Disuguaglianza, democrazia, sovranità: lo stato delle

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Disuguaglianza, democrazia, sovranità: lo stato delle
Disuguaglianza, democrazia, sovranità: lo stato delle cose per
preparare una riconquista
di Serge Halimi
in “Le Monde Diplomatique” del maggio 2013 (traduzione: José F. Padova)
Nessuno crede più che la ragione avrà la meglio su politiche insensate di austerità, né che la
moralità prevarrà su scandali che mischiano denaro e potere. Ormai la speranza di un
cambiamento di direzione poggia sul mettere in discussione, frontalmente, gli interessi in gioco.
Certe rivelazioni rimandano a quello che già sapevamo. Abbiamo appena appreso che alcuni
responsabili politici amano i soldi e frequentano chi li possiede? Che tutti insieme essi si coagulano
talvolta come una casta al disopra delle leggi? Che il sistema fiscale vezzeggia i contribuenti più
ricchi? Che la libera circolazione dei capitali permette loro di mettere in salvo il gruzzolo nei
paradisi fiscali?
La rivelazione delle trasgressioni individuali dovrebbe incoraggiarci a rimettere in discussione il
sistema che le ha partorite. Ora, in questi ultimi decenni, la trasformazione del mondo è stata
talmente rapida che ha sorpassato in velocità la nostra capacità di analizzarla. Caduta del muro di
Berlino, emergere dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), nuove tecnologie, crisi
finanziarie, rivolte arabe, declino europeo: ogni volta gli esperti si sono dati il cambio per
annunciarci la fine della storia o la nascita di un altro ordine mondiale.
Al di là di queste esequie premature, di questi parti incerti, tre grandi tendenze si sono fatte largo,
più o meno universali, delle quali è importante in un primo tempo fare il bilancio: il decollo delle
disuguaglianze sociali, la decomposizione della democrazia politica e il restringimento della
sovranità nazionale. Pustola di una grande corpo malato, ogni nuovo scandalo ci permette di
vedere gli elementi di questo trittico riemergere separatamente e incastrarsi l’uno nell’altro. Lo
scenario generale potrebbe riassumersi così: poiché dipendono prioritariamente dagli arbitraggi di
una maggioranza avvantaggiata (quella che investe, specula, ingaggia, licenzia, impresta), i governi,
acconsentendo, permettono la deriva oligarchica dei sistemi politici. Quando poi s’inalberano di
fronte a questo rinnegamento del mandato che il popolo ha loro conferito, la pressione
internazionale del denaro si applica per farli dimettere.
«Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei loro diritti. Le distinzioni sociali non possono
essere fondate se non sull’utilità comune» [ndt.: vedi http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm ].
L’articolo primo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ognuno lo sa, non è mai
stato rigorosamente osservato. In ogni momento le distinzioni furono motivate con altri motivi
diversi dalla utilità comune: il luogo dove si ha la fortuna (o la disgrazia) di nascere, la condizione
dei genitori, l’accesso all’educazione e alla sanità, ecc.
Tuttavia il peso di queste diversità si trovò talvolta alleggerito dalla convinzione che la mobilità
sociale contrasterebbe le ineguaglianze di nascita. Per Alexis de Tocqueville una speranza di questo
genere, più diffusa negli Stati Uniti che sul Vecchio Continente, aiutava gli americani ad accettare
disparità di redditi più elevate che altrove. Un piccolo contabile di Cleveland o un giovane
californiano senza diploma potevano sognare che il loro talento e la loro tenacia li avrebbe proiettati
ai posti che John Rockefeller o Steve Jobs avevano occupato prima di loro.
«La disuguaglianza in sé non è mai stata un grande problema nella cultura politica americana, che
insiste sull’uguaglianza delle chance piuttosto che su quella dei risultati», commenta ancor oggi
l’intellettuale conservatore Francis Fukuyama. «Ma il sistema resta legittimato soltanto se le
persone continuano a credere che, lavorando duro e dando il meglio di sé, esse stesse e i loro figli
hanno buone possibilità di progredire e se hanno buone ragioni per pensare che i ricchi lo sono
diventati rispettando le regole del gioco (1)». Rassicurante o anestetizzante che sia, nel mondo
intero questa fiducia secolare sta evaporando. Interrogato sei mesi prima della sua elezione alla
Presidenza della Repubblica [francese] sugli strumenti per la «ricostruzione morale» che richiamava
nei suoi auspici, François Hollande evocava il «sogno francese. Esso corrisponde al racconto
repubblicano che ci ha permesso di avanzare malgrado le guerre, le crisi, le divisioni. Fino a questi
ultimi anni avevamo la convinzione che i nostri figli sarebbero vissuti meglio di noi». Ma il
candidato socialista aggiungeva: «Questa convinzione si è dissipata (2)».
