la scuola come un set: «noi, violenti per

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la scuola come un set: «noi, violenti per
5.5 LA SCUOLA COME UN SET: «NOI, VIOLENTI PER DIVENTARE FAMOSI»
Molti adolescenti assumono un atteggiamento sfrontato per affermarsi nel gruppo e far colpo (elimina più
facilmente) sulle ragazze. L’etichetta di “bullo” è, in realtà, un’invenzione degli adulti che non esiste tra gli
adolescenti: loro li chiamano “i più famosi della scuola”.
MILANO – C’è un’isola dei famosi in ogni scuola, forse in ogni classe. Guai a chi c’incappa: rischia di
naufragare. Approdarci non è da tutti, bisogna esibire certe qualità. C, 12 anni, prima media, è fortunato: «Io
gioco bene a calcio e piaccio alle ragazze», così non deve «cercare rissa» per diventare famoso. Invece nella
scuola di V, 17 anni, istituto geometri, per diventare famoso devi almeno «tenere i piedi sul banco durante la
lezione», ma è più facile se fai come quello che «rutta in faccia al prof». E il prof? «L’ha fatto sospendere
per due giorni, ma quando è tornato era più famoso di prima, gli hanno fatto l’applauso». Come è dovuto ai
famosi. Noi li chiamiamo “bulli”. Ma è un’etichetta inventata da noi adulti per far credere che abbiamo
compreso il fenomeno. Invece è probabile che non abbiamo capito un bel niente. C e V non dicono “bulli”.
Dicono: “i più famosi della scuola”.
C e V sono due ragazzi “presi in carico” dal Centro terapia dell’adolescenza di Milano. Hanno entrambi
storie pesanti di bullismo da riparare. Uno come bullo, uno come vittima. Ma senza sapere chi è l’uno e chi è
l’altro sono indistinguibili. Perché C e V nuotano nello stesso brodo maleodorante. Volenti o nolenti si
adeguano agli stessi disvalori. «Da noi», racconta C, «quelli di terza mettono in fila i primini, poi fanno a
gara di sputi, chi viene colpito deve fare un passo indietro, è una specie di flipper.» «Da noi», racconta V,
«quelli famosi si fanno “prestare” i soldi senza restituirli, o pretendono le merende, mica per mangiarsele,
solo per far vedere che sono potenti.» Ripeto: e i prof? «È inutile, sanno tutto ma non ci fanno caso. Dicono
solo: imparate a farvi rispettare.» Dall’inizio dell’anno, V è accolto a scuola dagli sberleffi della sua isola dei
famosi, «frocio-frocio». Non è certo il solo: secondo l’Arci-gay, più di metà delle vittime si sente apostrofare
così. V è un ragazzo tutto sommato ottimista e paziente, però quando l’hanno incantonato1, «bacia una
ragazza davanti a noi oppure sei frocio», non ne ha potuto più: «Perché fanno così? Sono andato a dirlo alla
prof, mi ha risposto “ma dai, non te la prendere, sono dei bambocci”, poi s’è girata e ha continuato a scrivere
al computer».
Di storie così Francesco Vadilonga, psicoterapeuta del Cta2, ne ha ascoltate a centinaia, compresa quella
emblematica3 di D, che estorceva accessori griffati ai compagni ma era a sua volta bersaglio di insulti
razzisti, anello mediano della catena bullo-vittima-bullo. Non racconta casi clamorosi, le violenze da codice
penale che bucano le cronache e impensieriscono le procure: ma sorde tirannie quotidiane, ossessive,
esasperanti, ripetute per mesi. Hanno tutte un comune denominatore: «L’eclisse degli adulti. Non l’assenza,
perché i professori reagiscono, ci sono punizioni. Eppure, per gli studenti, gli adulti restano presenze pallide,
distratte, disinteressate a quel che accade davvero tra i banchi». Le storie che i ragazzi scrivono sui giornalini
online (sul portale La fragola di Repubblica.it), sembrano ambientate in comunità di soli minorenni: dalla
famigerata scala antincendio della scuola Sordi di Roma che sembra la stradetta dove i bravi aspettano don
Abbondio4, al ragazzino «preso in giro da tutti» nelle medie di Arbus, a cui «non si trova una classe», fino al
1
Messo all’angolo.
2
Centro terapia dell’adolescenza.
3
Rappresentativa, significativa.
4
Personaggi de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Don Abbondio è il curato, cioè il parroco, del paese in cui
abitano i protagonisti Renzo e Lucia. Durante una passeggiata, Don Abbondio incappa nei bravi, gli scagnozzi di Don
Rodrigo, un signore del luogo arrogante e potente. Per la paura si nasconde dietro al breviario e cerca di ignorarli, ma
quelli gli si avvicinano e gli dicono che il matrimonio tra Renzo e Lucia, fissato per il giorno seguente, non deve
grido di dolore della Boccaccio di Certaldo: «Gli adulti non vengono mai a sapere». Quando lo sanno, spesso
smorzano, come il preside dell’istituto di Monselice dove in novembre furono girati video di imbarazzanti
beffe ai professori: «Non è bullismo, solo un caso di particolare esuberanza, un momento di vivacità, seppur
esagerata».
Adulti e ragazzi condividono gli stessi spazi, ma vivono in mondi diversi. Quello dei ragazzi, come in Un
Ponte per Terabithia, film sul bullismo sotto un velo di fantasy, è popolato da figure spaventose che gli
adulti non vedono, tranne quando un video irrompe su YouTube, e allora il mondo dei grandi esplode
d’indignazione o di fastidio, oscillando tra l’allarme di Prodi5 e Napolitano6 («prove di forza che sono prove
di viltà») e la prudenza infastidita del ministro Fioroni7 («Basta col tritacarne mediatico, siamo in presenza di
cifre irrisorie»). C’è, in verità, un piano anti-bulli del ministero, con simpatici adesivi, spot, blog, numero
verde e sostanziale delega alle scuole; ma inizia proprio buttando acqua sul fuoco: «I fatti di bullismo,
talvolta eccessivamente enfatizzati dai media...». Dovremmo invece essere grati ai cellulari. I video violenti
e disgustosi, palpazioni di natiche docenti, sberle ai disabili, astucci contundenti, sono almeno feritoie8 che ci
permettono di sbirciare in un mondo altrimenti invisibile. I cui protagonisti sono tre: i carnefici; le vittime; e
l’audience9. Le classi funzionano come un circuito mediatico. Chi “gira” i video? Non i bulli, ma la troupe
dei vice-famosi, la corte che circonda i prepotenti e vive di luce riflessa. È l’omaggio dei gregari ai capi, e
funziona solo perché c’è, un gradino sotto, la platea anonima che guarda e gradisce lo show, l’auditel10 che
decreta il successo del “famoso” di turno.
A Saronno da cinque anni l’Ipsia “Parma” (cartelli con le “regole” nei corridoi, tutor di classe) affronta i
prepotenti studiando i “normali”. I loro valori. O disvalori. «Tredici ragazzi su cento trovano normale
offendere un coetaneo. Per 12 non è grave tenersi i soldi avuti in “prestito”. Per 9 è giustificabile picchiare
un compagno», elenca senza entusiasmo il professor Mauro Pasqua, responsabile del “Progetto bullismo”.
«È su questa base etica che i prepotenti costruiscono la loro popolarità». Fama, celebrità: ecco i nomi corretti
del bullismo. Il suo vero fine. La prepotenza è solo il mezzo. Un’indagine della Società italiana di pediatria
rivela che per l’84% degli adolescenti i bulli diventano tali «per essere ammirati». «Cercano di emergere da
una massa in cui evidentemente temono di non valere nulla», continua Pasqua, «non a caso i problemi più
gravi li abbiamo nelle prime classi, dove i ragazzi non si conoscono e cercano di affermare un’identità
visibile, nel bene o nel male. La prepotenza è un biglietto da visita.» Farsi riconoscere. Essere additati con
rispetto. Il quarto d’ora di celebrità di Warhol11: «Se non hanno nient’altro da mostrare», insiste C,
«diventano famosi facendo paura». Le regole? «Spesso sono regole stupide, fatte per essere sfidate. Da noi»,
svolgersi e quindi lui non dovrà celebrarlo per volere di Don Rodrigo.
5
Romano Prodi è un politico ed economista italiano, che ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio dei ministri
della Repubblica italiana per due volte (dal 1996 al 1998 e dal 2006 al 2008).
6
Presidente della Repubblica italiana, in carica dal 15 maggio 2006.
7
Giuseppe Fioroni, ministro della Pubblica Istruzione durante il II Governo Prodi (2006-2008).
