leggi le prime 26 pagine del libro pdf
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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Omero 7 Marcelo Figueras Kamchatka Traduzione di Gina Maneri Titolo originale: Kamchatka © 2003, Marcelo Figueras 2003 Santillana Ediciones Generales, S.L. Published by arrangement with Literarische Agentur Mertin Inh. Nicole Witt e. K. Frankfurt am Main, Germany © 2014 L’Asino d’oro edizioni s.r.l. Via Saturnia 14, 00183 Roma www.lasinodoroedizioni.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6443-197-0 ISBN ePub 978-88-6443-198-7 ISBN pdf 978-88-6443-199-4 Copertina di Massimo Fagioli It is not down in any map; true places never are. Hermann Melville, Moby Dick Now is greater than the whole of the past. REM, She Just Wants To Be KAMCHATKA PRIMA ORA: BIOLOGIA s.f. Scienza che studia gli esseri viventi. 1. La parola dell’addio L’ultima cosa che papà mi disse, l’ultima parola che gli sentii pronunciare, fu Kamchatka. Mi diede un bacio graffiandomi con la barba che non si radeva da giorni e montò sulla 2CV. L’auto si allontanò sul nastro ondulato della strada, una bolla verde che appariva e scompariva a ogni dosso, sempre più piccola, finché non la vidi più. Rimasi lì per un pezzo, la scatola del Risiko sotto il braccio, finché il nonno mi posò una mano sulla spalla e mi disse andiamo a casa. E questo fu tutto. Se necessario posso raccontare qualcos’altro. Il nonno diceva che Dio sta nei particolari. Diceva anche altre cose: che quello di Piazzolla non è tango, per esempio, e che lavarsi le mani prima di fare pipì è altrettanto importante che lavarsele dopo, perché non si sa mai che cosa hai toccato, ma questo credo c’entri poco. Ci eravamo salutati in una stazione di servizio della ruta 3, a pochi chilometri da Dorrego, nel Sud della provincia di Buenos Aires. Avevamo fatto colazione al bar, papà, il nonno 11 e io, cornetti sottili salati e caffellatte in certe tazze di ceramica grandi come paioli con il logo YPF, la società petrolifera. C’era anche la mamma, ma aveva passato tutto il tempo in bagno. Qualcosa le aveva fatto male allo stomaco e non riusciva a trattenere nulla, neppure i liquidi. E il Nano, mio fratello più piccolo, dormiva sul sedile posteriore della 2CV. Si agitava sempre quando dormiva, si sbracciava e scalciava come a rivendicare i propri diritti sull’assoluto, re dello spazio infinito. In quel momento ho dieci anni. Sono un ragazzino dall’aspetto normale, a eccezione, forse, dei capelli ribelli che tendono a starmi dritti sulla testa come tanti punti esclamativi. È primavera. Ottobre risplende con una luce d’oro sull’emisfero Sud e quel giorno non è da meno: il mattino è un palazzo. L’aria è piena di quei semi volanti che in Argentina chiamiamo ‘panettieri’, stelle diurne che cullo nella conca delle mani e poi libero con un soffio, incoraggiandole a cercarsi un terreno propizio. (La frase «l’aria era piena di panettieri» avrebbe fatto impazzire il Nano. Si sarebbe buttato per terra, tenendosi la pancia e ridendo come un matto all’idea degli ometti che fluttuavano come bolle di sapone, grembiule bianco e faccia infarinata.) Ricordo anche la gente che popolava la stazione di servizio. Il benzinaio, un ciccione con ascelle e baffi scuri. Il conducente della Ika, che contava un fascio di banconote grandi come lenzuoli mentre andava in bagno. (Lavarsi le mani prima di fare pipì, mi correggo, sì che c’entra.) E il ragazzo con lo zaino in spalla che attraversava lo spiazzo per raggiungere il 12 ciglio della strada, verso l’avventura, barba da profeta e pentolini appesi, rintocchi di campane che chiamano al pentimento. La bambina smette di saltare la corda per bagnarsi la testa sotto il rubinetto. Adesso torna indietro strizzandosi i capelli, l’acqua cade nella polvere, cic cic. Le gocce che un istante fa scrivevano per terra in alfabeto morse si fanno sempre meno visibili a ogni secondo che passa. Stanno penetrando tra le particelle minerali e organiche della terra, obbedendo alla legge di gravità, sfruttando lo spazio esistente dove non sembra esserci spazio. Gocce che lasciano brandelli della propria anima e