Anno 1 Numero 43 - 15.12.2008
Transcript
Anno 1 Numero 43 - 15.12.2008
di Gian Maria Tosatti Così, leggendo il Trattato, senza che Spinoza ne parli apertamente, si capisce facilmente qual è la differenza che passa tra lo “stato di diritto” e lo “stato di necessità”. Il primo si ha ad esempio per azione dei grandi patriarchi della Scrittura, che adoperarono i comandamenti di Dio come uno strumento di ordine basato su un rapporto equilibrato di ragionevole adesione alle norme e di superstizione (in cui quest’ultima andava a colmare nel popolo i vuoti cognitivi rispetto all’altra). Il secondo, invece, è rappresentato dal movimento stesso che ha portato alla nascita della lex, ossia da quella condizione di paura e insicurezza, che derivava all’uomo dall’assolutezza del suo stato primitivo, e per cui ad un certo punto della Storia esso subordinò il proprio diritto di singolo al diritto di tutti, istituendo consapevolmente il fondamento del processo democratico. Dunque, a ben vedere lo “stato di necessità” si dimostra un fondamento possibile dello “Stato di diritto”. E pure, esistono “stati di diritto” in cui non è più rintracciabile alcuno spirito di necessità nella consapevolezza del popolo. Ne sono esempio molti totalitarismi tradizionali nel loro periodo di “maturità” (si pensi all’Unione Sovietica sin dalle fasi tarde della Rivoluzione stessa), e allo stesso modo ne è esempio il totalitarismo dei consumi di cui ci parla Marcuse e che effettivamente non corrisponde più attualmente ad alcuno stato di necessità che non sia definibile come sindrome psichica. C’è poi la situazione politica dell’Unione Europea, che si connota come un sistema di regole senza, di fatto, essere un soggetto politico e dunque l’espressione di una reale identità frutto del raggiungimento di una consapevolezza comunitaria dei singoli cittadini. E così, come ultimo esempio si può portare quello di uno Stato che lentamente inizia a perdere i fondamenti stessi della democrazia, eppure resta in piedi sulla base di uno “stato di diritto” che, privato del suo spirito fondante, appare come l’esoscheletro di un idolo morto sulle spalle del suo popolo, e su di esse pesante fino allo stremo. Si sta parlando del popolo italiano, che all’idolo repubblicano, in altre circostanze e con altri padri, aveva dato vita sulla base di quello “stato di necessità” che Spinoza descrive e le cui dolorose contraddizioni riempiono le pagine della nostra letteratura post-bellica. Nel 1665 Spinoza interruppe a metà la sua stesura dell’Etica. La sospese, sostanzialmente, per circa cinque anni, durante i quali scrisse il Trattato Teologico-Politico, uno dei fondamenti del pensiero democratico europeo. Alla fine, nel 1670, l’Etica venne ripresa e conclusa nell’arco di altri cinque anni. La ragione di questa temporanea diversione stava nel fatto che il filosofo, dovendo analizzare, nelle ultime parti del suo scritto centrale, la possibilità e le condizioni della libertà individuale, comprese che questa sarebbe stata, se non garantita, certamente favorita dalla libertà civile e politica della quale, dunque, anzitutto appariva necessario analizzare possibilità e condizioni. Osservando questo scenario sembra che la differenza sostanziale fra lo stato di diritto e quello di necessità stia nella coscienza. Il primo può non averne (se è vero che continua a sussistere anche da morto), il secondo non si ha senza di essa. E la coscienza è appunto l’elemento motore che, secondo Karl Marx, conduce al verificarsi dell’evento, ossia, nel nostro caso, alla fondazione di un nuovo Stato di diritto che sia incarnazione permanente delle leggi e dello spirito del popolo legislatore. Il tema della “coscienza”, effettivamente è stato trattato a lungo nel corso del Novecento, finendo per divenire mito, entità trascendente, il cui Anno 1 Numero 43 - 15.12.2008 Una nuova identità (per superare le questioni morali) Editoriale mancato avvento ha contribuito ad attribuirgli un che di messianico. In realtà essa è tutt’altro. Per capirlo si può prendere ad esempio l’epica greca e l’Odissea. In essa, Ulisse non dimentica mai Itaca, anzi, non fa che cercarla e più profondamente lo fa, più il suo viaggio lo spinge lontano, fino all’epilogo dantesco. Itaca, dunque, è la coscienza di Ulisse, qualcosa che sta dentro di lui e che in fine non può essere raggiunta se non nel momento in cui l’eroe annega dentro se stesso, inghiottito dal mulinello metaforico di cui si fa menzione nel XXVI canto della Divina Commedia. Il suo sopraggiungere non ha tempi determinabili, per l’Ulisse omerico e