Il club dei miliardari
Al mito della mobilità sociale subentra la paura del declassamento. Un operaio non conserva più
alcuna chance di diventare imprenditore, giornalista, banchiere, professore universitario,
responsabile politico. La grandi scuole sono ancor più chiuse alle categorie popolari che al
momento in cui Pierre Bourdieu pubblicava Gli ereditieri, nel 1964. Stessa cosa per le migliori
università del mondo, i cui costi d’iscrizione sono esplosi (3). Nell’impossibilità di pagare ancora
più a lungo i suoi studi superiori, a Manila una giovane donna si è appena suicidata. E due anni fa
uno studente americano spiegava: «Sono debitore di 75.000 dollari. Presto non sarò più in grado di
pagare le mie scadenze. Poiché era il mio fideiussore, mio padre dovrà rimborsare il mio debito.
Anche lui farà fallimento. Avrò quindi rovinato la mia famiglia perché ho voluto elevarmi al disopra
della mia classe sociale (4)». Egli ha voluto vivere il sogno americano, «dagli stracci alla
ricchezza». Per causa sua la sua famiglia percorrerà il cammino contrario.
Quando «il vincente arraffa tutto (5)», la disuguaglianza dei redditi prende le caratteristiche della
patologia sociale. Proprietaria del gigante della distribuzione Walmart, la famiglia Walton trent’anni
fa possedeva 61.992 volte più della ricchezza media americana. Probabilmente non era abbastanza,
perché oggi ne possiede 1.157.827 volte più. I Walton hanno oggi accumulato per sé soli quanto
posseggono le famiglie americane meno prospere, che sono 48.800.000 (6). La patria di Silvio
Berlusconi si trova in lieve ritardo rispetto alle prodezze americane, ma lo scorso anno la Banca
d’Italia ha annunciato che «i dieci primi patrimoni nazionali [possedevano] tanto denaro quanto i tre
milioni di italiani più poveri (7)».
Ormai Cina, India, Russia o i Paesi del Golfo si fanno largo a gomitate nel club dei miliardari. In
materia di concentrazione dei redditi e di sfruttamento dei lavoratori non hanno nulla da apprendere
dagli Occidentali, ai quali d’altra parte impartiscono volentieri lezioni di liberismo selvaggio (8). I
miliardari indiani, che nel 2003 possedevano 1,8% della ricchezza nazionale, cinque anni più tardi
ne accaparravano già il 22% (9). Nel frattempo erano certamente diventati un tantino più numerosi,
ma il 22% della ricchezza per sessantun individui non è forse molto in una nazione di più di un
miliardo di abitanti? Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India, si pone forse questa domanda dal
salone della sua rutilante casa di ventisette piani che sovrasta Bombay – una megalopoli in cui più
della metà degli abitanti continuano a vivere in tuguri.
Si è arrivati al punto che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) se ne preoccupa… Dopo avere a
lungo proclamato che la «dispersione dei redditi» è un fattore d’emulazione, di efficienza, di
dinamismo, fa ora osservare che il 93% dei guadagni realizzati negli Stati Uniti grazie alla crescita
durante il primo anno di ripresa economica sono andati a finire nelle tasche del solo 1% di
americani più ricchi. Perfino al FMI questo sembra troppo. Perché, mettendo da parte ogni
considerazione di carattere morale, come assicurare lo sviluppo di un Paese della cui crescita
approfitta un gruppo striminzito che non compra più granché, tanto dispone già di tutto? E che, di
conseguenza, tesaurizza o specula, alimentando ancora un po’ più un’economia finanziaria già
parassitaria di suo. Due anni fa uno studio del FMI gettava quindi le armi, ammettendo che favorire
la crescita e ridurre le ineguaglianze costituiva «le due facce di una stessa medaglia (10)». Gli
economisti d’altronde osservano che settori del mondo industriale dipendenti dai consumi della
classe media cominciano a mancare di sbocchi, in un mondo nel quale la domanda globale, quando
non è asfissiata dalle politiche di austerità, privilegia i prodotti di lusso e quelli di bassa qualità.
