Leggi tutto - Consulta Intercomunale Gallura

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Perché parliamo gallurese
Noto con un certo fastidio come la maggior parte degli studiosi sardi, anche linguisti di buona fama, continui
a considerare il Gallurese lingua alloglotta, poco o nulla significante nel panorama culturale e sociale
dell’isola. È che la Gallura, con la sua storia e specificità, rappresenta per molti intellettuali e politici sardi
uno iato culturale e linguistico, un vulnus profondo alla “sardità” dell’isola.
Il Gallurese lingua straniera, dunque, che, importata e diffusa dai Còrsi, scalzò e sostituì il sardo un tempo
parlato in tutta l’isola.
Questa teoria sull’origine tarda e forestiera della nostra lingua, nasce da una supponenza ideologica
preconcetta e maliziosa, tendente a dimostrare la nobiltà del sardo, “lingua di tutti i sardi” e, per contro, la
pochezza del Gallurese, relegato al rango riduttivo di dialetto d’importazione, utilizzato da un modesto
numero di parlanti, e del tutto estraneo all’anima autentica dell’isola.
Il ragionamento ha una sua logica: sotto le spoglie della questione linguistica, nasconde, infatti, interessi più
concreti di natura economica e finanziaria. Le risorse destinate da mamma Regione all’alfabetizzazione dei
sardi alla “lingua sarda” sono infatti consistenti, e c’è già chi ha infilato risolutamente le mani nella borsa:
“Chi scugni lu méli si licca li diti”.
Si tratta, è inutile ribadirlo, del tentativo maldestro di negare al popolo gallurese il diritto-dovere a parlare la
lingua dei padri e di giustificare, nel contempo, l’imposizione – ope legis – della “limba sarda unificada”
all’intera isola, ignorando volutamente la situazione linguistica della Sardegna dove sono presenti da sempre,
e non a caso, lingue diverse. E per rendere fertile il terreno arido della cultura, consci che gli ideali, anche
quelli più nobili, per prosperare vanno continuamente concimati, i banditori della sarda favella elargiscono
generose dazioni ai sardo-parlanti, non ai Galluresi, però, che usano un dialetto “straniero” ed hanno, per
giunta, la pessima abitudine di protestare e contestare.
Col termine Romània, come è noto, s’intende l’insieme dei territori e popoli romanizzati. La romanizzazione, per ovvi
motivi, non fu uguale dappertutto, e dunque non ebbe ovunque la stessa intensità e lo stesso grado di penetrazione. Se,
infatti, la conquista militare può essere impresa relativamente facile, non altrettanto può dirsi per la conquista dello spirito
e del sentimento di una nazione, che necessita di condizioni favorevoli e che non sempre si verificano. Dunque, alla
conquista territoriale non si accompagna necessariamente l’assoggettamento culturale che è operazione più lunga e
complessa.
I romani nelle terre assoggettate trovarono una situazione sociale, culturale, economica, affatto diversa da
quella di casa loro. Naturalmente furono i vinti a doversi piegare e uniformarsi al popolo egemone; dunque,
in queste terre avvenne un processo più o meno rapido di romanizzazione di cui la lingua rappresentò
chiaramente uno degli elementi chiave. Ma quale latino parlavano i popolani delle Gallie, della Spagna, del
Portogallo? In che modo la lingua indigena, il sostrato originario, interagì con la lingua latina importata dai
vincitori?
Diciamo subito che il latino importato dai romani nelle province non era la lingua delle classi dotte e
aristocratiche della capitale, ma la lingua dei legionari, dei mercanti, degli artigiani, assai lontana dalla
politezza ed eleganza del linguaggio di Cicerone, di Livio, di Quintiliano. Nelle province le popolazioni
assoggettate venivano dunque a contatto non con l’élite culturale e politica dell’Urbs, ma con gli esponenti
dei ceti popolari che parlavano un “sermo plebeius”. È questo l’idioma che si afferma nelle Gallie, in
Spagna, in Sardegna, ovunque Roma imponga il suo dominio e le sue leggi. Da questo “sermo”, che assume
caratteristiche proprie secondo i popoli con cui viene a contatto, si formeranno più tardi, dopo la caduta
dell’impero romano e le invasioni barbariche, i linguaggi volgari romanzi, detti anche neolatini. Dunque, nei
primi secoli del Medioevo, mentre i dotti dissertano e scrivono ancora nel latino letterario, le popolazioni
elaborano e utilizzano lingue proprie, i cosiddetti volgari, frutto della commistione e trasformazione della
lingua di Roma con gli idiomi barbarici.
