La disfagia nel Down anziano

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La disfagia nel Down anziano
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Sezione di Foniatria e Audiologia
Master Universitario in:
“Deglutologia”
A.A. 2008 – 09
Titolo tesi:
“La disfagia nel Down anziano”
(similitudini e non tra la demenza di Alzheimer e quella
della Sindrome di Down)
Autore:
Barbara Corti
Relatore:
Prof. Roberto Albera
1
INDICE
• Introduzione
pag.3
• Disabilità intellettiva e invecchiamento
pag. 4
• Definizione di demenza - Demenza nella malattia di Alzheimer
pag. 5
• Demenza nella Sindrome di Down
pag. 8
• Alterazioni strutturali e funzionali dell’apparato stomatognatico nella sindrome di Down
pag.10
• Tipologia dell’alterazione deglutitoria nel paziente adulto-anziano con AD e DS con DAD, in
relazione alla fisiologia
pag.11
• Progetto DAD di Anffas Onlus Trento:
pag.16
- Prassi operativa
pag.17
- Strumenti per la valutazione dei soggetti adulti e anziani con DI (compresa DS con
sintomatologia DAD) del progetto DAD di Trento
pag.19
- Rilevazioni dei vari item riguardanti l’alimentazione
pag.29
• Proposta di collaborazione tra le due sedi Anffas: Trento e Firenze
pag.31
• Progetto Disfagia di Anffas Onlus Firenze: prassi operativa generale
pag.32
-Procedure di rilevazione per il“pericolo disfagia”
pag.34
-Percorso valutativo
pag.35
-Percorso operativo
pag.39
-Piano di trattamento
pag.40
-Gestione multidisciplinare
pag.44
-Schema di valutazione relativo ad alcuni item riguardanti la capacità di alimentarsi
pag.44
Conclusioni
pag.48
• Bibliografia
pag.50
•
2
INTRODUZIONE
L’invecchiamento dei disabili intellettivi è un fenomeno ancora poco studiato, soprattutto per quanto
riguarda coloro che possono sviluppare una demenza irreversibile come i soggetti affetti da Sindrome
di Down. Infatti solo da poco tempo si stanno mettendo a punto strumenti di assessment, per
comprendere a fondo le dinamiche somatiche, psicosociali e funzionali che caratterizzano tali
patologie e che hanno un decorso progressivo di peggioramento fino all’exitus.
Questa relazione nasce dall’esperienza fatta negli ultimi tre anni dal Centro Anffas Onlus di
Firenze con il progetto“Disfagia” e da una collaborazione con il progetto denominato “DAD”, che
Anffas Onlus Trento sta attuando dal 2005.
Entrambi i centri si occupano di soggetti adulti-anziani affetti da disabilità intellettiva (DI) ed in
particolare da Sindrome di Down (DS), i quali possono sviluppare una sintomatologia di demenza
riconducibile alla malattia di Alzheimer (AD) definita Dementia in Alzheimer’s Disease (DAD).
L’Anffas di Trento sta verificando come per questi soggetti sia difficoltoso procedere ad una
valutazione di demenza che subentra ad una condizione di deficit cognitivo e come in ambito italiano,
non sia stato validato nessuno strumento di indagine neuropsicologica per questo tipo di popolazione.
Lo sviluppo di ipotesi per spiegare e prevedere l’insorgere di una DAD, nella popolazione con DS,
spinge a sviluppare ulteriori interventi per ritardare i sintomi della malattia, ed è per questo essenziale
che possano essere preparate accurate valutazioni e strumenti psicometrici, in grado di individuare le
prime modificazioni cognitive che possano essere attribuite alla DAD stessa (Gomiero et al., 2006).
Dalla ricerca di Anffas Trento di questi quattro anni, è uscita la pubblicazione dell’adattamento
italiano del questionario DMR, (Dementia Questionnaire for Mentally Retarde Persons) primo
strumento predisposto per lo screening della demenza nelle persone con DI, molto utile e
sufficientemente sensibile anche per i follow-up longitudinali degli effetti farmacologici e non.
L’Anffas di Firenze, partendo dal presupposto che nella demenza irreversibile e progressiva è
clinicamente accertato che la disfagia aumenta la comorbilità e la possibilità di mortalità del paziente,
ha come obiettivo quello di attuare un percorso diagnostico-terapeutico, che porti ad una corretta
gestione di tali pazienti cercando di raggiungere la migliore possibile funzionalità deglutitoria. Per
questo viene effettuato uno studio sulle difficoltà di deglutizione e di alimentazione nella DI in
generale, ma soprattutto tale fenomeno è diventato di importanza primaria per i pazienti Down anziani
con sintomi DAD, che presentano problemi ingravescenti di disfagia orofaringea. In tali soggetti è
riscontrabile un’involuzione delle capacità deglutitorie simile ai soggetti con AD, infatti anche il loro
decadimento funzionale avviene nelle fasi medie-finali della malattia ma la differenza sostanziale sta
nel decorso che nei soggetti con DS è molto più veloce.
Le ricerche delle due sedi Anffas, si sono concentrate su aspetti diversi ma concordano
nell’affermare che si debba considerare il paziente Down con DAD, innanzitutto come una persona
anziana resa ancora più fragile dalla sua disabilità intellettiva congenita e che necessita nel rispetto dei
suoi diritti umani e civili di una diagnosi e di un trattamento di tipo olistico.
Anffas Firenze ha proposto ad Anffas Trento, di adottare una stessa procedura valutativaoperativa per la disfagia, standardizzata e informatizzata, utilizzando una stessa terminologia di
identificazione per il tipo e l’intensità di alterazione deglutitoria. Questa collaborazione consentirà di
misurare l’efficacia degli interventi e di individuare le variabili predittive di una futura demenza, con
le conseguenti possibilità di intervenire precocemente là dove è particolarmente necessario, anche per
quanto riguarda la disfagia con un conseguente e immediato effetto positivo sulla loro qualità di vita e
su quella dei caregivers.
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DISABILITA’ INTELLETTIVA E INVECCHIAMENTO
In base alle stime ottenute dall’indagine sulle condizioni di salute e il ricorso ai servizi sanitari del
2004-2005, emerge che in Italia le persone con disabilità intellettiva sono 2 milioni 600 mila, pari al
4,8% circa della popolazione complessiva, (escludendo i bambini di età inferiore ai 6 anni) e il 73,2 %
pari ad 1 milione e 900 mila persone, sono concentrate tra gli anziani.
Considerando anche le 190.134 persone residenti nei presidi socio-sanitari si giunge ad una stima
complessiva di poco meno di 2 milioni 800 mila persone con disabilità intellettiva. Per quanto
riguarda la Sindrome di Down (DS), i dati epidemiologici indicano una popolazione di circa 48.000
persone residenti in Italia, delle quali la maggioranza è rappresentata da persone adulte. Dalla
letteratura disponibile risulta che all’esame autoptico, quasi la totalità delle persone con DS di età
superiore a 40 anni, mostra le tipiche alterazioni della malattia di Alzheimer (AD), (Wisniewski e
Silverman,1966), anche se la demenza non è sempre evidente in vita.
In tutte le persone il naturale processo di invecchiamento porta con sé l’accentuarsi o la comparsa
di alcune patologie, ma per quanto riguarda i soggetti con DS questo procedimento avviene con
anticipo.
Questa sindrome cromosomica, infatti sembra essere legata in modo particolare al processo di
invecchiamento, tanto che essa può essere definita come una sindrome da invecchiamento precoce e
anche in Italia gli studi demografici testimoniano che le persone con DS hanno un’aspettativa di vita
di circa 18 anni in meno rispetto ai soggetti con ritardo mentale non specificato.
Tabella 1. Tassi di prevalenza della demenza nella popolazione con DS (Coppus et al., 2006)
< 50 anni
8,9 %
50 - 54 anni 17,9 %
55 - 59 anni 32,1 %
> 60 anni
26 %
La presenza di un cromosoma in più dà origine ad uno sbilanciamento genetico che determina una
serie di svantaggi biochimici e nell’organismo dei soggetti con DS aumenta la produzione del
precursore della proteina B Amiloide (APP), che è codificata dal gene localizzato sul cromosoma 21.
Questa proteina favorisce la formazione di depositi extracellulari cioè delle tipiche placche
neuritiche del cervello che sono identificate tra le cause di degenerazione neuronale e l’apoptosi di
tipo Alzheimer (Wishart, 1994).
Un secondo fattore di rischio di invecchiamento precoce identificato nei soggetti con DS, è un
incremento dello stress ossidativo dovuto tra le varie cause, ad una sovraespressione della dismutasi
superoddiso-1 (SOD1), sempre codificata da geni localizzati sul cromosoma 21 che altera
prematuramente la bilancia antiossidante.
Tra la malattia di Alzheimer e la sindrome di Down ci potrebbe essere anche un altro tipo di
legame: i pazienti Down hanno spesso mitocondri difettosi organelli che perdono di solito parte della
loro efficienza durante il normale invecchiamento. Per verificare il legame tra i mitocondri difettosi e
l’Alzheimer, i ricercatori hanno esaminato le cellule cerebrali di feti di bambini Down abortiti,
scoprendo che esse contengono una quantità maggiore di APP. Come ulteriore verifica, alcune cellule
normali sono state trattate con una sostanza che danneggia i mitocondri, con il risultato che anche
queste hanno prodotto i livelli di APP osservate nelle cellule dei Down (Jorge Busciglio, 2002).
Il rischio di insorgenza di una DAD, può essere dato anche dalla qualità di vita e dal livello di
stimolazioni non adeguate, infatti più scarse sono e più alta è l’incidenza di sviluppare sintomi di
demenza.
Negli ultimi anni l’aspettativa di vita delle persone con DS è aumentata notevolmente seguendo in
una progressione più rapida l’analogo allungamento che si è prodotto nella popolazione generale.
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Questo è avvenuto sicuramente grazie ad un miglioramento delle condizioni socio-sanitarie (i
trattamenti contro le malattie cardiologiche sono diventati più incisivi ed è diminuita la mortalità
infantile) e come evidenzia la tabella 2, si è passati da un’età media di 9 anni del 1929, ai 48 nel 1990,
e ai 64 anni del 1991, con una tendenza progressiva all’innalzamento che mostra una progressione
demografica superiore a quella della popolazione generale.
Tabella 2 . Studio di Baird e Sadovnich, 1995.
Soggetti Down o
Popolazione generale
Età media di vita
Età media di vita
1929 9 anni
1947 12-15 anni
1961 18 anni
1990 70% >40 anni
1991 44% >60 anni
86.4% >60 anni
1992 13.8% >68 anni
74.4%>68 anni
Questo miglioramento ha coinvolto tutte le persone con disabilità intellettiva (DI) e l’età media di
sopravvivenza che nel 1931 era di 22 anni è aumentata a 59 anni nel 1976 e a 66,1 dal 1993 (Janicki et
al., 1999).
DEFINIZIONE DI DEMENZA- Demenza nella Malattia di Alzheimer
Per demenza si intende una malattia caratterizzata da decadimento rispetto ad un livello
precedentemente più elevato di funzionamento cognitivo e sociale (Cappa, 2000). Il termine di
demenza di recente è stato modificato in “Deterioramento Cognitivo Cronico Progressivo”(DCCP), il
che ha consentito di mettere in luce alcune componenti cliniche che caratterizzano tale quadro
patologico: la progressività sistematica (variazioni peggiorative del quadro entro 6-12 mesi) ed il fatto
che vi sia un peggioramento polisettoriale (p.e. la memoria ed almeno un altro dominio cognitivo). La
diagnosi di demenza è una diagnosi clinica determinata da una storia di declino delle prestazioni e da
anormalità che emergono dall’esame clinico e dall’esecuzione di test neuropsicologici. Il concetto di
demenza nasce dall’anamnesi: la persona era “normale”, o nel caso di DS, con un particolare QI, poi
ad un certo momento qualcosa si modifica neuropsicologicamente in senso riduttivo. Tra i criteri per
la diagnosi di demenza, quelli forniti dal DSM-IV(Diagnostic and Stastical Manual IV edition) e
dall’ICD-10 (International Classification of Disease) sono tra i più utilizzati, infine vi è il sistema di
classificazione ICF (Classificazione Internazionale del funzionamento, delle disabilità e della salute)
che consente una diagnosi funzionale più completa e descrittiva. Moltissime sono le condizioni che
possono determinare demenza, ma questa relazione si occupa di quelle neurodegenerative ed in
particolare dell’Alzheimer che presenta numerose analogie con la demenza nella DS.
L’Alzheimer è la più comune delle malattie neurodegenerative della terza età ed è riconosciuta come il
principale killer dei paesi industrializzati; basti pensare che solo in Europa sono 5,5 milioni le persone
colpite, con costi indiretti e diretti schiaccianti per la società.
In generale le abilità cognitive che usualmente sono più esposte al deterioramento sono:
la capacità visuo-spaziale, mnestica e linguistica, la rapidità nel dare una risposta, le funzioni
esecutive e la capacità adattiva, intesa come possibilità di vivere in maniera adeguata nell’ambiente
sociale di appartenenza, ma accanto ai sintomi che riguardano le funzioni cognitive, si accompagnano
di frequente alterazioni della personalità, del comportamento e delle emozioni.
“Immaginate il vostro cervello come una casa illuminata: ora immaginate che qualcuno spenga le
luci una ad una; questo è quello che fa l'Alzheimer. Spegne la luce in una stanza e poi nell'altra e le
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idee, le emozioni e la memoria si affievoliscono e cessano del tutto” (Madeleine Nash, Time, luglio
2000).
Sfortunatamente, come sanno bene tutti i familiari dei malati,
non c'è ancora nessun modo per evitare che le luci si spengano,
almeno per ora. La malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease o
AD), è una malattia neurologica a carattere progressivo
irreversibile, associata ad alterazioni cerebrali istologiche
(placche neuritiche, masse neuro fibrillari, ecc.) che si sviluppano
quasi sicuramente nelle regioni temporali mesiali (aree
associative) per poi diffondere nei due emisferi verso la neocortex
(amigdala, ippocampo), ovvero le strutture chiave implicate nel
funzionamento della memoria. Grande significato viene attribuito
al deposito di B-amiloide (APP-proteina prodotta dalle cellule nervose) con formazione delle tipiche
placche all’interno della cellula e grovigli neurofibrillari. In corrispondenza di tale alterazione
cellulare, il neurone inizia una serie di eventi programmati che portano alla sua morte, per indicare
tale automatismo si utilizza l’espressione di “suicidio programmato”.
Più in generale la diffusione cerebrale postero-anteriore delle lesioni, dalle aree retro-rolandiche a
quelle pre-frontali, determina il passaggio da una sintomatologia prevalentemente strumentale ad una
prevalentemente disesecutiva. Si osserva inoltre un impoverimento della sostanza bianca cerebrale,
con la morte di interi distretti neuronali dendritici ed un assottigliamento delle circonvoluzioni. La
riduzione del volume viene parzialmente colmata dall’ampliamento dei solchi, in relazione ai lobi
frontali e parietali, con l’aumento del liquor cerebro spinale, specie in corrispondenza di queste aree
con un certo allargamento del sistema ventricolare (Hume Adams e Grahm, 1996).
E’ la maggior forma di patologia neurodegenerativa e colpisce il 5% dei soggetti sopra ai 65 anni
ed è tra le principali cause di demenza (60% di demenza è AD ).
La demenza AD presenta una storia preclinica e prodromica non chiaramente definibile e una storia
clinica ed una stadiazione abbastanza precisa, con fasi successive che scandiscono inesorabilmente il
decorso della malattia: precoce ed iniziale, intermedia e finale.
