La forca a Foggia - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna

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La forca a Foggia - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna
Pasquale Di Cicco
La forca a Foggia
di Pasquale di Cicco
Del plurisecolare e ben noto istituto della Dogana della mena delle pecore
di Puglia pare opportuno in questa sede rammentare, a mero scopo introduttivo,
solo qualche aspetto fondamentale, rinviando per altri ragguagli, oltre che alla
nutrita bibliografia in argomento e alle tante allegazioni forensi manoscritte
e a stampa rinvenibili in vari luoghi di conservazione, innanzitutto alla copiosa
documentazione originale che è nell’Archivio di Stato di Foggia.1
Conquistato il regno di Napoli, dopo la lunga guerra con Renato d’Angiò
(1435-1442) che aveva avuto Abruzzo e Puglia per teatri principali, Alfonso I
d’Aragona volle riorganizzare su basi più solide la dohana pecudum, l’istituzione di
grande rilievo fiscale che amministrava i pascoli del Tavoliere e che, sovrintendendo
alla transumanza annuale delle greggi dall’Abruzzo, dal Molise e da altre province,
regolava la più antica industria meridionale.2
Il primo e più fedele esecutore della politica economica alfonsina relativa
ai pascoli pugliesi ed al loro utilizzo, dopo la crisi per le guerre ed i disordini, fu
il catalano Francesco Montluber, cui il privilegio sovrano del 1 agosto 1447, da
Tivoli, attribuì ampi poteri.3
Questi, negli anni in cui esercitò la carica di doganiere (1447-1459), delineò
una struttura organizzativa del restaurato istituto che in buona sostanza era
destinata a conservare efficace funzionalità sino ai primi anni del XIX secolo, vale
a dire sino all’estrema fase crepuscolare della Dogana.
Il menzionato privilegio apportò radicali innovazioni nel mondo della
1
Sull’archivio doganale, impoverito ormai della sua più antica documentazione ma di entità ancora cospicua (oltre 175.000 pezzi relativi agli anni 1536-1806), cfr. il mio Fonti per la storia della Dogana delle pecore
nell’Archivio di Stato di Foggia, in Mélanges de l’Ecole Francaise de Rome, Moyen Age-Temps modernes, t.
100, 1988, 2 (La transumance dans les pays méditerranées du XV au XIX siècle), pp. 937-946.
2
Nella sua essenza la Dogana delle pecore è istituzione molto remota, le cui tracce più sicure ed antiche
possono trovarsi già nel IV secolo a.C. e le vicende seguirsi in una lunga e secolare successione.
3
Il Montluber, familiare del primo sovrano aragonese di Napoli, commissario della Dogana già nel 1444,
ne viene nominato doganiere a vita nel 1447. Il privilegio alfonsino non ci è pervenuto in originale. La sua
prima trascrizione è offerta da Marcantonio Coda, Breve discorso del principio, privilegi et instruttioni della
Regia dohana della mena delle pecore in Puglia, Napoli 1666 e Trani 1698, pp. 4-9, ed è riportata integralmente da vari altri autori doganali (Brencola, de Dominicis, Palumbo, De Meis).
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transumanza meridionale. Esso imponeva ai pastori del regno l’obbligo di calare
ogni anno con le loro greggi ai pascoli del Tavoliere, offrendo in cambio l’impegno
della Regia Corte, e quindi della Dogana, su fornitura di erbaggi adeguati al
bisogno, protezione durante il viaggio da e per i luoghi di provenienza, percorsi
riservati e sgombri da ogni impedimento, esenzione da dazi, gabelle, diritti di
passi e di ponti, regi, baronali o universali, facilitazioni di pagamento della fida,
garanzia di vendita della lana, sale per gli animali a prezzo ridotto, detenzione di
armi. E infine, elemento importantissimo, prometteva loro un foro privilegiato,
con l’esenzione da ogni altro giudice che non fosse quello doganale.
Al di là delle interessate e contrastanti interpretazioni che spesso se ne fecero
nel corso di più secoli, la lettera della norma sovrana era chiara in proposito: «...
et quia inter conductores dictae menae, pastores, gregarios, et patronos dictarum
pecudum et aliorum animalium solent rixae, et controversiae diversarum causarum
saepius evenire, de quibus rixis, controversiis et causis nos tantum cognoscere
volumus, propterea vos praedictum Franciscum iudicem, gubernatorem et
capitaneum super dictis conductoribus, pastoribus, gregariis et patronis, et super
eorum rixis et controversiis statuimus, ac etiam ordinamus cum plena iurisdictione
civili et criminali, mero et mixto imperio, ac gladii potestate...».