danno vita a quelle particelle perdendo la propria, lungo il cammino verso il cuore rovente del pianeta, verso quel fuoco dove la Terra assomiglia ancora a ciò che era quando si è formata. (In fondo, si è sempre uguali a ciò che si è stati.) La bambina si china con grazia davanti a me. Per un attimo penso che stia facendo una riverenza. In realtà raccoglie la corda. Ricomincia a saltare, un ritmo perfetto che fende l’aria, wuppety wupp, tracciando così i contorni della bolla in cui si chiude. Papà apre la porta del bar e mi fa passare. Il nonno è dentro che ci aspetta. Il suo cucchiaino crea un mulinello nel caffellatte. A volte nel ricordo ci sono alcune varianti. A volte la mamma non scende dalla macchina finché non usciamo dal bar, perché rimane a scarabocchiare qualcosa sulla carta del suo pacchetto di Jockey Club. A volte i numeri della pompa di benzina vanno all’indietro, invece che in avanti. A volte il ragazzo con lo zaino ci precede e quando arriviamo sta già facendo l’autostop sul ciglio della strada, come se avesse fretta 13 di scoprire il mondo che ancora non ha visto e annunciargli la salvezza con rintocchi d’alluminio. Le differenze non mi preoccupano. Ci sono abituato. Significano che sto vedendo qualcosa che prima non avevo visto; significano che non sono esattamente quello che ero l’ultima volta che ho ricordato. Il tempo è strano. Questo è ovvio. Spesso penso che accada tutto insieme, e questo non è per niente ovvio ed è ancora più strano. Quelli che si vantano di vivere solo il presente mi fanno un po’ pena, come quelli che entrano al cinema a film già iniziato o bevono solo Coca light: si perdono il meglio. Io credo che il tempo funzioni come la sintonia di una radio. Al grosso della gente piace scegliere una stazione e vuole sentirla nitida e senza interferenze. Ma questo non implica che uno non possa mescolare due o più stazioni; non implica che la sincronia sia impossibile. Fino a non molto tempo fa si riteneva impossibile che tra due atomi potesse esserci un universo, e invece c’è. Perché scartare l’idea che alla radio del tempo sia possibile ascoltare in simultanea la storia dell’umanità? La vita quotidiana ci fornisce intuizioni sull’argomento. Sentiamo che coesistono dentro di noi tutti quei noi che siamo stati (che saremo?). Conserviamo l’essenziale di quel bambino innocente ed egoista e siamo al tempo stesso il giovane sensuale e generoso ai limiti dell’incoscienza, e anche quell’adulto con i piedi per terra che non dimentica i propri sogni, e infine il vecchio che nell’oro vede solo un metallo: ha perso la vista per guadagnare in visione. Quando ricordo, la mia voce suona a tratti come se avessi di nuovo dieci anni, e a volte suona come dall’alto dei settanta che non ho raggiunto; suona anche come suona oggi, all’età che ho... o credo di avere. I me che sono stato, sono e sarò dialogano costantemente tra loro, mo- 14 dificandosi l’un l’altro. Che il mio passato e il mio presente si alleino per definire il mio futuro sembra una verità elementare, ma sospetto che il mio futuro e il mio presente siano capaci di fare lo stesso con il mio passato. Ogni volta che ricordo, colui che sono stato recita le sue battute ed esegue le sue azioni con eleganza crescente, come se a ogni nuovo tentativo capisse sempre meglio il personaggio. I numeri della mia pompa di benzina hanno cominciato ad andare all’indietro. Non posso fermarli. Il nonno è di nuovo sul pick-up, un piede sul predellino, e canticchia il suo tango preferito: Decí por Dios qué me has dau, que estoy tan cambiáu, no sé más quién soy. Papà si china e mi dice all’orecchio la parola dell’addio. Sento ancora il calore della sua guancia. Mi bacia e mi graffia al tempo stesso. Kamchatka. Io non mi chiamo Kamchatka, ma so che dicendolo pensa a me. 15 2. All things remote La parola Kamchatka suona strana. I miei amici spagnoli la trovano impronunciabile. Ogni volta che la dico mi guardano con condiscendenza, come quando si ha a che fare con un buon selvaggio. Mi guardano e vedono Queequeg, l’uomo tatuato dell’opera di Melville, che adora la rozza statuetta del suo dio. Quanto sarebbe interessante Moby Dick