La riappropriazione del testo letterario. Quando i romanzi

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lavoriamo insieme per una nuova didattica della letteratura
corso di formazione per docenti di lettere della scuola secondaria Forlì, 23-24 febbraio 2017
Laboratorio 2
La riappropriazione
del testo letterario.
Quando i romanzi raccontano
il denaro: da Pirandello a Siti
parola chiave
riappropriazione
tutor
Massimiliano Tortora
testi
Luigi Pirandello, da Il fu Mattia Pascal, 1904
Federigo Tozzi, da Il podere, 1921 (postumo)
Italo Svevo, da La coscienza di Zeno, 1923
Alberto Moravia, da La noia, 1960
Paolo Volponi, da Le mosche del capitale, 1989
Walter Siti, da Resistere non serve a niente, 2012
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Luigi Pirandello
da Il fu Mattia Pascal, 1904
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Così il giorno dopo tornai a Montecarlo. Ci tornai per dodici giorni di
fila. Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che straordinario, della fortuna: ero fuori di me, matto addirittura;
non ne provo stupore neanche adesso, sapendo pur troppo che tiro essa
m’apparecchiava, favorendomi in quella maniera e in quella misura. In nove giorni arrivai a metter sù una somma veramente enorme giocando alla
disperata: dopo il nono giorno cominciai a perdere, e fu un precipizio. L’estro prodigioso, come se non avesse più trovato alimento nella mia già esausta energia nervosa, venne a mancarmi. Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo. Mi arrestai, mi riscossi, non per mia virtù, ma per la violenza d’uno spettacolo orrendo, non infrequente, pare, in quel luogo.
Entravo nelle sale da giuoco, la mattina del dodicesimo giorno, quando
quel signore di Lugano, innamorato del numero 12, mi raggiunse, sconvolto e ansante, per annunziarmi, più col cenno che con le parole, che uno s’era poc’anzi ucciso là, nel giardino. Pensai subito che fosse quel mio spagnuolo, e ne provai rimorso. Ero sicuro ch’egli m’aveva ajutato a vincere.
Nel primo giorno, dopo quella nostra lite, non aveva voluto puntare dov’io
puntavo, e aveva perduto sempre; nei giorni seguenti, vedendomi vincere
con tanta persistenza, aveva tentato di fare il mio giuoco; ma non avevo voluto più io, allora: come guidato per mano dalla stessa Fortuna, presente e
invisibile, mi ero messo a girare da un tavoliere all’altro. Da due giorni non
lo avevo più veduto, proprio dacché m’ero messo a perdere, e forse perché
lui non mi aveva più dato la caccia.
Ero certissimo, accorrendo al luogo indicatomi, di trovarlo lì, steso per
terra, morto. Ma vi trovai invece quel giovinetto pallido che affettava un’aria di sonnolenta indifferenza, tirando fuori i luigi dalla tasca dei calzoni
per puntarli senza nemmeno guardare.
Pareva più piccolo, lì in mezzo al viale: stava composto, coi piedi uniti,
come se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male, cadendo; un
braccio era aderente al corpo; l’altro, un po’ sospeso, con la mano raggrinchiata e un dito, l’indice, ancora nell’atto di tirare. Era presso a questa mano la rivoltella; più là, il cappello. Mi parve dapprima che la palla gli fosse
uscita dall’occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato
su la faccia. Ma no: quel sangue era schizzato di lì, come un po’ dalle narici
e dagli orecchi; altro, in gran copia, n’era poi sgorgato dal forellino alla tempia destra, su la rena gialla del viale, tutto raggrumato. Una dozzina di vespe
vi ronzavano attorno; qualcuna andava a posarsi anche lì, vorace, su l’occhio. Fra tanti che guardavano, nessuno aveva pensato a cacciarle via. Trassi dalla tasca un fazzoletto e lo stesi su quel misero volto orribilmente sfigurato. Nessuno me ne seppe grado: avevo tolto il meglio dello spettacolo.
Scappai via; ritornai a Nizza per partirne quel giorno stesso.
Avevo con me circa ottantaduemila lire.
Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno,
dovesse accadere anche a me qualcosa di simile.
