjab, che è qualcosa di molto diverso. Un mantello che copre il corpo lasciando scoperte solo le mani, i piedi, la faccia. E' un indumento che offre dei vantaggi, come la shawal kamise usata dagli uomini: non c' è bisogno di portare nient' altro sotto, al contrario del burqa o del chador». Spariti i talebani, saranno ammessi abiti e costumi occidentali? «Non ne vedo la necessità. Credo sia meglio che le donne afghane continuino a vestire e a comportarsi secondo il loro stile. Nessuno di noi è abituato a vedere décolleté o altri parti del corpo esibite o scoperte». Abiti a parte, non crede che le donne afghane debbano cominciare a godere di una vera parità con gli uomini? «Gli uomini devono cambiare la loro mentalità: più grave del burqa è la mancanza di rispetto che i fondamentalisti mostrano nei confronti delle proprie moglie, figlie o sorelle. Bisogna stabilire rapporti corretti tra i due sessi». Corretti e paritari? «Cominciamo a riaprire le scuole, a far tornare le donne al lavoro. Negli uffici, negli ospedali, nei mercati. E' giusto che ciascuna riprenda il suo ruolo, che impari una professione. Sotto i talebani, la popolazione afghana è scivolata nell' ignoranza e nella miseria». Un governo che si ispira ai principi dell' Islam ha il diritto di decidere sulle questioni morali? «No, se parliamo dei bandi decretati dai talebani. Non possono essere gli editti dei mullah a sancire i comportamenti femminili, a decidere in nome della legge coranica che cosa si deve o non si deve fare. Non è questo che prescrive l' Islam». M. G. C. Documento 306 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 15/11/2001 NUMERO Gio PAGINA 009 TITOLO L' appello alle tribù dei capi monarchici SOMMARIO Jalalabad, il cancello d' accesso all' Afghanistan presa da Younis Khalis, eroe della lotta ai russi Il clan di Abdul Haq cercherà oggi di entrare nella città per piantare la sua piccola bandiera AUTORE Cutuli Maria Grazia GENERE stst ARGOMENTO guerra NOTE dopo caduta di Kabul. diplomazia al lavoro. il futuro politico. la conquista di Jalalabad dichiarazioni di Younis Khalis. scheda elenco tutte le etnie del mosaico afgano LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE SU LA TESTA Afghani per le strade di Kabul con in testa i tradizionali vassoi per il pane (Foto Associated Press) FULL PAGE S L' appello alle tribù dei capi monarchici Jalalabad, il cancello d' accesso all' Afghanistan presa da Younis Khalis, eroe della lotta ai russi DAL NOSTRO INVIATO PESHAWAR - I comandanti monarchici chiamano a raccolta le loro tribù. Decine, centinaia, migliaia di pashtun armati siedono nei giardini delle case di Peshawar, si accovacciano sulle moquette logore, si preparano all' attesa su vecchi divani di velluto. E' un via vai continuo, un confabulare, un incalzare di riunioni a porte chiuse, di consigli di guerra, di frasi a metà. «Domani lo saprete». «Domani vedrete». Jalalabad non può essere lasciata in mano a un solo gruppo. La sua conquista è merito di tutti, anche di quelli che non hanno partecipato. Il suo destino un problema comune, cosa nostra per i clan afghani che dalla frontiera gettano un occhio o danno una mano ai traffici di armi, droga, merci di contrabbando destinati a passare attraverso la città. Porta d' accesso all' Afghanistan, Jalalabad, nascosta a un' ora di macchina dietro l' area tribale pakistana, dopo le montagne del Khyber Pass, oltre le coltivazioni di oppio che hanno arricchito le casse dei talebani, circondata dai vecchi campi d' addestramento di Osama Bin Laden, è stata il regno delle bande cecene che proteggevano lo sceicco barbuto. Oggi è il cancello per l' Afghanistan liberato. Non quello caduto sotto l' Alleanza del Nord. L' altro Afghanistan, il Paese che i pashtun votati alla causa di re Zahir Shah non vogliono cedere alle etnie nemiche. Chi l' ha presa davvero? «Younis Khalis», rispondono in casa di Abdul Haq, lo sfortunato comandante ucciso dagli arabi di Osama, durante una recente missione in Afghanistan per conto degli Usa. «Younis Khalis». Un nome che riemerge dai libri di storia. Era il leader dell' Hizb-i-Islami durante la resistenza contro i sovietici. Più onesto degli altri, dicono, se non altro per essersi rifiutato di unirsi ai mujaheddin nel 1992 durante il sacco di Kabul. La famiglia di Abdul Haq lo riconosce come proprio capo e si prepara, con centinaia di seguaci, a raggiungerlo a Jalalabad. «Non è stata una conquista, ma una negoziazione», dice Nasrullah Arsalai, fratello di Haq, tornato dalla Germania tre settimane fa. Younis Khalis avrebbe convinto Abdul Kabir, governatore di Jalalabad, a cedere la città. «Non aveva altra scelta, la gente era stufa dei talebani». Gioco facile: Khalis viveva già a Jalalabad. Aveva buoni rapporti con le milizie fondamentaliste. Il governatore era stato tra i suoi soldati durante la Jihad. C' erano gli arabi, è vero. L' incubo dei comandanti pashtun che nelle ultime settimane fremevano per entrare in città: l' altro ieri si parlava di 4 mila miliziani, più 5 mila volontari pakistani. Spariti? «Forse sulle montagne». Forse sulla strada. Non importa. Il clan di Abdul Haq cercherà oggi di entrare in città per piantare la sua piccola bandiera. L' Alleanza del Nord deve rimanere fuori. Che se ne stia a Kabul. «Non abbiamo nessuna intenzione di partecipare alle loro azioni militari», sottolinea Nasrullah. «Discuteremo con loro del nuovo governo». Il re ci sarà? Abdul Haq si è sacrificato per Zahir Shah. Su Younis Khalis nessuna certezza. Chi ha preso veramente Jalalabad? In una seconda villa di Peshawar, altre tribù rivendicano la vittoria, i comandanti delle