grandi scoperte

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grandi scoperte
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Articolo pubblicato sulla rivista SoloVela
A sinistra, un ritratto di Enrico
il Navigatore, lungimirante principe
portoghese del XV secolo.
A destra, antica mappa
disegnata sulla base
del sistema tolemaico
Genovesi
Sabedores do mar
L’unione tra l’intelligenza e il mecenatismo portoghese, con
l’esperienza e la cultura marinaresca dei Genovesi, diede inizio a
un’era di grandi scoperte
di Federica Ameglio
ltre le colonne d’Ercole si è sempre aperto un mondo misterioso e sconosciuto per noi abitanti del Mediterraneo.
Questo mare, così piccolo da apparire come una sottile fenditura su una carta del mondo, per millenni ha rappresentato uno
spazio conosciuto oltre il quale si apriva l’ignoto. Non a caso si
trovano ancora, lungo la costa bretone o portoghese, penisole e
promontori che portano il nome latino di Finis Terrae. E quel mondo di fuori, quell’enorme mare che si apriva verso occidente, è
sempre stato popolato da orchi e mostri pericolosi, da terre incognite frutto di ogni genere di fantasia.
O
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APPARIZIONI PREMATURE
Così, sono apparse nelle carte geografiche, per tutto il medioevo,
molte isole misteriose. Le vere o false isole segnate su quelle
mappe avevano nomi strani, nomi di fantasia che poi sono divenuti qualcosa di concreto: come Antilia o Brazil. La loro esistenza era alimentata e comprovata da vari miti e leggende come, per
esempio, quella di S.Brendano: si narra che il monaco irlandese,
vissuto intorno al 500 d.C., trascorse cinque anni navigando nell’Oceano, e nel corso del suo viaggio incontrò varie isole; una era
popolata solo da uccelli, un’altra emetteva fuoco e ceneri, un’altra era ricoperta di ghiaccio. L’ultima da lui incontrata, la più bella, Brazil, era abitata da un sant’uomo ed era la porta del Paradi-
so. La leggenda di San Brendano era un’allegoria della ricerca della fede, ma le isole della sua storia cominciarono ad apparire nelle mappe del milleduecento, e vi rimasero per altri trecento anni.
L’isola di Brazil apparve per la prima volta in una
mappa catalana del 1350. Sette navi partirono da Bristol alla sua ricerca nel 1498, ma tornarono a mani
vuote. La prima indicazione dell’isola di Antilia su una
mappa risale invece al 1424. Frutto di una leggenda
portoghese, Antilia era detta anche “Isola delle Sette
Città”, perché si pensava che fosse stata scoperta e
colonizzata dai sette Vescovi fuggiti dalla penisola iberica in seguito all’invasione dei mori. La presenza di
queste isole sulle carte nautiche, comunque, non è da intendere come una precoce scoperta delle coste americane.
Eppure il ricordo di quelle isole forse veniva da qualcosa di
più reale, risaliva a un’epoca passata in cui audaci navigatori si erano avventurati nell’Oceano Atlantico.
Anche in epoche precedenti alle scoperte delle Canarie, di Madeira o delle Azzorre, infatti, si erano svolte le prime navigazioni al
di là delle colonne d’Ercole. I Fenici si erano già spinti, nelle loro
navigazioni, fino alle Cassiteridi (Isole Britanniche) per trarne lo
stagno, e forse anche nel mar Baltico, per raccogliere l’ambra gialla. Le loro imbarcazioni, spinte da vele e remi, avevano navigato
nel golfo Arabico per il re Salomone, fino a Tarsis e Ofir (forse Sofala, sulla costa orientale del Mozambico), e sotto il faraone d’Egitto Nechao, una loro flotta fu incaricata, al comando di Annone,
di circumnavigare l’Africa. La flotta probabilmente riuscì nell’impresa. Erodoto ricorda che i Fenici, partiti dal Mar Rosso, avevano
navigato nel mare australe, fermandosi nella stagione autunnale
per seminare e far crescere il grano. Una volta terminato il raccolto, con la bella stagione, erano ripartiti, e così, lido dopo lido e
stagione dopo stagione,
avevano terminato il periplo. La prova storica di questa felice riuscita forse risiede nello stesso racconto di
Erodoto, laddove afferma che, sotto alla Libia (l’Africa), i naviganti riscontravano che il sole descriveva nel cielo un arco opposto rispetto a quello descritto nell’emisfero boreale, trovandosi nel suo
punto più alto a nord della loro posizione; circostanza vera Marzo 2005 127
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In alto, astrolabio di ottone del XVI
secolo. A destra, invece, un notturlabio:
strumento per calcolare l’ora notturna
osservando il movimento delle stelle.