Queste parole fissavano risolutamente il principio della derogatio fori,
facendo del Montluber e, dopo di lui, degli altri doganieri il solo titolare del pieno
ed effettivo potere giurisdizionale sui locati, l’unico giudice competente delle cause
pastorali in maniera esclusiva e generale, cum plena iuridictione civili et criminali,
mero et mixto imperio, ac gladii potestate, con il potere cioè di infliggere anche le
più gravi pene corporali, inclusa quella capitale.4
Non molto tempo fa qualche studioso ha espresso il suo scetticismo circa
l’applicazione concreta da parte del Tribunale della Dogana della gladii potestas,
presumibilmente perché non ne aveva rinvenute chiare tracce nella documentazione
dell’archivio doganale, in particolare nella serie IX che riguarda i processi criminali
trattati dal Tribunale.
È stato ritenuto cioè che è vero che la Dogana aveva il potere di condannare
a morte le persone giudicate colpevoli, ma che poi nella realtà non lo esercitasse
effettivamente.
Fatto è che una tale conclusione, poggiata sulle sole carte della menzionata
serie archivistica, risulta fondata su basi insufficienti e su una documentazione
abbastanza esigua.
4
Sinora sono stati riportati testualmente alcuni brani di un mio lavoro edito diversi anni fa, dal titolo Una
giurisdizione speciale nel Regno di Napoli: il Tribunale della Dogana delle pecore di Puglia (secc. XV-XIX),
in «la Capitanata», Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia, anno XXXIV, genn.-giu. ’87, parte
I, pp. 37- 87.
Ad esso rimando il lettore per un approfondimento conoscitivo sia della struttura dell’organismo doganale, sia, specialmente, del foro privilegiato dei pastori.
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Invero l’attuale serie doganale dei processi criminali (in tutto 108 buste con
1903 fascicoli relativi agli anni 1765-1802) rappresenta solo un misero resto di
quelle scritture che un tempo formavano l’imponente settore penale dell’archivio
dell’istituzione, fortemente falcidiato però nella seconda decade dell’Ottocento.
Fu allora infatti che il ministro delle Finanze, volendo liberare alcuni ambienti
di palazzo Dogana delle carte in essi contenute e poterli così destinare all’uso
dell’archivio dell’Intendenza, con sua disposizione del 12 novembre 1814 stabilì
che le scritture criminali della Dogana di data anteriore al trentennio venissero
bruciate.
L’attuazione di un tale ordine comportò il bruciamento di un numero
indeterminato di antichi processi dal 1500 al 1600, nonché di ben 16.169 fascicoli
penali, misura questa che fece scomparire quasi del tutto le testimonianze
dell’attività penale svolta nei secoli dall’istituzione foggiana.5
Restano solo 78 processi trattati dal tribunale foggiano e relativi a omicidi
e non moltissimi di essi contengono la sentenza con cui si conclusero. Quelli che
invece la racchiudono, in tutto 26, riportano quasi tutti sentenze che comminavano
condanne ad un numero variabile di anni di presidio chiuso, di relegazione in
qualche isola o sancivano la pena di andare a remare nelle patrie galee per un
certo tempo, la cui espiazione di solito era seguita dalla pena dell’esilio (remiget et
remigando personaliter in Regiis Triremibus Suae Maiestatis per annos ... continuos,
quo tempore expleto exfractet a Regno).
Soltanto due sentenze impongono la condanna alle galee vita durante, ed una
sola addirittura prevede la pena di morte per impiccagione, commutata poi, in sede
di revisione, in 25 anni di galea e nel successivo sfratto dal Regno.6
Quel poco che resta a documentare l’attività penale del Tribunale della
Dogana non consente, dunque, di stabilire in tutta sicurezza se realmente esso
applicasse la gladii potestas.
La prova certa, però, dell’applicazione effettiva del disposto del privilegio
alfonsino, non chiaramente fornita dalle superstiti scritture penali dell’archivio
doganale, esiste altrove, e precisamente nelle scritture dell’archivio storico della
diocesi di Foggia.