Già a Roma, come fecero notare Cicerone e Quintiliano, accanto alla lingua letteraria, dotta e con regole
precise, conviveva un “sermo vulgaris”, o “plebeius” (più tardi in periodo medievale fu detto “rusticus”
probabilmente perché utilizzato soprattutto dai rozzi campagnoli) più dimesso ma più vicino alle abitudini
del popolo. Questa lingua volgare presentava molte divergenze soprattutto lessicali dal latino classico e
letterario, ma anche alcune peculiarità di ordine fonologico e morfologico.
Per quanto attiene alla Fonologia, possiamo citare: la scomparsa della h debole aspirata: habeo: abeo;
prehendo: prendo; la caduta di m finale: decem: dece; damnum: damnu; la scomparsa della vocale posttonica interna: frigidus: frigdus; oculus: oclus.
Per quanto attiene alla Morfologia: i pronomi iste, ille, ipse, perdono il valore dimostrativo, si compongono
con ecce, eccu; contemporaneamente (soprattutto ille ) vengono usati come articoli determinativi.
Nella declinazione si perdono le desinenze dei casi che si riducono a due: il nominativo (soggetto) e il caso
obliquo (accusativo-ablativo); il genitivo viene introdotto dalla preposizione de; il dativo da ad.
I verbi: numerosi verbi della 3^ coniugazione passano alla 2^ : cădere, cadēre; o alla 4^: fugĕre, fugīre;
Spariscono le forme deponenziali: da sequi, sequīre; da mori, morīre;
la forma passiva viene espressa con l’ausiliare esse e il participio passato: amatus sum anziché amor; amatus
eram anziché amabar.
La coniugazione perifrastica sostituisce numerosi tempi dell’attivo: habebam scriptum anziché scripseram.
Queste ed altre particolarità del latino volgare dimostrano la sua funzione di tramite fra il latino letterario,
lingua sintetica per eccellenza, e le moderne lingue neolatine o romanze che sono invece analitiche.
Di alcune lingue volgari ignoriamo il momento in cui raggiunsero una loro nuova fisionomia ben definita e si
resero dunque autonome dal latino. Solo per il francese conosciamo un documento del IX sec., il giuramento
di Strasburgo (anno 842), che può essere considerato il testo più antico dei nuovi idiomi eredi della lingua di
Roma; per le altre lingue i documenti al momento a noi noti si riferiscono tutti alla seconda metà del X
secolo: “Boecis” provenzale; le carte di Capua e di Teano (960- 964); il documento della cattedrale di León
(anno 959). Risultano invece più tardivi i primi documenti in sardo (1070-1080); in portoghese (1192); in
catalano (sec. XII); in ladino o reto-romancio (1380); in romeno (anno 1482).
A proposito di sardo, anche per ragioni ideologiche, si fa spesso e volentieri una certa confusione: il sardo
comunemente inteso, a prescindere dalle numerose varianti che indicano la frammentarietà dei popolamenti,
non è, e non è mai stato, la lingua unica della Sardegna ma solo di una parte di essa. Non è assolutamente
vero che i sardi, tutti i sardi, un tempo parlassero il sardo, ma solo una parte di essi, così come i cittadini
della confederazione elvetica non parlano lo svizzero ma il francese, il tedesco, l’italiano, ciascuno di essi
secondo il cantone cui appartiene. In Sardegna, piaccia o non piaccia, vivono etnie diverse, con lingue e
costumi diversi. Io sono sardo perché la mia terra, la Gallura, si trova geograficamente nell’isola di
Sardegna, ma non appartengo né etnicamente né linguisticamente, né culturalmente, a quello che
enfaticamente viene additato come popolo sardo. Intendo con ciò solo chiarire una diversità, senza
presunzione d’altro genere.
