ATELIER 6 - città e crisi globale
Transcript
ATELIER 6 - città e crisi globale
La città laboratorio tra diversità e convivenza . Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 La città laboratorio tra diversità e convivenza Alice Selene Boni Abstract All'interno della città contemporanea il tema della convivenza è argomento all'ordine del giorno. In uno scenario contraddistinto sempre di più dall'avvento della società delle differenze, le città rafforzano il loro ruolo di laboratorio “in cui si sperimentano e si apprendono i modi e i mezzi per una coabitazione umana” (Bauman, 2009). Nel paper si propone di riflettere sulla storia di una vecchia cascina di Milano, negli ultimi anni, al centro dell'interesse di diversi attori e progettualità che l'hanno resa un laboratorio interessante per comprendere come i temi della convivenza, e della diversità, siano oggetto di disputa e di trattamento all'interno delle pratiche e delle politiche nella città. La tesi che si sostiene e che si propone al confronto, è che sia opportuna una ridefinizione dei temi della convivenza e della diversità, superando un approccio comunitarista e una logica acquietata sulla diversità, a favore di uno sguardo che valorizzi la diversità e non ne neghi (anche in una logica di convivenza) la componente eversiva e il potenziale generativo. 1. Il trattamento dei bisogni abitativi tra passato e presente. L’articolazione complessa dei nuovi bisogni abitativi in Italia prende ragione dall’intersezione di una certa numerosità di fenomeni tra i quali si mettono in evidenza: il processo di evoluzione e mutamento della famiglia in atto nel nostro paese (e non solo), anche in virtù della presenza delle nuove culture migranti; la nuova morfologia del territorio disegnata dalla diffusione della mobilità; e gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie nei trasporti, nel lavoro e nella casa sugli stili di vita e sullo spazio residenziale. Questi sono solo alcuni dei temi che condizionano la questione abitativa, e già ne è evidente la ricchezza semantica; cercherò di affrontarli sistematicamente nei paragrafi successivi di questo contributo. Il riconoscimento dei nuovi bisogni abitativi tuttavia non implica di per sé una determinazione oggettiva delle risposte. Non si intende perciò qui proporre una semplificazione quantitativa di dati da trattare in termini amministrativi, ovvero secondo quel modello unitaristico e centralistico che Tosi (1994) ha definito “teoria amministrativa dei bisogni”1, quanto piuttosto si vuole delineare un quadro di riferimento della domanda abitativa attuale che sia capace di produrre alcuni orientamenti per le politiche della casa e per altre azioni mirate sul tema dell’abitare sociale di iniziativa non necessariamente amministrativa. I modi tradizionali di impostare i programmi abitativi dal dopoguerra fino a tutti gli anni ‘70 hanno seguito un orientamento prevalente di tipo centralistico e meramente quantitativo, che ha ridotto “l’abitazione ad un articolo di consumo e l’abitante ad un consumatore” (Habraken, 1972)2. È il cosiddetto fenomeno del mass housing, che si concreta in una sorta di modello universalistico dell’abitare che relega la processualità dell’abitare a mera funzione razionalizzabile. Nei casi più estremi, la casa è la riproduzione in serie di una “macchina per abitare”: standardizzazione di soluzioni ripetibili all’infinito in base alle dimensioni dell’insediamento che si vuole realizzare. Molte delle celebri realizzazioni dell’Ina-Casa e dei quartieri Cep, costruite in Italia a partire dal secondo dopoguerra, hanno corrisposto a questi criteri, e sono ben note le critiche giunte a questi progetti, sia da parte del mondo scientifico, che da parte degli stessi abitanti dei quartieri popolari. Questo approccio generalizzante è stato messo in discussione a partire dagli anni ’70 con la crisi della modernità e la decadenza dei paradigmi positivistici applicati nelle scienze urbane e sociali. A partire da questa sorta di rivoluzione culturale dell’abitare e degli abitanti (penso anche al cosiddetto periodo della “lotta per la casa”) si sono sviluppati nuovi modelli caratterizzati dalla crescita dell’importanza del locale (inteso come il livello scalare più vicino agli abitanti) e dell’informale (ciò che si muove parallelamente ai processi formali regolati 1 Questa tradizione si richiama alle teorie evolutive della modernizzazione che assimilava lo sviluppo e la regolazione sociale alla progressiva generalizzazione e al consolidamento di uno stato organizzativo centrale predominante. (Tosi, 2007, p.39). Si è sviluppata con la crescita dell’intervento sociale dello stato e con la diffusione delle discipline normative. L’elemento critico di questa teoria, in parte già fallita presso le nostre amministrazioni, sta proprio nell’applicare la nozione di bisogno in termini semplificatori e riduttivi: ad ogni bisogno individuato dall’alto (definito dalle amministrazioni in modo autonomo e a distanza dagli utenti) viene fatto corrispondere un servizio “universale” che configura una serie di risposte di tipo quantitativo e a-specifico: edifici standard (pensati nei termini dell’unità abitativa propagandata dal movimento moderno) localizzati in luoghi assegnati e dotati di appropriate infrastrutture (laddove poi queste si sono potute realmente realizzare). 2 Cit. da Tosi, 2007, p.53. Alice Selene Boni 1 La città laboratorio tra diversità e convivenza . dallo stato e dal mercato). (Cfr. Tosi, 1994, p. 91 sg.). Le teorie architettoniche del movimento moderno e i paradigmi positivistici delle scienze sociali vengono dunque messi da parte aprendo la strada ad una identificazione dei bisogni non più predeterminata dall’alto, ma centrata sull’attore sociale, dal basso: «alla riduzione quantitativa dei bisogni e delle soluzioni, una preferenza per i metodi qualitativi e partecipativi». (Tosi 1994, p.94). Questi principi (la partecipazione, l’auto-organizzazione e lo sviluppo locale) apriranno la strada ad una nuova urbanistica “sociale” che maturerà in seguito in Italia durante gli anni ’90 con i cosiddetti “programmi complessi”3 o integrati4 - in particolare, in ambito residenziale (sebbene non si tratti di politiche mirate alla casa), con quei filoni di programmi di tipo “urbanistico” e di “rigenerazione urbana”5– e con l’attività di associazioni e gruppi di ricerca attivi nella costruzione sociale del piano6. Nel quadro sopra delineato si sono sviluppate le politiche per la casa di “prima generazione” (dal secondo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’90)7: «si tratta di politiche di stampo chiaramente fordista, caratterizzate per la loro fissità e per la verticalità dell’approccio, che parte dal livello statale – attraverso i finanziamenti ERP – e arriva a concretizzarsi indistintamente sul territorio delle diverse città interessate. Tipici di questo periodo sono gli interventi di edilizia popolare volti a risolvere il problema della crescita quantitativa delle città». (De Luca, Governa, Lancione, 2007, p.55) L’ultimo decennio del secolo scorso rappresenta dunque una sorta di “periodo di transizione” nelle politiche generali per la casa. La vera trasformazione avverrà di conseguenza al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni (D.lgs 112/1998 “Riforma Bassanini”), con l’assegnazione dell’intero settore dell’edilizia residenziale pubblica alla competenza delle Regioni con attribuzione diretta dei fondi e in concessione agli Enti Locali. A