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n° 368 - gennaio 2015 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lorenzo Gualtieri - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Edificio L - Strada 6 - Centro Direzionale Milanofiori I-20089 Rozzano (Milan, Italy) www.fondazione-menarini.it Molto più di un fumetto Un viaggio attraverso la “Pop Art” di Roy Lichtenstein alla GAM di Torino L’uomo contemporaneo è sempre più circondato di immagini, a volte ne viene sopraffatto, l’uso delle moderne tecnologie permette di immortalare e riprodurre qualunque frammento di vita, rendendolo sì indimenticabile perché bloccato nel tempo, ma anche una semplice goccia in un oceano privo di unicità. L’immagine è qualcosa che da sempre cerca di preservare la memoria, inizialmente come memoria del mondo della spiritualità e del potere, per poi diventare patrimonio di tutti, fino a essere oggi un vero e proprio “consumo di massa”, tramite marchi di prodotti, notizie, pubblicità e media in generale. Un forte cambiamento del valore dell’immagine, conseguentemente dell’arte, è stato avvertito negli anni ’50 del Novecento, inizialmente nel Regno Unito, e poi soprattutto negli Stati Uniti, dove ha avuto origine il fenomeno denominato “Pop Art”, che si poneva come rifiuto dell’eccessivo intellettualismo dell’Espressionismo astratto, basando invece la propria forza sui beni comuni, disponibili a tutti in ogni momento - pubblicità, fumetti, news, prodotti commerciali di vario genere, dalle zuppe ai detersivi.“Pop Art” viene dall’abbreviazione di popular, termine con cui non si indica il concetto di “popolare”, ma piuttosto “di massa”; la “Pop Art” non vuole essere una provocazione nello stile Dada, né un messaggio sociale, non vuole stimolare nessun tipo di ribellione, è più che altro una constatazione del mondo che cambia, dei nuovi metodi di produzione, dell’affermazione della nuova società dei consumi, della riproducibilità in serie di un qualsivoglia oggetto, senza intenti di critica o allarmismi; senza voler astrarre dalla nuova realtà cerca invece di includerla nel mondo artistico, creando nuove categorie, nuove forme disponibili: l’arte dovrà mettersi al passo con i tempi e diventare un fenomeno di massa, quindi non più godimento per pochi, ma narrazione della storia di tutti, dall’operaio, al ricco industriale, dalla sarta allo stilista d’alta moda. Roy Lichtenstein e Andy Warhol danno avvio alla “Pop Art” negli Stati Uniti e cominciano a usare i fumetti e le pubblicità come fonte d’ispirazione per le proprie opere, indipendentemente l’uno dall’altro; Topolino e Braccio di Ferro non sono più personaggi per appassionati lettori di giornalini, ma diventano vere e proprie opere d’arte; i titoli stessi delle creazioni di Lichtenstein suonano anomali, o meglio onomatopeici, Takka takka, Varoom, Crak, Whaam! e la tela stessa sembra gridarli. Questo nuovo tipo di arte incontrò forti opposizioni, perché sembrava quasi una provocazione verso la profondità emotiva dei dipinti degli espressionisti astratti: i critici tradizionali, che avevano da poco digerito le novità del dripping di Pollock, non apprezzavano questa nuova tendenza che si stava manifestando nella produzione artistica, e non celarono il loro disappunto, tanto che nel 1964 un articolo di Life su Lichtenstein si intitolava “È il peggior artista americano?” Il confine fra arte e design diveniva molto sottile con l’avanzare della “Pop Art”, motivo per cui si cercava ogni modo per poterla criticare sottolineandone ad esempio la banalità; non era certo la prima volta che il mondo dell’arte si apriva a quello della massa, ma fino a quel momento si era trattato di una prassi utile ad alleggerire contenuti troppo seri con note più basse ed aggressive, mentre con la “Pop Art” sembrava che avvenisse il contrario, e oggetti comuni divenivano indiscussi protagonisti. Lichtenstein fu accusato di copiare banalmente i fumetti e quindi di mancare di originalità, niente di più falso, però, Study for Pop! - Collezione Marsha and Jeffrey Perelman © Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014 pag. 2 Still Life with Mirror (Study) - Collezione privata Oh, Jeff...I Love You, Too...But... (Study) - Collezione privata © Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014 © Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014 visto che la sua “copia” avveniva in modi tutt’altro che scontati; l’artista selezionava accuratamente una o più tavole da una striscia di fumetti, dalle quali ricavava qualche schizzo, che trasferiva poi sulla tela senza mai ripetere il fumetto in ogni sua parte; una volta tracciata l’immagine sulla tela adattandola al piano pittorico, la riempiva di punti attraverso una griglia, una sorta di mascherina per lo stencil, usando colori primari e contorni spessi che facessero risaltare le figure; iniziava il disegno dalle parti in luce per poi passare il nero pesante dei contorni. Nonostante apparisse come una semplice riproduzione di un comune fumetto, la sua opera era in realtà uno studio e un’accurata unione di riproduzione meccanica e lavoro manuale, tanto che riusciva difficile distinguere l’uno dall’altra. Forse la tecnica di Lichtenstein è da considerare come il grido di un uomo che si sente sopraffatto dalle moderne tecnologie e che cerca di imitarle, mettendosi