La geografia dell`anima di

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La geografia dell`anima di
Personaggi | Un cantastorie fra la via Emilia e il West
Alla soglia dei settant’anni, l’autore di «Dio è morto»
affida a un’autobiografia i suoi ricordi
La geografia
dell’anima di
Francesco
uccini
G
Pàvana dell’infanzia, Modena e la scena beat
degli anni Sessanta, Bologna e le osterie
che ormai sono scomparse. Guccini racconta le tappe
del lungo percorso che lo ha portato a essere
uno dei musicisti italiani più amati.
Anche dalle nuove generazioni
di Ida Meneghello - foto Elisabetta Baracchi
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o so che viso avesse e come si chiamava. Viene voglia di cominciarla così questa storia, cambiando un po' l'attacco di una canzone che ha attraversato la nostra e le generazioni che sono
venute dopo, come se «La locomotiva» che ha macinato anni e chilometri («la più bella canzone popolare del dopoguerra», secondo
Roberto Leydi, etnomusicologo, fra i maggiori indagatori e conoscitori del mondo popolare italiano) offrisse lo specchio migliore di noi
e di chi l'ha scritta. Sarà che alla boa dei settanta viene naturale
fare un bilancio, sarà che a ogni suo concerto si ripete il fenomeno
misterioso di un'identificazione di massa che va ben oltre una
generazione e fa incontrare ormai non solo i padri e i figli, ma pure
i nonni, fatto sta che leggere la sua autobiografia che si intitola,
appunto, «Non so che viso avesse» (uscito per i tipi di Mondadori), è
un modo per tirare fuori dal cassetto non solo i ricordi della sua
bella vita, di ciò che è stato prima di salire sul palcoscenico dove
tutti lo abbiamo conosciuto, ma anche per raccontare i tanti mondi
che si incrociano in Francesco Guccini, di mestiere cantautore e
scrittore di storie, malgrado lui icona, schiva e non televisiva, in un
I
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Personaggi
tempo in cui i cantautori non esistono più.
Il viaggio della locomotiva gucciniana
non può che essere una traversata di luoghi. Infatti comincia a Pàvana, la terra
ancestrale dei ricordi dove «tutto è avvolto
in una specie di nostalgia, che è poi quella
dell'infanzia e dell'adolescenza», il paese
dove i Guccini avevano da secoli un mulino
ad acqua e dove le favole e le storie reali
(come quella della faida cinquecentesca
con la famiglia Biagi, gli antenati di Enzo)
si intrecciano seguendo il ritmo lento delle
pale e del torrente Limentra che le fa girare. Racconti di un'infanzia negli echi della
guerra, un mondo popolato di zie e di nonne, come quella che sapeva «segnare» certe
malattie e che avrebbe segnato la vita di
Francesco regalandogli la prima armonica
a bocca e la prima chitarra. Così che «forse
già da allora potevo scegliere solo se essere
mago o cantautore», scrive. Radici che
Guccini porta con sé e che gli trasmettono
quell'«imprinting incancellabile» che lo
rende uguale a se stesso, ciò che «sono stato e sono ancora oggi, a tanti anni di distanza».
La locomotiva lascia Pàvana alla fine
della guerra, scende in pianura, arriva a
Modena, e per il piccolo Francesco quel «forzato ritorno» deciso dai genitori diventa la
fine della libertà. Un disagio che dopo anni
Guccini avrebbe tradotto nella celebre formula della «piccola città bastardo posto», a
conferma che lui «modenese» non si è mai
sentito. «Sono capitato a Modena alla fine
del 1945 e forse non sarei diventato cantautore se non avessi vissuto lì fino al 1960»,
ammette oggi. E come scrive nel capitolo indirizzato all'amico Bonvi «dico Modena, ricordi? Quella città che tutti e due abbandonammo, città pecorina, dicevi (pecorino, qualunque cosa volesse dire, era uno dei tuoi
aggettivi di disprezzo preferiti, quasi a
significare che tu, modenese come pochi altri, ti sentivi chiamato a più alti ideali e
orizzonti). Maledizione, pensavi, perché non
essere nato, che so, a Rio De Janeiro o avere
trascorso anni, un nome solo, a Buenos
Aires, anzi, a Baires, come diciamo abitualmente noi portegnos. Invece veniamo da lì,
fra Panaro e Secchia, pensa che rabbia».