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Federigo Tozzi
da Il podere, 1921 (postumo)
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Parecchi conti, più o meno veri ed esatti, giunsero in una settimana alla
Casuccia: il fabbro avanzava tre annate, il carraio due, il droghiere aveva da
riscuotere ottocento lire, il farmacista settecento, il dottor Bianconi novecento; altri medici, chiamati a consulto, cento; poi, c’era da pagare la cera
del trasporto funebre, la cassa, il prete, il marmista per la pietra sepolcrale:
in tutto tremila lire, da aggiungersi alle ottocento dei diritti di successione.
Anche Remigio andò da un avvocato; perché gli pareva che il Pollastri
avesse un modo di fare tutt’altro che fidato. Al ginnasio, aveva conosciuto
uno studente del terzo anno di liceo; e poi s’erano rivisti per la strada. Questo suo amico, al quale egli non aveva più parlato da anni, era l’avvocato
Mino Neretti.
Remigio sperava di spendere meno che da un altro, e di essere consigliato bene. Tuttavia, la prima volta che gli riparlò, tremava e non riesciva a
spiegarsi; arrossendo e arrabbiandosi.
Il Neretti lo guardò, ridendo e battendogli una mano sopra una spalla:
bastò questo perché Remigio sentisse per lui un’amicizia capace di tutto.
Allora l’avvocato, accorgendosene con piacere, lo fece passare dentro la sua
stanza; e, dettogli che si mettesse a sedere, picchiettando con la costola di
un piccolo codice rosso sopra la scrivania tutta seminata di fogli e di libri
aperti, lasciati l’uno addosso all’altro, lo rimproverò:
«Dovevi venire subito da me, e non andare dal notaio; e, poi, dal notaio Pollastri! Quello è un imbroglione che ti mangerà ogni cosa».
Remigio, spaventato, sentì come addentarsi fino al cuore.
«Se tu vuoi che io mi occupi delle tue faccende, prima liberati dal Pollastri; e lascia parlare me alla tua matrigna. Se credi, le scrivo subito una lettera; per invitarla a venire qui. Vi accomodo io! Ma, piuttosto, c’è un’altra cosa molto più grave... Tu, forse, ancora non la sai; ma è bene che t’avverta».
Il Neretti smise di picchiettare con il codice; e, riponendolo nel punto
più sgombro della scrivania, proseguì:
«Giulia, quella ragazza che teneva in casa tuo padre, ti fa causa».
Il giovane, impallidendo, si alzò di scatto:
«Mi fa causa?»
E tentò sorridere, per essergli simpatico e per mostrarsi fiducioso di lui:
«Come può farmela?»
Il Neretti, burlandosi dei modi di Remigio, vedendolo così esaltato e
nello stesso tempo smarrito, aggiunse con un dispiacere sincero, perché era
buono:
«Dice che avanza da te ottomila lire».
Remigio rimase così sottosopra, che non capì più niente. L’avvocato, lasciando prima che quell’emozione diminuisse, lo richiamò in sé minacciandolo; anche con lo scopo di conoscere, per sua curiosità, se aveva ragione o torto:
«Le deve avere, sì o no?»
«Se le dovesse avere, gliele darei. E come l’hai saputo?»
Il Neretti batté il pugno su la scrivania, come se non gl’importasse né
meno di sfondarla:
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Federigo Tozzi da Il podere, 1921 (postumo)
«Di questo non te ne devi occupare».
Ma, per attenuare l’effetto che gli vedeva anche nel viso, aggiunse:
«Ho visto la domanda per ottenere il gratuito patrocinio, che fa il suo
avvocato, il Boschini».
«E allora?»
«Allora, aspetteremo; e noi ci opporremo. Vedremo le ragioni che portano! Sei sicuro che tuo padre non ha fatto testamento?»
Il giovane si mise una mano sul cuore palpitante; e disse, provando un
certo piacere:
«Ormai, ne sono sicuro! Il Pollastri me lo avrebbe detto».
L’avvocato, appoggiandosi alla poltrona, di traverso, e arricciandosi i
baffetti, stette un poco a pensare; poi, disse:
«Non capisco perché anche un sensale ti faccia causa per dugento lire».
«A me?»
Il Neretti, arrabbiandosi, gridò:
«A me, forse? Non sei tu Remigio Selmi, erede del fu Giacomo?»
E fece una sghignazzata. Remigio, mortificato rispose:
«Sì, sono io».
L’avvocato, allora, sorrise: ingenuo fino a quel punto non lo avrebbe
creduto mai. Ma si propose di aiutarlo il meglio che fosse possibile.
«L’avvocato di questo sensale è lo Sforzi».