A lato,
“caravela redonda”:
caravella a vele quadre,
ideale per le andature portanti
per chi naviga nell’emisfero australe, ma incomprensibile per una
popolazione ancora ignara della forma della terra e del corso del sole. Durante questo o altri viaggi, i Fenici erano approdati alle isole Canarie, battezzate allora isole Fortunate, e avevano trasferito
questa conoscenza ai Greci, che ne avevano riportato l’esatta posizione nelle loro carte. Poi se ne perse la memoria.
LUNGIMIRANZA PORTOGHESE
Ma quelle isole dimenticate non dovevano rimanere sconosciute per
sempre. Nel XV secolo, un principe portoghese lungimirante, Enrico
il Navigatore, diede nuovo impulso alla navigazione e alle scoperte.
Il Portogallo a quell’epoca, era una terra sottile, schiacciata fra l’Atlantico e la crescente potenza spagnola. Lo sbocco verso l’Atlantico e la ricerca di nuove terre diventava per quel popolo un’esigenza
vitale. Iniziò così quel felice periodo di navigazioni che, nel volgere di mezzo secolo, avrebbe cambiato il panorama delle terre cono128 Marzo 2005
sciute. Nato nel 1394, terzo figlio del re Giovanni I e di
Filippa di Lancaster, Enrico si stabilì in Algarve, dove fondò una piccola corte tutta sua, nella quale attrasse navigatori, astronomi, costruttori
di navi e di strumenti per la navigazione e
cartografi. Raccolse e studiò le nuove carte
che andavano diffondendosi fra i naviganti, scambiò informazioni con chi ritornava
da ardite navigazioni. Sotto i suoi auspici,
cominciò la costruzione di un tipo nuovo
di imbarcazione: la caravella, più panciuta
della vecchia galea e a chiglia rotonda. Anche se lui stesso non intraprese mai alcun
viaggio, fu il primo razionale organizzatore di
molte spedizioni. Gli premeva soprattutto una cosa: scoprire, visitare ed esplorare le coste africane al
di sotto del capo Bojador, dove il continente africano si
piega verso est. Non è certo se la sua mira fosse allora la circumnavigazione dell’Africa per raggiungere le Indie o se volesse, più probabilmente, cercare l’oro lungo le coste africane. Ma nel corso di
quelle navigazioni le sue navi scoprirono le Canarie, Madeira, le Azzorre e le coste africane della Sierra Leone, avventurandosi in mari
che nessuno aveva mai osato affrontare. I capitani ritornavano da
quei viaggi e spedizioni con appunti dettagliati sulle coste e sulla
posizione delle isole, che consegnavano ai cartografi del principe. E
loro riportavano fedelmente su nuove mappe tutte quelle scoperte.
Una nuova epoca era iniziata. Ma la rivoluzione compiuta dal piccolo Stato portoghese non sarebbe riuscita senza l’apporto di un gruppo di marinai e naviganti genovesi: i “sabedores do mar”.