per quello dantesco essa arriva nella vecchiaia, quando il maggior vigore con cui s’è cercata sembra spento. In una grande installazione inaugurata in questi giorni al CIAC di Genazzano, l’artista Ines Fontenla mostra una nave arenata il cui nome è appunto Itaca, svelando la coincidenza spaziale fra l’isola e la nave, l’obiettivo e il mezzo per raggiungerlo, ma al contempo, la rovina del relitto mostra come il raggiungimento della compiutezza sia difficile, il risultato non scontato, e il viaggio più breve, a volte, addirittura incolmabile. Così oggi, a dividere la «democrazia imperfetta» dell’Italia attuale e la «vera democrazia» cui il popolo, per quanto confuso e disilluso, ambisce per natura, c’è il mare oscuro della coscienza. Imbarcarvisi non può che esser frutto di uno “stato di necessità”, la necessità di cercare qualcosa che dev’essere trovato. Quella stessa titanica esigenza che ogni giorno ci conduce a fare la rivoluzione per essere ciò che desideriamo, per realizzarci come singoli. Quella stessa rivoluzione intima, enormemente faticosa eppure raggiungibile, pensata in chiave di superamento dell’individualismo verso una realizzazione in quanto comunità, è il viaggio da intraprendere perché il popolo italiano ritrovi quello che realmente oggi, alle pendici della catastrofe, è ciò di cui ha bisogno, una nuova identità, da cui far discendere un rinnovato “Stato di diritto” radicalmente democratico. E’ un processo questo che non ha nulla a che fare con le scelte e la ponderazione. Esso si innescherà (lo insegna l’Argentina) quando il limite della maggioranza dei cittadini sarà raggiunto. Allora questo Paese inizierà a liberarsi di ciò che crede di essere e cercherà se stesso. Fino ad allora saranno molte chiacchiere, molti articoli di giornale che c’informeranno di questioni morali, d’inchieste, di conflitti d’interesse, però quello che si potrà sempre leggere tra le righe è che la democrazia non rappresenta ancora per gli italiani uno stato di necessità. Noi siamo i giovani… Esce “L’esercito del surf”, libro che spiega con chiarezza che cos’è l’Onda di Giorgina Pilozzi Da un mese a questa parte c’è un libello che ha invaso la città. Sulla copertina c’è una vecchia foto di un bambino biondissimo che stringe una tavola da surf e poi sabbia e poi onde. È l’Internazionale surfista a firmarlo, rigorosamente in creative commons, e lo intitola L’esercito del surf - La rivolta degli studenti e le sue vere ragioni, strizzando l’occhio al testo che l’Internazionale situazionista scrisse nel 1966 Della miseria dell’ambiente studentesco, testo che si diffuse rapidamente in tutte le grandi università europee consacrando le visioni rivoluzionarie di Debord e compagni. Dei fratelli maggiori francesi questo opuscolo pubblicato da Derive e Approdi conserva certamente la capacità di ritrarre nitidamente il presente attraverso una lingua creativa e nuova. Diciamolo chiaramente, leggendo L’esercito del surf viene la curiosità di incontrarli questi studenti e non solo che fluttuano nell’Onda anomala. Verrebbe voglia di interrogarli ancora più a fondo, perché si ha la netta sensazione che gli unici a poterci dire come stanno le cose, i soli che si sono applicati a smascherare le manovre liberiste nascoste nei meandri delle tante riforme di scuola e università siano proprio loro. Sapevate per esempio che in tutto il mondo la fascia dei cosiddetti giovani è compresa tra i 15 e i 24 anni, mentre in Italia si espande misteriosamente dai 15 ai 34, con tutte le nefaste conseguenze che potete immaginare? Vi hanno mai spiegato che l’Europa, in particolare negli anni 90, ha fortemente caldeggiato la “formazione continua” come possibilità di distribuzione di lavoro e conoscenze, ma che poi si è tramutata solo in commercio di brevetti – alias bieca privatizzazione delle idee in cui gli americani primeggiano – e in Italia non ha fatto altro che distribuire denari sottobanco ai soliti noti? Ma prima ancora, vi hanno mai detto che cos’è la formazione continua – che peraltro è un diritto – e quanto potrebbe cambiare le vite di tutti? Questo e molto altro viene raccontato a ritmo incalzante da questi giovani surfisti che non si accontentano di tratteggiare l’avvilente condizione dell’università italiana, né cedono ai banali ritratti sociologici della gioventù ribelle. Qui c’è in ballo il futuro – che, parole loro, nella Repubblica del ricatto invece che avanti ce l’hai alle spalle – e l’esercito del surf non ce la fa a immaginarsi come una generazione sconfitta ancora prima di cominciare. Vuole dire la sua, Vuole