seguito della riforma le Regioni provvedono a dotarsi di un corpo normativo proprio in materia e a riformare gli enti pubblici di gestione delle case popolari in aziende che operino con criteri di economicità (azione già introdotta dalla L.179/92). (Cfr. Gruppo 24 Ore, 2009, p.20) La progressiva riduzione delle risorse destinate dallo Stato all’edilizia residenziale pubblica e i mutamenti sociali della domanda della casa hanno reso necessario il sorgere di nuove politiche definite di “seconda generazione” capaci di dare risposta al mutato quadro esigenziale di social housing8. Due sono i punti fondamentali di questo nuovo orientamento: in mancanza di fondi governativi trovare delle risorse alternative per la produzione di edilizia residenziale a condizioni economiche più vantaggiose rispetto a quelle di mercato; e in considerazione di una domanda eterogenea, sia da un punto di vista del reddito (fino a quella nota soglia del 30% del peso dell’alloggio sul reddito complessivo), che dei gruppi sociali che la compongono (anziani, giovani, single di ritorno, giovani coppie, immigrati, ecc.), offrire una riposta differenziata (non necessariamente in termini di politiche settoriali, ma rispetto alla possibilità di accesso per tutti questi soggetti così eterogenei). La Regione Piemonte ha approvato nel 2006 il “Programma Casa: 10.000 alloggi entro il 2012”, che prevede una serie di interventi nell’ambito del social housing in linea con quest’ottica. L’offerta da parte della Regione si concretizza in una serie di azioni differenziate (azioni di riqualificazione integrata, edilizia sovvenzionata, agevolata, sperimentale, ecc.), anche rivolte a soggetti specifici (giovani ed anziani), e il finanziamento di questi 3 I programmi complessi rientrano nel panorama delle innovazioni della pianificazione urbanistica degli anni Novanta. Il Comitato per l’edilizia residenziale (Cer), operante all’interno del Ministero, ha tentato di impostare procedure innovative volte al recupero e alla riqualificazione urbana dando luogo a strumenti (variamente denominati) generalmente conosciuti come “programmi complessi o integrati”: si intende fare riferimento a diverse famiglie di programmi che si richiamano alla nozione di integrazione degli interventi accumunati da un orientamento al locale come dimensione strategica e il riferimento al territorio come contesto del proprio sviluppo; sono gestiti da attori istituzionali e non; hanno un ampio spettro di contenuto: interventi produttivi, a sostegno sociale o dell’occupazione, azioni infrastrutturali, ambientali, ecc.; e sono attivati da proponenti diversi: ministeri, Unione Europea, una varietà di enti locali, istituzioni o forme di rappresentanza locale innovativa e partecipata. (Cfr. Cremaschi, 2001) 4 L’idea di integrazione sottolinea, da una parte, l’azione contemporanea su più fronti: quello della riqualificazione dell’ambiente fisico, quello dello sviluppo economico, quello del miglioramento della qualità della vita, ecc., cercando di puntare sulle sinergie tra ciascun tipo di progetto; dall’altra, si riferisce al tentativo di dar vita a rapporti di complementarietà tra gli attori pubblici, privati, e del terzo settore. 5 S.Saccomani (2004, p. 30) colloca nel filone “urbanistico” i Programmi Integrati di Intervento (PII, PRIN – art. 16, L.179/92), i Programmi di Riqualificazione Urbana (PRIU - art. 3, L.179/92), i Programmi di Recupero Urbano (PRU – art.11, L.493/93); e nel filone “rigenerazione urbana” i Contratti di Quartiere 1 (DM. LL.PP. 22 ottobre 1997), i CdQ 2 (L. 21/01, DM 27 dicembre 2001 e DM 23 aprile 2003), i programmi Urban 1 e 2 (Fse e Fesr 1994-99 e 2000-06), il Progetto Pilota Urbano (Fesr 1989-93 e 1997-99). 6 L’espressione “costruzione sociale del piano” è messa in evidenza da Ferraresi (1994, p.105) per sottolineare il distacco tra ciò che la “partecipazione” ha significato in Italia negli anni ’70 e ciò che vuole significare “oggi”: «intendo tutte quelle teorie, metodologie, pratiche che assumano come centrale l’attivazione del “terzo attore” nel processo di piano; che prevedano , in secondo luogo, una relazione interattiva tra terzo attore, stato e mercato; e che comportino, infine, una interferenza nei processi interattivi nella supposta autonomia tecnicoscientifica del planner». 7 Si precisa che nel periodo tra il 1978, anno della Legge 457 “Piano decennale per l’edilizia residenziale” (l’ultimo piano consistente ed organico per l’edilizia sociale), e il 1992, anno della legge 179 “Norme per l’edilizia residenziale pubblica” che introduce alcune norme fondamentali in merito alla riqualificazione urbana e introduce i Piani Integrati di Intervento, non è stata attivata a livello statale alcuna politica relativa all’edilizia sociale. In particolare a Torino, dal 1980 al 1995 non è stato indetto neppure un Bando generale per l’assegnazione di alloggi ERP (come si evince dai documenti del Comune del 2006 in merito alle “Caratteristiche e dimensioni della domanda abitativa” – reperibili sul Sito Ufficiale). 8 La definizione estensiva di “social housing” comunemente accettata è quella proposta da Cecodhas (Comitato europeo per la promozione del diritto alla casa): l’housing sociale è «l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari”». (Cittalia, Anci Ricerche 2008, p.45) Alice Selene Boni 2 La città laboratorio tra diversità e convivenza . progetti prevede il concorso di soggetti privati e no profit attraverso la diffusione di operazioni di paternariato. Speciale attenzione poi viene rivolta all’edilizia sostenibile ovvero all’impatto ambientale degli interventi. In particolare, il Comune di Torino sta realizzando alcune significative esperienze di social housing: gruppi di coabitazione per giovani, anziani o famiglie; residenze collettive per singoli da sostenere e accompagnare; alberghi sociali per l’emergenza o brevi periodi; condomini solidali per il mutuo aiuto; coabitazioni solidali per l’accompagnamento sociale nei quartieri difficili di edilizia residenziale pubblica; aree per la realizzazione di alloggi in affitto per le famiglie a reddito moderato; e azioni di sostegno al credito per la prima casa per giovani con lavoro discontinuo. In questo contesto non si intendono approfondire le politiche della Regione Piemonte e del Comune di Torino poiché evinco che verranno già trattate da altri autori presenti all’atelier “Politiche abitative e nuova questione urbana”. Presenterò invece brevemente nell’ultimo paragrafo un progetto di ricerca innovativo - non promosso direttamente dalle amministrazioni, ma dal RE.Lab9 e Ires Piemonte in collaborazione con Equiter (gruppo Intesa San paolo) e The Carlyle Group – che è giunto alla proposta operativa di uno strumento metodologico chiamato “Social Housing 2.0” atto a fornire ai decisori gli elementi per valutare la qualità complessiva degli interventi finalizzati all’abitare sociale. 