8
Piccole aperture.
9
Cioè gli spettatori davanti ai quali si consuma l’atto violento.
10
L’Auditel è una società che raccogliere e pubblica i dati sull’ascolto televisivo italiano (qui ha un significato
metaforico).
11
“Prima o poi tutti hanno il loro quarto d’ora di notorietà” è una frase attribuita al profeta della pop-art Andy
Warhol, diventata molto popolare.
C scuote la testa, «è vietato correre lungo le scale, e c’è chi corre apposta per far vedere che non ha paura dei
prof.»
Difficile piegare un ribelle che trasforma le sanzioni in medaglie. Se l’Osservatore Romano12 invoca più
severità, a Saronno hanno iniziato a sostituire le sospensioni con lavori utili, corsi obbligatori, attività di
studio: «Inutile mandarli a casa a rimbambirsi con la tivù». Bisognerebbe forse smontare il giocattolo
dall’interno, togliere ai “famosi” l’ammirazione che sta alla base del loro prestigio, ma un “famoso” umiliato
può reagire in modo tutt’altro che ingenuo: «I video girati in classe spesso sono un’arma impropria di
vendetta contro i professori», ha avvertito la direttrice scolastica regionale del Veneto, Carmela Palumbo.
Bisognerebbe lavorare con le famiglie. «Ma è difficile», sospira il preside dell’Ipsia di Saronno, Alberto
Ranco, e racconta che «all’assemblea sul bullismo abbiamo invitato mille genitori, ne sono venuti ventisette.
Comincio a pensare che le famiglie facciano parte del problema più che della soluzione.» «Sospendere i
violenti vuol dire rimandarli nell’ambiente che ha prodotto la violenza», ha esclamato l’assessore pugliese
Silvia Godelli a un convegno sul bullismo organizzato a Bari, città dove un preside è stato picchiato dai
genitori di un alunno. Eppure i bulli non sono il prodotto automatico del disagio domestico. «Se tutte le
famiglie difficili generassero bulli», dice Ranco, «avrei i carabinieri a scuola ogni giorno».
Dev’esserci qualcosa, nel microcosmo scuola, prima esperienza sociale degli adolescenti, che amalgama in
modo imprevedibile la «quantità spaventosa di schifezze», per dirla con Marco Lodoli, di cui i quindicenni
vengono riforniti dalla tivù e dai miti collettivi. Per gli studenti qualunque, la scuola è un luogo di tensioni:
due mesi fa un questionario del Minghetti, prestigioso liceo classico di Bologna, ha svelato che otto
studentesse su dieci, tra i banchi, soffrono di ansia, stress, panico, tachicardia, vomito. Per i bulli, invece,
andare a scuola è gratificante: è il loro palcoscenico, senza copione da rispettare. Viene in mente Il signore
delle mosche, romanzo anti-russoiano13 di William Golding: l’isola dei bambini senza adulti e la sua feroce
legge naturale. La scuola, allora, è la nicchia ecologica dove un nuovo oggetto sociale, l’adolescente senza
qualità, elabora in solitudine una nuova etologia14 morale. In realtà un’antica morale, che C riassume così:
12
Il quotidiano ufficiale del Vaticano.
13
Ossia in contrasto con la concezione del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) per la
quale ogni uomo nasce buono e giusto, e se diventa ingiusto la causa è da ricercare nella società che ne corrompe
l’originario stato di purezza (“stato di natura”), anche nota come la teoria del “buon selvaggio”.
14
L’etologia è la scienza che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale.
MASSACRATO PER UNA SIGARETTA, È IN FIN DI VITA
Un giovane viene aggredito e ridotto in fin di vita per avere rifiutato una sigaretta a un gruppo di balordi.
Un 19enne, tra gli autori del pestaggio, si costituisce: è un ultrà neofascista.
VERONA - Mentre restano gravissime le condizioni di Nicola Tommasoli, il tecnico di 29 anni picchiato
brutalmente da un gruppo di balordi in centro a Verona la notte del Primo maggio, un giovane di 19 anni si è
costituito e ha già confessato di essere coinvolto nell’aggressione. Altri due presunti responsabili del
pestaggio sono invece ricercati all’estero.
ULTRÀ NEOFASCISTA - Il giovane è un ultrà14 neofascista che, a quanto risulta alla polizia, è già stato
responsabile di aggressioni a sfondo razzista e violenze negli stadi. Il 19enne, che apparterrebbe a una
famiglia benestante della città, si è costituito presso la Digos14 di Verona dopo che i poliziotti avevano di
fatto stretto il cerchio attorno a lui. Accompagnato da un avvocato di fiducia, il ragazzo ha così confessato
davanti ai magistrati. In passato era stato sottoposto a Daspo, ovvero il divieto di accedere a manifestazioni
sportive, previsto proprio dalle norme studiate ad hoc14 contro la violenza negli stadi. Dopo essere stato
sentito, è stato trasferito in carcere.
DUE AGGRESSORI ANCORA DA IDENTIFICARE - Un fermato, altri due individuati, due invece ancora
del tutto da identificare. Nelle indagini sulla brutale aggressione mancano ancora all’appello gli ultimi due
giovani del gruppo dei cinque. Di loro, secondo fonti investigative, mancano ancora le identità, e il 20enne
costituitosi alla Questura non avrebbe fornito elementi per arrivare alla loro individuazione. Il gruppetto,
appartenente all’area dell’estrema destra veronese, sarebbe costituito tutto da giovani coetanei, intorno ai 20
anni. I due, che sono riusciti a sottrarsi per il momento alla cattura, sempre secondo le stesse fonti, sarebbero
fuggiti all’estero probabilmente in automobile.
L’AVVOCATO: NON VOLEVA UCCIDERE - Di certo non voleva uccidere e si sarebbe trattato di una lite
degenerata. È questa la tesi riferita all’agenzia Adkronos dal legale del giovane 19enne, sulla cui identità gli
investigatori mantengono il massimo riserbo. Si attende un nuovo interrogatorio, ha spiegato il legale, e
soprattutto la contestazione del reato; l’accusa, infatti, potrebbe sfociare in omicidio volontario o
preterintenzionale14 qualora Tommasoli, per le gravi ferite riportate, non ce la facesse a sopravvivere. Il
legale ha poi detto che i genitori del giovane che si è costituito sono affranti. Secondo l’avvocato «ci
troviamo davanti ad una vicenda che ha più vittime, la situazione è drammatica e i genitori dobbiamo
tutelarli: sono distrutti da questa situazione che è spaventosa». Il ragazzo, che frequenta regolarmente il liceo
classico, avrebbe riferito agli inquirenti di essere stato lì al momento della rissa (bollata come banale litigio)
e per questo motivo si è presentato.
CONDIZIONI ANCORA DISPERATE - Lo stesso Tommasoli continua intanto a lottare contro al morte nel
reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Borgo Trento: momenti di angoscia per i genitori che sono al suo
capezzale chiusi assieme agli amici più cari in una stanza accanto al figlio. «Sono realista, non voglio
illudermi - dice il papà Luca che si aggrappa a ogni flebile speranza - I medici dicono che c’è stata una
piccola ripresa, poi rientrata. Non so che pensare.» Da lunedì mattina, si è appreso da fonti ospedaliere,
inizierà il periodo d’osservazione per dichiararne la morte cerebrale.
CACCIA AL «DIVERSO» - I tre aggressori individuati dalla polizia, secondo quanto si è appreso negli
ambienti investigativi, farebbero parte di un gruppo di giovani di estrema destra, molti dei quali ultrà del
Verona (una delle tifoserie considerate a più alto rischio), il cui obiettivo era la “caccia al diverso”.
Nell’indagine chiusa un anno fa dalla Digos scaligera14, che ha portato alla denuncia di 17 ragazzi tra i 17 e i
25 anni, è infatti emerso che le vittime della banda non erano solo extracomunitari, ma tutti coloro che in
qualche modo venivano visti come non omologabili con le loro idee. A conferma di ciò, le indagini avevano
consentito di accertare violenze nei confronti di un giovane che indossava una felpa del Lecce e di due
ragazzi appartenenti al centro sociale «Chimica», aggrediti a colpi di spranga. Ancora, la banda sarebbe stata
responsabile di un’aggressione a un giovane seduto sulle scalinate di piazza Erbe, colpevole di danneggiare
l’immagine di Verona “città di classe”. Nel corso delle perquisizioni effettuate un anno fa nelle abitazioni
degli indagati, la polizia trovò cinghie, manganelli telescopici ma anche cassette video e dvd che
contenevano immagini di pestaggi e documenti e materiale del “Fronte veneto skinheads”.