Il fatto che in Sardegna siano presenti da tempi antichissimi popolazioni etnicamente diverse comporta anche
un discorso più attento in materia linguistica. Dire che nell’isola di Sardegna, dalle macerie della Romània è
nata solo la lingua sarda, è la più grande idiozia.
I propugnatori dell’unicità della lingua sarda nell’isola ignorano volutamente la situazione etnico-linguistica
della Sardegna anteriormente alla conquista romana. Parlano e discettano come se l’isola fosse abitata da
sempre da un unico popolo anziché da tribù di origini, costumi e lingua affatto differenti e perciò spesso in
guerra spietata tra loro.
Se la Sardegna, nel corso della sua storia non riuscì mai a conseguire un’organizzazione e un governo unitari,
ciò è dovuto all’accentuata frammentazione etnica. Il fatto che le genti dell’isola non si sentissero un popolo
unico ma tribù diverse è del resto fra le cause della costante debolezza e fragilità dell’isola di fronte agli
assalti dei popoli d’oltremare, più coesi e meglio organizzati, che le imposero la loro egemonia.
La solita retorica nazionalitaria tutte le volte che i sardi soccombono trova giustificazioni consolatorie: le
forze messe in campo dal nemico sono sempre preponderanti. Non è così: i punici conquistano l’isola
(almeno la fascia litoranea che era quella che interessava ai loro traffici) con poche navi e pochi uomini;
molti secoli dopo, i Vandali che invadono l’isola nel 445-46 sono solo alcune migliaia, i bizantini
ugualmente. Allora?...
Dunque, in Sardegna non si parla solo il sardo (logudorese e campidanese) ma altri idiomi assai diversi che
possiamo considerare sardi esclusivamente nell’accezione geografica del termine: carlofortino, algherese,
sassarese, anglonese, gallurese. Tra questi idiomi il più consistente, anche per numero di parlanti, è il
Gallurese, molto simile, peraltro, al Còrso meridionale.
La terra che oggi chiamiamo Gallura, prima che Roma conquistasse l’isola, era abitata dai Còrsi, popolo ben
diverso dalle altre tribù presenti in Sardegna. Sappiamo pure che Còrsi e Balari, anche questi di origine
còrsa, si opposero strenuamente alle mire degli invasori.
Ma in epoca romana i Còrsi di Gallura che latino parlavano? È davvero pensabile che il latino della Sardegna
a etnia còrsa fosse lo stesso parlato nelle Barbagie, in Ogliastra, nei Campidani?
Sono domande importanti perché dalla risposta che si darà a questi quesiti dipende la comprensione delle
diversità linguistiche verificatisi in Sardegna alla caduta dell’impero e a seguito delle invasioni barbariche.
Per avere un quadro sufficientemente chiaro sarà pertanto necessario ragionare sulla situazione della Corsica
prima della romanizzazione, anche perché i Còrsi di Sardegna e quelli dell’isola vicina sono lo stesso popolo,
stabilitosi in tempi antichissimi di qua e di là delle Bocche (Fretum Gallicum).
Orbene, prima della romanizzazione in Corsica si parlava con tutta probabilità una lingua iberica. Gli studi
antropologici più accreditati concordano infatti con quelli glottologici “nell’ammettere che nel bacino del
Mediterraneo si diffondessero in epoca lontana, popoli etnicamente omogenei (…), i mediterranei, che nulla
vieta d’identificare con gli Iberi.”