raccontato da Queequeg. Ma le storie le scrivono i sopravvissuti. Non ricordo un momento della mia vita in cui non avessi ancora sentito nominare la Kamchatka. All’inizio era uno dei tanti paesi da conquistare nel mio gioco da tavolo preferito, il Risiko. Il carattere epico del gioco si trasferiva al nome del luogo, ma alle mie orecchie quella parola aveva anche un suono meraviglioso. Era una mia impressione, o Kamchatka risuona come un incrociarsi di spade? Sono tra quelli che provano un eterno struggimento per le cose lontane, proprio come l’Ismaele di Moby Dick. La distanza rappresenta la dimensione dell’avventura che si è disposti ad affrontare: più la vetta è lontana, maggiore sarà il coraggio necessario. Sul tabellone del Risiko il mio paese natale, l’Ar- 16 gentina, è molto in basso e molto a sinistra. La Kamchatka, invece, è molto in alto e molto a destra, appena sotto la rosa dei venti1. In quell’universo bidimensionale, la Kamchatka era il luogo più distante cui potessi aspirare. Quando si giocava a Risiko nessuno si disputava la Kamchatka. I nazionalisti volevano il Sud America, gli ambiziosi il Nord America, i colti sognavano l’Europa e i pratici piantavano le tende in Africa o Oceania, che erano facili da conquistare e ancora più facili da difendere. La Kamchatka era in Asia, che era troppo grande e quindi difficile da controllare. E per giunta non era neppure un paese vero: esisteva come nazione indipendente soltanto sull’insolito planisfero del Risiko. Chi poteva desiderare un paese che non era neppure reale? La Kamchatka restava a me, che ho sempre avuto un debole per gli ultimi. Kamchatka risuonava come i tamburi di un regno recondito e barbaro, che mi chiamava per incoronarmi re. All’epoca non sapevo nulla della vera Kamchatka, quella lingua gelata che la Russia mostra all’Oceano Pacifico per farsi beffe dei suoi vicini d’oltremare. Non conoscevo le sue nevi eterne e i suoi cento vulcani. Non conoscevo il ghiacciaio del Mutnovsky e i suoi laghi dalle acque acide. Non conoscevo i suoi orsi selvatici, le fumarole e le bolle di gas che si gonfiano come rospi sulla superficie delle acque termali. Mi bastava che avesse la forma di una scimitarra e che fosse inaccessibile. 1 Tutti i riferimenti al gioco del Risiko, compresa la descrizione della partita nel cap. 76, riguardano la versione argentina del gioco: il TEG (Plan Táctico y Estratégico de la Guerra), simile al Risiko per funzionamento e tabellone ma non identico. [NdT] 17 Papà si stupirebbe se sapesse quanto la vera Kamchatka assomigli al paesaggio dei miei sogni. Una penisola ghiacciata che è al tempo stesso la regione con la maggiore attività vulcanica sulla Terra. Un orizzonte di vette celestiali e quasi intoccabili, avvolte in vapori di zolfo. La Kamchatka come regno estremo, paradossale; un esercizio di contraddizione. 18 3. Rimango senza zii Sul tabellone del Risiko, la distanza tra la Kamchatka e l’Argentina è ingannevole. Se trasferissi le dimensioni piane al volume di una sfera, quello spazio che sembrava invalicabile diventerebbe prossimità. Non c’è più bisogno di attraversare tutto il mondo conosciuto per arrivare da un posto all’altro. La Kamchatka e l’America sono così lontane che quasi si toccano. Allo stesso modo, il commiato alla stazione di servizio e l’inizio della mia storia sono estremi che si sovrappongono: nell’uno si vede l’altro. Il sole di ottobre si confonde con il sole di aprile, una mattina si accavalla sull’altra. È facile dimenticare che un sole è la promessa dell’estate e l’altro la sua uscita di scena. Nell’emisfero Sud, aprile è un mese di estremi. Arriva l’autunno, e con esso i primi freddi. Ma le nubi durano poco e il sole torna a imporsi. Le giornate sono ancora lunghe. Tante sembrano rubate all’estate. I ventilatori fanno l’ultimo sforzo e la gente scappa al mare il fine settimana, cercando di correre più in fretta dell’inverno. 