Questo archivio difatti conserva, fra l’altro, le carte della congrega dei
5
Archivio di Stato di Foggia, Dogana delle pecore di Puglia, s. V, b. 1244, fascc. 6622, 6622/1.
Ibidem, s. IX, b. 107, fasc. 1884. Conviene presumere che questo processo sia stato ignorato o erroneamente inteso da chi ha manifestato dubbi circa l’applicazione della gladii potestas. Esso si riferisce al “barbaro
ed appensato omicidio a colpo di schioppo nella persona di Angela Mastropietrantonio di Conversano”, “di
anni 17, di vaghezza, onestà e buoni costumi” (vien detto nel “Fatto”), commesso da Pietro di Frenza.
Questi, difeso dall’avv. Vincenzo La Monaca, e condannato il 13 settembre 1793 a morire sulle forche dal
Tribunale doganale (Vecchioni, De Rinaldo, Accinni; Radogni, segretario) produsse gravame alla Sommaria.
Successivamente, nel 1797, chiese al Re la grazia della vita e lo stesso fece sua madre Caterina Ferri. Il 15
novembre 1800 al governatore doganale Vincenzo Sanseverino fu comunicato l’esito del ricorso inoltrato dal
di Frenza.
6
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Bianchi che, come è noto, aveva tra le finalità istituzionali l’assistenza e la sepoltura
dei condannati a morte.7
Particolarmente preziosi nel caso specifico due documenti di questo archivio
facenti parte della busta 181, vale a dire il Registro delli giustiziati. Memorie
delle spese e delle messe (fasc. 2243, anni 1786-1787) ed il Libro de’ condannati
a morte dal Tribunale della R. Dogana di Foggia e giustiziati coll’assistenza della
Compagnia de’ Bianchi di S. Antonio Abate di detta (fasc. 2244, anni 1754-1782).
Essi informano che il Tribunale della Dogana dal 1752 al 1787 condannò a morte
ben 10 volte e giustiziò 17 individui.
L’uso incrociato delle pagine di questi due importanti documenti - il secondo
venne rinnovato nel 1805 dal fratello segretario Filippo Valentini - consente di
mettere insieme una serie di notizie che si ascrive a pregio riportare di seguito.
- Bartolomeo Bartimmo e Gaetano Parente di ..., condannati a morte per
i loro gravi delitti vennero posti separatamente in cappelle sopra il palazzo della
Dogana e vi rimasero per cinque giorni ‘per la tardanza de’ Ministri di giustizia
Boia e tirapiedi’; furono afforcati nel largo vicino alla chiesa di S. Lazzaro8 il 7
settembre 1754 e ‘bruggiati li chiappitelli’. Spese occorse: ducati 41, grana 5 ed un
quarto.
- Samuele Iazurro di Castelluccio Acquaborrana, condannato per i suoi gravi
misfatti, fu afforcato vicino alla chiesa di S. Lazzaro il 2 luglio 1755 e seppellito
nella fossa di S. Antonio Abate. Spese occorse: duc. 16, gr. 81.
- Domenico Chirico del Valle di Noja, condannato per i suoi gravi eccessi,
afforcato vicino S. Lazzaro il 16 settembre 1756 e seppellito nella solita fossa. Spese
occorse: duc. 22, gr. 23 e mezzo.
- Giacomo Antonio Santomureno di Stigliano, condannato per i suoi delitti,
afforcato a S. Lazzaro il 19 aprile 1760. Spese occorse: duc. 12, gr. 8.