province dell' Est. I seguaci del Haji Mohammed Zaman, barba rossiccia e occhi chiari, tornato dall' esilio parigino per partecipare alla liberazione dell' Afghanistan. Da un mese si autoqualificano come soldati del re, si dicono pronti a partire, disposti ad accettare l' aiuto americano. Adesso non si rassegnano a non essere arrivati in tempo. Con i kalashnikov e i walkie-talkie in mano, curvano le schiene su una mappa militare. «Stanotte entreremo», annunciano tormentandosi le barbe. «Situazione confusa», sorride un osservatore. E' Pir Sayed Ishaq Gailani, nipote di Ahmed, leader monarchico. Anche lui, ex mujaheddin di cultura occidentale, appena arrivato da Roma dopo un incontro con il re, è interessato alla partita. Ma per il momento la guarda da lontano. «Le tribù dell' Est si stanno dando un gran da fare a cacciare i talebani. Oggi o domani sceglieranno nuovi leader». La strada è aperta, la situazione confusa. «L' Afghanistan si sta spaccando in due». Da una parte l' Alleanza del Nord, dall' altra i pashtun seguaci del re. Maria Grazia Cutuli Le principali etnie del mosaico afghano PASHTUN Sono il gruppo etnico più numeroso in Afghanistan: 13 milioni di persone, circa il 50 per cento del totale. Vivono nel Sud-est del Paese e anche nel Pakistan nordoccidentale (la cosiddetta regione tribale). I talebani sono prevalentemente di etnia pashtun TAGIKI Sono il gruppo dominante nell' ex Repubblica sovietica del Tagikistan. In Afghanistan sono circa 3,5 milioni (il 15 per cento del totale e vivono nelle regioni del Nord) UZBEKI Sono circa un milione. Di etnia turca, risiedono nel Nord del Paese, al confine con l' Uzbekistan, da dove molti scapparono negli anni Venti per sfuggire alle repressioni sovietiche HAZARA Sono poco più di un milione. L' espansione dei pashtun nel XVIII secolo li ha relegati nelle zone montagnose centrali del Paese, le più aride. In origine agricoltori, vivono oggi per lo più nelle aree urbane FARSI I farsi, circa 600 mila contadini che parlano la stessa lingua dei persiani, abitano le aree più occidentali del Paese, al confine con l' Iran, come Belucistan e Brahui AIMAK Con questo nome si indicano circa 800 mila persone raggruppate in otto tribù seminomadi che occupano le aree centrooccidentali dell' Afghanistan, fino al confine con il Turkmenistan LA CADUTA DI KABUL FRONTE SUD I pashtun del sud non vogliono lasciare tutta la gloria ai conquistatori di Kabul, le etnie dell' Alleanza del Nord Decine, centinaia, migliaia di miliziani armati siedono nei giardini delle case di Peshawar Documento 307 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 16/11/2001 NUMERO Ven PAGINA 007 TITOLO Le milizie pashtun padrone di Jalalabad SOMMARIO La città è stata liberata dai seguaci dell' ex re Zahir: «Siamo contrari al predominio dell' Alleanza del Nord» La carovana dei conquistatori scivola veloce lungo la pista deserta e terrosa Strade rischiarate da deboli lampioni mostrano bazar senza merce e uomini in armi AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE dopo caduta di Kabul. la conquista di Jalalabad da parte delle milizie Pashtun LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE AVANZATA VITTORIOSA Rinforzi dell' Alleanza del Nord marciano in Afghanistan per sostenere i mujaheddin nell' eventualità di contrattacchi talebani Getty Images/La Press FULL PAGE S Le milizie pashtun padrone di Jalalabad La città è stata liberata dai seguaci dell' ex re Zahir: «Siamo contrari al predominio dell' Alleanza del Nord» DAL NOSTRO INVIATO JALALABAD - Non c' è più dogana, non c' è più frontiera. Oltre il Khyber Pass, l' ingresso in Afghanistan è segnato da una fila di catapecchie vuote, che un tempo ospitavano un bazar di confine, chiuso tra montagne inaccessibili. I talebani sono spariti. Hanno lasciato la strada che porta a Jalalabad. Hanno consegnato la città, i suoi dintorni, l' intera regione alle tribù dell' est. Pashtun come loro, ma sotto altre bandiere. Non ci sono arabi sulla strada, volontari islamici, miliziani pakistani. Anche i sostenitori di Osama, che avevano minacciato jihad o morte, si sono ritirati verso altri territori. Scomparsi o forse inghiottiti negli anfratti imperscrutabili della terra di nessuno. La carovana dei conquistatori scivola veloce lungo la pista deserta e terrosa che rappresenta uno dei principali corridoi commerciali dell' Afghanistan. È formata da pullman, da camion, da pick-up. Trasporta capi clan, anziani, comandanti militari, tutti i membri della potente famiglia di Abdul Haq, l' ex leader della jihad contro i russi, ucciso tre settimane fa durante una missione in Afghanistan per conto degli americani. Tutti fedeli al re, il vecchio Zahir Shah esiliato a Roma, viaggiano con le immaginette del sovrano attaccate al cruscotto e i fucili tra le gambe. Sono in 2.000. Arrivati da Peshawar, retrovia della resistenza in Pakistan. Tornano a unirsi alle fazioni che hanno preso il controllo di Jalalabad. Premono per arrivare in tempo, prima che altri gruppi strappino di mano il loro feudo d' origine. Temono agguati sulla strada, colpi di coda dei guerrieri coranici. Ma il viaggio procede tranquillo tra fortini di fango, accampamenti di profughi e i primi villaggi, dove la folla festeggia l' arrivo dei fratelli pashtun, con una parata di bazooka e lancia granate. «Welcome ai liberatori», gridano lungo la strada, enfatizzando la gioia del momento con tre, quattro, cinque terrificanti tiri di mortaio. «Sono i nuovi mujaheddin», esulta Rakim, il capo convoglio. Sgrana gli occhi azzurri, urla al walkie-talkie, li attende fuori dal pullman per salutare volti