Secondo gli avvocati della mondializzazione l’accentuazione delle disuguaglianze sociali
deriverebbe innanzitutto da un incremento delle tecnologie tanto rapido da penalizzare gli abitanti
meno istruiti, meno mobili, meno flessibili, meno agili. La soluzione del problema sarebbe allora
già trovata: l’istruzione e la formazione (dei ritardatari). Nel febbraio scorso il settimanale delle
“élite” internazionali, The Economist, riassumeva questo racconto legittimatorio dal quale sono
assenti politica e corruzione: «L’1% più ricco ha visto i suoi redditi alzarsi di colpo, a causa del
premio che un’economia mondializzata a base di alta tecnologia elargisce alle persone intelligenti.
Un’aristocrazia che una volta dedicava il proprio denaro “al vino, alle donne e alla musica” è stata
sostituita da una élite istruita nelle business school, i cui membri si sposano fra loro e spendono
saggiamente i loro soldi pagando ai figli corsi di cinese e abbonamento all’Economist (11)».
La sobrietà, la diligenza e la saggezza dei genitori che formano la loro progenie con la lettura del
(solo) giornale che la renderà migliore spiegherebbe così il balzo in alto dei patrimoni. Non è
vietato proporre altre ipotesi. Questa, per esempio: il capitale, meno gravato con imposte del lavoro,
dedica al consolidamento dei suoi agganci politici una parte delle economie realizzate grazie alle
decisioni che l’hanno favorito: fisco accomodante, salvataggio delle grandi banche che hanno preso
in ostaggio i piccoli risparmiatori, popolazione messa sotto pressione perché rimborsi
prioritariamente i creditori, debito pubblico che costituisce per i ricchi un oggetto d’investimenti (e
uno strumento di pressione) supplementare. Le sue innumerevoli connivenze politiche garantiscono
al capitale la conservazione di tutti i suoi vantaggi. Nel 2009 sei dei quattrocento contribuenti
americani più prosperi non hanno pagato alcuna imposta; ventisette, meno del 10%; nessuno ha
pagato più del 35%...
Insomma, i ricchi utilizzano il loro patrimonio per accrescere la loro influenza, poi la loro influenza
per accrescere il loro patrimonio. «Col passare del tempo», riassume Fukuyama, «le élite sono in
grado di proteggere le loro posizioni manipolando il sistema politico, sistemando i loro soldi
all’estero per evitare la tassazione, trasmettendo questi privilegi ai loro figli grazie a un accesso
avvantaggiato alle istituzioni di élite (12)». S’indovina allora che un eventuale rimedio avrebbe
bisogno di ben più che una rilettura costituzionale.
Un’economia mondializzata nella quale «il vincente arraffa tutto»; sindacati nazionali a pezzi;
un’imposizione leggera per i redditi più pesanti: la macchina delle disuguaglianze rimodella l’intero
pianeta. Le sessantatremila persone (delle quali diciottomila in Asia, diciassettemila negli Stati Uniti
e quattordicimila in Europa) che detengono una pacchia superiore a 100 milioni di dollari
posseggono un patrimonio accumulato di 39.900 miliardi di dollari (13). Far pagare i ricchi non
sarebbe più soltanto un simbolo.
«Due ali di un medesimo uccello da preda»
Le politiche economiche che hanno appagato una minoranza non hanno tuttavia quasi mai potuto
trasgredire le forme democratiche – il governo della maggioranza. Qui c’è un paradosso a priori.
Uno dei più celebri giudici nella storia della Corte Suprema americana, Louis Brandeis,
effettivamente dichiarava che «noi dobbiamo scegliere. Possiamo avere una democrazia o avere una
concentrazione di ricchezza nelle mani di qualcuno, ma non possiamo avere entrambe». La vera
democrazia non si limita pertanto al rispetto delle forme (elezioni pluraliste, cabina elettorale,
urna). Essa implica ben più che la rassegnata partecipazione a una votazione che non cambierà
alcunché: implica un’intensità, una educazione popolare, una cultura politica, il diritto di pretendere
la resa dei conti, di revocare gli eletti che tradiscono il loro mandato. Non è per caso che nel 1975,
in un periodo di ebollizione politica, di ottimismo collettivo, di solidarietà internazionale, di utopie
sociali, l’intellettuale conservatore Samuel Huntington confessava la sua inquietudine. In un famoso
rapporto pubblicato dalla Commissione trilaterale riteneva che «l’operatività efficiente di un
sistema democratico richiede in generale un livello di apatia e di non-partecipazione da parte di
alcuni individui e gruppi (14)».
