estratto pdf - Bibliotheka Edizioni

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estratto pdf - Bibliotheka Edizioni
EMANUELE BERTOLANI
TRUONG MYCHAU
IO RICORDO
DI AMARE
Romantico
© 2013 Bibliotheka Edizioni
di Eureka3 S.r.l.
I edizione dicembre 2013
Stampato da Eureka3, Roma
ISBN 978-88-98801-20-6
www.bibliotheka.it
Progetto grafico © Eureka3
www.eureka3.it
Foto di copertina: Emanuele Bertolani
“Se è dunque chiaro – disse – che l’amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di attività, l’ardore, la tensione estrema
che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine, deve ricevere
il nome di amore. Di quale tipo d’azione si tratta? Me lo sai dire?”
“Certamente no – risposi – . Se lo sapessi, non sarei così pieno d’ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per
imparare quel che sai.”
“Allora – riprese – , te lo dirò io: amare, sia per il corpo che per l’anima, significa creare nella bellezza.”
(Platone – Il Simposio)
CAPITOLO 1
La strada si biforca non appena attraversato il torrente. Una parte si
inerpica coraggiosamente lungo il fianco della collina, descrivendo
ampi tornanti che sfiorano case eleganti circondate da giardini ben
irrigati. Le colline coltivate a grano giocano a nascondino con la vista. Il sole è ancora alto ma non abbacinante, e il grano sembra distendersi di piacere sotto una cascata di luce.
– Ecco i cassonetti dell’immondizia – pensa lei mentre cerca di orizzontarsi. Da tanto tempo non visita più questo luogo, e guidare la
macchina per zone sconosciute la mette a disagio. La strada si biforca nuovamente. La segue di nuovo a destra, parcheggiando su un
rettangolo di autobloccanti invasi da erbacce rinsecchite. Davanti a
lei un muro irto di spine, una siepe di una qualche pianta infernale
e permalosissima. Un cancello di ferro, un nome che la trascina immediatamente indietro nel tempo e nei ricordi, come se qualcuno le
mettesse all’improvviso la testa sott’acqua.
– Sarà pronto? – si domanda. Il cancello è aperto. Il bastardino di
casa la guarda accucciato all’ombra di una quercia, come se cercasse
di capire le sue intenzioni.
– Entro eh? – dice, rivolta al cane. Questi non fa una piega. Sbadiglia,
sbatte le mascelle nel vano tentativo di catturare una mosca.
Entra e chiude il cancello dietro di sé. Cammina su mattonelle rosa
intervallate da fughe grigie fino alla scala che conduce al giardino
sul retro. Il vento leggero fa ondeggiare i rami carichi di un pesco
che si agitano come la braccia di un mercante intento a decantare la
propria merce.
– Ha pulito tutto – dice sottovoce. Il giardino non è come lo ricordava. L’erbaccia è sparita, i rami secchi potati, le rose più vive che
mai, malgrado la canicola estiva. Nemmeno le foglie secche sono
più al loro posto. Si è dato da fare con vanga e zappa, rastrello e
annaffiatoio.
Tutto per niente, pensa con un sorriso amaro.
Lo vede subito, seduto con le spalle appoggiate a una ginestra final8
mente libera da rovi e ortiche. Ha un vecchio cappello in testa, una
maglietta bianca con il collo annerito dal sudore, calzoncini corti e
un paio di scarpe ai piedi che hanno l’aria di avere appena camminato più chilometri della sua automobile.
Il cane la supera di corsa e va ad accucciarsi accanto all’uomo seduto.
Lui solleva la mano e gli accarezza la testa con piccole pacche delicate. Il cane butta fuori la lingua e lascia fare.
Quando sente la sua voce prova una sensazione curiosa, come se incontrasse per la prima volta un vecchio amico. Il tempo è passato su
di loro e dentro di loro, e li ha lasciati uguali.
– Benvenuta – dice lui, girandosi per guardarla negli occhi.
Subito dopo si alza in piedi, scuotendo di dosso polvere e fili d’erba
secca. Si toglie il cappello e lo batte sulla coscia un paio di volte, poi
lo risistema su una chioma di tutto rispetto, un tempo corvina, ora
striata di bianco.
– Hai fatto buon viaggio? Hai sete? Ho qualcosa per te in frigo –
Lei fa cenno di no con la testa. Si lascia abbracciare e baciare sulle
guance irrigidendosi un po’. Niente storie d’amore qui, tranne quelle
che si sono lasciati alle spalle, e quelle che dovranno venire. Anche se
per lui è diverso, benché a lei risulti difficile credere che si sia veramente deciso.
Entrano in casa attraverso una porta finestra preceduta da una zanzariera. Lui la introduce in un ambiente dall’aspetto disadorno, con
poco altro oltre una cucina, una libreria piena volumi e un orologio
a muro decorato in stile francese che continua imperterrito, impassibile, a far dondolare il suo pendolo da destra a sinistra. Un tavolo
con due bicchieri capovolti, un portafrutta di legno con alcune pesche bianche dall’odore gradevole, mele e un paio di banane che non
hanno intenzione di essere lasciate in secondo piano.