UNITI DALLA VOLONTÀ DI VIOLENZA - L’accusa contestata dalla procura di Verona ai 17 giovani
individuati dalla Digos un anno fa, fu di associazione a delinquere finalizzata alle lesioni personali e alla
violazione della legge Mancino contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa. All’inizio delle
indagini, gli investigatori pensavano che gli episodi fossero riconducibili a scontri tra le opposte tifoserie;
con il prosieguo degli accertamenti, però, si è scoperto che la banda premeditava le aggressioni nei confronti
di chi aveva stili di vita diversi a prescindere dalla sua fede calcistica. E ad unire il gruppo era la volontà di
compiere gesti di violenza gratuita. La caccia al diverso, è emerso dalle indagini, iniziava in alcuni locali del
centro storico di Verona frequentati il fine settimana da giovani. In queste occasioni, secondo investigatori
ed inquirenti, la banda andava volutamente alla ricerca dello scontro nei confronti di chi aveva stili di vita
diversi. E dunque, le aggressioni e i pestaggi non erano solo contro chi era diverso per il colore della pelle,
per il paese di provenienza o per posizioni politiche, ma anche semplicemente, contro chi parlava o vestiva
in modo diverso dal gruppo.
FRONTE VENETO SKINHEADS: «NON SONO DEI NOSTRI» - Il Veneto Fronte Skinheads, per voce del
presidente Giordano Caracino, esclude che il ragazzo fermato a Verona per l’aggressione a Tommasoli
faccia parte del proprio movimento. «Il ragazzo - afferma - dalle informazioni che abbiamo, non fa parte del
Fvs, non lo conosciamo. Non basta avere i capelli corti, un bomber o avere certe idee per far parte del nostro
movimento.» «Noi - aggiunge Caracino - prendiamo le distanze in maniera categorica dall’accaduto e dalle
persone che l’hanno compiuto. Si fa presto a mettere insieme due nomi e delle sigle per tirare in ballo la
nostra associazione.» «Stiamo valutando come muoverci - afferma ancora Caracino - per diffidare chiunque
dall’affiancare il nostro movimento al fatto di Verona.» Caracino, padovano, è presidente del Veneto Fronte
Skinheads dall’ottobre del 2006. Secondo lui il movimento di estrema destra conta su alcune centinaia di
aderenti.
Da Il Corriere della Sera, 4 maggio 2008 MASSACRATO PER UNA SIGARETTA, È IN FIN DI VITA
Un giovane viene aggredito e ridotto in fin di vita per avere rifiutato una sigaretta a un gruppo di balordi.
Un 19enne, tra gli autori del pestaggio, si costituisce: è un ultrà neofascista.
VERONA - Mentre restano gravissime le condizioni di Nicola Tommasoli, il tecnico di 29 anni picchiato
brutalmente da un gruppo di balordi in centro a Verona la notte del Primo maggio, un giovane di 19 anni si è
costituito e ha già confessato di essere coinvolto nell’aggressione. Altri due presunti responsabili del
pestaggio sono invece ricercati all’estero.
ULTRÀ NEOFASCISTA - Il giovane è un ultrà14 neofascista che, a quanto risulta alla polizia, è già stato
responsabile di aggressioni a sfondo razzista e violenze negli stadi. Il 19enne, che apparterrebbe a una
famiglia benestante della città, si è costituito presso la Digos14 di Verona dopo che i poliziotti avevano di
fatto stretto il cerchio attorno a lui. Accompagnato da un avvocato di fiducia, il ragazzo ha così confessato
davanti ai magistrati. In passato era stato sottoposto a Daspo, ovvero il divieto di accedere a manifestazioni
sportive, previsto proprio dalle norme studiate ad hoc14 contro la violenza negli stadi. Dopo essere stato
sentito, è stato trasferito in carcere.
DUE AGGRESSORI ANCORA DA IDENTIFICARE - Un fermato, altri due individuati, due invece ancora
del tutto da identificare. Nelle indagini sulla brutale aggressione mancano ancora all’appello gli ultimi due
giovani del gruppo dei cinque. Di loro, secondo fonti investigative, mancano ancora le identità, e il 20enne
costituitosi alla Questura non avrebbe fornito elementi per arrivare alla loro individuazione. Il gruppetto,
appartenente all’area dell’estrema destra veronese, sarebbe costituito tutto da giovani coetanei, intorno ai 20
anni. I due, che sono riusciti a sottrarsi per il momento alla cattura, sempre secondo le stesse fonti, sarebbero
fuggiti all’estero probabilmente in automobile.
L’AVVOCATO: NON VOLEVA UCCIDERE - Di certo non voleva uccidere e si sarebbe trattato di una lite
degenerata. È questa la tesi riferita all’agenzia Adkronos dal legale del giovane 19enne, sulla cui identità gli
investigatori mantengono il massimo riserbo. Si attende un nuovo interrogatorio, ha spiegato il legale, e
soprattutto la contestazione del reato; l’accusa, infatti, potrebbe sfociare in omicidio volontario o
preterintenzionale14 qualora Tommasoli, per le gravi ferite riportate, non ce la facesse a sopravvivere. Il
legale ha poi detto che i genitori del giovane che si è costituito sono affranti. Secondo l’avvocato «ci
troviamo davanti ad una vicenda che ha più vittime, la situazione è drammatica e i genitori dobbiamo
tutelarli: sono distrutti da questa situazione che è spaventosa». Il ragazzo, che frequenta regolarmente il liceo
classico, avrebbe riferito agli inquirenti di essere stato lì al momento della rissa (bollata come banale litigio)
e per questo motivo si è presentato.
CONDIZIONI ANCORA DISPERATE - Lo stesso Tommasoli continua intanto a lottare contro al morte nel
reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Borgo Trento: momenti di angoscia per i genitori che sono al suo
capezzale chiusi assieme agli amici più cari in una stanza accanto al figlio. «Sono realista, non voglio
illudermi - dice il papà Luca che si aggrappa a ogni flebile speranza - I medici dicono che c’è stata una
piccola ripresa, poi rientrata. Non so che pensare.» Da lunedì mattina, si è appreso da fonti ospedaliere,
«Sei famoso se tieni gli altri sotto di te».
Da La Repubblica, 4 aprile 2007, di M. Smargiassi
5.11 MASSACRATO PER UNA SIGARETTA, È IN FIN DI VITA
inizierà il periodo d’osservazione per dichiararne la morte cerebrale.
CACCIA AL «DIVERSO» - I tre aggressori individuati dalla polizia, secondo quanto si è appreso negli
ambienti investigativi, farebbero parte di un gruppo di giovani di estrema destra, molti dei quali ultrà del
Verona (una delle tifoserie considerate a più alto rischio), il cui obiettivo era la “caccia al diverso”.
Nell’indagine chiusa un anno fa dalla Digos scaligera14, che ha portato alla denuncia di 17 ragazzi tra i 17 e i
25 anni, è infatti emerso che le vittime della banda non erano solo extracomunitari, ma tutti coloro che in
qualche modo venivano visti come non omologabili con le loro idee. A conferma di ciò, le indagini avevano
consentito di accertare violenze nei confronti di un giovane che indossava una felpa del Lecce e di due
ragazzi appartenenti al centro sociale «Chimica», aggrediti a colpi di spranga. Ancora, la banda sarebbe stata
responsabile di un’aggressione a un giovane seduto sulle scalinate di piazza Erbe, colpevole di danneggiare
l’immagine di Verona “città di classe”. Nel corso delle perquisizioni effettuate un anno fa nelle abitazioni
degli indagati, la polizia trovò cinghie, manganelli telescopici ma anche cassette video e dvd che
contenevano immagini di pestaggi e documenti e materiale del “Fronte veneto skinheads”.
UNITI DALLA VOLONTÀ DI VIOLENZA - L’accusa contestata dalla procura di Verona ai 17 giovani
individuati dalla Digos un anno fa, fu di associazione a delinquere finalizzata alle lesioni personali e alla
violazione della legge Mancino contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa. All’inizio delle
indagini, gli investigatori pensavano che gli episodi fossero riconducibili a scontri tra le opposte tifoserie;
con il prosieguo degli accertamenti, però, si è scoperto che la banda premeditava le aggressioni nei confronti
di chi aveva stili di vita diversi a prescindere dalla sua fede calcistica. E ad unire il gruppo era la volontà di
compiere gesti di violenza gratuita. La caccia al diverso, è emerso dalle indagini, iniziava in alcuni locali del
centro storico di Verona frequentati il fine settimana da giovani. In queste occasioni, secondo investigatori
ed inquirenti, la banda andava volutamente alla ricerca dello scontro nei confronti di chi aveva stili di vita
diversi. E dunque, le aggressioni e i pestaggi non erano solo contro chi era diverso per il colore della pelle,
per il paese di provenienza o per posizioni politiche, ma anche semplicemente, contro chi parlava o vestiva
in modo diverso dal gruppo.