iniziare a decidere quello che lo riguarda. […] non è fatto di “giovani” che si rivoltano in quanto “giovani” […] è fatto di studenti che in quello che fanno vogliono trovare un senso. Di ex studenti che pensano che c’era un’alternativa al loro presente di rammarico. Di tanti altri che hanno studiato, poi hanno smesso, hanno ricominciato e rismesso, che rassegnati non sono e non sono neanche giovani e che scelgono di buttarsi nell’onda perché l’onda ha qualcosa da dire (pp 25, 26). Viene in mente lo splendido testo di Antonio Neiwiller Per un teatro clandestino e l’urgenza di “comunicare tra le macerie” che non può più essere rimandata. I surfisti, o se preferite l’Onda, sono i soli che in questo Paese, dopo anni, stanno comunicando tra le macerie dei vecchi partiti, delle obsolete Repubbliche, degli inganni e dei trucchi da quattro soldi che dietro l’orpello delle riforme e/o delle crisi hanno isolato le esistenze di più di una generazione. La loro antipolitica – che nulla ha in comune con Beppe Grillo e Di Pietro – è in realtà una sofisticata proposta politica completamente autonoma dall’agonizzante sistema della rappresentanza, una parola nuova sull’esistente che non può essere delegata. Ci troviamo di fronte al superamento della canonica dicotomia forti/ deboli che ha incaricato per anni la “sinistra” di difendere i secondi dai primi senza ottenere mai risultati convincenti. Per quanto sfruttati gli studenti non si sentono deboli perché la comunicazione e lo scambio di conoscenze li ha resi forti del linguaggio e dell’auto-organizzazione delle proprie vite. Le “passioni tristi – invidia, arroganza, imbecillità, rancore e risentimenti” non li riguardano, rifiutano l’etica del sacrificio re-inventando continuamente le proprie esistenze senza temere la crisi perché sotto la crisi ci sono nati. Sono le isole di cui parla Gilles Deleuze, nate da una disarticolazione, da una frattura e per questo sopravvissute all’inghiottimento di ciò che le tratteneva. E per rispondere a chi sostiene che i nostri surfisti siano sulla cresta dell’onda solo grazie alla disastrosa crisi che ci travolge, restiamo sul Deleuze delle isole – al quale tra l’altro gli abitanti delle pieghe dell’onda si rivolgono con L’esercito del Surf – il quale ci ricorda che non c’è una ri-creazione, una seconda nascita perché c’è stata una catastrofe, ma il contrario, c’è una catastrofe dopo l’origine perché ci deve essere, fin dall’origine una seconda nascita. In libreria: Internazionale Surfista, L'esercito del surf. La rivolta degli studenti e le sue vere ragioni. DeriveApprodi, pp. 67, 5 euro. Il luogo dell’anima “Il giardino di limoni” palestinese di Rikli si specchia nel in quello russo di Anton Cechov di Federico Pontiggia «La casa è solo un sintomo esterno, una conseguenza, appunto una metafora. (…) Il tema dell’abitare, non a caso, emerge proprio nel momento in cui la condizione di “cittadino”, ossia di “parte del corpo statale” è messa in crisi (…)». Queste le riflessioni di Gian Maria Tosatti dopo la visione de Il giardino dei ciliegi di Cechov messo in scena da Ferdinando Bruni per Teatridithalia a Roma. «La famiglia di Ljubov’Andreevna perde la sua casa – scriveva Tosatti - non per via dei debiti. La perde perché nessuno di loro, né Ljuba, né Anja, né Leonid, né Varja, ha più un posto nel mondo. Il drammaturgo russo parla appunto di quello che accade quando un arco generazionale smarrisce la propria centralità, la propria collocazione sociale». Cambiando epoca, nazionalità, forma e supporto, è quanto accade in un altro giardino, il Giardino di limoni portato sullo schermo dal regista israeliano Eran Riklis. Premio del pubblico alla Berlinale, una teoria di cartelloni eccellenti ed eterogenei (Sfantu Gheorghe, Torino, Tertio Millennio Film Fest a Roma), protagonista è la splendida attrice palestinese Hiam Abbass (già ne La sposa siriana di Riklis), nei panni della vedova Salma Zidane, che in Cisgiordania si trova con un vicino di casa molto scomodo: il ministro della Difesa israeliano. Per ragioni di sicurezza, le viene intimato di abbattere il suo giardino di limoni, di cui – e per cui - vive: complice la solidarietà della moglie del ministro, Mira, e l’amore del suo giovane avvocato, porterà il caso davanti alla Corte suprema di Israele. Una e bina in sala a dicembre (anche ne L'ospite inatteso di TomMcCarthy, altro film da non perdere), la Abbass si carica sulle spalle la nuova esplorazione della situazione medio orientale di Riklis: è lei il termometro della crescente follia del teatro israelo-palestinese, ma la