Missione compiuta… La Commissione trilaterale, molto conservatrice, ha appena celebrato il suo
quarantesimo anniversario ampliando la cerchia dei suoi convitati ad alcuni ex ministri socialisti
europei (Peter Mandelson, Elisabeth Guigou, David Miliband) e a partecipanti cinesi e indiani. Non
deve vergognarsi del cammino percorso. Nel 2011 Mario Monti e Lucas Papademos, ex banchieri
sia l’uno che l’altro, sono stati proiettati da una troika di istituzioni non elettive – il FMI, la
Commissione europea e la BCE – alla testa dei governi italiano e greco. Ma capita che popolazioni,
il cui «livello di apatia» resta insufficiente, ancora recalcitrano. Così, quando tentò di convertire il
suffragio per censo della troika in suffragio universale, Monti subì una disfatta clamorosa. Il
filosofo francese Luc Ferry dichiarò di esserne rattristato: «Ciò che mi addolora, poiché nel
profondo dell’anima sono democratico, è la costanza con la quale il popolo, in periodo di crisi,
sceglie senza fratture interne se non i peggiori, per lo meno coloro che gli nascondono più
abilmente e più ampliamente la verità (15)».
Per premunirsi contro questo genere di delusioni la cosa più semplice è non tenere in alcun conto il
verdetto degli elettori. L’Unione Europea, che dispensa lezioni di democrazia a tutta la Terra, ha
fatto di questo diniego una delle sue specialità. Questo non avviene accidentalmente. Da trent’anni
gli ultraliberisti che guidano la danza ideologica negli Stati Uniti e sul vecchio Continente
s’ispirano effettivamente alla «teoria delle scelte pubbliche» dell’economista James Buchanan.
Fondamentalmente diffidente verso la democrazia, tirannia della maggioranza, questa scuola
intellettuale postula che i dirigenti politici sono inclini a sacrificare l’interesse generale –
indissociabile dalle iniziative dei capi delle imprese – alla soddisfazione della loro clientela e alla
garanzia della rielezione. La sovranità di tali irresponsabili deve di conseguenza essere strettamente
limitata. Quello è il ruolo dei meccanismi coercitivi che ispirano in questo momento la costruzione
europea (indipendenza delle Banche centrali, regola del 3% di deficit massimo, patto di stabilità) o,
negli Stati Uniti, il taglio automatico dei crediti pubblici («sequestro del bilancio»).
Ci si chiede pertanto che cosa i liberisti ancora temono da parte dei governanti, tanto le riforme
economiche e sociali che costoro mettono in opera non cessano di coincidere con le esigenze degli
ambienti affaristici e dei mercati finanziari. Al vertice dello Stato la convergenza è d’altronde
rafforzata dalla stravagante sovra-rappresentazione delle categorie sociali più borghesi e dalla
facilità con la quale queste passano dal pubblico al privato. Quando in un Paese come la Cina, nel
quale il reddito annuale medio supera appena i 2.500 dollari, il Parlamento conta ottantatre
miliardari, si comprende come i ricchi cinesi non manchino di buoni avvocati al vertice dello Stato.
Almeno su questo punto il modello americano ha trovato il suo maestro, anche se, in mancanza di
elezioni, Pechino non distribuisce ancora le sue ambasciate ai donatori più generosi delle campagne
elettorali del presidente vittorioso, come fa Washington.
Le collusioni – e i conflitti d’interessi – fra governanti e miliardari ormai si prendono gioco delle
frontiere. Nicolas Sarkozy, che quando era all’Eliseo aveva accordato favori al Qatar mediante un
accordo fiscale che esonerava l’emirato dall’imposta sul plusvalore immobiliare, progetta adesso di
lanciarsi nella finanza speculativa con l’appoggio di Doha. «Il fatto che egli sia un ex Presidente
non significa che deve diventare monaco trappista», ha perorato il suo ex ministro dell’Interno,
Claude Guéant (16). Il voto di povertà non s’impone meno agli ex capi di esecutivo Anthony Blair,
JeanLuc Dehaene e Giuliano Amato: il britannico è consulente di J.P.Morgan, il belga di Dexia e
l’italiano della Deutsche Bank. [ndt.: l’ex Cancelliere Schöder è consulente di Banca Rotschild]. È
possibile difendere il bene pubblico badando a non dispiacere a regimi feudali stranieri o a istituti
finanziari, quando si calcola che potrebbero essere futuri partner in affari? Quando in un numero
crescente di Paesi una simile sfida tocca a turno i due principali partiti, questi diventano per il
popolo quello che il romanziere Upton Sinclair chiamava «le due ali del medesimo uccello da
preda».
