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Mia madre alle feste di carnevale si ostinava a vestirmi
da clown. Non mi risparmiava il naso rosso, dei pantaloni larghi e rattoppati e un terribile gilè giallo canarino.
L’apice della femminilità, insomma. Ogni anno, quando
a scuola si cominciava a parlare di feste e merende in maschera, mentre tutti facevano i salti di gioia, io mi incupivo, rispondevo male a compagni e professori, e mi preparavo per la battaglia da combattere a casa. Non l’avevo
mai avuta vinta ma il mio desiderio, da che ho memoria,
è sempre stato quello di indossare il costume di Wonder
Woman.
«Cocca mia» mi diceva la nonna accarezzandomi la
testa, «se vuoi ti cucio una mantella per fare Cappuccetto
Rosso, ma quel costume non va bene per la tua età, è
difficile ed è tutto scosciato.» Avevo sempre ottenuto
dei rifiuti secchi. E la scusa era sempre la stessa: mia
madre, come mia nonna, sosteneva che era troppo
complesso da realizzare e tra shorts di raso blu, top,
cintura e coroncina, in famiglia nessuno era in grado di
confezionarmene uno. Replicavo che a casa dei nonni
c’era una meravigliosa macchina da cucire, una Singer
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incastonata in un tavolino dotato di pedale in ferro battuto, di certo con quella non sarebbe stata un’impresa.
Eppure, nonostante le mie insistenze di ragazzina testarda, non sono mai riuscita a travestirmi come il mio personaggio preferito.
Non ho mai capito se non volevano concedermi il costume perché avrebbe significato troppo lavoro o perché era troppo osé. So solo che durante le festività,
quando mangiavo chili di chiacchiere fritte senza pensare alla bilancia, mi addormentavo sperando di trasformarmi in Wonder Woman, almeno nel mondo dei sogni.
Me la immaginavo nella sua versione televisiva, interpretata dalla bellissima Lynda Carter. Chiudevo gli occhi e
mi vedevo girare su me stessa, poi l’improvvisa esplosione, ed ecco che diventavo lei.
Ero la più grande ammiratrice di quella donna dalla forza sovrumana, io che ero minuta; con una chioma
folta e nera, io che ero una biondina dai capelli sottili;
con gli stivali rossi e il corpetto strizzato da un cinturone
dorato, io che indossavo pantaloni con l’elastico in vita.
Se di giorno ero quella che ero, di notte potevo tramutarmi nella principessa amazzone che volava e correva a velocità supersonica, che con un lazo d’oro era
capace di catturare chiunque, che era coraggiosa e temibile al tempo stesso. Una super eroina dall’identità segreta, con gli occhi azzurri. Come i miei.
Un giorno, in una delle cento scatole in cui archivio
di tutto, da biglietti da visita a francobolli, da post-it ad
articoli di giornale, ho trovato una cartolina lucida. Non
so da dove venisse fuori ma mi ha messo addosso un’allegria contagiosa nonostante il periodo di cure pesanti.
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«Chi è quella principessa che sorride?» ha chiesto mia
figlia, vedendomi contenta.
«Ma come chi è! È Wonder Woman!» In quel momento ho capito di essere una vecchia bacucca. Ma non
importava, perché quel giorno ho realizzato che ero diventata un po’ come lei. E ho pensato che siamo in tante. Di Wondy mamme, Wondy amiche, Wondy colleghe
ne esistono migliaia: lavorano con passione, gestiscono
la casa e l’agenda di tutta la famiglia, coltivano le amicizie e hanno cento interessi. Supereroine multitasking
che si muovono a velocità supersonica e, nelle avversità,
sanno come prendere in mano la situazione senza abbattersi e mantenendo il sorriso.
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