Anno 1 Numero 43 - 15.12.2008

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Anno 1 Numero 43 - 15.12.2008
di Gian Maria Tosatti
Così, leggendo il Trattato, senza che Spinoza ne
parli apertamente, si capisce facilmente qual è la
differenza che passa tra lo “stato di diritto” e lo
“stato di necessità”. Il primo si ha ad esempio per
azione dei grandi patriarchi della Scrittura, che
adoperarono i comandamenti di Dio come uno
strumento di ordine basato su un rapporto
equilibrato di ragionevole adesione alle norme e
di superstizione (in cui quest’ultima andava a
colmare nel popolo i vuoti cognitivi rispetto
all’altra). Il secondo, invece, è rappresentato dal
movimento stesso che ha portato alla nascita
della lex, ossia da quella condizione di paura e
insicurezza, che derivava all’uomo
dall’assolutezza del suo stato primitivo, e per cui
ad un certo punto della Storia esso subordinò il
proprio diritto di singolo al diritto di tutti,
istituendo consapevolmente il fondamento del
processo democratico. Dunque, a ben vedere lo
“stato di necessità” si dimostra un fondamento
possibile dello “Stato di diritto”. E pure, esistono
“stati di diritto” in cui non è più rintracciabile
alcuno spirito di necessità nella consapevolezza
del popolo. Ne sono esempio molti totalitarismi
tradizionali nel loro periodo di “maturità” (si
pensi all’Unione Sovietica sin dalle fasi tarde
della Rivoluzione stessa), e allo stesso modo ne è
esempio il totalitarismo dei consumi di cui ci
parla Marcuse e che effettivamente non
corrisponde più attualmente ad alcuno stato di
necessità che non sia definibile come sindrome
psichica. C’è poi la situazione politica dell’Unione
Europea, che si connota come un sistema di
regole senza, di fatto, essere un soggetto politico
e dunque l’espressione di una reale identità
frutto del raggiungimento di una consapevolezza
comunitaria dei singoli cittadini. E così, come
ultimo esempio si può portare quello di uno Stato
che lentamente inizia a perdere i fondamenti
stessi della democrazia, eppure resta in piedi
sulla base di uno “stato di diritto” che, privato
del suo spirito fondante, appare come
l’esoscheletro di un idolo morto sulle spalle del
suo popolo, e su di esse pesante fino allo stremo.
Si sta parlando del popolo italiano, che all’idolo
repubblicano, in altre circostanze e con altri
padri, aveva dato vita sulla base di quello “stato
di necessità” che Spinoza descrive e le cui
dolorose contraddizioni riempiono le pagine della
nostra letteratura post-bellica.
Nel 1665 Spinoza interruppe a metà la sua stesura
dell’Etica. La sospese, sostanzialmente, per circa
cinque anni, durante i quali scrisse il Trattato
Teologico-Politico, uno dei fondamenti del
pensiero democratico europeo. Alla fine, nel
1670, l’Etica venne ripresa e conclusa nell’arco di
altri cinque anni. La ragione di questa
temporanea diversione stava nel fatto che il
filosofo, dovendo analizzare, nelle ultime parti
del suo scritto centrale, la possibilità e le
condizioni della libertà individuale, comprese che
questa sarebbe stata, se non garantita,
certamente favorita dalla libertà civile e politica
della quale, dunque, anzitutto appariva
necessario analizzare possibilità e condizioni.
Osservando questo scenario sembra che la
differenza sostanziale fra lo stato di diritto e
quello di necessità stia nella coscienza. Il primo
può non averne (se è vero che continua a
sussistere anche da morto), il secondo non si ha
senza di essa. E la coscienza è appunto
l’elemento motore che, secondo Karl Marx,
conduce al verificarsi dell’evento, ossia, nel
nostro caso, alla fondazione di un nuovo Stato di
diritto che sia incarnazione permanente delle
leggi e dello spirito del popolo legislatore.
Il tema della “coscienza”, effettivamente è stato
trattato a lungo nel corso del Novecento, finendo
per divenire mito, entità trascendente, il cui
Anno 1 Numero 43 - 15.12.2008
Una nuova identità (per superare le questioni
morali)
Editoriale
mancato avvento ha contribuito ad attribuirgli un
che di messianico. In realtà essa è tutt’altro. Per
capirlo si può prendere ad esempio l’epica greca
e l’Odissea. In essa, Ulisse non dimentica mai
Itaca, anzi, non fa che cercarla e più
profondamente lo fa, più il suo viaggio lo spinge
lontano, fino all’epilogo dantesco. Itaca, dunque,
è la coscienza di Ulisse, qualcosa che sta dentro
di lui e che in fine non può essere raggiunta se
non nel momento in cui l’eroe annega dentro se
stesso, inghiottito dal mulinello metaforico di cui
si fa menzione nel XXVI canto della Divina
Commedia. Il suo sopraggiungere non ha tempi
determinabili, per l’Ulisse omerico e per quello
dantesco essa arriva nella vecchiaia, quando il
maggior vigore con cui s’è cercata sembra spento.
