I bizantini a Salerno Ore 10,00
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I bizantini a Salerno Ore 10,00
I bizantini a Salerno I bizantini in Italia La prima ondata d’arrivi dei monaci bizantini si ebbe nel VI-VII sec. con la grande controffensiva condotta dai generali Narsete e Belisario, contro le invasioni barbariche. Nel tentativo di respingere l’occupazione gotica delle province bizantine in Italia, gli imperatori d’Oriente inviarono un forte esercito in Italia.Come sempre accade gli eserciti lasciarono nei territori attraversati numerosi soldati e religiosi. Molti di questi decisero di stabilirsi in Italia, soprattutto in meridione, in Sicilia, Calabra e Puglia. I numerosi e variegati sforzi di recuperare l’integrità territoriale del Sacro Romano Impero d’Occidente, erano destinati a non riuscire. Con la Prammatica Sanzione di Giustiniano, che nel 554 stabiliva il ritorno dei territori conquistati sotto la legislazione bizantina, era stato evidente il fallimento del tentativo di riportare sotto l’egida bizantina i territori riconquistati. Tale tentativo, ormai anacronistico, durò solo fino alla morte dell’imperatore avvenuta nel 565. L’invasione Longobarda condotta da re Alboino nel 568 fece arretrare ulteriormente i territori bizantini, che persero tutta l’Italia settentrionale. Tale invasione fu inarrestabile e i Longobardi dilagarono poi sull’intera penisola. Alla morte di Autari, l’Italia è in parte Longobarda, e in parte Bizantina. Le vicende della guerra con i Longobardi, avevano modificato tutte le circoscrizioni bizantine, sparse a macchia di leopardo. A capo dei domini bizantini c’era l’Esarca, che governava in nome dell’imperatore. Le classi sociali erano quattro, il clero formava una classe a sé e rivaleggiava in potenza con la nobiltà. Tale potere crebbe sotto il pontificato di Gregorio Magno, ma con l’elezione di Onorio I ebbe inizio la “controversia monotelitica”, ennesima questione teologica. La crisi totale del dominio bizantino in Italia è frutto dei dissidi religiosi con la comunità latina e con i papi. Era in quel tempo imperatore di Costantinopoli Eraclio. L’oriente, invaso dai persiani, minacciato dagli arabi, era tormentato dai dissidi religiosi e il “monofisismo”, condannato dal Concilio di Calcedonia, trionfava e favoriva l’avanzare dei monoteisti musulmani. Per attirare a sé i monofisiti della Siria e dell’Egitto e comporre il dissidio tra quelli che in Cristo vedevano perfettamente fuse la natura umana e la divina e quelli che invece persistevano nel veder separate queste due nature, Eraclio, consigliato dal patriarca Sergio, propose una formula conciliativa sostenendo la dottrina monotelitica, la quale, pur ammettendo le due nature, proclamava che fossero animate da una sola volontà. In questo tentativo di mantenere un’unità politica ed eliminare i dissidi religiosi Eraclio ebbe il favore del pontefice, il quale di fronte all’avanzare degli Arabi, desiderava porre termine alla disputa. Incoraggiato dal papa, Eraclio nel 638 pubblicò un decreto “Ectesi” nella quale, esposta la nuova dottrina della volontà unica, proibiva le dispute e ne mandò una copia in Italia per farla firmare dal pontefice. Ma Onorio I era morto e il suo successore, Severino, rifiutò di firmare. I rapporti tra Roma e Costantinopoli divennero perciò molto tesi. A peggiorare le relazioni si aggiunse un fatto increscioso, l’esarca Isacco, recatosi a Roma, portò via dal Laterano il tesoro pontificio con la motivazione di dover distribuire le paghe ai soldati. Il papa Severino morì il 2 agosto 640. Gli successe Giovanni IV che convocò un concilio nel quale fu condannata la dottrina monotelitica. L’imperatore comprese che il suo tentativo di dare unità religiosa all’impero era così fallito. I successori di Eraclio, Costantino, poi Eraclone, infine Costante (figlio di Costantino) e il pontefice Teodoro, continuarono il conflitto senza riuscire a trovare un punto di accordo. Costante, convinto che queste diatribe causassero la rovina dell’impero, proibì (Tipo) nel 648 la discussione pro o contro la dottrina monotelitica. Tale divieto inacidì ancor più i rapporti tra la popolazione e i bizantini, che si erano attirati l’odio