Per quanto attiene, più in particolare, alla Corsica, abbiamo anche le testimonianze fondamentali di Pausania
e di Seneca. Pausania (X, 17, 8) scrive che il nome di Corsica fu dato all’isola dai Libici che agli Iberici
possono ricollegarsi, considerati gli stretti rapporti linguistici esistenti tra il berbero e il basco. Non per nulla
gli studiosi (V. Trombetti, “Le origini della lingua basca”, Bologna 1925) considerano la lingua basca
un’evoluzione dell’antico iberico. Seneca, cantabro di origine e di nascita, e quindi il più qualificato a
riconoscere i caratteri della sua gente presenti nell’isola, dopo aver ricordato che in Corsica si usavano
ancora alcune voci iberiche, conclude: “…nam totus sermo conversatione Graecorum Ligurumque a patrio
descivit” ( Ad Helv., VII, 8-9.), mostrando così di pensare che il sermo primitivo dei Còrsi fosse l’iberico.
Secondo un’antica leggenda riportata da Sallustio, sarebbe stata una donna ligure, di nome Corsa, a dare il
nome alla Corsica. E di fatto, la tradizione assegna una parte importantissima nella colonizzazione della
Corsica ai Liguri che lasciarono tracce evidenti nella lingua dei Còrsi. La presenza della lingua ligure è
attestata soprattutto dalla toponomastica: Laevi, borbo, Sava, pala…, e i suffissi caratteristici in -asco e
-inco: bisincu, di Evisa, urnasincu, di Ornano, prupinincu, di Propriano, vallincu… sundincu, che abita su,
ghjundincu, che abita giù. Ricordiamo, per inciso, che in Gallura, sulla costa teodorina, c’è Li Brandinchi,
che significa gente di Brando.
Tra le popolazioni che si stanziarono successivamente nell’isola ebbero sicuro rilievo gli Etruschi, le cui
tracce linguistiche sono infatti riscontrabili tra gli strati prelatini della toponomastica còrsa. Resti etruschi
sarebbero però presenti anche al di fuori della toponomastica: il còrso tafone, buco, tafunà, bucare, sono da
collegare all’etrusco Θafna, tazza, bicchiere. In gallurese abbiamo tòva, foro, buco; tuvunà, forare, frugare
dentro un buco, ecc. Il verbo falare (falà), discendere, deriverebbe da Falo, nome di una montagna della
Corsica, connesso con la base etrusca pre-indo-europea fala, altura, da cui Falerii, Falterona. In Gallura, terra
dei Còrsi, il verbo falà è molto usato nel senso di discendere e anche andare, recarsi.
I popoli che lasciarono in Corsica le tracce più profonde sono dunque gl’Iberi, i Liguri e gli Etruschi.
In Corsica si parlano due dialetti fondamentali: Còrso della Banda di Dentro, o Pomonte Nord, e Còrso della
Banda di Fuori, o Pomonte Sud. Alcuni glottologi preferiscono la denominazione Còrso settentrionale e
Còrso meridionale. Il Falcucci usò invece la distinzione di Cismontano (pomontino del nord) e Oltremontano
(pomontino del sud).
Dunque, si è detto che i Còrsi, quelli dell’isola di Corsica e quelli stabilitisi in tempi antichissimi nel Nord
Est della Sardegna (Gallura), parlavano originariamente una lingua iberica, con influssi liguri ed etruschi; è
con questo idioma che si è incontrata e relazionata la lingua di Roma. Sicuramente il latino parlato in Corsica
e nel territorio di Sardegna oggi detto Gallura, era diverso dal latino parlato in altre regioni dell’isola e
infatti, nel momento in cui l’impero romano si sfalda e le province vengono occupate dai barbari, il latino
cede il posto alle lingue volgari romanze e, così come avviene nelle Gallie (francese e lingua d’hoc), nella
penisola iberica (castigliano, catalano… portoghese…), gli esiti sono completamente differenti: il Còrso di
Corsica e il Còrso di Sardegna (Gallura), affini tra loro e ai volgari orientali (Italiano), sono diversissimi
dagli idiomi neolatini occidentali (castigliano, catalano, e sardo nelle sue numerose varianti).
Dunque, il Gallurese…