Anno 1 Numero 21d - 01.06.2008
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Anno 1 Numero 21d - 01.06.2008
emerge solo nell’ultima parte. Una sorta di percorso “evolutivo” dell’essere umano, dalla sua natura organica, passando per le codificazioni e le sovrastrutture imposte dalla società, fino al degrado e al nuovo imbarbarimento. Tre stati che corrispondono a tre diversi modi del danzare. Anno 1 Numero 21d - 01.06.2008 Le molteplici identità del signor P “N” di Alessandro Pintus, tra sacralità e dissacrazione di Mariateresa Surianello Un corpo raggomitolato che lentamente si distende, si allunga verso l’alto, ribaltando la sua verticalità, con quei piedi in aria come in un camminamento infinito. A lungo Alessandro Pintus mostra ogni dettaglio del movimento, ogni muscolo della schiena prima di ergersi a candela nel primo quadro di questo suo N, proposto sul palco del Palladium nella serata del 30 maggio, con la sigla Non Company. Nei giorni scorsi, lo avevamo già incontrato con l’etichetta V.I.T.R.I.O.L. questo attivissimo artista, nella performance Si sedes non is, che mescola il suo corpo alle proiezioni video e alla penetrante musica sintetizzata dal vivo. Ora con quest’altro network di artisti di varia formazione, Pintus sembra voler crea una piccola antologia del suo lavoro di danzatore. Tre spettacoli in circa novanta minuti, uniti da un sottile filo rosso, che La prima è decisamente un’apparizione butho, nella quale il corpo nudo di Pintus compare davanti a una suggestiva quinta vegetale illuminata da Riccardo Frezza – davanti alla quale lungamente si concede al flusso del movimento, immerso nella musica originale di Gabriele Quirici. E’ questa la dimensione originaria, in cui la materia vivente prende le sembianze umane. Dall’informe raggomitolamento iniziale il corpo del danzatore si dischiude, scivola verso il boccascena per poi alzarsi sulle gambe, impadronendosi della posizione eretta. Potrebbe finire qui, tra gli applausi del pubblico che non conosce lo spettacolo, né la generosità del protagonista. E invece Pintus, indossato un tutù, torna in scena per una lunga parodia del balletto classico. A piedi nudi, dal demi-plié in prima posizione lo vediamo procedere nel tentativo di un battement tendu, di un port de bras e un ronde de jambe. Sbuffando e sventolandosi il sudore, gioca (troppo) con l’intera sbarra di classico – tutta en dedans, ovviamente - prima di lanciarsi al “centro” in un grand jeté goffo e brutto. Tra un pas de bourrée e pas de chat, il lungo parodiare passa per La morte del cigno e giunge a Nijinski, a pose rubate all’iconografia dell’Après-midi d’un faune. L’ironia non è felice e la parte centrale di N si mostra in tutta la sua debolezza. Siamo lontani dai dissacranti, e molto borghesi, Trockadero di Monte Carlo che provocano grandi risate nelle platee ingioiellate di mezzo mondo, ma anche dal lieve accenno alla sbarra classica di Virgilio Sieni nel Solo Goldberg Improvisation, che provoca invece un riso sottile. Una risalita dei toni arriva con il terzo quadro, quando Pintus riappare vestito da gondoliere, con i piedi in una tinozza rossa come le righe della maglietta e il volant sul cappello di paglia. Siamo alla mimica da avanspettacolo, e si diverte molto il danzatore a saltare con la corda, che srotola dalla cintola, o a schizzare l’acqua di quel bagnapiedi. Guarda gli spettatori negli occhi e a un certo punto li incita: «Italiani...». Una sola parola si ode uscire dalla bocca muta di Pintus, che poi inizia un’invasione ripetuta della sala. Salta sulle poltrone fino a raggiungere l’ultima fila, e da lì poi esce di scena. Per continuare a darsi senza risparmio anche quando si ricolloca sul palco, quello dei ringraziamenti è un altro siparietto dell’infaticabile Alessandro Pintus. mentecatto. Morra, di Teatro Labrys, una giovane realtà di Frosinone, attenta ai problemi del contemporaneo, è uno spettacolo che senza aver nulla a che fare con la rosa di storie composte da Saviano, affronta il problema della camorra attraverso la Commedia dell’Arte. Non dunque una semplificazione della forma letteraria, ma il rilancio in una struttura ancora più complessa, quella della maschera, ossia dello strumento fondante del teatro e dell’archetipo tragico. Il testimone Storielle di fantasia più crudeli di verbali nel “Morra” di Teatro Labrys