FRONTE VENETO SKINHEADS: «NON SONO DEI NOSTRI» - Il Veneto Fronte Skinheads, per voce del
presidente Giordano Caracino, esclude che il ragazzo fermato a Verona per l’aggressione a Tommasoli
faccia parte del proprio movimento. «Il ragazzo - afferma - dalle informazioni che abbiamo, non fa parte del
Fvs, non lo conosciamo. Non basta avere i capelli corti, un bomber o avere certe idee per far parte del nostro
movimento.» «Noi - aggiunge Caracino - prendiamo le distanze in maniera categorica dall’accaduto e dalle
persone che l’hanno compiuto. Si fa presto a mettere insieme due nomi e delle sigle per tirare in ballo la
nostra associazione.» «Stiamo valutando come muoverci - afferma ancora Caracino - per diffidare chiunque
dall’affiancare il nostro movimento al fatto di Verona.» Caracino, padovano, è presidente del Veneto Fronte
Skinheads dall’ottobre del 2006. Secondo lui il movimento di estrema destra conta su alcune centinaia di
aderenti.
Da Il Corriere della Sera, 4 maggio 2008
Un giovane viene aggredito e ridotto in fin di vita per avere rifiutato una sigaretta a un gruppo di balordi.
Un 19enne, tra gli autori del pestaggio, si costituisce: è un ultrà neofascista.
VERONA - Mentre restano gravissime le condizioni di Nicola Tommasoli, il tecnico di 29 anni picchiato
brutalmente da un gruppo di balordi in centro a Verona la notte del Primo maggio, un giovane di 19 anni si è
costituito e ha già confessato di essere coinvolto nell’aggressione. Altri due presunti responsabili del
pestaggio sono invece ricercati all’estero.
ULTRÀ NEOFASCISTA - Il giovane è un ultrà15 neofascista che, a quanto risulta alla polizia, è già stato
responsabile di aggressioni a sfondo razzista e violenze negli stadi. Il 19enne, che apparterrebbe a una
famiglia benestante della città, si è costituito presso la Digos16 di Verona dopo che i poliziotti avevano di
fatto stretto il cerchio attorno a lui. Accompagnato da un avvocato di fiducia, il ragazzo ha così confessato
davanti ai magistrati. In passato era stato sottoposto a Daspo, ovvero il divieto di accedere a manifestazioni
sportive, previsto proprio dalle norme studiate ad hoc17 contro la violenza negli stadi. Dopo essere stato
sentito, è stato trasferito in carcere.
DUE AGGRESSORI ANCORA DA IDENTIFICARE - Un fermato, altri due individuati, due invece ancora
del tutto da identificare. Nelle indagini sulla brutale aggressione mancano ancora all’appello gli ultimi due
giovani del gruppo dei cinque. Di loro, secondo fonti investigative, mancano ancora le identità, e il 20enne
costituitosi alla Questura non avrebbe fornito elementi per arrivare alla loro individuazione. Il gruppetto,
appartenente all’area dell’estrema destra veronese, sarebbe costituito tutto da giovani coetanei, intorno ai 20
anni. I due, che sono riusciti a sottrarsi per il momento alla cattura, sempre secondo le stesse fonti, sarebbero
fuggiti all’estero probabilmente in automobile.
L’AVVOCATO: NON VOLEVA UCCIDERE - Di certo non voleva uccidere e si sarebbe trattato di una lite
degenerata. È questa la tesi riferita all’agenzia Adkronos dal legale del giovane 19enne, sulla cui identità gli
investigatori mantengono il massimo riserbo. Si attende un nuovo interrogatorio, ha spiegato il legale, e
soprattutto la contestazione del reato; l’accusa, infatti, potrebbe sfociare in omicidio volontario o
preterintenzionale18 qualora Tommasoli, per le gravi ferite riportate, non ce la facesse a sopravvivere. Il
legale ha poi detto che i genitori del giovane che si è costituito sono affranti. Secondo l’avvocato «ci
troviamo davanti ad una vicenda che ha più vittime, la situazione è drammatica e i genitori dobbiamo
tutelarli: sono distrutti da questa situazione che è spaventosa». Il ragazzo, che frequenta regolarmente il liceo
classico, avrebbe riferito agli inquirenti di essere stato lì al momento della rissa (bollata come banale litigio)
e per questo motivo si è presentato.
CONDIZIONI ANCORA DISPERATE - Lo stesso Tommasoli continua intanto a lottare contro al morte nel
reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Borgo Trento: momenti di angoscia per i genitori che sono al suo
capezzale chiusi assieme agli amici più cari in una stanza accanto al figlio. «Sono realista, non voglio
illudermi - dice il papà Luca che si aggrappa a ogni flebile speranza - I medici dicono che c’è stata una
piccola ripresa, poi rientrata. Non so che pensare.» Da lunedì mattina, si è appreso da fonti ospedaliere,
inizierà il periodo d’osservazione per dichiararne la morte cerebrale.
CACCIA AL «DIVERSO» - I tre aggressori individuati dalla polizia, secondo quanto si è appreso negli
ambienti investigativi, farebbero parte di un gruppo di giovani di estrema destra, molti dei quali ultrà del
Verona (una delle tifoserie considerate a più alto rischio), il cui obiettivo era la “caccia al diverso”.
15
In francese “reazionario”, nazionalista di estrema destra.
16
La sigla DIGOS (acronimo di Divisioni Investigazioni Generali e Operazioni Speciali) indica gli uffici periferici operativi
della Polizia di Stato, presenti presso ciascuna Questura.
17
Letteralmente: “per questo” (in latino). Studiato, pensato per un dato scopo.
18
Involontario, accidentale (che è andato oltre le intenzioni di chi l’ha commesso).
Nell’indagine chiusa un anno fa dalla Digos scaligera19, che ha portato alla denuncia di 17 ragazzi tra i 17 e i
25 anni, è infatti emerso che le vittime della banda non erano solo extracomunitari, ma tutti coloro che in
qualche modo venivano visti come non omologabili con le loro idee. A conferma di ciò, le indagini avevano
consentito di accertare violenze nei confronti di un giovane che indossava una felpa del Lecce e di due
ragazzi appartenenti al centro sociale «Chimica», aggrediti a colpi di spranga. Ancora, la banda sarebbe stata
responsabile di un’aggressione a un giovane seduto sulle scalinate di piazza Erbe, colpevole di danneggiare
l’immagine di Verona “città di classe”. Nel corso delle perquisizioni effettuate un anno fa nelle abitazioni
degli indagati, la polizia trovò cinghie, manganelli telescopici ma anche cassette video e dvd che
contenevano immagini di pestaggi e documenti e materiale del “Fronte veneto skinheads”.
UNITI DALLA VOLONTÀ DI VIOLENZA - L’accusa contestata dalla procura di Verona ai 17 giovani
individuati dalla Digos un anno fa, fu di associazione a delinquere finalizzata alle lesioni personali e alla
violazione della legge Mancino contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa. All’inizio delle
indagini, gli investigatori pensavano che gli episodi fossero riconducibili a scontri tra le opposte tifoserie;
con il prosieguo degli accertamenti, però, si è scoperto che la banda premeditava le aggressioni nei confronti
di chi aveva stili di vita diversi a prescindere dalla sua fede calcistica. E ad unire il gruppo era la volontà di
compiere gesti di violenza gratuita. La caccia al diverso, è emerso dalle indagini, iniziava in alcuni locali del
centro storico di Verona frequentati il fine settimana da giovani. In queste occasioni, secondo investigatori
ed inquirenti, la banda andava volutamente alla ricerca dello scontro nei confronti di chi aveva stili di vita
diversi. E dunque, le aggressioni e i pestaggi non erano solo contro chi era diverso per il colore della pelle,
per il paese di provenienza o per posizioni politiche, ma anche semplicemente, contro chi parlava o vestiva
in modo diverso dal gruppo.
