2014 07 23 Buone vacanze con immagini2

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2014 07 23 Buone vacanze con immagini2
Buone vacanze! (e non dimenticatevi la vostra Kodak Instamatic)
© 2014 – Gerardo Bonomo – New Old Camera srl
Buone vacanze! (e non dimenticatevi la vostra Kodak Instamatic)
Eh sì, ci siamo, arrivano le sospirate ferie, per tutti, quasi per tutti. Avete già fatto la canonica
settimana a fine giugno? Pronti per il grosso del malloppo? State già pensando alla valigia,
pardon, al trolley? O lo state disfando proprio in questo momento il trolley. Non preoccupatevi,
anche per voi ritorneranno le ferie.
Cosa avete messo nella borsa fotografica? Come? Avete lo zaino fotografico? Fa lo stesso:
cosa avete messo? Reflex e un nutrito parco ottiche? Mirrorless e un paio di focali fisse
ultraluminose? Compatta raffinata? Macchina digitale che scatta solo in bianco e nero e ha la
messa a fuoco a telemetro? (beati voi!) iPhone e alla via così? (contenti voi…)
Nessuno si porterà dietro la sua prima macchina fotografica, nel 99% dei casi la fida e
affidabile Kodak Instamatic. Quanto sono cambiate le fotocamere in questi cinquant’anni! Sì,
non solo le fotocamere. Anche le automobili, giusto per fare un esempio, sono cambiate, sono
più sicure, meglio, hanno più dotazioni di sicurezza, tengono meglio la strada, se hanno i fari
allo Xenon di notte illuminano di più di un faro su una scogliera, ma alla fine hanno sempre e
ancora quattro ruote, come cinquant’anni fa, e per accenderle nella stragrande maggioranza
dei modelli ci vuole ancora la chiave.
No, le fotocamere si sono molto più evolute.
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E torniamo alla Kodak Instamatic, quindi probabilmente al giorno della vostra comunione - nel
mio caso della cresima - a quella macchinetta che aveva giusto una levetta che si spostava tra
il simbolo del sole e il simbolo della nuvola, un pulsante di scatto e una rotellina dentellata per
far avanzare la pellicola, che dopo un paio di rulli avevi perso le impronte digitali sul pollice
della mano destra. Quando si era fortunati si poteva contare anche su un paio di Cuboflash,
appunto dei cubi con una lampadina annidata in ogni faccia, e ogni volta che si scattava una
foto il Cubo girava sul lato successivo, come il tamburo di un revolver, e la lampadina appena
usata era fusa insieme allo specchietto di plastica che le stava dietro da sembrare una reliquia
di un olocausto atomico. Dalla Instamatic io passai a una Comet, NK135, Made in Italy, più
precisamente Made in Milan (già, una volta a Milano c’erano perfino delle fabbriche di
fotocamere): io ci vedevo la stessa differenza che passa tra un fuoco d’artificio e l’Apollo 11:
diaframmi, qualche tempo di posa, messa a fuoco a stima - ovvero risultavano a fuoco solo i
paesaggi all’infinito-; non avevo l’esposimetro e sovra o sottoesponevo mediamente di una
decina di stop; quando ritiravo le stampe 10x15 era un miracolo se una su trentasei era nitida
e correttamente esposta. La portai anche a una gita scolastica composta da due classi, quarta
e quinta ginnasio, io ero in quarta, uno di quinta aveva una Canon FTb, assoluta fantascienza
a quei tempi, sia per il tipo di macchina che per il fatto che un ragazzo la poteva possedere. Io
lo tormentavo ogni cinque minuti chiedendogli il tempo e il diaframma da usare e lui,
impietosito, mi aveva concesso una, anzi, due possibilità: mi avrebbe riferito l’accoppiata
tempo/diaframma giusta, sì, ma solo due volte al giorno, una volta di mattina e una di
pomeriggio. Per l’occasione avevo voluto usare il mio primo rullo di diapositive: ritirai dal
laboratorio trentasei diapositive quasi completamente trasparenti, da tanto erano
sovraesposte. Sono convinto - ovvio- che lui, anche se solo due volte al giorno, mi trasmetteva
un’accoppiata tempo/diaframma volutamente sbagliata. Scherzi innocenti… in alcune parti del
mondo ti fanno molto male per molto meno…
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Buone vacanze! (e non dimenticatevi la vostra Kodak Instamatic)