di Gian Maria Tosatti La storia ultimamente s’è sentita raccontare mille volte. E pare che la camorra in Italia sia uscita fuori tutta quest’anno. E per certi versi è vero. E forse merito va a Saviano che una volta tanto ha puntato l’obiettivo su un mondo di cui, prima di Gomorra, si conosceva bene solo il nome. L’unica cosa che c’è da sperare a questo punto è che non si abbia a soffrire l’effetto domino che s’innesca regolarmente in Italia quando un argomento tira. Insomma che passi di moda la mafia e che si comincino a fare fiction sulla camorra. Abbiamo retto La piovra, non reggeremo sicuramente ’O purpo. Ma più di tutto questo è vero perché a forza di parlarne, di renderlo alla portata di tutti, di farne il libro e poi il film del libro e poi la fiction del film e poi la puntata da Vespa sulla fiction, un argomento si semplifica fino a diventare un omogeneizzato (ossia una pappetta omogenea a tutto il resto, che si confonde con Cucuzza, con Bim Bum Bam e con I fatti vostri). Ed è già successo. Proprio con il libro di Saviano s’è impiccato uno dei più talentuosi giovani autori del cinema italiano, Matteo Garrone. Il suo Gomorra, vincitore a Cannes, è un film vuoto, di caratura ben inferiore rispetto alle storie affrontate in passato, dove la complessità dell’essere umano riusciva ad emergere in modo assai più acuminato. E poi, anzi prima, c’è stato lo spettacolo teatrale, una sorta di compitino che andava fatto ma che in quanto a “trasposizione di romanzo” non aveva nulla a che fare con la genialità con la quale Luca Ronconi ci ha abituati a questo genere. La puntata da Vespa forse c’è stata o forse no, ma nelle trasmissioni che si guardano più volentieri le declinazioni di Gomorra sono passate irresistibilmente. Manca la fiction… che dio ce la mandi buona e con la destra al governo speriamo che al suo posto si faccia finalmente quella benedetta serie su Federico Barbarossa che tanto voleva la Lega. Ma in tutta questa sovreccitazione camorristica una cosa c’è che si distingue. E forse il merito è quello di aver percorso all’inverso l’iter di semplificazione ormai divenuto imprescindibile per venire incontro all’italiano che si pretende Sul palcoscenico fa la sua comparsa una volta di più, con addosso tutta la stanchezza dei secoli e la saggezza, Pulcinella. Si presenta in modo brillante, ma è chiaro che sta fingendo, che sta facendo finta di niente, sta cercando di passare sopra a quell’imbarazzo iniziale che si prova quando qualcuno torna dopo così tanto tempo che ormai sembra uno straniero. Pulcinella scherza, sorride, il suo compito, il suo mestiere, è da sempre quello di ridurre la distanza fra sé e il pubblico. E allora comincia a raccontare e la sua maschera cava, nera, si rivela un abisso infinitamente più profondo di quanto non lo siano altre maschere, quelle dei giovani mafiosi, del sarto che lavora coi cinesi, dell’impresario della monnezza già pluri-raccontate. Nella sua espressione immobile c’è tutta la tremula complessità dell’immagine allo specchio, dell’occhio controverso del testimone. Tra il pubblico molta gente ride, qualcuno anche sguaiatamente. Dalle ristate del pubblico si riconosce addirittura chi vede le fiction e chi non le vede. Sono risate diverse. Risate di testimoni diversi. Per qualcuno la storiella raccontata dal narratore ante litteram è un aneddoto arricchito da infiniti lazzi. Per altri la questione è seria e provocatoria e anche i lazzi arrivano per allontanare la mannaia un secondo prima che la domanda si formuli completamente e dica: «Quanto credi che tutto questo sia lontano da te?», «Quanto credi che sia di fantasia il “villaggio dei puffi”(è il nome reale di uno dei quartieri periferici di Napoli)?», «Quanti chilometri di distanza ci sono tra le case popolari della città giardino di Garbatella e quelle delle vele di Scampia?». Pulcinella dice che c’è arrivato a piedi fino al palcoscenico su cui ora salta e balla. Ci ha messo dieci ore. A piedi. dostoevskismo dell’agonico personaggio di Faloppa, morto che parla, creatura pronta a ripiegarsi nella sua notte, sembrano dividere non solo due sensibilità ma addirittura due epoche della stessa memoria politica. Il fatto è che, a dispetto della voce fuori campo che ne struttura il dialogo – perentoria ma smaccatamente priva di qualità: una non-voce da riflusso esofageo della coscienza – Li corpi scuri non è uno spettacolo sulla puntualità della colpa ma sull’ambiguità della responsabilità e sull’estensione della complicità. E in questo senso, è tutto racchiuso in una delle risposte che quasi sfuggono dall’eloquio dormivegliante del suo singolare eroe: “voi non potete condannarmi, io non voglio assolvermi.” Lo spettro del socialismo La confessione di un craxiano in “Li corpi scuri” di Simone Faloppa di Attilio Scarpellini Chi non è socialista a vent’anni è un arido, chi lo è oltre i quaranta è un imbecille. G. B. Shaw Gli habitués di Teatri di Vetro dovrebbero ricordare, proprio un anno fa, L’assoluzione di Gianluca Riggi: un’irriverente conferenzaspettacolo dove si parlava di Giulio Andreotti e dei misteri d’Italia che ruotano attorno al più grande di tutti i misteri, una sopravvivenza umana e politica talmente tenace dal costringere i registi a imbalsamarne l’icona prima che il soggetto sia passato a miglior vita. Di sopravvivenze, o forse di reviviscenze spettrali e di risvegli vampireschi nei sotterranei della storia, parla anche Li corpi scuri, lo spettacolo con cui Simone Faloppa riapre le pagine spillate di un altro capitolo mai definitivamente scritto del romanzo italiano che ha per protagonista il socialismo craxiano. Ma le analogie tra i due spettacoli, che pur si sfiorano dalle parti del fallito golpe di Junio Valerio Borghese, si fermano qui. Se Riggi costruiva il suo dall’esterno, ricucendo demiurgicamente i fili slabbrati degli omissis e continuando a raccontare là dove la storia ufficiale si interrompe, Faloppa è immerso in un personaggio che, avvolto nella luce fioca di una specie di cripta funeraria, dove il cupo riflesso dei ceri fa brillare l’acciaio di due arcani monumenti (su uno dei quali troneggia una borsa impiegatizia che forse è quella famosa di Roberto Calvi o forse no: è solo il simbolo anonimo di tutte le burocrazie politico-affaristiche compromesse con la rendita politica), sprofonda a sua volta nell’infernum di un di un giudizio finale, incalzato dalla voce stentorea della giustizia in persona. E’ in questa differenza di colore morale, oltre che di registro – là si raccontava, qui si interpreta – che l’illuminismo di Riggi e il Le prove della corruzione che inquina i rapporti tra il pubblico e il privato, falsificando le condizioni del confronto democratico e portando allo snaturamento politico e all’implosione morale un piccolo partito (varrà la pena ricordarlo: il più antico e il primo in cui la classe operaia si organizza) non saranno mai all’altezza della diffusione del male che il giudizio dei giudici pretende di sradicare. Per questo tra gli inserimenti programmati nell’apocalittica evocazione di Faloppa, dove la corrosione ironica dei siparietti scherma un’impotenza triste, sfregiata, si insinua la vox clamans del Pasolini “parresiaste” (come lo ha definito Carla Benedetti) del romanzo delle stragi: è in quell’Io so scandito in brevi e ritmati colpi di maglio sulla corazza del Potere che la giustizia fa risuonare il suo paradosso che trascende i riscontri, vanficando alla radice ogni velleità di giacobinismo giudiziario (amici di Grillo e di Travaglio, leghisti e dipietristi della “pena certa” – leggete qua) che non si incarni in un processo di autoespiazione pubblica. Per questo, il “presidente” più volte evocato nella diafana confessione dell’ “uomo delle spalle strette” travestito da Faloppa, l’ex cinghialone dell’inchiesta Mani Pulite, è un’animale imprigionato nella passione esclusiva del potere (e con una chimica balzacchiana di passioni che si inseguono e si sostituiscono l’una con l’altra lo spiega intelligentemente l’ autore-attore) che alla fine è anche il capro espiatorio del sistema che ha perfezionato – vittima dei suoi stessi inganni, direbbe Shakespeare “come un lupo preso alla tagliola”. Per questo, il tono di verità di questi corpi scuri non va cercato tanto in quella rassegna di veri fatti che rotolano disastrosamente sulla reticenza, per altro mai completamente vinta, del protagonista, ma nella progressiva evanescenza della voce che li interiorizza ricostruendo attraverso di essi una malattia morale – la politica o sarebbe meglio dire l’iperpolitica, già sul punto di spettacolarizzarsi, degli anni Ottanta – che confonde coscienza e appartenenza, esistenza e partito, in un solo pseudo-concetto (non troppo lontano, toute proportion gardant, da quello che spingeva altri funzionari in altri tribunali a giustificare la propria collaborazione con il male con il senso del dovere burocratico). Stretto nelle spalle quasi si volesse incassare per sempre tra di esse, pallido, lamentoso e nel contempo arrogante, sfuggente e caustico – orrido eppure sincero come gli “insetti” dei romanzi di Dostoevskij – l’impiegato letteralmente immaginato da Faloppa è quasi un idealtipo weberiano provvisoriamente resuscitato sulla soglia di una definitiva archiviazione esistenziale: è tutto nella morale, poco nella psicologia, e mentre la sua confessione avanza, il suo corpo rachitico si restringe, seguendo il destino delle fiammelle dei lumini che spenge via via, come se la fedeltà politica che finalmente ha tradito fosse l’unica carne capace di rivestire la sua nullità. Piccola sonata di fantasmi, Li corpi scuri è un’evocazione spiritica così riuscita scenicamente, e tanto più straordinaria venendo da un interprete non ancora trentenne, dal farsi perdonare anche qualche incongruenza e alcune volute o involontarie ambiguità nel merito – mai nella forma – del suo racconto (i socialisti, ad esempio, non furono mai golpisti, e tanto meno potevano esserlo all’epoca di Borghese; e perché sottacere, a parte il cenno sul ’56, il senso profondo di quella rottura a sinistra che nel ’78 si tradusse nella differenza di atteggiamento, tra Pci e Psi, nei confronti del rapimento Moro?) Le derive della Storia che scuote ad ondate le pareti del sepolcro in cui i corpi scuri giacciono, del resto, sono ben lontane dall’esser decifrate, né gli spettri fugati. A suo modo, dividendosi tra la precisione del documento e il felice parossismo del monodramma, Faloppa racconta il crepuscolo della politica che non ha personalmente conosciuto, quella delle identità ideologiche prima corrotte e poi divelte, prima travolte e poi rimosse, dalla disinvoltura del Capitale postmodernista. A mio modo, guardando il suo spettacolo, ancora fremo di disagio per la parola “socialismo” che affonda senza più riemergere nel fango degli affari (questo oscuro sentimento, meno noto alla gioventù, si chiama disonore). Ma fin d’ora sia io che lui ce la dobbiamo vedere con la stessa post-democrazia che quel processo ha finito col produrre. Tra mito e normalità Doppia storia e doppio risultato per la Penelope del NaufragarMèDolce di Luigi Coluccio Agli antipodi del pianeta, degli esseri cantarono, e cantando crearono il mondo. In questo nostro lembo di terra, le prime parole del Vangelo di Giovanni declamano che «in principio era il Verbo...». Un lungo, cosciente, viaggio attraverso uno degli archetipi fondanti che, nascosto, sta nella foresta di simboli baudelariana in cui l’umanità è dispersa, ci viene offerto nella penultima giornata d i Te a t r i d i Ve t r o d a l l a c o m p a g n i a I l NaufragarMèDolce con lo spettacolo I fili di Penelope, presentato nella stupenda cornice del Lotto 15 della Garbatella. Gruppo teatrale romano composto da sole donne, fortemente impegnato nel sociale – ricordiamo la rassegna Teatro in cortile e la Festa dell’altra economia in cui la compagnia è alla direzione artistica ed organizzativa -, in una compenetrazione tra il fare teatro e il fare società che diventano indissolubili, il tutto attraverso la figura chiave del clown, assunto nella poetica del NaufragarMèDolce come l’elemento primo di ogni evento spettacolare che porta allo scoperchiamento dei meccanismi più alienanti e coercitivi della nostra società. Ma Tiziana Scrocca e Chiara Casarico – rispettivamente autrice del testo ed attrice la prima, regista la seconda -, in questo caso alzano il tiro affondando lo sguardo, e le parole, in una delle narrazioni maggiormente rivelatrici della nostra identità culturale: il viaggio di Ulisse verso casa, verso Itaca, verso la sua Penelope. Ed è proprio il punto di vista di Penelope che viene assunto come guida che attraversa trasversalmente l’immane canto omerico, in un interessante ribaltamento di prospettiva, e senso, che ci restituisce l’ennesima versione di un mito oramai divenuto infinito –o che forse lo è sempre stato. Veniamo dunque a conoscenza, attraverso le parole della stessa Penelope, dei venti, lunghi, anni, passati a tessere, disfare, e, soprattutto, raccontare. Perché in questo caso