FRONTE VENETO SKINHEADS: «NON SONO DEI NOSTRI» - Il Veneto Fronte Skinheads, per voce del
presidente Giordano Caracino, esclude che il ragazzo fermato a Verona per l’aggressione a Tommasoli
faccia parte del proprio movimento. «Il ragazzo - afferma - dalle informazioni che abbiamo, non fa parte del
Fvs, non lo conosciamo. Non basta avere i capelli corti, un bomber o avere certe idee per far parte del nostro
movimento.» «Noi - aggiunge Caracino - prendiamo le distanze in maniera categorica dall’accaduto e dalle
persone che l’hanno compiuto. Si fa presto a mettere insieme due nomi e delle sigle per tirare in ballo la
nostra associazione.» «Stiamo valutando come muoverci - afferma ancora Caracino - per diffidare chiunque
dall’affiancare il nostro movimento al fatto di Verona.» Caracino, padovano, è presidente del Veneto Fronte
Skinheads dall’ottobre del 2006. Secondo lui il movimento di estrema destra conta su alcune centinaia di
aderenti.
Da Il Corriere della Sera, 4 maggio 2008
5.16 INSULTI E LANCIO DI FUMOGENI ALLO STADIO: DASPO PER TRE GIOVANI TIFOSI
Sempre più spesso la tifoseria violenta trova espressione in atti di vandalismo e di aggressione (ELIMINA
contro persone che appartengono alla squadra avversaria) in occasione degli incontri di calcio. Allo stadio
appaiono leciti comportamenti che in altre situazioni sarebbero inaccettabili: il fumo (non solo di sigaretta),
il lancio di oggetti in qualche caso anche incendiati, le aggressioni a sfondo razzista nei confronti di
giocatori e tifosi della squadra avversaria, le cariche nei confronti delle forze dell’ordine.
(elimina Il 23 luglio 2009 tre giovani tifosi dell’Udinese furono denunciati per aver lanciato fumogeni e
intonato cori offensivi contro la polizia durante l’amichevole a Montepulciano tra Udinese e Perugia: per
loro si decise l’interdizione per tre anni dalle manifestazioni sportive.)
19
Veronese (dalla nobile famiglia dei Della Scala, che ebbe la sua signoria a Verona).
FERRARA - Sono stati sottoposti a Divieto di Accesso ai luoghi dove si Svolgono Manifestazioni Sportive20
per un anno i tre giovani tifosi dell’Udinese che, lo scorso 23 luglio, erano stati denunciati in stato di libertà
dalla Polizia, per aver acceso e lanciato fumogeni e per aver intonato cori offensivi all’indirizzo delle forze
dell’ordine, in occasione dell’incontro di calcio amichevole Udinese - Perugia, disputatosi allo stadio Bonelli
di Montepulciano. Coinvolto anche un ferrarese di 30 anni.
I tre ragazzi, due dei quali fratelli poco più che ventenni, della provincia di Pordenone, ed uno, trentenne,
della provincia di Ferrara, al termine della partita inveirono contro i militari dell’Arma dei Carabinieri con
cori offensivi, accendendo e gettando sul terreno di gioco alcuni fumogeni, fortunatamente senza alcuna
conseguenza per l’incolumità dei giocatori e dei circa 600 spettatori. Uno dei due fratelli friulani, al
momento dell’identificazione, fornì inoltre false generalità alla Polizia, occultando anche il proprio
documento d’identità.
I tre vennero denunciati per lancio di oggetti pericolosi, possesso e accensione di artifizi pirotecnici, così
come previsto dalla legge finalizzata al contrasto degli episodi di violenza in occasione di manifestazioni
sportive, nonché per il reato di oltraggio a Corpi Amministrativi dello Stato. Il Questore di Siena, Massimo
Bontempi, a conclusione degli accertamenti svolti dalla Divisione Anticrimine, ha emesso nei loro confronti
il DASPO per il periodo di un anno. Sono 18, ad oggi, i provvedimenti analoghi adottati dal mese di gennaio
di quest’anno nei confronti di altrettanti tifosi, resisi responsabili di fatti per i quali sono previsti simili
divieti.
Da Il Resto del Carlino, 27 agosto 2009
5.19 «HANNO UCCISO MIA FIGLIA PER GIOCO. MI VERGOGNO PER CHI LI HA LIBERATI»
Il 27 dicembre 1996, dal cavalcavia della Cavallosa lungo l’autostrada A21, nella zona di Tortona, i fratelli
Paolo, Sandro, Franco e Gabriele Furlan, il cugino Paolo Bertocco con la fidanzata e Roberto Siringo
lanciarono alcuni sassi sulle vetture in transito sulla carreggiata sottostante. Uno di questi colpì
mortalmente Maria Letizia Berdini, di 31 anni, in viaggio per Parigi col marito sposato appena cinque mesi
prima.
Civitanova Marche - Adesso sono agli arresti domiciliari, a luglio saranno liberi. Il 26 dicembre del ‘96 i
fratelli Franco, Paolo e Alessandro Furlan, con il cugino Paolo Bertocco, lanciarono dal cavalcavia di
Tortona il masso che uccise a 31 anni Maria Letizia Berdini. La banda della Cavallosa colpì per noia, lungo
l’autostrada Piacenza-Torino, avevano fra i 18 e i 25 anni. Il marito di Letizia, Lorenzo Bossini, si salvò per
puro caso. Fa il geometra a Passirano, nel Bresciano, non vuole commentare: «Non ho nessun interesse a
farlo - risponde al telefono dallo studio - non mi interessa. Sto benissimo. Ho clienti davanti a me, mi scusi».
Nei primi anni ‘90 aveva frequentato una donna che fu uccisa dall’ex fidanzato, con Letizia si era rifatto una
vita, adesso ci sta provando per la terza volta.
Il padre della ragazza marchigiana, Vincenzo Berdini, ha 78 anni, vive sempre a Civitanova, con la moglie
Mara, 72 anni, e le altre due figlie: Maria Rosa (50) e Maria Grazia (46). «Bella roba che succede in Italia racconta -. Ci siamo capitati noi, in questo ingranaggio imperfetto della giustizia. Per me è stata una mazzata,
20
Il Daspo, misura introdotta con la legge 13 dicembre 1989 n. 401, al fine di contrastare il crescente fenomeno della
violenza negli stadi di calcio.
colpa dell’indulto21.»
Parlerebbe così anche se la tragedia non avesse riguardato la sua famiglia? Domande in neretto
«Mi metterei dalla stessa parte, soffrirei uguale. Un uomo di buon senso non può restare insensibile di fronte
a un fatto così. Se uno se ne frega, è un altro discorso.»
I giudici dove hanno mancato?
«Hanno fatto il loro dovere, facendo rispettare la legge. Se il ministro concede l’indulto, il giudice deve
applicarlo. La realtà è che chi ammazza una persona è protetto dallo Stato, punto e basta. Uno Stato che
protegge i delinquenti, invece deve tutelare chi paga le tasse. Per di più non ci è mai arrivata una lira di
risarcimento.»
Da quei quattro criminali sono mai arrivati cenni di pentimento?
«Per carità, nemmeno mezza parola. L’unica volta che ho incrociato lo sguardo di uno di loro mi ha fatto una
faccia come dire: “Che cavolo vuoi?”. Niente scuse, neanche l’idea di contribuire con un centesimo alle
spese funerarie di chi ha perso una figlia. D’altra parte avevano ucciso per gioco. Uno si è sposato in carcere,
un altro ha messo al mondo un figlio mentre era già ai domiciliari.»
Al ministro della giustizia Angelino Alfano22 che messaggio vuole mandare?
«Caro ministro, si metta seduto per un’ora. Chi ammazza deve farsi l’ergastolo. O almeno 30 anni, per altri
30 dovrebbe lavorare nel tentativo di riparare il delitto commesso. Non è giusto concedere il rito abbreviato,
levare un terzo della pena. Mia figlia non aveva ancora 32 anni, quelli sono stati in carcere sì e no per 8.»
Che garanzie ricevette dal precedente governo?
«Il ministro Clemente Mastella23 mi aveva fatto una promessa: “Stia tranquillo, chi ha ammazzato Letizia
resterà dentro sino all’ultimo giorno”. Adesso gli dico: caro Mastella, ma quanto sei stato bravo. Mi avevi
garantito che l’indulto non avrebbe toccato questa vicenda.»
Sua moglie e le figlie la pensano come lei?
«Forse sono più arrabbiate di me. Io ho sempre rispettato le leggi, facevo il tecnico elettronico, ho sempre
fatto volontariato, adesso sono responsabile della protezione civile per la provincia di Macerata. Quando l’ho
saputo, stavo andando a una riunione: è stata una pugnalata.»
Maria Letizia si era sposata da pochi mesi.
«Passava da Tortona per andare a Parigi. Avrebbe passato il Capodanno in Francia, e completato il viaggio
21
L’indulto è un provvedimento di clemenza concesso dallo Stato nei confronti di soggetti che sono stati condannati
per reati, che condona o commuta parte della pena.