sconosciuti, ripetendo estasiato: «Non sono mai stato così felice in vita mia». Un ingorgo di auto annuncia l' arrivo a Jalalabad, la nuova capitale dei pashtun. Seconda città del Paese, conquistata senza sparare un colpo e, soprattutto - dichiarano i capi tribali - senza l' intervento dell' Alleanza del Nord. La prima pietra per contrastare i signori della guerra che, con la copertura aerea americana, sono riusciti a riprendersi Kabul e l' Afghanistan settentrionale. È qui che il Paese si spacca. È qui che si segna lo spartiacque tra due gruppi di potere. Le etnie tagike, uzbeke, hazara che hanno fatto cadere il bastione dei fondamentalisti e adesso vogliono dettare le condizioni per il prossimo governo, e l' etnia dell' est che sostiene il re, i consigli tribali, il ritorno alla tradizione. Jalalabad, principale snodo commerciale, città di confine, meta di ogni traffico illecito, resta al centro dello scontro. Strade rischiarate da deboli lampioni mostrano bazar senza merce, nascosti dietro il fumo dei barbecue. Migliaia di uomini armati, bazooka in spalla, missili anticarro sui pick-up, kalashnikov in mano, si aggirano inquieti coperti da pesanti scialli di lana. Schieramenti di guerriglieri appaiono negli alberghi, negli edifici pubblici, sugli scaloni che portano al palazzo del governatore, Abdul Kabir, l' uomo dei talebani che ha consegnato la città senza sparare un colpo. «Delegazioni», le chiamano, ed è quanto basta per dire che sono arrivati da fuori. Non si vedono civili in giro, né tanto meno donne. Solo miliziani barbuti col turbante, in tutto simili ai guerrieri coranici che se ne sono andati via. L' oscurità copre ogni segno dei bombardamenti americani. La città è stata presa mercoledì da Younis Khalis, comandante storico dell' Hezb-i-islami, una delle fazioni che combatterono la guerra contro i russi. Ma già nessuno di ricorda di lui. «È solo un prestanome del clan di Abdul Haq», dicono. Conta la maniera come è stata presa Jalalabad. «Nessuno scontro, nessuna vittima racconta uno dei comandanti, Mohammed Azrat, bardato come un guerriero medievale - c' è stato un meeting, si è discusso a lungo. Poi ieri notte sono entrati i nostri mujaheddin senza dover premere nemmeno un grilletto». Mezze verità. In città si è sparato, sussurrano altri. Ma non con i talebani. «Quelli sono scappati a Kandahar, nel centro del Paese - aggiunge il comandante -. E con loro gli arabi di Osama. Tutti via». A combattere sarebbero stati i pashtun contro altri pashtun. Tribù arrivate dal distretto di Nangarhar, Laghaman, Nuristan, tra i settemila e i diecimila mujaheddin, in bilico sulla guerra civile. La nuova Jalalabad, vociante e spettrale nelle ore della notte, è una città molto vicina al caos. «Problemi di sicurezza», li chiama Rakim, il capo convoglio arrivato da Peshawar, invitando a non andare in giro per le strade. Vorrebbe organizzare una conferenza stampa. Ma né lui, né i parenti di Abdul Haq, né i pakistani di un' organizzazione umanitaria, stranamente presenti e attivi nel palazzo del governatore, hanno deciso che cosa raccontare ai giornalisti trasportati fin qui. Chi parla dietro le quinte, rivela una storia fatta di intrecci familiari e di appartenenze, all' interno di una stessa famiglia, a fronti diversi. Si litiga sulla nomina del prossimo governatore: quattro comandanti in lizza, quattro milizie, quattro fazioni. E una grande spaccatura tra chi vuole trasformare la città nell' avamposto dei pashtun, e chi vorrebbe invece trascinarla sotto la stella d' influenza dell' Alleanza del Nord. Anche il potente clan di Abdul Haq fa un gioco ambiguo: si dichiara indipendente, sostiene il re, ma uno dei fratelli del comandante ucciso, Haji Kadir, ex governatore di Jalalabad, favorito per la nomina, ha militato proprio con l' Alleanza del Nord. La trattativa continua. Passa da una Shura all' altra, consigli tribali sospesi sul vuoto di potere. Nella notte il rombo degli aerei americani accompagna l' eco di un bombardamento. Jalalabad è una città assediata più che liberata. L' anticamera forse di una guerra fratricida. Maria Grazia Cutuli Strade rischiarate da deboli lampioni mostrano bazar senza merce dove si aggirano migliaia di uomini armati LA FUGA DEI TALEBANI FRONTE SUD Non c' è più dogana, non c' è più frontiera. L' ingresso in Afghanistan è segnato da una fila di catapecchie vuote I sostenitori di Osama si sono ritirati verso altri territori. Scomparsi o forse inghiottiti negli anfratti della terra di nessuno Documento 308 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 17/11/2001 NUMERO Sab PAGINA 002 TITOLO Terroristi e talebani fuggono in montagna SOMMARIO Dopo la caduta di Jalalabad gli uomini dello sceicco si nascondono nei tunnel a sud della città I miliziani coranici hanno portato via anche la cassa della Banca Centrale I covi sono stati costruiti dai mujaheddin per resistere all' invasione sovietica AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra, terrorismo NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo caduta di Jalalabad la fuga dei militanti di Al Qaeda LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE TG LA STRUTTURA DI AL QAEDA CAVALLERIA MODERNA Soldati americani delle forze speciali a cavallo perlustrano il territorio afghano insieme ai mujaheddin antitalebani dell' Alleanza del Nord Ansa C AFGHANISTAN FULL PAGE S Terroristi e talebani fuggono in montagna Dopo la caduta di Jalalabad gli uomini dello sceicco si nascondono nei tunnel a sud della città DAL NOSTRO INVIATO JALALABAD (Afghanistan) - Si sono separati dalle famiglie piangendo. I militanti di Al Qaeda sulle camionette