il cieco aedo di corte dalla bianca barba lascia il posto alla persona amata dallo stesso eroe eponimo, la cetra viene riposta a favore del telaio, l’uomo indietreggia per lasciare la scena alla donna... La quotidianità di Penelope – la cui effige viene posta efficacemente in apertura con l’entrata in scena della Scrocca da un portone dei palazzi del Lotto 15, con una “garbatellese” (per dirla all’Andrea Cosentino de La festa del paparacchio) alla finestra che cerca di dissuaderla dall’attendete ulteriormente il suo sposo - viene contrapposta alla extra-quotidianità di Ulisse, uomo in viaggio e in guerra da venti anni, in un accostamento di maschile e femminile in cui la donna, prigioniera secolare di quelle pastoie che il NaufragarMèDolce vorrebbe abbattere, si prende silenziosamente la sua rivincita attraverso la propria natura atavica di creatrice, tessitrice, madre e sposa – come le Moire greche che avevano il mondo e gli dei al loro giogo, Atropo, Cloto e Lachesi; come la donna ragno dei nativi americani che creò i due gemelli progenitori del genere umano, Kokiyangwuti; come la Mater Matuta etrusca, che discende per filiazione diretta dalla Grande Madre dai seni e dal corpo voluminosi adorata dagli uomini della Preistoria. Il lavoro del duo romano risveglia dormienti miti con il fondante uso della parola, cantata o recitata che sia, ri-proponendo così la creazione, e la salvezza, del mondo: così credevano gli aborigeni, il popolo degli antipodi citato in apertura di questo pezzo, secondo i quali il mondo era stato creato cantando, e fino a che una delle tribù di quella lontana terra avrebbe continuato a farlo, questo ultimo non sarebbe, semplicemente, finito; o come narratoci per rivelazione divina dagli apostoli riguardo il Verbo divino, che, articolato, ha dato vita al mondo. La prima parte dello spettacolo si erge su queste archetipiche fondamenta, dipingendoci, letteralmente, una Penelope in strenua attesa con il Tempo, seduto calorosamente accanto a lei. Viene ricordato, en passant e sotto un’altra forma, il paradosso zenoniano di Achille e della tartaruga, simbolo della proliferazione del finito nell’infinito, e qui assunto come titanica ed indomita lotta tra l’uomo e lo scorrere della vita. Caducità a cui la donna sembra sottrarsi con l’invenzione di storie, di storie della storia, arrivando ad un crocicchio già attraversato dalla Shahrazade delle Mille e una notte – e se pensiamo alla versione riferitaci da Jorge Luis Borges, secondo il quale al centro del libro stava il racconto proprio delle Mille e una notte, la vertigine dell’infinito, già presente con il paradosso di Zenone, assume contorni sempre più definiti e terribili (ed uno degli ultimi spettacoli del NaufragMèDolce si intitola proprio Figlie di Sherazade...). le sorti la regia della Casarico, incapace di dare una qualche spettacolarità scenica al raccontare della Scrocca, comunque brava a traghettare questo I fili di Penelope verso il naturale epilogo – che, leggendo la sterminata Odissea di Nikos Kazantzakis, sapremmo essere ben diverso da quanto lì raccontatoci... L’eccessiva lunghezza del resto dello spettacolo viene mitigata dal leit motiv che ha scandito lungo gli anni la lontananza di Penelope e Ulisse: il famoso valzer n.2 di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, magnificamente suonato da Roberto Mazzoli, in scena con fisarmonica, banjo, chitarra e voce. E, alla fine, ci chiediamo se, vista la malinconia e la tristezza e il sublime dell’opera di Šostakovič, non possa essere proprio il valzer del grande musicista russo quel canto delle Sirene tanto agognato dagli uomini, e che tanto ha dilaniato l’unico di loro che abbia mai osato udirlo. Purtroppo il resto dello spettacolo non mantiene le promesse iniziali, annacquandosi in una ostentata quotidianità che ben lungi dal rappresentare la naturale (?) indole di Penelope, non fa altro che appiattire quanto di mitico messo in campo nella riuscita prima parte. Non risolleva L’imbonitore, con piglio televisivo e smorfie demenziali, porta per mano il pubblico nel cuore di uno spettacolo “politicamente scorretto”, ovvero di una sorta di manuale del perfetto guerrigliero urbano che viene istruito su come ridurre gli effetti dei gas sparati dalla polizia, sul Parole fuori scena Esempio di drammaturgia “dall’esterno” per Margine Operativo