L’Istituto Demos ha voluto valutare gli effetti della prossimità fra responsabili governativi e
oligarchia economica. Due mesi fa ha quindi pubblicato un’indagine demoscopica che dettagliava
come «il dominio della politica da parte dei ricchi e del mondo degli affari frena la mobilità sociale
in America (17)». Risposta: in materia di politiche economiche e sociali e anche di diritto del lavoro
i cittadini più privilegiati si accordano su priorità largamente distinte da quelle della maggioranza
dei loro concittadini. Ma per veder realizzate le loro aspirazioni essi dispongono di mezzi fuori del
comune.
Impotenza dei governi nazionali
«Volete che dia le mie dimissioni? Se questo è il caso, ditemelo!». Il presidente cipriota Nicos
Anastasiades avrebbe apostrofato così la signora Christine Lagarde, direttrice generale del FMI,
quando costei pretese che egli chiudesse seduta stante una delle più grandi banche dell’isola, grande
fonte di posti di lavoro e di redditi (18). Il ministro francese Benoît Hamon sembra anch’egli
ammettere che la sovranità (o l’influenza) del suo governo sarebbe strettamente limitata, poiché
«sotto la pressione della destra tedesca si impongono politiche di austerità che dovunque in Europa
si traducono in un aumento della disoccupazione (19).
Nel mettere in opera le misure che consolidano il potere censuario del capitale e della rendita, i
governi hanno ben saputo ricorrere sempre alla pressione di “[grandi] elettori”, non residenti [nel
Paese], invocandone l’irresistibile potenza: la troika, le agenzie di rating, i mercati finanziari. Una
volta concluso il cerimoniale elettorale nazionale, Bruxelles, BCE e FMI spediscono il loro
“programma di viaggio” ai nuovi dirigenti, affinché costoro abiurino seduta stante a questa o quella
promessa fatta in campagna elettorale. Perfino il Wall Street Journal se n’è inquietato, lo scorso
febbraio: «Da quando è cominciata la crisi, tre anni fa, francesi, spagnoli, irlandesi, olandesi,
portoghesi, greci, sloveni, slovacchi e ciprioti hanno tutti votato, in un modo o nell’altro,
contro il modello economico della Zona Euro. Dopo queste sconfitte elettorali tuttavia le
politiche economiche non sono cambiate. La sinistra ha sostituito la destra, la destra ha scacciato
la sinistra, il centrodestra ha perfino schiacciato i comunisti (a Cipro), ma gli Stati continuano a
ridurre le loro spese e ad aumentare le imposte. (…) Il problema che i nuovi governi affrontano è
che devono agire nel quadro delle istituzioni della Zona Euro e seguire le direttive economiche
fissate dalla Commissione europea. (…) Tanto vale dire che dopo il fracasso e il furore di una
votazione il loro margine di manovra economica è stretto (20)». «Si ha l’impressione», sospira
Hamon, «che una politica di sinistra o di destra dosa diversamente i medesimi ingredienti (21)».
Un alto funzionario della Commissione europea ha assistito a un incontro fra i suoi colleghi e la
direzione del Tesoro francese: «Era allucinante: si comportavano come un maestro di scuola che
spiega a un pessimo scolaro quello che deve fare. Ho molto ammirato il direttore del Tesoro che ha
mantenuto la calma (22)». La scena ricorda la sorte dell’Etiopia o dell’Indonesia al tempo in cui i
dirigenti di quegli Stati erano ridotti al rango di esecutori dei castighi che il FMI aveva appena
inflitto al loro Paese (23). Una situazione che attualmente l’Europa conosce. Nel gennaio 2012 la
Commissione di Bruxelles intimò al governo greco di tagliare più di 2 miliardi di euro dalle spese
pubbliche del Paese; entro i cinque giorni seguenti e a pena di ammenda.
Nessuna sanzione minaccia, al contrario, il presidente dell’Azerbaigian, l’ex ministro delle Finanze
della Mongolia, il primo ministro della Georgia, la moglie del vice premier russo o il figlio dell’ex
presidente colombiano. Eppure tutti costoro hanno domiciliato una parte del loro patrimonio – male
acquisito o addirittura rubato – nei paradisi fiscali. Come le Isole Vergini britanniche, dove si
elencano società registrate venti volte più numerose degli abitanti. O le Isole Caiman, che contano
hedge funds (Fondi speculativi) quanti ve ne sono negli Stati Uniti. Senza dimenticare, nel cuore
dell’Europa, Svizzera, Austria e Lussemburgo, grazie ai quali il Vecchio Continente combina un
cocktail esplosivo di politiche d’austerità di bilancio molto crudeli e di studi di consulenza
specializzati nell’evasione fiscale.
