3. Il tempo della missione - La Parrocchia di Rovellasca
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3. Il tempo della missione - La Parrocchia di Rovellasca
3. Il tempo della missione 1 Quando lasciamo la chiesa dopo l’Eucaristia domenicale, entriamo di nuovo nel tempo, e il tempo è quindi il primo “oggetto” della nostra fede e della nostra azione di cristiani. Ed esso è effettivamente l’immagine della nostra realtà fondamentale, dell’ottimismo e del pessimismo della nostra vita, della vita come vita e della vita come morte. Attraverso il tempo, da un lato noi facciamo esperienza della vita come possibilità, crescita, compimento, come movimento verso il futuro. Attraverso il tempo, d’altro canto, ogni futuro si dissolve nella morte e nell’annientamento. Il tempo è la sola realtà della vita, eppure è una realtà stranamente non-esistente: non cessa di dissolvere la vita in un passato che già non esiste più e in un futuro che conduce sempre alla morte. Di per sé, il tempo non è che una fila di pali del telegrafo disposti a intervalli e, a un certo punto lungo la via, c’è la nostra morte. Tutte le generazioni, tutti i filosofi sono sempre stati coscienti di questa angoscia del tempo, del suo paradosso. Ogni filosofia, ogni religione è in ultima analisi un tentativo di risolvere il “problema del tempo”. Sono stati scritti sull’argomento migliaia di libri, cristiani e non-cristiani. Comunque non è mia intenzione aggiungere un’altra “teologia del tempo” a tutte quelle che esistono già. Vorrei piuttosto descrivere molto brevemente l’esperienza del tempo che i cristiani hanno avuto fin dall’inizio e che la Chiesa continua ancora a dar loro. Qui, di nuovo, ciò che la Chiesa offre non è la “soluzione” di un problema filosofico, ma un dono. E questo dono diventa soluzione solo quando è accettato nello stesso modo libero e gioioso in cui è offerto. O ancora, si può forse dire che la gioia di questo dono rende sia il problema che la sua soluzione inutili e irrilevanti. 2 Per comprendere il dono, dobbiamo ancora una volta rivolgerci alla liturgia, decifrare di nuovo il suo linguaggio dimenticato. Oggi nessuno, tranne quella razza di uomini particolare ed esoterica chiamata “liturgisti”, si interessa di quella che è stata in passato la principale preoccupazione dei cristiani: le feste e i tempi liturgici, i cicli di preghiera, un interesse molto reale per il kairós — cioè il tempo della celebrazione liturgica. Non solo il laico medio, ma anche il teologo sembra dire: il mondo del “simbolismo” cristiano non è più il nostro mondo. Tutto questo è venuto meno, è passato, e noi abbiamo questioni più serie di cui occuparci. Sarebbe impensabile, ridicolo, cercare di risolvere un qualsiasi “problema” reale della vita moderna riferendolo, ad esempio, alla Pasqua o alla Pentecoste, o anche alla domenica. E tuttavia a questo punto mi sia lecito porre qualche interrogativo. Questi “simboli” sono semplicemente “simbolici”? O non si dovrebbe piuttosto spiegare proprio questo fallimento col valore “simbolico” che i cristiani stessi hanno loro attribuito, cessando di comprendere la loro vera natura? Ma i cristiani non hanno smesso forse di comprendere questa natura perché ad un certo momento (sarebbe troppo lungo sviluppare qui tale argomento) sono arrivati a pensare che la “religione” non ha niente a che fare col tempo, ma è salvezza dal tempo? Prima di avere il diritto di sbarazzarci degli antichi “simboli”, dobbiamo capire che la vera tragedia del cristianesimo non è il “compromesso” con il mondo e il progressivo “materialismo”, ma al contrario la sua “spiritualizzazione” e la sua trasformazione in “religione”. E la religione — come abbiamo già visto — è giunta cosi a significare un mondo di pura spiritualità, dove si concentra l’attenzione su ciò che riguarda l’“anima”. I cristiani sono stati tentati di rifiutare completamente il tempo e di sostituirlo col misticismo e con interessi “spirituali”, di vivere come cristiani fuori dal tempo e scappare cosi alle sue frustrazioni; di affermare con insistenza che il tempo non ha nessun reale significato dal punto di vista del regno che è “oltre il tempo”. E alla fine hanno ceduto. Hanno lasciato il tempo effettivamente privo di senso, anche se pieno di “simboli” cristiani. E oggi essi stessi non sanno che cosa fare di questi simboli. Perché è impossibile “riportare Cristo nel Natale” se Egli non ha redento cioè, reso significativo - il tempo stesso. Perciò dobbiamo capire che la preoccupazione intensa e quasi patologica per il tempo e i suoi “problemi” caratteristica del nostro mondo moderno ha le sue radici in questo fallimento specificamente cristiano. E a causa di noi cristiani che il mondo in cui viviamo letteralmente non ha tempo. Non è forse vero che più espedienti “per risparmiare tempo” inventiamo, meno tempo abbiamo? La corsa frenetica del tempo senza gioia è interrotta dal relax (“distendetevi e rilassatevi!”). Ma è tale l’orrore dello strano vuoto dissimulato da questa parola veramente demoniaca, che gli uomini devono prendere pillole per sopportarlo e comprare