«E come faccio io a trovare questi denari? T’ho detto, appena entrato,
che mi sono arrivate tremila lire di conti da pagare... E, poi, ci sarà la successione!»
«Eh, non ti spaventare! Oggi parlo io con il direttore del Banco di Roma; e ti faccio dare quel che ti occorre. Fai una cambiale... Per esempio, se
ti ci vogliono tremila lire, tu devi fare, invece, una cambiale di tremilasettecento; così, fra tre mesi, alla prima scadenza, hai già il denaro per scontarne il quinto; aggiungendovi, di tasca tua, una sciocchezza; quaranta lire, mi
pare, più lo sconto... Hai fatto mai le cambiali?»
«No».
«Allora te lo insegnerò io. Il mio giovane di studio ti ci metterà la firma,
che ci vuole per la banca».
E, poi, dopo averlo guardato, aggiunse:
«Si vede che ancora non hai mai vissuto. Bada però, che con le cambiali ci vuole giudizio! E io mi presto a fartele fare soltanto a patto che tu badi ai tuoi interessi e che tu non sciatti il denaro. Ora, vattene; e torna domani; e bada di tenermi informato di ogni cosa, e di non fare niente senza il
mio consiglio, perché cercheranno d’imbrogliarti».
Gli dette la mano, e lo sospinse verso la porta foderata di lana verde.
Il Neretti si sedé, mangiucchiandosi l’unghia d’un pollice: Remigio gli
aveva fatto ricordare tante cose del passato; e, sentendosi troppo distratto,
invece di studiare un processo che aveva alle mani, si mise alla finestra a fumare. Aveva trentadue anni: piuttosto magro, con un ciuffetto nero e due
anelli d’oro alle dita. Quando rifletteva, teneva la bocca chiusa e mandava
a ogni momento il fiato giù per il naso, strizzando gli occhi rotondi; come
se fossero stati troppo grossi per le loro palpebre.
Remigio si credette sicuro, persuaso e contento d’essere stato accolto
confidenzialmente dal Neretti; quantunque ora fosse avvocato, ed egli avesse soltanto la licenza ginnasiale.
Ma quando, la sera, tornò alla Casuccia, dopo aver girato senza scopo
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tutto il pomeriggio, provò una delusione forte; e si chiese perché era stato
così espansivo e aveva dato importanza a cose che ora gli parevano insignificanti.
Alla matrigna non disse nulla dei due processi, volendo prima aspettare d’essersi messo d’accordo con lei; perché gli venne il timore che avrebbe fatto come Giulia. Invece, Luigia sapeva già ogni cosa; perché glielo avevano detto Giulia e il sensale, aizzandola contro il figliastro, mettendole
tanta diffidenza da farla quasi decidere a ricorrere al tribunale. E, credendo che ancora non sapesse niente, stette zitta; temendo, ch’egli, preso dalla collera e comprendendo quali difficoltà stava per incontrare, non si mostrasse meno buono verso di lei e meno disposto a cedere con larghezza
quando doveva essere stabilita la quota del suo usufrutto.
L’aia della Casuccia era già buia; tra la casa, la capanna e la parata. Egli
si sentì salutare da Berto e da Tordo, che stavano seduti insieme sul primo
scalone della loro casa. Moscino, che era figliolo di Picciòlo e fratello di Lorenzo, cantava tra i cipressi; e, tutto a un tratto, attraversò l’aia saltando:
aveva quindici anni; magrolino, con la pelle annerita dal sole. Finché non
era proprio inverno, portava soltanto un paio di calzoni, che gli arrivavano
ai ginocchi; la camicia sempre rimboccata, perché mancavano le maniche.
Ma la domenica si metteva un vestito nero, cucitogli dalla mamma; e, al collo, una sciarpa rossa a fiocco. Con il sigaro in bocca, andava a sentire la musica militare in città; e, la sera, cercava di tornare in compagnia di qualche
ragazza; per darsi l’aria d’essere un giovanotto.
Remigio, che s’era fatto prestare la mattina due lire dalla matrigna, per
le sigarette, si chiuse in camera e si mise a fumare.
Qualche lume, a Siena, s’accese; e, siccome non si distinguevano bene
le case, perché c’era un poco di caligine, pareva che quei lumi stessero per
aria, sospesi; e, quando Moscino si rimise a cantare, gli parve che tutto fosse stupido e insulso come quel canto.