cariche di armi, casse e fagotti, diretti verso le montagne. Le mogli coperte dal burqa e i bambini in lacrime verso il confine con il Pakistan. «Una scena da non crederci - racconta Zingle Bad Shah, un infermiere di Jalalabad -. Faceva quasi pena vederli». Gli uomini di Osama Bin Laden, gli spietati combattenti della congrega terroristica più pericolosa del pianeta, colti in un momento di debolezza, mentre abbandonavano le proprie case, incalzati dalle milizie tribali. Se ne sono andati a mezzogiorno di mercoledì, arabi, pakistani, ceceni, dopo che i talebani hanno accettato di lasciare Jalalabad ai capi clan delle province orientali dell' Afghanistan, liberando la città dalla loro velenosa presenza. «Vinti più di qualunque altro - dice ancora l' infermiere che abita a pochi metri dal loro compound. - Arroganti e violenti». Spariti, grazie a Dio. Alcuni nell' area tribale del Pakistan. Altri, più pericolosi, in un posto che si chiama Tora Bora, a 4 mila metri di altezza sulla Spingar Montain, la Montagna Bianca, 40 chilometri a sud di Jalalabad. Un rifugio sperimentato. Costruito dai vecchi mujaheddin per resistere ai sovietici, offre una base formata da una ragnatela di tunnel sotterranei, dove si sarebbero accampati assieme a gran parte delle milizie coraniche, fuggite anche loro portandosi dietro l' intera cassa della Banca Centrale. Gli americani, che negli anni ' 80 avevano contribuito coi loro finanziamenti a far nascere luoghi come questi, hanno tentato di distruggere Tora Bora nel 1998. Ma le bombe l' hanno scalfito appena. «Il campo non ha mai smesso di funzionare dice Alim Shah, uno dei comandanti pashtun che hanno preso il controllo di Jalalabad -. Gli uomini di Osama possono sopravvivere dentro ai tunnel per mesi». La rete di approvvigionamenti è garantita dal Pakistan. «È dalla frontiera che arrivano viveri e munizioni». Gli americani ci provano ancora. Il tonfo dei bombardamenti che fa tremare i vetri di Jalalabad rimbomba proprio da lì, dalla roccaforte della Montagna Bianca. La rete era capillare, qui a Jalalabad. Da una parte c' erano gli arabi: algerini, egiziani, sauditi. I più potenti, con Atef come capo, il numero tre di Al Qaeda, che sarebbe stato ucciso dagli americani. Dall' altra i volontari pakistani. Il gruppo dei ceceni, tagiki, uzbeki. Quattromila persone, unite da una stessa fede: Al Qaeda, l' internazionale del terrore. In questa terra di confine, gli «stranieri» facevano parte della vita cittadina. Avevano sposato ragazze afghane, comprate dai padri a suon di dollari. Avevano fatto figli. Le loro case e i loro campi di addestramento - segreti e impenetrabili fino a qualche giorno fa - appaiono all' improvviso accessibili a tutti: edifici svuotati e abbandonati, scheletri insignificanti dietro muraglie di fango compresso e barriere di filo spinato. Zingle Bad Shah, l' infermiere che li ha visti partire, mostra uno dei loro quartieri. All' entrata, una parata di vecchi pezzi di artiglieria di marca sovietica. I nuovi conquistatori, ragazzini dall' aria sfatta, accovacciati coi vestiti laceri e i pakoul in testa, sorvegliano le granate allineate sui gradini. Dentro, un mosaico di appartamenti, casette nuove dai tetti impagliati, vestiti gettati alla rinfusa, libri, giocattoli. Su uno scaffale, volumi e riviste in tedesco. «La moglie era una donna arrivata dalla Germania - racconta l' infermiere -. Nessuno l' ha mai vista in faccia». Dietro le case, oltre una rete di canali, si trova invece il centro di addestramento da cui passavano i volontari islamici per imparare a confezionare esplosivi, prima di essere spediti nelle basi operative come quella di Farm Hada, a 10 chilometri da Jalalabad. Anche qui stanze vuote, residuati bellici e cianfrusaglie. Ma qualcuno ha dimenticato un librone in arabo, un manuale del terrorismo. I fantasmi di Al Qaeda aleggiano sulla città. «Non tutti gli arabi se ne sono andati - racconta il giovane Mobares, un afghano vicino alla rete di Osama -. Tanti si sono nascosti presso le famiglie delle loro mogli». Molti sono rimasti in clandestinità. E aspettano, assieme ai talebani che si sono mimetizzati tra i mujaheddin, di capire chi saranno i veri vincitori. Le tribù dell' Est non hanno ancora trovato un accordo. «Jalalabad non è mai stata pericolosa come adesso - sussurra qualcuno -. Tra poco si comincerà a sparare». Le brigate di Osama potrebbero tornare. Maria Grazia Cutuli LA FUGA DEI TALEBANI LA CACCIA Il campo di addestramento riceve viveri e munizioni dal vicino confine col Pakistan. Da qui potrebbe partire il contrattacco In questa zona di frontiera la rete di Bin Laden contava 4.000 uomini: tutti «stranieri» sposati a donne afghane Documento 309 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 18/11/2001 NUMERO Dom PAGINA 004 OCCHIELLO LA FUGA DEI TALEBANI DIRITTI CIVILI Il velo integrale è parte dei costumi locali, la sottomissione agli uomini è un' eredità secolare che i talebani hanno formalizzato Anche nel vicino Pakistan vigono le stesse regole: perfino nella buona borghesia, i due sessi festeggiano in zone separate TITOLO Jalalabad «libera» resta una prigione avvolta dal burqa SOMMARIO Donne sottomesse alle tradizioni dei pashtun «Il nome di mia moglie? Mai su un giornale». Chi viene da una famiglia agiata, chi ha studiato e chi è stato all' estero rifiuta il burqa. Chi arriva invece dai villaggi e dalle zone rurali, dai quartieri poveri, non penserebbe mai di farne a meno AUTORE Cutuli Maria Grazia GENERE inchiesta ARGOMENTO donne NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo caduta Jalalabad. reportage sulla condizione delle donne LOCALITA' SOGGETTO JALALABAD.AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE SOTTO CONTROLLO Una donna afghana cammina per Kabul con un parente. I talebani sono fuggiti, ma molte donne hanno ancora paura di togliere il burqa e uscire da sole Foto Raffaele Ciriello FULL PAGE S DAL NOSTRO INVIATO JALALABAD - Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono donne a Jalalabad. La liberazione della città afghana dai talebani ha portato nelle strade migliaia di miliziani armati, bande ubriache di vittoria, pronte a contendersi il controllo del territorio sino all' ultimo vicolo o all' ultima casa. Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gestisce il potere, decide il futuro. In un' intera mattinata, appaiono tra le botteghe del suk solamente tre sagome avvolte dal burqa, dal passo silenzioso e discreto, coperte come sempre dietro la cortina di un poliestere. «Scoprirsi il viso? Non è il momento», farfuglia una delle tre, scivolando tra le bancarelle. «Il burqa è l' unica protezione che abbiamo», dice la seconda, mentre la terza acconsente. «In una situazione come questa, rischieremmo lo stupro». Fanno la spesa veloci, un po' di frutta, cotone per cucire, pezzi di pane. E si dileguano con la stessa andatura leggera con cui sono arrivate, strette una all' altra a difendersi dal mondo di fuori. Non ci sono stati delitti a Jalalabad, com' è successo invece a Kabul dopo l' arrivo dell' Alleanza del Nord. Nessun proclama dei mujaheddin che inviti le donne afghane a tornare nei posti di lavoro e tra i banchi di scuola. Le milizie tribali - ancorate alle coriacee tradizioni pashtun - hanno altro a cui pensare. E non è certo il burqa, la segregazione femminile, la violazione dei diritti umani, il peccato che rimproverano ai talebani. Il velo integrale fa parte dei costumi locali. La sottomissione delle donne è un' eredità secolare che le milizie coraniche hanno solo istituzionalizzato. «E la cultura fa la differenza - dice Karmi Nazri, proprietario di una scuola d' inglese a Jalalabad -. Chi viene da una famiglia agiata, chi ha studiato e chi è stato all' estero rifiuta il burqa. Chi arriva invece dai villaggi e dalle zone rurali, dai quartieri poveri, non penserebbe mai di farne a meno». I talebani non c' entrano, secondo lui. Anche prima del loro arrivo in Afghanistan, la maggior parte delle donne pashtun si copriva il viso. «Cambierà qualcosa? Non certo adesso, con i guerriglieri in giro. Non c' è donna che può aver voglia di mostrarsi in una situazione come questa». Forse in futuro, a poco a poco, una volta che l' Afghanistan avrà preso un altro corso politico. «Ma mia moglie, no. Lei il burqa l' ha sempre portato e lo porterà sino alla fine dei suoi giorni». Come si chiama la moglie? Il professore d' inglese abbozza un sorriso imbarazzato: «Non mi pare il caso che il suo nome compaia sui giornali». Nient' altro da aggiungere. Anche Kamram Bashari, medico all' ospedale centrale di Jalalabad, si mostra esterrefatto all' idea che le donne della sua famiglia possano camminare a viso scoperto. «Non hanno mostrato la loro faccia nemmeno ai propri cugini. Sono quelle che lavorano per il governo, le professioniste, le dottoresse, che tra qualche mese forse alzeranno la testa, a rivendicare libertà mai godute». La cultura pashtun è dura da sradicare. Anche nel vicino Pakistan vigono le stesse regole: perfino nella buona borghesia, dove non c' è occasione che non venga celebrata con sontuosi banchetti, uomini e donne festeggiano in zone diverse, rigidamente separate. Ancor più nei campi profughi degli afghani: il burqa serve a mascherare la povertà, a nascondare la vergogna di chi chiede l' elemosina, a proteggersi dalla promiscuità. Era questo il significato originario dallo hijab, l' abito prescritto dal Corano: un riparo per il corpo e per lo spirito, in una società invadente come quella beduina, per mettere una distanza tra sé e gli altri, e garantirsi un minimo d' intimità. A Peshawar, in Pakistan, s' incontrano donne ultrafondamentaliste, colte, laureate, capaci di parlare in perfetto inglese, che teorizzano la differenza tra i sessi. «É segno di rispetto da parte degli uomini - dice una attivista del Jamiat Islami, uno dei principali partiti religiosi -. Serve a difenderci dagli sguardi indiscreti, a proteggersi da un eccesso di responsabilità. Non vogliamo diventare come voi occidentali, oberate di lavoro, costrette a mantenervi da sole, a trascurare la famiglia ed i figli». Persino le donne del Rawa, l' associazione rivoluzionaria femminile dell' Afghanistan, ammettono il velo: «Fa parte della tradizione». Quel che non accettano è che sia lo Stato ad imporlo, come nel caso dai talebani. A Jalalabad le donne aspettano. «Ci vorrà del tempo perché i costumi cambino», dice il dottor Kamran Bashari. Una vera stabilità politica chiarirà quale sarà il ruolo femminile in Afghanistan. Maria Grazia Cutuli Documento 310 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 19/11/2001 NUMERO Lun PAGINA 007 OCCHIELLO LA FUGA DEI TALEBANI INCUBI Una pista di sabbia che si addentra in una valle bruciata dal sole. Il centro di addestramento era protetto da carri armati Fialette di vetro bianco. Sull' etichetta, scritte in cirillico: «gas sarin». C' è anche l' indicazione dell' antidoto: «atropina» TITOLO Un deposito di gas nervino nella base di Osama SOMMARIO Contenitori di armi chimiche abbandonati in un campo di Al Qaeda sulle colline di Jalalabad AUTORE Cutuli Maria Grazia ARGOMENTO guerra NOTE attacco Usa contro Afghanistan. dopo caduta Kabul. trovate fiale di gas nervino in una base di Al Quaeda. scheda sarin