Gli occhi di lei corrono alla libreria. C’è una mole di tomi sul
Giappone, molti dei quali in lingua. Dizionari, cataloghi di mostre, manuali di grammatica. Segue una sfilza di testi sacri: I Veda,
la Torah, Il Sūtra del Loto, la Bibbia, il Corano, il Daodejing. C’è n’è
perfino uno con un titolo stranissimo: Shōbōgenzō.
– È il piú importante testo del buddhismo zen giapponese. Non
lo leggere come se fosse il titolo di un corto di Aldo Giovanni e
Giacomo – le dice lui.
– E quest’altro? Le leggi di Manu. C’è il tuo nome. L’hai scritto tu? –
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– È un testo indiano del 200 avanti Cristo. Io non c’ero –
– E di cosa parla? –
– Delle leggi che Manu, il Primo degli Uomini, ha istituito per gli
esseri umani –
– Guarda come capita a proposito! –
Un enorme libro dalla copertina rossa, con un elaborato carattere
cinese in nero, attira la sua attenzione.
– Posso? – domanda.
– Accomodati. Questa è la tua casa –
Nel frattempo lui si dirige verso il frigorifero, lo apre e ne trae una
caraffa colma di un liquido color cremisi.
Il libro è così pesante che deve appoggiarlo sul tavolo per poterlo
aprire. È una monumentale storia dell’arte asiatica, dalla Cina al
Giappone passando per l’India, il Sudest, perfino il suo paese. In
una pagina è infilata, a mo’ di segnalibro, una cartolina che ritrae il
monte Fuji sullo sfondo di una Tōkyō al tramonto.
– Deve mancarti molto, eh? –
Non si aspetta la risposta da lui, sta solo constatando l’ovvio.
La pagina sotto la cartolina mostra la fotografia di una statua, quella
che sembra una donna abbigliata con un sari indiano. Ha gli occhi
chiusi, e il volto di legno è scolpito in una espressione di dolcezza
sconfinata –
– Lei chi è? –
– Lei chi? – ribatte lui, con la testa a caccia di biscotti nello sportello
delle vivande.
– La statua del libro a pagina 313 –
– Vedi di descrivermela! Non conosco le illustrazioni a memoria –
– C’è una donna di legno vestita da indiana ma con dei tratti giapponesi. Gli occhi sono chiusi. Ha un braccio su e uno giú –
– Sono messi per caso cosí? –
Abbassa una mano girando il palmo verso l’alto e solleva l’altra mostrandole il palmo come per fermarla. La testa è ancora nascosta
dallo sportello.
– Qualcosa del genere, sí. –
– È Kannon. Il bodhisattva della compassione. Si dice che abbia mille orecchie per ascoltare il dolore degli esseri umani e mille braccia
per soccorrerli –
– Un bodhi ‑ cosa? –
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– Un buddha che ha rifiutato di entrare nel nirvāna prima di avere
salvato tutti gli esseri senzienti. Un bodhisattva –
– E in concreto che cosa fanno? –
– Assistono gli esseri viventi nel cammino verso il Risveglio –
– Non era l’Illuminazione? –
– No, a quella ci pensano i combustibili fossili e le fonti rinnovabili.
Il termine corretto è Risveglio –
– E ce ne sono molti di questi bodhisattva? –
– Oh sí – risponde lui, allungandosi per afferrare una confezione di
biscotti danesi e richiudendo lo sportello.
– Ce n’è per tutte le evenienze e tutti i gusti. Il mio preferito è Jizō,
protettore dei bambini e dei viaggiatori –
– Allora dovremo tenercelo buono – dice lei ridendo. – Il gesto ha
un qualche significato? –
– Il gesto è importantissimo. Con una mano accoglie chi è in difficoltà, con l’altra scaccia il male –
Lei rivolge lo sguardo al libro. Nel farlo piega la testa di lato, come
assorta. Mani e braccia assumono la stessa posizione della statua,
la sua espressione si addolcisce, i capelli cadono tutti da una parte.
Lui la fissa mentre sotto i suoi occhi si trasforma in Kannon, e come
sempre di fronte ciò che gli risveglia qualcosa nel profondo, prova
l’istinto di piegare le ginocchia e pregare. Lei se ne accorge.
– Perchè mi guardi cosí? –
– Che cosa hai fatto? – chiede lui di rimando.
– Ho applicato la regola fondamentale dei miei bambini: se vuoi
capire come funziona una cosa, fai come fa lei. Sai come quando
giocano agli animali? Come cambiano il linguaggio del loro corpo
quando sono un leone o un delfino? Non lo imitano soltanto, lo diventano. Perchè ridi? –
– Stavo pensando a quanto hanno ragione. Non hai imitato Kannon,
sei divenuta Kannon. Anni e anni di studi superati dalla saggezza
innata dei bambini. Non avremo sbagliato mestiere? –
– Non funziona cosí –
– Invece sí. La natura del buddha è nel cuore di ogni essere umano
ed è solo lui che puó renderla manifesta. Perció ora lascia che ti veneri, maestra – dice lui, giungendo le mani e chinando la testa.