libri costosi su come ammazzare questa terra-di-nessuno della “vita moderna”. Non c’è tempo perché il cristianesimo, da una parte, ha reso l’uomo incapace di vivere nel vecchio tempo naturale, ha spezzato senza rimedio il ciclo dell’eterno ritorno. Ha proclamato la pienezza dei tempi, ha rivelato il tempo come storia e compimento e ci ha contagiati una volta per tutte con il sogno di un tempo ricco di significato. D’altra parte non c’è tempo perché, dopo avere annunciato tutto questo, il cristianesimo ha abbandonato il tempo, ha invitato i cristiani semplicemente a lasciarlo e a pensare all’eternità come ad un eterno riposo (per non dire come ad un “relax”). Certo, si può ancora adornare questo tempo senza senso di bei simboli e di “riti pittoreschi”, preferibilmente “antichi”. Si possono - a intervalli regolari e consultando le “rubriche” - cambiare i colori dei paramenti liturgici e condire la stessa eterna predica con qualche riferimento alla Pasqua, o al Natale, o all’Epifania. Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa... Non si sazia rocchio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire... Non c’è niente di nuovo sotto il sole... (Qo 1,1-4.8.9). E questo rimane vero per il mondo caduto. Ma noi cristiani abbiamo troppo spesso dimenticato che Dio ha redento il mondo. Per secoli, abbiamo predicato alla gente che si affrettava: la vostra affannosa corsa quotidiana non ha senso, e tuttavia accettatela, e sarete ricompensati in un altro mondo con un eterno riposo. Ma Dio ci ha rivelato e ci offre Vita eterna e non eterno riposo. E Dio ha rivelato questa Vita eterna in mezzo al tempo - e alla sua corsa - come il suo scopo e il suo senso segreto. E cosi Egli ha trasformato il tempo, e il nostro lavoro in esso, nel sacramento del mondo futuro, nella liturgia del compimento e dell’ascensione. E quando abbiamo toccato il fondo di questo mondo chiuso su di sé che esso ricomincia di nuovo ad essere per noi la materia del sacramento che dobbiamo portare alla sua pienezza in Cristo. “Non c’è niente di nuovo sotto il sole”. E tuttavia ogni giorno, ogni minuto risuona ora della vittoriosa affermazione: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine...” (Ap 21,5.6). Tutto ciò, per quanto “ispirante” ed “elevante” possa essere, non ha nessun significato per il tempo reale in cui l’uomo reale deve vivere, o meglio, per l’assenza di tempo che fa della sua vita un alternarsi ossessivo di “ritmo frenetico” e di “relax”. A questo punto, pongo la questione: Cristo, il Figlio di Dio, è risorto dai morti nel primo giorno della settimana, ha inviato il suo Spirito nel giorno di Pentecoste — che cosa significa tutto questo, che è entrato nel tempo solo perché noi possiamo “simboleggiare” questo con raffinate celebrazioni che, anche se connesse ai giorni e alle ore, non hanno il potere di dare al tempo un significato reale, di trasformarlo e di redimerlo? 3 Fin dall’inizio, i cristiani hanno avuto il loro giorno particolare, ed è proprio nella peculiare natura di questo giorno che troviamo la chiave per interpretare l’esperienza cristiana del tempo. Ma, per recuperarla, dobbiamo risalire precedentemente alla legislazione di Costantino, che, istituendo la domenica come giorno settimanale e obbligatorio di riposo, ne fece il sostituto cristiano del sabato ebraico. Dopo questo fatto, il significato unico e paradossale del Giorno del Signore fu a poco a poco dimenticato. Eppure il suo significato veniva precisamente dal suo rapporto col sabato, cioè con l’intera concezione biblica del tempo. Nella concezione del mondo e nell’esperienza religiosa ebraica il sabato, il settimo giorno, ha un’importanza capitale: è la risposta e la partecipazione dell’uomo alla bontà della creazione di Dio. “E Dio vide che era cosa buona... Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto” (Gen 1,25; 2,3). Il settimo giorno è dunque l’accettazione gioiosa del mondo creato da Dio come buono. Il riposo prescritto in questo giorno, e che successivamente è stato in qualche modo oscurato da prescrizioni e da tabù meschini e legalistici, non è affatto il nostro “relax” moderno, un assenza di lavoro. E la partecipazione attiva alla “delizia del sabato”, l’ingresso nella pienezza sacra della pace divina come frutto di ogni opera, come coronamento di tutto il tempo. Presenta, quindi, sia dei tratti cosmici che escatologici. Eppure questo mondo “buono”, che l’ebreo benedice nel settimo giorno, è al tempo stesso il mondo del peccato e della rivolta contro Dio, e il suo tempo è il tempo dove l’uomo vive l’esilio e l’allontanamento da Dio. E perciò il settimo giorno indica al di là da sé, verso un nuovo Giorno del Signore, il giorno della salvezza e della redenzione, il giorno del trionfo di Dio sui suoi nemici. Nei tardi scritti apocalittici giudaici emerge l’idea di un nuovo giorno che è insieme sia l’ottavo — perché è al di là delle frustrazioni e dei limiti del “sette”, il tempo di questo mondo — e il primo, perché con esso comincia il nuovo tempo, quello del regno. Da questa idea è nata la domenica cristiana. Cristo è