- Domenico Porco di Caroleno e Pietro Spinelli di Celifalco furono portati
fuori l’abitato nel luogo detto l’Epitaffio ‘ne’ Mezanoni’ (distante da Foggia circa
otto miglia) ed ivi afforcati il 22 ottobre 1761. Boia Donato d’Arrigo venuto dal
7
La confraternita sotto il titolo dell’Immacolata Concezione, fondata nel 1546, si riuniva nella chiesa di
S. Antonio Abate, abbattuta nel 1935 e sita dove ora è l’ Unicredit. Non si sa quando essa scomparve, ma
forse terminò la sua attività durante il Decennio francese, quando la chiesa divenne deposito per le reclute, e
i fedeli passarono nella chiesa della Misericordia, chiamata comunemente dei Morti ( M. Di Gioia, La Diocesi
di Foggia, Foggia, Stabilimento Tipografico F.lli Leone, 1955, p. 246; Id., Foggia sacra ieri ed oggi, Foggia,
Amministrazione Provinciale di Capitanata, 1984, pp. 215-16). L’archivio dei Bianchi, che ora è in quello
diocesano, comprende scritture dal 1643 al 1948, fra cui notevoli i regi assensi di Carlo III e di Ferdinando IV
di Borbone, gli elenchi dei fratelli e delle sorelle, i libri delle conclusioni dal 1645 al 1863.
8
La chiesa di S. Lazzaro vescovo sorgeva sulla destra del viale di accesso al cimitero, presso la via di Manfredonia. Fu abbattuta nel 1931 (Di Gioia, Diocesi, cit., p. 280; Id., Foggia sacra, cit., pp.75-79.
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Tribunale di Montefusco; tirapiedi N.N. venuto da Lucera. Seppelliti nel solito
luogo; arsi i chiappitelli. Spese occorse: duc. 32.
- Gennaro de Dominicis alias Gammaro di Troia, condannato “per decreto
e condanna del consigliere Gennaro Pallante residente in Ariano”, portato dalla
soldatesca fuori l’abitato di Foggia dietro la chiesa di S. Nicola e Santa Croce nel
mezzo del regio tratturo, ivi afforcato il 4 luglio 1766 e poi seppellito in S. Antonio
Abate. Arso il chiappitello. Spese occorse: duc. 4, gr. 9.
- Gennaro Lamedica di Torremaggiore e Giuseppe Marano di Caserta
furono portati dai soldati fuori l’abitato, un miglio lontano dalla città in mezzo alla
strada nuova che conduce a Napoli; il Lamedica prima trascinato sopra un tavolo,
poi su una carretta coperta insieme ai sacerdoti, ai Bianchi ed ai soldati ed afforcato
l’8 maggio 1781; boia Donato d’Errico (!) venuto da Montefusco, tirapiedi venuto
da Napoli; il Marano appiccato a Troia vicino il casino d’Ingrosso. Spese occorse:
duc. 39, gr. 53.
- Pasquale Schirò alias Gambacorta di Barile morì sulla forca il 12 luglio
1782 al largo di S. Lazzaro, carnefice mastro Donato d’Arrigo da Montefusco.
Sepolto nel solito luogo. Spese occorse: duc. 10, gr. 2.
- Nicola Mazzarella di S. Mauro del Cilento e Giuseppe Infante di Tufara,
per i loro delitti furono condannati a morte per delegazione dalla R. Dogana. Il
18 agosto 1785 ad ore 12, coll’assistenza della Compagnia dei Bianchi posti in
cappella sopra il palazzo doganale e convertiti al ben morire da sacerdoti e monaci
nel corso di tre giorni. Il 20 agosto verso le ore 20, tolti loro i ferri dai soldati,
vennero consegnati ai ministri di giustizia, cioè il boia Lorenzo Finali spagnolo e
il tirapiedi Gennaro Vassallo napoletano venuti con dispaccio reale dal Tribunale
di Campagna. Sempre assistiti dai Bianchi, furono condotti processionalmente al
luogo del patibolo. Il Mazzarella ‘trascinato sopra un tavolone dalla Regia Dogana
fino alla forca, che veniva per la prima volta circondata da largo steccato di travi,
che serviva per recinto della sola compagnia de’ Bianchi e sacerdoti’ ed afforcato;
l’ Infante, bendato sugli occhi, anche impiccato, ‘ed ambe le scale fatte dal molto
rev. can. arciprete Saggese, e nel ritorno in chiesa si arsero i chiappitelli’. Il giorno
dopo verso le ore 22 e mezzo la Compagnia andò processionalmente con le bare
a prendere i due disgraziati; la testa del Mazzarella fu tagliata dal boia e portata al
luogo del delitto al di là del Cervaro sulla via di Ascoli, i corpi seppelliti nella solita
fossa. Spese occorse: duc. 19, gr. 99 e mezzo.