con un governo repressivo e vessatorio. Nel maggio del 649 venne eletto papa Martino I, che come primo atto convocò a Roma un concilio (5-31 ottobre) in cui furono condannati l’Ectesi di Eraclio e il Tipo di Costante. Altro momento di grande migrazione coincise con la persecuzione degli iconoclasti che spinse numerosi monaci a fuggire dalla madrepatria con le immagini sacre salvate dalla distruzione. Tale afflusso si rinnovò nuovamente nel X e XI secolo in seguito ad una grave crisi economica aggravata dalle incursioni arabo-islamiche. Queste emigrazioni furono l’inizio di un’influenza culturale, artistica e storica che lascerà segni importanti nella cultura meridionale. I monaci bizantini nell’ Italia meridionale La potenza e l’influenza dei Longobardi nell’Italia settentrionale crebbe fino all’arrivo di Carlo Magno nel 774, che sancì la fine del regno di Desiderio. Molti longobardi fuggirono dall’Italia settentrionale e cercarono rifugio nella Longobardia minor: il Ducato di Benevento. L'organizzazione politico-amministrativa longobarda e bizantina, sia del Cilento sia nelle altre regioni meridionali, fu preceduta per almeno quattro-cinque secoli dall'attività dei monaci basiliani, che operarono una trasformazione del territorio. Ci furono, grazie alla loro presenza e alle loro cognizioni, sistemazioni fondiarie, opere idrauliche, costruzioni di mulini, introduzione di nuove e diverse colture. I Longobardi non ostacolarono l’attività dei monaci, ma al contrario la favorirono, certi della grande influenza che essi avevano sullo sviluppo del territorio; infatti, in breve giunsero grandi ondate di basiliani, i quali si recavano in preghiera in località dedicate a San Basilio. A questo proposito va ricordato il termine greco laura, che indicava la via di collegamento tra le grotte; a capo di ognuna di queste zone vi era un igumenos (abate), che guidava la vita spirituale di ogni gruppo. Ben presto le diverse laure basiliane divennero un punto di riferimento per la popolazione locale, perciò cominciarono a nascere numerosi villaggi all'insegna di culti orientali, ad esempio il quartiere di Santa Maria a Sala di Gioi, San Pietro a Salella, insediamenti nati intorno a cappelle e altri luoghi altrettanto noti e suggestivi, come la Basilica di San Filadelfio a Pattano, San Nicola di Gallucanta a Vietri, fondata prima del 989 (sebbene retta sin dall’inizio da un abate, fu qualificata come monastero solo nel 1069, mentre la continua presenza di un abate greco, Teofilo, dal 1058 a subito dopo il 1100, suggerisce che questa chiesa abbia conservato caratteri particolari sia nell’osservanza sia nello stile di vita, anche dopo la sua donazione a Cava nel 1087), infine Santa Sofia a Salerno fondata prima del 1002. I bizantini a Salerno Le condizioni climatiche e geografiche di Salerno indussero i Romani nel III secolo a fortificare la città con la costruzione di un Castello-Castrum eretto sull’alto del colle dominante il golfo e il territorio. Alle falde del colle Bonaediaei sorgeva un centro abitato, un oppidum, recintato da mura, nel quale si trasferì la popolazione delle campagne.Vi emigrò anche la gente che si era stabilita presso il porto dell’antica Irna, alla foce del fiume Irno. (A. Amarotta) Dopo il trasferimento a Bisanzio della capitale dell’Impero, da parte di Costantino, Salerno fu retta da un Correttore, supremo magistrato per l’amministrazione della Lucania e dei Bruzzi, e conservò per intero le sue fortificazioni. In alcuni documenti viene, infatti, denominata con il termine di Castrum. Fu sottoposta al dominio bizantino per oltre un secolo. Dal 536 al 539, in seguito all’arrivo in Italia dell’esercito di Belisario, poi passò sotto il dominio gotico di Totila, ma andò nuovamente sotto il controllo bizantino dal 552 al 646, quando venne poi annessa al ducato di Benevento. Un così lungo periodo di dominazione ha espresso uno splendore tale da attrarre poi Arechi, tanto da volerne fare la sua seconda capitale. Il rapporto della città con il mondo greco valse a creare un ambiente civile e culturale favorevole al rinnovamento urbano. Il Foro romano continuò ad essere il centro della città e il tempio divenne una chiesa consacrata a Santa