In una grande installazione inaugurata in questi
giorni al CIAC di Genazzano, l’artista Ines
Fontenla mostra una nave arenata il cui nome è
appunto Itaca, svelando la coincidenza spaziale
fra l’isola e la nave, l’obiettivo e il mezzo per
raggiungerlo, ma al contempo, la rovina del
relitto mostra come il raggiungimento della
compiutezza sia difficile, il risultato non
scontato, e il viaggio più breve, a volte,
addirittura incolmabile.
Così oggi, a dividere la «democrazia imperfetta»
dell’Italia attuale e la «vera democrazia» cui il
popolo, per quanto confuso e disilluso, ambisce
per natura, c’è il mare oscuro della coscienza.
Imbarcarvisi non può che esser frutto di uno
“stato di necessità”, la necessità di cercare
qualcosa che dev’essere trovato. Quella stessa
titanica esigenza che ogni giorno ci conduce a
fare la rivoluzione per essere ciò che
desideriamo, per realizzarci come singoli. Quella
stessa rivoluzione intima, enormemente faticosa
eppure raggiungibile, pensata in chiave di
superamento dell’individualismo verso una
realizzazione in quanto comunità, è il viaggio da
intraprendere perché il popolo italiano ritrovi
quello che realmente oggi, alle pendici della
catastrofe, è ciò di cui ha bisogno, una nuova
identità, da cui far discendere un rinnovato
“Stato di diritto” radicalmente democratico. E’
un processo questo che non ha nulla a che fare
con le scelte e la ponderazione. Esso si
innescherà (lo insegna l’Argentina) quando il
limite della maggioranza dei cittadini sarà
raggiunto. Allora questo Paese inizierà a liberarsi
di ciò che crede di essere e cercherà se stesso.
Fino ad allora saranno molte chiacchiere, molti
articoli di giornale che c’informeranno di
questioni morali, d’inchieste, di conflitti
d’interesse, però quello che si potrà sempre
leggere tra le righe è che la democrazia non
rappresenta ancora per gli italiani uno stato di
necessità.
Noi siamo i giovani…
Esce “L’esercito del surf”, libro che spiega con
chiarezza che cos’è l’Onda
di Giorgina Pilozzi
Da un mese a questa parte c’è un libello che ha
invaso la città. Sulla copertina c’è una vecchia
foto di un bambino biondissimo che stringe una
tavola da surf e poi sabbia e poi onde. È
l’Internazionale surfista a firmarlo, rigorosamente
in creative commons, e lo intitola L’esercito del
surf - La rivolta degli studenti e le sue vere
ragioni, strizzando l’occhio al testo che
l’Internazionale situazionista scrisse nel 1966
Della miseria dell’ambiente studentesco, testo
che si diffuse rapidamente in tutte le grandi
università europee consacrando le visioni
rivoluzionarie di Debord e compagni. Dei fratelli
maggiori francesi questo opuscolo pubblicato da
Derive e Approdi conserva certamente la capacità
di ritrarre nitidamente il presente attraverso una
lingua creativa e nuova. Diciamolo chiaramente,
leggendo L’esercito del surf viene la curiosità di
incontrarli questi studenti e non solo che
fluttuano nell’Onda anomala. Verrebbe voglia di
interrogarli ancora più a fondo, perché si ha la
netta sensazione che gli unici a poterci dire come
stanno le cose, i soli che si sono applicati a
smascherare le manovre liberiste nascoste nei
meandri delle tante riforme di scuola e università
siano proprio loro.
Sapevate per esempio che in tutto il mondo la
fascia dei cosiddetti giovani è compresa tra i 15 e
i 24 anni, mentre in Italia si espande
misteriosamente dai 15 ai 34, con tutte le nefaste
conseguenze che potete immaginare? Vi hanno
mai spiegato che l’Europa, in particolare negli
anni 90, ha fortemente caldeggiato la “formazione
continua” come possibilità di distribuzione di
lavoro e conoscenze, ma che poi si è tramutata
solo in commercio di brevetti – alias bieca
privatizzazione delle idee in cui gli americani
primeggiano – e in Italia non ha fatto altro che
distribuire denari sottobanco ai soliti noti? Ma
prima ancora, vi hanno mai detto che cos’è la
formazione continua – che peraltro è un diritto – e
quanto potrebbe cambiare le vite di tutti? Questo
e molto altro viene raccontato a ritmo incalzante
da questi giovani surfisti che non si accontentano
di tratteggiare l’avvilente condizione
dell’università italiana, né cedono ai banali
ritratti sociologici della gioventù ribelle. Qui c’è
in ballo il futuro – che, parole loro, nella
Repubblica del ricatto invece che avanti ce l’hai
alle spalle – e l’esercito del surf non ce la fa a
immaginarsi come una generazione sconfitta
ancora prima di cominciare. Vuole dire la sua,
Vuole iniziare a decidere quello che lo riguarda.