I sintomi inizialmente insorgono in modo talmente leggero da passare inosservati sia al malato che
ai suoi familiari ed alcuni come la perdita di memoria, di iniziativa e di interesse, possono essere
scambiati per un normale effetto dell’invecchiamento. Con il progredire della malattia alcuni sintomi,
come la perdita della memoria, specie a breve termine, diventano sempre più evidenti e cominciano a
interferire con le attività quotidiane e con la vita di relazione e non possono più essere ignorati e
accettati come una condizione legata all’età.
Schema riassuntivo dell’andamento sintomatologico dell’AD (Reinsberg e coll.,1988)
Fase Iniziale
• Minimo disorientamento temporale;
• Difficoltà nel ricordare eventi recenti;
• Aprassia costruttiva per disegni tridimensionali;
• Ansia/depressione/negazione di malattia;
• Difficoltà a trovare le parole;
• Capacità di comprendere le parole relativamente conservata;
• Difficoltà sul lavoro;
Fase Intermedia
• Disorientamento spazio temporale;
• Deficit di memoria moderato-grave;
• Chiaro disturbo del linguaggio;
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• Aprassia costruttiva (incapacità ad eseguire attività motorie come per es. lavarsi, vestirsi e
alimentarsi, nonostante l’integrità della comprensione e della motricità);
• Agnosia( incapacità a riconoscere o identificare oggetti in assenza di deficit sensoriali);
• Bradicinesia e segni extrapiramidali;
• Alterazioni comportamentali (deliri, allucinazioni, wandering);
• Necessità di essere stimolato nella cura della propria persona;
• Aprassia ideativa ed ideomotoria, aprassia dell’abbigliamento;
Stadi Terminali
• Completa perdita delle abilità cognitive;
• Difficoltà di riconoscimento dei volti;
In soggetti con malattia di Alzheimer l’aspetto nutrizionale si modifica parallelamente al decorso
sintomatologico e può portare a varie conseguenze:
Fase Iniziale
• Modifiche dell’olfatto e delle preferenze verso alcuni alimenti;
• Difficoltà nel riconoscimento e nella percezione degli odori, con predilezione verso gli
alimenti marcatamente dolci o salati;
Fase Intermedia
• Si osservano frequentemente una perdita di peso;
• Difficoltà di deglutizione, con accumulo di cibo all’interno del cavo orale senza deglutirlo;
• Difficoltà di masticazione e di elaborazione del bolo, con relativo rischio di soffocamento;
• Difficoltà nell’utilizzo delle posate, fino all’impiego delle sole mani;
Fase Finale
• Non riconoscimento del cibo o rifiuto di alimentarsi in parte o totalmente;
• Elevato rischio di complicazioni: malnutrizione, disidratazione, malattie infettive (polmoniti),
fratture e piaghe da decubito;
Dopo circa qualche anno dall’insorgenza della malattia il soggetto richiede una notevole assistenza
per nutrirsi e una valutazione dello stato nutrizionale diventa indispensabile.
L’aspetto nutrizionale si modifica parallelamente al decorso sintomatologico. Lo scadimento delle
condizioni generali del paziente affetto da demenza e in particolare da demenza di Alzheimer è
frequente nella fase avanzata della malattia: l’alimentazione rappresenta l’ultima attività della vita
quotidiana ad andare perduta e ciò coincide con la fase terminale della malattia.( Cervo FA et
al.2006).
Il trattamento di un’eventuale malnutrizione è importante prima che si cronicizzi, rallenta il decorso
della patologia stessa e aumenta la qualità di vita del soggetto e di chi lo assiste.
La nutrizione e l’idratazione artificiali sembrerebbero fornire una risposta diretta alla disfagia ed al
calo ponderale dei dementi in fase avanzata ma è discutibile l’appropriatezza dell’ indicazione:
bisogna considerare che il calo ponderale è comune nei soggetti con demenza e una dieta adeguata
non sembra necessariamente influenzare il mantenimento di un corretto peso corporeo, perché si può
supporre che la malattia comporti anche un’inadeguata assimilazione dei nutrienti o un alterato
metabolismo.
Le finalità della nutrizione artificiale nel paziente affetto da demenza sono varie: prevenzione della
polmonite ab ingestis, prevenzione della malnutrizione, allungamento della sopravvivenza, riduzione
dei rischi di infezione, anche se non vi sono evidenze certe che tali finalità siano raggiungibili mentre
in letteratura sono riportati gli effetti indesiderati che possono essere locali, pleuropolmonari,
addominali e di altra natura.
La qualità metodologica degli studi pubblicati in generale è però limitata e non vi sono studi clinici
controllati che possano consentire un giudizio conclusivo.
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DEMENZA NELLA SINDROME DI DOWN
Va sottolineato che per le conoscenze attuali, il modello neurofisiologico di soggetti Down con
demenza, non differisce dal quadro di soggetti affetti da demenza di tipo Alzheimer ad eccezione del
fattore tempo, infatti nei soggetti con DS e DAD, le fasi della malattia si susseguono con una
maggiore velocità.
Naturalmente, la differenza è dovuta anche al fatto che la demenza, nella DS si insinua in una
situazione di livello cognitivo e sociale già alterato rispetto alla normalità e quindi la diagnosi e la
valutazione di tali soggetti è molto più difficile e richiede maggiore attenzione e accuratezza.
Ma come nei pazienti affetti da AD, ritroviamo:
1. Placche neuritiche (Senile Plaques, SP), depositi extracellulari di sostanza
amieloide nella corteccia cerebrale;
2. Grovigli neurofibrillari (Neurofibrillary Tangles, NFT), filamenti di proteina
tau all’interno di singoli neuroni;
3. Degenerazione granulovacuolare dei neuroni prevalentemente del sistema colinergico.
Nella sindrome di Down (DS), che è la forma prevalente di DI, i tassi di incidenza e prevalenza di
demenza aumentano con l’età e risultano essere di gran lunga superiori (Coppus et al., 2006;
Margallo-Lana et al., 2007) rispetto alla popolazione generale, anticipando di circa 20-30 anni
l’esordio della malattia. I tassi di prevalenza variano dal 4% nel campione di casi che vivono in
comunità (Devenny et al., 1996) fino all’88% nel campione di soggetti residenti in istituto (Evenhuis,
1990), ma gli studi condotti nella sola popolazione residente in istituto possono essere stati
pregiudicati in quanto includevano probabilmente una preselezione di pazienti con demenza bisognosi
di servizi di supporto.
Come nella popolazione generale, la prevalenza (sebbene non sempre l’incidenza) della AD è più
alta nel sesso femminile e questo come nella popolazione generale è un dato importante anche nei
confronti delle persone con DS, questo perché sia i tipi che la frequenza di manifestazioni
comportamentali della AD, sono abitualmente molto diversi tra uomini e donne (Journal of
Intellectuali Disability Research,41,152-164).
Nello studio sulla “Demenza e mortalità nelle persone con Sindrome di Down” (Coppus, Evenhuis
et al., 2006) sono state valutate 506 persone con DS di età uguale e superiore ai 45 anni e risulta essere
uno dei più ampi studi longitudinali basato sulla popolazione. L’età media di insorgenza della
demenza risultava essere tra i 50 ed i 55 anni. La prevalenza complessiva della demenza era del 16,8%
(85 casi). In questo studio non sono state riscontrate differenze significative tra uomini (16,4%) e
donne (17,3%) e non vi era nessuna differenza significativa nel livello cognitivo prima dell’insorgenza
della malattia tra le persone con demenza e quelle senza demenza, ma le persone con demenza erano
più frequentemente istituzionalizzate e la demenza stessa, più o meno riconosciuta, poteva essere una
ragione del ricovero in istituto.
Sopra i 59 anni la prevalenza della demenza raddoppiava ogni 5 anni di intervallo, se all’età di 49
anni era di 8,9%, nell’età tra 50.54 anni era 17,7%, nell’età tra 55-59 anni era 32,1%, dopo i 60 anni
gli autori non hanno trovato un ulteriore incremento nella prevalenza della demenza fermandosi ad
una percentuale del 25,6%. Al contrario l’incidenza aumentava anche dopo l’età dei 60 anni (dal 2,53
ogni 100 persone/anno nella fascia di età tra 45-49 anni si passava al 13,31 per 100 persone/anno nelle
fasce di età più avanzata) e quindi la diminuzione osservata nella prevalenza non poteva essere
spiegata con una diminuzione dell’incidenza.
I risultati ottenuti suggerivano che la mortalità nelle persone con demenza, sopra i 60 anni, era alta
e ciò poteva spiegare in parte, insieme ad altri fattori non ancora definiti, la diminuzione nella
prevalenza di demenza nella popolazione con DS dopo i 60 anni.
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Interessante notare che, dopo i 60 anni, la mortalità in coloro affetti da demenza è pressoché simile
a quella di coloro che non lo sono suggerendo che patologie fisiche ed organiche sembrano divenire
più importanti della demenza come causa di morte nella popolazione con DS sopra i 60 anni. Tuttavia,
in tutte le fasce di età prese in considerazione, i tassi di mortalità nelle persone con DAD erano più del
doppio rispetto a coloro senza demenza, sottolineando la fragilità di questa sottopopolazione di
disabili intellettivi.
Lo studio di Margallo-Lana et al. (2007) ha il pregio di riportare, oltre ai tassi di incidenza di
demenza calcolati su un campione di 92 soggetti adulti con DS, inizialmente ospedalizzati, seguita per
15 anni, anche delle correlazioni clinico-neuropatologiche in 18 soggetti. Dagli esami post mortem
emerge che occorre una densità di NFT superiore o uguale a 13/mm2 e non quella delle SP, per
rendere la malattia clinicamente manifesta in vita.
Riassumendo questi dati epidemiologici, i soggetti con DS si ammalano prima e più spesso di
DAD, la malattia è dipendente da fattori sia biologici (densità dei NFT) che psicosociali quali
l’ambiente di vita e il livello premorboso delle capacità funzionali (Devenny et al., 1996).
Tuttavia, la DAD(Dementia in Alzheimer’s Disease) non è universale e molti anziani con DS non
sviluppano alcuna demenza clinicamente manifesta, pur evidenziando le tipiche lesioni della malattia
nel momento in cui viene effettuata un’autopsia cerebrale ( Wisniewski e Silverman, 1996).
Questa elevata variabilità interindividuale, sottolinea la complessità della eziopatogenesi della
malattia (Margallo-Lana et al. 2007) e il ruolo importante di fattori protettivi e di rischio per la DAD
stessa (Bush e Beail 2004).
Anche nella DS i sintomi iniziano in modo “subdolo” e molto importante quindi diventa la diagnosi
che deve essere precisa e ripetuta nel tempo per escludere tutte le possibili altre cause di cambiamento.
Si deve valutare per esempio l’ipertiroidismo, la perdita sensitiva, le infezioni di tipo acuto, la
depressione, la sindrome demenziale reversibile, l’aspetto cognitivo-comportamentale e naturalmente
i comuni test neurocognitivi usati nella popolazione normale non sono utili per gli individui con DS o
DI in generale.
Schema riassuntivo dell’andamento sintomatologico della DS con DAD
Nei primi tempi della malattia nei soggetti con DS si possono verificare
• Cambiamenti di personalità, irritabilità o apatia;
• Perdita del linguaggio o cambiamento nell’abilità linguistica;
• Disorientamento spazio-temporale;
• Declino nelle abilità di cura personale, questo è molto importante perché riflette il livello di
abilità funzionali e nei soggetti con DI è un punto di osservazione cruciale;
• Incontinenza in individui che erano autonomi;
• Perdita di memoria a breve termine rispetto al livello precedente;
• Alterazione del ritmo sonno-veglia
Quando la demenza si aggrava si possono verificare:
• Reazioni di avversione al cibo, tanto da impedire al paziente di alimentarsi, il cosiddetto
“comportamento resistente”(Blandford et all.,1997) o di avere un “comportamento selettivo”
riguardante sia la consistenza che il gusto.
La frequenza dei comportamenti di avversione al cibo aumenta nel tempo, la disprassia aumenta
con l’incapacità funzionale e la prossimità dell’exitus, mentre il comportamento resistente diminuisce.
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ALTERAZIONI STRUTTURALI E FUNZIONALI DELL’APPARATO
STOMATOGNATICO NELLA SINDROME DI DOWN
Nella sindrome di Down, sia in età evolutiva che adulta, gli aspetti di alterazione strutturale e
funzionale che alterano il normale processo di organizzazione della capacità deglutitoria e di
alimentarsi, in generale sono legati sia al grado di DI ma anche alla conformazione in particolare
dell’apparato digestivo e respiratorio.
Guardando in generale, la fisiologia della deglutizione nella DS, non si può non sottolineare
l’alterato sviluppo anatomo-scheletrico e dei tessuti molli orali di tali soggetti, soprattutto in relazione
alle fasi deglutitorie orali.
Infatti nel soggetto con DS, abbiamo già un'anomalia primaria dello scheletro della regione orofacciale, che porta ad uno sviluppo deficitario del terzo medio del viso. Ciò causa spesso una relazione
prognatica della mandibola, detta anche relazione di III classe di Angle, vi è un’ipotonia generalizzata
della muscolatura oro- facciale, con conseguente predisposizione a sviluppare malocclusioni e disturbi
della masticazione.
Questo prognatismo peggiora il morso aperto, quando è presente. Spesso
non si formano i seni mascellari e frontali o sono poco rappresentati. Il
palato si presenta stretto e profondo, esso normalmente è di altezza
regolare, ma l'ispessimento mucoso ai lati può arrivare al punto di ridurne
il diametro trasversale, lasciando meno spazio alla lingua, che in
condizioni di riposo dovrebbe adattarsi alla concavità della volta palatina.
Spesso con i nostri pazienti Down anziani ci troviamo difronte a delle
bocche che non hanno avuto nessun tipo di attenzione nella prevenzione e
nel miglioramento della funzionalità di tali distretti, per cui spesso
dobbiamo attuare un intervento di tipo rimediativo e sempre nelle fasi
medie e finali della malattia un accurato accudimento per quanto riguarda
l’ igiene orale.
L'incidenza della respirazione orale è molto alta nella DS. Questo sembra
dovuto alle piccole vie aeree nasali e alla presenza di infezioni croniche delle vie respiratorie superiori
(URI: Upper Respiratory Infections). La lingua tende a sporgere fuori
del cavo orale e ad apparire troppo larga (macroglossia). Una vera
macroglossia è rara, piuttosto si assiste a una macroglossia relativa,
cioè la lingua è di normali dimensioni, ma la cavità orale è ridotta a
causa dello sviluppo insufficiente del terzo medio della faccia.
Le fissurazioni linguali e delle labbra possono dipendere dalla
respirazione orale. I pazienti vanno educati allo spazzolamento della
lingua durante le manovre quotidiane di igiene orale, per ridurre
l'alitosi.
Tale spazzolamento è molto importante nelle fasi medie e
terminali della malattia dei soggetti con DS e DAD e viene effettuato per poter rimuovere tutti quei
residui alimentari e di secrezioni, che altimenti potrebbero essere inalati e provocare una polmonite
ab-ingestis.
Un'altra complicanza della respirazione orale cronica è la xerostomia, essa riduce la naturale
detersione del cavo orale prodotta dalla saliva e può contribuire allo sviluppo della carie dentale (in
alcuni casi è anche accompagnata da xeroftalmia). Anche la cheilite angolare, che si manifesta con le
piccole ragadi delle commessure labiali, può essere collegata alla respirazione orale cronica.