22
Politico italiano, primo segretario nazionale del Popolo della Libertà. Dal 2008 al 2011 è ministro della Giustizia del
Governo Berlusconi IV.
23
Ministro della Giustizia nel Governo Prodi II (2006 -2008), in seguito a dimissioni per il coinvolgimento in
un’inchiesta giudiziaria fu sostituito da Luigi Scotti.
di nozze. Si occupava di congressi e cantava: aveva accompagnato Riccardo Cocciante in alcuni concerti, era
apparsa in trasmissioni Rai, a Italia1 con Fiorello. Quella era la sua passione, era brava.»
Come reagirebbe se dovesse per caso rincontrare gli assassini di sua figlia?
«Non mi faccia questo augurio. Preferirei finire a dormire in una tendopoli come quei poveri terremotati
piuttosto che incontrare quelli. La liberazione degli assassini mi ha fatto male, quasi come la notizia della
morte di Letizia. Da 12 anni ogni giorno vado a trovarla al cimitero, stavolta non ce l’ho fatta. Cosa le vado a
raccontare?»
Da Il Giornale, 18 aprile 2009, di S. Gilioli
5.23 LA SETTA DEGLI ORRORI: COSÌ UCCIDEVANO LE BESTIE DI SATANA
Bestie di Satana è il nome che un gruppo di ragazzi della provincia di Varese dà alla setta satanica creata
negli anni ‘90. Sono giovani, alcuni minorenni, sbandati, una scarsa istruzione, in pochi hanno un lavoro.
Passano il loro tempo ad ascoltare musica heavy metal, fondano il gruppo musicale dei “Ferocity”,
consumano cocktail di droga e alcol, praticano riti esoterici. Ma si spingono oltre, fino a premeditare,
organizzare e compiere brutali omicidi che terrorizzeranno la provincia di Varese e l’Italia intera.
MILANO - Con le condanne di oggi inflitte dalla seconda Corte d’Assise d’Appello di Milano ai cinque
membri delle “Bestie di Satana”, si chiude un nuovo capitolo giudiziario degli esponenti della setta accusati
dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere di Mariangela Pezzotta (27 anni), Fabio Tollis e Chiara
Marino (16 e 19 anni), e dell’induzione al suicidio di Andrea Bontade.
L’inizio dell’indagine. Il lavoro degli investigatori inizia con l’omicidio di Mariangela Pezzotta, figlia di un
esponente varesino di Forza Italia e con l’individuazione, pressoché in flagrante, del suo assassino, l’ex
fidanzato, Andrea Volpe (30 anni), e della sua attuale fidanzata, Elisabetta Ballarin (19 anni). Agli inquirenti
si apre la pista del disagio e della devianza giovanile, dell’uso smodato di droghe e alcool. Dell’ossessione
sessuale e del giro di amicizie degli incriminati. Le cronache iniziano ad accennare al cosiddetto “satanismo
acido”.
I primi delitti. Chiara Marino e Fabio Tollis scomparvero da Milano il 17 gennaio del 1998. La sera della
loro scomparsa erano con alcuni amici in un pub di Milano, frequentato anche da Volpe. Intorno alle 23.30
escono dicendo che sarebbero andati a telefonare, ma da quel momento non si hanno più loro notizie. I loro
corpi furono ritrovati in una buca nei boschi di Somma Lombardo solo sei anni dopo, il 28 maggio del 2004.
A portare la magistratura alla scoperta dei delitti delle Bestie di Satana fu proprio l’omicidio di Mariangela
Pezzotta.
Lo chalet degli orrori. L’assassinio, consumato nello “chalet degli orrori” a Golasecca, fu una decisione
collegiale, secondo le affermazioni del reo confesso Andrea Volpe, ex fidanzato della giovane, arrestato
dopo il delitto con la sua nuova compagna, Elisabetta Ballarin, e Nicola Sapone, il leader delle “Bestie”.
Mariangela, ha detto Volpe, sapeva troppo.
Le messe nere. Nella baita di Golasecca gli investigatori trovarono una valigetta contenente tutto il
necessario per compiere riti satanici: denti, capelli, teschi, un drappo nero, delle candele, immagini del
Diavolo e scritti su come si compiono le messe nere. Elementi che fin dal primo momento li misero sulla
pista del satanismo. Una pista poi confermata da Volpe, che, nell’interrogatorio davanti al procuratore della
Repubblica di Busto Arsizio, Antonio Pizzi, e nell’incidente probatorio dell’ottobre del 2005, ricostruì il
massacro di Mariangela Pezzotta, Chiara Marino e Fabio Tollis e svelò molti dettagli sui misteriosi omicidi
avvenuti nel Varesotto.
L’omicidio di Mariangela Pezzotta. Il giorno dell’omicidio, tra Andrea Volpe e Mariangela Pezzotta ci fu
una violenta discussione: lei gli rinfacciava di averle fatto passare dieci anni difficili, lui sparò e la ferì (ma la
ragazza venne poi finita a badilate), obbedendo a un ordine che gli era stato impartito dalla setta, ma che, in
un primo tempo, Volpe avrebbe voluto eludere.
«Ho telefonato a Mariangela - ha spiegato Volpe - e le ho detto di venire a Golasecca perché volevo metterla
in guardia, avvisarla che volevano la sua morte. Per questo quando è arrivata, Elisabetta imbracciava il
fucile. Era a scopo intimidatorio. Ma poi ci siamo messi a bere per festeggiare il suo compleanno, Elisabetta
è andata in cucina a preparare il caffè e io e lei ci siamo messi a litigare. Allora ho caricato l’arma e ho
sparato.»
«E ora, zombi, camminate». Volpe svelò che l’uso dell’ipnosi «era un’abitudine dei capi per controllare gli
adepti» e dei legami con la setta X di Torino. Poi confermò la sua partecipazione all’uccisione di Fabio
Tollis e Chiara Marino, raccontando delle coltellate e dei colpi di mazza inferti alle due giovani vittime, del
riccio che fu loro messo in bocca per non far sentire le urla, dell’urina sui loro cadaveri ormai coperti di terra
e dell’ultima esortazione: «E ora, zombi, camminate se potete».
I motivi. Quanto alle ragioni del duplice omicidio, secondo quanto riferito da Volpe, Fabio fu ucciso perché
non avrebbe avuto la forza di reggere all’omicidio di Chiara, ammazzata perché voleva uscire dal gruppo.
Ma, oltre agli omicidi di Fabio Tollis, Chiara Marino e Mariangela Pezzotta, alle Bestie di Satana furono
ricondotti, più o meno direttamente, anche altri inquietanti episodi avvenuti nel Varesotto, come la morte di
Andrea Ballarin, che il 7 maggio 1999 fu trovato impiccato sulle scale della sua scuola, o quella di Angelo
Lombardo, un 28enne trovato bruciato nel cimitero di Legnano nel dicembre dello stesso anno. E ancora a
Legnano, il 5 maggio 2004, viene trovato impiccato Luca Colombo, un amico di Nicola Sapone.
Suicidio indotto. Un’altra morte misteriosa fu quella di Stefano Bontade, uno degli “anziani” della setta, che,
con gli altri, aveva contribuito a scavare la buca dove furono seppelliti Chiara Marino e Fabio Tollis.
Tuttavia Bontade, temendo per la sua incolumità, aveva deciso di tirarsi indietro. Fu trovato morto in
circostanze sospette: si suicidò la notte del 21 settembre 1998 schiantandosi con la propria auto.
La scelta degli adepti. Due erano i modi utilizzati dalle Bestie di Satana per scegliere gli adepti: al candidato
poteva essere imposto di gettarsi a peso morto, dopo una lunga corsa, contro le siepi del parco prescelto per
il rito, senza lamentarsi per il dolore, oppure di bere un cocktail di alcol e droghe e fare capriole senza
vomitare, bestemmiando ad alta voce.
Il rito. Alcol, droga e bestemmie erano gli elementi indispensabili delle messe nere che venivano celebrate
nei boschi della provincia lombarda, sotto la guida dei capi spirituali, a turno Sapone o Volpe, che
orientavano il pentacolo con la bussola per consentire il collegamento con altre sette.
La musica. Un altro elemento fondamentale era la musica: Hell awaits, “l’inferno aspetta”, è il disco della
metal band americana degli Slayer, che le Bestie di Satana mettevano a tutto volume durante i rituali.