Lei scoppia a ridere.
– Avanti, dai da bere agli assetati. Cosa mi hai preparato? –
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– Karkadè – risponde lui, versandoglielo dopo avere raddrizzato il
bicchiere.
– Che sarebbe? –
– Fiori di ibisco. Niente teina, rinfrescante, raccomandato dal governo in tempi di autarchia –
Lei gli rifila un’occhiataccia delle sue.
– Vorresti dire che hai intenzione di propinarmi un intruglio fascista? –
– Mai e poi mai. Questo è stato inventato prima ed è durato più
a lungo. Abbassa la pressione, rinfresca, e a differenza dell’olio di
ricino è amico del tuo intestino. Non come quando hai cercato di
avvelenarmi con quella tua mistura argentina… –
– Il mio mate, te ne sei ricordato! –
– Difficile dimenticare qualcosa che ti fa lo stesso effetto del primo
bacio. Ho avuto la tachicardia per ore! –
Lei ride. Lui versa un bicchiere di infuso per sé, poi brindano e bevono in silenzio, guardandosi a lungo negli occhi.
– Hai proprio cambiato tutto, eh? –
– No. Ho solo fatto un po’ d’ordine. Ho preparato il terreno per chi
verrà dopo di me. Come mi è stato insegnato. Sai, quel lasciare il
mondo migliore di come lo si è trovato? –
– E se al prossimo venuto non dovesse importare? –
– Allora sono fatti suoi. Mi attengo alle regole perché lo ritengo giusto, non perché fa piacere ad altri –
– Così il tuo lavoro ha senso comunque, anche se l’altro è un ingrato –
Lui sorride. Accenna con la testa a una mensola accanto al frigorifero, quindi la indica con la mano.
– Vedi quel libro? Quello con la copertina bianca e gialla? –
– Bianca e arancione –
– Bianca e quello che ti pare. Teniamo gli occhi sulla palla. QUEL
libro, lo vedi? Prendilo e aprilo al capitolo 2, versetto 3 –
Lei si alza per prendere il libro. È un volume economico. La copertina reca l’immagine di una scultura con quelle che potrebbero essere
delle danzatrici e il titolo BHAGAVADGĪTĀ. Lo sfoglia, mentre
lui le riempie di nuovo il bicchiere e il suono del liquido che scivola
gorgogliando dentro il vetro si diffonde per la stanza. Dalla finestra
aperta il vento della sera le soffia dolcemente sulla schiena, come per
invitarla a leggere.
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– Non abbandonarti alla viltà, figlio di Prithā. In te è fuori luogo.
Sgombra il tuo cuore da questa debolezza meschina e sorgi, o tormento dei
nemici. Di grande effetto. Che cos’è? –
– La verità –
– Certo che lo è – ribatte lei, chiudendo il libro ma lasciando un
dito sulla pagina per tenere il segno – mica me la faresti leggere,
se no. Voglio dire, che cosa significa? Che attinenza ha con il fatto
che hai lavorato per qualcuno cui magari non importa nulla dei tuoi
sforzi? –
– C’è scritto proprio lì. Sgombra il tuo cuore da questa debolezza meschina e sorgi –
– Sarebbe a dire fregatene? –
– Beh, non proprio fregatene. È più qualcosa come: fai quello che
devi senza preoccuparti di altro –
Lei ci pensa su, si passa una mano fra i capelli. Lui le offre di nuovo
da bere, lei declina gentilmente.
– Non lo so. Mi serve il contesto. Che storia è? –
– Te la racconto mentre faccio da cena, ok? –
– Ti aiuto? –
– Sì. Io cucino, tu parli –
– Di cosa? –
– Di quello che preferisci. Intrattienimi. Fammi da geisha –
– Scemo! –
– Sbagliato. Le geisha non insultano, lusingano –
– Ma non è un termine elegante per…donna di facili costumi? –
Lui guarda rivolge ostentatamente gli occhi verso l’alto.
– Oh Signore, dove sono capitato…vedi mia cara, ci vogliono dieci anni di studi rigorosissimi per diventare geisha. Danza, musica, canto, cerimonia del tè, conversazione…geisha significa artista,
ma sarebbe meglio chiamarla opera d’arte, perché è questo che è.
Un’opera d’arte. E come tutte le opere d’arte la regola d’oro è guardare, ma non toccare –
– Le geisha non si toccano? –
– Le geisha non si toccano –
– E allora nel film, tutta quella baruffa per accaparrarsi la verginità
di lei… –
– Tu ti fidi di quello che scrive un romanziere americano? –
– Touchè –
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– Bene. Ora, mentre preparo la cena, tu intrattienimi e lusingami,
prego –
– SÌ, mio nobile maestro! –
Lei sorride. Lui le sorride di rimando. Il vento della sera muove le
falde della sua gonna, agita le fronde degli alberi nel giardino, che
salutano il tramonto del sole.
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