[…] non è fatto di “giovani” che si rivoltano in
quanto “giovani” […] è fatto di studenti che in
quello che fanno vogliono trovare un senso. Di ex
studenti che pensano che c’era un’alternativa al
loro presente di rammarico. Di tanti altri che
hanno studiato, poi hanno smesso, hanno
ricominciato e rismesso, che rassegnati non sono e
non sono neanche giovani e che scelgono di
buttarsi nell’onda perché l’onda ha qualcosa da
dire (pp 25, 26). Viene in mente lo splendido
testo di Antonio Neiwiller Per un teatro
clandestino e l’urgenza di “comunicare tra le
macerie” che non può più essere rimandata. I
surfisti, o se preferite l’Onda, sono i soli che in
questo Paese, dopo anni, stanno comunicando tra
le macerie dei vecchi partiti, delle obsolete
Repubbliche, degli inganni e dei trucchi da
quattro soldi che dietro l’orpello delle riforme e/o
delle crisi hanno isolato le esistenze di più di una
generazione. La loro antipolitica – che nulla ha in
comune con Beppe Grillo e Di Pietro – è in realtà
una sofisticata proposta politica completamente
autonoma dall’agonizzante sistema della
rappresentanza, una parola nuova sull’esistente
che non può essere delegata. Ci troviamo di fronte
al superamento della canonica dicotomia forti/
deboli che ha incaricato per anni la “sinistra” di
difendere i secondi dai primi senza ottenere mai
risultati convincenti. Per quanto sfruttati gli
studenti non si sentono deboli perché la
comunicazione e lo scambio di conoscenze li ha
resi forti del linguaggio e dell’auto-organizzazione
delle proprie vite. Le “passioni tristi – invidia,
arroganza, imbecillità, rancore e risentimenti”
non li riguardano, rifiutano l’etica del sacrificio
re-inventando continuamente le proprie esistenze
senza temere la crisi perché sotto la crisi ci sono
nati.
Sono le isole di cui parla Gilles Deleuze, nate da
una disarticolazione, da una frattura e per questo
sopravvissute all’inghiottimento di ciò che le
tratteneva. E per rispondere a chi sostiene che i
nostri surfisti siano sulla cresta dell’onda solo
grazie alla disastrosa crisi che ci travolge,
restiamo sul Deleuze delle isole – al quale tra
l’altro gli abitanti delle pieghe dell’onda si
rivolgono con L’esercito del Surf – il quale ci
ricorda che non c’è una ri-creazione, una seconda
nascita perché c’è stata una catastrofe, ma il
contrario, c’è una catastrofe dopo l’origine
perché ci deve essere, fin dall’origine una
seconda nascita.
In libreria: Internazionale Surfista, L'esercito del
surf. La rivolta degli studenti e le sue vere
ragioni. DeriveApprodi, pp. 67, 5 euro.
Il luogo dell’anima
“Il giardino di limoni” palestinese di Rikli si
specchia nel in quello russo di Anton Cechov
di Federico Pontiggia
«La casa è solo un sintomo esterno, una
conseguenza, appunto una metafora. (…) Il tema
dell’abitare, non a caso, emerge proprio nel
momento in cui la condizione di “cittadino”, ossia
di “parte del corpo statale” è messa in crisi (…)».
Queste le riflessioni di Gian Maria Tosatti dopo la
visione de Il giardino dei ciliegi di Cechov messo
in scena da Ferdinando Bruni per Teatridithalia a
Roma. «La famiglia di Ljubov’Andreevna perde la
sua casa – scriveva Tosatti - non per via dei debiti.
La perde perché nessuno di loro, né Ljuba, né
Anja, né Leonid, né Varja, ha più un posto nel
mondo. Il drammaturgo russo parla appunto di
quello che accade quando un arco generazionale
smarrisce la propria centralità, la propria
collocazione sociale».
Cambiando epoca, nazionalità, forma e supporto,
è quanto accade in un altro giardino, il Giardino
di limoni portato sullo schermo dal regista
israeliano Eran Riklis. Premio del pubblico alla
Berlinale, una teoria di cartelloni eccellenti ed
eterogenei (Sfantu Gheorghe, Torino, Tertio
Millennio Film Fest a Roma), protagonista è la
splendida attrice palestinese Hiam Abbass (già ne
La sposa siriana di Riklis), nei panni della vedova
Salma Zidane, che in Cisgiordania si trova con un
vicino di casa molto scomodo: il ministro della
Difesa israeliano. Per ragioni di sicurezza, le viene
intimato di abbattere il suo giardino di limoni, di
cui – e per cui - vive: complice la solidarietà della
moglie del ministro, Mira, e l’amore del suo
giovane avvocato, porterà il caso davanti alla
Corte suprema di Israele.