GENOVESI, MAESTRI DI NAVIGAZIONE
Nel 1400 il Portogallo era una nazione di agricoltori e di pescatori,
privi di una vera conoscenza dell’arte della navigazione. In quello
stesso periodo Genova aveva raggiunto l’apogeo della propria potenza economica e militare, ma soprattutto aveva raccolto una grande esperienza nei traffici e nella navigazione. Già da un secolo i Genovesi avevano aperto le rotte verso le coste atlantiche dell’Africa e
verso le Fiandre, navigando nel grande Oceano. Alcuni di loro erano
già stati assoldati come Almirantes dal Regno di Castiglia, e molti
si erano guadagnati una fama notevole per l’alto livello tecnologico
raggiunto nel costruire le navi, per le loro scuole di cartografia e di
scienza della navigazione, oltre che per il loro coraggio come combattenti e navigatori. Poco prima della nascita di Enrico il Navigatore un genovese, Manuele Pessagno, aveva sottoscritto un contratto con il Re del Portogallo, con cui si obbligava, in cambio del titolo di Ammiraglio e di alcuni possedimenti per sé e i suoi figli, a
realizzare una sorta di Stato maggiore dell’Ammiragliato e a portare
in Portogallo venti uomini di Genova, (“sabedores do mar”), adatti
al comando delle navi ed esperti di cose di mare. La chiamata in Por-
togallo dei Genovesi doveva rappresentare l’inizio di un periodo
nuovo. Il difficile campo della cartografia nautica stava muovendo
in quel secolo i primi passi, e i Genovesi avevano già messo a punto molte tecniche e molti aspetti della riproduzione su carta. Le carte nautiche del tempo erano i portolani, che riproducevano il disegno delle coste in base alle esperienze pratiche di navigazione: riportavano per lo più esattamente le posizioni di tutti i porti e l’indicazione, a partire da una serie di rose dei venti, delle linee diagonali che indicavano le rotte da seguire. La più antica carta nautica
che ci è pervenuta, la cosiddetta “carta pisana” (trovata in un archivio a Pisa), è considerata opera della cartografia genovese e anche la più antica raccolta di carte marine, l’Atlante “Luxoro”, probabile opera del più celebre fra i cartografi genovesi, Paolo Vesconte.
I genovesi erano anche grandi esperti nel campo della strumentazione nautica, capaci di costruire strumenti indispensabili per
la navigazione, come la bussola, o l’astrolabio, per conoscere le
posizioni delle stelle, o la balestriglia, per misurare angoli e distanze. Molti di quegli strumenti erano di derivazione araba o
ebrea, e da loro i marinai genovesi ne avevano appreso l’uso. Le
regole della navigazione erano state inoltre raccolte in alcuni
prontuari, come la “toeleta del materologio”, che per i marinai
genovesi erano delle vere e proprie leggi del navigare sicuro.
L’INIZIO DELLA STORIA
Il connubio fra i Portoghesi e la scuola di Pessagno produsse buoni
frutti. Pessagno ristrutturò la flotta portoghese, vinse più volte i pirati magrebini, ma soprattutto aprì la strada a tutta una serie di famiglie genovesi di “sabedores do mar” che, armi e bagagli, si tra-
sferirono in Portogallo, e ottennero favori e ricchezze. Sarebbero stati proprio quei Genovesi a funzionare come acceleratori della storia
delle scoperte. Le conoscenze tecniche e marinare della loro scuola
e lo spirito di conquista dei Portoghesi scatenò di lì a poco, la corsa alle spedizioni navali. Fu proprio un genovese “sabedor do mar”,
Lanzarotto Malocello, tra il 1336 e il 1339, a dare inizio a questa
era, approdando sull’isola più vicina all’Africa dell’Arcipelago delle
Canarie, che in suo nome fu poi chiamata Lanzarote. Dopo di lui, la
corona portoghese promosse altre navigazioni verso quelle isole, ed
è quasi certo che, proprio esplorando le coste attorno alle Canarie, i
navigatori genovesi si accorsero quanto fosse utile, per ritornare in
Portogallo, compiere un ampio giro verso nord ovest, al fine di cogliere i venti freschi provenienti da occidente. Nell’effettuare questa
audace manovra, che sarà alla base di tutto il navigare oceanico a
vela sino al XIX secolo, è probabile (anche se non provato) che abbiano incontrato sulla loro rotta le isole Azzorre e quelle di Madeira. Tra il 1419 e il 1420 Joao Gonçalvez Zarco, Tristano Vaz Teixeira
e Bartolomeo Perestrello, su navi messe a disposizione da Enrico il
Navigatore, sbarcarono a Porto Santo di Madeira. Secondo un’abitudine già invalsa in passato, il principe Enrico assegnò in premio ai
tre scopritori la carica di governatori di quelle isole. Zarco ebbe la
maggior parte di Madeira e pose la sua residenza a Funchal. Teixeira fu fatto governatore della zona di Machico; e a Bartolomeo Perestrello toccò Porto Santo. Il primo passo per imprese più grandi era
stato compiuto. Di lì a poco, la figlia di Bartolomeo Perestrello sarebbe andata sposa a un giovane genovese arrivato a Madeira quasi
in fuga dalla patria, perché, pare, oppresso dai debiti. Quel Genovese si chiamava Cristoforo Colombo. Ma questa è un’altra storia. Marzo 2005 129