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Italo Svevo
da La coscienza di Zeno, 1923
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Il giorno seguente cominciai benissimo:
– Tu dunque ora giochi alla Borsa? Vuoi finire in carcere? – gli domandai severamente. Ero preparato ad una scena e tenevo anche in serbo la dichiarazione che giacché egli procedeva in modo da compromettere la ditta, io avrei abbandonato senz’altro l’ufficio.
Guido seppe disarmarmi subito. Aveva tenuto sinora il segreto, ma ora,
con un abbandono da buon ragazzo, mi disse ogni particolare di quei suoi
affari. Lavorava in valori minerarii di non so che paese, che gli avevano già
dato un utile che quasi sarebbe bastato a coprire la perdita del nostro bilancio. Oramai era cessato ogni rischio e poteva raccontarmi tutto. Quando
avesse avuta la sfortuna di perdere quello che aveva guadagnato, avrebbe
semplicemente cessato di giocare. Se invece la fortuna avesse continuato ad
assisterlo, si sarebbe affrettato di mettere in regola le mie registrazioni di
cui sentiva sempre la minaccia.
Vidi che non era il caso di arrabbiarsi e che si doveva invece congratularsi con lui. In quanto alle questioni di contabilità, gli dissi che poteva oramai essere tranquillo, perché ove c’era disponibile del contante era facilissimo di regolare la contabilità più fastidiosa. Quando nei nostri libri fosse
stato reintegrato come di diritto il conto di Ada e almeno diminuito quello
ch’io dicevo l’abisso della nostra azienda, cioè il conto di Guido, la nostra
contabilità non avrebbe fatta una grinza.
Poi gli proposi di fare tale regolazione subito e mettere in conto della
ditta le operazioni di Borsa. Per fortuna egli non accettò perché altrimenti
io sarei divenuto il contabile del giocatore e mi sarei addossata una maggiore responsabilità. Così invece le cose procedettero come se io non avessi
esistito. Egli rifiutò la mia proposta con delle ragioni che mi parvero buone. Era di malaugurio di pagare così subito i suoi debiti ed è una superstizione divulgatissima a tutti i tavoli da giuoco che il denaro altrui porti fortuna. Io non ci credo, ma quando giuoco non trascuro neppur io alcuna
prudenza.
Per un certo tempo mi feci dei rimproveri di aver accolte le comunicazioni di Guido senz’alcuna protesta. Ma quando vidi comportarsi allo stesso modo la signora Malfenti che mi raccontò come suo marito aveva saputo guadagnare dei bei denari alla borsa, eppoi anche Ada, dalla quale sentii considerare il giuoco come un qualsiasi genere di commercio, compresi
che assolutamente a questo riguardo non si avrebbe potuto movermi alcun
rimprovero. Per arrestare Guido su quella china non sarebbe bastata la mia
protesta che non avrebbe avuta alcun’efficacia se non fosse stata appoggiata da tutti i membri della famiglia.
Fu così che Guido continuò a giocare, e tutta la sua famiglia con lui.
[…]
Sulle scale della casa di Guido m’imbattei nella signora Malfenti che pesantemente le saliva. Mi raccontò per lungo e per largo quanto fino ad allo-
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Italo Svevo da La coscienza di Zeno, 1923
ra era stato deciso nell’affare di Guido. La sera prima s’erano divisi circa
d’accordo nella convinzione che bisognava salvare quell’uomo che aveva
una disdetta disastrosa. Soltanto alla mattina Ada aveva appreso ch’io dovevo collaborare a coprire la perdita di Guido e s’era recisamente rifiutata
di accettare. La signora Malfenti la scusava:
– Che vuoi farci? Essa non vuole caricarsi del rimorso di aver impoverita la sua sorella prediletta.
Sul pianerottolo, la signora si fermò per respirare e anche per parlare, e
mi disse ridendo che la cosa sarebbe finita senza danno per nessuno. Prima
di colazione, lei, Ada e Guido s’erano recati per averne consiglio da un avvocato, vecchio amico di famiglia e ora anche tutore della piccola Anna.
L’avvocato aveva detto che non occorreva pagare perché per legge non vi si
era obbligati. Guido s’era vivamente opposto parlando di onore e di dovere, ma senza dubbio, una volta che tutti, compresa Ada, decidevano di non
pagare, anche lui avrebbe dovuto rassegnarvisi.
– Ma la sua ditta alla Borsa sarà dichiarata bancarotta? – dissi io perplesso.