risuscitato dai morti il primo giorno dopo il sabato. La vita che ha brillato fuori dal sepolcro era al di là dei limiti inevitabili del “sette”, del tempo che conduce alla morte. Era quindi il principio di una vita nuova e di un tempo nuovo. Era veramente l’ottavo e il primo giorno, e divenne il giorno della Chiesa. Secondo il quarto vangelo, il Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli il “primo giorno” (Gv 20,19) e poi “dopo otto giorni” (20,26). Questo è il giorno in cui la Chiesa celebra l’Eucaristia — il sacramento della sua ascensione nel regno e della sua partecipazione al banchetto messianico nel “tempo futuro” —, il giorno in cui la Chiesa si compie come vita nuova. I documenti più antichi menzionano che i cristiani si riunivano statuto die — in un giorno stabilito — e niente nella lunga storia del cristianesimo ha potuto alterare l’importanza di questo giorno stabilito. Un “giorno stabilito”... Se il cristianesimo fosse una fede puramente “spirituale” ed escatologica, non ci sarebbe stato bisogno di un “giorno stabilito”, perché il misticismo non ha interesse per il tempo. Per salvare la propria anima, infatti, non c’è bisogno del “calendario”. E se il cristianesimo non fosse altro che una nuova “religione”, avrebbe stabilito il proprio calendario con la solita contrapposizione tra “giorni sacri” e “giorni profani”, quelli da “custodire” e “osservare” e quelli religiosamente insignificanti. E infatti entrambe le concezioni apparvero più tardi. Ma questo non era affatto il significato originale del “giorno stabilito”. Non lo si capiva come un “giorno sacro” contrapposto a quelli profani, come la commemorazione nel tempo di un evento passato. Il suo vero significato stava nella trasformazione del tempo, non del calendario. Perché, da una parte, la domenica rimaneva uno dei giorni (per più di tre secoli non fu nemmeno un giorno di riposo), il primo della settimana, completamente appartenente a questo mondo. Eppure, d’altra parte, in quel giorno, attraverso l’ascensione eucaristica, il Giorno del Signore si rivelava e si manifestava in tutta la sua gloria e in tutto il suo potere trasformante, come la fine di questo mondo, come il principio del mondo futuro. E cosi, attraverso quell’unico giorno, tutti i giorni e il tempo intero si trasformavano in tempi di ricordo e di attesa. Ricordo di questa ascensione (“abbiamo visto la vera luce”) e attesa della sua venuta. Tutti i giorni, tutte le ore erano ormai riferiti a questa fine di ogni vita “naturale”, all’ inizio della vita nuova. La settimana non era più una sequenza di giorni “profani”, con al termine il riposo nel giorno “sacro”. Era ormai un movimento dal monte Tabor verso il mondo e dal mondo verso il “giorno senza tramonto” del mondo futuro. Ogni giorno, ogni ora acquistava cosi un’importanza, una gravità che non poteva avere prima: ogni giorno doveva essere ora un passo di questo movimento, un momento decisivo di testimonianza, un tempo di significato definitivo. La domenica non era dunque un giorno “sacro”, da “osservare” separatamente da tutti gli altri giorni e opposto ad essi. Non interrompeva il tempo con un’estasi mistica “senza tempo”. Non era una “rottura” in una sequenza di giorni e di notti altrimenti senza senso. Rimanendo uno dei giorni ordinari, e tuttavia rivelandosi attraverso 7 “E fu sera e fu mattina...”. Appena ci svegliamo, la sensazione iniziale è sempre quella della notte, non della luce; ci troviamo al massimo della nostra debolezza, senza forze. E come il rinnovo della prima reale esperienza che un uomo fa della vita in tutta la sua assurdità e solitudine, esperienza che prima gli era stata risparmiata dal calore della famiglia. Ogni mattina, nell’oscurità informe, scopriamo l’inerzia della vita. Perciò il primo tema del mattutino è di nuovo la venuta della luce nelle tenebre. Esso non comincia, come ai vespri, con la creazione, ma con la caduta. E tuttavia, in questa totale derelizione e disperazione, c’è una segreta attesa, una sete ed una fame. E in questa scena la Chiesa canta la sua gioia, non solo contro le tendenze della vita naturale, ma, al contrario, compiendole. La Chiesa annuncia ogni mattina che Dio è il Signore, e comincia ad organizzare la vita attorno a Dio. In chiesa, le prime luci del mattutino sono delle candele, come un presagio del sole. Poi sorge il sole, disperdendo le tenebre del mondo, e la Chiesa vede in questa aurora il sorgere della vera luce del mondo, il Figlio di Dio. Noi sappiamo che il nostro Redentore vive, e che in mezzo all’assurdità della vita Egli ci si rivelerà nuovamente. Anche se le sventure della vita “ci accerchiano da ogni parte”, tuttavia ogni mattina possiamo proclamare, col sorgere del sole, la venuta del Messia lungamente atteso. A dispetto di tutto, “questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore” (Sal 117,24.26). Man mano che la luce aumenta, l’ufficio ricongiunge il nuovo mattino al tempo nuovo. Come il vespro riferiva la sera all’intera esperienza cristiana del mondo come “sera”, cosi il mattutino riferisce l’aurora all’esperienza cristiana