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L’ultima missione di Gennaro Chierchia Arrivai in città all’alba con la mia jeep. Ero strafatto di eroina. Entrai in un ostello e affittai una camera. Come lasciai la reception me ne scordai il numero. Nel corridoio un punk secco come un chiodo ricoperto di pelle nera traslucida e catene di ferro uscì dal cesso sbadigliando. «Sai qual è il numero della mia camera?» chiesi. Il manico di scopa si spazzolò la cresta colorata e mi diede dell’ubriacone. Infilai la chiave a casaccio nelle serrature delle porte del primo piano a partire da quella contrassegnata col numero uno. Quando provai a entrare nella camera contrassegnata col numero cinque ne uscì fuori un negro grande e grosso che disse: «Chi sei? Un maniaco?». «Sai qual è il numero della mia camera?» Il cioccolatino mi strappò la chiave di mano e lesse cosa ci era scritto sopra. «Sette,» sentenziò. «Come hai fatto?» Ero sbalordito come un neonato che mette la testa fuori dalla vagina ed emette il primo vagito. Dormii fino a sera ronfando a più non posso e sparando un peto che rischiò di soffocarmi poi mi diedi una sciacquata veloce alla faccia e schizzai come un fulmine fuori dell’ostello. Dall’altro lato della strada c’era un capannone industriale in disuso dove un tempo assemblavano i motori dei go-kart e dove oggi i musicisti e i cantanti si esibivano a gratis. Parcheggiai la jeep davanti all’entrata del capannone ma uno che doveva essere un amico di manico di scopa perché vestiva tale e quale a lui mi disse che Juan si sarebbe esibito tra un’ora perciò mi ero presentato con un’ora di anticipo e siccome non mi andava di starmene lì ad aspettare per un’ora come un fesso me ne tornai all’ostello con le palle che mi giravano veloci come i rotori di un elicottero perché invece di perdere tempo come avevo appena fatto avrei potuto restare a letto a dormire un altro po’. Due ragazze passabili pomiciavano nel corridoio del primo piano dove avevo la camera. Le superai con aria indifferente ma come mi fui chiuso la porta alle spalle scostai il piccolo coperchio dello spioncino, lo tirai fuori e mi pugnalai come un invasato. Quando ebbi finito di sbizzarrirmi con la mia proboscide fui colto da un bisogno urgente di svuotare la vescica. Siccome le camere dell’ostello non avevano il gabinetto incluso avrei dovuto usare quello comune che c’era nel corridoio. Toh!, manico di scopa mi aveva anticipato di un soffio ma aveva commesso l’errore di lasciare la sua borsa puzzolente fuori della porta del gabinetto. Mi guardai intorno, l’afferrai con la velocità con cui la lingua di un camaleonte acchiappa al volo una libellula e me la portai nella mia camera. Dentro la borsa del punk c’erano un pacchetto di preservativi della mia marca preferita e un paio di losche birre cinesi. Tenni i preservativi per me. Stappai le bottiglie aiutandomi con la spalliera di una sedia mezza fradicia, che ci mancò poco che spaccassi; versai il liquido giallognolo nel lavandino aspettandomi di vederlo bucare l’acciaio come avrebbe fatto il sangue acido di un mostro che avevo visto in un film alla televisione che aveva il corpo di un dinosauro e la testa che pareva la scocca gigante di una Vespa. Pisciai dentro le bottiglie riempiendole fino all’orlo, le richiusi schiacciando i tappi sopra i musi e le riposi nella borsa di manico di scopa, che lasciai davanti alla porta del gabinetto. Presi la jeep, parcheggiai davanti al capannone ed entrai ma Juan non era ancora arrivato. I fan, che avevano ingannato l’attesa ubriacandosi e fumandosi pure la carta igienica, si erano rotti i coglioni di aspettare. Il direttore artistico salì sul palco e provò a metterci una pezza. «Calma, quel cornuto arriverà.» Fu ricoperto di sputi e di cicche di sigarette e di lattine di birra vuote. Forse l’orda di punk non aveva apprezzato la cravatta gialla attira moscerini con cui quella sera l’uomo aveva deciso di strozzarsi. Un tizio che si era attaccato sulla capoccia quella che pareva la cresta gigante di una gallina gli puntò contro un mitra ma prima che potesse sforacchiarlo il ciccione della security lo cacciò fuori a pedate. Il mitra, rivelatosi un giocattolo comprato su una bancarella di una fottuta fiera di paese, fu calpestato e ridotto in mille pezzi. I fan di Juan erano appiccicati tra loro come sardine in scatola, si facevano spazio a gomitate. Ovunque cacciassi il naso respiravo il sudore rappreso sulla loro pelle infettata dai tatuaggi. Un