– Probabilmente! – disse la signora Malfenti con un sospiro prima d’imprendere la salita dell’ultima scala.
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Alberto Moravia
da La noia, 1960
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Cecilia, come le spingevo nella palma i fogli di banca piegati, stringeva
subito il pugno, senza, però, dare a vedere altrimenti che li aveva ricevuti e
accettati. Era veramente come se quel denaro e la mano che lo dava e la mano che lo riceveva, si fossero trovati in un mondo diverso da quello in cui si
trovavamo Cecilia ed io. Poi, mentre l’abbracciavo, Cecilia lasciava cadere
i fogli di banca a terra, presso il divano, e lì restavano, piegati e spiegazzati,
dove potevo scorgerli facilmente mentre facevamo l’amore, simbolo, ai
miei occhi, di una maniera di possesso che mi illudevo fosse più completa
e soddisfacente di quella a cui, in quel momento, mi dedicavo. Dopo l’amore, Cecilia, correndo in punta di piedi, nuda, al bagno, si chinava rapidamente e col gesto grazioso di un corridore che si curvi a raccogliere il fazzoletto lasciato cadere dal compagno, afferrava i biglietti con le punte delle dita e li gettava sulla tavola, presso la borsa. Più tardi, una volta vestita,
Cecilia si avvicinava alla tavola, riprendeva i fogli e li metteva al sicuro nel
portafogli che poi chiudeva nella borsa. Cecilia amava fare le cose sempre
nello stesso modo, quasi ritualmente. Così, questo particolare del denaro si
inserì nel solito rito dell’amore con molta naturalezza e persino con una
certa grazia, senza, insomma, quei significati meretrici che avevo immaginato che dovesse avere, anzi, come tutto quello che faceva Cecilia, senza significato affatto.
Nei primi tempi, come ho già detto, le diedi dalle cinque alle trentamila lire, cercando, con queste variazioni di quantità, di vedere se Cecilia
avrebbe in qualche modo reagito. Pensavo che, se lei mi avesse chiesto:
“L’ultima volta mi hai dato ventimila lire, oggi me ne dai soltanto cinque,
perché?” io avrei avuto un motivo più che sufficiente per considerarla venale. Ma Cecilia non mostrò di accorgersi che il foglio che le mettevo in mano era scempio o doppio, verde o rosso, come se il gesto di pagarla non
avesse avuto uno tra i tanti gesti che facevo quando stavo con lei, e che avrei
potuto anche fare in modo diverso o non fare affatto, senza che, per questo, i nostri rapporti si modificassero. Allora, decisi di vedere che cosa sarebbe successo se avessi cessato del tutto di darle del denaro. Strano a dirsi, mi accinsi a questo esperimento con il batticuore. Non me lo confessavo
apertamente; ma poiché ero quasi convinto che quei biglietti di banca che
introducevo furtivamente nella mano di Cecilia costituissero ormai la principale giustificazione del nostro rapporto, temevo di perderla nel momento stesso in cui speravo di dimostrarmi che, perdendola, non avevo niente
da perdere.
Così, uno di quei giorni, non le misi niente in mano. Con stupore, mi
accorsi allora che Cecilia nonché mostrare disappunto, non pareva neppure avvedersi del cambiamento sopravvenuto nel solito rito amoroso. Nella
stretta delle dita che ricevevano la mia mano vuota, non c’era alcun senso
di sorpresa o di delusione; era la stessissima stretta con cui lei, dopo aver ricevuto il denaro, mi annunziava, gli altri giorni, che era pronta a darsi. Cecilia, dunque, fece quel giorno l’amore nello stesso modo dei giorni in cui
la pagavo; e se ne andò senza alludere in alcuna maniera al fatto che non l’a-
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Alberto Moravia da La noia, 1960
vevo pagata. Ripetei la cosa due o tre volte, ma Cecilia, infantilmente impenetrabile, mostrò di nuovo di non essersi accorta di niente. Così mi trovai
di fronte a tre ipotesi: o Cecilia era venale, ma aveva la superiore ed elegante astuzia di non mostrarlo; oppure era distratta, di una distrazione, però,
del tutto misteriosa, ossia era inafferrabile come prima e come sempre, nonostante il denaro; oppure era completamente disinteressata, e anche in
questo caso mi sfuggiva e si sottraeva al mio possesso. Rigirai un pezzo questo problema e quindi, alla fine, decisi di metterla con le spalle al muro.
