Caro principiante…

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Caro principiante…
Caro principiante…
È già molto tempo che cammino sul sentiero dell’aikido, ed ogni anno di pratica che
passa, mi lascia la strana sensazione di aver praticato si in modo schietto, ma non
esauriente.
Questo senso di incompiutezza sembra essere una costante per chiunque pratichi in
modo sincero budo o una qualsiasi forma d’arte e, probabilmente, da luogo a quella giusta
tensione creativa senza la quale non si potrebbe concretizzare alcun processo espressivo.
Quando qualcuno prende la fatidica decisione di intraprendere lo studio dell’aikido, porta
con sè inevitabilmente le proprie aspettative o, addirittura, una propria particolare e
specifica necessità.
C’è chi frustrato dalle proprie capacità fisiche, vuole che gli venga insegnato un metodo
di difesa personale efficace e, perché no, anche di una certa eleganza formale.
Chi invece vede quest’arte come uno dei tanti sistemi esotici d’integrazione psico-fisica,
una sorta di yoga in movimento. Alcuni, delusi da altre esperienze “marziali”, vedono
nell’aikido addirittura una sorta di ultima spiaggia e tanti altri esempi potrebbero allungare
la lista…
A prescindere da ciò, tutti, chi più chi meno, ad un certo punto della pratica, impattiamo
però comunque contro la sana frustrazione delle nostre rispettive aspettative e le reazioni
a tale evento sono multiformi.
I più risolvono il problema riponendo nel fondo di un armadio il bianco keikogi,
veramente troppo pesante e ruvido, per chi, nel proprio intimo, stravede per il tennis.
Perfino i più imperterriti aspiranti guerrieri o santoni, alla fine, si vedono costretti a
ricondurre i propri sogni presso spiagge più sicure o comunque più rassicuranti.
Chi rimane lo fa in ragione di una strana sensazione che gli nasce dal profondo,
difficilmente identificabile e che scaturisce indiscutibilmente da un fascino particolare
proprio della disciplina.
Se non si rimane vittime di tale fascino, difficilmente si riuscirà a sopportare la durezza
degli allenamenti e le estenuanti crisi cui l’aikido sottopone i suoi adepti.
La crisi iniziale, tuttavia, non è che la prima di molte nel corso della pratica: da molti
taciute, da altri accusate, ma da tutti vissute anche se in modo diverso.
La natura multiforme dell’aikido, non smetterà mai di tormentare i suoi praticanti e più
questi opporranno il proprio Io, più essa si adopererà a smontarlo pezzo dopo pezzo.
Questa continua demolizione a lungo andare formerà una nuova impostazione mentale
dell’allievo, il quale non si troverà più nella posizione di richiedente ma di ricevente.
Imparerà ad aprirsi e non più a creare barriere tra se stesso e ciò che la pratica ha da
insegnare.
Il tentativo di piegare l’aikido ai propri scopi è destinato al fallimento.
Il praticante passerà da momenti di esaltazione, a momenti di vera e propria
prostrazione, per poi tornare alla piena soddisfazione e poi giù ancora nel baratro del
dubbio e dell’incertezza.
Quella tecnica, quel movimento ripetuto per anni con tranquilla sicurezza, sembrerà
improvvisamente impossibile da applicare o pieno di particolari che prima non riuscivamo
a vedere.
Niente paura, fa tutto parte del gioco, è un copione già recitato da chi ci ha preceduto e
che attende chi ci seguirà.
Dopo ogni stallo, ogni crisi, ci si ritroverà più maturi e si avrà compreso quel qualcosa
che mancava al nostro aikido, e dunque a noi stessi.
Non si pretenderà più l’invincibilità, perché si capirà che non esiste, nè ci si sentirà
frustrati se si vedrà la propria sospirata “illuminazione” allontanarsi col progredire nella
disciplina, perché ciò significherà maturazione personale.
L’aikido, per come l’ho percepito, è un processo dove ogni persona è posta in grado di
operare una propria trasformazione interiore, tramite l’ausilio di una tecnica molto
sofisticata.
Anche se tale tecnica è uguale per tutti, il ricavarne qualcosa di prezioso, sarà frutto di
un lavoro assolutamente individuale indissolubilmente legato all’ interiorità del praticante.
Si è padroni solo di ciò che si vive ed esperisce in prima persona, col corpo e con la
mente, direttamente, senza mediazioni.
L’altrui conoscenza non ci apparterrà mai, perché mai potremmo far nostre le esperienze
di un altro essere umano, ma avrà il valore di indicarci la strada da seguire.
Tale è il compito del maestro, il quale non é in grado di regalare la sua conoscenza ma,
“solo” di indirizzare l’allievo verso la propria.
Caro principiante l’aikido è una via, ma questa di per sè, non garantisce alcun traguardo
se chi la percorre non sa cogliere gli insegnamenti in modo attivo e porli in essere su se
stesso.
Eppoi c’è da dire che il senso della nostra ricerca non è nella meta ma nel cammino fatto
e da affrontare per raggiungerla, il fine del viaggio è il viaggiare stesso e non l’arrivare.
Il “trucco” è andare avanti con la giusta dose di serenità, senza scoraggiarsi troppo e
cercando di cogliere sempre il messaggio che queste oscillazioni tra l’entusiasmo e lo
scoramento contengono
Il solito vecchio saggio, diceva giusto quando scriveva: “Scava il tuo laghetto senza
preoccuparti della luna, quando il laghetto sarà pronto la luna verrà da sola”.
Gli aneddoti del budo, ricordano continuamente queste provocazioni.
Esse sono parte fondante dell’insegnamento, senza le quali esso sarebbe solo un
apprendere forme senza contenuto, ossia il niente,
C’è sempre chi si accontenta di questo, l’aikidoka non lo faccia mai!
Ciao Gaetano