di Graziano Graziani Ripubblichiamo la critica di dello spettacolo Guerriglia Live Show apparsa sul numero 16 di questa rivista. Il rimosso della retorica e quello della società Nel mezzo della scena troviamo due musicisti (Andrea “Lako” Cota, voce e chitarra; Federico Camici, basso), camicie scure e cravatte rosse fiammanti, intenti a suonare il jingle che apre e accompagna il Guerriglia Live Show per tutta la sua durata. Quasi sommersi tra i cavi, gli strumenti, l’amplificazione e i video su cui prede vita lo show, sono proprio loro gli unici elementi biologici dello spettacolo di Margine Operativo, presentato a Roma all’Horus Occupato [4 e 5 aprile] e a Esc [16 aprile]. Eppure Guerriglia Live Show – titolo e contenuto della performance video-musicale della compagnia romana – è uno spettacolo che si basa su un testo, una drammaturgia che viene detta in scena. O meglio, fuori dalla scena. Perché l’istrionico presentatore dello show, un trascinante Nicola Danesi De Luca in completo bianco e occhiali scuri, si presenta al pubblico affacciandosi dagli schermi di varie dimensioni che attorniano la band. Ma fisicamente non c’è, si tratta di una registrazione realizzata da Riot Generation Video e mixata in scena con gli altri elementi da Alessandra Ferraro e Pako Graziani, ideatori e registi, e arricchita dalle luci di Diego Labonia. perché le mazze da baseball hanno una calibratura che favorisce l’assestamento di colpi potenti, sull’indubbia utilità dei sampietrini come strumento per respingere le cariche dei celerini (in francese si dice “pavè”, che fa più chic…). Ma ogni manuale che si rispetti, che voglia essere più di una semplice sequenza di “consigli utili”, deve aggiungere un tocco di raffinata erudizione: è così che apprendiamo l’etimologia del termine guerriglia («piccola guerra»), di derivazione spagnola, e che la paternità delle bombe Molotov non è, come si crede abitualmente, attribuibile all’omonimo generale russo. Libero adattamento di alcune e-mail scambiate in rete tra ultras italiani e casseur francesi durante la seconda rivolta delle Banlieues, il testo di questo varietà abusivo e grottesco guarda con graffiante ironia all’«estetica del conflitto» che accompagna le manifestazioni radicali di dissenso – un’ironia tanto più tagliente se si tiene conto del fatto che Margine Operativo da sempre interpreta il proprio lavoro come un’indissolubile azione tra performance artistica e militanza politica [e non è casuale la scelta di portare lo spettacolo principalmente negli spazi occupati]. E soprattutto lo fa senza morali preconfezionate, e con il merito di esplicitare una realtà che la narrazione sociale main-stream semplicemente nega, perché non è in grado di relazionarcisi. Rovescio della medaglia di un mondo istituzionale (europeo) sempre meno in grado di rapportarsi al disagio e al dissenso in modo alternativo alla repressione. Da un certo punto di vista, dunque, Guerriglia Live Show è uno spettacolo sulla rimozione, e lo è a partire dagli elementi che lo compongono: un attore che non c’è, un testo che non è un testo, uno spettacolo che per una buona metà parla di sé, del proprio essere politicamente scorretto e di ciò che lo spettatore deve “prepararsi ad assistere”. Ma in questo rimandare costantemente altrove, lo spettacolo di Margine Operativo riesce a evocare l’oggetto di cui vuole parlare meglio che se lo rappresentasse. La parola è fisicamente fuori dalla scena, e la drammaturgia, riducendosi a una continua didascalia, è fuori del meccanismo drammaturgico. Eppure in questo modo Guerriglia Live Show fa esplodere il potenziale corrosivo delle parole che danno origine allo spettacolo, e al contempo ne mette in luce il lato grottesco. Ricco di citazioni filmiche fin dall’abbigliamento della band, Guerriglia Live Show fa pensare al teatro delle disillusioni creato da David Lynch in Mullholland Drive, pur “risintonizzato” su un’atmosfera radicalmente diversa, ironicogrottesca e in parte decisamente ludica. Se nel teatro di Lynch “no hay banda” e la voce della cantante spagnola che realmente piange è in realtà un’esecuzione in playback, qui siamo in presenza di un “live show” eseguito dal vivo ma recitato in differita, di uno slittamento nel tempo e nello spazio – o più semplicemente nell’indistinto flusso mediatico in un cui siamo immersi, unico “luogo” ancora