Sofia, protettrice della Sapienza. Un edificio nella stessa zona fu utilizzato come palazzo del pretorio bizantino, forse quel palazzo poi ampliato e restaurato dal principe Guaiferio che fu denominato palazzo Maiuri, o palazzo san Massimo. L’importanza della città si riconosce anche nella necessità di creare grandi opere di fortificazione, che fecero di Salerno bizantina un munitissimo “castrum”, che Arechi provvide ad ampliare ed arricchire. La lunga dominazione bizantina e le continue relazioni con il mondo greco, fecero di Salerno, anche nei secoli successivi, il luogo in cui la conoscenza divenne tanto gloriosa da legarsi alla cultura medica greco-latina-araba, che diede origine alla storia della famosa Scuola Medica Salernitana. Gli insediamenti monastici più importanti nella nostra provincia si ritrovano nel Cilento e nel Vallo di Diano. Siti famosi e ben conservati sono quelli di Pactano, la Badia di Santa Maria, il cenobio di San Giovanni Battista a San Giovanni a Piro, l’insediamento delle Grotte dell’Angelo a Sant’Angelo a Fasanella. La maggior parte delle testimonianze ancora identificabili sul territorio sono legate a luoghi di culto, a chiese, monasteri, affreschi sacri, lacerti d’affreschi e soprattutto alla toponomastica. Nel capoluogo la presenza d’insediamenti monastici non è documentabile. Non vi sono tracce riconoscibili nei documenti di tale presenza. Ma le architetture, le pitture, alcuni graffiti, ci fanno ipotizzare che la presenza bizantina in città sia stata lunga nel tempo e che abbia avuto una certa consistenza ed importanza. Testimonianza della presenza di una guarnigione di soldati bizantini, e quindi dell’importanza della città, è contenuta nello scritto del papa Onorio I (625-638) a Anatolio “magister militum”, esortandolo ad intervenire espellendo un soldato che aveva barbaramente ucciso il fratello di un cittadino napoletano e di sottoporlo a giudizio dopo averlo espulso dal suo ruolo di “milite castri Salernitani”. Allorché Arechi, nell’VIII secolo, la sottomise, la trovò “assai ben munita”. Va ricordata la descrizione fatta alla fine dell’ XI secolo negli esametri di Guglielmo Appulo in cui si descrive la città circondata da una cortina di mura e di torri intermedie; e l’ebreo Benjamin di Tudela ancora la descrive così alla fine del XI secolo. Venturino Panebianco dice: “Il recente restauro dell’imponente Castello medievale è valso a rilevare come il suo primo impianto sia da annoverare tra i pochi e rari esempi di architettura bizantina in Italia e nell’occidente europeo, ancor prima che Arechi II mirabilmente provvedesse ad ampliarlo ed arricchirlo, per fare di Salerno bizantina una munitissima e opulentissima città, come sarà specificamente ricordato dall’anonimo autore del “Chronicon Salernitanum”. Probabilmente i Romani potenziarono la nuova colonia costiera perché tenesse a bada i Picentini, pronti a ribellarsi alla prima occasione. Il Castello Arechi I tratti della mutazione più antica del castello sono ancora riconducibili al secolo VI d. C. Sono ancora visibili molti frammenti del castrum bizantino, probabilmente voluto da Narsete come presidio durante la guerra greco-gotica. Viene sottolineata così l’importanza del castrum nel controllo del porto sottostante e dei percorsi che conducevano a Nuceria Alfaterna, l’antico municipium, importante nodo economico della pianura vesuviana. Nelle parti più antiche della muratura affiorano blocchi ben squadrati di tufo grigio nei quali sono visibili i fori dell’olivella, una tenaglia mediante la quale dall’età tardoromana a quella bizantina si soleva sollevare i pezzi delle murature. Piuttosto limitata la percentuale dei prodotti caratterizzati da elementi tecnici riconducibili ad atelier bizantini, rappresentanti fino a pochi anni or sono solo da rari esemplari di ceramica e graffiti recuperati nell’area di San Pietro a Corte e al castello, ma presentano le stesse caratteristiche dell’intera regione, dove le importazioni di ceramiche bizantine sono limitate ai soli centri costieri. L’analisi delle ceramiche ritrovate nell’area del Castello hanno offerto recentemente nuovi spunti relativi alle tipologie di ceramica bizantina. Le caratteristiche