Nondimeno, la «dittatura di fatto» può contare sui grandi media per confezionare le argomentazioni
che ritardano e poi deviano le rivolte collettive, che personalizzano, vale a dire depoliticizzano, gli
scandali più lampanti. Chiarire i veri meccanismi di ciò che si trama, grazie ai quali ricchezza e
potere sono stati intercettati da una minoranza che controlla allo stesso tempo i mercati e gli
Stati, esigerebbe un lavoro continuo di educazione popolare, che ricorderebbe come ogni
governo cessi di essere legittimo quando lascia che si scavino ineguaglianze sociali, quando
ratifica l’affossamento della democrazia politica e accetta la messa sotto tutela della sovranità
nazionale.
Ogni giorno si susseguono manifestazioni – nelle vie, nelle imprese, nelle urne – per reiterare il
rifiuto popolare di governi illegittimi. Eppure, malgrado l’ampiezza della crisi, esse tentennano in
cerca di proposte di ricambio, convinte a metà che non ne esistono o che comporterebbero costi
proibitivi. Da qui l’insorgere di un’esasperazione disperata. È urgente trovarne gli sbocchi.
(Un prossimo articolo rifletterà sulle strategie politiche suscettibili di cogliere vie alternative).
Note
(1) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire. Des origines de la politique à nos jours, Saint-Simon, Paris,
2012, p. 23.
(2) La Vie, Paris, 15 décembre 2011. (3) Lire Christopher Newfield, « La dette étudiante, une bombe à
retardement », Le Monde diplomatique, septembre 2012.
(4) Tim Mak, « Unpaid student loans top $1 trillion », 19 octobre 2011, www.politico.com
(5) Robert Frank et Philip Cook, The Winner-TakeAll Society, Free Press, New York, 1995.
(6) « Inequality, exhibit A : Walmart and the wealth of American families », Economic Policy Institute, 17
juillet 2012, www.epi.org
(7) « L’Italie de Monti, laboratoire des “mesures Attali” », Les Echos, Paris, 6 avril 2012.
(8) Lire « Front antipopulaire », Le Monde diplomatique, janvier 2013.
(9) « India’s billionaires club », Financial Times, Londres, 17 novembre 2012.
(10) « Income inequality may take toll on growth », The New York Times, 16 octobre 2012.
(11) « Repairing the rungs on the ladder », The Economist, Londres, 9 février 2013.
(12) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire, op. cit. (13) En 2011, le produit intérieur brut mondial était
d’environ 70 000 milliards de dollars. Cf. Knight Frank et Citi Private Bank, « The Wealth Report 2012 »,
www.thewealthreport.net
(14) Michel Crozier, Samuel Huntington et Joji Watanuki, The Crisis of Democracy, New York University
Press, 1975.
(15) Le Figaro, Paris, 7 mars 2013. (16) Anne-Sylvaine Chassany et Camilla Hall, « Nicolas Sarkozy’s road
from the Elysée to private equity », Financial Times, 28 mars 2013.
(17) David Callahan et J. Mijin Cha, « Stacked deck : How the dominance of politics by the affluent &
business undermines economic mobility in America », Demos, 28 février 2013, www.demos.org. Les
informations qui suivent sont tirées de cette étude.
(18) « Chypre finit par sacrifier ses banques », Le Monde, 26 mars 2013.
(19) RMC, 10 avril 2013. (20) Matthew Dalton, « Europe’s institutions pose counterweight to voters’ wishes
», The Wall Street Journal, New York, 28 février 2013.
(21) RTL, 8 avril 2013. (22) « A Bruxelles, la grande déprime des eurocrates », Libération, Paris, 7 février
2013.
(23) Lire Joseph Stiglitz, « FMI, la preuve par l’Ethiopie », Le Monde diplomatique, avril 2002.
(24) Bernard Arnault, La Passion créative. Entretiens avec Yves Messarovitch, Plon, Paris, 2000.
(25) « Jouyet : “Une dictature de fait des marchés” », Le Journal du dimanche, Paris, 13 novembre 2011.