LOCALITA' EVENTO AFGHANISTAN FOTO, GRAFICI, TABELLE t il killer invisibile (sarin) f ALL' INSEGUIMENTO L' Alleanza del Nord ha conquistato a novembre il 70 per cento dell' Afghanistan Dusan Vranic/Ap ALLA CACCIA Mujaheddin ispezionano un tunnel alla ricerca di talebani o uomini di Al Qaeda Behrouz Mehri/Ansa FULL PAGE S Un deposito di gas nervino nella base di Osama Contenitori di armi chimiche abbandonati in un campo di Al Qaeda sulle colline di Jalalabad DAL NOSTRO INVIATO FARM HADA (Afghanistan) - Gas sarin: la scritta in caratteri cirillici appare su un' etichetta rossa, incollata su una scatola di cartone. Dalla confezione spuntano venti fialette di vetro, simili a piccoli termometri, riempite di liquido giallo e pastoso. È una delle sostanze più velenose e letali prodotte in laboratorio. Un gas nervino, un' arma chimica capace di uccidere al solo contatto con la pelle. È stata trovata dal Corriere della Sera e dal quotidiano spagnolo El Mundo dentro uno dei più grandi campi di Osama Bin Laden in Afghanistan, una base abbandonata dopo la frettolosa ritirata dei talebani da Jalalabad. Una scatola intera, forse dimenticata durante la fuga. Oppure lasciata apposta, come segno di avvertimento ai futuri profanatori. L' abbiamo scoperta a Farm Hada. Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un' ora di macchina dalla città. Ci arriviamo percorrendo una pista di sabbia che si addentra per chilometri in una vallata bruciata dal sole. Un' area inaccessibile fino a qualche giorno fa. Off-limits per chiunque non fosse parte della rete di Osama. Ora troviamo solo un check-point, controllato dai mujaheddin e una vecchia sbarra di ferro a bloccare l' entrata. I miliziani ci salutano, sorridono, lasciano che il nostro fuoristrada passi senza troppe obiezioni. Oltre la barriera, piccole colline desertiche costellate da muraglie quadrate, mimetizzate sullo sfondo di un paesaggio ocra: caserme, baracche d' argilla protette da vecchi carri armati. L' autista guida lungo mulattiere tortuose. Si ferma davanti a una fila di nicchie sterrate sul fianco di una montagnola. Da lontano sembrano tunnel. In realtà sono trincee zeppe di pezzi di artiglieria, bossoli, proiettili di granata. Una sorta di barriera difensiva, dietro la quale si nasconde una banchina di cemento, circondata da muri di argilla, con un cancello di ferro chiuso da un catenaccio. Attorno, container di metallo, una casupola che doveva servire come posto di guardia e una baracca dal tetto di lamiera, stipata di munizioni. Gli arabi devono essersene andati in fretta da Farm Hada. Un' armata allo sbaraglio, se per terra c' è ancora una scodella incrostata di cibo, un mucchio di stracci, e poco lontano, gettati alla rinfusa, mine, ordigni esplosivi. E' qui che appare la scatola di cartone. Non riusciamo a capire che cosa contiene. Il giornalista del Mundo, Julio Fuentes, la incide sul lato, tirando fuori ad una ad una le fialette in vetro bianco, ampolle sottili come siringhe da insulina, strozzate alle estremità e isolate una dall' altra dentro piccoli scomparti di cartone. Ne contiamo una ventina. È l' etichetta attaccata alla confezione a rivelare il contenuto: gas sarin, scritto in russo, e, sotto, l' indicazione sull' antidoto da usare, l' atropina, l' unica sostanza capace di contrastare gli effetti letali. Una traccia sinistra dell' arsenale che potrebbe essere in mano ai combattenti di Osama. Una prova che nelle caserme dello sceicco saudita non ci sono solo kalashnikov, missili o granate, ma anche armi non convenzionali, utilizzabili da attacchi terroristici in tutto il mondo. E forse non è un caso che tra tutte le basi abbandonate dagli uomini di Al Qaeda in questi giorni, dopo la partenza dei talebani e l' arrivo dei mujaheddin, Farm Hada sia una delle poche a non essere stata bombardata dagli americani. Tiriamo via l' etichetta e, per precauzione, lasciamo le ampolle. Troppo rischioso portarle via. Il gas Sarin ha effetti neuro-tossici. Le abbandoniamo lì dove si trovano, sotto il sole. Intorno non si vede nessuno. Il silenzio è pesante e sinistro. Non ci sono mujaheddin a custodire la base. Non siamo neanche sicuri che l' area sia completamente libera dagli arabi di Osama. Ma certo è che qualcuno deve essere passato da qui, dopo la partenza dei membri di Al Qaeda, a mettere i lucchetti su ogni portone. «Gli uomini di Younis Khalis», dice la nostra guida. I miliziani dello stesso leader politico che mercoledì scorso, dopo un lungo negoziato, ha costretto i talebani a sloggiare dalla regione. L' abbiamo visto Khalis, qualche giorno fa, entrare nel palazzo del governatore, la barba tinta di arancione, uno zuccotto in testa, a passi faticosi su un paio di stampelle. Lo accompagnavano i suoi fedeli, sorreggendolo ad ogni gradino. Ha pronunciato poche parole, sillabe gutturali e cavernose per annunciare la pace. Ma è lui il grande vecchio, il capo storico dell' Hezb-iIslami, una delle fazioni che combatterono la Jihad contro i sovietici, ad aver concesso a Osama il permesso per costruire la base di Farm Hada sui suoi terreni, all' interno del suo feudo. Era il 1996. Lo sceicco del terrore, scacciato dal Sudan - raccontano a Jalalabad - si era accampato in una brigata di arabi nel villaggio di Teerah, all' interno della zona tribale del Pakistan. I capiclan lo avevano tollerato per un po' , poi l' avevano pregato di andarsene. Osama si è spostato a Tora Bora, il rifugio sulla Spinghar Mountain, la stessa parte dove gli arabi in fuga si sono arroccati in questi giorni. E quindi a Jalalabad con l' assenso della Shura locale. È stato qui che ha trattato con