- Salvadore d’Angelo di Arzano, guardiano di Terra di Lavoro, e Giuseppe
Petrella, gualano di S. Lorenzo la Padula (prov. di Salerno), condannati per aver
derubato ed ammazzato un vecchio buttaro di pecore del Principe di Melfi in
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mezzo al tratturo, furono afforcati il 2 dicembre 1786 vicino S. Lazzaro, tagliate
le loro teste e portate nel luogo del consumato delitto, la Camarda, bufalara del
Principe nel tenimento di Melfi, ove vennero sospese (boia il Finali, tirapiedi il
Vassallo). Seppelliti nella fossa solita ‘vicino la Porta grande nell’entrare a sinistra’.
Spese occorse: duc. 25.
- Salvadore dello Cucco di Melfi e Antonio Corvino di Castelpagano, il
primo con moglie e senza figli, di anni 35, il secondo vedovo, con tre figli maschi ed
una femmina, villano di professione, di anni 50, condannati a morte con delegazione
da parte della R. Dogana per vari delitti e specialmente per aver commesso un furto
‘eccedente’ in casa di un sacerdote in Greci e ‘commesse enormissime sevizie in
persona del medesimo, ora vivente’.
Posti in cappella nel palazzo doganale, poi afforcati in S. Lazzaro il 17
novembre 1787, prima il Cucco, al quale ‘fece la scala’ il suo padre confessore
assistente da Bianco, ex provinciale cappuccino padre Raffaele da Foggia, e dopo il
Corvino, cui ‘fece la scala’ il detto padre assieme all’arciprete Saggese. Al Corvino
fu tagliata la testa ed appesa dai carnefici Finali e Vassallo ad un muro vicino la casa
del sacerdote a Greci. I corpi seppelliti nella solita fossa di S. Antonio Abate. Spese
occorse: duc. 20, gr. 18.
L’assistenza ai condannati nei giorni di cappella era continua: sacerdoti e
monaci, invitati dal prefetto dei Bianchi, si alternavano in numero di quattro ogni
due ore.
In più occasioni la congrega richiese al vescovo di Troia, che all’epoca era
Marco de Simone, di dare la sua assistenza ai condannati, ma la richiesta non venne
esaudita.
Il 16 settembre 1756, presumibilmente in occasione della ‘giustizia’ del
Chirico, il vescovo scrive ai Bianchi che egli rinuncia ‘ad esercitare un atto di tanta
carità a cui singolarmente sono tenuti i Vescovi’ perché avvisato in ritardo e per le
forti piogge cadute per tutta la notte e la mattina.
Il 17 aprile 1760, invitato dal prefetto Saverio Celentano e dal primo assistente
Nicola Maria de Carolis, non accetta l’invito per ‘l’incommodi di mia salute’ e ‘per
il commodo dell’alloggio’.
E lo stesso farà il 20 ottobre 1761 ‘per la mia indisposizione come altresì
per la mutazione dell’aria che non permette in questi tempi il dormire in
Foggia’.9
Alcuni condannati lasciavano alla congrega somme da utilizzare facendo
celebrare messe piane in suffragio delle loro anime.
Solitamente andavano a carico dei Bianchi le varie spese per i condannati
9
Archivio storico della diocesi di Foggia, b. 181, fasc. 2244.
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(per vitto, neve, sacchi e paglia per i giacigli, lampade, torce, sonate di campane,
trasporti di robe ed altro), ma esse potevano ridursi grazie agli introiti della
questua che si faceva mentre i giustiziandi si portavano dalla Dogana al luogo
del patibolo.
Quanto sinora riportato prova dunque definitivamente che il Tribunale della
Dogana esercitava la gladii potestas.
Ma le scritture servite a questo fine informano anche di ‘giustizie’ fatte a
Foggia nei primi anni del secolo XIX e dirne alquanto in questa sede non pare
affatto un fuor di luogo o inutile.