grassone si rimpinzava di patate fritte. Quando ebbe sigillato l’abbuffata con un rutto poderoso gettò via la vaschetta di alluminio unta alle sue spalle colpendo in faccia un signore di mezza età. Il signore raggiunse il grassone facendosi spazio tra la marmaglia di teste rasate e lo colpì sul grugno con un pugno. Per una manciata di secondi il grassone visitò l’altro mondo poi, per sua sfortuna, fu risucchiato indietro e così provvide a mettere fuori combattimento l’uomo che lo aveva menato. La band femminile incaricata di aprire il concerto litigava con gli strumenti. Il pubblico non gradiva: qualcuno mostrava il dito medio, qualcun altro pregava loro di piantarla e di andarsene a casa. Volevano Juan. Fuori del capannone avevano montato un gabinetto. Mi ci recai e mi ci chiusi dentro. C’era un puzzo orrendo: il buco della tazza era intasato di merda e di piscia e di rotoli di carta igienica. Fui costretto a respirare con la bocca. Tirai fuori la mia attrezzatura. Sciolsi l’eroina sopra un cucchiaino aiutandomi con la fiamma di un accendino, la succhiai nella siringa e me la sparai in vena. Diavolo!, ripresi quota in un battibaleno. Mi guardai allo specchio e digrignai i denti: erano gialli come la birra di manico di scopa. «Testa di cazzo. Pensi solo a farti. La tua vita è uno schifo: non hai una fidanzata, non hai una casa; hai solo quella maledetta pistola. Vuoi rovinargli la serata? Vattene a dormire piuttosto e metti via quella merda…» «Ehi, amico. È un quarto d’ora che sei chiuso dentro.» Era manico di scopa. Dove c’era un cesso c’era lui. Uscii. Compiaciuto osservai che sorseggiava il mio piscio. Mi sentii magnanimo così gli diedi un suggerimento. «Vacci piano con quella roba o ti sentirai male.» Tutto a un tratto mi ricordai che avevo una voce niente male: fino ai vent’anni avevo passato parecchie serate nei pub a cantare col karaoke in compagnia dei miei amici cazzoni. Guadagnai il palco a spintoni e strappai il microfono di mano alla vocalist: una tipa cui avrei fatto vedere volentieri di che cosa eravamo capaci io e il coso che mi ritrovavo tra le cosce ma non adesso, nelle condizioni in cui ero ridotto. Mi avvicinai alla batterista e le dissi di attaccare con un vecchio successo delle Bangles: Walk like an egiptian. La brufolosa era così disperata che mi diede retta. Cantai come un usignolo. Avevo sbagliato mestiere. Mi agitai come la buonanima di Ian Curtis. Ammiccai agli astanti, battei loro il cinque, feci roteare l’asta del microfono al di sopra della mia testa rischiando di sfregiare il viso della chitarrista al mio fianco, che sbagliava le note una su due. Mi lanciai sul pubblico sperando che non mi facessero lo scherzetto di scansarsi per farmi precipitare a terra. Peggio: mi afferrarono immobilizzandomi come un bruco nel bozzolo e mi riempirono di pugni finché il ciccione della security mi agguantò per la cintola dei pantaloni e mi ricacciò sul palco con uno spintone. Quegli ingrati chiesero il bis, io mi feci pregare per un po’ ma poi li accontentai perché mi sentivo ancora magnanimo. Una cicciona con la testa incassata nelle scapole che occupava la prima fila mi implorò di baciarla in bocca. Come l’ebbi accontentata manico di scopa apparve dal nulla e mi diede uno scapaccione sul naso: aveva capito che aveva bevuto la mia urina e a quanto pareva non aveva gradito. Pur dissanguandomi afferrai l’asta del microfono e gliela piegai sul cranio. Manico di scopa strabuzzò gli occhi e crollò a terra scomparendo tra il pubblico. Il ciccione della security giunse alle mie spalle silenzioso come un ninja nonostante la sua stazza di giocatore di rugby, mi strinse in una morsa potente e mi trascinò via dal palco. Il direttore artistico in persona mi fece un’intervista. «Chi sei?, il figlio di Belzebù?» «Sono una rock star.» «Ci mancava solo un mitomane,» concluse. «Toglimelo dai piedi,» ordinò al ciccione. «Bravo, riportami all’ostello,» farfugliai io. «Questi bifolchi non meritano la mia arte.» Chiusi gli occhi e sprofondai in un lungo sonno. Mi risvegliai col batticuore. Il ciccione mi aveva riportato nella mia camera. Mi schiaffeggiai le guance e portai il culo al gabinetto. Vuotai la vescica, mi sentii subito meglio. Dove diavolo si era cacciata la mia pistola…? Eccola, dov’era sempre stata: nascosta sotto la mia giacca. Mi sciacquai la faccia, accesi una sigaretta e mi diedi una rapida pettinata davanti allo specchio imbrattato da una scritta col rossetto che mi mise al corrente che ero