forme a gobba e il disegno decorativo graffito, fanno pensare al mondo bizantino del XI secolo. Quindi i reperti del castello palesano la loro provenienza dal mondo bizantino per la forma e per la decorazione. San Massimo Guaiferio fondò la Chiesa di San Massimo con indicazioni precise sulla sua dislocazione, sulla sua articolazione e sulle ricchezze architettoniche. È oggi difficile riconoscere l’edificio poiché probabilmente è stato inglobato nel Palazzo Maiuri, noto come San Massimo. L’aspetto attuale di questo edificio risente degli interventi settecenteschi e novecenteschi con al suo interno la chiesa di Sancti Maximi, di cui si ritrovano concrete testimonianze. Si ipotizza che in quel luogo vi fosse un palazzo bizantino, probabilmente la sede del prefetto, come testimoniato da Panebianco. A suo parere l’origine bizantina del palazzo dovrebbe essere testimoniata proprio dal nome di San Massimo, identificato come un monaco confessore bizantino, nato intorno al 580. oppositore del monotilismo, perseguitato e morto nel 662. Il Carucci invece attribuisce al nome origine latina e appartenente a vari santi Confessori, cioè testimoni di Cristo vissuti in santità. In ogni caso la chiesa compare nei documenti come fondata da Guaiferio nell’865, anno in cui venne fatta una donazione da parte di un medico, un tale Giosuè. La chiesa era ubicata vicino al palazzo del principe. Guaferio assegnò alla chiesa un presbitero, un diacono, suddiacono e due chierici. Il vescovo Pietro nell’882 dichiarò tale chiesa esente dalla giurisdizione e potestà vescovile. Alla sua morte Guaferio dispose che parte dei suoi beni personali fossero trasferiti alla chiesa, che ebbe in dotazione terre e case e divenne per più di due secoli centro della vita religiosa del principato Alla chiesa era annesso un Ospizio di mendicità, il primo testimoniato in città, intorno al quale nell’anno 895 si sviluppò il monastero di Sancti Maximi. Spesso tale istituzione viene documentata col titolo di Abbazia, Priorato e Cappellania. La Chiesa risultò di pertinenza della famiglia del principe fino al 1094, anno in cui fu ceduta alla Badia di Cava. Il declino era iniziato nell’anno 1000. Ormai abbandonata dai fedeli, fu del tutto dimenticata con la crisi religiosa del 1050. nel 1664 tutto il complesso venne venduto al sig. Bartolomeo Mauro Seniore. Forse la trasformazione in civile abitazione era iniziata nel XVI secolo, quando con atto notarile del notaio Giovanni Andrea Passaro di Cava si testimonia la vendita di un bene collocato in quell’area rappresentato appunto da un palazzo con giardini e porticati.. La chiesa è descritta nell’atto notarile de 1755 del notaio Genovese di Castiglione. I notaio diceva: “[…] s’entra in una cappella sotto il titolo di Santo Massimo ed Eufemio, con palmetto antico di marmo, pezzi di astrachi a vasoli che forma tre navi, quella di mezzo con soffitta di tavole e le due laterali a lamia sostenuta da sei colonne di marmo con altare alla paulina di stucco con statua di San Michele Arcangelo sopra alla sua tribuna, dietro con quadro antico con cassa di legname indorata. In mezzo della nave di mezo, v’è la sepoltura ed orchestro di tavola sopra la porta nel quale s’ave l’ingresso del piano superiore di detta casa palaziale”. Quindi nella chiesa vi erano delle sepolture, documentate anche da una fonte del 1087, quando Astolfo, con suo nipote Guido, cedette parte di proprietà alla chiesa di San Massimo con riserva del diritto di seppellire i defunti della sua famiglia nell’atrio e sotto il campanile. Nei testi è altresì documentata la presenza di un ambiente ipogeo, una sorta di cripta con altare dedicato a San Bartolomeo. Qui si officiava il culto di questo santo che nel trasporto del suo corpo da Lipari verso Benevento sostò a Salerno. Nell’atto notarile del 1755 è descritto anche il palazzo con la grande sala e camere del piano nobile ed il giardino. La totale manomissione si avrà nella metà del novecento quando la struttura viene adibita ad istituto scolastico e pertanto adattata. L’abbandono dell’edificio e conseguente chiusura al pubblico si avrà dopo il sisma del 1980, quando i danni riportati provocarono lo sgombero delle scuole e degli ufficio