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Poi in casa entrò la prima reflex, una Topcon Unirex EE col suo fido cinquantino. La ereditai,
non a babbo morto, un’ora dopo che entrò in famiglia. Dovetti aspettare circa due anni per
“ampliare” il parco ottiche con un 135mm che con due (due !!!) moltiplicatori di focale Kenko
raggiungeva la temibile focale di 540 millimetri, perdendo una ventina di stop, utilizzabile
quindi solo per fotografare il sole tra i tralicci. Due anni dopo arrivò il 28mm. Uscii dal negozio
con il 28mm innestato guardando attraverso il mirino mentre camminavo e cominciai a
barcollare come un ubriaco: non mi sembrava vero di poter guardare attraverso un obiettivo
con un angolo di campo così smisurato. In quel periodo, tutti i mei coetanei con la passione
per la fotografia - me compreso- avevano cominciato a fotografare in bianco e nero e quasi
tutti avevano un ingranditore sopra la lavatrice di mammà. Si fotografava in bainco e nero non
perché faceva molto Bresson ma perché i negativi costavano meno sia della negativa colore
che della diapositiva e si potevano stampare da sé. Compravamo la pellicola in bobina, bobine
da cinquecento chilometri con cui ci fabbricavamo dei rullini oversize da più di quaranta pose, i
rullini alla fine erano talmente imbottiti di pellicola da sembrare dei tripli hamburger al
formaggio e la pellicola faticava addirittura a uscire dal rullino mentre la armavi per arrivare al
fotogramma numero 1. In camera oscura non potevamo permetterci provini più grandi di un
francobollo, spesso ci lanciavamo direttamente sulla stampa finale (le gigantografie arrivavano
a sfiorare il 18x24 centimetri) che regolarmente venivano troppo scure o troppo chiare e
dovevamo convincerci che erano perfette. Nessuno aveva vere macchine fotografiche: le
Hasselblad le vedevamo solo durante le dirette degli allunaggi mentre Walter Cronkite
commentava in diretta e si levava gli occhiali per la commozione, avevamo appena i soldi
sufficienti per comprarci l’Almanacco di Fotografare che imparavamo a memoria, guardando
con occhio ancora più attento le pagine di pubblicità dove le fotocamere erano mostrate molto
più grandi rispetto ai microscopici santini che accompagnavano le descrizioni delle singole
fotocamere nelle varie sezioni. Nikon, Rolleiflex, Leica erano solo sogni a occhi aperti. Una
Hasselblad 500/CM con magazzino A12 e Planar 80mm costava più di un milione di Lire in un
periodo in cui si andava al cinema con 200 Lire (10 centesimi di Euro).
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Di Leica non erano chiari neppure i prezzi a fianco dei santini, veramente troppi zero, ci si
cullava nell’idea che forse c’erano stati errori tipografici, le Leica le si vedeva, e raramente,
soprattutto in montagna al collo di facoltosi signori, con la borsa pronto a tracolla aperta a
mostrare quell’intrico di ghiere, di mirini e finestrelle, da farle sembrare modellini di U Boot.
Macchine per pochi, quasi per nessuno, forse bisognava dimostrare di essere stati nella
Luftwaffe o nella Kriegsmarine per poterle acquistare. Le Rolleiflex, sempre raramente, era più
facile vederle in località di mare, per esempio a Sanremo, -quando Sharm El Sheik la
conosceva solo la fauna ittica del Mar Rosso- nuovamente al collo di persone abbienti, vestite
di tutto punto in lino chiaro, con il panama e la canna che ondeggiava al polso, intenti a
fotografare signore avanti con gli anni che a ferragosto restavano completamente vestite ai
tavolini che fiancheggiavano la spiaggia, con tanto di guanti di filo, veletta e ombrello bianco
parasole. La passione trascorreva per metà perdendo gli occhi sui santini dell’Almanacco, per
metà rimanendo incollati per ore, come gechi intorno a una moschiera, alle vetrine dei negozi
di fotografia, le vetrine dell’usato, naturalmente. A Milano in Corso Buenos Aires, c’era
Matuella, uno dei negozi più antichi di Milano; piccolo, con due vetrine stondate, capolavoro
dell’arte vetraria: bisognava mettersi in coda anche per vedere il materiale esposto in vetrina.