Una e bina in sala a dicembre (anche ne L'ospite
inatteso di TomMcCarthy, altro film da non
perdere), la Abbass si carica sulle spalle la nuova
esplorazione della situazione medio orientale di
Riklis: è lei il termometro della crescente follia
del teatro israelo-palestinese, ma la prospettiva
non è politica, bensì umana. Sotto i riflettori, la
relazione empatica tra Salma e Mira, in cui
affinità private ed esternalità pubbliche si
fondono nel segno del femminile. Coraggio e
libertà, lotta e diritti, a tutto si dà del “lei”, con
una ferma dolcezza che riesce a mettere nel
fuoricampo qualche inverosimiglianza del plot, la
minaccia del buonismo e le insidie dell’apologo.
ovvero alla spoliazione identitaria che passa dalla
privazione del proprio habitat, habitat vitale,
senza enfasi alcuna. E quanto sia vitale l’habitat
di Salma è già tutto nel giallo acceso dei suoi
limoni, condannati ad avvizzire e seccare per la
ragion di Stato, uno Stato altro, vieppiù normativo
e restrittivo: “Pur essendo uno Stato democratico
– dichiara Riklis - Israele continua a occupare West
Bank e Gaza: bello se tutto si potesse risolvere in
un'aula giudiziaria, ma qui come altrove la pretesa
d'imparzialità e giustizia si scontra con le
influenze esterne, innanzitutto la politica".
Politica, ovvero esprit de geometrie, declinata al
maschile, cui si contrappone la comunione
empatica del femminile, ovvero l’esprit de finesse
che percorre gli sguardi solidali di Salma e Mira:
non basterà, forse, a salvare quei limoni, ma poco
importa. La privazione coatta dell’identità di
Salma, già precaria perché palestinese, e Mira,
ridotta a “moglie di” dalla nomenklatura
israeliana, se da un lato rivela la fragilità
dell’hortus conclusus, dall’altro apre all’ultimo
privilegio umano, la hybris: una hybris che,
mitigata, ovvero rafforzata, dai legami di genere
(femminile), conserva un residuo locus amoenus.
Pur sotto sfratto, pur mal posto al mondo, quel
giardino diviene l’ultimo baluardo identitario, in
cui il principio d’identità trova nuove, ovvero
eterne, congruenze: la perdita della centralità
esistenziale, già marginale, di Salma, la reclusione
nella gabbia d’avorio di Mira, in estrema sintesi,
la loro genericità, trova un nuovo habitat:
f(emminile) = f(emminile). Fragile, etereo, ma
irriducibile: sguardo genericamente orientato.
Rivelato da un altro sguardo, transgender: il
cinema.
I padri e i figli
Banche della memoria e archivi di diari fanno
della rete uno spazio di confronto tra le
generazioni
di Graziano Graziani
"Una catastrofe in Israele, un successo nel resto
del mondo. Chi ha letto la sinossi - una donna
palestinese contro lo Stato d'Israele - si è
scoraggiato, ma chi l'ha visto, anche alcuni
generali, ne è rimasto entusiasta", dice Riklis, che
dopo La sposa siriana voleva tornare a parlare di
Medio Oriente, “ma prendendomi più rischi,
stando più vicino a casa: quando ho letto un
trafiletto su una palestinese che si era appellata
alla Corte Suprema per il suo uliveto, avevo tutto
per girare: una donna, degli alberi e una storia".
Una storia che ci riporta al vulnus di Cechov,
Internet può avere un ruolo nella costruzione di
una memoria e, attraverso di essa, di un’identità?
Per quanto possa apparire una provocazione
parlare di memoria e identità all’interno di un
media che trova il suo specifico proprio nella
fluidità, nella magmaticità e nella continua
evoluzione delle informazioni, questa domanda si
connette a una delle funzioni che la rete sta
assumendo e sviluppando, proprio negli ultimi
anni, grazie ai social network: quello di archivio di
immagini, documenti, filmati. Un archivio per di
più caratterizzato dall’immediatezza e dalla
orizzontalità della rete.
Anche da un punto di vista strettamente
professionale, l’informazione che si vende on-line
– quella cioè che ha valore commerciale, e che
quindi trova acquirenti in quanto contenuto – è
quella “di archivio”. A dispetto della tendenza
imperante nel giornalismo on-line, che vuole
notizie leggere, brevi, altamente informative e
prive di qualunque approfondimento, la domanda
di contenuti si indirizza verso l’esatto opposto. Lo
sanno bene le grandi testate del giornalismo
internazionale, che offrono gratuitamente
l’informazione-lampo, quella quotidiana
(riscuotendo profitti dalla vendita di pubblicità) e
mettono in vendita i loro archivi, fatti di
editoriali, approfondimenti, reportage. E lo sanno
bene blogger, scrittori e giornalisti che utilizzano
la rete: la vita di un articolo on-line è
infinitamente più lunga che sul cartaceo, e per
quanto questa seconda categoria goda ancora di
maggior “prestigio”, è innegabile che la scrittura
on-line resti visibile ben oltre la sua data di
pubblicazione, sia sempre rintracciabile dai
motori di ricerca, linkabile da altri articoli, e
consultabile all’occorrenza.