Khalis l' acquisto dei terreni. Il leader, che lo conosceva dai tempi della Jihad, gli offrì ospitalità permettendo ai combattenti di Al Qaeda d' installarsi nella sua roccaforte. Con l' arrivo dei talebani, all' ottobre dello stesso anno, Osama si è trasferito a Kandahar, lasciando a Farm Hada uno dei suoi principali avamposti militari. Per anni si sono nascosti qui dentro alcuni degli uomini più ricercati dall' Fbi, come Atef, il numero tre di Al Qaeda, morto venerdì sotto un bombardamento americano. Dentro la base, che si stende per una decina di chilometri quadrati, vivevano anche alcune famiglie dei seguaci di Osama - racconta un afghano che l' ha visitata qualche tempo fa - in caseggiati protetti come bunker e sorvegliati dai miliziani armati, una cinquantina in tutto; difficile dire quanti fossero complessivamente i residenti. Da Farm Hada potrebbero essere passati a rotazione migliaia di combattenti islamici, per prepararsi militarmente e spiritualmente alla Jihad contro l' Occidente. All' interno degli edifici non mancava nulla: acqua corrente e luce, fornita da enormi generatori, apparecchiature satellitari, archivi e documenti. Oggi sono rimasti solamente mezzi militari, camion, pezzi di artiglieria e un numero impressionante di munizioni. E il contenitore del gas nervino. Poco lontano dalla zona in cui abbiamo trovato le fiale, sorgono le ville di Younis Khalis e dei suoi comandanti. Costruzioni nascoste dietro fila di mura. Si vedono bambini giocare davanti ai portoni e qualche camion passare lungo la strada. Lo stesso Osama ha conservato una residenza nella zona. Ci fermiamo a Dar Olum, l' ex «madrassa» dove venivano selezionati i giovani combattenti, ragazzi preferibilmente orfani dai 15 ai 18 anni destinati agli attacchi kamikaze. Maria Grazia Cutuli Documento 311 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 004 OCCHIELLO RUANDA, 1997 TITOLO Al processo dei «boia» accusati per genocidio AUTORE Cutuli Maria Grazia NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio reportage svolto in Ruanda nel 1997 PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia FULL PAGE S Al processo dei «boia» accusati per genocidio ... I loro volti impassibili, le loro fisionomie umiliate in casacche rosa confetto, il colore scelto in Ruanda per i detenuti, forse non passeranno ai posteri come quelle dei criminali nazisti processati a Norimberga dopo la Seconda Guerra. E nemmeno come quelle dei boia serbo-bosniaci ricercati dal Tribunale dell' Aja. Ma nonostante la scarsa attenzione dei media, i processi per genocidio in Ruanda rappresentano un avvenimento «epocale». Quasi 100 mila persone si trovano nelle prigioni ruandesi per «crimine contro l' umanità». Fra di loro ex politici, ex ufficiali, giornalisti, uomini d' affari, contadini. Ma anche donne, ecclesiastici, bambini... I processi, cominciati a gennaio, si svolgono nel terrore. I magistrati temono per la loro vita. I testimoni hanno paura a parlare. «O al contrario parlano troppo», dice un esponente del Cladho, collettivo ruandese per i diritti dell' uomo, e «accusano gente innocente solo per impadronirsi dei loro beni». Non esistono testimoni a favore... E in più mancano gli avvocati. Dei 33 legali rimasti dopo il genocidio, nessuno vuole farsi carico di difendere i boia del 1994... Documento 312 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 004 OCCHIELLO ISTANBUL, 2000 TITOLO Finta «fidanzata» turca sulla nave dei clandestini AUTORE Cutuli Maria Grazia NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio reportage svolto a Istanbul nel 2000 PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia FULL PAGE S ISTANBUL, 2000 Finta «fidanzata» turca sulla nave dei clandestini Clandestino, si fa per dire. A Istanbul tutto è possibile. La rete mafiosa che organizza viaggi senza visto, crociere senza passaporto, odissee fino alle coste italiane, ha agenti e mediatori dietro al porto di Karaköy, a due passi dall' Ufficio della Dogana... E' il proprietario di una salumeria all' incrocio tra un vicolo e la via principale, la Serap Galataiskele, a indicarci la strada: «Vuoi andare in Italia? Fai un salto nell' ufficio qui sopra...». L' interprete che ci accompagna è ormai nel ruolo. Clandestino per affari di cuore. «Sto con lei dice indicandomi -. Devo seguirla a Milano, ma ho qualche problema con i documenti». «Questi che ti dico io lavorano benissimo - insiste il salumiere -. Ha funzionato anche con mio fratello. Mille marchi e me l' hanno spedito in Germania...». Il garzone ci porta su per le scale, fino a uno sgabuzzino dalle pareti gialle, con una scrivania, due ritratti di Ataturk al muro e tre uomini dentro... «Che tipo di viaggio?», chiede l' uomo alla scrivania. «Voglio uscire dalla Turchia - risponde il finto Amed -. Devo seguire la mia fidanzata»... Documento 313 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 004 OCCHIELLO BAMIYAN, 2001 TITOLO Nella valle dei Buddha distrutti dal fanatismo AUTORE Cutuli Maria Grazia NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio reportage svolto a Bamiyan nel 2001 PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia FULL PAGE S BAMIYAN, 2001 Nella valle dei Buddha distrutti dal fanatismo ... La valle dove sono stati distrutti i due Buddha giganti non è una vergogna da nascondere... I talebani hanno deciso di aprirla a pochi giornalisti per mostrare che l' editto emanato il 26 febbraio contro le statue preislamiche è stato rispettato, che tutti gli «idoli» sono stati abbattuti... L' aereo è una carcassa che non vede un pezzo di ricambio da anni, ma in pochi minuti raggiunge le alte