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Un Forum Monzani tutto esaurito è stata la risposta dei modenesi
alla serata che, a fine marzo, Francesco Guccini si è concesso in città
per presentare il suo ultimo libro. Un’occasione anche per riabbracciare
un nutrito gruppo di amici, alcuni dei quali di lunghissima data
Sul palco. da sinistra: Guido De Maria, Alberto Bertoni, Beppe Cottafavi,
Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Marco Miana e Roberto Alperoli
Lo studioso | Guccini secondo Alberto Bertoni
Vita e opere di Francesco» è il
titolo del contributo che l’italianista, e amico, Alberto Bertoni
fa seguire alle pagine che compongono quella che lo stesso
Guccini definisce «quasi un’autobiografia», sottotitolo della seconda edizione di «Non so che viso
avesse», a conferma che «la storia della mia vita» (sottotitolo
della prima edizione), Guccini non
l’avrebbe mai scritta, come si
legge nelle brevi righe che introducono l’analisi di Bertoni: «Francesco Guccini, per pudore e inusitata ritrosia, non ama parlare del
proprio lavoro e soprattutto delle
proprie canzoni».
Ecco allora entrare in scena chi
da tempo conosceva il profilo biografico del cantautore, scritto recuperando pazientemente le tracce del suo passaggio nei luoghi
favolosi dell’infanzia a Pàvana e
nella redazione della Gazzetta
dell’Emilia a Modena. È quindi nelle migliori condizioni per fornire
al lettore un sussidio imperdibile
capace di interpretare la complessità del percorso gucciniano,
«
rivelando contemporaneamente
quanto Guccini e l’amico critico
abbiano in comune. In primis, la
«modenesità», oggetto di un
gioco complice in cui Bertoni individua in Guccini la quintessenza
di questa identità e Guccini la
rifiuta, considerandosi esclusivamente pavanese. Poi, il riconoscersi nello stesso maestro, l’italianista Ezio Raimondi. Infine e
soprattutto la condivisione della
stessa passione per la parola,
scritta o cantata che sia, fatto
grammaticale, storico e linguistico. Ne nasce una curiosa autobiografia in due tempi e a quattro
mani in cui, alla nota impossibilità di Guccini di erigere un monumento alla propria poetica, fa da
controcanto la lettura filologicamente perfetta dell’amico esperto
di poesia contemporanea: «impresa luciferina», secondo Bertoni, destinata forse a rispondere
definitivamente al quesito se i
cantautori siano o meno poeti. Il
risultato finale dimostra ampiamente che l’alchimia tra il cantautore e il professore funziona,
La copertina dell’autobiografia
di «Guccio», il diminutivo
con cui gli amici e i fan
chiamano Francesco Guccini
anche se chi ne ha seguita la
gestazione giura che il libro si
basa in realtà su una catena di
paradossi, a cominciare dall’ossimoro di un personaggio che calca
le scene da mezzo secolo e che
tuttavia rifiuta qualsiasi forma di
esibizione, non accetta di essere
inserito in categorie musicali né
tanto meno politiche, non si concede alla platea mediatica della
televisione, ma solo al contatto
diretto col suo pubblico. Che,
inspiegabilmente, si alimenta col
passare degli anni di nuove generazioni di fan.
Bertoni prova a spiegare il mistero sostenendo che «Francesco
Guccini tende sempre a scavare
fino alle radici della propria gente
e della propria terra. E questo è
senz’altro il primo segreto di una
durata e di un successo che raggiungono ormai quasi il mezzo
secolo, oltre che di quel sigillo di
onestà e di verità che Guccini si
porta dentro fin dall’inizio della
sua carriera di cantautore». Concludendo che «la verità, per lui,
deve essere cercata nei particolari delle singole vite e delle singole vicende, mai negli universali e
negli slogan delle parole d’ordine
collettive, perché le nostre, come
la sua, sono in tutto e per tutto
storie misteriose scolpite nei
sassi».