Il maggior prestigio di cui gode la parola stampata
è l’esistenza di un filtro, che ne garantirebbe la
qualità. Vastità e accessibilità sono due dei pregi
maggiori della rete, ma contemporaneamente per
molti costituiscono il suo limite in termini di
gestibilità e credibilità. Sotto accusa, ad esempio,
c’è l’incredibile quantità di informazioni private,
quasi sempre di carattere autobiografico, con cui i
singoli utenti riempiono la rete. Foto, testi e
filmati un tempo relegati tra le mura domestiche
si riversano nel mare magnum digitale e – grazie ai
social networks – entrano nelle case di chiunque
voglia condividere i propri contenuti. Ovvero, la
stragrande maggioranza delle persone con
un’alfabetizzazione medio-alta dei paesi
cosiddetti occidentali (fermo restando il gap
generazionale nelle fasce over 40). Chiunque operi
nel campo della comunicazione sa perfettamente
che lo sdoppiamento dell’io, proiettato on-line in
una continua rifrazione che si rimpalla tra pagine
MySpace, profili Facebook, filmati YouTube e
gallerie fotografiche Flickr, è una realtà in
crescita e un serbatoio di informazioni ormai
insostituibile. Oltre ad ospitare la comunicazione
di centinaia di migliaia di band musicali, artisti
visuali, fotografi, poeti e teatranti, questo flusso
di informazioni scaturito dall’interconnessione
della blogosfera con i social networks ha
realizzato quello che è il tarlo centrale della
scrittura diaristica: l’eventualità, sempre meno
remota, che qualcuno la legga.
«Non si scrive mai qualcosa di autobiografico
pensando che nessuno lo leggerà. Anche se questa
è un’eventualità concreta, si scrive sempre
tenendo presente la possibilità – o la speranza –
che qualcuno prima o poi legga ciò che viene
riportato per iscritto». A parlare è Luca Ricci,
regista della compagnia teatrale CapoTrave, di
Pieve Santo Stefano, il comune toscano che ospita
l’Archivio diaristico nazionale, voluto da Saverio
Tutino. L’archivio, fondato nel 1984, raccoglie
diari, memorie ed epistolari degli italiani, senza
filtri di sorta, né di contenuto né di forma.
Nella stratificazione degli oltre 7.000 testi
depositati presso l’archivio è possibile leggere una
serie di fili rossi che attraversano la scrittura
autobiografica nel corso dei decenni, nonostante
le opere depositate presso l’archivio siano state
scritte nel privato. Ad esempio, il fatto che quasi
tutte le storie narrate hanno a che vedere con
“eventi di separazione”, che hanno la
caratteristica comune di essere riportati su carta
solo al momento della loro conclusione. «Sia che
si parli delle due guerre mondiali, che sono i
periodi storici più rappresentati nell’archivio, o di
fatti privati come l’uscita da una
tossicodipendenza o la fine di un matrimonio,
comunque il nucleo centrale delle narrazioni
diaristiche ha sempre a che vedere con una
cesura, un evento di separazione», spiega Luca
Ricci.
La maggioranza dei diari e degli epistolari
conservati riguardano il Novecento, nonostante
una piccola parte risalga al secolo precedente, e
addirittura al Settecento. A partire dalla seconda
metà degli anni Novanta del secolo scorso si
verifica una novità: cambiano i supporti, e molti
diari cominciano ad arrivare in formato
elettronico, mentre gli epistolari giungono
sottoforma di scambi di mail. «Anche se è
innegabile che la scrittura a mano sia spesso
caratterizzata da una dimensione di riflessione
maggiore – precisa Ricci – l’attitudine che c’è
nello scrivere le proprie memorie non cambia di
molto tra la signora di fine ottocento e il blogger
di oggi. La rete può velocizzare il linguaggio, ma
sullo sfondo di entrambe le esperienze c’è l’idea
di fondo che ciò che si scrive possa essere letto.
Questo significa che la scrittura diaristica non è
mai davvero un soliloquio, ma anzi si avvicina più
al monologo – recitato davanti a un pubblico – se
non addirittura al dialogo, perché si presuppone
sempre l’esistenza di un lettore. L’istituzione
dell’archivio accentua questa ipotetica
dimensione dialogica: raccogliere i diari in un
luogo significa dare una panoramica, creare una
dimensione plurale in cui i singoli monologhi
assumono un significato più ampio».