della Chiesa come “mattino” e inizio. Queste due dimensioni del tempo, complementari e tuttavia assolutamente essenziali, modellano la nostra vita nel tempo e, dando al tempo un senso nuovo, lo trasformano in tempo cristiano. Perciò dobbiamo applicare questa doppia esperienza a qualsiasi cosa abbiamo da fare. Noi siamo sempre ira mattino e sera, tra domenica e domenica, tra Pasqua e Pasqua, tra le due venute di Cristo. L’esperienza del tempo come fine dà un’importanza assoluta a qualsiasi cosa facciamo ora, le conferisce un carattere finale e decisivo. L’esperienza del tempo come inizio riempie tutto il nostro tempo di gioia, perché vi aggiunge il “coefficiente” dell’eternità. “Non morirò, resterò in vita e annunzierò le opere del Signore” (Sal 118,17). Noi siamo a lavoro nel mondo, e questo lavoro - in effetti, ogni lavoro -, se analizzato nei termini di questo mondo, diventa insignificante, futile, irrilevante. In tutte le città del mondo, ogni mattina c’è un flusso di gente pulita e rasata che va a lavoro. E ogni sera c’è un flusso della stessa gente, ora stanca e sporca, che va nella direzione opposta. Ma molto, molto tempo fa, un saggio ha guardato questo flusso (le sue forme mutano, ma non la sua assurdità) e ha detto: Vanità delle vanità. Tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Ora, nel momento in cui possiamo rendere grazie a Dio per Cristo, cominciamo a comprendere che tutto in Cristo è meravigliosamente trasfigurato nel suo vero splendore. Nello splendore della luce di Cristo il mondo non è banale. Il suolo stesso su cui stiamo è un miracolo di atomi guizzanti nello spazio. Il buio del peccato si illumina e il suo peso viene alleviato. La morte è spogliata del suo carattere definitivo, calpestata dalla morte di Cristo. In un mondo dove ogni cosa che sembra appartenere al presente è già passata, tutto in Cristo diventa capace di partecipare all’eterno presente di Dio. Proprio questa sera è il tempo reale della nostra vita. E cosi arriviamo all’ultimo tema dei vespri: quello della fine. È il canto del Nunc dimittis a introdurlo. Nel vangelo si attribuiscono queste parole al vecchio Simeone, che aveva passato tutta la vita nella costante attesa del Messia che doveva venire, perché gli era stato detto in una visione che non sarebbe morto prima di vedere Colui che era la promessa di Israele. Quando Maria e Giuseppe portarono il bambino Gesù per presentarlo a Dio nel tempio, egli era là per riceverlo nelle sue braccia, e il vangelo ci dice che pronunciò queste parole: Ora lascia, o Signore che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola. Perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da Te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele. Simeone aveva atteso tutta la vita, e poi alla fine Cristo bambino gli fu dato: egli tenne la Vita del mondo nelle sue braccia. Simeone rappresentava il mondo intero nella sua attesa e nel suo desiderio, e le parole che usò per esprimere il suo rendimento di grazie sono diventate nostre. Egli poté riconoscere il Signore perché lo aveva aspettato; lo prese fra le braccia perché è naturale prendere fra le braccia qualcuno che si ama; e allora la sua vita di attesa si compì. Aveva veduto Colui che aveva desiderato. Aveva realizzato lo scopo della vita ed era pronto a morire. Ma la morte per lui non fu una catastrofe. Fu soltanto l'espressione naturale del compimento della sua attesa. Egli non chiudeva gli occhi alla luce che alla fine aveva visto; la sua morte fu solo Finizio di una visione più interiore di quella luce. Allo stesso modo, il vespro è il riconoscimento che è venuta la sera di questo mondo, sera che annuncia il Giorno senza tramonto. In questo mondo, ogni giorno ha dinanzi a sé la notte. Il mondo stesso ha dinanzi a sé la notte: non può durare per sempre. Eppure, la Chiesa afferma che la sera non è solo una fine, ma anche un inizio, proprio come ogni sera è anche Finizio di un altro giorno. In Cristo e attraverso Cristo questa sera può diventare l’inizio di una nuova vita, del giorno senza tramonto, perché i nostri occhi hanno visto la salvezza ed una luce che non verrà mai meno. E per questa ragione il tempo di questo mondo è ora fecondo di nuova vita. Noi veniamo alla presenza di Cristo per offrirgli il nostro tempo, tendiamo le braccia per riceverlo. Ed Egli riempie questo tempo della sua presenza, lo salva e ne fa continuamente il tempo della salvezza. l’Eucaristia come l’ottavo e il primo giorno, dava a tutti i giorni il loro vero significato. Faceva del tempo di questo mondo il tempo della fine, e ne faceva altresì il tempo del principio. 