in grado di reificare la realtà, attribuendole lo status di “fatto”. Tutto il resto, comprese le parole reali delle e-mail reali che hanno dato origine a questo spettacolo, sono altrove, come la realtà che le ha generate: relegate al di là dei confini tracciati dalla paura su cui si edificano le nostre società ipocondriache, talmente disabituate a guardare negli occhi dell’altro da restare stupiti nel constatarne semplicemente l’esistenza. Tra mangiatoie e morte la vita tenta ancora la via del sogno Convincente traslazione dell’Amleto nella provincia bresciana per Riccardo Festa di Giacomo d’Alelio «La vita è sogno, soltanto un sogno, sogno di un sogno». È l’incipit del film Picnic ad Hanging Rock, uno dei capolavori di Peter Weir, regista australiano che al cinema ha segnato altri colpi vincenti con Witness – Il Testimone, L’attimo fuggente, The Truman Show. Epigramma sulla tomba della vita di due giovani donne disperse tra le montagne australiane agli albori del novecento, che reclama ispirazione dalle nobili origini shakespeariane del Sogno di una notte di mezza estate, l’opera più fatata del bardo William, che, onorando il mondo della fantasia, nascondeva il ritorno prepotente della vita reale con l’incedere stanco e inevitabile della morte, anche del sogno. Ciò che è incomprensibile nel suo avverarsi e riproporsi ciclicamente – morte (in tutte le sue possibili nomenclature), trasformazioni epocali, passaggio da uno stato sociale all’altro - è stato tentato, nella storia della Storia, nella sua esplicazione, condensazione paradigmatica, in più forme, la più usata, talvolta abusata, quella dell’arte. La via più felice, vibrando, nei casi più fortunati, nel proprio sottosuolo tristezza latente, è quella della Commedia, che fa guardare l’Uomo all’arte della vita, riconoscendola e ridendone, per catarticamente riappropriarsene. Chissà quanto abbia potuto riflettere su tutto questo - o semmai anche su molto di più - il trentenne regista, attore, commediografo (drammaturgo?) Riccardo Festa, bresciano doc, proveniente dalla scuola formativa della compagnia Quelli di Grock di Milano, e sul canale satellitare di Coming Soon con una sua trasmissione per permettersi di coltivare ciò che lo nutre e lo fa sperare: il teatro. Nel suo Ameleto dei porselli, opera passata il 31 maggio fra i Teatri di Vetro - ispirata ovviamente all’Amleto shakespeariano, o ancor meglio, nell’utilizzo della sua lingua vulgata (un dialetto bresciano antichizzato e italianizzato) dagli effetti ilari sorprendenti sul pubblico, all’Ambleto del compianto Giovanni Testori – sporca con la terra e le mangiatoie delle sue campagne lo specchio deformato su cui si riflette la realtà, fissando un’opera convincente, che vive di grottesco passando dal registro comico a quello drammatico. La storia più o meno nota al Mondo dell’Amleto, insanamente lucido e pronto alla vendetta, teschio in mano, riflessione a collatere, ma per questo centrale come sempre in Shakespeare, sulla finzione e il ruolo dell’uomo nel suo essere attore nella e della vita – ereditata e sviluppata in modo sorprendente da Tom Stoppard nel suo Rosencrantz e Guildenstern are dead – si ritrova, condensata in un’ora e quindici minuti in quadri da Gruppo di famiglia in un interno di viscontiana memoria, qui distorta dalla risata, con la vicenda del folle e immaturo Ameleto, sognatore fin troppo concreto che guarda al suo mondo ponendosi nella posizione di narratore e attore. Nei sempre magici Lotti della Garbatella - in questo caso il numero fortunato è il 25 – inizia la sua storia il giovane interpretato da Riccardo Festa, con le prime battute ispirate all’Inzipit testoriano che nell’Ambleto di Sandro Lombardi ha trovato la sua summa. L’ambientazione e gli oggetti di scena provengono dalla campagna, lui, come il resto dell’allegra brigata, vestito di mantellina e scarponi che richiamano l’Italia rurale de L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Toglie un panno scuro che svela in scena una cornice all’interno della quale, tableau vivant, sono contenuti tutti gli altri personaggi, la sua famiglia, i suoi fantasmi, che prenderanno vita, narrati dal suo punto di vista, e per questo estremizzati nelle loro peculiarità e difetti deformati. Lorenzo Bartoli, Serena Brindisi, Alessandro Federico, Elisabetta Ferrari, Salvatore Li Causi, e