In Piazza Venticinque Aprile c’era Artioli: in qualsiasi giorno dell’anno e a qualsiasi ora c’erano
sempre almeno quattro compatte file di persona che si assiepavano davanti ai banchi, si
poteva aspettare anche un’ora prima di riuscire ad avvicinare un commesso. In Viale Certosa
c’era la Unionfotomarket, un vero e proprio trionfo della fotografia: bancali di pellicola e carta
fotografica, ogni tipo di accessorio sia per la sala di posa che per la camera oscura e prima
dell’uscita un numero di casse da far invidia a un grande centro commerciale dei nostri giorni.
C’era anche un negozio che apriva anziché nel pomeriggio del lunedì già la mattina per
permettere soprattutto ai professionisti, ma anche agli appassionati, di potersi rifornire di
pellicole senza dover attendere il lunedì pomeriggio, dopo l’abbuffata di scatti del fine
settimana.
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C’era un laboratorio che ai propri clienti dava una chiave che permetteva loro di inserire le
pellicole in un apposito “bancomat” anche di notte e molti laboratori processavano le
diapositive in E6 di notte, e il sabato, e la domenica. Enormi negatoscopi a disposizione dei
clienti e contafili assicurati ai banchi con delle catenelle permettevano ai fotografi di controllare
le pellicole appena ritirate. Altri preferivano la tranquillità del proprio abitacolo, usando il cielo
attraverso il parabrezza come negatoscopio, passando le diapositive velocemente una via
l’altra per farsi un’idea del risultato ottenuto. Fotocamera, in Via Santa Sofia a un passo da
Corso di Porta Romana fu il primo negozio che decise di trattare unicamente il materiale
usato, tanto da collezione che appunto da uso. Come dimenticare le gigantesche casseforti
allineate dietro il banco di vendita, e il sospiro che correva all’unisono tra i clienti ogni volta che
uno dei giganteschi sportelli veniva aperto per prendere questo o quest’altro oggetto? Decine,
centinaia di Leica M e a vite, plotoni Rolleiflex in file ordinate come la fanteria di Wellington a
Waterloo, e poi interi ripiani di Hasselblad, di corpi, di magazzini, di ottiche. Non avevamo
bisogno di andare ad Orlando noi, la nostra Disneyland era tra le vetrine dei negozi di
fotografia. Noi ci dovevamo contentare, esistevano marchi di fotocamere e di obiettivi ormai
dimenticati: Doi, Admiral, Review. E cosa dire dei mitici MTO, i teleobiettivi catadiottrici russi,
dalla incredibile focale di 500mm, ma c’erano anche da 1000mm. Era molto facile trovarli a
Porta Portese – io solo per questo motivo feci richiesta di trasferimento di residenza a Roma –
più difficile da trovare a Milano, anche se in linea d’aria siamo più vicini alla Russia.
Ryuichi Watanabe, il mio ospite di oggi, era già in Italia ma in tutt'altri motivi affaccendato: era
venuto in Italia dal Giappone per studiare musica e dal Giappone si era portato la passione
per le macchine fotografiche.
Giapponesi! Diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato: tedesche.
Quando lo conobbi mi raccontò tra le varie cose che era nato a Hiroshima. Non era facile per
me immaginare che a Hiroshima si poteva anche nascere. Seppi che eravamo coetanei,
entrami della classe 1958 – la migliore, naturalmente…!- ,lui è di qualche mese più giovane di
me. Già mi aveva colpito la sua passione per le macchine fotografiche tedesche - nemo
propheta in patria- io che all'epoca ero appassionato di brand giapponesi e non mi pareva vero
di aver conosciuto un mio coetaneo, appassionato di fotografia, nato dove si producevano le
fotocamere che amavo di più, ma appassionato di brand tedeschi. Come dargli torto? Le
fotocamere sono state inventate in Germania e all’inizio “copiate” dai giapponesi. Ma quando
mi raccontò che prediligeva il Kodachrome e che lo mandava a sviluppare in un laboratorio
americano la mia curiosità raddoppiò:
- Come, scusa, un laboratorio americano che sviluppa il Kodachrome in Giappone?