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Personaggi | Un cantastorie fra la via Emilia e il West
Uno sfogo che la dice lunga sul rapporto di Guccini
con Modena. «Non è mai stato il mio posto delle fragole, lì non ho radici, non ho parenti, non ho i miei morti». Eppure è proprio in questa provincia che Francesco sente soffocante, «domeniche solitarie e festine
da ballo dove ognuno metteva cento lire per comprare
le paste e dove al posto del verbo ballare si diceva
ancora tangare», che si forma quello strano gruppo di
amici che non si interessava di sport ma di musica e
letteratura americana e da cui sarebbero uscite formazioni mitiche come l'Equipe 84 e i Nomadi, il genio anarchico di Franco Bonvicini, il vulcanico Guido De Maria
e lo stesso Guccini. A riprova che quella provincia at-
traversata dalla via Emilia poteva diventare una favolosa fucina di talenti, soprattutto se forniti della fantasia necessaria a intravedere dietro ogni curva il West.
Amicizie di strada destinate a durare una vita. Per anni
Bonvi e Francesco avrebbero mantenuto la consuetudine di ritrovarsi al Tinello, la trattoria nel ghetto di
Bologna, dove ancora oggi si conserva il conto di una
consumazione esemplare del creatore del fumetto
«Sturmtruppen»: un brodo e cinque whiskey.
Ma la «piccola città» sarebbe stata per Guccini anche
il luogo del primo lavoro importante, il giornalismo, il
sogno dei suoi diciotto anni, «del resto la passione per la
scrittura ce l'avevo fin da bambino perché ero un letto-
Per Guccini
il rapporto
con Modena
è complesso.
Non vi sente
le sue radici,
ma è la città
dove si forma
il gruppo
di amici che
si interessava
non di sport
ma di musica
e letteratura
americana
e da cui
sarebbero uscite
formazioni
mitiche
come l'Equipe 84
e i Nomadi,
il genio anarchico
di Franco
Bonvicini
e il vulcanico
Guido De Maria
Il profilo | Mezzo secolo di parole e musica
F
rancesco Guccini nasce a Modena il 14 giugno 1940, trascorre i primi anni dell’infanzia sull’Appennino tosco-emiliano, a Pàvana, per poi far ritorno a Modena
dove, nel 1958, consegue la maturità magistrale e ha la prima esperienza lavorativa come cronista alla Gazzetta dell’Emilia a Modena.
Nel 1967 esce il suo primo album
«Folk beat n.1». Nella sua lunga
carriera ha pubblicato 22 album di
cui cinque live e due collezioni. Tra
le sue più celebri canzoni si ricordano «Noi non ci saremo», «Dio è
morto» (portata alla notorietà dai
Nomadi nel 1967), e «La locomotiva» (1972).
Come scrittore Francesco Guccini
ha pubblicato undici libri, sperimentando diversi generi, tra cui
una trilogia autobiografica («Cròniche Epafàniche» del 1989, «Vacca
d'un cane» del 1993 e nel 2003 «Cittanova blues»); nel 1997 esce «Macaroni», il primo dei cinque romanzi gialli realizzati a quattro
mani con lo scrittore Loriano Macchiavelli. L’anno successivo esce
«Dizionario del dialetto di Pàvana»,
testimonianza del talento lessicografico del cantautore.
Meno conosciuta al grande pubblico è la passione per i fumetti: Guccini è stato autore e sceneggiatore
di diversi racconti tra cui le «Storie
dello spazio profondo», disegnate
dall’amico Bonvi (al secolo Franco
Bonvicini, straordinario ideatore di
fumetti tra cui Nick Carter e Sturmtruppen) e pubblicate a partire dal
1969 sulla rivista «Psyco». Con Bonvicini e Guido De Maria alla metà
degli anni ‘60 si occupa anche di
pubblicità (è loro la reclame degli
sciroppi Fabbri su «Carosello»).
L’attività di Francesco Guccini come attore e autore di cinema inizia
nel 1976; da allora ha partecipato a
sei film, tra cui «Radiofreccia», del
1998, che segna il debutto come
regista dell’amico cantante Luciano Ligabue.
Il 21 ottobre 2002 ha ricevuto la lau-
rea honoris causa in Scienze della
formazione primaria dalle Università di Modena, Reggio Emilia e
Bologna. Il 26 maggio 2004 il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, l’ha insignito del titolo
di Ufficiale dell’Ordine al Merito
della Repubblica italiana.