comunali che qui erano allocati. Sant’Andrea de Lama Altra testimonianza della presenza bizantina-greca in città si è ritrovata recentemente nel sottosuolo dell’antica chiesa di Sant’Andrea de Lavinia. L’esistenza della Chiesa di Sant’Andrea è provata da un inserto datato al gennaio 999 allegato a un documento del giugno 1065, riguardante la Chiesa di San Giorgio. Un documento dell’agosto 1084 attesta ancora la presenza della Chiesa di Sant’ Andrea, allora detta “della Lama”, nel cui atrio si sarebbe rogato un atto notarile. Altro documento rilevante ai fini della datazione delle varie fasi costruttive è sicuramente quello riferito all’ottobre del 1091 che in merito alla Chiesa di Sant’ Andrea Apostolo cita: “que constructa est intra hanc salernitanam civitate ubi a la Lama dicitur” Nei lavori di restauro si è giunti a ritrovare oltre le decorazioni a livello dell’attuale piano di calpestio della chiesa, un oratorio alto medioevale databile fra la seconda metà del IX sec. e la prima metà del X sec situato a circa sei metri di profondità rispetto all’attuale piano di calpestio della navata, con un abside decorata con affreschi. Sono stati ritrovati affreschi e di strutture architettoniche preesistenti a livello dell’attuale piano di calpestio della chiesa, oltre che elementi decorativi situati soprattutto sulla parete della probabile navata destra. Su una parete del secondo livello si è rinvenuta una scritta in greco, non ancora tradotta. Tale rinvenimento fa presupporre la compresenza in questa chiesa del X secolo del rito greco con quello latino, o comunque di una pratica della lingua greca dovuta alla presenza di esponenti di tale comunità. Se tale compresenza dovesse essere un giorno confermata dalle indagini e dagli studi in atto, si troverà un’ulteriore prova dell’importanza della presenza bizantina in città. Duomo La lastra tombale della confessione di San Matteo è un raro caso di riutilizzo nel Duomo di Salerno. La lastra che chiude il sepolcro di San Matteo, inglobata nella confessio del Santo accessibile dalla cripta, è stata evidentemente ottenuta da un pluteo marmoreo, che contiene un monogramma cristologico stilizzato. Proprio tale schema decorativo attribuisce il pluteo marmoreo, finora mai considerato in relazione al suo decoro, all’insieme esiguo ma prezioso degli esemplari di scultura bizantina che giunsero d’oltremare in Campania ed in particolare in alcune località costiere della regione. La speciale collocazione del manufatto suggerisce inoltre alcune osservazioni relative al significato e alle modalità del reimpiego. Ulteriore esempio di scambio continuo ed importante con Bisanzio, è la porta dell’ingresso principale della cattedrale, in lega metallica. Questa porta fa parte di un gruppo omogeneo di sette porte, realizzate a Costantinopoli, nei decenni centrali della seconda metà dell’XI secolo. Formata da 54 pannelli, lavorati direttamente a Costantinopoli e poi qui assemblati, con 46 pannelli raffiguranti una croce stilizzata, mentre negli altri pannelli sono rappresentate otto immagini di santi ottenute con la tecnica dell’agemina. Si attribuisce la committenza ai coniugi Guisana e Landolfo Butrumile nel 1099. Un’ultima buona testimonianza dei continui e proficui rapporti con l’Oriente è il capitello bizantino-ravennate, riutilizzato per decorare la Cappella Palatina (pag. 50 Amarotta Salerno romana e medievale dinamica di un insediamento, Salerno, 1989) e ancora si conserva la lingua greca nelle epigrafi sepolcrali della chiesa di San Benedetto (Panebianco, Mezzogiorno). Velia Tancredi • • • • • Bibliografia B. CAPPELLI, Il monachesimo basiliano e la grecità medievale nel Mezzogiorno d’Italia, in “Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani”, Napoli, 1963. M.R. MARCHIONIBUS, Il Cilento bizantino, Monastero di Santa Maria de Pactano, edizioni Palazzo Vargas, Satolla, 2004. P. EBNER, Insediamenti bizantini nel Cilento, Monasteri di S. Barbara, in Rassegna Storica Salernitana, XXVIII, Salerno 1967, pp. 77-142; P. EBNER, Monasteri bizantini nel Cilento, S. Maria de Pactano, in Rassegna Storica Salernitana, XXXOX-XLIII, Salerno 1968, 175-250. M. 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