4 Dobbiamo ora considerare la seconda dimensione dell’esperienza cristiana del tempo, cioè l’“anno cristiano”. Ma parlare di questo è ancora più difficile che parlare della domenica, perché per i cristiani moderni la relazione tra questo “anno cristiano” e il tempo è diventata incomprensibile e, di conseguenza, irrilevante. In certe date, la Chiesa commemora certi eventi del passato — natività, risurrezione, discesa dello Spirito Santo. Queste date sono l’occasione per una “illustrazione” liturgica di certe affermazioni teologiche, ma, in quanto tali, non hanno nessun legame con il tempo reale e nessuna conseguenza per esso. Persino all’interno della Chiesa tali date sono semplici “interruzioni” nella normale routine delle sue attività, e molti cristiani dallo spirito pratico considerano segreta- mente queste feste e queste celebrazioni come una perdita di tempo. E se altri cristiani le accolgono volentieri come giorni supplementari di riposo e di “vacanza”, nessuno pensa seriamente ad esse come al cuore stesso della vita e della missione della Chiesa. Esiste, in altre parole, una seria crisi nell’idea stessa di festa, ed è da qui che dobbiamo cominciare la nostra breve analisi dell’anno cristiano. Festa vuol dire, gioia. Eppure, se c’è qualcosa che noi - i cristiani seri, adulti e frustrati della nostra epoca - guardiamo con sospetto, è proprio la gioia. Come si può essere pieni di gioia quando cosi tanta gente soffre? Quando ci sono tante cose da fare? Come ci si può abbandonare a feste e celebrazioni quando la gente aspetta da noi delle risposte “serie” ai loro problemi? Consciamente o inconsciamente, i cristiani hanno accettato l’intero ethos della nostra civiltà senza gioia e tutta dedita alle cose pratiche. Essi credono che runico modo per esser “presi sul serio” dalle persone “serie” - cioè dall’uomo moderno - sia l’essere seri e, perciò, ridurre ad un “minimo” simbolico ciò che nel passato aveva un ruolo centrale nella vita della Chiesa: la gioia di una festa. Il mondo moderno ha relegato la gioia alla categoria del “divertimento” e del “relax”. La si può giustificare e permettere nel “tempo libero”; è una concessione, un compromesso. E i cristiani sono arrivati a crederci. O piuttosto hanno smesso di credere che la festa, la gioia abbiano qualcosa a che fare proprio con i “problemi seri” della vita, forse anche che siano la soluzione cristiana a tali problemi. Con tutti questi significati spirituali e culturali, l’“anno cristiano” - la successione di commemorazioni e celebrazioni liturgiche - ha cessato di essere una fonte di energia ed è ormai considerato come un elemento decorativo e antiquato della religione. È usato nell’educazione religiosa come una specie di sussidio audiovisivo , ma non e più né la radice della vita e dell’azione cristiana, né una mèta” verso cui esse siano orientate. Per comprendere la natura e la “funzione” vere delle feste, dobbiamo ricordare che il cristianesimo è nato ed è stato predicato dapprima in culture nelle quali feste e celebrazioni erano un elemento organico ed essenziale di tutta la concezione del mondo e dello stile di vita. Per l’uomo del passato, una festa non era qualcosa di accidentale e di aggiunto: era il suo modo di dare significato alla vita, di liberarla dal ritmo animale del lavoro e del riposo. Una festa non era una semplice “interruzione” in una vita di lavoro altrimenti insignificante e dura, ma una giustificazione di questo lavoro, il suo frutto, la sua - per cosi dire - trasformazione sacramentale in gioia e, dunque, in libertà. Una festa era perciò sempre connessa profondamente ed organicamente con il tempo, con i cicli naturali del tempo, con finterà struttura della vita dell’uomo nel mondo. E, lo vogliamo o no, ci piaccia o no, il cristianesimo ha accettato e fatto suo questo fenomeno umano fondamentale della festa, come ha accettato e fatto suo tutto l’uomo e tutti i suoi bisogni. Ma, come in tutto il resto, i cristiani non si sono accontentati di accettare la festa dandole un nuovo significato, trasformandone il “contenuto”, ma l’hanno assunta con la totalità dell’uomo “naturale”, attraverso la morte e la risurrezione. Si, come abbiamo già detto, il cristianesimo è stato, da una parte, la fine di ogni gioia naturale. Ha rivelato la sua impossibilità, la sua futilità, la sua tristezza, perché, rivelando l’uomo perfetto, ha rivelato nello stesso tempo l’abisso che separa l’uomo da Dio e l’inesauribile tristezza di questa separazione. La croce di Cristo ha significato la fine di ogni allegria “naturale”, l’ha resa, effettivamente, impossibile. Da questo punto di vista, la triste “serietà” dell’uomo moderno è certamente di origine cristiana, anche se questo stesso uomo l’ha dimenticato. Da quando il Vangelo è stato predicato in questo mondo, tutti i tentativi di tornare ad una pura “gioia pagana”, tutti i “rinascimenti”, ogni “sano ottimismo” erano destinati a fallire “Non c’è che una sola tristezza”, diceva Leon Bloy “quella di non essere santi”. Ed è questa tristezza a pervadere misteriosamente tutta la vita del mondo, la sua frenetica e patetica fame e sete di perfezione, a uccidere ogni gioia. Il cristianesimo ha reso semplicemente impossibile rallegrarsi dei cicli naturali - dei raccolti, e delle lune nuove. Relegando la perfezione della gioia al futuro inaccessibile - come mèta e termine di ogni lavoro - ha fatto della vita umana uno “sforzo”, un “lavoro”. Eppure, d’altro canto, il cristianesimo è stato la rivelazione e il dono della gioia, e pertanto il dono della festa autentica. Ogni sabato