prospettiva non è politica, bensì umana. Sotto i riflettori, la relazione empatica tra Salma e Mira, in cui affinità private ed esternalità pubbliche si fondono nel segno del femminile. Coraggio e libertà, lotta e diritti, a tutto si dà del “lei”, con una ferma dolcezza che riesce a mettere nel fuoricampo qualche inverosimiglianza del plot, la minaccia del buonismo e le insidie dell’apologo. ovvero alla spoliazione identitaria che passa dalla privazione del proprio habitat, habitat vitale, senza enfasi alcuna. E quanto sia vitale l’habitat di Salma è già tutto nel giallo acceso dei suoi limoni, condannati ad avvizzire e seccare per la ragion di Stato, uno Stato altro, vieppiù normativo e restrittivo: “Pur essendo uno Stato democratico – dichiara Riklis - Israele continua a occupare West Bank e Gaza: bello se tutto si potesse risolvere in un'aula giudiziaria, ma qui come altrove la pretesa d'imparzialità e giustizia si scontra con le influenze esterne, innanzitutto la politica". Politica, ovvero esprit de geometrie, declinata al maschile, cui si contrappone la comunione empatica del femminile, ovvero l’esprit de finesse che percorre gli sguardi solidali di Salma e Mira: non basterà, forse, a salvare quei limoni, ma poco importa. La privazione coatta dell’identità di Salma, già precaria perché palestinese, e Mira, ridotta a “moglie di” dalla nomenklatura israeliana, se da un lato rivela la fragilità dell’hortus conclusus, dall’altro apre all’ultimo privilegio umano, la hybris: una hybris che, mitigata, ovvero rafforzata, dai legami di genere (femminile), conserva un residuo locus amoenus. Pur sotto sfratto, pur mal posto al mondo, quel giardino diviene l’ultimo baluardo identitario, in cui il principio d’identità trova nuove, ovvero eterne, congruenze: la perdita della centralità esistenziale, già marginale, di Salma, la reclusione nella gabbia d’avorio di Mira, in estrema sintesi, la loro genericità, trova un nuovo habitat: f(emminile) = f(emminile). Fragile, etereo, ma irriducibile: sguardo genericamente orientato. Rivelato da un altro sguardo, transgender: il cinema. I padri e i figli Banche della memoria e archivi di diari fanno della rete uno spazio di confronto tra le generazioni di Graziano Graziani "Una catastrofe in Israele, un successo nel resto del mondo. Chi ha letto la sinossi - una donna palestinese contro lo Stato d'Israele - si è scoraggiato, ma chi l'ha visto, anche alcuni generali, ne è rimasto entusiasta", dice Riklis, che dopo La sposa siriana voleva tornare a parlare di Medio Oriente, “ma prendendomi più rischi, stando più vicino a casa: quando ho letto un trafiletto su una palestinese che si era appellata alla Corte Suprema per il suo uliveto, avevo tutto per girare: una donna, degli alberi e una storia". Una storia che ci riporta al vulnus di Cechov, Internet può avere un ruolo nella costruzione di una memoria e, attraverso di essa, di un’identità? Per quanto possa apparire una provocazione parlare di memoria e identità all’interno di un media che trova il suo specifico proprio nella fluidità, nella magmaticità e nella continua evoluzione delle informazioni, questa domanda si connette a una delle funzioni che la rete sta assumendo e sviluppando, proprio negli ultimi anni, grazie ai social network: quello di archivio di immagini, documenti, filmati. Un archivio per di più caratterizzato dall’immediatezza e dalla orizzontalità della rete. Anche da un punto di vista strettamente professionale, l’informazione che si vende on-line – quella cioè che ha valore commerciale, e che quindi trova acquirenti in quanto contenuto – è quella “di archivio”. A dispetto della tendenza imperante nel giornalismo on-line, che vuole notizie leggere, brevi, altamente informative e prive di qualunque approfondimento, la domanda di contenuti si indirizza verso l’esatto opposto. Lo sanno bene le grandi testate del giornalismo internazionale, che offrono gratuitamente l’informazione-lampo, quella quotidiana (riscuotendo profitti dalla vendita di pubblicità) e mettono in vendita i loro archivi, fatti di editoriali, approfondimenti, reportage. E lo sanno bene blogger, scrittori e giornalisti che utilizzano la rete: la vita di un articolo on-line è infinitamente più lunga che sul cartaceo, e per quanto questa seconda categoria goda ancora di maggior “prestigio”, è innegabile che la scrittura on-line resti visibile ben oltre la sua data di pubblicazione, sia sempre rintracciabile dai motori di ricerca, linkabile da altri articoli, e consultabile all’occorrenza. Il maggior prestigio di cui gode la