2. Il processo di evoluzione e mutamento della famiglia in atto nel nostro paese. La società contemporanea ha originato una complessa morfogenesi di famiglie. Uso il termine famiglia al plurale proprio per metterne subito in luce la numerosità dei significati che evoca. Non tutte le convivenze sono “famiglia”, ma una delle prime definizioni richiamate dalla sociologia è proprio quella di «gruppo di persone che vivono insieme sotto uno stesso tetto, l’ampiezza e la composizione di questo aggregato di co-residenti, le regole con le quali esso si forma, trasforma, si divide» (Barbagli, 2000, p.15). La famiglia perciò non ha solo una struttura compositiva rilevabile in termini statistici (numero dei componenti e il loro tipo di legame), ma si definisce anche in base a delle relazioni sociali tra i suoi membri: rapporti di autorità e di affetto, modalità di interazione, emozioni e sentimenti reciproci. I componenti della famiglia però possono anche non risiedere nella stessa casa, e avere tuttavia rapporti sociali intensi e frequenti in vista della conservazione e dell’accrescimento delle loro risorse economiche come del loro prestigio e potere. Il termine famiglia dunque non fa esclusivamente riferimento ad un aggregato domestico che dimora sotto lo stesso tetto, ma include tutta una serie di relazioni e di scambi tra i suoi membri che superano i confini della casa. In modo più appropriato l’inglese, così come il francese, distinguono l’espressione di “aggregato domestico” inteso anche come spazio fisico della convivenza (household e menage), da quella di family e famille, che non implicano necessariamente un fattore di convivenza tra i membri del gruppo familiare. La nostra epoca è contraddistinta da mutamenti radicali della famiglia rispetto a quella concezione tradizionale (e spesso patriarcale) di famiglia formata da un nucleo dove l’uomo lavora e la donna si occupa della casa e dell'educazione dei figli (e che ancora oggi viene spesso presa come riferimento ideale dalla propaganda politica). Questo mutamento coinvolge sia la tipologia della struttura compositiva della famiglia10, sia la tipologia relazionale e i ruoli dei suoi componenti (non necessariamente parenti tra l’altro). I dati statistici (Censimento Istat 2001) rilevano nel nostro paese un aumento del numero di famiglie superiore a quello dell’incremento della popolazione, il che denota la tendenza ad una certa nuclearizzazione dell’aggregato domestico, l’allungamento della durata media della vita e una generale riduzione delle nascite (che porta alla diminuzione dell’ampiezza delle famiglie). Le famiglie quindi crescono in numero, ma ne diminuisce l’ampiezza media: è il cosiddetto processo di “contrazione della famiglia” (Donati, 2006, p.250). 9 RE. LAb è il laboratorio che la Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino ha attivato nel 2007 in collaborazione con il Politecnico di Torino con lo scopo di mettere a disposizione degli stakeholders pubblici e privati un luogo di scambio di conoscenze del settore del mercato del Real Estate. 10 Riguardo la struttura compositiva dell’aggregato domestico la manualistica (Barbagli, 2000; Saraceno, Naldini, 2001) è concorde nel distinguere ancor oggi le cinque categorie fondamentali di strutture di convivenza familiare proposte da Laslett (1977, p.34 sg.): 1. Gruppi domestici “semplici”: genitori/genitore solo con figli o coppia senza figli; e preciserei, coniugate o non coniugate: coppie sposate o non possono avere le medesime caratteristiche relazionali e simili prassi di convivenza poiché la legittimità del legame non determina la modalità di fruizione dello spazio abitativo. È quella che si solito viene chiamata “famiglia nucleare”, famiglia elementare o biologica, o ancora “unità familiare coniugale”. 2. Gruppi domestici “multipli”: dove sono presenti più nuclei coniugali uniti da relazioni di parentela (perciò si può articolare lungo l’asse generazionale) o di matrimonio. All’interno dell’aggregato ci sarà un nucleo primario che comprende il capofamiglia e una o più unità familiari satellite secondarie. Questo gruppo viene anche detto “famiglia congiunta” 3. Gruppi domestici “estesi”: famiglia semplice o nucleare con cui convivono parenti di primo grado ascendenti, discendenti o collaterali che non formano un secondo nucleo; 4. Gruppi domestici “senza struttura”: convivenze senza chiari rapporti di generazione o di coppia, ma che possono anche avere legami di parentela (fratelli, sorelle) o addirittura senza legami apparenti (persone che si limitano a condividere un’abitazione: pigionanti o lodger o semplicemente coinquilini, inmates che sono considerati membri di una stessa houseful). 5. Famiglie uni-personali di tipo “solitario” composte da un solo componente senza figli. Alice Selene Boni 3 La città laboratorio tra diversità e convivenza . Esistono poi delle tendenze che vanno in direzione opposta alla progressiva contrazione della famiglia e che non vengono rilevate dalle statistiche ufficiali. Queste recenti tendenze portano alla formazione di nuove strutture di convivenza: 1. Famiglie ricostituite o ricomposte che si formano a partire da altri gruppi familiari (senza legami di parentela reciproci tra i due gruppi precedenti) e che spesso portano con sé i figli avuti dalla precedente relazione componendo così un nuovo aggregato domestico. In questo caso almeno uno dei due genitori della famiglia ricostituita è separato o divorziato. 2. Nuove tipologie di famiglia estesa che diffondono un modello di tipo “coniugale neolocale” (Barbagli, 2000): non più casi tradizionali di giovani coppie che convivono con i genitori, ma casi di ricoabitazione di genitori soli o anziani con i figli magari separati. 3. “La famiglia lunga” (Scabini, Cigoli, 1997) caratterizzata dalla copresidenza di genitori e figli “giovani adulti”, ovvero quei soggetti che vivono un tempo della vita di passaggio tra le due condizioni apparentemente contraddittorie di giovinezza (una fase ancora di crescita) e dell’età adulta (lo stato di crescita ultimata). 4. “Famiglie estese modificate” (Donati, 2006), cioè famiglie nucleari legate da vincoli di parentela che abitano “a distanza” (per ragioni di mobilità sia geografica sia sociale) ma che hanno una densità elevata di scambi reciproci sostenuta anche dall’impiego di nuove tecnologie di comunicazione. Le strutture familiari sono in parte modificate anche da un generale aumento dell’indice di invecchiamento della popolazione italiana. Questo implica alcune osservazioni significative: che l’età media elevata dei componenti della famiglia comporta un’evidente rimodulazione dei bisogni; e che si genera un forte squilibrio nei rapporti generazionali dovuto alla massa crescente degli anziani e alla minoranza dei giovani (anche per riduzione della natalità). Tra gli anziani inoltre esistono alcune forme di provvisorietà di convivenza motivate da situazioni di convenienza: il matrimonio tra persone anziane infatti spesso porta alle perdita di alcuni benefici economici (assegni di pensione o altro) o anche il titolo di affitto della casa. Le conseguenze di tutto ciò toccano ovviamente anche la ristrutturazione degli spazi abitativi generando nuove esigenze: di spazi di privacy (tra generazioni o tra semplici co-abitanti), di spazi dedicati all’assistenza domiciliare, di accessibilità fisica ed economica degli alloggi, ecc. Il fenomeno del “pendolarismo familiare” (Saraceno, Naldini, 2001, p.45) rappresenta un’altra forma di destabilizzazione della forma tradizionale famiglia. Questo fenomeno coinvolge circa un quarto della popolazione italiana e riguarda tutte quelle persone che continuano a mantenere la residenza anagrafica presso la casa dei genitori, ma vivono stabilmente altrove o trascorrono lunghi periodi in altre città: sono gli studenti fuori sede, giovani lavoratori, figli piccoli di genitori separati o divorziati, ecc. Di conseguenza si assiste alla formazione di aggregati domestici temporanei che producono nuovi modelli di residenza: case per studenti, cohousing in affitto, convivenze del tipo “senza