prima al loro pari e poi cercando di superarle. L’artista si interessa allo studio della percezione vi- siva per tutto l’arco della sua carriera e fa del puntino Ben Day la propria originalissima sigla, rubando la tecnica della retinatura alla tipografia; i puntini non sono utilizzati alla maniera del Pointillisme per far apparire omogenea la pittura a una certa distanza, ma piuttosto per dare l’idea della stampa, utilizzando un retino tipografico di dimensioni esasperate. L’inventore del “Ben Day Rapid Shading Medium” era stato Benjamin Day che nel 1878 aveva escogitato una applicazione “industriale” per i principi ottici sviluppati nel XIX secolo dai teorici del colore. Il carattere sensazionale e innovativo del puntino di Lichtenstein stava nell’interpretazione della realtà, che aveva subito un cambiamento radicale, in virtù del quale la vita era mediata da tutta l’immane mole di immagini che venivano stampate e trasmesse. Lichtenstein affermava ironicamente: «In quasi mezzo secolo di carriera ho dipinto fumetti e puntini per soli due anni. Possibile che nessuno si sia mai accorto che ho fatto altro?»; in effetti basare tutta l’opera di Li- pag. 3 chtenstein solo sulla fase dei puntini può rappresentare un limite per capire il lavoro dell’artista; per superare questo ostacolo la GAM, Galleria di Arte Moderna di Torino, ospita nelle sue sale dal 27 settembre 2014 al 25 gennaio 2015, ben 235 opere di Roy Lichtenstein che illustrano la nascita e l’evoluzione della tecnica del Ben Day nel suo percorso creativo; insieme a disegni che vanno dai primi anni Quaranta al 1997, sono presenti alcune grandi opere, che sono documentate anche da un apparato fotografico dell’artista a lavoro. La mostra, curata da Danilo Eccher, direttore della GAM, è incentrata sull’Opera Prima, cioè l’origine dell’opera di Lichtenstein, le sue fonti d’ispirazione, gli schizzi e i bozzetti e infine sulla sua opera compiuta. Dai lavori in mostra è possibile percepire il mondo della fantasia e del sogno che si apre nelle creazioni di Lichtenstein, come accade in quelle di Mirò e Dalì, da cui l’artista pare prendere spunto in alcuni disegni: occhi in mezzo ad una nuvola o ad un orecchio, figure scomposte, non solo nella tecnica di disegno, che usa in questo caso linee e tratti più che punti, ma anche in senso fisico, con bocche verticali e oggetti di una malleabilità e fluidità inverosimili, danno l’idea che Lichtenstein voglia comporre dei rebus con le sue figure; alle origini della sua opera vediamo quindi riferimenti al surrealismo e al dadaismo, ma più come forma di studio e ricerca che non per ragioni sociali; indaga le forme, ma lascia perdere i messaggi, la sua è pura creazione. È facile cadere nella tentazione di considerare Lichtenstein come semplice imitatore, ma è molto più di questo, la sua arte non è sola imitazione, trae ispirazione da un mondo comune agli occhi di molti per arrivare a qualcosa di più alto, per arrivare ad una vera rappresentazione artistica avvalendosi di soggetti considerati “banali”, riuscendo con questi anche ad avvicinarsi alle pure astrazioni. Spesso l’arte contemporanea pone di fronte a figure che si dissolvono nello sfondo, per abolire la profondità e dare totale piattezza alla superficie; Lichtenstein, come gli altri artisti pop, dà invece l’illusione dello spazio e la realtà di fatto della superficie, come se i personaggi dei fumetti avessero usurpato lo spazio metafisico delle figure geometriche di Malevich. Prima di approdare alla “Pop Art” Lichtenstein aveva fatto esperienza con uno stile espressionista, poi con un falso stile popolare con cui adattava temi americani, e per breve tempo con composizioni astratte; padroneggiava senza problemi una serie di tecniche di stili modernisti e di artifici delle avanguardie, come la pennellata gestuale con cui tracciare un’ombra o una macchia bianca per un riflesso, le forme astratte per la griglia, la pittura monocroma, il ready-made, l’immagine ritrovata. Tutto questo è tenuto insieme nella sua opera dai soggetti ispirati ad annunci pubblicitari e fumetti, da quella modalità figurativa che l’arte di avanguardia aveva cercato di rovesciare. Nel 1967 affermava «Non disegno un’immagine per riprodurla, ma per ricomporla. E non tento in tutti i modi di cambiarla, ma cerco di produrre il più basso numero di variazioni»; qui sta il nucleo della creatività di Lichtenstein: copiare immagini stampate ma adattarle a parametri pittorici. Matisse, Mondrian e Léger sono tutti presenti nei suoi quadri, letti attraverso i fumetti: l’ambiguità fra ombre e luci di Picasso, i colori primari di Mondrian, le figure semi caricaturali di Léger, il contorno marcato e soave di Matisse. Sul proprio linguaggio pittorico Lichtenstein affermava: «È legato al Cubismo nella stessa misura in cui lo è il cartone animato. C’è un rapporto tra i cartoni animati e artisti come Mirò o Picasso, che magari gli stessi disegnatori di cartoni non colgono, ma che è già presente nel primo Disney». L’indagine sulla Opera Prima di Lichtenstein è fondamentale per capire il percorso dell’artista, vedere cosa lo ha portato a determinate scelte e come ha dato vita ad una sorta di democratizzazione dell’arte che continua ancora oggi. elena aiazzi Study of Hands - Collezione privata © Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014