parola stampata è l’esistenza di un filtro, che ne garantirebbe la qualità. Vastità e accessibilità sono due dei pregi maggiori della rete, ma contemporaneamente per molti costituiscono il suo limite in termini di gestibilità e credibilità. Sotto accusa, ad esempio, c’è l’incredibile quantità di informazioni private, quasi sempre di carattere autobiografico, con cui i singoli utenti riempiono la rete. Foto, testi e filmati un tempo relegati tra le mura domestiche si riversano nel mare magnum digitale e – grazie ai social networks – entrano nelle case di chiunque voglia condividere i propri contenuti. Ovvero, la stragrande maggioranza delle persone con un’alfabetizzazione medio-alta dei paesi cosiddetti occidentali (fermo restando il gap generazionale nelle fasce over 40). Chiunque operi nel campo della comunicazione sa perfettamente che lo sdoppiamento dell’io, proiettato on-line in una continua rifrazione che si rimpalla tra pagine MySpace, profili Facebook, filmati YouTube e gallerie fotografiche Flickr, è una realtà in crescita e un serbatoio di informazioni ormai insostituibile. Oltre ad ospitare la comunicazione di centinaia di migliaia di band musicali, artisti visuali, fotografi, poeti e teatranti, questo flusso di informazioni scaturito dall’interconnessione della blogosfera con i social networks ha realizzato quello che è il tarlo centrale della scrittura diaristica: l’eventualità, sempre meno remota, che qualcuno la legga. «Non si scrive mai qualcosa di autobiografico pensando che nessuno lo leggerà. Anche se questa è un’eventualità concreta, si scrive sempre tenendo presente la possibilità – o la speranza – che qualcuno prima o poi legga ciò che viene riportato per iscritto». A parlare è Luca Ricci, regista della compagnia teatrale CapoTrave, di Pieve Santo Stefano, il comune toscano che ospita l’Archivio diaristico nazionale, voluto da Saverio Tutino. L’archivio, fondato nel 1984, raccoglie diari, memorie ed epistolari degli italiani, senza filtri di sorta, né di contenuto né di forma. Nella stratificazione degli oltre 7.000 testi depositati presso l’archivio è possibile leggere una serie di fili rossi che attraversano la scrittura autobiografica nel corso dei decenni, nonostante le opere depositate presso l’archivio siano state scritte nel privato. Ad esempio, il fatto che quasi tutte le storie narrate hanno a che vedere con “eventi di separazione”, che hanno la caratteristica comune di essere riportati su carta solo al momento della loro conclusione. «Sia che si parli delle due guerre mondiali, che sono i periodi storici più rappresentati nell’archivio, o di fatti privati come l’uscita da una tossicodipendenza o la fine di un matrimonio, comunque il nucleo centrale delle narrazioni diaristiche ha sempre a che vedere con una cesura, un evento di separazione», spiega Luca Ricci. La maggioranza dei diari e degli epistolari conservati riguardano il Novecento, nonostante una piccola parte risalga al secolo precedente, e addirittura al Settecento. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso si verifica una novità: cambiano i supporti, e molti diari cominciano ad arrivare in formato elettronico, mentre gli epistolari giungono sottoforma di scambi di mail. «Anche se è innegabile che la scrittura a mano sia spesso caratterizzata da una dimensione di riflessione maggiore – precisa Ricci – l’attitudine che c’è nello scrivere le proprie memorie non cambia di molto tra la signora di fine ottocento e il blogger di oggi. La rete può velocizzare il linguaggio, ma sullo sfondo di entrambe le esperienze c’è l’idea di fondo che ciò che si scrive possa essere letto. Questo significa che la scrittura diaristica non è mai davvero un soliloquio, ma anzi si avvicina più al monologo – recitato davanti a un pubblico – se non addirittura al dialogo, perché si presuppone sempre l’esistenza di un lettore. L’istituzione dell’archivio accentua questa ipotetica dimensione dialogica: raccogliere i diari in un luogo significa dare una panoramica, creare una dimensione plurale in cui i singoli monologhi assumono un significato più ampio». Ed è proprio questa dimensione dialogica che sta alla base di un progetto di recente realizzazione, «Memoro – la banca della memoria», che sul sito www.bancadellamemoria.it raccoglie una serie di testimonianze, per lo più di gente anziana, restituite alla libera fruizione della rete sotto forma di filmati in streaming. Una sorta di YouTube della memoria, dove i “vecchi” possono lasciare la propria testimonianza alle persone più giovani, ricreando quella dimensione