struttura”, ecc. La diffusione di questi fenomeni di mutamento della forma della famiglia consegue il fabbisogno di nuove case: se la famiglia di sdoppia anche le case dovranno divenire due; se la famiglia si ricostituisce lo spazio abitativo dovrà essere sufficiente ad ospitare i nuovi membri, perciò facilmente si genererà il bisogno di un alloggio più grande o con una diversa struttura; se la famiglia si riduce l’alloggio precedente potrebbe non essere più sostenibile in termini economici o semplicemente inadatto all’utenza rinnovata. Una tipologia esaustiva di tutte le nuove forme familiari certo non è possibile, tuttavia alcuni studiosi hanno cercato di distinguere alcune categorie significative (Donati, 2006, p.41): • le forme neo-strutturali come la famiglia a doppia carriera o con una divisione del lavoro intra ed extra familiare più interscambiabile che in passato tra uomo e donna; • le forme neo-comunitarie caratterizzate da un ethos di solidarietà, sia nelle relazioni interne che in quelle di partecipazione a comunità scelte; • le forme ricostituite a seguito del divorzio/separazione; • le forme alternative come le famiglie ad un solo genitore per scelta di un adulto o le unioni libere. Tutti questi nuovi tipi di famiglia dunque danno luogo a numerose e differenziate forme dell’abitare che ridisegnano la forma, la funzione, l’uso e la struttura dello spazio urbano e della casa. I mutamenti della famiglia italiana infine vanno considerati parallelamente all’entrata dei flussi migratori che determinano condizioni di ulteriore varianza della forma della famiglia, perché portatori di tradizioni, culture e modelli di vita anche profondamente differenti dai nostri. Il numero di cittadini stranieri residenti in Italia è pressoché triplicato tra il censimento del 1991 e quello del 2001, e l’allargamento dell’Unione europea nel 2004 e nel 2007 ha avuto un forte impatto sulla composizione per provenienza dei flussi migratori nel nostro paese, mostrando così la rilevanza del fenomeno dell’immigrazione. Considerato poi che la quota più consistente dei nuovi immigrati è costituita da popolazioni provenienti da paesi a basso grado di sviluppo, quasi sempre si generano fenomeni di segregazione residenziale: quella «a base etnica – e, dunque, fondata sulle differenze relative alle tradizioni, ai costumi e agli stili di vita di gruppi con diversa origine etnica e geografica – e quella a base socioeconomica – e, dunque fondata sulle differenze di reddito e di status sociale». (Mela, 1996, p.218). Il fenomeno della segregazione porta di conseguenza alla formazione di enclave, involontarie e non, all’interno delle città, “ghetti” che si possono evitare soltanto attraverso la realizzazione di schemi di distribuzione Alice Selene Boni 4 La città laboratorio tra diversità e convivenza . residenziale caratterizzati da una certa mescolanza dei gruppi etnici e sociali. Si pongono dunque importanti problemi di integrazione territoriale, la cui risoluzione coinvolge anche la questione della distribuzione socioterritoriale degli abitanti nelle politiche della casa . Studiare le trasformazioni dell’habitat quindi non significa soltanto studiare le trasformazioni della famiglia sulla base del numero dei componenti del nucleo familiare, programmando un certo numero di alloggi sulla base di parametri prettamente quantitativi11, poiché il mutamento dell’abitare contemporaneo è un fenomeno complesso che incrocia con numerosi altri fattori che vedremo qui di seguito, tra i quali abbiamo summenzionato quello della mobilità fisica e sociale e quello del cambiamento dello stile di vita indotto anche dalla diffusione delle nuove tecnologie. 3. La nuova morfologia del territorio disegnata dalla diffusione della mobilità. La città post-industriale è caratterizzata da un consistente aumento degli spostamenti dei residenti fuori e dentro le “mura”, e i suoi spazi abitativi e di relazione sono usati secondo modalità nuove: spazi di transito, spazi di segregazione, spazi gentrificati, aree dismesse e vuoti urbani di incerta interpretazione e destino, ecc. La città occupa il territorio in modo frammentato: «si abita in un luogo di cui si ignorano gli altri abitanti, si passa il tempo libero con parenti o amici che vivono in posti diversi, si frequentano ritrovi o associazioni dispersi in un vasto raggio, si lavora, talvolta in luoghi molto lontani dalla propria residenza o, addirittura, si svolgono più lavori delocalizzati con un effetto di stiramento nel tempo e nello spazio (Giddens, 1994).» (Gazzola, 2003, p.14) Attualmente i flussi in uscita dalla città non sono legati esclusivamente agli spostamenti per il lavoro, piuttosto tale scelta sembra condizionata dai vantaggi offerti per la casa: si cercano alloggi adeguati alle proprie esigenze limitatamente alla loro accessibilità economica e fisica (disponibilità dell’auto privata e/o collegamento ai mezzi pubblici). (cfr. Davico, Mela, 2002, p.81 sg.). Inoltre «la forza dei processi di privatizzazione, razionalizzazione e riallocazione tende a sganciare dalla residenza un numero crescente di attività necessarie alla vita quotidiana.» (Borlini, Memo, 2008, p.97). Beni e servizi vengono ridimensionati dalla diffusione a scala di quartiere alla concentrazione in grandi centri commerciali, ridisegnando il territorio e trasformando gli stili di vita degli abitanti. La percezione degli spazi della città e il loro uso tende dunque a cambiare. Le distanze fisiche tra i luoghi sono spesso compensate da una buona rete di trasporti e telecomunicazioni; ma tutto questo si traduce nell’esperienza di un quotidiano sparpagliato sul territorio e in una forte dipendenza dal funzionamento di “sistemi astratti” (Giddens, 1990) di carattere impersonale (vulnerabili e difficilmente governabili), quali i mezzi di trasporto collettivi e i sistemi di circolazione delle automobili. La mobilità individuale tipica della città fordista, caratterizzata da una certa regolarità nei flussi pendolari casalavoro e nell’uso di beni e servizi di prossimità (si pensi al tessuto fitto del commercio che era tradizionalmente presente nei quartieri), è stata ormai sostituita da una mobilità erratica ed irregolare di soggetti sempre più svincolati dai contesti locali: «ciascuno, dunque, vive un’esperienza urbana “individualizzata”, sempre più povera di riferimenti collettivi». (Mela, 1996, p.177). L’esperienza urbana degli individui segue un andamento discontinuo e zigzagante (Nuvolati, 2002) e nasce l’esigenza di confrontarsi con popolazioni urbane sempre più numerose (Martinotti, 1993). I rischi e gli svantaggi generati dalla crescita della città diffusa (è il cosiddetto fenomeno dello sprawl12 urbano) e dunque da uno stile di vita ad elevata mobilità sono stati messi in evidenza da molti autori (cito solo alcuni nomi italiani: Detragiache, Mela, Nuvolati, Salzano, ecc.). L’insostenibilità di questo modello di sviluppo ha portato la ricerca a proporre alcune strategie alternative che implicano il concetto di “sostenibilità dell’abitare” agendo non tanto a livello “micro”, come per le trasformazioni dell’alloggio presentate in precedenza, ma a livello “macro” includendo la dimensione complessiva dell’insediamento13. Una è la strategia di ricompattazione della città che spinge alla produzione di abitazioni capaci di riprodurre i vantaggi della residenza nella città diffusa (la sostenibilità economica dei costi per l’alloggio, un adeguato livello 11 Di fatto non è neppure proponibile un’automatica corrispondenza tra la tipologia della casa e la tipologia della famiglia: innanzitutto per la ridotta permanenza media di una famiglia in uno stesso alloggio, e in generale per la ridotta adattabilità tra l’alloggio e il nucleo familiare, che si modifica più velocemente e facilmente della casa. La struttura rigida della casa infatti è sempre pensata e realizzata come un prodotto di durata medio-lunga poiché la sua realizzazione richiede spesso investimenti ingenti che vanno ammortizzati sul lungo periodo. (Tosi, Rossetti, 1991, p.107) 12 Sprawl letteralmente si traduce “adagiamento disordinato”, ma la sua traduzione più appropriata è quella di “dispersione insediativa”. Esistono numerose varianti lessicali e altre traduzioni del termine (spread city, ville eclatèe, città dispersa, ecc.), ma sostanzialmente con sprawl si identifica il fenomeno della deconcentrazione della popolazione dalla città compatta verso localizzazioni diffuse sul territorio. 