notte, alla vigilia della risurrezione, noi cantiamo: “perché, mediante la croce è venuta al mondo intero la gioia”. Questa gioia è gioia allo stato puro, perché non dipende da nessuna cosa di questo mondo, non è la ricompensa per nessuna cosa nostra. E totalmente e assolutamente un dono, chàris, grazia. Dono gratuito, questa gioia ha un potere di trasformazione, l’unico potere di reale trasformazione in questo mondo. È il “sigillo” dello Spirito Santo posto sulla vita della Chiesa, sulla sua fede, sulla sua speranza e sul suo amore. Benedici il Signore, anima mia. Signore, mio Dio quanto sei grande... Quanto sono grandi, Signore, le tue opere. Tutto hai fatto con saggezza, la terra è piena delle tue creature... Voglio cantare al Signore finché ho vita, cantare al mio Dio finché esisto (Sal 104). È cosi che deve essere. Ci dev’essere qualcuno in questo mondo - che ha rifiutato Dio e in questo rifiuto, in questa bestemmia, è diventato un caos di tenebre - ci dev’essere qualcuno che sappia starne al centro e lo sappia discernere, lo sappia vedere di nuovo pieno della ricchezza divina, come il calice colmo di vita e di gioia, come bellezza e sapienza, e sappia rendere grazie a Dio per questo. Questo “qualcuno” è Cristo, il nuovo Adamo, che ristabilisce quella “vita eucaristica” che io, il vecchio Adamo, ho rigettato e perduto; qualcuno che fa di me nuovamente quello che sono, e che mi restituisce il mondo. E se la Chiesa è in Cristo, il suo atto primario è sempre questo rendimento di grazie, di restituzione del mondo a Dio. Nel contrasto con la bellezza e la meraviglia della creazione, comunque, si scorge la tenebra e il fallimento del mondo: è il secondo grande tema dei vespri. Se il Salmo 104 dice il vero, il mondo come noi lo conosciamo è - per contrasto - un incubo. Proprio perché prima abbiamo visto la bellezza del mondo, possiamo ora vederne la bruttezza, renderci conto di ciò che abbiamo perduto, comprendere che tutta la nostra vita (e non solo alcune “trasgressioni”) è divenuta peccato, e possiamo pentirci. Le luci sono ancora spente. Le “porte regali” del santuario sono chiuse. Il celebrante si è tolto i paramenti; è l’uomo nudo e dolente che piange fuori del paradiso e, nella piena consapevolezza del proprio esilio, del proprio tradimento, della propria tenebra, dice a Dio: “Dal profondo a te grido, Signore” (Sal 130,1). Di fronte alla gloria della creazione ci dev’essere una tremenda tristezza. Dio ci ha dato un altro giorno, e noi possiamo vedere come abbiamo distrutto questo suo dono. Noi non siamo “buoni” cristiani, separati dalla bruttezza del mondo. Se non ci sentiamo precisamente come rappresentanti di questo mondo, anzi come il mondo stesso, se non portiamo tutto il peso di questo giorno, la nostra “pietà” può pure essere pia, ma non è cristiana. Viene ora il terzo tema dei vespri: la redenzione. In questo mondo di peccato e di buio, è venuta la luce: “Luce gioiosa della santa gloria del Padre, immortale, celeste, santo, benedetto, Gesù Cristo”. Il mondo è giunto alla sua sera perché Colui che porta al mondo il significato finale è venuto; nel buio di questo mondo, la luce di Cristo rivela nuovamente la vera natura delle cose. Questo non è il mondo che era prima che Cristo venisse: questa venuta ora appartiene al mondo. L’evento decisivo del cosmo ha avuto luogo. Sappiamo ora che f evento di Cristo deve trasformare ogni cosa che abbia a che fare con la nostra vita. Solo a causa di Cristo abbiamo potuto glorificare il creato all’inizio dei vespri con tutto il cuore, solo perché Egli ci ha dato gli occhi per “scorgere la benevola mano di Dio in tutte le sue opere”. Chiesa potrebbe compiere questa missione, come potrebbe essere la salvezza del mondo, se non fosse, prima di tutto e al di sopra di tutto, il divino dono della gioia, la fragranza dello Spirito Santo, la presenza qui nel tempo della festa del regno? 6 Dopo la settimana e l’anno, ecco il giorno: l’unità di tempo più diretta e immediata. E qui, nella realtà della vita quotidiana, che la teologia del tempo, espressa nell’esperienza della domenica e della Pasqua, deve trovare la sua applicazione. Certo, ci rendiamo conto che il ciclo quotidiano di uffici, abbandonato molto tempo fa, non ha molte probabilità di essere ristabilito. Eppure, quel che deve essere ristabilito, o meglio, riscoperto, è il rapporto della Chiesa e del singolo cristiano col tempo del giorno, rapporto che era (e che è tuttora, in teoria) il tema, il contenuto degli uffici quotidiani. Perché questi non erano destinati ad essere “occasioni di preghiera”, periodi di ristoro spirituale e di “pace dell’anima”, ma vere e proprie azioni liturgiche, cioè azioni compiute per tutta la comunità e a suo nome, come parte essenziale della missione redentrice della Chiesa. Contrariamente alla nostra esperienza secolare del tempo, il giorno liturgico comincia con i vespri, cioè di sera. E, si capisce, la reminiscenza del biblico: “E fu sera e fu mattina, primo giorno” (Gen 1,5). Ma è più che una reminiscenza. Infatti è la fine di ogni “unità” di tempo a rivelarne il disegno