del racconto che fino a pochi anni fa legava le generazioni nel processo di trasmissione del sapere. Grazie al filmato, non solo le storie, ma anche le facce, le espressioni, le voci contribuiscono a dare corpo ai racconti. Un processo di condivisione che non solo riconnetteva in modo indelebile generazioni passate e future, ma era la base che queste ultime prendevano come partenza per la costruzione della propria identità. Non è un caso, infatti, che questo progetto nato sotto il patrocinio della Provincia di Cuneo si sia dato l’obiettivo di creare un ponte tra le generazioni, tanto da decidere di devolvere gli utili del progetto ad associazioni di anziani e ad associazioni a tutela dell’infanzia. Al di là della funzione di archivio, la rete rende possibile la messa in connessione dei contenuti con un’ampia fetta di utenti – cosa che le istituzioni classiche non sono più in grado di realizzare. Questo significa non solo creare uno spazio per la memoria, ma anche rendere questa memoria “viva”. Lo stesso vale per l’archivio nazionale: «Quello di rendere l’archivio un posto vivo è stato uno dei nodi fondamentali del progetto di Pieve – spiega Luca Ricci – Tutino era un comunista fuori dai ranghi, quasi un dissidente, che dell’orizzontalità del sapere (come del potere) fece il suo chiodo fisso. Dietro l’archivio non c’era solo l’intenzione, paternalistica, di dare corpo all’idea di una “storia scritta dagli umili”; c’era anche l’idea di un luogo vivo, che oltre a conservare le memorie produce a sua volta memoria». Per questo è stato istituito un premio, che mantiene vivo l’afflusso di opere diaristiche, ed esiste una commissione che legge le opere e una volta l’anno decide la pubblicazione di un diario particolarmente interessante. Di fondo c’è l’idea di un luogo che non solo accoglie la memoria, ma che è anche in grado di farla riverberare nel presente, come elemento imprescindibile per la costruzione dell’identità dei contemporanei. E della contemporaneità. Chi è presente alzi la mano L’Accademia degli Artefatti torna su Tim Crouch e affronta “My arm” di Mariateresa Surianello Sarà perché il luogo ci è divenuto familiare, ma il My Arm che l’Accademia degli Artefatti ha allestito, a Roma, al Rialtosantambrogio ha proprio soddisfatto le nostre aspettative di spettatori. Preciso ed essenziale nel rimbalzo tra realtà reale e riprodotta in video, da creare un ritmo dialogico, e a tratti corale, in una pièce monologante. E poi in quel totale annullamento di barriere tra la scena e la sala risiede forse l’essenza della ricerca che sta impegnando il regista Fabrizio Arcuri per il progetto “ab-uso”. Oltre a corrispondere alle modalità di intervento performativo dello stesso autore, Tim Crouch, di cui si è visto recentemente il suo An Oak Tree direttamente in spazi espositivi (al Madre di Napoli, con la regia di Carlo Cerciello, per esempio, per il Teatro Festival Italia). Secondo appuntamento questo My Arm per Arcuri (il primo è stato lo stesso An Oak Tree) con il drammaturgo e attore britannico, che molto successo sta avendo anche in Italia, con le sue opere poste su quella linea di confine, molto labile per la creatività contemporanea, che separa la rappresentazione teatrale dalle arti performative. Come in questa, il cui primo allestimento è stato a Edimburgo nel 2003, segnando il debutto nella scrittura di Crouch. Portata in diversi Paesi, My Arm è stata adattata per la tv britannica BBS, vincendo il Prix Italia nel 2005. Un meccanismo quindi rodato, che Fabrizio Arcuri imbrocca con particolare maestria, perfezionando i risultati ottenuti con Martin Crimp e in parte anche con Mark Ravenhill. Quando si entra nella sala del Rialto, Matteo Angius è seduto tra il pubblico e sembra l’addetto al video proiettore, a sorpresa invece si alza e inizia il suo monologo, esercitando un immediato coinvolgimento degli spettatori. Chiede loro degli oggetti personali a caso e inizia a chiamarli con altri nomi, una sciarpa, un cappello, un portaocchiali, nelle sue mani, possono addirittura diventare personaggi della storia che si accinge a raccontare. Una storia tanto raccapricciante quanto assurda, eppure verosimile nella falsità della scena. Un bambino chissà per quali disequilibri familiari comincia a compiere atti di autocoercizione, che all’inizio possono essere il silenzio assoluto per qualche giorno o il non andare in bagno per un mese, ma poi approdano a un gesto semplice e insensato nella sua irreversibilità. Il bambino solleva un braccio e in una sfida con se stesso e col mondo intero lo mantiene in