quote, sorvola il deserto a ovest di Kabul e punta verso le cime innevate dell' Hindu Kush... Bamiyan appare dall' alto, una distesa gialla delimitata da un costone traforato, e, a poca distanza l' una dall' altra, due orbite vuote, le due nicchie che hanno ospitato per secoli i Buddha di pietra... Arrivano i toni sommessi di Faiz Ahmed Faiz, portavoce del ministro degli Esteri: «Benvenuti a Bamiyan, una delle regioni dove i talebani hanno portato pace e stabilità»... La valle è deserta... Le jeep si fermano ai piedi del grande costone, un gruviera di cappelle, di anfratti scavati nella roccia. I Buddha non esistono più... «Ci hanno messo venti giorni a distruggerli - aggiunge un funzionario sottovoce -. E' stato un lavoro duro e difficile»... Documento 314 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 004 OCCHIELLO BENIN, 2001 TITOLO Tra i cacciatori di bambini venduti a 30 mila lire l' uno AUTORE Cutuli Maria Grazia NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio reportage svolto in Benin nel 2001 PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia FULL PAGE S BENIN, 2001 Tra i cacciatori di bambini venduti a 30 mila lire l' uno Marthe Assoclé non ha mai conosciuto il suo vero nome. L' ha sempre chiamata Mamà Gabon, sin da quando a sette anni la portò via dal suo villaggio in Benin. L' ha sempre avuta attorno, però, carceriera vigile e solerte. E' stata Mamà a piazzarla presso una famiglia di Libreville, in Gabon. Lei a rispedirla indietro, 9 anni dopo, quando è rimasta incinta. Marthe, che oggi ha 18 anni e una figlia di 18 mesi, non sa nient' altro di Mamà Gabon: soltanto che si tratta di una trafficante di bambini, un' intermediaria che ha continuato a guadagnare sulla sua pelle. La coppia che ha adottato la ragazza, facendola lavorare al mercato, ogni mese pagava infatti una percentuale alla megera. Mentre Marthe faceva la schiava, Mamà Gabon intascava il suo compenso... A 4 anni un bambino è già grande per poter essere consegnato ai trafficanti... ci sono gli adulatori, coloro che devono convincere i genitori a cedere i figli in cambio di 30-40 mila lire a testa... Le coltivazioni di cacao della Costa d' Avorio rappresentano gli approdi più ambiti. Là un bambino può essere rivenduto a 700-900 mila lire... Documento 315 di 316 P* TESTATA Corsera SEZIONE PRIMO PIANO REDAZIONE ESTERI DATA 20/11/2001 NUMERO Mar PAGINA 004 OCCHIELLO L' ULTIMO REPORTAGE TITOLO Quelle fialette di "sarin", arma segreta di Al Qaeda AUTORE Cutuli Maria Grazia NOTE giornalisti uccisi in Afghanistan. morte di Maria Grazia Cutuli. stralcio ultimo reportage da Farm Hada dove aveva trovato la fabbrica di armi chimiche PERSONAGGI Cutuli Maria Grazia FOTO, GRAFICI, TABELLE F la pagina del "Corriere della Sera" di ieri con l' articolo di Maria Grazia Cutuli: "Un deposito di gas nervino nella base di Osama" FULL PAGE S L' ULTIMO REPORTAGE di MARIA GRAZIA CUTULI FARM HADA (Afghanistan) - Gas sarin: la scritta in caratteri cirillici appare su un' etichetta rossa, incollata su una scatola di cartone. Dalla confezione spuntano venti fialette di vetro, simili a piccoli termometri, riempite di liquido giallo e pastoso. E' una delle sostanze più velenose e letali prodotte in laboratorio. Un gas nervino, un' arma chimica capace di uccidere al solo contatto con la pelle... L' abbiamo scoperta a Farm Hada. Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un' ora di macchina dalla città. Ci arriviamo percorrendo una pista di sabbia che si addentra per chilometri in una vallata bruciata dal sole. Un' area inaccessibile fino a qualche giorno fa. Off-limits per chiunque non fosse parte della rete di Osama... I miliziani ci salutano, lasciano che il nostro fuoristrada passi senza troppe obiezioni. Oltre la barriera, piccole colline desertiche costellate da muraglie quadrate, mimetizzate sullo sfondo di un paesaggio ocra: caserme, baracche d' argilla protette da vecchi carri armati. L' autista guida lungo mulattiere tortuose. Si ferma davanti a una fila di nicchie sterrate sul fianco di una montagnola. Da lontano sembrano tunnel. In realtà sono trincee zeppe di pezzi di artiglieria, bossoli, proiettili di granata. Una sorta di barriera difensiva, dietro la quale si nasconde una banchina di cemento, di ferro chiuso da un catenaccio. Attorno, container di metallo, una casupola che doveva servire come posto di guardia e una baracca dal tetto di lamiera, stipata di munizioni. Gli arabi devono essersene andati in fretta da Farm Hada. Un' armata allo sbaraglio, se per terra c' è ancora una scodella incrostata di cibo, un mucchio di stracci, e, poco lontano, gettati alla rinfusa, mine, ordigni esplosivi. E' qui che appare la scatola di cartone. Non riusciamo a capire che cosa contiene. Il giornalista del Mundo, Julio Fuentes, la incide sul lato, tirando fuori a una a una le fialette in vetro bianco, ampolle sottili come siringhe da insulina, strozzate alle estremità e isolate una dall' altra dentro piccoli scomparti di cartone. Ne contiamo una ventina. E' l' etichetta attaccata alla confezione a rivelare il contenuto: gas sarin, scritto in russo, e, sotto, l' indicazione dell' antidoto da usare, l' atropina, l' unica sostanza capace di contrastare gli effetti letali... Tiriamo via l' etichetta e, per precauzione, lasciamo le ampolle. Troppo rischioso portarle via. Il gas sarin ha effetti neuro- tossici. Le abbandoniamo lì dove si trovano, sotto il sole. Intorno non si vede nessuno. Il silenzio è pesante e sinistro. Non ci sono mujaheddin a custodire la base. Non siamo neanche sicuri che l' aerea sia completamente libera dagli arabi di Osama...