Ed è proprio questa dimensione dialogica che sta
alla base di un progetto di recente realizzazione,
«Memoro – la banca della memoria», che sul sito
www.bancadellamemoria.it raccoglie una serie di
testimonianze, per lo più di gente anziana,
restituite alla libera fruizione della rete sotto
forma di filmati in streaming. Una sorta di
YouTube della memoria, dove i “vecchi” possono
lasciare la propria testimonianza alle persone più
giovani, ricreando quella dimensione del racconto
che fino a pochi anni fa legava le generazioni nel
processo di trasmissione del sapere. Grazie al
filmato, non solo le storie, ma anche le facce, le
espressioni, le voci contribuiscono a dare corpo ai
racconti. Un processo di condivisione che non solo
riconnetteva in modo indelebile generazioni
passate e future, ma era la base che queste
ultime prendevano come partenza per la
costruzione della propria identità. Non è un caso,
infatti, che questo progetto nato sotto il
patrocinio della Provincia di Cuneo si sia dato
l’obiettivo di creare un ponte tra le generazioni,
tanto da decidere di devolvere gli utili del
progetto ad associazioni di anziani e ad
associazioni a tutela dell’infanzia.
Al di là della funzione di archivio, la rete rende
possibile la messa in connessione dei contenuti
con un’ampia fetta di utenti – cosa che le
istituzioni classiche non sono più in grado di
realizzare. Questo significa non solo creare uno
spazio per la memoria, ma anche rendere questa
memoria “viva”. Lo stesso vale per l’archivio
nazionale: «Quello di rendere l’archivio un posto
vivo è stato uno dei nodi fondamentali del
progetto di Pieve – spiega Luca Ricci – Tutino era
un comunista fuori dai ranghi, quasi un dissidente,
che dell’orizzontalità del sapere (come del
potere) fece il suo chiodo fisso. Dietro l’archivio
non c’era solo l’intenzione, paternalistica, di dare
corpo all’idea di una “storia scritta dagli umili”;
c’era anche l’idea di un luogo vivo, che oltre a
conservare le memorie produce a sua volta
memoria». Per questo è stato istituito un premio,
che mantiene vivo l’afflusso di opere diaristiche,
ed esiste una commissione che legge le opere e
una volta l’anno decide la pubblicazione di un
diario particolarmente interessante. Di fondo c’è
l’idea di un luogo che non solo accoglie la
memoria, ma che è anche in grado di farla
riverberare nel presente, come elemento
imprescindibile per la costruzione dell’identità dei
contemporanei. E della contemporaneità.
Chi è presente alzi la mano
L’Accademia degli Artefatti torna su Tim Crouch e
affronta “My arm”
di Mariateresa Surianello
Sarà perché il luogo ci è divenuto familiare, ma il
My Arm che l’Accademia degli Artefatti ha
allestito, a Roma, al Rialtosantambrogio ha
proprio soddisfatto le nostre aspettative di
spettatori. Preciso ed essenziale nel rimbalzo tra
realtà reale e riprodotta in video, da creare un
ritmo dialogico, e a tratti corale, in una pièce
monologante. E poi in quel totale annullamento di
barriere tra la scena e la sala risiede forse
l’essenza della ricerca che sta impegnando il
regista Fabrizio Arcuri per il progetto “ab-uso”.
Oltre a corrispondere alle modalità di intervento
performativo dello stesso autore, Tim Crouch, di
cui si è visto recentemente il suo An Oak Tree
direttamente in spazi espositivi (al Madre di
Napoli, con la regia di Carlo Cerciello, per
esempio, per il Teatro Festival Italia).
Secondo appuntamento questo My Arm per Arcuri
(il primo è stato lo stesso An Oak Tree) con il
drammaturgo e attore britannico, che molto
successo sta avendo anche in Italia, con le sue
opere poste su quella linea di confine, molto
labile per la creatività contemporanea, che separa
la rappresentazione teatrale dalle arti
performative. Come in questa, il cui primo
allestimento è stato a Edimburgo nel 2003,
segnando il debutto nella scrittura di Crouch.
Portata in diversi Paesi, My Arm è stata adattata
per la tv britannica BBS, vincendo il Prix Italia nel
2005. Un meccanismo quindi rodato, che Fabrizio
Arcuri imbrocca con particolare maestria,
perfezionando i risultati ottenuti con Martin Crimp
e in parte anche con Mark Ravenhill.
Quando si entra nella sala del Rialto, Matteo
Angius è seduto tra il pubblico e sembra l’addetto
al video proiettore, a sorpresa invece si alza e
inizia il suo monologo, esercitando un immediato
coinvolgimento degli spettatori. Chiede loro degli
oggetti personali a caso e inizia a chiamarli con
altri nomi, una sciarpa, un cappello, un
portaocchiali, nelle sue mani, possono addirittura
diventare personaggi della storia che si accinge a
raccontare. Una storia tanto raccapricciante
quanto assurda, eppure verosimile nella falsità
della scena. Un bambino chissà per quali
disequilibri familiari comincia a compiere atti di
autocoercizione, che all’inizio possono essere il
silenzio assoluto per qualche giorno o il non
andare in bagno per un mese, ma poi approdano a
un gesto semplice e insensato nella sua
irreversibilità. Il bambino solleva un braccio e in
una sfida con se stesso e col mondo intero lo
mantiene in quella posizione per venticinque anni,
fino all’atrofia e alla cancrena. Il protagonista ha
infatti trent’anni quando col pubblico torna ai
nodi cruciali di quello che suo padre definisce un
atto di volontà. Spedito dallo psichiatra, il
bambino diventa adolescente, ragazzo e infine
adulto, condannato a quel suo atto di potenza.