e il significato, a dare al tempo la sua realtà. Il tempo è sempre una crescita, ma solo alla fine possiamo discernere la direzione di quella crescita e vedere i suoi frutti. E alla fine, alla sera di ogni giorno che Dio vede che la sua creazione è buona. E alla fine della creazione che Egli la dona all’uomo. E cosi, è alla fine del giorno che la Chiesa comincia la liturgia di santificazione del tempo. Quando veniamo in chiesa, noi che siamo nel mondo abbiamo vissuto diverse ore, e queste ore sono piene, come di solito, di lavoro e di riposo, di sofferenza e di gioia, di odio e di amore. Degli uomini sono morti e altri sono nati. Per alcuni, è stato il giorno più felice della loro vita, un giorno da ricordare per sempre. Per altri, questo giorno ha portato la fine di tutte le loro speranze, la distruzione della loro stessa anima. Ed ecco, il giorno intero è qui: unico, irreversibile, irreparabile. Esso è passato, ma i suoi risultati, i suoi frutti modelleranno il giorno successivo, perché ciò che abbiamo fatto una volta rimane per sempre. Ma l’ufficio vespertino non comincia come un “epilogo” religioso del giorno, come una preghiera aggiunta a tutte le altre sue esperienze. Comincia dall’inizio, il che significa con la “riscoperta”, nell’adorazione e nel rendimento di grazie, del mondo come creazione di Dio. La Chiesa ci porta, per cosi dire, a quella prima sera in cui l’uomo, chiamato da Dio alla vita, apri gli occhi e vide quello che Dio nel suo amore gli donava, vide tutta la bellezza, tutta la gloria del tempio in cui si trovava, e rese grazie a Dio. E in questo rendimento di grazie egli divenne se stesso. 5 “Mediante la croce è venuta al mondo intero la gioia…” - e non solo ad alcuni uomini come loro gioia personale e privata. Ancora una volta, se il cristianesimo fosse un puro “misticismo”, una pura escatologia”, non ci sarebbe bisogno di feste e di celebrazioni. Un’anima santa celebrerebbe la sua festa in segreto, separata dal mondo, per essere liberata dal suo tempo. Ma la gioia è stata data alla Chiesa per il mondo, perché la Chiesa ne sia testimone e trasformi il mondo mediante la gioia. Questa è la “funzione” delle feste cristiane e il significato del loro appartenere al tempo. Oggi per noi Pasqua e Pentecoste - per limitarci alle due feste più antiche e fondamentali che danno all’anno cristiano il suo vero significato — sono principalmente le commemorazioni annuali di due eventi del passato: la risurrezione di Cristo e la discesa dello Spirito Santo. Ma che cosa significa “commemorazione”? Non è forse tutta la vita della Chiesa un costante ricordo della morte e della risurrezione di Cristo? Non è tutta la sua vita chiamata ad essere la manifestazione dello Spirito Santo? Nella Chiesa ortodossa, ogni domenica è il giorno della risurrezione ed ogni Eucaristia una Pentecoste. Ma la concezione delle feste come commemorazioni storiche, che si è fatta strada a poco a poco dopo Costantino, ha significato una trasformazione del loro senso iniziale e, per quanto strano possa sembrare, le ha separate dalla loro connessione vitale con il tempo reale. Cosi, oggi in Australia si celebra la Pasqua in autunno, e nessuno sembra trovarlo strano, perché per molti secoli il calendario cristiano è stato inteso come un sistema di giorni santi da osservare all’interno del tempo, cioè fra i giorni “profani”, ma senza alcuna speciale relazione con essi. Ma se la Chiesa primitiva ha adottato, o piuttosto semplicemente ha conservato come sue le grandi feste ebraiche di Pasqua e Pentecoste, non è stato perché esse le ricordavano la risurrezione di Cristo e la venuta dello Spirito (il loro ricordo era l’essenza stessa di tutta la vita della Chiesa), ma perché erano, anche prima di Cristo, l’annuncio, l’anticipazione di quella esperienza del tempo e della vita nel tempo di cui la Chiesa era la manifestazione e il compimento. Erano - per usare un’altra immagine - la “materia” di un sacramento del tempo che la Chiesa doveva celebrare. Noi sappiamo che entrambe le feste sorsero come celebrazione annuale della primavera e delle primizie della natura. Sotto questo aspetto, erano proprio l’espressione della festa come gioia dell'uomo per la vita. Celebravano il mondo che ritorna alla vita dopo la morte dell’inverno, che diventava di nuovo cibo e vita dell’uomo. Ed è molto significativo che questa festa, la più “naturale”, onnicomprensiva ed universale - cioè la festa della vita - sia diventata il punto di partenza e il fondamento della lunga trasformazione della nozione e dell’esperienza della festa. È egualmente significativo che, in questa trasformazione, ogni nuovo stadio non abbia abolito il precedente e si sia accontentato di rimpiazzarlo, ma lo abbia sviluppato dandogli un senso ancora più profondo e più grande, finché tutto il processo ha avuto il suo compimento in Cristo. Il mistero del tempo naturale, la schiavitù all’inverno e la liberazione in primavera, si è compiuto nel mistero del tempo come storia: la schiavitù dell Egitto e la liberazione nella terra promessa. E il mistero del tempo storico è stato