L’8 dicembre 2007 il suo «Tango e
gli altri. Romanzo di una raffica,
anzi tre» vince il premio Scerbanenco con la motivazione che «imperniato su un lontano delitto dei
giorni delle brigate partigiane, il
romanzo esprime, con collaudata
perizia narrativa, un attualissimo
desiderio di non rifuggire le verità
della storia».
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Personaggi | Un cantastorie fra la via Emilia e il West
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re accanito e quando si legge tanto viene naturale scrivere. Perciò volevo fare il giornalista, per poi diventare uno scrittore». Le storie minime nella redazione
della Gazzetta dell'Emilia, dove i titoli si componevano ancora a mano e il giornale era una bottega per imparare il mestiere, sono tra le pagine più godibili dell'autobiografia, rivelando quanto questa esperienza
abbia pesato nella scoperta della «vena istintiva di raccontatore di storie» di Francesco. Una vena che avrebbe fornito la linfa migliore al giovane, trasformatosi
nel frattempo in orchestrale da balera e poi cantautore nella Bologna dei Sessanta, destinato alla fama a
dispetto della sua inguaribile timidezza, prima nella
dimensione privata delle osterie e poi in quella pubblica dei concerti.
Nel suo vagare tra luoghi e ricordi, Francesco si
ferma su questa soglia, la vigilia della notorietà. Del
resto la sua incapacità di celebrarsi è cosa nota, come
è noto che non ha mai accettato etichette: non è un poeta, non è un sociologo, non è un politico, anche se meglio di molti altri incarna da mezzo secolo quel miscuglio di ingegno padano, arguzia contadina, valori civili e sano pragmatismo che identifica nel sentire comune l'Emilia come terra d'eccellenza. Se c'è un filo conduttore in un discorso che potrebbe essere infinito intorno a Guccini e alle sue radici, è in definitiva il valore
che attribuisce alla parola, all'accento con cui quella
parola è pronunciata e diventa voce, e la voce diventa
canto. «Tante volte mi hanno chiesto perché proprio
qui sono nati tutti questi cantanti e complessi che hanno fatto la storia dell'Italia musicale del dopoguerra, i
Nomadi e l'Equipe, Morandi e la Caselli, Dalla, Bertoli
e poi Ligabue, Carboni, Zucchero e Vasco. Lucio ha sempre sostenuto che è merito della via Emilia, quell'auto-
strada che da secoli mette insieme la gente e ci fa pensare che in fondo siamo nati tutti nella stessa via. Invece per me c'è un'altra spiegazione, tutto questo cantare è l'eredità della civiltà contadina che aveva bisogno della musica e del ballo per ritrovarsi, per riconoscersi». Se ci fosse un Pantheon emiliano, Guccini ci
starebbe a pieno titolo, lui che in politica è sempre stato iscritto all'«anarchia dell'innocenza», come direbbe
Shel Shapiro, cantante e musicista tre le icone del beat.
«Dicono che le mie canzoni attraversano le generazioni, ma non sono io, che sto ormai invecchiando, sono le
parole a essere più forti degli anni che passano. Certamente canzoni come "Dio è morto" o "Auschwitz" funzionano ancora dopo quarant'anni. E forse è proprio questo, essere rimasti fedeli a se stessi, non aver mai indossato una maschera, non aver mai finto, forse questa è l'unica spiegazione. Io sono così».
Guccini non ama
la celebrità
e non ha mai
accettato
etichette:
non è un poeta
né un sociologo
né un politico,
anche se da
mezzo secolo
incarna
quel miscuglio
di ingegno
padano,
arguzia
contadina,
valori civili
e sano
pragmatismo
che identificano
l’Emilia
Il bilancio del cantautore
22
album realizzati
(da «Folk beat n.1» del 1967 ad «Anfiteatro live» del 2005)
Oltre un MIGLIAIO di serate e concerti in 50 anni di attività
11 libri scritti da solo o con altri autori
(da «Cròniche Epafàniche» del 1989
a «Non so che viso avesse» del 2010)
Viene studiato nelle scuole come esempio di poeta contemporaneo
e nel 1992 ha ricevuto il Premio Librex Montale
per la sezione «Versi in musica»
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