Esse avvennero non per condanna comminata dal Tribunale della Dogana,
ma inflitta dalla Straordinarissima Delegazione del Duca d’Ascoli.10
- Tomaso Bocale di Cagnano, reo di più omicidi commessi nelle persone
dei suoi stretti parenti. Venne assistito sino all’ultimo dai Bianchi e dai Padri
Conventuali ed afforcato il 9 luglio 1801 in Cagnano da mastro Filippo Cerrone di
Napoli, carnefice della Regia Udienza di Lucera, e dal tirapiedi Vincenzo Ciarletta
di Montuoro e colà seppellito, previo taglio e sospensione della testa davanti alla
sua casa vero loco patrati delicti.11
- Sebastiano Petolino alias il genero di Caudoni di S. Fele, di anni 24 circa;
Giambattista Cappiello alias Scarpetta di S. Fele, di anni 25 circa; Francesco
Lepore alias Potito di Ascoli, di anni 23 circa; Guglielmo Bartolomeo, siciliano,
di anni 36 circa,12 portati al patibolo il 26 settembre 1801 dai Bianchi e dai Padri
Conventuali, vicino la chiesa di S. Lazzaro, ed afforcati dai mastri Cerrone e
Ciarletta. Le loro teste mandate nei luoghi dove essi avevano commessi molti
omicidi ed altri orrendi ed atroci delitti nelle loro scorrerie assieme ad altri. I
loro corpi sepolti dopo 24 ore nella chiesa di S. Antonio Abate vicino la porta
del campanile.
10
Troiano Marulli (1759 - 1823), cavallerizzo e aiutante di campo del Re, vicario generale ut Alter Ego per
le province di Lucera, Trani, Lecce e Matera, ebbe per assessore il giudice di polizia Gregorio Lamanna destinato ad una brillante carriera, anche per i futuri meriti antifrancesi. Sul Duca d’Ascoli, personaggio di primo
piano tra i fedelissimi alla causa borbonica (sarà direttore generale di polizia dal 1803 al 1806, segretario del
Re dal 1808 al 1812 e consigliere di Stato, seguirà il Re in Sicilia, subendo la confisca di tutti i beni ed avrà
larga parte negli avvenimenti napoletani successivi al 1815, cfr. Angela Valente, Gioacchino Murat e l’Italia
meridionale, Torino, Einaudi, 1976, pp. 85-88, per una posizione critica circa i giudizi sull’Ascoli espressa
dal Colletta e da altri; Antonio Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, Bari-Trani, Ditta tip. ed. Vecchi e C.,
1931-1954, 4 voll., II, passim. Della Delegazione era componente anche il duca Tommaso Framarino, quale
consultore del Vicariato di Puglia (su di lui, cfr. Carlo Maria Villani, Il Giornale Patrio, I, (1801-1810), a
cura dello scrivente, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2000, p. 36, in Terzo Millennio, Collana di studi della
Provincia di Foggia diretta da Franco Mercurio, 15).
11
Il Bocale aveva ammazzato la madre, la moglie incinta e la figlia. Fece “una morte stentata per causa del
boia che è poco prattico, per cui ha fatto orrore a più d’uno” (Villani, cit., pp. 41-42).
12
Erano affiliati alla temibile comitiva di S. Fele, per la quale cfr. Villani, cit., pp.42-43.
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- Il 14 giugno 1802 i mastri Cerrone e Ciarletta afforcano nel largo di S.
Lazzaro Francesco Rinaldi di Lucera, Cesare Ferrara di Bitonto, Giuseppe Rocco
Romito di Modugno, Lorenzo Freda di Monteforte, Saverio Rotunno di Venosa e
Ambrosio Albanese di Bitritto, rei di gravi delitti.13 Previo taglio delle teste, i corpi
di cinque di loro si seppelliscono nel cimitero, quello del sesto in S. Antonio Abate.
Le ragioni del diverso trattamento non sono precisate.
Altre due esecuzioni sono annotate nelle menzionate scritture, ma avvengono
una per condanna della straordinaria Commissione militare eletta a Foggia e
presieduta da Tassoni, capo squadrone del I Reggimento Cacciatori Napoletani,
l’altra per condanna del Tribunale di Trani.