- Beh, non proprio, mi rispose, è in una città su un'altra isola qui di fronte.
- Che città?
- Pearl Harbour (!)
Ah, a proposito, oggi è il compleanno di Wata. Auguri, Wata.
Come diceva un vecchio saggio, gli anni, magari anche solo una volta all’anno, è sempre
meglio compierli.
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Poi siamo diventati tutti grandi, abbiamo cominciato a lavorare, abbiamo messo le mani sulla
prima Nikon, o la prima Hasselblad, abbiamo messo insieme il nostro parco ottiche,
rigorosamente di focali fisse, in camera oscura i Meopta da controspie dell’est che odoravano
di un collante ripugnante sono stati sostituiti dai Durst, sono arrivate le provinatrici Paterson e
si stampava in formato 30x40 centimetri, i rullini si compravano in confezioni da cinque e non
si bobinava più a mano, si usava la chimica usa e getta e si cambiava lo sviluppo nelle
bacinelle dopo ogni sessione di stampa, era arrivato il benessere. Si guardava sempre più
avanti, si cominciavano a comprare le 4x5 pollici e si lavorava con la Polapan 55, facendo
fuori dieci, a volte venti negativi/positivi a sessione. Rimaneva intatto il mistero dell’immagine
latente, si viaggiava per giorni, per settimane, senza sapere assolutamente nulla degli scatti
effettuati, sapendo al contempo perfettamente che la media di successo non era più di un
fotogramma ogni trentasei ma quasi di trentasei su trentasei, o dodici su dodici. Non è che ci
interessasse molto la marca della fotocamera, in quel periodo, sapevamo che c’erano marchi
blasonati, ma il nostro obiettivo non era appunto l’obiettivo f/1.2 ma fare fotografie, quindi
scattare, sviluppare e soprattutto stampare. E nessuno o pochissimi conoscevano il lavoro e la
filosofia di Ansel Adams.La camera oscura era il luogo dove in assoluto passavamo più
tempo, intere notti, interi week end, era come una febbre che non scendeva mai, non stancava
mai, non annoiava mai. Dopo ogni sessione ti ritrovavi con cinque dieci, o venti stampe, e
davvero potevi dire che quella foto l’avevi fatta tu: tu l’avevi scattata, tu avevi sviluppato il
negativo, tu avevi realizzato la stampa, sviluppandola a mano. Oppure si scattava in
diapositiva per realizzare poi i mitici audiovisivi: la maggior parte di noi avevano un singolo
scalcinato proiettore e un registratore a cassetta su cui si incideva la colonna sonora.
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I passaggi da una diapositiva all’altra, intervallati da penosi momenti in cui lo schermo cadeva
nel buio più assoluto, venivano mandati a memoria, così che quella diapositiva d’effetto
cadesse nel momento in cui quella o quell’altra stagione di Vivaldi staccasse con un
passaggio significativo e pieno di grande apparente commozione. Sapevamo dell’esistenza
dei proiettori Karousel della Kodak, dei caricatori circolari da ottanta (OTTANTA !!!)
diapositive, delle centraline che permettevano la dissolvenza incrociata, di raffinatissimi
registratori a tre, quattro, quarantaquattro piste, come i Revox, i Teac, ma per noi era lo stesso
che immaginarsi proprietari di un piccolo jet. Erano i tempi dei “vorrei ma non posso ma in
qualche modo la faccio stesso”, io in quel periodo comprai i famosi proiettori Silma: due
proiettori che si sormontavano e incorporavano un registratore che consentiva la registrazione
dell’audio - in mono - e degli impulsi per il passaggio da una diapositiva all’altra. Fantastico!