Uno di quei giorni, le introdussi di nuovo due biglietti da diecimila lire nella mano e poi subito dopo le dissi: “Guarda, che t’ho dato ventimila lire”.
“Me ne sono accorta”.
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Paolo Volponi
da Le mosche del capitale, 1989
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Saraccini guarda dall’alto della collina la grande città industriale che si
estende nella pianura, spianata dalla notte oltre se stessa fino a sparire tra i
riflessi del fiume e le fumate dei campi.
Egli è sereno e gode soddisfatto di quella vista e del generale silenzio.
«E sì, è proprio un altro grande generale, il silenzio», confida a se stesso e
all’universo. Tutto lo spazio intorno, con il fiato trattenuto e cauto ad ogni
tonfo, sembra capirlo e ubbidirgli, riconoscergli con premura di essere
quasi ricco, quasi innamorato, ancora giovane e forte, il primo nella sua città esemplare e anche nella regione; il più intelligente, equilibrato e capace
dei direttori della sua gloriosa Azienda.
La grande città industriale riempie la notte di febbraio senza luna,
tre ore prima dell’alba. Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono
svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino
le vie i quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della
città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il
fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno.
Buie anche le grandi antenne delle radio comunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le
guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai:
e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei
turni di guardia di ronda tra le schiere dei reparti o sotto le volte dei
magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e
del Roipnol.
Ma dormono anche gli impianti, i forni, le condutture, dormono i nastri
trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del
pronto soccorso, dormono le banche: gli sportelli le scrivanie i cassetti le
poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni
del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi
di segatura. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre
tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici.
Dormono i calcolatori, ma non perdono il conto nei loro programmi. È
un problema di ordine, efficienza, produzione.
Saraccini confida negli psicofarmaci e nei calcolatori. Capiranno i
giornali, i finanzieri, i direttori, i tecnici, i giovani specializzati, i consigli
d’amministrazione, i contabili, i sindacalisti di fabbrica, quelli provinciali
e nazionali, poi i sindaci, i politici, e poi anche i vertici della confindustria, dell’Iri, e poi i ministri e gli editori. Tutti dovranno capire il primato
sociale, culturale, scientifico dell’industria: e lo stesso capitale dovrà sot-
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tomettersi e seguirne le ragioni. Il capitale verrà rinnovato e regolato
dall’industria.
Il midollo spinale dei nastri crepita, memoria e calcolo, come nel sonno
il sangue circola, l’inconscio dilaga, il sogno si versa, il cervello si alimenta
di nuovi scatti per i pensieri nuovi di domani. Già al primo risveglio sul lavandino sulla tazza o ancora prima sul sapore del cuscino, cresce spinto
dalla vita di tutto e di tutti, il corpo e il valore del capitale. Mai un istante,
anche nelle più cupe notti, cessa di crescere e prevalere; si sposta si assesta
recupera forze distribuisce risorse immagina e progetta nuove strategie delinea nuovi organi e nuove facoltà.
Il sonno si spande senza alcuna innocenza, e non per fisico gravame, ma
come ulteriore dato e calcolo delle compatibilità favorevoli al capitale. Tutta la città gli è sottoposta; così ciascun dormiente, ciascuno nel suo posto e
letto, nel proprio sonno come in quello più grande e generale che si svuota
di vapori. Il calcolatore guida e controlla, concede rincorre codifica assume
imprime. Dormono anche i padroni e i custodi del calcolatore, dorme la loro coscienza vigilata da infiniti sistemi d’allarme, elettronici quanto morali,
sociali politici biochimici. Ronza nel grande sonno il palazzo degli uffici,
anch’esso in riposo, staccato isolato da novantotto delle sue cento correnti:
restano le guardie, i ronzii dei commutatori, le bocche dei revolvers, le garitte dei turni, i quadranti degli orologi, quelli di rappresentanza del grande
salone d’ingresso e delle sale d’attesa.
Ogni cinque minuti scatta il calcolo degli interessi, ogni dieci quello del
tasso di inflazione, ogni mezz’ora, avendo intanto percorso il giro del mondo, l’indice di costo delle principali materie prime, ogni tre ore l’indice di
valore del dollaro e del marco svizzero, seguito dopo venti minuti da quello
di tutte le altre monete dei principali paesi industriali del mondo. Spesso
manca la quotazione della lira. Il suo dato rimbalza all’improvviso fuori
luogo insieme con quelli bigiornalieri del costo del lavoro, compresa la contingenza con la specificazione di un indice medio generale e dei seguenti indici di settore: metalmeccanici chimici tessili poligrafici, trasporti, comunicazioni, edili, cartai.