Non che sia molto diversa questa condizione dal
tunnel dell’anoressia, da quella possibilità di
controllo di un bisogno primario spinto fino al
delirio dell’annullamento corporeo.
Tra le risate che provoca la storia, il gioco di
relazione col pubblico si fa sempre più serrato,
mentre Angius si riprende in diretta con la
telecamera o costruisce dei teatrini con quegli
improbabili oggetti presi in prestito dal pubblico.
Ogni tanto compare in scena Emiliano Duncan
Barbieri per interrompere con la sua chitarra
rockeggiante il flusso delle parole. Sul fondale
intanto il filmino in super8 di un neonato
paffutello e giulivo lascia il posto al ragazzo ormai
cresciuto, che insiste in quella sua posizione. E’
bravo l’attore a interagire col video che scorre
implacabile, imponendo e serrando il ritmo
dell’azione. Sono le riprese spudoratamente false
di un passato vissuto con quell’assurdo
impedimento, ma “in realtà” riconosciamo essere
quel set tutt’altro che il posto dell’adolescenza
del ragazzo sull’isola di White, è il piazzale del
Teatro India con le due cisterne.
Anche la descrizione dettagliata dei disturbi
provocati dall’infausta posizione non recano
disagio tra gli spettatori, il clima di complicità
resta sempre alto, perché lo scopo non è
commuovere, ma scuotere il pensiero. Quello che
Tim Crouch vuole tentare è lo svelamento del
rapporto tra attore e spettatore, vuole provare a
scendere nelle dinamiche della finzione in
relazione alla realtà. E nella falsità delle cose che
ci circondano, dagli oggetti alle persone. C’è da
riflettere sul parossismo finale della storia di
Crouch con quel corpo deformato e marcito che si
fa pura essenza reificata, cancrena mercificata ad
uso e consumo di spietati mercanti d’arte
contemporanea.
I vivi e i morti
Ha debuttato al Teatro India “Autobiogafia della
vergogna (Magick)” di Lucia Calamaro
di Attilio Scarpellini
Del sulfureo Georges Denis, pranoterapeuta e
mago, protagonista di uno studio presentato in
estate, resta poco o nulla nella versione di Magick
che Lucia Calamaro ha allestito al Teatro India. Ma
non è un gran danno: il nuovo Autobiografia della
vergogna (Magick) gioca su ben altri piani il suo
carisma, la sua magia, dispiegando fin dalle
primissime battute – quando il sipario è ancora
abbassato e la voce fuori campo sembra
percuoterlo – la sua potenza squisitamente
teatrale. Non è uno spettacolo riuscito: è uno
spettacolo memorabile destinato a segnare una
svolta espressiva in un teatro che, finalmente,
torna ad esserci contemporaneo. Basta un attimo,
mentre il sipario si alza lentamente e lascia
scorgere tra i piedi delle attrici la sorprendente
distesa dello spazio scenico dell’India disseminato
di libri come foglie morte in autunno, per capire
che questa visione in controluce ha la precaria ma
invincibile perfezione dei sogni. Dalla finestra del
fondo una luce cangiante rivela uno squarcio di
natura – è la prorompente vegetazione di fiume
che circonda l’India – ogni volta diverso: verde
brillante – con il fogliame che ghiaccia nel vento
temporalesco – giallo autunnale, rosso mistico e
sanguigno, un orologio di umori caricato dal genio
luminario di Gianni Staropoli. Il teatro è un
“altro” mondo che di questo cattura le parvenze
per restituirne la perturbante metamorfosi: un’ora
dopo i libri sparsi a terra finiranno appiccicati alle
pareti in un frenetico cambio scena dove
l’orizzonte limbico dell’inizio si organizza in
biblioteca (e precisamente, nella biblioteca
Richelieu di Parigi), giocando una seconda volta
sulla profondità dello spazio come possibilità di
modificazione onirica. Prima di stanza in stanza,
nell’universo scoperchiato di una bolla familiare,
poi di corridoio in corridoio in una Biblioteca di
Babele, dove finalmente risuona, confuso ad altri
titoli, il suggestivo Magick del malvagio Crowley.
Nell’installazione dei suoi altrove, Lucia Calamaro
ricorda Kantor, ma non si accontenta di una
figurazione icastica: sulla sua scena allucinatoria,
scrive e nel contempo legge, come Cartesio che
nel famoso sogno raccontato da Bailly vedeva e
decifrava insieme. Scrive e legge una
fenomenologia della vergogna che – non ci sarebbe
nemmeno bisogno di sfogliare gli appunti teorici
che precedono il testo edito da Voland – è una
patologia dello sguardo, l’epifania della fine di se
stessi (della propria de-soggettivazione) nello
sguardo degli altri. E per questo un sentimento
acutamente pre-politico che tocca il ventre molle
dell’immoralismo italico, il nucleo originario, in
un certo senso, di tutte le questioni morali: la
famiglia.