Da La Repubblica, 15 maggio 2007
NOVI LIGURE, QUEL CHE RESTA DI ERIKA DIECI ANNI DOPO
Gli incubi notturni in cella, le poesie per bambini, le confidenze agli amici, gli amori dietro le sbarre, il
futuro... Nel 2001, quando con Omar uccise la madre e il fratellino, era una ragazzina di 17 anni. Ora, dopo
due lustri passati fra riformatorio e carcere, è una donna diversa, a un passo dalla libertà.
Aveva 17 anni quando è entrata in carcere nel 2001. Colpevole del più terribile degli omicidi: la madre e il
fratellino di 11 anni. Oggi Erika De Nardo è una donna di 27 anni che prima di natale sarà del tutto libera.
[…]
Erika. Basta il nome: sono pochi quelli che hanno bisogno dell’ulteriore postilla «quella di Erika e Omar»,
oppure «Novi Ligure», per identificarla. Mercoledì 21 febbraio 2001: in una villetta a due piani di Novi, Susi
Cassini, 42 anni, e il figlio undicenne Gianluca vengono uccisi a coltellate. La figlia della donna, Erika, 17
anni, racconta ai carabinieri di un paio di rapinatori albanesi. Ma dopo i primi accertamenti emerge la verità:
è stata lei, insieme al fidanzato, Omar, stessa età. I due finiscono in carcere. Il 14 dicembre il Tribunale per i
minorenni di Torino condanna con rito abbreviato24 Erika a 16 anni e Omar a 14. La sentenza viene
confermata dalla Corte d’appello e in Cassazione.
Sono passati più di 10 anni. Grazie all’indulto, sconti di pena e buona condotta, Omar ha lasciato il carcere
nel 2010. Erika proprio in questi giorni viene trasferita in una comunità di recupero, dove rimarrà a tempo
pieno fino a Natale, quando sarà una donna libera. Era una ragazzina quando è entrata in carcere. Oggi è una
donna di 27 anni, di cui non si è più saputo nulla. Gli unici due momenti sottratti all’oblio sono stati la prima
volta fuori dal carcere, nel 2006, per una partita di pallavolo, con le foto pubblicate sui giornali, e la notizia
della laurea in Lettere e Filosofia con il massimo dei voti, dell’aprile 2009. Per il resto sulla vita di Erika è
calato il silenzio, come voleva il padre, l’ingegnere Francesco De Nardo, che non si è mai aperto alla stampa,
neppure per una breve dichiarazione.
[…]
Di quella sera Erika fa una rilettura che forse l’aiuta a cancellare il senso di colpa e a rimuovere il macigno
di un delitto che pesa sulle sue spalle. Alle poche amiche con le quali ha stretto un’amicizia simbiotica
continua a ripetere che è stato Omar. Erano entrambi sotto l’effetto della cocaina e lei non è riuscita a
impedirglielo. Quando parla di quei momenti, i suoi occhi sono spenti, vuoti, motivo per cui chi la ascolta si
è convinto che possa avere rimosso tutto.
Erika odia Omar. «Mi innervosisco solo a pronunciare il suo nome. È come se qualcuno mi accoltellasse
ogni volta che ci penso.» Cova sentimenti di vendetta. Perché lo ritiene responsabile del duplice omicidio,
perché era molto geloso e possessivo, perché ha un padre che non le è mai piaciuto. Erika e Omar non si
sono mai sentiti in tutti questi anni. L’unico contatto fra i due è stata la nuova fidanzata di lui che ha scritto
alcune lettere deliranti a Erika.
«Mia madre mi manca da morire, vorrei tanto fosse qui con me», dice Erika alle amiche. E, quando viene a
sapere di una persona a lei cara che ha rischiato di morire, si sfoga così: «Io sono spaventata. Ho perso mia
mamma e mio fratello, ancora non riesco ad accettare che non ci siano più. E non voglio perdere anche lui.»
Erika sogna spesso la madre, che le sta vicino, la abbraccia, le dice di stare tranquilla perché lei le vuole
bene. Gli incubi quando arrivano durano settimane: si sveglia in piena notte, urla. In uno di questi lei è
vestita di nero. Ci sono le sue amiche, sullo sfondo un mare bellissimo. Lei è triste, preoccupata, fatica a
24
Il rito abbreviato fa parte fa parte dei cosiddetti “procedimenti speciali” previsti dal codice di procedura penale. Si
evita il dibattimento e l’imputato (giudicato sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pm) è premiato, in caso di
condanna, con uno sconto di pena.
respirare. Ha problemi al cuore. Entra in una casa, c’è un gatto, le dice che la notte stessa un uomo verrà a
prenderla. Lei non respira. Il sogno finisce perché si sveglia di soprassalto. Piange, ha paura. La mattina
dopo lo racconta alle amiche, dice che da quando litiga con l’educatrice del carcere soffre di fitte al cuore.
[… ]
La ragazza che elabora questi pensieri è oggi una donna di 27 anni che lotta con un passato che prova a fatica
a chiudere in un cassetto e che ogni tanto si risveglia e le si appiccica addosso fino a farla soffocare. Erika
legge la Bibbia e gli scritti di Madre Teresa di Calcutta. Si stampa la poesia Donna della missionaria
albanese, e sottolinea alcuni passaggi: «Però ciò che è importante non cambia, la tua forza e la tua
convinzione non hanno età... Non trattenerti mai!». Nel suo comodino anche un foglio piccolo verde con una
preghiera: «O Dio nostro padre, libertà per gli oppressi e consolatore dei poveri...» e sotto alcune frasi scritte
di suo pugno: «Liberate, vi prego, il mio povero cuore dalle angustie che d’ogni parte l’opprimono e ridonate
la calma a questo spirito che geme sempre pieno d’affanni». Prega tutte le sere, si rivolge alla madre, la
implora di stare vicino a un’amica che soffre per la scomparsa di una persona cara: «Io ci credo che c’è un
altro mondo. E lei ora è là che vi guarda».
[…]
Eccola Erika che dorme a pancia in giù con i pigiami di Paperino, gli orsacchiotti o Betty Boop. Che non
sopporta Hello Kitty e che indossa tute colorate dell’Adidas, jeans a zampa di elefante, felpe e scarpe da
tennis Nike. Erika che un bel giorno di un paio d’anni fa vede passare sotto la finestra il gruppo dei ragazzi
che va al campetto del carcere, e incrocia lo sguardo di uno che aveva già visto al Beccaria. Si innamora.
Conta le ore che la separano dall’incontro con lui, cinque minuti rubati di nascosto in un angolino della
scuola. Si mette a letto con le sue lettere sotto il cuscino, per sentirlo più vicino. Sogna un futuro con lui, un
figlio, e si vede già in sala parto con il suo uomo accanto che le tiene la mano. Lui che è un rapinatore
seriale, e cocainomane. Che esce dal carcere e sparisce nel nulla. Erika lo cerca sui giornali tra le foto di un
gruppo di ragazzi arrestati a Milano. Per fortuna non c’è. Soffre, piange fino a non avere più lacrime. Poi
decide di voltare pagina: «Voglio sentirmi amata, come merito. Voglio una vita serena e tranquilla, una vita
normale. Io in carcere non ci voglio più tornare».
È dolce il sapore della libertà. Il primo permesso per andare in comunità dopo tanti anni. Erika gioca a
pallavolo, fa il bagno in piscina, fa la contadina tra cani, gatti, maialini, falchi, uccelli, colombe bianche,
pappagalli, caprette, conigli. E si ribalta dopo pochi metri con la carriola piena di fieno. Poi monta a cavallo,
galoppa per ore in groppa a una bellissima puledra di nome Pioggia, che ha un occhio azzurro che sembra
felice e un occhio marrone che trasmette malinconia. «Felicità e malinconia, un po’ come me. Infatti quando
mi guarda mi sembra che capisca come mi sento.»
Il papà di Erika le consiglia di allungare un po’ il tempo di permanenza in comunità prima della totale
libertà. L’ingegnere De Nardo vorrebbe un passaggio più morbido e graduale. Erika gli ha promesso che ci
penserà. Perché anche lei ha paura del domani, di quello che succederà fuori. Vuole bere una birra. Poi vuole
fare un bagno al mare, prendere la patente, una casa in affitto. Poi un lavoro, un marito, dei figli, una vita
tranquilla. «Libera davvero, dopo tutti questi anni, mamma mia, ho l’ansia.»
Ma prima c’è da fare il passo più difficile e importante: «Andare da mia mamma. Lì sarà ancora più difficile.
Non so se ce la farò. Al solo pensiero mi prende male. Ma devo farlo». Erika ha capito che la sua vita non
può che ripartire da dove si è fermata.