- Il 9 giugno 1807 tre condannati alla forca per rivolta a mano armata contro
il governo, Crescenzo e Francesco Calabrese di Panni e Vitangelo Altamura di
Bitonto, il primo un garzone di taverna di anni 42, il secondo un bracciante di anni
50, il terzo un vetturino di anni 26, dopo essere stati in cappella nel palazzo doganale,
sono portati fuori la città dirimpetto la sacrestia della chiesa della Madonna della
Croce e qui impiccati dal carnefice Cerrone, sospesi per 24 ore, le teste e le mani
affisse nel luogo del delitto. I corpi di due di loro si seppelliscono nel camposanto,
quello del terzo in S. Antonio Abate.14
- Il 26 luglio successivo mastro Cerrone impicca davanzi all’anzidetta
sacrestia Domenico de Rosa di Paterno, di anni 40, marito di Annantonia
Perrone di Foggia, ed Antonio Guacciarielli di Bonito, di anni 40 coinvolti
nel furto del procaccio. Agli appiccati si staccarono le teste e le mani, che
furono esposte nel luogo del delitto in Montecalvello, a 12 miglia da Foggia.
Il corpo di uno è sepolto nel camposanto, quello dell’altro nella chiesa della
confraternita.15
Carlo Maria Villani, diligente e preciso cronista locale, con gli ‘articoli’ del
suo Giornale Patrio incrementa sensibilmente questa triste elencazione di ‘giustizie’
fatte a Foggia.
(1807, agosto) «A 13 detto. Giovedì.
La commissione militare ha mandato quest’oggi alla forca un celebre
assassino di S. Giovanni Rotondo, reo di infiniti delitti. Questo è andato al patibolo
vestito di rosso, come segno d’infamia, e trasportato in una carretta unito a quattro
altri condannati alla fucilazione, e poi sospesi alle forche. Fra questi ultimi vi è
13
Tra l’altro, avevano derubato il procaccio della Marina e “annualmente uscivano per fare questi furti de’
procacci” (Villani, cit., pp. 56, 59).
14
Villani, cit.,p. 161.
15
Villani, cit. p. 165.
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stato il celebre pittore di Campobasso che nella comitiva di Vuozzo16 ha dipinto
le bandiere del passato governo. La popolazione che è accorsa a questa giustizia è
stata infinita, e tutto è riuscito senza il minimo disguido.»17
Da fonte archivistica si desumono i particolari del fatto riportato dal diarista.
Il ‘celebre assassino di S. Giovanni Rotondo’ era il vaticale Francesco Antonio
Marrone ed il suo cadavere, sospeso per 24 ore, subì il taglio della testa e delle mani
da portarsi «dove egli ha commesso de’ più grandi eccessi».
I condannati alla fucilazione per i quali anche venne stabilita la successiva
afforcazione ed il taglio delle teste furono Giovanni Ritrovato (S. Giovanni
Rotondo, anni 32, lavoratore di campagna), Donato Cango (Cursano di Lecce,
anni 32, lavoratore), Michele Arcangelo Bevilacqua (S. Marco in Lamis, anni 24) e
Isidoro Frezza (Campobasso, anni 22, pittore). Tutti ‘colpevoli di omicidi inauditi,
e di furti ed assassinii commessi a mano armata nelle campagne.’
(1809, agosto) «A 2 detto. Mercordì.
Quest’oggi si è portato alla forca un prete della provincia, condannato da
questa commissione militare per delitto di brigantaggio. Questi è stato prima
dissagrato e confessato stamane da questo Monsignor vescovo, ed è morto
contritissimo.»
«A 3 detto.
Quest’oggi si sono fatti i funerali del prete disgraziato. Si è sepolto alla
chiesa detta di S. Eligio, e quella confraternita lo ha accompagnato. Intanto con
meraviglia si è veduto un gran popolo, che lo seguiva proferendo delle preci, ed
a gara facendo per lodarlo ed offerire elemosina per i suoi funerali. Cosa insolita
negli altri disgraziati.»18
(1810, aprile) «A 25 detto. Mercordì
Quest’oggi si sono appiccati quattro disgraziati, fra i quali vi è stato un
sacerdote frate Cappuccino, il quale si è giustiziato con tutto il suo abito, barba, e
mantello, come non se li è neanche tolto la sagrazione. Questo esempio è stato di
terrore all’intiera popolazione.»19
16
Pasquale Mauriello di S. Andrea di Conza, detto Vuozzo, già capo massa nel 1799, fu il più noto rappresentante del brigantaggio politico in Alta Irpinia all’inizio del Decennio francese. Abile, audace, sanguinario,
‘terrore di quattro province’, destò scalpore la sua ultima impresa di rilievo, l’assalto al procaccio al ponte di
Bovino, in giugno 1807, che fruttò 50.000 ducati e provocò l’uccisione di un ufficiale francese ed il ferimento
di alcuni vetturali. Rifugiatosi in Sicilia, dopo il ritorno dei Borboni si stabilì ad Eboli con una pensione del
governo e gestendo una locanda (Francesco Barra, Insurrezioni e brigantaggio nel Principato Ultra durante
il regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808), in «Samnium» XLIV (1971), pp. 218-35).