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I tempi di eruzione dentale per entrambe le dentizioni, decidua e
permanente, sono in genere ritardati nei pazienti con la DS, anche
fino a due o tre anni rispetto al fisiologico periodo previsto nella
popolazione generale e i denti erompono spesso in ordine diverso. E'
alta la percentuale dei denti mancanti (agenesie) e delle
malformazioni dentali. L'oligodonzia, cioè la diminuzione del numero
dei denti presenti , può essere riscontrata con una frequenza variabile
tra il 38 e il 63% dei pazienti con DS. Sono gli incisivi laterali
superiori i denti più spesso mancanti nelle arcate dentarie e a volte sono più piccoli ("conoidi" ).
Nei soggetti con DI anziani, in generale e in particolare con quelli con DS, l’edentulia spesso è
totale, la possibilità di mantenere le protesi dentarie è possibile fino a che il paziente è vigile, cioè
spesso fino alla comparsa della demenza poi le protesi possono diventare un ausilio incongruo e
pericoloso.
Pazienti con la DS sperimentano maggiore incidenza di malattia del parodonto.
Si può avere una malattia precoce: "parodontopatia severa giovanile", con inizio fin dalla pubertà.
La distruzione del parodonto è simile a quella della periodontite giovanile e denti più colpiti sono gli
incisivi mandibolari e i molari mascellari. Il grado di malattia parodontale non è correlato alla quantità
di placca sui denti, la gravità della malattia potrebbe essere invece correlata all'abbassamento delle
difese del soggetto, in uno stato di compromissione del sistema immunitario.
TIPOLOGIA DELL’ALTERAZIONE DEGLUTITORIA NEL PAZIENTE ADULTOANZIANO CON AD E DS CON DAD, IN RELAZIONE ALLA FISIOLOGIA
La disfagia soprattutto di tipo oro-faringeo è un sintomo spesso sottovalutato ma frequente nella
pratica clinica geriatrica generale e in particolare nella disabilità intellettiva e nei soggetti Down
anziani con DAD; mentre quella esofagea è spesso oggetto di attenzione medica essendo spesso legata
a patologia organica. I lavori scientifici in merito alla disfagia oro-faringea sono scarsi, soprattutto in
riferimento ai processi di invecchiamento, questo nonostante ci siano dei dati che riferiscono che ogni
anno circa 10000 anziani muoiono per soffocamento da cibo e da complicanze respiratorie causate da
aspirazione .
Nell’invecchiamento fisiologico si verificano condizioni che potrebbero favorire la disfagia orofaringea e l’aspirazione del bolo alimentare: incremento di grasso e tessuto connettivo a livello della
lingua con aumento di volume della stessa, edentulia con successiva atrofia del tessuto osseo
alveolare, ipotrofia dei muscoli masticatori, ipofunzione delle ghiandole salivari con ridotta
secrezione, decremento del tono muscolare esofageo con ridotta peristalsi, abbassamento laringeo,
aumento della soglia del riflesso della tosse, riduzione della sensibilità faringea e sopraglottica,
allettamento( Logemann J.A 1996).
La sindrome demenziale, sia nelle sue manifestazioni patogenetiche degenerative che in quelle
vascolari, è spesso associata ad incapacità di alimentarsi(Volicer E. et al,1989). La demenza è infatti la
causa più comune di deficit della fase orale e faringea , più del 70% dei dementi ha una fase orale
della deglutizione alterata, circa il 40% presenta anomalie della fase faringea e più del 30% ha
anormalità nel segmento faringo-esofageo (Feinberg M.I et al.1992).
Gli anziani dementi hanno tempi prolungati di deglutizione e più frequenti episodi di penetrazione
ed aspirazione , fenomeni ben evidenziati dal mezzo di contrasto alla videofluoroscopia .
La disfagia orofaringea può determinare importanti complicanze respiratorie e nutrizionali a breve
e lungo termine. Le complicanze respiratorie sono rappresentate dalla penetrazione di cibo nelle
vallecule epiglottiche e nei seni piriformi: dal punto di vista clinico tali evenienze possono essere del
tutto asintomatiche o manifestarsi con tosse stizzosa, voce “umida” o accessi di dispnea durante il
pasto o subito dopo, fino alle complicanze più gravi dell’aspirazione tracheale con possibilità di
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sviluppo di infezioni respiratorie come la polmonite ab ingestis o la morte improvvisa da
soffocamento.
La disfagia orofaringea insieme al ridotto livello di coscienza, alle malattie paradontali e alle
interferenze meccaniche di posizionamento da sondino, rappresentano uno dei principali fattori
predisponenti le polmoniti da aspirazione.
Comunemente però le demenze irreversibili e progressive (DCCP), non vengono considerate
malattie terminali (Sachs GA et al 2004) e questo inevitabilmente rende meno chiaro e condiviso
anche l’approccio alla disfagia e al calo ponderale del paziente, aumentandone la criticità. Alla luce
delle limitate evidenze disponibili appare ragionevole sostenere che in soggetti affetti da demenza in
fase avanzata, la nutrizione enterale generalmente non prolunghi la vita e non ne migliori la qualità,
per la ragione che il calo ponderale in questi pazienti è correlato ad una condizione di omeostasi con
un metabolismo che si è gradualmente ridotto.(Hoffer LJ 2006). L’indicazione della PEG nel paziente
affetto da demenza in fase avanzata, appare sicuramente non generalizzabile se non inappropriata ed
eventualmente può essere oggetto di valutazione caso per caso.(Loser C. et al ESPEN Clinical
Nutrition 25:330-360).
Il posizionamento della PEG andrebbe quindi attuato solo in pazienti con disfagia di recente
comparsa a rischio di malnutrizione o con malnutrizione ancora reversibile e quando la prognosi è
favorevole, cioè con un’aspettativa di vita superiore ad almeno sei mesi (Monteleoni e Clark 2004).
L’alimentazione può avvenire dopo attenta valutazione, in relazione alla determinazione del grado
di disfagia ponendosi alcuni principali obiettivi:
1) Prevenire l’aspirazione e favorire una deglutizione sicura;
2) Mantenere o recuperare un adeguato stato nutrizionale;
3) Continuare fino a che è possibile a curare l’aspetto edonistico del cibo, stimolando nei modi e
nei tempi necessari ogni possibilità percettiva e funzionale.
Causa spesso sottovalutata di disfagia orofaringea nel paziente anziano in generale e in particolare con
DS e DAD è rappresentata dai farmaci. Le benzodiazepine e gli anticonvulsivanti che inducono
riduzione del livello di attenzione e vigilanza, i neurolettici che possono determinare discinesie buccolinguo-faringee, antidepressivi e anticolinergici che riducono la secrezione salivare rendendo
difficoltosa la preparazione e la discesa del bolo, i corticosteroidi, gli ipolipemizzanti e la colchicina
che possono indurre miopatie, sono tutti farmaci ampiamente utilizzati e che possono interferire con il
fisiologico meccanismo della deglutizione (Buchholz D.W. , 1994).
Nei soggetti anziani con AD e DS con DAD, come già detto è predominante l’alterazione della fase
orale e faringea ma anche altre fasi della deglutizione devono essere prese in considerazione, sono
cioè quelle fasi che vengono compromesse di solito anche nell’anziano normale ma che lo sono
maggiormente in quello demente: la fase “anticipatoria” e di “preparazione extra-orale”.
La fase anticipatoria fisiologicamente consiste in tutte quelle modificazioni che coinvolgono il
cavo orale e faringeo prima che il cibo oltrepassi lo sfintere labiale (Owens et al, 2000).
La funzione è quella di preparare tutte le strutture deglutitorie e digestive a svolgere al meglio
queste due funzioni.
Gli imput sensoriali forniti principalmente da vista e olfatto, combinati con ricordi espliciti ed
impliciti, modificano la secrezione salivare e gastrica, così come il tono della muscolatura liscia e
striata. A tutti sono noti gli esperimenti di Pavlov in proposito, così come a tutti sono note le
modificazioni indotte dalla visione e dall’odorato di cibi a noi graditi. La fase anticipatoria può avere
un significato di preparazione ad una migliore deglutizione e digestione, sia un significato opposto;
infatti a molti capita che il solo odore di alcuni cibi evochi conati di vomito, se non fenomeni di
rigurgito o vomito veri e propri. La funzione di questa fase è ben evidente: favorire l’assimilazione di
sostanze favorevoli allo sviluppo e al mantenimento e cercare di evitare il contatto con sostanze
nocive. Fondamentale è il ruolo svolto dagli organi di senso vista e olfatto e della memoria: questa
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deve essere considerata non solo nelle sue componenti esplicite o dichiarative, ma anche in tutte
quelle forme di memoria sensoriale che non raggiungono il contenuto di coscienza.
Evidente è l’importanza di fattori cognitivi ed esperenziali, quindi nel soggetto con DS e sintomi di
DAD, tale fase già alterata in partenza sarà sempre più compromessa in diretta relazione all’ avanzare
dell’evento dementigeno.
La fase di preparazione extra-orale diventa molto importante perché comprende tutte le
modificazioni di consistenza: viscosità, temperatura e dimensioni del bolo che deve essere introdotto
nel cavo orale (Schindler e Juliani,1998). L’importanza di questa fase da un punto di vista riabilitativo
è enorme, dal momento che la modificazione delle caratteristiche degli alimenti è uno dei capisaldi
della riabilitazione della deglutizione stessa (Fujiu-Kurachi,1999; O’Gara,1990) ed è infatti uno dei
punti fondamentali del piano operativo attuato dall’Anffas di Firenze.
Tra le fasi maggiormente compromesse nell’anziano demente in generale e con più velocità di
decadimento nei soggetti con DS e DAD, è la fase di preparazione orale
perché comprende tutte quelle modificazioni che vengono effettuate sul cibo,
fino a trasformarlo in bolo pronto per essere deglutito: di questa fase fanno
parte la salivazione e la masticazione (Schindler et al,1990).
Fisiologicamente distinguiamo un momento di ingestione, in cui il cibo
oltrepassa lo sfintere labiale, uno di trasferimento alla regione postcanina, in cui
può aver luogo la masticazione e uno di trasformazione del bolo (Miller,1999).
Nella fase di preparazione orale, come nelle due precedenti, la funzione
deglutitoria è unita a quella digestiva. I pattern motori di questa fase variano a
seconda della consistenza, temperatura e viscosità del cibo, nonché in base a variazioni individuali
nella preparazione del bolo e nella degustazione del cibo.
Benché l’aspetto edonistico della deglutizione coinvolga tutte le fasi è soprattutto durante la
preparazione orale che un cibo viene apprezzato o non apprezzato. Si osserva:
1. La chiusura dello sfintere labiale , per contrazione del muscolo orbicolare;
2. Il movimento laterale e rotatorio della mandibola per l’azione combinata dei muscoli elevatori
della mandibola stessa, cioè il temporale, massetere, gli pterigoidei e dei loro antagonisti: muscoli
sovra e sottoioidei;
3. Il tono buccale e facciale, per contrazione dei muscoli facciali e del muscolo buccinatore in
primis;
4. I movimenti rotatori e laterali della lingua, per azione della complessa muscolatura linguale
intrinseca;
5. La protrusione anteriore molle, allargando la via nasale e restringendo l’ingresso orofaringeo,
riducendo la caduta prematura inintenzionale del cibo in faringe, per azione del muscolo palatoglosso.
Delle cinque azioni neuromuscolari caratteristiche di una normale preparazione orale, il movimento
laterale e rotatorio della lingua è quello più critico, per il controllo del bolo nella bocca,
posizionandolo sulle superfici superiori dei denti, mescolandolo con la saliva e riposizionandolo sui
denti.
Senza il fine controllo della lingua, il bolo potrebbe spargersi irregolarmente nella bocca o cadere
prematuramente in faringe.
Alla fine della preparazione buccale, la lingua assembla in una piccola palla o bolo i pezzi di cibo
che sono nelle varie parti della bocca. Quando il cibo è raccolto in una singola palla, generalmente la
lingua circonda il bolo e lo tiene verso la parte centrale del palato, immediatamente prima dell’atto
deglutitorio. L’aspetto della lingua con i lati elevati ed un solco centrale che circonda il bolo, è molto
simile a quello adottato nella produzione del fonema consonantico “sc”.
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La posizione della lingua con un solco centrale è ottenibile per azione della muscolatura intrinseca.
E’ durante la fase di preparazione orale che hanno luogo le funzioni “intelligenti” della bocca, sia
cognitive, sia di conoscenza di quanto introdotto in bocca, sia volitive e di “decision making”, cioè di
decisione del destino di quanto è stato introdotto. La sequenza masticatoria prevede la
sincronizzazione fra i gruppi muscolari che controllano la mandibola, lo ioide e la lingua. Il
movimento della mandibola richiede l’attivazione ciclica dei muscoli masticatori: temporale,
massetere e pterigoidei interno ed esterno con la funzione di elevazione della mandibola e di quelli
sovraioidei con la funzione di apertura della mandibola. Il ruolo della muscolatura ioidea è essenziale,
infatti essa entra in gioco durante la masticazione ma ha anche la funzione importantissima di
elevazione del complesso iodo-laringeo durante la fase faringea.
Nella disfagia neurologica, nelle demenze, nella fase di preparazione orale si possono riscontrare
alterazioni della chiusura della rima labiale, l’impossibilità o la difficoltà a chiudere le labbra che
determina scialorrea e fuoriuscita del cibo dalla bocca e in particolare nelle DS con DAD tutto questo
è aumentato dalla congenita alterazione organica e funzionale.
Anche i movimenti mandibolari possono essere limitati per una compromissione parziale o totale
dell’escursione mandibolare, per la debolezza muscolare, per l’incoordinazione o riduzione della
sensibilità, non permettendo quindi il corretto posizionamento del bolo nel solco mediano linguale.
Si verificano inoltre alterazioni nei movimenti linguali antero-posteriori, verticali e laterali o una
riduzione della forza complessiva, presenza di edentulia parziale o totale che possono determinare
incapacità a formare il bolo con possibile inalazione nelle vie aeree.
L’eventuale caduta del cibo in laringe per gravità, avviene a causa del fatto che le vie aeree in
questa fase, non sono ancora in posizione di chiusura non essendo ancora stato elicitato il riflesso
faringeo di deglutizione.
Durante la masticazione anche una ridotta escursione del movimento in avanti del palato molle, che
restringe l’apertura faringea può determinare la perdita di residui di cibo in faringe, con possibilità di
inalazione nelle vie aeree prima che sia avvenuto l’innesco della deglutizione faringea.
La fase di preparazione orale è indispensabile solo per
cibi solidi, che necessitano di essere ridotti alla giusta
consistenza per poter essere deglutiti; nell’impossibilità di
eseguire tale compito diventa fondamentale considerare per
rendere possibile un’alimentazione per os, le varie
restrizioni dietetiche, i compensi o le varie strategie
posturali.
L’altra fase da tenere molto in considerazione come già
detto è quella “orale”.
Analizzando fisiologicamente la fase orale, si nota che incomincia nel momento in cui la lingua da
inizio al movimento posteriore del bolo e ha fine nel momento in cui viene triggerato il riflesso
deglutitorio, terminando così il controllo volontario( Logemann, 1983).