Riccardo Festa, racchiudono il sogno di un passato felice, giocato e gioiso, che si ispira ancora, nella loro cialtroneria, a Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno dalla novella di Giulio Cesare Croce. Si gioca con la religione, con i tic di tutte le province, nel dispiegarsi della vulgata che straripa dai corpi “vivi” dei bravi interpreti, citazioni cinematografiche che non mancano, come dal Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, in passaggi repentini da un quadro all’altro, da una scena all’altra, fatti con pochi e semplici gesti e oggetti. Il pubblico ride, di gusto, fragorosamente, e forse non si accorge della virata del registro da comico a drammatico. L’Ameleto, parafrasando il famoso Essere o non essere, dice: “M’accopo o non m’accopo”. Mi uccido o non mi uccido. E non è rivolto solo a se stesso, ma a un’epoca, alla semplicità rurale mangiata dalla brama di profitto del moderno che avanza. Moriranno tutti gli altri personaggi, racchiusi di nuovo sul finale dalla cornice sostenuta da Ameleto. Il viaggio nel suo immaginario si è concluso, il suo sogno ha avuto termine. Gli rimane il tentare di sopravvivere al freddo che avanza, in stanze tristi e solitarie di un’epoca ingenerosa con chi reclamava il sapore schietto della terra, e della sua storia. Il coraggio di ridiscutere Aspetti positivi e meno positivi in Volevo un gatto nero di Cie Twain di Gian Maria Tosatti Il punto di partenza è estremamente interessante. E già dal titolo, dall’immagine di locandina, si capisce che l’intento è quello di scoperchiare, di alzare la gonna alla parte più palpitante del femminile, quella della sfera sensibile, del rapporto con le cose, con la materia, con l’identità, ovverosia quel mondo senza nomi che è l’oggetto del desiderio nell’infanzia ma che fa assai presto a trasformarsi in un casellario di codici senza più fascino o potere. E allora bambine sono le danzatrici, due protagoniste capaci di entrare dentro il paradosso del doppio e nel suo riecheggiare misteriosamente durante il periodo dei primi anni l’unità platonica. La percezione di uno passa attraverso due in un gioco di specchi o di complementarità. Da qui inizia quello che la stessa coreografa Loredana Parrella definisce quasi come un trattato in più punti sull’infanzia, in cui tutto torna, ma che forse vede proprio qui il suo principale limite. Pezzo dopo pezzo, attraverso momenti più o meno luminosi, si assiste ad una rassegna orizzontale di possibilità del femminile che però non raggiungono – o non vogliono raggiungere – la sintesi. E tutto finisce per reggersi sul bastone insidioso e artisticamente controverso della didascalia. Didascalica è la costruzione e la proposizione dei passaggi, e addirittura certe figure in scena sono vera e propria didascalia e niente di più. Un eccesso che brucia quanto di buono c’è in quest’opera che parte da un “sapere di danza”, che una volta tanto non sembra improvvisato, non sembra fare della disciplina artistica solo un pretesto per portare in scena un’idea. Cie Twain sa danzare, ossia fa la cosa più difficile, ma poi si taglia le gambe finendo nelle pastoie della composizione e della scelta linguistica. Didascalismo a parte c’è infatti un altro problema a rendere opaca la linea del lavoro e consiste tutta in un conflitto interno, in un indugio che non sceglie fra una impostazione narrativa e un registro più contemporaneo. Due anime queste che convivono nello spettacolo, ma che finiscono per annullarsi vicendevolmente sottraendo forza al livello più spontanea del lavoro. Questo è quanto, ma l’analisi compiuta, per una volta, non è distruttiva come può sembrare. Nel presente spettacolo di Cie Twain il problema sta nell’opacità e non nella mancanza di materiale o di buone intuizioni. Se la compagnia trovasse il coraggio di riaffondare impietosamente le mani dentro la struttura pulendone le radici dal parassitismo della didascalia e degli aspetti più narrativi, questo Volevo un gatto nero avrebbe tutte le potenzialità per rivelarsi tra le più sorprendenti ed interessanti proposte che la danza contemporanea romana abbia proposto in questi anni e per lanciare definitivamente una realtà artistica di qualità che agisce in uno specifico territorio della danza che nel Lazio non ha ancora un capofila. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.