17
Villani, cit., p. 167.
18
Con ogni probabilità, Pietro Frate, arciprete di Ururi. Cfr. Villani, cit., p. 194.
19
Villani, cit., p. 214.
59
La forca a Foggia
(1810, aprile) «A 28 detto. Sabato.
Quest’oggi si sono appiccati altri quattro briganti, fra cui uno storpio con
tutte le due gambe.»20
(1810, maggio) «A 5 detto.
Questa mattina è qui entrata la testa di Curci21 che si portava su di un palo
da uno de’ compagni. Questa si è fatta girare per le strade principali, con tamurro,
e colpi di fucili. Il popolo che vi accorreva è stato immenzo, e ‘l piacere comune
per la quiete pubblica.
Quest’oggi vanno alle forche tre briganti, uno de’ quali di anni 77.» 22
(1810, maggio) «A 7 detto. Lunedì.
Quest’oggi sono stati giustiziati i due fratelli di Curci, e due altri compagni
nel modo seguente.
Si sono condotti i rei primieramente avanti l’atrio della nostra basilica, ove
hanno chiesto perdono a’ parrochi, ed all’intiero capitolo degli omicidi commessi
in persone di più arcipreti. Indi si sono incaminati pel patibolo, portando nelle
mani delle torcie di pece accese. Giunti al patibolo se gli sono appiccati col solo
chiappone per fargli maggiormente stentare la morte, dopo ciò si sono spiccati, se gli
sono tagliate le rispettive teste, ed i loro corpi si sono bruggiati in un fosso con della
pece e catramma. Un solo fratello di Curci, il più vecchio, è stato semplicemente
appiccato, ov’è ancora sospeso.
Questa terribile giustizia ha fatto terrore all’intiera popolazione, che v’è
accorsa in gran numero, ed ha servito per funesto esempio a’ scelerati.»23
(1810, maggio) «A 23 detto. Mercordì.
Quest’oggi la commissione ha condannato alla forca quattro briganti, che
sono stati giustiziati al luogo solito, ed alle ore 22. Come giorno di fiera vi è accorso
maggior numero di popolo.»24
(1810, maggio) «A 27 detto. Domenica.
Quest’oggi si sono appiccati altri cinque briganti, condannati dalla
commissione militare.»25
20
Ibidem.
Arcangelo Curci di Orsara, capo di una forte comitiva di briganti che aveva operato in Irpinia e nel vallo
di Bovino, ammazzato dai soldati in un conflitto a fuoco agli inizi del mese di maggio.
22
Villani, cit., p. 215.
23
Ibidem, pp. 215-16.
24
Ibidem, p. 216.
25
Ibidem.
21
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Pasquale Di Cicco
Da notare che le condanne all’impiccagione si alternarono sia nel 1809 che
nel 1810 con quelle alla fucilazione.
Un’operosità, questa della commissione militare di Capitanata, motivata
forse anche dalla previsione della prossima soppressione di tutte le commissioni
militari, il che avvenne per decreto in giugno 1810.
Alla commissione sino allora attiva nel capoluogo subentrò il Tribunale
speciale di Lucera, e fu stabilito che a Lucera si sarebbero eseguite anche le
sentenze.
A Foggia vennero tolte le forche e riposte nella chiesa di S. Lazzaro.
Durante la Restaurazione la ripristinata commissione militare foggiana, in
vigore sino al 1834, inflisse solo condanne a morte per fucilazione, che di solito
vennero eseguite in S. Lazzaro, ma una volta anche nel largo di Gesù e Maria (ora
piazza Giordano), con richiamo di gran pubblico.
Dal prezioso Giornale Patrio dei Villani si apprende infine che le condanne
alla pena capitale comminate negli anni 1817, 1853 e 1855 dal Tribunale e dalla
Gran Corte Criminale di Lucera previdero la decapitazione con la ghigliottina.
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