Insomma… Oltre al fatto che l’audio era mono, la durata della dissolvenza doveva essere
decisa prima della proiezione e rimaneva immutabile fino alla fine. E’ come guardare un film in
3D con audio a ventisette canali coprendosi con una mano un occhio e tappandosi con l’altra
un orecchio…
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Poi è arrivato l’autofocus e improvvisamente tutte le fotocamere sono diventate di plastica.
Cosa c’entra la plastica con una feature allora fantascientifica come l’autofocus è una cosa
che nessuno di noi ha mai capito. Quello che è sotto gli occhi di tutti, oggi, è il fatto che una
vecchia reflex autofocus in plastica, anche se all’epoca era stata presentata come una
flagship, oggi spesso vale meno di una vecchia Nikon FE manual focus degli anni 80, fatta
però “de fero”.
Arrivò il fenomeno Minox: tutti finalmente cominciarono a girare con questa microscopica
fotocamera poco più spessa del rullino 24x36 in tasca. La qualità ottica era incredibile, ma la
messa a fuoco a stima e la macchina era di una delicatezza e di una fragilità pari a un flute in
cristallo di Boemia trasportata nella sacca degli attrezzi di un idraulico. L’esposimetro tendeva
a sottoesporre mostruosamente le immagini e si poteva lavorare solo in priorità di diaframmi; il
trucco era quello di scattare con la fotocamera rovesciata, così che il ponticello che andava
poi a riparare l’obiettivo fungeva da paraluce impedendo all’esposimetro di vedere il cielo e
sottoesporre i negativi
Poi sono arrivate le digitali. Le prime, con una risoluzione inferiore al videocitofono di casa
vostra, costavano cinquanta milioni di lire e ci volevano anche cento milioni per avere un dorso
digitale professionale. Sì, le prime fotocamere digitali sono state le macchine fotografiche più
costose dell’intera storia della fotografia. I file erano quasi ingestibili, i colori psichedelici ma
nonostante questo, e i prezzi, si vendevano. Le prime compatte, sempre in risoluzione VGA
costavano “appena” due o tre milioni delle vecchie Lire. E poi e poi e poi, eccoci qui.
Oggi le macchine digitali danno risultati superlativi, sono indubbiamente i sistemi più precisi
della storia della fotografia e il rapporto qualità/prezzo/prestazioni, se pensiamo alle prime
reflex da 50 milioni di Lire, è incredibilmente vantaggioso. Naturalmente, poi, ci sono anche gli
smartphone: poche centinaia di euro per avere una qualità che le prime reflex digitali da
25.000 Euro neppure si potevano immaginare. Se mi piace il digitale, ovvero gli smartphone e
le macchine digitali? No, non mi piacciono, ma mi servono e fanno esattamente quello che ho
in mente. Ma, sapete, quello per me non è fotografare, è un osservare le cose permettendomi
di condividere le mie visioni, i miei sguardi con gli altri. La fotografia per me rimane ancora
oggi un’altra cosa. Dovete comprendere: sono nato più di mezzo secolo fa e per quarant’anni
ho masticato solo pellicola, non per piaggeria, ma perché quella e solo quella esisteva. Se
passo davanti a una vetrina di materiale fotografico usato salto a piè pari la zona digitale e mi
concentro, di nuovo mi blocco come un geco di fronte alle macchine aa pellicola. La cosa
incredibile è che non sono più prodotte da almeno dieci anni e molti modelli hanno cinquanta,
o anche cento anni di storia e di uso sulle spalle, eppure sono ancora reperibili, spesso in
ottime condizioni e naturalmente perfettamente funzionati – dopo aver loro aggiornato il
firmware, naturalmente …
Ancora oggi, credetemi, quando carico una mia vecchia macchina fotografica con un rullo -non
da me bobinato…- di pellicola, naturalmente in bianco e nero, ecco, solo in quel momento,
dopo ogni scatto, sento di aver fatto una fotografia, una cosa che probabilmente rimarrà, ma
soprattutto una cosa compiuta, bella, mediocre o brutta che sia.
Perché, come disse il grande e compianto Giorgio Faletti nel film “Notte prima degli esami”:
- Vedi Molinari, (Luca), l’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa, l’importante
è quello che provi mentre corri.
Milano, 23 luglio 2014
Gerardo Bonomo
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