trasformato nel mistero del tempo escatologico, della sua comprensione come “pasqua” - cioè “passaggio” alla gioia definitiva della salvezza e della redenzione -, come movimento verso la pienezza del regno. E quando Cristo - “nostra Pasqua” (1Cor 5,7) - ha compiuto il suo passaggio al Padre, ha assunto e realizzato tutti questi significati, finterò movimento del tempo in tutte le sue dimensioni. E nell’“ultimo e grande giorno di Pentecoste” Egli ha inaugurato il tempo nuovo, il nuovo “eone” dello Spirito. Cosi la Pasqua non è la commemorazione di un evento, ma - ogni anno - la pienezza del tempo, del nostro tempo reale. Perché noi viviamo ancora nelle stesse tre dimensioni del tempo: nel mondo della natura, nel mondo della storia, nel mondo dell’attesa. E in ciascuna di esse l’uomo è segretamente alla ricerca della gioia, cioè di un significato e di una perfezione definitivi, di una pienezza suprema che egli non trova. Il tempo rimanda sempre ad una festa, ad una gioia, che di per sé esso non può dare né realizzare. Cosi bisognoso di significato, il tempo diventa la forma e l’immagine stessa dell’assurdo. Ma nella notte di Pasqua il senso è dato. E non è dato con una “spiegazione” e nemmeno con una “commemorazione”, ma come dono della gioia stessa, la gioia della partecipazione al nuovo tempo del regno. Per farne esperienza, bisogna entrare in una chiesa ortodossa nella notte di Pasqua, dopo che la processione ha fatto il giro intorno alla chiesa e si è fermata nel buio davanti alla porta chiusa. Ed ora le porte vengono aperte con l’annuncio: “Cristo è risorto!”. La celebrazione pasquale è cominciata. Che cos’è questa notte, della quale san Gregorio di Nissa dice che brilla più del giorno e che gli ortodossi chiamano la “notte della luce”? Si potrebbero descrivere i vari riti, si potrebbero analizzare i testi, si potrebbero citare migliaia di particolari, ma alla fine tutto questo è secondario. L’unica realtà è la gioia, e questa gioia è data. Entrate tutti nella gioia del nostro Signore, ... ricchi e poveri, danzate in coro insieme. Godete le ricchezze della bontà... Nessuno lamenti la propria miseria, perché il regno universale è stato rivelato. L’ufficio pasquale non è altro che una risposta a questa gioia, la sua accettazione, la sua celebrazione, l’affermazione della sua realtà. Pasqua del Signore, pasqua! Dalla morte alla vita, dalla terra ai cieli, ci ha fatti passare il Cristo Dio... Ora tutto è ricolmo di luce, il cielo, la terra e le regioni sotterranee: tutto il creato festeggi la risurrezione di Cristo, nella quale è stato rafforzato... Festeggiamo la morte della morte, la distruzione dell’ade, la primizia di un’altra vita, eterna, e cantiamo tripudianti Colui che ne è la causa... È questo il giorno di santa convocazione, il giorno uno della settimana, il giorno regale e sovrano, festa delle feste, solennità delle solennità, ... O pasqua grande, sacratissima, o Cristo! O sapienza, Verbo e potenza di Dio, donaci più perfetta comunione con te nel giorno senza sera del tuo regno. Ho chiamato la Pasqua il “sacramento del tempo”. E infatti la gioia concessa in quella notte, la luce che trasforma la notte in una notte “più luminosa del giorno”, devono diventare la gioia segreta e il significato ultimo di tutto il tempo, e cosi trasformare l’anno in un “anno cristiano”. Dopo la notte di Pasqua viene il mattino, e poi un’altra notte e un altro nuovo giorno. Il tempo ricomincia, ma ormai è pieno dal “di dentro” di questa esperienza unica e veramente “escatologica” di gioia. Un raggio di sole sul muro tetro di una fabbrica, il sorriso su un volto, ogni mattino piovoso, la fatica di ogni sera - tutto è ora riferito a questa gioia e può non solo indicare al di là di sé, ma anche essere un segno, un sigillo, una segreta “presenza” di quella gioia. Per cinquanta giorni dopo Pasqua ci è concesso di vivere nella gioia pasquale, di sperimentare il tempo come festa. Viene poi l’“ultimo e grande” giorno di Pentecoste e con esso il nostro ritorno al tempo reale di questo mondo. Ai vespri di questo giorno, per la prima volta dopo Pasqua i cristiani ricevono l’ordine di inginocchiarsi. La notte si avvicina, la notte del tempo e della storia, dello sforzo quotidiano, della fatica e delle tentazioni, di tutto l’inevitabile peso della vita. Il tempo di Pasqua è al suo termine, ma, mentre entriamo nella notte, noi sappiamo che la fine è stata trasformata in un inizio, che tutto il tempo è ormai il tempo dopo Pentecoste. Ecco perché contiamo tutte le domeniche a partire da questo giorno, fino al prossimo tempo di Pasqua. Questo è il tempo in cui la gioia del regno, la “pace e gioia” dello Spirito Santo sono all’opera. “Non ci sarà separazione, o amici, disse Cristo...”. II tempo stesso è ormai misurato in base al ritmo della fine e dell’inizio, della fine trasformata in inizio, dell’inizio che annuncia la pienezza. La Chiesa è nel tempo e la sua vita in questo mondo è digiuno, cioè una vita di sforzo, di sacrificio, di rinuncia e di morte. La missione stessa della Chiesa è di farsi tutto a tutti gli uomini. Ma come la