La lingua si muove in alto e indietro mettendosi in contatto con il palato, con un’azione di
schiacciamento( a tubo di dentifricio) e di rotolamento spingendo il bolo fino al suo confine posteriore
verso l’orofaringe, tutto questo mentre la mandibola è mantenuta chiusa per azione dei muscoli
temporale, massetere, pterigodeo interno ed esterno. L’azione della lingua è ascrivibile al muscolo
genioglosso, con la punta della lingua fissata sul palato duro e i lati sulla faccia orale dell’arcata
dentaria superiore. Il processo ha durata inferiore al secondo e prevede la chiusura dello sfintere
labiale, il movimento linguale sopradescritto e il mantenimento di un adeguato tono della muscolatura
buccale per evitare che il bolo cada nei solchi laterali; nel momento in cui viene elicitato il riflesso
deglutitorio si assiste ad un’ulteriore funzione cognitivo-decisionale, dovendosi analizzare le
caratteristiche del bolo e il suo destino nel canale digestivo.
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Nella patologia di tipo neurologico, nei casi di demenza AD e di DS con DAD ci può essere una
ridotta escursione in senso verticale e/o antero-posteriore, un’alterata coordinazione dei movimenti
della lingua, questo comporta una ridotta efficienza nella propulsione e un aumento del tempo del
transito orale: saranno necessari più atti deglutitori per liberare la cavità orale dal bolo e la
deglutizione risulterà alquanto laboriosa.
Tale maggiore fatica richiesta per compensare l’alterazione può determinare
aspirazione, in quanto come già detto le vie aeree sono ancora aperte.
Normalmente la fase faringea, inizia nel momento in cui il bolo oltrepassa lo
sfintere palotoglosso e termina con il superamento dello sfintere crico-faringeo o
esofageo superiore (SES).
Sicuramente questa è la fase più complessa, avviene in un tempo inferiore al
secondo, variabile a seconda del volume e delle caratteristiche del bolo e si
assiste a tutte quelle modificazioni che portano il canale faringeo da una
configurazione respiratoria ad una deglutitoria, per tornare a quella respiratoria
iniziale.
Al termine della fase orale, la stimolazione da parte del bolo della zona compresa fra base lingua,
pilastri palatini anteriori e faccia buccale del velo palatino, elicita il riflesso di deglutizione.
Le cosiddette zone Trigger determinano l’istantanea contrazione di una serie di muscoli secondo
una sequenza ben precisa:
• Apertura dello sfintere palatoglosso;
• Chiusura dello sfintere velo-faringeo, con la funzione di evitare il passaggio di cibo nel cavo
rinofaringeo e contemporaneamente di favorire la spinta del bolo verso il basso;
• Inizio della peristalsi faringea, che per contrazione dei costrittori faringei superiore e medio,
contribuisce alla spinta del bolo verso il basso, con un meccanismo di spremitura simile a quello
svolto nella fase orale;
• Elevazione del complesso ioido-laringeo e chiusura dello spazio glottico con l’ abbattimento
dell’epiglottide;
• Rilasciamento dello sfintere crico-faringeo.
Molte sono le strutture che possono essere interessate da alterazioni di eventi neuromuscolari che
caratterizzano la progressione del bolo dall’orofaringe all’ipofaringe:
• Mancata chiusura del velo contro la parete posteriore faringea che può determinare la
fuoriuscita del bolo dalle vie nasali;
• Ristagno di cibo;
• Incompleta chiusura laringea, unita ad una posizione bassa della laringe, può essere causa
frequente di inalazione;
• Disfunzione del SES, con mancata apertura della regione cricofaringea durante la fase
faringea;
• Residui di cibo nei seni piriformi, che possono portare ad inalazioni postdeglutitorie
(adattamento e rielaborazione da Ciancialosi, Gonella et al.,1980).
La videofluoroscopia (VFS) rappresenta lo standard di riferimento tra i metodi di studio dei
meccanismi orali e faringei della disfagia.
La VFS consiste in un’esplorazione dinamica atta a stabilire la sicurezza e l’efficacia della
deglutizione, a caratterizzarne le alterazioni in termini di sintomi videofluoroscopici nonché ad
agevolare la selezione e la valutazione delle strategie terapeutiche specifiche (Clavè P. 1999).
I sintomi orali visibili con la VFS dell’efficacia deglutitoria sono:
- l’aprassia del processo di deglutizione (il ritardo significativo che segue gli appropriati stimoli);
- il ridotto livello di controllo della lingua;
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- la debole propulsione del bolo che ne determina lo spargimento in tutta la cavità buccale
causando la formazione di un deposito orale al termine della deglutizione.
La VFS è efficace per rilevare i seguenti sintomi della fase faringea:
- presenza di residui faringei indicativi di una debole contrazione mono o bilaterale della faringe;
-rigurgito nasofaringeo in presenza di una chiusura del velo faringeo inadeguata o non coordinata
all’apertura dello sfintere esofageo superiore (SES);
-compromissione del’apertura del SES dovuta a basse forze di propulsione.
Riassumendo l’uso della VFS come ausilio diagnostico, aiuta a prolungare la nutrizione orale in
forma sicura, a minimizzare le complicanze respiratorie e a selezionare le alternative più appropriate
alla nutrizione orale sulla base di evidenze oggettive e riproducibili, massimizzando il potenziale di
recupero dei pazienti affetti da disfagia orofaringea. Si deve però ricordare che la VFS studia la sola
componente motoria della deglutizione, senza minimamente indagare quella sensoriale (Martin et al
93, Miller 99), che sappiamo essere molto importante nell’interpretazione dei dati o nell’impostare il
piano riabilitativo. La FESS (Fiberoptic Endoscopic Evaluation of Swollow) pur essendo un esame
potenzialmente più limitato, in quanto studia la sola fase faringea della deglutizione e in modo non
completo (black out deglutitorio), ha tuttavia dei vantaggi sia logistici che insiti alla metodica stessa.
Fra i primi ricordiamo la relativa facilità di esecuzione, la buona tollerabilità all’esame con minima
invasività (Aviv et al.2000) che permette di esaminare pazienti anche non collaboranti e di compiere
osservazioni anche per l’intero pasto cogliendo il comportamento delle strutture anatomiche sottoposte
ad affaticamento. La metodica ci permette di studiare anche se non dettagliatamente, la componente
sensoriale della deglutizione e di attività riflesse e di apprezzare meglio rispetto alla VFS l’entità dei
ristagni e soprattutto la loro gestione da parte del paziente( Farneti 98)
PROGETTO DAD DI ANFFAS ONLUS TRENTO
Nel mese di maggio 2009 Anffas Firenze è venuta a conoscenza di un progetto denominato DAD
(Dementia of Alzheimer type in Down; Mann 1988) che Anffas Trento ha intrapreso dal 2005 presso
il Centro “La Meridiana”, che è una struttura intergrata e gestita da Anffas stessa dedicata in
prevalenza a soggetti con DS e ID di età adulta o anziana. Con questo programma di ricerca-azione
unico nel suo genere, la cui durata era stata prevista di circa tre anni e che invece è tutt’ora in corso,
stanno sperimentando nuovi tipi di servizi che sempre più possano rispondere al differenziarsi delle
condizioni delle persone con disabilità intellettive e relazionali (in particolare con DS) e alle
trasformazioni che queste modifiche fisiche, cognitive e comportamentali apportano alla loro vita
quotidiana. Uno degli obiettivi principali del progetto è verificare se alcune modalità d’intervento,
adottate dalla buona prassi clinica nella popolazione generale affetta da demenza, siano in grado di
ritardare il trasferimento dei suoi ospiti in una struttura per anziani, rispetto a coloro che frequentano i
servizi dedicati alla ID con una gestione ‘tradizionale’. Questi interventi sono sia di tipo globale, sia
legati a procedure specifiche ed hanno scopi sia preventivi (per ritardare la comparsa di una DAD
clinicamente conclamata) che di trattamento sintomatico (per rallentare la progressione dei deficit
cognitivi e funzionali e controllare i disturbi non cognitivi di una DAD).
Il modello contenitivo e custodialistico della presa in carico di adulti e anziani con ID in generale, e
con DS in particolare, è stato via via abbandonato per un modello interventistico e riabilitativo che
integra costrutti multidimensionali sulla qualità di vita del disabile e metodologie d’intervento,
secondo le indicazioni dell’American Association of Intellectual Developmental Disability (AAIDD,
2005). Tutto ciò ha portato come esito di processo, ad una riduzione del numero di contenzioni fisiche,
di psicofarmaci e delle chiamate mediche per emergenza (Corti, 2007).
Tuttavia gli attuali servizi dedicati alla ID, pur essendo esperti nell’assistere e curare adulti e
anziani con DS, quindi in grado di gestire disturbi del comportamento adattivo e le varie complicanze
di natura psichiatrica, vanno incontro però a serie difficoltà quando queste persone si ammalano anche
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di demenza (Huxley et al., 2005). Il personale di cura è poco o per niente preparato a gestire i deficit
cognitivi e i disturbi non cognitivi (BPSD- sintomi comportamentali e psichici della demenza) di
nuova comparsa associati ad una progressiva perdita delle abilità funzionali residue premorbose e i
centri spesso sono sprovvisti di ambienti necessari per assicurare i bisogni specifici di questi ‘nuovi’
pazienti.
Prassi operativa
I pazienti che ANFFAS Trento ha testato sono 60 disabili intellettivi di entrambi i sessi, di cui 31
soggetti con DS e 29 con altre forme di DI, di età compresa tra >=50 e 70 aa., con un Q.I +- 15.(per
rilevare il Q.I erano stati eseguite prima del comparire dei sintomi di demenza le versioni italiane
delle scale Stanford-Binet (Rubini e Padovani 1978) e la Wisc-R (Bosso e Mansueto Zecca, 1968).
I soggetti inclusi nello studio vengono seguiti da circa trenta mesi, con follow-up successivi (ogni 6
mesi), nel corso dei quali vengono sottoposti ad una serie di scale e prove oggettive volte ad
evidenziare l’eventuale evoluzione clinica del processo dementigeno. E’ prevista sia una valutazione
dello stress dei care givers formali ed informali, che una valutazione della qualità di vita del
malato,attraverso strumenti di valutazione e registrazione informatizzati. Tali dati vengono registrati e
archiviati in un database a cui si può accedere previa personale password .
Gli obiettivi del progetto DAD sono principalmente quattro:
1. Saggiare l’affidabilità e validità degli strumenti per la diagnosi sindromica e tipologica di
demenza irreversibile e progressiva in soggetti di età adulta avanzata con ID o DS.
Vengono monitorati i quattro domini principali della demenza secondo le recenti linee-guida del
trattamento della demenza di Alzheimer nella popolazione generale (Caltagirone e coll.2005):
funzioni cognitive , abilità funzionali, emotività e comportamento, famiglia e qualità di vita.
Naturalmente è stato tenuto conto non solo del QI premorboso, ma anche della stadiazione del
processo dementigeno, imponendo l’adattamento degli strumenti di valutazione delle funzioni
cognitive alla progressione della malattia (Aylward e coll.1997);
2. Verificare la fattibilità e l’efficacia degli interventi non farmacologici di tipo globale : “Il
Person-centred Dementia Care” ossia la gestione centrata sulla persona di Tom Kitwood (1997) si
configura come un sistema di cura della persona con demenza, orientato al mantenimento delle
capacità cognitive, sociali e funzionali residue, accettabili con il grado di disabilità intellettiva. Il
“Gentle care” di Moyra Jones (2005), ha come obiettivo il benessere sia del malato che dei vari caregivers, con un approccio protesico che comprenda sia lo spazio fisico (sicurezza, comfort, semplicità
etc.) sia le persone i cui atteggiamenti sono caratterizzati da flessibilità, pazienza e uso del linguaggio
del corpo e da attività individuali e di gruppo che valorizzano i bisogni primari, necessari ed essenziali
di ciascun paziente;
3. Verificare il beneficio di suddette terapie psicosociali formali ed informali sia in termini
preventivi ( per ritardare la demenza), che di trattamento sintomatico ( per rallentarne il decorso),
mediante nuovi strumenti di misurazione di tipo olistico multidemensionale derivati sia dal mondo
della ID che della demenza;
4. Infine un monitoraggio longitudinale gli permetterà di individuare le variabili bio-psico-sociali
predittive di una futura demenza.
La diagnosi di una DAD (Dementia in Alzheimer’s Disease) demenza simile alla malattia di
Alzheimer, nella popolazione affetta da disabilità intellettiva (ID) in generale e da Sindrome di Down
(DS) in particolare, è molto difficile (Deb e Braganza 1999), non solo per la carenza di strumenti
diagnostici affidabili, ma anche per la presenza di condizioni progressive di invecchiamentodipendenti (ad es. cifosi, malattie osteo-articolari), di comorbilità somatica (ad es. malattie endocrine)
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e psichiatrica (ad es.depressione) che possono singolarmente o in associazione provocare un quadro
clinico simile a quello di una DAD irreversibile (Janicki e coll.1995).
In questi soggetti è intuitivo comprendere come sia difficoltoso procedere ad una valutazione di
demenza, quindi con tale progetto nella ricerca di una prassi di intervento verificabile stanno
sperimentando e verificando l’efficacia di prassi differenziate nella valutazione diagnostica e nel
trattamento, con una costante monitoraggio dell’evoluzione longitudinale e dell’efficacia del
trattamento stesso.
Quello che emerge con forza dalle prime osservazioni rilevate dal progetto di Trento, è che una
diagnosi ritardata di DAD, ha delle conseguenze estremamente negative sia per il malato che per tutti
i caregivers, con un immediato effetto sul peggioramento della qualità della vita di ciascuno e con un
ulteriore aggravamento degli oneri di cura, di assistenza e sorveglianza della famiglia e dei vari
servizi. Tutto questo perché la gestione quotidiana dei soggetti affetti da DAD è quasi sempre
complicata dall’insorgenza di sintomi non cognitivi dirompenti (Millichap e coll.2003) definiti
sintomi comportamentali e psicologici della demenza (Behavioral and Psycological Symptoms of
Dementia (BPSD); (Burns e Finkel 2000), che esacerbano lo stress non solo dei malati ma anche dei
caregivers formali e non, con un’inevitabile aumento dei costi sanitari. Per questo in tale progetto sono
stati privilegiati gli interventi orientati alle emozioni e al controllo comportamentale non di tipo
farmacologico, in quanto l’uso di psicofarmaci per il controllo dei BPSD deve rappresentare l’ultima
risorsa. Questo è sottolineato da numerose evidenze recenti che affermano l’efficacia di alcuni
interventi orientati alle emozioni e al comportamento sial perché risultano privi di effetti collaterali e
perché portano ripercussioni positive anche sui vari caregivers.
Trento ha adottato come questionario per la demenza nelle persone con DI il DMR, strumento di
screening, che è stato originariamente sviluppato in Olanda negli anni 80 e successivamente valutato
in una serie numerosa di studi di validità e attendibilità in diverse parti del mondo, per questo ne ha
curato la traduzione e l’adattamento in lingua italiana. Il DMR ha lo scopo di identificare
precocemente la demenza in persone con DI basandosi su osservazioni della vita quotidiana. Il DMR è
un buon strumento di screening ma attente valutazioni fisiologiche, neuropsicologiche o psichiatriche
rimangono necessarie per una diagnosi propria di demenza, di altre condizioni trattabili o di entrambe.
Il progetto DAD sottolinea che la valutazione è un aspetto cruciale, non solo per una corretta
diagnosi e le conseguenti ricadute terapeutiche, ma anche per qualsiasi modello scientifico di
intervento, secondo una circolarità della metodologia operativa che considera l’assessment un
momento non episodico degli interventi, ma ripetuto e continuo nel tempo.