19 Quell’aprile del 1976 si presentava in apparenza come tutti gli altri. Io cominciavo il mio sesto anno di scuola. Ero occupatissimo con i nuovi orari da imparare e le liste dei libri da procurarmi. Mi ero portato in classe molta più roba del necessario e protestavo per il posto che mi era stato assegnato, troppo vicino alla cattedra della signorina Barbeito. Alcune cose, però, erano diverse. Il golpe militare, per esempio. Anche se papà e mamma non dicevano molto (più che furiosi o avviliti sembravano insicuri), era ovvio che si trattava di qualcosa di serio. Intanto, i miei zii erano spariti come per magia. Fino al 1975 la mia casa nel quartiere di Flores era sempre stata piena di gente che andava e veniva a tutte le ore e parlava a voce alta e rideva e batteva la mano sul tavolo per sottolineare una frase e beveva mate e birra e cantava e schitarrava e metteva i piedi sul divano come se abitasse lì da sempre. Nella maggior parte dei casi erano persone che non avevo mai visto prima né avrei più rivisto. Quando arrivavano, papà ce le presentava tutte una per una. Lo zio Eduardo, lo zio Alfredo, la zia Teresa, lo zio Mario, lo zio Daniel. I nomi non ce li ricordavamo mai, ma non ce n’era bisogno. Dopo un po’ il Nano andava in soggiorno e con la sua voce più innocente diceva zio, mi dai un po’ di Coca?, e si alzavano in cinque a versargli la Coca-Cola, e lui tornava in camera con due bicchieri traboccanti, in tempo per vedere Il santo, la serie di Simon Templar. Verso la fine del 1975 gli zii cominciarono a diradarsi. Ne venivano sempre meno. Ormai non parlavano più a voce alta, né cantavano o ridevano. Papà non si prendeva più neppure il disturbo di presentarli. 20 Un giorno mi disse che lo zio Rodolfo era morto e voleva che lo accompagnassi alla veglia funebre. Io non sapevo chi fosse lo zio Rodolfo. Accettai perché mi disse che avrebbe portato me e non il Nano: un riconoscimento della mia superiorità di figlio maggiore. Fu la mia prima veglia. Lo zio Rodolfo era disteso in una cassa e c’erano tre o quattro sale piene di persone arrabbiate e sopra le righe che bevevano caffè con molto zucchero e fumavano come ciminiere. Questo mi tolse un peso di dosso, perché detesto la gente lagnosa e pensavo che una veglia funebre dovesse essere un convegno di piagnoni. Ricordo che si avvicinò lo zio Raymundo (non lo conoscevo: papà me lo presentò lì), che mi chiese della scuola e dove abitavo e io gli mentii senza neppure pensarci. Vicino alla Boca, dissi. Non so perché. Per la noia mi avvicinai alla bara e scoprii che conoscevo lo zio Rodolfo. Aveva le guance scavate e i baffi un po’ più folti, o forse sembravano più folti perché era più magro e più formale da morto, o forse la formalità era una conseguenza del vestito e della camicia dal colletto grande, ma era lo zio Rodolfo, indubbiamente. Uno dei pochi che era tornato a casa nostra due o tre volte e che aveva fatto uno sforzo per riuscirci simpatico. L’ultima volta che era venuto mi aveva regalato una maglietta del River Plate. Quando tornammo dalla veglia frugai nell’armadio ed eccola lì, in fondo al secondo cassetto. Non la toccai neppure. Chiusi il cassetto e la cancellai dalla mente, almeno fino alla notte in cui sognai che la maglietta usciva da sola dall’armadio e strisciava fino al mio letto come un serpente e mi si attorcigliava attorno al collo soffocandomi. Lo sognai diverse volte. Ogni volta, quando mi svegliavo, mi 21 sentivo stupido. Perché mai una maglietta del River avrebbe dovuto strangolarmi, se anch’io ero del River? Ci furono altri segnali, ma nessuno così sinistro. La paura si era insinuata in casa mia, nel mio cassetto, accuratamente piegata e odorosa di pulito, tra i calzini e i calzettoni. Non domandai mai a papà come fosse morto lo zio Rodolfo. Non ce n’era bisogno. Nessuno muore di vecchiaia a trent’anni. 22 4. Un patriarca scomodo La mia scuola si chiamava Leandro N. Alem, come il signore che ci scrutava da un quadro tenebroso ogni volta che finivamo in Direzione per qualcosa che avevamo combinato. Era un edificio centenario all’angolo tra Yerbal e Fray Cayetano, affacciato sulla Plaza Flores, nel cuore di uno dei quartieri più tradizionali di Buenos Aires. Aveva due piani, che giravano attorno a un patio centrale sormontato da un lucernario, e una logora scala di marmo, testimone delle generazioni che in quell’istituto avevano cominciato la