Da Panorama, 3 ottobre 2011, di C. Abbate
5.24 NOVI LIGURE, QUEL CHE RESTA DI ERIKA DIECI ANNI DOPO
Gli incubi notturni in cella, le poesie per bambini, le confidenze agli amici, gli amori dietro le sbarre, il
futuro... Nel 2001, quando con Omar uccise la madre e il fratellino, era una ragazzina di 17 anni. Ora, dopo
due lustri passati fra riformatorio e carcere, è una donna diversa, a un passo dalla libertà.
Aveva 17 anni quando è entrata in carcere nel 2001. Colpevole del più terribile degli omicidi: la madre e il
fratellino di 11 anni. Oggi Erika De Nardo è una donna di 27 anni che prima di natale sarà del tutto libera.
[…]
Erika. Basta il nome: sono pochi quelli che hanno bisogno dell’ulteriore postilla «quella di Erika e Omar»,
oppure «Novi Ligure», per identificarla. Mercoledì 21 febbraio 2001: in una villetta a due piani di Novi, Susi
Cassini, 42 anni, e il figlio undicenne Gianluca vengono uccisi a coltellate. La figlia della donna, Erika, 17
anni, racconta ai carabinieri di un paio di rapinatori albanesi. Ma dopo i primi accertamenti emerge la verità:
è stata lei, insieme al fidanzato, Omar, stessa età. I due finiscono in carcere. Il 14 dicembre il Tribunale per i
minorenni di Torino condanna con rito abbreviato25 Erika a 16 anni e Omar a 14. La sentenza viene
confermata dalla Corte d’appello e in Cassazione.
Sono passati più di 10 anni. Grazie all’indulto, sconti di pena e buona condotta, Omar ha lasciato il carcere
nel 2010. Erika proprio in questi giorni viene trasferita in una comunità di recupero, dove rimarrà a tempo
pieno fino a Natale, quando sarà una donna libera. Era una ragazzina quando è entrata in carcere. Oggi è una
donna di 27 anni, di cui non si è più saputo nulla. Gli unici due momenti sottratti all’oblio sono stati la prima
volta fuori dal carcere, nel 2006, per una partita di pallavolo, con le foto pubblicate sui giornali, e la notizia
della laurea in Lettere e Filosofia con il massimo dei voti, dell’aprile 2009. Per il resto sulla vita di Erika è
calato il silenzio, come voleva il padre, l’ingegnere Francesco De Nardo, che non si è mai aperto alla stampa,
neppure per una breve dichiarazione.
[…]
Di quella sera Erika fa una rilettura che forse l’aiuta a cancellare il senso di colpa e a rimuovere il macigno
di un delitto che pesa sulle sue spalle. Alle poche amiche con le quali ha stretto un’amicizia simbiotica
continua a ripetere che è stato Omar. Erano entrambi sotto l’effetto della cocaina e lei non è riuscita a
impedirglielo. Quando parla di quei momenti, i suoi occhi sono spenti, vuoti, motivo per cui chi la ascolta si
è convinto che possa avere rimosso tutto.
Erika odia Omar. «Mi innervosisco solo a pronunciare il suo nome. È come se qualcuno mi accoltellasse
ogni volta che ci penso.» Cova sentimenti di vendetta. Perché lo ritiene responsabile del duplice omicidio,
perché era molto geloso e possessivo, perché ha un padre che non le è mai piaciuto. Erika e Omar non si
sono mai sentiti in tutti questi anni. L’unico contatto fra i due è stata la nuova fidanzata di lui che ha scritto
alcune lettere deliranti a Erika.
«Mia madre mi manca da morire, vorrei tanto fosse qui con me», dice Erika alle amiche. E, quando viene a
sapere di una persona a lei cara che ha rischiato di morire, si sfoga così: «Io sono spaventata. Ho perso mia
mamma e mio fratello, ancora non riesco ad accettare che non ci siano più. E non voglio perdere anche lui.»
Erika sogna spesso la madre, che le sta vicino, la abbraccia, le dice di stare tranquilla perché lei le vuole
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Il rito abbreviato fa parte fa parte dei cosiddetti “procedimenti speciali” previsti dal codice di procedura penale. Si
evita il dibattimento e l’imputato (giudicato sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pm) è premiato, in caso di
condanna, con uno sconto di pena.
bene. Gli incubi quando arrivano durano settimane: si sveglia in piena notte, urla. In uno di questi lei è
vestita di nero. Ci sono le sue amiche, sullo sfondo un mare bellissimo. Lei è triste, preoccupata, fatica a
respirare. Ha problemi al cuore. Entra in una casa, c’è un gatto, le dice che la notte stessa un uomo verrà a
prenderla. Lei non respira. Il sogno finisce perché si sveglia di soprassalto. Piange, ha paura. La mattina
dopo lo racconta alle amiche, dice che da quando litiga con l’educatrice del carcere soffre di fitte al cuore.
[… ]
La ragazza che elabora questi pensieri è oggi una donna di 27 anni che lotta con un passato che prova a fatica
a chiudere in un cassetto e che ogni tanto si risveglia e le si appiccica addosso fino a farla soffocare. Erika
legge la Bibbia e gli scritti di Madre Teresa di Calcutta. Si stampa la poesia Donna della missionaria
albanese, e sottolinea alcuni passaggi: «Però ciò che è importante non cambia, la tua forza e la tua
convinzione non hanno età... Non trattenerti mai!». Nel suo comodino anche un foglio piccolo verde con una
preghiera: «O Dio nostro padre, libertà per gli oppressi e consolatore dei poveri...» e sotto alcune frasi scritte
di suo pugno: «Liberate, vi prego, il mio povero cuore dalle angustie che d’ogni parte l’opprimono e ridonate
la calma a questo spirito che geme sempre pieno d’affanni». Prega tutte le sere, si rivolge alla madre, la
implora di stare vicino a un’amica che soffre per la scomparsa di una persona cara: «Io ci credo che c’è un
altro mondo. E lei ora è là che vi guarda».
[…]
Eccola Erika che dorme a pancia in giù con i pigiami di Paperino, gli orsacchiotti o Betty Boop. Che non
sopporta Hello Kitty e che indossa tute colorate dell’Adidas, jeans a zampa di elefante, felpe e scarpe da
tennis Nike. Erika che un bel giorno di un paio d’anni fa vede passare sotto la finestra il gruppo dei ragazzi
che va al campetto del carcere, e incrocia lo sguardo di uno che aveva già visto al Beccaria. Si innamora.
Conta le ore che la separano dall’incontro con lui, cinque minuti rubati di nascosto in un angolino della
scuola. Si mette a letto con le sue lettere sotto il cuscino, per sentirlo più vicino. Sogna un futuro con lui, un
figlio, e si vede già in sala parto con il suo uomo accanto che le tiene la mano. Lui che è un rapinatore
seriale, e cocainomane. Che esce dal carcere e sparisce nel nulla. Erika lo cerca sui giornali tra le foto di un
gruppo di ragazzi arrestati a Milano. Per fortuna non c’è. Soffre, piange fino a non avere più lacrime. Poi
decide di voltare pagina: «Voglio sentirmi amata, come merito. Voglio una vita serena e tranquilla, una vita
normale. Io in carcere non ci voglio più tornare».
È dolce il sapore della libertà. Il primo permesso per andare in comunità dopo tanti anni. Erika gioca a
pallavolo, fa il bagno in piscina, fa la contadina tra cani, gatti, maialini, falchi, uccelli, colombe bianche,
pappagalli, caprette, conigli. E si ribalta dopo pochi metri con la carriola piena di fieno. Poi monta a cavallo,
galoppa per ore in groppa a una bellissima puledra di nome Pioggia, che ha un occhio azzurro che sembra
felice e un occhio marrone che trasmette malinconia. «Felicità e malinconia, un po’ come me. Infatti quando
mi guarda mi sembra che capisca come mi sento.»
Il papà di Erika le consiglia di allungare un po’ il tempo di permanenza in comunità prima della totale
libertà. L’ingegnere De Nardo vorrebbe un passaggio più morbido e graduale. Erika gli ha promesso che ci
penserà. Perché anche lei ha paura del domani, di quello che succederà fuori. Vuole bere una birra. Poi vuole
fare un bagno al mare, prendere la patente, una casa in affitto. Poi un lavoro, un marito, dei figli, una vita
tranquilla. «Libera davvero, dopo tutti questi anni, mamma mia, ho l’ansia.»
Ma prima c’è da fare il passo più difficile e importante: «Andare da mia mamma. Lì sarà ancora più difficile.
Non so se ce la farò. Al solo pensiero mi prende male. Ma devo farlo». Erika ha capito che la sua vita non
può che ripartire da dove si è fermata.
Da Panorama, 3 ottobre 2011, di C. Abbate