Quando si parla di disabilità intellettiva, infatti è sottointeso che sia stato valutato sempre il livello
di tale disabilità e per una corretta valutazione della sua entità i prerequisiti fondamentali sono
(AAMR, 2005): la determinazione del Q.I. (attraverso l’utilizzo di vari test neuropsicologici); la
determinazione del comportamento adattivo (attraverso vari strumenti tra i quali utilizzano la Scala
Vineland e la Scala ABS), la data di insorgenza che sia precedente ai 18 anni di età.
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Strumenti per la valutazione dei soggetti adulti e anziani con DI (compresa DS con sintomi
DAD)del progetto DAD di Trento
Nella esemplificazione che segue, sono presentati quegli strumenti informatizzati che nella loro
interezza vanno a monitorare le condizioni di vita quotidiane e la gestione di tali pazienti. Tale verifica
è affidata a strumenti di registrazione delle abilità funzionali e del comportamento, della qualità di vita
e dello stato di salute fisica, con un’attenzione alla possibile presenza concomitante di diverse
patologie e ad una valutazione del dolore che rappresenta un indicatore fondamentale nelle persone
che possono avere difficoltà espressive o totalmente non comunicative (Gomiero et al., 2006).
Il programma presenta quindi un ampio ventaglio di possibilità di valutazione multidimensionale
standardizzate in cui è prevista la presenza di strumenti di rilevazione degli interventi e della loro
ricaduta sulla qualità di vita, che deve essere monitorata in modo globale anche nei confronti dei
caregivers, attori decisivi per la piena valorizzazione e sostegno nei confronti delle persone con DI
(Tassé, 2006).
Viene presentata invece un’esemplificazione ottenuta dalla ricerca effettuata da Anffas Firenze, per
valutare quali strumenti di indagine stia utilizzando Anffas Trento per la disfagia, ecco perché sono
presentate solo le parti dei vari test che abbiamo ritenuto importanti per tale rilevazione.
Ogni test è stato inserito in un programma informatizzato e attualmente anche Anffas Firenze ha la
possibilità di introdurre i propri dati in un datebase generale, in forma anonima per i pazienti ma
riconoscibili da un codice personale, che è stato affidato al logopedista e allo psicologo dal
coordinatore del Progetto DAD.
Quindi inserendo tali password potremo iniziare a fare studi longitudinali sui vari aspetti che
vogliamo valutare e avendo così a disposizione un campione più vasto di pazienti, potremmo
confrontarci sia sui risultati di diagnosi che su quelli ottenuti dalle varie modalità di intervento.
Attualmente il nostro interesse si è focalizzato sulla possibilità che questi strumenti di valutazione
hanno per evidenziare una disfagia nei pazienti con DS di età adulta-anziana e che manifestano
sintomi di DAD.
Dalla nostra ricerca i punti che vengono rilevati nel progetto DAD per avere un’informazione
multidimensionale, sulle capacità di alimentarsi e sulla possibilità di evidenziare una disfagia sono i
seguenti :
• Tra i test che valutano il declino mnestico e le altre funzioni cognitive:
DMR
19
SIB
20
TSI
Non vi sono item che riguardano l’alimentazione
• Tra i test che valutano le abilità funzionali:
AFAS
21
FAST
Indica la perdita delle abilità
DAD
Valuta alcune capacità funzionali
22
Tinetti
•
Tra i test che valutano gli aspetti medico/clinici:
CIRS
23
•
Tra i test che valutano il controllo emotivo, la
sociale:
motivazione e il comportamento
AA DS
QUALID
Valutazione comportamentale
24
BEHAVE-AD-FW
Versione italiana della scala comportamentale nelle AD (Adattamento e traduzione italiana a cura
di P.F.PUZU, D. Viale e M.Deidda).
E’ una scala di frequenza per gravità, basata su informazioni ottenute dai vari caregivers e altri
informant, che non valuta in particolare l’aspetto alimentazione.
CANDID-S
25
BEAM D
CMAI
Non ci sono elementi di particolare interesse per quanto riguarda l’alimentazione.
26
Tra i test che valutano lo stato di salute fisica generale:
NOPPAIN-I
Test indicatore di sofferenza
27
MSSE
E’ un indicatore di sofferenza
MNA –Mini Nutritional Assesment
E’ un semplice strumento per la valutazione dello stato nutrizionale
28
Rilevazioni dei vari item riguardanti l’alimentazione
Di seguito viene allegato un grafico inviato al Centro Anffas di Firenze dal Dott. Tiziano Gomiero
(responsabile del progetto DAD di ANFFAS Trento).
Nel grafico sono raccolti, come richiesto da Anffas Firenze, gli item completi di alcuni test
utilizzati per evidenziare le problematiche correlate all’alimentazione, relativi a 39 soggetti Down con
età superiore a 45 anni, di cui 21 maschi e 18 femmine testati dal 2005 ad oggi.
Evidenziati con il colore rosso sono identificati i soggetti con probabile demenza DAD, con il
colore verde i soggetti con probabile demenza vascolare e in arancione quelli con possibile demenza
con comorbilità.
Soggetti con diagnosi di probabile
demenza DAD
Probabile demenza vascolare
Possibile demenza con comorbilità
Codice
BRTN001
BRTN002
BRTN003
BRTN004
CaTN002
CaTN003
CaTn004
CaTn005
CaTn007
CaTn009
D2RS005
D2RS006
D2RS007
D2RS009
D3RS002
EWTN001
MeTN001
MeTN002
MeTN003
MeTN005
MeTN007
MeTN008
MeTN009
MeTN011
MeTN012
MeTN014
PETN001
PETN002
PETN003
PETN004
PETN005
PETN006
PETN007
PETN013
PETN018
PrTN001
VMTN003
VMTN007
VMTN008
Sesso
1
2
2
2
1
1
2
1
1
1
1
1
1
1
2
1
2
2
2
2
1
1
2
1
1
1
1
2
2
1
1
2
1
1
2
2
2
2
2
Anni
54
46
56
62
59
57
54
49
52
48
51
53
62
61
53
57
56
46
56
61
53
60
51
49
58
51
45
62
57
53
63
62
52
48
46
47
56
62
47
ADL
IADL
6
6
6
1
6
3
6
5
6
6
6
1
5
4
6
6
0
6
6
0
4
5
1
0
1
4
4
0
0
6
0
0
4
3
4
6
5
3
4
4
3
5
0
2
2
4
2
3
3
3
0
2
2
2
3
0
3
4
0
2
3
3
0
1
2
2
0
0
3
0
0
1
3
1
4
0
1
2
Tot
SCS
Dmr
35
8
2
25
23
41
18
32
16
1
27
44
40
30
20
4
40
1
19
40
28
24
27
44
35
37
24
44
42
1
40
44
4
24
23
27
34
42
34
Tot Sos
Dmr
30
12
18
33
25
36
24
23
17
11
21
38
25
15
10
19
33
5
15
22
11
7
12
45
36
28
30
53
45
11
42
38
14
8
11
14
28
45
13
Linguaggio
DMR
3
4
2
2
4
5
1
3
0
0
2
5
4
2
3
1
3
0
2
4
0
1
2
8
3
3
4
7
6
0
6
7
1
2
3
2
6
6
6
AFAST
Alimentazione
Deambulazione
1
1
0
5
4
3
1
4
1
0
2
6
0
5
0
0
5
0
0
5
0
0
0
5
4
3
1
5
5
0
5
5
3
3
0
0
1
1
0
2
2
2
1
2
1
2
2
2
2
2
1
2
1
2
2
0
2
2
1
2
2
1
0
1
1
2
0
0
2
0
0
2
2
2
1
2
1
2
29
MNA
8
21
12
16
18,5
Il codice, si riferisce ad un dato che serve solo per identificare la persona con DS in modo
anonimo, perché essendo tutti test validati non è interessante sapere chi ha compilato materialmente il
test e comunque si tratta di terapisti e operatori sanitari delle diverse strutture interessate allo studio.
I dati ottenuti nel totale degli Scores Cognitivi (SCS) del DMR, sono rilevati da punteggi ottenuti
dalla valutazione di memoria episodica recente, memoria episodica remota e autobiografica e
orientamento spazio-temporale (punteggio va dal minimo 0 al massimo 44)
I dai ottenuti nel totale degli Scores Sociali (SOS) del DMR, sono ottenuti dalla valutazione della
comunicazione, delle abilità di base, dell’umore, delle attività ed interessi relativi ai comportamenti
problematici (punteggio va dal minimo 0 al masimo 60).
Per quanto riguarda il DMR linguaggio, si è trattato di valutare una subscala specifica che
raccoglie diversi item particolari, in questo caso si riferisce alla comunicazione verbale e in cui è
segnato il cambiamento in questa funzione con: 0 che significa nessun deterioramento 8 che indica
una compromissione della capacità.
Troviamo poi i dati del test AFAS.T, relativi all’alimentazione, è stato considerato solo il punto 2,
mentre per la deambulazione è stato semplificato il dato, raggruppando i valori in tre punteggi
equivalenti: 0 prestazioni migliori, 3 prestazioni peggiori.
AFAS.T alimentazione:
0 1 2 3 4 5 6 indicano i sette gradi progressivi rappresentati dalle diverse risposte.
Pari a 0 : item migliore
Pari a 6: l’item indica una dipendenza completa dall’assistenza in cui può essere necessario un
programma di alimentazione specializzato.
I dati del MNA sono relativi ai valori :
MNA>23.5= buono stato nutrizionale
17 <= MNA>=23.5= rischio di malnutrizione
MNA <17 = cattivo stato nutrizionale
Facendo le conseguenti correlazioni, i valori più significativi sono l’item che riguarda
l’alimentazione dell’AFAS, in cui emerge una relazione inversa tra l’aumento della dipendenza e la
diminuzione delle abilità (ADL e IADL), come era prevedibile.
Interessante anche se ipotizzabile, la maggior correlazione inversa riscontrata con la
deambulazione: all’aumentare della dipendenza alimentare corrisponde una diminuzione della
capacità di deambulare.
Non è molto significativa la correlazione con l’età, ma è scontato che ci sia una certa perdita delle
capacità funzionali con l’avanzare dell’età stessa.
Inoltre in una postilla il Dott. Gomiero ( responsabile del progetto) afferma che per quanto riguarda
i pazienti con DS e DAD, il legame con il disturbo alimentare appare evidente ma solo nelle fasi finali
della patologia.
30
PROPOSTA DI COLLABORAZIONE TRA LE DUE SEDI DI ANFFAS: TRENTO E
FIRENZE
Il progetto DAD è aperto a collaborazioni multicentriche con altri soggetti che a vario titolo
operano nell’ambito della disabilità adulta per estendere eventualmente gli ambiti della ricerca:
l’Anffas Onlus di Firenze in quest’ottica ha contattato la direzione del Centro Anffas di Trento e in
particolare il Dott. Tiziano Gomiero, che è responsabile del coordinamento del progetto.
Il Centro ANFFAS Onlus di Firenze ha una realtà lavorativa simile a quella di Trento, è presente
sul territorio da 50 anni e si occupa dell’assistenza e della riabilitazione di persone con disabilità
intellettiva e/o relazionale di età adulta e anziana.
L’interesse per il progetto DAD nasce dal poter conoscere il tipo di percorso diagnosticoterapeutico che viene effettuato con pazienti affetti da DS e che possano sviluppare sintomi di DAD
(Dementia in Alzheimer’s Disease), per poter confrontare le due esperienze lavorative e per
comparare i dati ottenuti.
L’Anffas Onlus Firenze ha proposto quindi ad Anffas Onlus Trento nel mese di giugno 2009, una
collaborazione per migliorare la gestione di tali pazienti sia per cercare di diminuirne lo stress sia per
riuscire direttamente ad aumentare il loro benessere e indirettamente quello di tutti i vari caregivers
che se ne occupano.
In particolare è stata proposta un’estensione dell’ambito di ricerca, che riguarda l’approfondimento
della valutazione della disfagia. Attualmente c’è stata solo la possibilità di conoscere i rispettivi
progetti , Anffas Firenze ha presentato il modello del protocollo informatizzato che utilizza per la
valutazione della disfagia da circa tre anni e che andrà adattato al formato degli altri test di screening
utilizzati nel progetto DAD.
Tale proposta nasce naturalmente dall’osservazione scrupolosa dei vari test di screening e di
controllo generali che sono raccolti nel programma informatizzato del progetto DAD.
Avendo verificato che a parte il Test MNA (Mini Nutritional Assessment) che anche Anffas
Firenze utilizza per verificare lo stato nutrizionale dei pazienti, le altre informazioni che Anffas Trento
rileva sulla modalità e funzionalità deglutitoria sono soprattutto di tipo cognitivo comportamentale, è
stato proposto di inserire all’interno del loro programma informatizzato, un protocollo standardizzato
di valutazione clinica e funzionale della deglutizione.
Oltre al protocollo di valutazione, all’interno del file per completare quella che è la principale
valutazione attuata del progetto DAD, potrebbero essere inseriti anche altri dati relativi
all’osservazione del pasto e del comportamento alimentare in generale (test EBS-Eating Behaviours
Scale; Tully et al.,1997)
Vi è stata solo un’opportunità di incontro tra le due sedi Anffas a Trento, ma la comunicazione per
mail è molto attiva ed è stato concordato una nuova riunione nel mese di novembre-dicembre per
pianificare le modalità di organizzazione dei nostri reciproci interventi.
31
PROGETTO “DISFAGIA” DI ANFFAS ONLUS FIRENZE:
Prassi operativa generale
La ricerca per il miglioramento delle condizioni di salute e della qualità di vita dei nostri pazienti, è
stata la molla di inizio per il progetto “disfagia”.
Come sottolineato di recente da Salvador-Carulla e Bertelli (2008), la DI non dovrebbe essere
considerata una malattia o una disabilità ma una sindrome, raggruppando come nella demenza un
insieme eterogeneo di condizioni cliniche, le cui cause prevalenti sono di pertinenza di un ampio
ventaglio di discipline mediche e psico-sociali.
Secondo questo approccio polisemico-polinomico la valutazione deve essere necessariamente
integrata, unendo gli aspetti medico-sanitari (diagnosi primaria, storia clinica e dati salienti attuali),
agli aspetti socio relazionali, affettivi, psicomotori, cognitivi, ecc. della persona perché la definizione
del tipo e grado di DI e la valutazione non devono avvenire solo in termini descrittivi (qualitativi), ma
anche attraverso strumenti di misura standardizzati (quantitativi).
Nella programmazione degli interventi, le pietre angolari per la diagnosi del ritardo mentale sono
state finora la determinazione di un deficit delle funzioni cognitive precedente l’acquisizione delle
abilità umane mediate dall’apprendimento, per determinarne l’intensità e quanto può interferire
significativamente sul funzionamento normale, tale deficit è espresso come limitazione di attività e
restrizione di partecipazione ed indica il comportamento adattivo (AAMR, 2005). Tuttavia l’esigenza
di trovare risposte adeguate alla soddisfazione di bisogni appropriati all’età cronologica (e non solo
mentale) di queste persone, ha richiamato maggiormente l’attenzione sull’ambiente di vita e dagli anni
Ottanta in poi, si è giunti a definire modelli di qualità di vita che hanno modificato la riflessione e le
implicazioni riguardanti la DI in generale (Schalock e Luckasson, 2004).
Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (pag. 21, OMS, 2002) mette a punto l’I.C.F.
(International Classification of Functioning, Disability and Health) dove la disabilità viene definita
come: “La conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un
individuo e i fattori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo”. In
questo modo si mette in evidenza la relazione tra fattori personali e ambientali che possono diventare
facilitatori o barriere per la persona con disabilità e viene indicato l’ICF come lo strumento migliore
per identificare e classificare il funzionamento della persona con DI (tra gli altri Ianes, Celi,
Cramerotti, 2003).