propria ascesa verso il Sapere. La scuola era pubblica, il che significa che le sue porte erano aperte a tutti, senza distinzioni. In cambio di una somma mensile irrisoria, chiunque aveva accesso ai doppi turni in quelle aule, riceveva un panino a metà mattina e poteva partecipare alle attività sportive. Il gesto quasi simbolico di quel pagamento ci apriva le porte della sala macchine del nostro linguaggio, e anche del linguaggio dell’Universo, la matematica; ci rivelava in che punto del globo ci trovavamo, cosa c’era a nord, a sud, a est e a ovest; cosa pulsava sotto i nostri piedi, nel centro igneo della Terra, e sopra le nostre teste; e illustrava 23 ai nostri sguardi vergini la storia del genere umano, del quale in quel momento eravamo, nel bene o nel male, il momentaneo apice. In quelle aule dai soffitti alti e i pavimenti scricchiolanti sentii per la prima volta un racconto di Cortázar e aprii il Plan Revolucionario de Operaciones di Mariano Moreno. In quelle aule scoprii che il corpo umano è la fabbrica più perfetta e mi emozionai risolvendo con eleganza un problema aritmetico. La mia classe avrebbe potuto fare da modello in una campagna per la pacifica convivenza tra gli uomini. Broitman era ebreo. Valderrey conservava l’accento spagnolo. Talavera si era lasciato alle spalle gli antenati neri da sole due generazioni. Chinen era cinese. E anche tra quelli che erano prodotto della più convenzionale mescolanza di spagnoli, italiani e creoli c’erano marcate differenze. Alcuni di noi erano figli di professionisti, altri, di semplici lavoratori non qualificati. Alcuni vivevano in case di proprietà e altri in affitto, oppure insieme ai genitori in stanze cedute dai nonni. Alcuni studiavano lingue straniere e frequentavano club sportivi; altri aiutavano i padri nelle officine in cui riparavano radio e televisori e giocavano con palle di gomma tra le erbacce. In classe queste distinzioni perdevano ogni significato. Alcuni dei miei migliori amici (Guidi, per esempio, che era già un asso dell’elettronica, o Mansilla, che era più nero di Talavera e abitava a Ramos Mejía, un quartiere di periferia che suonava più remoto della Kamchatka) avevano poco o niente in comune con me e con la mia vita. Eppure andavamo d’amore e d’accordo. Portavamo grembiuli bianchi al mattino e grigi al pomeriggio, durante la ricreazione bevevamo mate e facevamo a ga- 24 ra per accaparrarci la nostra brioche preferita tra quelle che il custode portava in un catino di plastica celeste. Era l’uniforme a renderci uguali, e la curiosità e l’energia di quegli anni, il cui calore relativizzava ogni differenza. E a renderci uguali c’era anche l’ignoranza su Leandro N. Alem, il patriarca della scuola. Assomigliava a Melville, con quella barba e il cipiglio severo. Forse stanco della clausura nella bidimensionalità del ritratto appeso in Direzione, sembrava indicare qualcosa oltre i limiti della cornice. Secondo un’interpretazione elementare, Alem indicava il futuro, o il cammino da intraprendere. Ma l’espressione nervosa con cui il pittore l’aveva dipinto faceva piuttosto supporre che Alem volesse dire che stavamo guardando nel posto sbagliato, che non dovevamo guardare lui ma ciò che stava arrivando, quel mistero che il quadro non ci mostrava e che, intangibile, non poteva che essere minaccioso. Negli anni in cui frequentai quelle aule, nessuno ci parlò mai di Leandro N. Alem. Molti anni dopo (io vivevo già in Kamchatka) seppi che si era ribellato all’ordine conservatore, in difesa del suffragio universale; che aveva preso le armi ed era caduto prigioniero; e che alla fine aveva visto trionfare le proprie idee. Può darsi che coloro che non ci parlavano di Alem volessero proteggerci dalla scomoda circostanza del suo suicidio. Il suicidio di un uomo vittorioso getta un’ombra sulla causa per cui ha combattuto, come avrebbe fatto l’apostolo Pietro se si fosse tagliato le vene nella Roma di Nerone oppure Einstein se avesse bevuto veleno durante il suo esilio negli Stati Uniti. Sarei dunque un ingenuo se attribuissi al caso il nome della scuola che mi accolse per sei anni, fino al mattino in cui me ne andai per sempre. 25