quella posizione per venticinque anni, fino all’atrofia e alla cancrena. Il protagonista ha infatti trent’anni quando col pubblico torna ai nodi cruciali di quello che suo padre definisce un atto di volontà. Spedito dallo psichiatra, il bambino diventa adolescente, ragazzo e infine adulto, condannato a quel suo atto di potenza. Non che sia molto diversa questa condizione dal tunnel dell’anoressia, da quella possibilità di controllo di un bisogno primario spinto fino al delirio dell’annullamento corporeo. Tra le risate che provoca la storia, il gioco di relazione col pubblico si fa sempre più serrato, mentre Angius si riprende in diretta con la telecamera o costruisce dei teatrini con quegli improbabili oggetti presi in prestito dal pubblico. Ogni tanto compare in scena Emiliano Duncan Barbieri per interrompere con la sua chitarra rockeggiante il flusso delle parole. Sul fondale intanto il filmino in super8 di un neonato paffutello e giulivo lascia il posto al ragazzo ormai cresciuto, che insiste in quella sua posizione. E’ bravo l’attore a interagire col video che scorre implacabile, imponendo e serrando il ritmo dell’azione. Sono le riprese spudoratamente false di un passato vissuto con quell’assurdo impedimento, ma “in realtà” riconosciamo essere quel set tutt’altro che il posto dell’adolescenza del ragazzo sull’isola di White, è il piazzale del Teatro India con le due cisterne. Anche la descrizione dettagliata dei disturbi provocati dall’infausta posizione non recano disagio tra gli spettatori, il clima di complicità resta sempre alto, perché lo scopo non è commuovere, ma scuotere il pensiero. Quello che Tim Crouch vuole tentare è lo svelamento del rapporto tra attore e spettatore, vuole provare a scendere nelle dinamiche della finzione in relazione alla realtà. E nella falsità delle cose che ci circondano, dagli oggetti alle persone. C’è da riflettere sul parossismo finale della storia di Crouch con quel corpo deformato e marcito che si fa pura essenza reificata, cancrena mercificata ad uso e consumo di spietati mercanti d’arte contemporanea. I vivi e i morti Ha debuttato al Teatro India “Autobiogafia della vergogna (Magick)” di Lucia Calamaro di Attilio Scarpellini Del sulfureo Georges Denis, pranoterapeuta e mago, protagonista di uno studio presentato in estate, resta poco o nulla nella versione di Magick che Lucia Calamaro ha allestito al Teatro India. Ma non è un gran danno: il nuovo Autobiografia della vergogna (Magick) gioca su ben altri piani il suo carisma, la sua magia, dispiegando fin dalle primissime battute – quando il sipario è ancora abbassato e la voce fuori campo sembra percuoterlo – la sua potenza squisitamente teatrale. Non è uno spettacolo riuscito: è uno spettacolo memorabile destinato a segnare una svolta espressiva in un teatro che, finalmente, torna ad esserci contemporaneo. Basta un attimo, mentre il sipario si alza lentamente e lascia scorgere tra i piedi delle attrici la sorprendente distesa dello spazio scenico dell’India disseminato di libri come foglie morte in autunno, per capire che questa visione in controluce ha la precaria ma invincibile perfezione dei sogni. Dalla finestra del fondo una luce cangiante rivela uno squarcio di natura – è la prorompente vegetazione di fiume che circonda l’India – ogni volta diverso: verde brillante – con il fogliame che ghiaccia nel vento temporalesco – giallo autunnale, rosso mistico e sanguigno, un orologio di umori caricato dal genio luminario di Gianni Staropoli. Il teatro è un “altro” mondo che di questo cattura le parvenze per restituirne la perturbante metamorfosi: un’ora dopo i libri sparsi a terra finiranno appiccicati alle pareti in un frenetico cambio scena dove l’orizzonte limbico dell’inizio si organizza in biblioteca (e precisamente, nella biblioteca Richelieu di Parigi), giocando una seconda volta sulla profondità dello spazio come possibilità di modificazione onirica. Prima di stanza in stanza, nell’universo scoperchiato di una bolla familiare, poi di corridoio in corridoio in una Biblioteca di Babele, dove finalmente risuona, confuso ad altri titoli, il suggestivo Magick del malvagio Crowley. Nell’installazione dei suoi altrove, Lucia Calamaro ricorda Kantor, ma non si accontenta di una figurazione icastica: sulla sua scena allucinatoria, scrive e nel contempo legge, come Cartesio che nel famoso sogno raccontato da Bailly vedeva e decifrava insieme. Scrive e legge una fenomenologia della vergogna che – non ci sarebbe nemmeno bisogno di sfogliare gli appunti teorici che precedono il testo edito da Voland – è una patologia dello sguardo, l’epifania della fine di se stessi (della propria de-soggettivazione) nello sguardo degli altri. E per questo un sentimento acutamente pre-politico che tocca il ventre molle dell’immoralismo italico, il nucleo originario, in un certo senso, di tutte le questioni morali: la famiglia. Autobiografia della vergogna è una tragedia familiare raccontata da tre clown d’oltretomba che nel loro antinaturalistico essere e non essere – figlia, padre, madre – riescono a trasformare una storia catafratta nella biografia individuale dell’autrice nella parabola per tutti e per nessuno di una vergogna universale che si nasconde dietro ogni porta sbarrata dal segreto e dietro ogni sguardo segregato dalla paura degli (e per gli) altri. Che la Calamaro non tema di tradurre sulla scena la complessità di una scrittura che accoglie nel suo corpo anche il pensiero (e la citazione) è, dopo tanti pinterismi di maniera, un segno di maturità della nostra drammaturgia. Che per due ore di spettacolo ogni parola del suo poema diluviale vibri come se venisse generata in quel momento dalla tremula carne delle interpreti – Monika Mariotti, Benedetta Cesqui e la stessa regista – è più che inedito, quasi sublime. Ma persino nei teatri, talvolta, il teatro accade. Poetica dello sguardo (che spia o che si nega), estetica della vergogna: è il segreto il nocciolo duro del dramma di Magick, autoritratto in forma di spettacolo che nella controluce del biografema lascia trasparire il ritratto di un’italietta familista e provinciale sempre pronta a occultare dietro la porta (“Chiudi la porta che ti devo dire qualcosa”) i suoi vizi e i suoi odi, i suoi e i suoi malati - ma anche, come ben spiega il Padre, a utilizzare l’omertà e l’omissis come strumento di divisione e di controllo: “bisognava sapere e non dire/ e comunque a persone diverse/ mai/ la stessa cosa// dividere per comandare, controllare”. La vergogna è anzitutto segregazione dello e dallo sguardo: nel segreto affonda e lentamente illanguidisce la Madre, negata prima per la sua origine sociale – il Padre borghese ha messo incinta e segretamente sposato la cameriera di casa – poi per la precocità della sua demenza, come se solo una letterale evanescenza dell’essere potesse rispondere all’annientamento simbolico di cui è oggetto. Dal segreto, tara di origine della vita familiare, promana il contagio di una vergogna sintomatica che si trasmette di Madre in Figlia, sotto forma di ritorsione dello sguardo nell’esilio di una vita secondaria. Nel segreto – anzi nella “cultura del segreto, del nascondarello” - affonda le radici il godimento irresponsabile del Padre, la sua fuga, il vuoto del suo sentimentalismo da cui Monika Mariotti che in scena ne traveste il fantoccio trae struggenti arie pucciniane (altro stigma, dopo la provincia, dell’identità italiana: la perennità del melodramma e l’inconsistenza del tragico). Se la Calamaro avesse voluto parlare di archetipi, insomma, non ci sarebbe riuscita altrettanto bene di quanto ha fatto rovesciando negli stampi della sua scrittura scolpita, precisa fino a divenire esausta, la colata bollente di una materia spudoratamente biografica: operazione già tentata – e riuscita – nel precedente Tumore. Uno spettacolo desolato. Qui come là, in realtà, è il diaframma filosofico a filtrare il caso, l’anomalia, senza arretrare neanche davanti alla definizione, perché la vergogna si comporta appunto come un archetipo, che in ogni singola incarnazione fa riemergere la propria antecedenza: “la vergogna precede se stessa, in un certo senso, tanto che quando fa irruzione nell’esperienza noi la riconosciamo come un’ombra errante che aspettava di incarnarsi.” Non si potrebbe dir di meglio, su una scena oltremondana dove le ombre vagano, vergognose o senza vergogna, salmodiando ciascuna la propria verità e misurando, senza mai colmarla, la propria distanza con l’altro: presenti-assenti, viene voglia di dire, ma soprattutto sperdute in uno spazio che è la nemesi della loro clausura esistenziale. “E’ quando una casa brucia – diceva Kafka – che si vede la struttura che la sorregge”. Casa senza porte: all’opposto del dramma borghese. Casa senza porte, ma non aperta in un agorà (dove il teatro sarebbe tribunale, giudizio): all’opposto del dramma politico. Dilatata nel perturbante come nei sogni dell’infanzia. Spazio non di riconciliazione. Né di liberazione. Forse di espiazione. In libreria: Lucia Calamaro, Autobiografia della vergogna (Magick), Voland, pp. 160, 13 euro. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.