Progettare e determinare il modo migliore di sostenere il soggetto negli ambienti di vita
comunitaria, ha l’obiettivo finale di migliorarne la qualità di vita, intesa in senso olistico come
aumento del benessere individuale (Bertelli e Brown, 2006) e di poter fornire strumenti di valutazione
dell’efficacia degli interventi intrapresi.
Anffas Firenze concorda con Anffas Trento, sulla necessità di prevedere la presenza di strumenti
volti alla valutazione di diversi domini, che vadano ad investigare con vari modelli ambiti cognitivi,
funzionali, medico/clinico, emotivi e di comportamento. In particolare quest’ultimo è senz’altro un
indicatore fondamentale per la prevenzione degli atteggiamenti problematici, letti come messaggio
legato ad un disagio di tipo psico-emotivo (Carr e coll. 1988) o ad un deficit di autoregolazione (Nota
e coll. 2007).
Anche le SIS (Supports Intensity Scale,recentemente validate in Italia da Cottini et al., 2008), sono state
utilizzate da Anffas Firenze nell’ultimo anno ed hanno l’obiettivo ambizioso di compiere un ulteriore
passo avanti rispetto a quanto finora proposto.
Secondo le linee guida di questo paradigma non è sufficiente identificare e classificare i punti di
forza e le limitazioni della persona con DI, ma è importante individuare il bisogno di sostegno di cui
necessita, con l’obiettivo tarato sulla qualità di vita della popolazione generale. In aggiunta le SIS si
propongono di valutare l’effettivo bisogno di sostegno della persona con DI anche in termini di
32
standard generali, sui quali basare le richieste economiche a livello di investimento di spesa del
bilancio pubblico per il (sospetto) decadimento cognitivo progressivo di natura primaria
(neurodegenerativa con o senza concomitante cerebropatia vascolare) o secondaria.
Partendo dalla certezza clinica, per cui la demenza irreversibile e progressiva in relazione allo
sviluppo dementigeno, è causa di difficoltà deglutitoria e della conseguente possibilità di
soffocamento, malnutrizione, disidratazione e di sviluppare polmoniti ab-ingestis, le due Anffas hanno
concordato che il rischio reale di peggiorare il quadro già patologico del paziente, (acuendo la
possibilità di comorbilità e mortalità) c’è, se non vengono valutate in modo puntuale tra le sue abilità
anche le possibilità deglutitorie (Relazione Uff. Sifel 2007).
In questa ottica, al Centro Anffas di Firenze è stato attivato il progetto “Disfagia” da circa tre anni,
avvalendosi in generale di una valutazione e di un trattamento di tipo olistico e tenendo conto delle
linee guida per l’identificazione e la gestione della disfagia nell’adulto, al fine di rendere l’intervento
il più sicuro, efficiente ed efficace possibile (SIGN.2004; FLI- SIFEL 2007).
Vengono valutati e trattati i pazienti non solo come “bocche che devono mangiare”, ma come
persone che necessitano una particolare attenzione per la considerazione sia delle variabili cognitive,
funzionali, ma anche emotivo-relazionali.
Nel progetto “Disfagia” il metodo di lavoro che viene adottato è quello di integrare le valutazioni
delle figure professionali e non, che ruotano intorno al paziente, in un'unica cartella clinica in cui
ognuno partecipa con la propria professionalità.
Con tali collaborazioni multiprofessionali viene valutato quanto in un ambiente “protesico”,
orientato in generale al mantenimento delle capacità residue, si possa ritardare e/o rallentare il
decorso delle difficoltà deglutitorie, particolarmente nei pazienti con DS e con sintomi DAD.
Per far questo, Anffas Firenze sta seguendo il decorso del loro decadimento neurologico generale e
in particolare, sta agendo sull’alimentazione sia in termini preventivi che di trattamento. In pratica
negli ultimi anni è stato necessario il confronto con nuovi strumenti di informazione e di assistenza
riguardanti il modo più corretto per trattare quegli utenti che presentano sempre più spesso alterato
livello di coscienza o ulteriore diminuzione delle capacità cognitive e relazionali, ma soprattutto
problemi di deglutizione con sintomatologia disfagica e che necessitano quindi di adeguate modalità
di intervento per poter efficacemente salvaguardare la loro salute.
Per questo è stato iniziato nel 2006 uno screening di tutti coloro che presentavano delle difficoltà
nell’alimentarsi (la media dell’età dei nostri utenti con DI è circa 50 anni), utilizzando questionari di
“controllo” distribuiti ai vari caregivers. A tali soggetti segnalati, sono stati fatti anche controlli
neurologici, psicologici, motori, di valutazione logopedica in generale ed in particolare per la disfagia.
La valutazione logopedica della demenza è un atto codificato e formale, fa riferimento ai “percorsi
valutativi e rimediativi” indicati dalla SIFEL nel 2001. Più di recente un grosso contributo è stato
offerto dalle linee Guida Scozzesi (SIGN.2006) e soprattutto dall’ASHA (2005-2006), dove sono state
molto ben delineate le competenze ed il ruolo del logopedista nel percorso valutativo-rimediativo della
demenza.
L’obiettivo terapeutico che ANFFAS Onlus Firenze persegue da circa tre anni per quanto
riguarda la disfagia, è di cercare di ottenere una deglutizione non-normale ma funzionale che metta i
pazienti al riparo dai rischi sopracitati.
Per questo è stato attuato un iter diagnostico-terapeutico multidisciplinare che ha tenuto conto
anche delle risorse disponibili cioè del numero del personale, dei terapisti, dei medici, del materiale e
della strumentazione ed è stato importante la ricerca di collaborazioni professionali esterne, per
completare il quadro diagnostico e per individuare, vista la grande difficoltà che si ha nello
spostamento di tali pazienti, percorsi di accesso facilitati a visite specialistiche. Per questo motivo
ultimamente è stato improntata un’ulteriore collaborazione con il reparto Foniatria di Careggi, che ha
proposto di effettuare direttamente al Centro un monitoraggio strumentale, ciclico e continuo dei
pazienti con disfagia e in particolare con DS e sintomi DAD.
33
E’ pertanto indispensabile con tali patologie che la gestione di tali pazienti sia:
• multidisciplinare, con costante raccordo nel passaggio delle informazioni e pianificazione
comune di intervento;
• che sia prevista ed organizzata la possibilità di integrare il tipo di intervento a livelli
differenziati ( ospedale, assistenza domiciliare, inserimento nella Casa- Famiglia etc.);
• che sia rivolta non solo alle problematiche del paziente stesso, ma anche a quelle dei vari caregivers.
Procedure di rilevazione per il “pericolo disfagia”( che ha adottato ANFFAS Onlus di Firenze)
Screening:
Viene attuato dall’infermiere (interno) in collaborazione con la logopedista ed è
basato sull’osservazione e raccolta di dati e segni clinici segnalati dai vari
caregivers: operatori o familiari che seguono il paziente.
Viene utilizzato per questo motivo, un protocollo di controllo basato
sull’osservazione cognitivo-comportamentale e su alcuni segni clinici
(CAMPANELLI DI ALLARME) che devono allertare per il sospetto disfagia;
•
• Si valuta la capacità deglutitoria delle secrezioni e del bolo d’acqua(De Pippo 1992). Nel test
di deglutizione di acqua si invita il soggetto a bere 3 once di H2O (circa 90cc.), il test viene
considerato positivo per aspirazione se da 1 a 2-3 minuti vi è comparsa di tosse involontaria. Il test è
da ritenersi positivo anche se vi è comparsa di voce velata o gorgogliante sia dopo la deglutizione
della saliva che dopo il sorso d’acqua.
• Si osserva, avvalendosi quando necessita e sia possibile, della determinazione di saturazione
dell’ossigeno con ossimetro, cioè durante almeno 5 assunzioni di 10ml di acqua (Zaioli 1995, Lim
2001). L’aspirazione provoca una transitoria desaturazione di O2, una caduta più del 2% è da
considerarsi significativa ed il soggetto, deve essere sottoposto a più accurate valutazioni della
disfagia, con una caduta di più del 5%, si deve immediatamente sospendere il test e non dare niente
per os.
34
Percorso valutativo
Se si valuta che siano presenti segni clinici, che mettono a rischio il paziente allora il percorso
valutativo per la disfagia prosegue con la logopedista (interna), la quale compie l’indagine
anamnestica , l’osservazione e la valutazione clinica della disfagia con un protocollo standardizzato
(Travalca-Cupillo-Castellini).
Nel protocollo operativo di valutazione logopedica standardizzato (Travalca, Cupillo, Castellini)
informatizzato, che è stato opportunamente modificato sia per le esigenze dei pazienti sia del Centro,
viene fatta una valutazione della sintomatologia, dello stato di vigilanza, di collaborazione, dei
disturbi comunicativi associati e dello stato respiratorio.
Tramite il protocollo operativo di valutazione logopedica, viene eseguito un esame morfologico e
funzionale delle strutture oro-faringo-laringee, un controllo delle secrezioni e della loro deglutizione,
per passare poi a quella di liquidi, semisolidi e solidi.
35
Se da tale valutazione si evidenzia la possibilità di alimentarsi per os, si valuta anche se è
necessario fare subito degli accertamenti clinici strumentali ed eventualmente si invia il paziente al
foniatra ( esterno) per la visita foniatrica. Per la valutazione clinica strumentale viene eseguita
principalmente l’indagine fibroscopica FESS e l’esame videofluoroscopico (VFS) con la metodica del
pasto baritato modificato (MBS) proposta da J.A.Logeman nel 1938 (Logeman 83). Tali indagini
diagnostiche sono indispensabili anche per il controllo della correttezza della consistenza della dieta
alimentare e dell’eventuale adeguatezza della postura di compenso durante la deglutizione.
Per completare l’osservazione del paziente, viene utilizzato anche in modo specifico per il pasto e
per la prevenzione della denutrizione e disidratazione:
• il test EBS:
36
Infatti per valutare il grado di autonomia funzionale di tali pazienti, l’EBS è uno strumento adatto
ad evidenziare il deficit motorio, cognitivo, contemporaneamente alla capacità funzionale del malato
durante il pasto. La scala prevede 6 item rivolti ad esaminare le modalità di inizio pasto, la capacità di
mantenere l’attenzione protratta, di individuare il cibo, di usare in modo appropriato le posate, di
finire il pasto, la sicurezza (possibilità di soffocamento col cibo).
In base al comportamento osservato, i pazienti possono essere classificati in gruppi diversi: soggetti
dipendenti, pazienti che necessitano di assistenza parziale o di incoraggiamenti verbali e soggetti
indipendenti.
Il punteggio all’Eating Behaviour Scale correla negativamente con la durata del pasto e
positivamente con lo stato cognitivo del soggetto.
Nella pratica quotidiana, è spesso difficile raccogliere dati e informazioni necessarie per la valutazione
dello stato nutrizionale di tali pazienti, il MNA si è dimostrato per tutti e due i Centri Anffas, uno
strumento semplice e veloce ma utile a questo scopo (Guigoz et all., 1994).
Nel test MNA la valutazione si basa su 18 punti; può essere condotta in 15 minuti circa e prevede:
• Valutazione antropometrica (BMI, circonferenza braccio e polpaccio, perdita di peso)
• Valutazione generale (sei domande relative allo stile di vita, alla terapia farmacologia in atto e
all’autonomia funzionale del paziente)
• Valutazione dietetica (otto domande relative alle abitudini alimentari sia in senso qualitativo
che quantitativo)
• Valutazione soggettiva dello stato di salute.
Nel caso di pazienti affetti da demenza, naturalmente è l’esaminatore che fornisce la sua
impressione per le domande soggettive mentre si avvale dell’aiuto dei vari caregivers (compresi i
familiari) per le altre. Il punteggio complessivo consente di classificare i pazienti esaminati in una
delle seguenti categorie:
MNA>23.5= buono stato nutrizionale
17 <=MNA>=23.5= rischio di malnutrizione
MNA <17 = cattivo stato nutrizionale
Perché vi sia un monitoraggio valido, si ripeterà il MNA ogni tre-sei mesi.
37
Inoltre viene utilizzata un’ulteriore scheda di monitoraggio alimentare giornaliera, da compilare a fine
pasto per prevenire fenomeni di rischio di malnutrizione e/o disidratazione (Scheda della quantità di
ciò che viene mangiato e bevuto);
Infatti nei casi in cui si verificano sospetti di malnutrizione si fa un ulteriore controllo consegnando ai
vari caregivers formali e non, una scheda in cui viene segnalato puntualmente quanto cibo solido e
liquido ha deglutito il paziente durante la giornata, per sette giorni.
Altri accertamenti clinici per completare il quadro valutativo del paziente, che utilizza il Centro nella
prassi operativa, sono quelli con l’odontoiatra (esterno) che interviene sia per una valutazione
odontoiatrica generale, sia per l’igiene orale.
A volte l’intervento odontoiatrico è necessario perché ci possono essere delle situazioni dentarie
disastrose, alterazioni del tessuto paradontale o protesi dentarie non congrue, le quali invece di essere
un ausilio per la masticazione, la intralciano rendendola difficoltosa e mettendo così a rischio il
soggetto.
Altre volte, nella DI in generale o nelle fasi iniziali della demenza, si può intervenire
odontoiatricamente in modo sostitutivo e/o rimediativo.
Altra figura specialistica è quella del neurologo (interno), che procede ad una valutazione del
grado di deterioramento cognitivo e all’ esclusione di patologie di altra natura, che potrebbero falsare
la diagnosi di demenza e di disfagia neurologica.
Il fisioterapista (interno), valuta la possibilità di migliorare la postura del paziente, per ottimizzare
l’efficienza e la sicurezza del transito del bolo.
Lo psicologo (interno) oltre a valutare il decadimento neurologico in relazione all’aspetto cognitivo
e comportamentale sta valutando la possibilità di agire sull’aspetto emotivo-relazionale del cibo, per
migliorare il momento del pasto e quindi per curare in particolar modo l’aspetto affettivo-ambientale.
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Percorso operativo
L’obiettivo terapeutico del progetto “Disfagia” di ANFFAS Firenze è quello di arrivare ad una
deglutizione funzionale (fino a quando è possibile), caratterizzata da una maggior durata di tempo, con
eventuali limitazioni dietetiche e dove necessario e fattibile con l’adozione di posture di compenso o
strategie facilitanti.
Tutto questo per aumentare la sicurezza e il benessere dei pazienti e per valutare se con un
trattamento particolarmente focalizzato sull’aspetto alimentazione, si può riuscire rispetto al passato a
prevenire soffocamenti, malnutrizione e disidratazione, infezioni polmonari come l’ab-ingestis e di
conseguenza a ritardarne l’ ospedalizzazione.
Per raggiungere tale obiettivo, ANFFAS-Firenze utilizza anche un piano di trattamento logopedico
individualizzato, che parte dalla compilazione del Bilancio Logopedico, in cui è indicata la scala di
severità e outcome della disfagia (O’NEIL et al. Dysphagia 1999), dove sono segnalati gli eventuali
cibi da eliminare o come modificare la consistenza degli stessi, dove si trova l’indicazione delle
eventuali posture di compenso per migliorare il transito del cibo e gli eventuali controlli di tipo
comportamentale da effettuare soprattutto per mettere in sicurezza il nostro utente.