Saraccini guarda, ma non commenta: tramortito dalla potenza dell’avvenimento che lo investirà all’apertura della giornata, già prossima alla sua
alba.
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Per prima cosa occorre liberarsi da un vecchio luogo comune, lo schema del denaro sporco che deve essere lavato nei paradisi fiscali; col corteo
pittoresco di isolotti nebbiosi o di improbabili staterelli tropicali – Guernsey nel canale della Manica (finanziarie e bovini di razza, salone nautico o
faccendieri bulgari), la vicina Sark, così indenne da inquinamento luminoso da vantare il più bel firmamento d’Europa; Montserrat nelle Antille Britanniche, col suo vulcano attivo e le ceneri che dadono sulla spiaggia; nel
sud del Pacifico la piccola Niue, che concede alle compagnie straniere di
registrare il loro nome in caratteri cinesi. Ci si va ancora, naturalmente, nei
minuscoli aeroporti atterrano i facoltosi più accidentali e i commercialisti
globetrotter; ma il grosso del riciclaggio avviene nelle grandi banche americane ed europee, a Zurigo come nel Delaware, molto più on che offshore.
È vero che una quindicina d’anni fa settanta miliardi di dollari sottratti al
fisco russo transitarono per la Nauru Agency Corporation, ma è anche vero che dieci anni dopo quegli stessi soldi sono serviti a ripianare un terribile
buco in Citigroup, dove contemporaneamente arrivavano i prestiti immobiliari dei narcos messicani e il miliarduccio di un principe saudita, lecitissimo perché ricavato dal petrolio. Le banche centrali di molti Paesi, attraverso le loro sussidiarie, trasferiscono le riserve (legali per definizione) in rifugi senza etichetta.
Il problema non è il denaro sporco tradizionalmente inteso, quello della criminalità maxi e mini, ma il “denaro caldo” – i soldi senza patria che
vagano per il mondo avendo perduto qualunque traccia della loro origine.
È il lato oscuro della globalizzazione: attraverso la rete informatica chiunque può decidere da quale Paese far partire l’operazione finanziaria, a
seconda delle legislazioni che gli convengono di più; bastano pochi rapidi
passaggi e tutto si confonde. Nel cuore segreto delle grandi banche (con
l’armamentario sempre più complesso e inestricabile del private banking:
le operazioni fuori bilancio o off-sheet, le SIV, le PIC, le shell company) si
creano depositi protetti da cortine di extrariservatezza, in cui qualsiasi investigatore rimarrebbe impastoiato. I burocrati della polizia tributaria si
muovono nelle banche come gli elefanti nei negozi di cristalli («mi scusi, lei
sta parlando di denaro presente qui e ora, o del denaro depositato fino a
cinque minuti fa?»); le banche la considerano legittima difesa, perché senza incertezza e volatilità non decollano i profitti.
[…]
Nei Paesi più disinvolti, dove l’accumulazione primitiva del capitale sta
replicando le violenze dei pirati inglesi del Seicento o dei robber baron ottocenteschi, per inverare una previsione favorevole non ci si arresta davanti al sangue – invece di anticipare i fatti, li si provoca eliminando gli ostacoli al loro accadere. Dirigenti, ufficiali, giornalisti muoiono come mosche.
Ma puoi anche sfruttare percorsi più soft. Metti che ci sia in Uganda una
preziosa miniera di tantalite, la cui polvere fa venire il cancro; tu finanzi una
ruvida protesta degli ambientalisti, ci sono dei morti e la miniera viene chiusa dalle autorità; dopo un anno, in mancanza di alternative e sfumata
7 parole per 7 lezioni
Forlì, 23-24 febbraio 2017
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forlì
centro iniziativa
democratica insegnanti
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Walter Siti da Resistere non serve a niente, 2012
l’attenzione dei media, il governo ordina di riaprirla sparando sugli oppositori. Tu ci hai guadagnato un botto con le opzioni, prima allungandoti e
poi shortando; tutto sarà rubricato nella categoria degli “scontri tribali”. La
cosa bella del tradare via schermo è che non le vedi nemmeno, le facce di
quelli che stai fottendo.
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Forlì, 23-24 febbraio 2017