Autobiografia della vergogna è una
tragedia familiare raccontata da tre clown
d’oltretomba che nel loro antinaturalistico essere
e non essere – figlia, padre, madre – riescono a
trasformare una storia catafratta nella biografia
individuale dell’autrice nella parabola per tutti e
per nessuno di una vergogna universale che si
nasconde dietro ogni porta sbarrata dal segreto e
dietro ogni sguardo segregato dalla paura degli (e
per gli) altri. Che la Calamaro non tema di
tradurre sulla scena la complessità di una scrittura
che accoglie nel suo corpo anche il pensiero (e la
citazione) è, dopo tanti pinterismi di maniera, un
segno di maturità della nostra drammaturgia. Che
per due ore di spettacolo ogni parola del suo
poema diluviale vibri come se venisse generata in
quel momento dalla tremula carne delle interpreti
– Monika Mariotti, Benedetta Cesqui e la stessa
regista – è più che inedito, quasi sublime. Ma
persino nei teatri, talvolta, il teatro accade.
Poetica dello sguardo (che spia o che si nega),
estetica della vergogna: è il segreto il nocciolo
duro del dramma di Magick, autoritratto in forma
di spettacolo che nella controluce del biografema
lascia trasparire il ritratto di un’italietta familista
e provinciale sempre pronta a occultare dietro la
porta (“Chiudi la porta che ti devo dire qualcosa”)
i suoi vizi e i suoi odi, i suoi e i suoi malati - ma
anche, come ben spiega il Padre, a utilizzare
l’omertà e l’omissis come strumento di divisione e
di controllo: “bisognava sapere e non dire/ e
comunque a persone diverse/ mai/ la stessa
cosa// dividere per comandare, controllare”. La
vergogna è anzitutto segregazione dello e dallo
sguardo: nel segreto affonda e lentamente
illanguidisce la Madre, negata prima per la sua
origine sociale – il Padre borghese ha messo
incinta e segretamente sposato la cameriera di
casa – poi per la precocità della sua demenza,
come se solo una letterale evanescenza
dell’essere potesse rispondere all’annientamento
simbolico di cui è oggetto. Dal segreto, tara di
origine della vita familiare, promana il contagio di
una vergogna sintomatica che si trasmette di
Madre in Figlia, sotto forma di ritorsione dello
sguardo nell’esilio di una vita secondaria. Nel
segreto – anzi nella “cultura del segreto, del
nascondarello” - affonda le radici il godimento
irresponsabile del Padre, la sua fuga, il vuoto del
suo sentimentalismo da cui Monika Mariotti che in
scena ne traveste il fantoccio trae struggenti arie
pucciniane (altro stigma, dopo la provincia,
dell’identità italiana: la perennità del
melodramma e l’inconsistenza del tragico). Se la
Calamaro avesse voluto parlare di archetipi,
insomma, non ci sarebbe riuscita altrettanto bene
di quanto ha fatto rovesciando negli stampi della
sua scrittura scolpita, precisa fino a divenire
esausta, la colata bollente di una materia
spudoratamente biografica: operazione già
tentata – e riuscita – nel precedente Tumore. Uno
spettacolo desolato. Qui come là, in realtà, è il
diaframma filosofico a filtrare il caso, l’anomalia,
senza arretrare neanche davanti alla definizione,
perché la vergogna si comporta appunto come un
archetipo, che in ogni singola incarnazione fa
riemergere la propria antecedenza: “la vergogna
precede se stessa, in un certo senso, tanto che
quando fa irruzione nell’esperienza noi la
riconosciamo come un’ombra errante che
aspettava di incarnarsi.” Non si potrebbe dir di
meglio, su una scena oltremondana dove le ombre
vagano, vergognose o senza vergogna,
salmodiando ciascuna la propria verità e
misurando, senza mai colmarla, la propria
distanza con l’altro: presenti-assenti, viene voglia
di dire, ma soprattutto sperdute in uno spazio che
è la nemesi della loro clausura esistenziale. “E’
quando una casa brucia – diceva Kafka – che si
vede la struttura che la sorregge”. Casa senza
porte: all’opposto del dramma borghese. Casa
senza porte, ma non aperta in un agorà (dove il
teatro sarebbe tribunale, giudizio): all’opposto
del dramma politico. Dilatata nel perturbante
come nei sogni dell’infanzia. Spazio non di
riconciliazione. Né di liberazione. Forse di
espiazione.
In libreria: Lucia Calamaro, Autobiografia della
vergogna (Magick), Voland, pp. 160, 13 euro.
la differenza
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direttore responsabile
Gian Maria Tosatti
in redazione
Graziano Graziani, Attilio Scarpellini,
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