Nel bilancio logopedico viene inoltre segnalata la modalità di assunzione dei farmaci, alcune
precauzioni comportamentali e quei segni clinici da tenere sotto controllo e che devono essere
prontamente segnalati per iscritto all’infermiere, il quale può immediatamente allertare il neurologo,
lo psicologo, la logopedista, il fisioterapista. Tale protocollo è stato ultimamente riorganizzato
seguendo il modello del bilancio logopedico utilizzato dall’Azienda Sanitaria To 1, ma con le
modifiche necessarie al tipo di intervento effettuato all’Anffas di Firenze.
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Piano di trattamento
1. Area generale
Si tratta di un intervento di tipo olistico che deve comprendere nell’ambito della gestione delle vie
aereo-digestive, anche interventi volti alla stimolazione dell’interazione del paziente con l’ambiente.
Quindi nella fase iniziale l’intervento logopedico prevede strategie multimodali per la stimolazione:
-senso percettiva
-delle retroazioni effettuatorie sull’ambiente esterno e del loro significato comunicativo
-di attenzione ( sia direttamente con il paziente, sia monitorando e adeguando gli stimoli ambientali
in collaborazione con i vari caregivers)
-della memoria di lavoro
-del controllo del capo e e del tronco (in collaborazione con il fisioterapista)
-della consapevolezza del proprio corpo ( “ “
“
“ )
-della coordinazione, generale e settoriale ( “
“
“
“ )
Con il progredire della malattia, nei casi di DS con sintomi DAD, si evince un peggioramento di
quello che è già un linguaggio verbale povero sia semanticamente che sintatticamente: il vocabolario
si riduce sensibilmente, le frasi diventano più corte. Inoltre anche nei casi di persone estremamente
socievoli, si assiste ad una progressiva chiusura in se stessi fino al punto di smettere di parlare, oppure
tale situazione può portare ad una situazione di confusione e a reazioni di rabbia.
L’intervento logopedico può aiutare ad utilizzare strategie per preservare la comunicazione e le
funzioni cognitive il più a lungo possibile :
• Facilitando la comunicazione verbale, utilizzando varie tecniche, utilizzando per es.
suggerimenti e immagini per aiutare la memoria, per mantenere la possibilità di conversare, anche se
questo non ha uno specifico contenuto comunicativo. Infatti un metodo di comunicazione efficace con
il paziente demente è quello del “Conversazionalismo”, il cui obiettivo è appunto quello di un
passaggio da una comunicazione inefficace, ad una conversazione, orientata ad infondere protezione,
sicurezza e serenità nel malato. Si passa cioè da un linguaggio, (già alterato nei soggetti con DI), che
ha seppur in forma molto semplice una funzione comunicativa, ad un semplice scambio di parole che
invece viene conservata più a lungo. (Bell V, Troxel D,2004).
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• Si fa uso di quelle modalità di approccio comportamentale necessarie per preservare e quindi
ritardare il decadimento dell’autonomia e comunque per mantenere la migliore qualità di vita
possibile.
• Non si sottovaluta quella che è l’importanza dell’espressione non verbale, soprattutto quando
quella verbale diventa difficile. In generale, la capacità espressiva non verbale sembra comunque
rimanere presente più a lungo, quindi almeno nelle fasi intermedie spesso diventa il mezzo
comunicativo più efficace.
Tale dato va considerato per lavorare adeguatamente sulla comunicazione a tutto tondo: gestualità,
contatto visivo, recupero dell’attenzione.
Diventa infatti molto importante toccare, accarezzare, indicare e usare i vari parametri paraverbali
come il volume, l’altezza, l’intensità, velocità e fluenza dell’eloquio congrui alla situazione: basti
pensare che in una certa fase della malattia, questi soggetti riescono a capire non tanto ciò che si dice,
ma come viene espresso.
Si deve essere consapevoli che spesso le strategie riabilitative messe in opera per l’adulto con DI e
in particolare con demenza irreversibile, non sono valide e che è necessario promuovere la ricerca, per
trovarne di nuove e ciò equivale ad investire risorse nella riabilitazione e non certo a sottrarne.
L’essenza stessa del concetto di riabilitazione dovrebbe risiedere nella qualità della vita da
garantirsi alla persona con DI e demenza.
Avendo bene in mente tale obiettivo si riuscirà ad evitare errori che spesso caratterizzano alcuni
approcci riabilitativi. Il più pericoloso è l’accanimento riabilitativo, che si esprime attraverso una
sollecitazione oltremodo incalzante rivolta alla persona disabile perché raggiunga determinati livelli di
prestazione.
Ciò può portare allo scadimento del rapporto con l’operatore che non è più visto come persona
sensibile e si possono avere in seguito episodi tipici della psicopatologia: autostimolazioni,
autolesionismo, acting out, etc.
Tale considerazione è ancora più adeguata qualora la persona con DI e demenza sia di oltre 50
anni: essa ha diritto ad una gestione del tempo meno pressata e più congruente coi bisogni tipici
dell’adulto anziano; si devono ritmare i tempi dell’intervento sulla base della motivazione, delle
emozioni e dei sentimenti delle persone.
Pertanto nella gestione di tali pazienti non è possibile attuare strategie rimediative che implichino la
collaborazione e la partecipazione attiva del paziente, al fine di apprendere ed utilizzare strategie di
compenso-posturali e/o comportamentali.
2. Area aspecifica
In quest’area sono compresi quegli esercizi e proposte terapeutiche non rivolti al mantenimento ma
in particolare al rallentamento della perdita della sensibilità e della funzionalità neuromuscolare degli
organi preposti a ricevere, contenere ed elaborare il bolo, sulla base di quanto evidenziato
nell’osservazione clinica e strumentale.
Tutto questo solo nelle fasi iniziali per sollecitare la memorizzazione e l’automatizzazione di certi
movimenti che inesorabilmente tendono a scomparire, con l’obiettivo di tentare di ritardarne e
rallentarne il declino.
Molto importante è tenere ben presente l’affaticamento del paziente, la necessità di stimolarlo
quando lui è ancora sufficientemente “presente”, facendo attenzione al pericolo di un inutile
accanimento terapeutico, che si ripercuote negativamente sulla sua qualità di vita.
Si tratta soprattutto di :
• tecniche di stimolazione tattile, vibratoria e termica per i deficit di sensibilità di labbra, guance,
lingua e palato.
• Esercizi attivi, ma soprattutto passivi e nella fase iniziale fino a quando il paziente è vigile,
corresponsivo e sempre tenendo presente il suo “reale bisogno”.
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3. Area specifica
La scelta di procedure terapeutiche è effettuata in base alla necessità del singolo paziente.
Esse si dividono in:
a) Metodiche di compenso :
posture facilitanti e precauzioni comportamentali che hanno come obiettivo quello di ottenere la
migliore efficienza del transito oro-faringeo del bolo e una deglutizione senza inalazioni nelle vie
aeree.
Tra le posture adottate principalmente con questi soggetti anziani dementi e DS con DAD, per la
sua semplicità e per la possibilità di attuarla anche nella fase media e finale della malattia, è quella a
capo flesso anteriormente, che infatti può essere anche indotta passivamente dall’operatore.
Questa posizione infatti determina una posizione più elevata della laringe, uno spostamento
posteriore della base lingua e l’orizzontalizzazione dell’epiglottide, il che garantisce nei frequenti casi
di ritardo di innesco del riflesso di deglutizione, di difficoltà di gestione del bolo, di ridotto
arretramento della base lingua e ridotta elevazione laringea, una maggior possibilità di trattenere il
cibo nello spazio vallecolare così ampliato fino alla comparsa del riflesso deglutitorio.
E’ indispensabile che gli operatori siano a conoscenza ed informino i familiari sui comportamenti
facilitanti, perché l’equilibrio tra quanto il paziente è in grado di fare e quello che non gli è più
accessibile, si modifica con il progredire della malattia e chi segue il paziente deve essere aiutato a
cogliere queste variazioni, adattandosi ad esse. Sono molto importanti anche tutta una serie di
precauzioni comportamentali che devono arrivare a tutti i vari caregivers e per questo diventa
fondamentale il Counselling logopedico.
Il counselling logopedico merita uno spazio a parte, viene effettuato parallelamente al trattamento
riabilitativo e si rivolge a quanti sono coinvolti direttamente alla gestione e nella convivenza con il
paziente, pertanto esso si rivolge elettivamente oltre al paziente stesso, ai suoi familiari e a tutti i
caregivers che si occupano di lui.
Gli obiettivi del counselling sono molteplici e si possono sintetizzare nell’aiutare a gestire i
problemi funzionali legati alla patologia per quanto concerne la comunicazione e in particolare nel suo
complesso all’alimentazione.
b) Provvedimenti adattivi:
Nel momento in cui dalla semiotica clinica-strumentale, si rileva che c’è la possibilità di
alimentarsi per os, è estremamente importante che ciò avvenga con un monitoraggio costante, tenendo
conto della demenza irreversibile e progressiva e quindi dell’inesorabile peggioramento anche delle
difficoltà deglutitorie.
Gli accorgimenti che riducono al massimo le difficoltà dell’atto deglutitorio e della sua
preparazione comprendono gli artefizi dietetici, l’adozione di ausilii speciali per l’alimentazione,
l’adeguato posizionamento del cibo nell’abitacolo orale .
Per quanto riguarda la pianificazione della dieta, nel trattamento della disfagia dei soggetti anziani
anche con DS e sintomi di DAD, si fa riferimento alla scala di O’Neil, alla relativa tabella di
indicazione del tipo di disfagia e alla conseguente necessità di restrizione dietetica.
L’intervento logopedico diventa indispensabile con il progredire della malattia, per poter valutare e
trattare il problema di deglutizione e la capacità di alimentarsi , anche se questa in genere è l’ultima ad
alterarsi: nell’uomo la capacità di suzione è la prima a comparire e l’ultima a scomparire.
Dalla valutazione clinica logopedica e clinica-strumentale del foniatra, emergono quelli che sono i
tipi di alimenti congrui per il paziente.
Tali alimenti possono differire per:
- consistenza e per ottenerla si possono utilizzare degli “additivi” (addensanti, diluenti, lubrificanti)
-grado di coesione
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-omogeneità
-scivolosità
-volume del bolo
-temperatura
-colore degli alimenti
-sapore degli alimenti
-appetibilità
Si inizia, nella prima fase della malattia, normalmente con la selezione di alimenti solidi-morbidi
“non pericolosi” ed evitando sempre i seguenti cibi:
• Liquido che sia mescolato con parti solide( ad esempio pastina in brodo, minestrone con pezzi)
• Zuppa di pane o con fette biscottate
• Yogurt con pezzi
• Verdure filacciose e dure
• Carne filacciosa ,dura e asciutta
• Cibi appiccicosi (es. stracchino)
• Legumi (piselli,fave,lenticchie)
• Frutta secca (es. noci, arachidi, mandorle,pistacchi)
• Agrumi, uva
• Riso o pasta di formato lungo (spaghetti)
• Alcolici
• Grissini o biscotti secchi
• Altro………. perché ogni persona presenta delle caratteristiche proprie di difficoltà
deglutitorie ma anche di gusto che è giusto considerare, sempre nell’ottica di una migliore QdV
possibile.
Poi via che le capacità deglutitorie peggiorano, nella fase media e finale, si passa ad accentuare
l’attenzione su tutte quelle caratteristiche che gli alimenti devono avere in questo tipo di patologia,
cioè a quei particolari criteri dietetici, ad alta componente di coesione e di scivolosità, che possono
ridurre l’affaticamento e facilitare l’assunzione di un adeguato apporto calorico e idrico.
In base alle diverse problematiche deglutitorie se è possibile un’alimentazione per os, la
pianificazione e la scelta degli alimenti nella fase media e finale (anche nei Down con DAD), deve
sempre tener conto delle loro preferenze gustative. La caratteristica di consistenza degli alimenti varia
a secondo del tipo di alterazione oro-faringea che presenta il paziente, i cibi a consistenza semisolida e
semiliquida sono quelli più idonei, con l’eventuale utilizzo se necessita di addensanti per i liquidi.
Gli alimenti semiliquidi sono preparazioni alimentari dove prevale la percentuale liquida e che
necessitano di una modesta preparazione orale. Comprendono gelati, granite, passati di verdura,
yogurt, creme, semolino, crema di riso, frullati e omogeneizzati di frutta.
I semisolidi comprendono: polenta, semolino, crema e passati di verdura, omogeneizzati di carne o
pesce, formaggi cremosi, uova alla coque, budini, mousse.
Tali alimenti, necessitano di una preparazione orale più impegnativa delle preparazioni
semiliquide, ma non richiedono un apprestamento dal punto di vista della masticazione.
Nei pazienti DS con DAD, deve essere sempre verificato il consumo quotidiano di liquidi
consumati, infatti la disfagia porta ad eliminarli spontaneamente inoltre si devono evitare cibi piccanti
e superalcolici, che possono provocare tosse e rendere più difficile la deglutizione.
L’alimentazione di un demente anziano in generale, quindi anche per il Down con DAD, necessita
di notevole abilità da parte degli operatori assistenziali che devono attenersi a quelle che sono le
raccomandazioni nutrizionali per quel paziente.
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Al Centro Anffas di Firenze, sono state rese partecipi al progetto anche le cuoche, per portarle a
conoscenza del problema disfagia e della necessità di porre molta attenzione nella preparazione di tali
pietanze. A tale scopo, la cucina è stata dotata anche di un omogeneizzatore professionale che
permette di preparare le pietanze con la giusta consistenza e densità , utilizzando sia alimenti freschi
che cotti.
Giornalmente le cuoche si occupano di preparare i menù generali e quelli particolari, dietro
indicazione della logopedista per quanto riguarda il tipo e il grado di consistenza e del medico che
valuta il fabbisogno calorico e proteico di ognuno, in relazione non solo all’età ma anche alla demenza
cronica progressiva.
Il Centro Anffas Firenze ha una cucina e una mensa interna, dove quotidianamente i pazienti
consumano il pranzo, negli ultimi tre anni questo momento e luogo è diventato di focale importanza
per l’osservazione della funzionalità deglutitoria e del loro comportamento alimentare in generale.
Quando si presenta la situazione di non possibilità di nutrirsi per os, immediatamente il paziente viene
inviato nelle strutture ospedaliere idonee, per procedere alla possibilità di far scegliere i famigliari o i
tutori, dietro accertamento clinico generale, l’eventuale passaggio ad un’alimentazione di tipo
enterale.
Gestione multidisciplinare
La gestione della disfagia per la sua complessità, richiede come già detto un’ampia rete
multidisciplinare e multiprofessionale di esperti, dove il ruolo del logopedista è fondamentale per
quanto riguarda la diagnosi, la valutazione, il counselling (momento fondamentale nell’ambito del
programma riabilitativo globale), la riabilitazione (dove questa sia possibile ) e per l’outcome con i
successivi follow-up di controllo.
Con una cartella clinica riassuntiva e collegiale delle varie valutazioni per la disfagia, ottenuta dalle
specifiche competenze professionali presenti al Centro Anffas Firenze ed esterne, si può avere una
visione ed un’informazione globale e immediata di tali pazienti e questa è risultata essere molto utile
anche a quei professionisti che non conoscono direttamente tali soggetti, facilitandone l’approccio e
la possibilità di valutazione generale.
Nella cartella riassuntiva infatti sono state inserite oltre alle valutazioni della logopedista, del
neurologo, del fisioterapista, dello psicologo presenti al Centro anche quelle visite specialistiche
esterne come quella odontoiatrica, in particolare della Dott.ssa A. De Simone dell’ Ospedale
Torregalli e quella foniatrica del Dott. S. Coscarelli dell’Ospedale Careggi, entrambi di Firenze, con i
quali è stato avviato su tali pazienti un progetto di prevenzione, di mantenimento e dove sia ancora
possibile di intervento rimediativo.