uno stronzo solo perché l’avevo letta. Mondo infame. «Sei forte. Hai carisma. Potresti essere una rock star. Ma sei un killer su commissione. Che ti è preso? Volevi finire arrostito sulla sedia elettrica? Sai che ti ammiro. Non deludermi.» Tornai al capannone a piedi. La mia jeep era ancora lì ringraziando iddio ma qualche pischello col cervello fuso aveva approfittato della mia assenza per tirare una lunga riga su una fiancata. Sono cose che non si fanno. Sospettai di manico di scopa. Entrai nel capannone. Juan stava al centro del palco e cantava. Aveva il torso nudo e indossava un paio di pantaloni di pelle neri attillatissimi infilati negli anfibi slacciati. Aveva le braccia tatuate da teschi e coltelli e aveva una marea di anelli appesi ai capezzoli. La sua band era un’accozzaglia di feccia umana. Alla batteria c’era un grassone con una folta barba inzaccherata che suonava i piatti a capocciate; al basso una ragazza androgina a torso nudo ma priva di tette; il chitarrista, imitando Jimi Hendrix, suonava la chitarra elettrica coi denti ma si era tagliato le labbra così aveva il mento tutto sporco di sangue. C’era chi saltellava sul posto brandendo una bottiglia di vodka, chi, aggrappato a un muro, vomitava in un angolo. Chi strillava le parole delle canzoni con gli occhi fuori dalle orbite. Adocchiai la guardia del corpo di Juan. Era un testa pelata tutto muscoli che indossava un completo scuro. Se ne stava ai piedi del palco e lanciava occhiate in tutte le direzioni. Uscii fuori del capannone. A spettacolo finito Juan si concesse ai fan. Testa pelata gli stava incollato come una sanguisuga; muoveva la testa a scatti, mi ricordò una gallina. Mirai con calma e lo buttai giù. Il guardaspalle giacque a terra con un buco nella gola così perfetto che pareva fosse stato tracciato con un compasso. Poi dal buco schizzò il sangue con violenza come l’acqua che viene fuori da una manichetta impazzita. La marmaglia di ragazzini che accerchiava il cantante strillò e scappò terrorizzata e si sparpagliò attorno al capannone. Juan non mi aveva visto sparare così rinfoderai la pistola per non rovinare l’effetto sorpresa. Non muoveva un muscolo perché se la stava facendo sotto dalla paura; in una mano stringeva una foto che lo ritraeva in primo piano su cui aveva vergato uno svolazzo e nell’altra teneva un pennarello con la punta tonda e grossa. Mi dissi che aveva appena firmato la sua condanna a morte. «Juan!» lo chiamai. Il cantante sobbalzò come se stesse sognando a occhi aperti. Infilai una mano sotto la giacca, impugnai la pistola e gliela puntai contro. Premetti il grilletto ma non successe niente. La pistola mi aveva abbandonato sul più bello. Armeggiai con l’arma e riuscii a sbloccarla ma mentre alzavo il braccio per prendere di nuovo la mira Juan fece fuoco con la pistola che aveva sottratto al suo guardaspalle agonizzante. Aveva una buona mira per essere un cantante perché mi colpì dritto al cuore. *** Non immaginavo che l’inferno consistesse in questo. Se sei cristiano i preti e la Chiesa ti costringono a pensare che qui te ne fanno di tutti i colori; invece esiste una sola pena uguale per tutti: guardare quello che succede nel mondo dei vivi. Appena arrivi all’inferno ti consegnano un paio di occhialini di plastica 3D e ti fanno accomodare su una poltrona davanti a uno schermo come quello che c’è al cinema. Tu non devi fare altro che guardare le immagini che vi scorrono sopra. Tutto questo non sarebbe male se a decidere le proiezioni fossi tu ma se così fosse che pena sarebbe? A me i film dell’orrore sono sempre piaciuti ma qui, a furia di guardare tante schifezze, ho finito per odiarli. La realtà supera di gran lunga la fantasia. Quello che ho fatto io è niente rispetto a quello che sono costretto a vedere ogni giorno sullo schermo. Testa pelata, il guardaspalle di Juan, siede accanto a me. Ci hanno messo vicino perché siamo arrivati con la stessa spedizione di anime dannate. Lui è qui perché quando faceva il buttafuori nelle discoteche aveva ammazzato un pischello strozzandolo con l’ausilio di una mano sola. Dice che neanche si era accorto di averlo fatto secco. Aveva evitato la galera perché era fuggito. Quanto a Juan mi ha raccontato un mucchio di retroscena raccapriccianti sulla sua vita privata; mi ha pure rimproverato di non essere stato capace di ammazzarlo. A proposito, eccolo là. Ma cosa sta facendo…?! Che gran pezzo di merda: ora comprendo perché la sorella mi aveva incaricato di ucciderlo…