Schema di valutazione relativo ad alcuni test riguardanti la capacità di alimentarsi
Gli 80 utenti dell’Anffas di Firenze, sono disabili intellettivi e relazionali , hanno un’età media di
50 anni; 16 sono affetti da DS cioè il 25% dell’ utenza e di questi 10 (62%) presentano problemi della
deglutizione di origine orofaringea di varia entità, 4 dei quali presentano anche sintomi di demenza di
tipo Alzheimer (DAD), ma tutti ancora con la possibilità di un’alimentazione per os.
Nella tabella che segue, realizzata con i dati valutativi reali o in percentuale ottenuti con test
particolarmente importanti per la valutazione della disfagia, sono stati presi in considerazione solo i 16
soggetti affetti da DS, di cui 10 presentano difficoltà deglutitorie di tipo orofaringeo e tra questi 4
anche con sintomatologia DAD.
Il campione è così composto:
7 femmine e 9 maschi.
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La media dell’età di tutti i pazienti con DS, è risultata essere di 55,3 anni, in particolare quella di
coloro che presentano una disfagia orofaringea è di 56,5 e per concludere quella dei soggetti con DS e
DAD è di 55,75 anni. Questi dati, pur dovendo tenere conto, che sono stati ottenuti da un campione
esiguo, non fanno apparire l’età come un elemento di particolare importanza per la rilevazione di una
DAD.
Anche il sesso non appare come un dato rilevante.
Per quanto riguarda il test del linguaggio sono stati considerati solo alcuni degli item ( Esame del
linguaggio a cura dell’Ass. per lo sviluppo delle ricerche Neuropsicologiche), che sono stati ritenuti
importanti ai fini di tale valutazione.
Vengono quindi considerate le medie tra i valori ottenuti dalle percentuali degli item riguardanti la
capacità espressiva e quella comprensiva, facendo un confronto tra i valori ottenuti nel 2006 e quelli
ottenuti nel 2009.
Da questi dati si evince che in questi ultimi tre anni, coloro che hanno manifestato chiari segni di
demenza hanno avuto un decadimento delle capacità comunicative in generale, ma in particolare della
capacità espressiva. Si deve segnalare che tra questi 4 pazienti, solo uno è nella fase finale ed è quello
a cui corrispondono i valori 0 sia per la capacità espressiva che comunicativa; gli altri si trovano tra la
fine della fascia iniziale e quella media della malattia.
Considerando gli altri 12 pazienti Down non si evidenzia lo stesso decadimento nell’esame del
linguaggio, infatti i valori percentuali tra il 2006 e il 2009 mostrano poca o nessuna differenza.
Per quanto riguardano i dati che si riferiscono alla valutazione della disfagia sono riportati i valori
che corrispondono alla scala di severità e outcome della scala O’Neil e all’eventuale necessità di
utilizzare liquidi addensati.
Dai dati si rileva che i pazienti con DS e DAD, presentano una disfagia da lieve-moderata a
moderata, da segnalare che nel mese di agosto vi è stato il peggioramento del caso che si trova in fase
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finale della malattia, con un probabile passaggio al livello 2 o addirittura 1, ed è a tutt’oggi ancora
ospedalizzato.
Si nota soprattutto come la disfagia di tipo orofaringeo sia presente in molti dei soggetti esaminati
10/16 (0,63%), ma che sostanzialmente la criticità si raggiunge solo con la comparsa dei sintomi
DAD, con un deficit deglutitorio che ci permette comunque di agire terapeuticamente con
un’alimentazione per os, però intensificando il controllo e il monitoraggio continuo ed utilizzando vari
provvedimenti adattivi dietetici, strategie e/o posture di compenso.
Per la valutazione motoria, sono stati considerati i dati ricavati dal profilo ICF, realizzato nel 2009,
relativo alle funzioni e in particolare a quelle neuro-muscoloscheletriche e correlate al movimento.
Con i numeri ottenuti si fa riferimento ad un qualificatore generico con scala negativa, usato per
indicare l’estensione o la gravità di una menomazione:
0 nessuna
che corrisponde allo 0 - 4% della menomazione
1 lieve ( leggera, piccola)
“
“
al
5 - 24 %
2 media (moderata, discreta)
“
“
al
25 - 49%
3 grave (notevole, estrema)
“
“
al
50 - 95 %
4 completa (totale)
“
“
al
96 - 100%
Da ogni numero degli item indagati abbiamo poi ottenuto una percentuale di menomazione
funzionale. Dalla somma delle percentuali medie relative ai dati indagati, otteniamo il dato segnato sul
grafico che corrisponde ad una scala negativa.
Si noti che abbiamo una massima gravità nel paziente con DAD in fase terminale e una gravità
media negli altri tre soggetti. Per quanto riguarda le percentuali degli altri soggetti con DS, si può
notare che non vi è una evidente differenza tra loro e quelli che sono nella fase iniziale e media della
demenza.
Nel test MNA solo nel caso più grave con DAD, si ha un dato che indica un cattivo stato
nutrizionale, per tutti gli altri siamo o nella fascia rischio, che indica soprattutto la necessità di un
monitoraggio continuo oppure abbiamo dei valori che indicano un buon stato nutrizionale (cifre in
rosso).
Per quanto riguarda l’EBS dall’osservazione del comportamento alimentare, si evince che dal 2006
al 2009 vi è stato nei soggetti con DAD un decadimento delle capacità, in particolare per uno di loro
con valore 0 che corrisponde ad una totale dipendenza, mentre gli altri hanno un valore 1 che indica la
necessità di assistenza al pasto. Per gli altri pazienti i dati sono all’incirca gli stessi.
I risultati del test ADL permettono di rilevare un indice di autonomia nelle attività quotidiane
(indice di S. Kats). Il giudizio è basato sullo stato reale e non sulla abilità: il rifiuto di eseguire una
funzione va valutato come disabilità, anche se si ritiene il paziente capace. Autonomia significa
assenza di supervisione, guida od assistenza attiva: la necessità di aiuto umano sotto qualsiasi forma
va classificata come disabilità. L’utilizzo autonomo di presidi o equipaggiamenti speciali per svolgere
una funzione, in assenza di aiuto da terzi, va classificato come non disabilità.
Riguardo alla incontinenza, la definizione di non autosufficienza va riferita non alla sua esistenza
in sé, ma alla necessità di essere aiutati da altri per pulirsi, indossare e cambiare pannolini, utilizzare la
comoda od i servizi igienici.
Il risultato riportato negli item della scala, corrisponde ad un numero assoluto, attribuendo il valore
di 0 al giudizio di indipendenza e 1 a quello di dipendenza. (0= massima autonomia, 6 = massima
dipendenza).
Si è evidenziato nei soggetti con DAD un forte decadimento dell’autonomia nelle attività
quotidiane, mentre vi è un sostanziale mantenimento per gli altri soggetti.
Nei dati del test IADL si può notare che ad eccezione del soggetto con DAD più grave vi è un
peggioramento non significativo per tutti i soggetti Down, ma per questo elemento si deve tener conto
del dato del 2006, in cui tali pazienti risultavano già non autonomi per la maggior parte delle attività
strumentali quotidiane proposte.
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In conclusione, facendo un confronto fra i dati ottenuti si può asserire per quanto riguarda i pazienti
con DAD, che confrontandoli con i dati del 2006, si rileva un decadimento delle capacità
comunicative in particolare della capacità espressiva ed una disfagia che è passata solo nel caso più
grave, da una disfagia lieve ad una moderata, con un peggioramento avuto nel mese di agosto
riconducibile alla fine della malattia. Per gli altri casi con demenza il peggioramento è stato lieve e in
generale con tutti gli altri soggetti abbiamo vi è stato un sostanziale mantenimento delle capacità
deglutitorie dal 2006 al 2009.
Per quanto riguarda l’EBS dall’osservazione del comportamento alimentare, si evince che dal 2006
al 2009 vi è stato nei soggetti con DAD un decadimento delle capacità, in particolare per uno di loro
con valore 0 che corrisponde ad una totale dipendenza, mentre gli altri che hanno un valore 1
indicano la necessità di assistenza al pasto. Si noti come per i soggetti senza demenza i dati tra il 2006
e il 2009 siano gli stessi.
E’ risultato nei soggetti con DAD un forte decadimento dell’autonomia nelle attività quotidiane
(ADL), mentre per quanto riguardano i dati degli altri pazienti si noti che a parte due eccezioni, tra il
2006 e il 2009 i risultati sono identici.
Nel test IADL si può notare che (a parte due soggetti con DAD) non vi è un peggioramento
significativo, anche se si deve tener conto del dato del 2006 in cui tali pazienti risultavano già non
autonomi per la maggior parte delle attività strumentali quotidiane proposte.
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CONCLUSIONI
E’ fondamentale riconoscere alla persona disabile un proprio ruolo sociale, anche se ancora oggi
questo è difficile perché tutt’ora si assiste ad un’indefinitezza che può prolungarsi durante tutto il life
span, con il rischio di adottare una visione stereotipica della persona con disabilità intellettiva (DI) che
la imprigiona all’interno di un’eterna giovinezza: questa visione comporta una serie di problematiche
legate alla negazione dell’identità lavorativa, affettiva, sessuale della persona disabile e anziana in
particolare.
È quindi necessario contemplare la necessità di modificare le istituzioni adeguandole ai bisogni del
disabile e arricchendole di sensibilità e transazioni interne, lavoro che richiede un ulteriore e
prolungato sforzo non solo in termini di risorse, ma anche sotto il profilo culturale, formativo ed
organizzativo.
Dal momento in cui è stato attivato al Centro Anffas di Firenze il progetto “Disfagia” sono diminuiti i
casi di soffocamento, polmoniti ab ingestis ed il ricorso ad ospedalizzazioni precoci: la presa in carico
dei soggetti con DI e in particolare con DS di età adulta e anziana, ci ha fatto agire nel tentativo di
trovare una prassi valutativa e operativa che potesse riuscire a creare un ambiente favorevole e
protesico, adatto alle loro capacità cognitive e funzionali ancor più se insorge l’evento dementigeno
cronico e progressivo. Negli ultimi tre anni, tale metodo sembra essere stato determinante per
ritardare la comparsa dei sintomi di decadimento neurologico generale e in particolare per rallentare il
decorso della demenza nella piccola percentuale di soggetti con DAD. Tali pazienti necessitano di
essere ascoltati, di essere accuditi e “coccolati”, per percepire ciò che sentono e vogliono e questo può
avvenire solo se si riesce a vederli non solo come pazienti, ma come persone. Per riuscire a intervenire
con efficacia nella fase media e finale della malattia, si deve riuscire a cogliere quelle che sono le reali
necessità di cui hanno bisogno e si devono interpretare e capire soprattutto i comportamenti non
verbali.
Tutti questi accorgimenti sia clinici che comportamentali, come è comprensibile hanno portato ad
una migliore condizione di vita dei pazienti e di tutti i loro caregivers, ma la sfida è un’ulteriore
ottimizzazione degli interventi con particolare attenzione alla ricerca di evidenze e dati significativi
riguardanti la disfagia, in particolare nel soggetto con DS e DAD.
Nella ricerca di ampliare tali conoscenze ed esperienze è iniziata una collaborazione con ANFFAS
Trento, entrambi concordano nel ritenere importante una valutazione e una prassi operativa di tipo
olistico sia sul piano cognitivo–comportamentale ma anche emotivo-relazionale, per tutti i soggetti
con DI ma in particolare per quelli con DS e DAD.
La capacità o meno di alimentarsi nei soggetti anziani con DS e in particolare in quelli con DAD,
tende inesorabilmente a decadere, questo è il nodo che insieme le due sedi Anffas cercheranno di
dipanare. Anffas Trento fino ad oggi ha dato più peso all’aspetto di indagine e trattamento cognitivocomportamentale e si è avvalsa di valutazioni mediche (foniatriche e dietistiche) nel momento di
maggior criticità della difficoltà deglutitoria, non utilizzando protocolli clinici di valutazione
logopedica della disfagia.
Anffas Firenze invece pur adottando in generale un simile approccio diagnostico-riabilitativo, negli
ultimi tre anni ha privilegiato e si è concentrata sulla valutazione della disfagia, sulla necessità di
adottare delle procedure di screening in una popolazione a rischio come quella con DS anziana e in
particolare con DAD, per evitare gravi complicazioni che potrebbero mettere a serio rischio la vita di
tali pazienti.
L’intenzione di Anffas Firenze è quella di avviare un progetto comune per lo studio sulla disfagia
riuscendo così a monitorare un ampio campione di soggetti adulti e anziani con DI e in particolare con
DS. E’stato proposto quindi di utilizzare per quanto riguarda la disfagia le stesse procedure di
valutazione e di followup, adottando uno stesso protocollo standardizzato e terminologia comune, per
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poter così effettuare studi di controllo longitudinali sui vari aspetti che sono ritenuti particolarmente a
rischio.
Trento ha già avviato alcune rilevazioni dai risultati di 4 anni di sperimentazione, soprattutto
dall’impatto del loro tipo di approccio protesico inteso sia come spazio fisico, sia come persone e che
riguarda anche le modalità e le qualità di intervento. Il risultato è positivo perchè seguendo i “ritmi”di
questi soggetti e utilizzando un approccio globale alla persona, sono riusciti a limitare l’uso dei
farmaci aumentando il loro benessere e riuscendo a ridurne lo stress; la conseguenza è un evidente
rallentamento della progressione della demenza.
Anche Anffas Firenze ha rilevato dei dati positivi dal 2006 al 2009, ottenuti dal tipo di percorso di
screening, valutazione e trattamento per la disfagia e in particolare nei i soggetti con DS e DAD è stata
riscontrata una diminuzione di episodi di soffocamento, di ospedalizzazioni per infezioni polmonari,
di malnutrizione o disidratazione e un rallentamento generale del decadimento delle capacità
deglutitorie. In generale per i pazienti con DI ed in particolare per quelli anziani, il momento del
“mangiare” è fondamentale, quindi la sfida che diventa sempre più importante è quella di riuscire a far
si che questo miglioramento delle condizioni della salute di tali pazienti, sia vista non solo in relazione
alla capacità di ridurre quantitativamente i pericoli derivanti dalla difficoltà deglutitoria, ma che sia
orientata anche alla ricerca di un possibile e necessario mantenimento dell’aspetto edonistico
dell’alimentazione stessa.
Ricordiamo che il 20-12-1971 l’ONU ha redatto la Dichiarazione sui diritti delle persone disabili e
la stessa è stata approvata definitivamente nel 1975. La dichiarazione all.art. 3 recita: “Il minorato ha
diritto alla sua dignità quali che siano l’origine, la natura, la gravità delle sue turbe e deficienze; ha gli
stessi diritti dei suoi concittadini coetanei, ciò che implica principalmente quello di godere di una
vita decorosa, sviluppata al massimo delle sue possibilità”, riconosce alla persona affetta da disabilità,
qualunque essa sia, la piena dignità di persona umana e tale concetto è stato continuamente ribadito e
sviluppato in tutti i pronunciamenti successivi (ad esempio la PAHO/WHO Montreal Conference on
Intellectual Disability, 5 ottobre, 2004). Di recente il Comitato Nazionale per la Bioetica in un
documento intitolato Bioetica e diritti degli anziani. (20 gennaio 2006) sottolinea che, in ogni età ed in
ogni circostanza, la persona non autosufficiente conserva le sue caratteristiche insopprimibili di
persona umana e di cittadino, un doppio valore che ne tutela la dignità, i diritti e gli interessi.
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