13 Per intenderci si tratta della dimensione territoriale definita dall’ambito di quartiere: lo spazio in cui i residenti trovano un insieme di servizi di uso quotidiano, ma nel quale possono anche collocarsi strutture di livello urbano, e che include sia l’ambito residenziale largo (che comprende, oltre all’abitazione, gli spazi privati di uso comune), sia l’ambito di prossimità immediata (lo spazio della via, del microquartiere, in cui prevalgono rapporti di vicinato basati sulla conoscenza diretta. (Cfr. Bourdin, 2005) Alice Selene Boni 5 La città laboratorio tra diversità e convivenza . di privacy, buone condizioni di sicurezza, disponibilità di alloggi adatti alle specifiche esigenze sociali, ovvero la presenza di spazi verdi e servizi) e di contrastarne gli aspetti negativi. Una seconda strategia a contrasto della città diffusa è quella rivolta all’articolazione degli insediamenti in quartieri che garantiscano un certa “chiusura dei cicli” in modo tale da raggiungere una certa autosufficienza energetica complessiva capace di ridurre significativamente l’impronta ecologica di ciascun insediamento. Questa strategia si presta soprattutto alla progettazione di nuovi insediamenti residenziali, più facilmente extraurbani, ma non necessariamente: molti spazi urbani riqualificati o dismessi da installazioni destinate a funzioni produttive industriali infatti possono essere riprogettati secondo questo criterio. Di fatto, molte proposte di intervento di sostenibilità urbana si basano sulla combinazione di queste due strategie, introducendo il concetto di “decentralised-centralisation”, «che chiama l’idea di una crescita urbana che non necessariamente si limita al perimetro della città compatta, ma che, all’esterno di esso, punta sulla realizzazione di una rete di insediamenti a loro volta densi, imperniati attorno ad alcune funzioni centrali e connessi alla rete di trasporti pubblici». (Davico, Mela, Staricco, 2009, p.73). In ogni caso, per il progetto di uno spazio residenziale “sostenibile” occorre che siano rispettate alcune condizioni fondamentali: l’accessibilità fisica (in particolare la connessione con il trasporto pubblico), la varietà tipologica dell’alloggio e la varietà funzionale degli spazi comuni, l’attenzione alle valenze strettamente ambientali (risorse energetiche, materiali bio-compatibili, riduzione degli agenti inquinanti, ecc.), la qualità della progettazione e la piacevolezza estetica del costruito, la coerenza con il paesaggio, l’accessibilità economica e dunque sociale degli alloggi. La dimensione sociale in particolare necessita di un forte grado di attenzione poiché presenta numerosi rischi, come sono stati messi in evidenza in numerosi progetti di quartieri residenziali suburbani (si pensi al fenomeno delle “gated communities” criticato da molta letteratura sociologica)14 seppure ecologicamente virtuosi (ad esempio i quartieri legati al movimento “New Urbanism” o al caso celebre di Ecolonia 15 progettato da Lucien Kroll). Questa logica di omogeneizzazione sociale non può che essere contrastata da un adeguato controllo pubblico della varietà sociale negli interventi di nuova urbanizzazione. 4. Gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie nei trasporti, nel lavoro e nella casa sugli stili di vita e sullo spazio residenziale. L’innovazione tecnologica gioca un ruolo molto importante nella questione abitativa sotto numerosi aspetti. Innanzitutto, in relazione a quanto è stato sopra osservato, sull’incremento della velocità dei trasporti che permettono la percorrenza di distanze elevate in tempi ridotti, facendo così accrescere la mobilità individuale con tutti i vantaggi e gli svantaggi ad essa connessi in termini di sostenibilità dell’abitare. Si rifletta sul caso degli insediamenti residenziali periurbani staccati dai servizi e dai luoghi di lavoro: questi ultimi vengono sì raggiunti quotidianamente e in tempi relativamente brevi in virtù di efficienti (non sempre) arterie di connessione, spesso però questa tipologia di insediamento implica costi di trasporto che eccedono il risparmio avuto sull’acquisto dell’abitazione e genera un rilevante squilibrio sociale, specialmente per chi è costretto ad una mobilità ridotta per ragioni economiche, fisiche o di età. Le infrastrutture e le tecnologie del trasporto tuttavia possono essere avvantaggiate dall’innovazione tecnologica anche in termini di sostenibilità: per esempio migliorando e diversificando la rete dei trasporti pubblici (specie su rotaia) o diffondendo modalità di trasporto alternative all’automobile, o ancora riducendo l’impatto di questa sulla città (sia in termini di inquinamento che di ingombro, secondo un modello di sviluppo dell’autoveicolo ormai seguito dalla maggior parte delle aziende automobilistiche). Si è ipotizzato inoltre che lo sviluppo tecnologico in futuro possa consentire di compiere molte attività quotidiane restando a casa, a partire dal lavoro stesso, incidendo così sulla mobilità in senso opposto a quello appena descritto. Si pensi ad esempio al fenomeno del telelavoro, ovvero la possibilità di lavorare in contatto con altri restando in casa; «un numero crescente di operazioni commerciali, finanziarie o amministrative già può essere effettuato da qualsiasi computer collegato in rete; la pay-tv permette di assistere alle partite senza andare allo stadio; la telemedicina potrà (almeno in parte) sostituire il contatto diretto con il medico, ecc.» (Davico, Mela, 2002, p.110) In ogni caso il telelavoro potrà interessare solo determinati settori professionali, di conseguenza non si può pensare di settorializzare una quota di alloggi solo per chi svolge particolari attività lavorative. Inoltre sembra ancora scarsamente plausibile la diffusione su vasta scala del telelavoro a domicilio, e quindi questa prospettiva rende trascurabili conseguenze dirette sulla conformazione delle nuove abitazioni. (Tosi, Rossetti, 1991, p.102) La telecomunicazione in particolare ha portato alla formazione di luoghi e comunità virtuali che hanno una rilevanza sempre crescente, ma che tuttavia non produce necessariamente uno svuotamento delle relazioni faccia a faccia. Perciò il valore simbolico dei luoghi fisici della città e della casa resta importante nonostante il problema dell’impoverimento simbolico di molti luoghi residenziali urbani. (Cfr. Davico, Mela, 2002, p.112) 14 15 Critiche dei sociologi italiani al fenomeno “gated” si rilevano ad esempio in: Gazzola (2003), Borlini, Memo (2008). In proposito Fratini (2000), Ciaffi, Mela (2007). Alice Selene Boni 6 La città laboratorio tra diversità e convivenza . L’introduzione di nuove tecnologie riguarda da vicino anche l’alloggio attraverso sistemi innovativi di controllo e automazione della casa (si pensi anche alla domotica). Sebbene questi abbiano alti costi iniziali possono essere ammortizzati rapidamente grazie all’aumentata efficienza e produttività dell’edificio. Permangono in ogni caso molte diffidenze nell’inserire nuove tecnologie nell’ambiente domestico, stratificato e consolidato nelle abitudini e negli schemi. Oltre alla diffidenza degli utenti poi si rileva anche una certa inerzia nel settore delle costruzioni verso l’applicazione di sistemi costruttivi che facciano uso delle nuove tecnologie: dato che la domanda è ancora molto scarsa è evidente che pochi rischiano questa strada in vista di costi alti e profitti scarsi. (Tosi, Rossetti, 1991, p.108) Ad oggi comunque sia il mercato che i progettisti sembrano avviarsi lungo questa traiettoria, specie verso una “nova alleanza con la Natura”16 in un contesto urbano divenuto ormai insostenibile. Questa nuova coscienza della “sostenibilità” però resta soprattutto sul piano teorico17 ed è quasi sempre associata alla sola dimensione ambientale, ma almeno, o meglio soprattutto, in ambito internazionale non mancano esempi virtuosi di insediamenti sostenibili su tutte le tre dimensioni (economica, sociale, ambientale). 5. “Social Housing 2.0”: un modello integrato multidimensionale per l’abitare etico. RE.Lab SAA ed Ires Piemonte hanno svolto un lavoro di ricerca congiunto mirato alla creazione di un modello multidimensionale integrato per la valutazione dei progetti di social housing, ovvero dell’offerta abitativa rivolta a quella fascia di popolazione definita “zona grigia”: vale a dire chi non è in grado di sostenere il costo degli immobili dettato dal libero mercato e che non ha accesso prioritario all’edilizia sociale. A partire dall’analisi delle best practices europee, l’approccio multidimensionale del modello è dato dalla messa a sistema di quattro componenti fondamentali con la finalità di creare nuova ricchezza: Ruoli e Responsabilità; Ricerca, Progettualità e Innovazione; Capitali Finanziari; Capitale Umano. I Ruoli e le Responsabilità sono quelli messi in gioco nel progetto da parte di tutti gli attori coinvolti, siano essi del settore pubblico, privato o non profit. Il pubblico, responsabile della leadership politica a livello territoriale e locale, è il soggetto regolatore e garante del progetto, portatore della visione strategica che lo accompagna, e affidatario della partecipazione locale della popolazione coinvolta. I ruoli e le responsabilità del soggetto privato riguardano i finanziatori, i promotori, i progettisti e i costruttori dell’intervento edilizio; essi attuano le attività di sviluppo immobiliare con il sostegno di strutture di management e organizzative con competenze specialistiche. I soggetti del no-profit sono le cooperative, i gruppi di co-housing, i gruppi di autocostruzione, i comitati di abitanti, gli inquilini, e tutti coloro che a vario titolo contribuiscono alla visione strategica del progetto, alla proposizione dei progetti e alle nuove forme abitative. La Ricerca, la Progettualita’ e l’Innovazione riguardano la definizione di metodi e parametri di valutazione premianti la progettazione e la produzione di nuove modalità costruttive low-cost ma di qualità, volte al risparmio e all’ottimizzazione dei costi diretti ed indiretti. Il progetto quindi deve garantire adeguata sicurezza fisica e funzionale dei contenitori edilizi, il contenimento dell’impatto ambientale dell’intervento anche mediante la limitazione del consumo di suolo, deve prevedere la riqualificazione e la rifunzionalizzazione ambientale degli edifici e delle aree abitative esistenti. La componente dei Capitali Finanziari inerisce l’individuazione dei profili di investimento, delle formule di sostegno e di garanzia più adatte per attrarre capitali privati negli investimenti di social housing. Con il Capitale Umano si identificano i percorsi formativi e di ricerca a sostegno della creazione delle nuove figure manageriali specialistiche multidisciplinari necessarie per studiare, progettare e governare tutte le fasi del processo di sviluppo e i percorsi formativi a sostegno dei settori produttivi coinvolti nell’innovazione tecnica e tecnologica. Attraverso queste risorse sarà altresì possibile l’adattamento dei principi contenuti nelle linee guida del modello alle specifiche esigenze di ogni intervento in accordo con le associazioni di categoria. 16 Lo slogan si riferisce al Manifesto di Torino siglato nell’ambito del XXIII Congresso mondiale degli architetti svoltosi nel 2008. In una recente indagine condotta tra gli iscritti dell’Ordine degli architetti di Torino, solo il 18% degli intervistati ha indicato la sostenibilità come uno dei tre aspetti importanti per un buon progetto architettonico. Vedi: Crivello, Davico (2007) 17 Alice Selene Boni 7 La città laboratorio tra diversità e convivenza . Bibliografia Baldini M.R. (1998), Il significato dell’abitare, Alinea, Firenze. Barbagli M. (2000), Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino. Borlini B., Memo F. (2008), Il quartiere nella città contemporanea, Milano, Bruno Mondadori. Bourdin A. (2005), La métropole des individus, La Tour d’Aigues, De l’Aube. Ciaffi D., Mela A. (2007), “Sociologia e progettazione urbanistica: un confronto a livello paradigmatico come possibile strumento per l’interpretazione di progetti urbani”, Appunti di Politica Territoriale, n. 13, Torino, Celid, pp. 11-50. Cittalia - Fondazione Anci Ricerche (2008), I comuni e la questione abitativa. Le nuove domande sociali, gli attori e gli strumenti operativi, Roma. Crivello S., Davico L. (2007), Qualità dell’architettuta torinese. La parola ai protagonisti, Torino, Celid. Davico L., Mela A. (2002), Le società urbane, Roma, Carocci. Le Bussole. Davico L., Mela A., Staricco L. (2009), Città sostenibili. Una prospettiva sociologica, Roma, Carocci. Quality Paperbacks. De Luca A., Governa F., Lancione, M. (2007), Torino. Il problema abitativo come problema di giustizia sociale. Esperienze utili per ripensare le politiche della casa, Rapporto di ricerca Eupolis- SiTi, Torino. Donati P. (2006), Manuale di sociologia della famiglia , Roma, GLF editori Laterza. Fratini F. (2000), Idee di città. riflettendo sul futuro, Milano, Franco Angeli. Gazzola A. (2003), Trasformazioni urbane. Società e spazi di Genova, Napoli, Liguori Giddens A. (1990), The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity Press (trad. it. Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna, Il Mulino, 1994). Giddens A. (1994), Modernity and Self-Identity, London, Polity Press. Gruppo 24 Ore (2009), Il Social housing. Analisi e prospettive, Il Sole 24 Ore, Milano. Habraken N.J. (1972), Supports. An alternative to mass housing, London, The Architectural Press. (cit. in Tosi, 2007, p.53) Laslett P. (1972), Famiglia e aggregato domestico, in M. Barbagli (a cura di), Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, pp.30-54. Martinotti G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Bologna, Il Mulino. Mela A. (1996), Sociologia delle città, Roma, Carocci. Nuvolati G. (2002), Popolazioni in movimento nella città in trasformazione: abitanti, pendolari, city users, uomini d’affari e flâneurs, Bologna, Il Mulino. Rossi G., Bramanti D., Famiglie al confine tra familiare e comunitario, in Donati P. (a cura di) (2007), Riconoscere la famiglia: quale valore aggiunto per la persona e la società?, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pp.132-178. Saraceno C., Naldini M. (2001), Sociologia della famiglia, Bologna, Il mulino. Scabini E., Cigoli V. (1997), Famiglie con giovani adulti. Un rallentamento evolutivo o una interruzione nel passaggio generazionale?, in Scabini E., Rossi G. (a cura di), Giovani in famiglia tra autonomia e nuove dipendenze, in “Studi interdisciplinari sulla famiglia”, 16, Vita e pensiero, pp.19-43. Tosi A. (1994), Abitanti. le nuove strategie dell’azione abitativa, Bologna, Il Mulino. Ricerca. Tosi A. (2007), Case, quartieri, abitanti, politiche. Seconda edizione, Libreria Clup, Milano. Tosi F., Rossetti F. (1991), L' intelligenza della casa : nuove tecnologie e mutamenti sociali, Firenze, Alinea. Alice Selene Boni 8 La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani Massimo Bricocoli Dipartimento di Architettura e Pianificazione Politecnico di Milano, Via Bonardi, 3 - 20133 Milano [email protected] Tel. 02.23992603/02.23995435 Paola Savoldi Dipartimento di Architettura e Pianificazione Politecnico di Milano, Via Bonardi, 3 - 20133 Milano [email protected] Tel. 02.23992603/02.23995435 Abstract Gli spazi prodotti nei progetti di sviluppo residenziale più recenti in alcune città italiane rivelano un atteggiamento remissivo nei confronti di intenzioni, preferenze e valori messi in campo dagli operatori privati e una rinuncia alla responsabilità da parte del oggetto pubblico nel governare e orientare produzione e qualità di luoghi dell'abitare. Il contributo assume dunque come oggetto di indagine i nuovi progetti d’abitazione e mette sotto osservazione i modi in cui l'azione pubblica articola processi di organizzazione spaziale e sociale nello spazio urbano contemporaneo. A fronte di un rinnovato interesse del dibattito e delle politiche per la questione abitativa, il contributo intende fornire elementi di riflessione per esplorare criticamente la connessione tra strumenti urbanistici ed evoluzione delle forme e dei modi dell'abitare. I temi in discussione sono stati oggetto di una attività di ricerca commissionata dal Plan Urbanisme Construction Architecture 1. La metamorfosi dell’azione pubblica nelle trasformazioni urbane Una stagione di riflessione e intervento a ridosso della crisi dei quartieri di edilizia pubblica ha cercato di promuovere rigenerazione urbana attraverso azioni integrate sulle plurali dimensioni dell'abitare. Alcune esperienze hanno ottenuto risultati locali significativi, alcune buone pratiche hanno orientato una ridefinizione dei modi di trattamento di questioni che si collocano al confine tra urbano e sociale. D'altra parte, scarsa intelligenza e volontà politica è stata investita nell'innovazione delle modalità ordinarie di gestione e governo del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, e si è andata piuttosto diffondendo ed affermando l'opinione che il problema dell'edilizia sociale risieda per molti versi proprio nella sua natura pubblica. Oggi, il terreno sul quale si promuovono progetti di housing sociale è marcato da un orientamento alla promozione di assetti di governance che ricercano e supportano la presenza di attori privati e non profit quali promotori di edilizia sociale e definiscono per il soggetto pubblico funzioni di attivazione, guida e regolazione. Tale passaggio è fortemente segnato dall'assunzione di una prospettiva che vede il soggetto pubblico transitare da una posizione di provider (ed erogatore diretto di beni e servizi) ad una di enabler, ovvero di soggetto che attiva, facilità e regola l'azione di altri attori. Si discute delle leve e dei dispositivi che possano attivare tali soggetti, che peraltro non appaiono nel nostro paese particolarmente propensi ad investimenti in progetti che prevedono clausole restrittive e profitti limitati. Tra le esperienze maturate nella stagione di rigenerazione dei quartieri e il nuovo fronte di progetti e politiche di housing sociale, si collocano i consistenti interventi di sviluppo urbano per i quali il riuso di grandi aree urbane ha costituito in questi ultimi anni un'occasione certamente importante per incrementare l'offerta residenziale in porzioni centrali o semicentrali delle città. In questi casi, costi di realizzazione e profilo degli attori (di mercato) coinvolti nei progetti producono in genere configurazioni in cui l'offerta di alloggi sociali è di fatto solo residuale o complementare, ma la riduzione della domanda immobiliare sul fronte del terziario ha visto rapide conversioni dei progetti nella direzione di una consistente offerta di residenza. Manca una riflessione accurata e critica sulle caratteristiche e sugli esiti in termini spaziali di progetti che hanno immesso sul mercato un consistente stock di nuova edilizia residenziale e limitata è l'analisi dei modi in cui si è declinata in forme contemporanee una combinazione densa di persone e luoghi (Mazza, 2007). Certamente, se guardiamo alle trasformazioni che in questi ultimi quindici - venti anni hanno caratterizzato il paesaggio dell'abitare in Italia, non possiamo trascurare quanto siano stati pervasivi i processi di trasformazione e di crescita insediativa in cui il ruolo di guida pubblica è stato debole e inefficace (Palermo, 2006). Tali trasformazioni hanno spesso seguito 1 Massimo Bricocoli e Paola Savoldi La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani logiche ed occasioni della promozione immobiliare, connotate da una offerta molto conservatrice e da una forte dissipazione di suolo. L'interesse di questi progetti risiede da un lato nel loro essere idealtipici e rappresentativi di un certo modo di praticare l'urbanistica e di una certa visione dell'abitare in città. Questi quartieri o porzioni urbane, non sempre “d'autore”, hanno costituito dei riferimenti non solo per il dibattito, ma per la sperimentazione e messa a punto degli strumenti di intervento, per la proposizione di modelli e tipologie di prodotti da immettere sul mercato immobiliare, per l'immaginario dell'“abitare in città” o, meglio, dell'“abitare in città sentendosi altrove”, che spesso hanno esplicitamente costruito. 1.1 Realismo critico. Lo spazio come dimensione visibile e materiale delle forme di governo della città Il dibattito sull'avvicendarsi di diversi strumenti di governo della città e del territorio sembra spesso prescindere dai contesti materiali in cui tali strumenti operano. A fronte della centralità assunta dall'analisi degli strumenti di governo e dei ruoli di molteplici soggetti (attori protagonisti, comprimari e comparse sulla scena dell'azione pubblica), i luoghi sembrano uscire dal campo di osservazione. Il rischio è di un impoverimento progressivo delle connessioni tra il disegno di politiche, il fare urbanistica e progetto e la conformazione dei luoghi . Rinnovare una giurisprudenza di casi, come suggerisce Daniel Cefai , che consenta di riarticolare il discorso sulla città e sulle politiche urbanistiche affondandolo in brandelli di realtà: questo è uno degli orizzonti entro cui andiamo avanzando. Intendere lo spazio come dimensione visibile e materiale dell'azione pubblica, di forme di governo (Mazza, 2007), di politiche e di architetture in uso, che siano i luoghi il terreno su cui spendersi per risalire ad una descrizione interpretativa di tratti e criticità dei progetti, processi, piani e politiche che li hanno prodotti: questa è una prima ipotesi che ha guidato attività di ricerca da poco concluse e in corso . A lungo, l'esplorazione delle dinamiche di trasformazione del territorio e dei paesaggi dell'abitare contemporaneo è sembrata assumere i pattern socio-spaziali quasi come aspetti naturali di un equilibrio ecologico in evoluzione e non invece il risultato di specifici interessi sociali ed economici, di relazioni di potere e di contestazioni. Se con realismo critico si guarda alle realizzazioni di edilizia residenziale di maggiore consistenza, si potrà verificare che molti dei progetti di sviluppo urbano attuati o in corso di attuazione nelle città italiane sono caratterizzati da scelte progettuali 'reazionarie', da una caratterizzazione povera della dimensione di 'servizio', da una qualità architettonica ed edilizia limitata, spesso scadente. Il discorso sembra a volte cedere facilmente il passo all'idea che la conformazione e i caratteri di questi luoghi siano l'espressione di nuove forme di urbanità di una società frammentata. In realtà, uno sguardo ravvicinato lascia piuttosto il campo all'ipotesi che la mediocrità, la semplificazione che li connotano siano piuttosto l'espressione di una criticità, se non di una rinuncia, della regolazione urbanistica nell'individuare nuovi modi per assicurare esiti minimi di qualità in termini di beni comuni in una fase come quella contemporanea che è caratterizzata da individualizzazione e decollettivizzazione (Castel, 2010). Anche per queste ragioni, nella ricerca, abbiamo privilegiato una esplorazione ravvicinata delle relazioni che corrono tra strumenti di governo del territorio e modi dell'organizzazione sociale e spaziale, a partire dall'osservazione della conformazione e dei modi di funzionamento di alcuni luoghi. Come dire: invece di considerare le configurazioni spaziali di questi luoghi come l'espressione di un nuovo assetto della società contemporanea, abbiamo preferito considerarli come espressione del modo in cui l'azione pubblica in campo urbanistico ha regolato e governato processi di sviluppo urbano. I luoghi resistono agli strumenti e sono a testimonianza dello stato delle cose, di ciò che gli strumenti producono o non producono, quasi come reperti, una sorta di “corpi del reato”, di ciò che resta dopo il passaggio di strumenti sui quali si sono investite molte aspettative nella stagione del recente passato. 1 2 3 2. Due casi, due esercizi per discutere di spazio, governo e società La prospettiva di analisi, ampiamente inesplorata allo stato attuale del dibattito, lungo la quale ci muoviamo, si orienta a considerare profilo e carattere della produzione di nuova città, esaminando la capacità o meno di riprodurre ambienti in cui un grado accettabile di complessità (rinunciando ad usare un termine – urbanità – che rischia tanto di essere astratto quanto legato ad immagini spesso stereotipate), intesa come fattore di qualità possibile dei progetti e dei luoghi e quale condizione per la produzione di beni comuni. Come progetti e indagini a livello internazionale mettono in evidenza, anche progetti di grande investimento economico e simbolico faticano a produrre nuove porzioni significative di città e producono interrogativi di fondo circa i modi in cui diversi soggetti (istituzioni, agenzie pubbliche e soggetti imprenditoriali del mercato immobiliare, progettisti, 1 Cfr. Bianchetti C., a cura di, (2009), “Abitare la città contemporanea” sezione monografica Archivio di Studi Urbani e Regionali, n. 94 e Bricocoli M., Scavuzzo L., a cura di, (2009), “Housing sociale a Vienna. Innovare le politiche a partire dal progetto”, Urbanistica, n. 140, pp. 7-35. 2 Cfr. Cefai D. (2006), "Due o tre cosette sulle associazioni... Fare ricerca su contesti ibridi e ambigui.", La Rivista delle Politiche Sociali, 3(2) 3 In particolare, il riferimento è ad ricerca condotta per il Plan Urbanisme Construction Architecture del Ministero francese delle infrastrutture e da poco conclusa che ha riguardato il contesto torinese e milanese (Bricocoli, Savoldi, a cura di, Lieux, outils d’aménagement, sûreté. La production de nouveaux espaces urbains, Puca, 2010). 2 Massimo Bricocoli e Paola Savoldi La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani cittadini) concorrono alla organizzazione spaziale e sociale di nuovi ambiti di sviluppo urbano nella città europea contemporanea (Czarniawska, Solli, 2001; Palermo, 2004). Di seguito, introduciamo in forma sintetica due esperienze che richiamano questi temi e che presentano, in misura e per ragioni in parte diverse, elementi di forte criticità. 2.1. Lo spazio urbano negoziato: stretto tra pubblico e privato A Milano, Pompeo Leoni è un programma di riqualificazione urbana (PRU) realizzato in un'area industriale in posizione semicentrale. Il profilo e il carattere del progetto realizzato risultano in qualche misura rappresentativi della medietà che ha contraddistinto la negoziazione tra pubblico e privato in una intera stagione di trasformazioni urbane nella città di Milano. Il disegno urbano, la composizione dei diversi edifici e l'organizzazione generale dello spazio riflettono e narrano, in modo chiaro ed evidente, contenuti e gli orientamenti del programma urbanistico. E'questo un tema rilevante che segna i limiti del disegno e del governo dei modi in cui oggi si va producendo nuova città: il “presidio” e la definizione formale delle relazioni (tra soggetto pubblico e soggetto privato, innanzitutto), la regolazione dei costi e delle funzioni, il compimento e la conclusione di una procedura amministrativa diventano presidio 'stretto'delle pratiche d'uso possibili e contemplate, impossibilità concreta di ridisegno e cambiamenti in corso d'opera che possano fare tesoro dei riflessi che funzionamento degli spazi e pratiche sociali forniscono. All'obiettivo di una mescolanza di funzioni e profili residenziali diversi dichiarati come principi guida e cardini dei programmi di riqualificazione urbana, corrisponde in Pompeo Leoni un insediamento in cui diversi edifici sono perimetrali ed affiancati in successione lungo un asse stradale. Le recinzioni con insistenza delimitano i confini e marcano le differenze. Le tipologie degli edifici residenziali tendono a replicarsi, in formato torre o corte aperta, sono il disegno e i materiali delle facciate che dichiarano più chiaramente il diverso profilo e i valori immobiliari, quasi una logica di distinzione che gioca sulla 'pelle'. Ogni singolo edificio ha un proprio accesso ad un proprio spazio sotterraneo in cui si raccolgono i posti auto. Lo spazio pubblico per molti versi è “ciò che rimane”. Nella porzione più centrale la via Spadolini costituisce di fatto l'elemento principale di connessione. Si tratta di un viale con una sezione stradale assai ristretta, con camminamenti pedonali alberati e due fasce profonde di verde piantumato a cespugli che separano di fatto il viale dai recinti delle abitazioni. L'immagine più immediata che viene alla mente è che verde di questa natura (cespugli bassi e dislocati in modo continuo e denso lungo il viale) svolga letteralmente il ruolo di una sorta di “buffer zone” che distanzia, separa, limita la calpestabilità e la sosta di chicchessia tra il viale e i recinti degli edifici (Fig. 1). Lo spazio così trattato diventa dispositivo di “presa di distanza” - à la Žižek (2007)quasi ad esibire la volontà di non compromettersi troppo nelle relazioni. Se si esaminano le relazioni tra le diverse parti, separazione e semplificazione marcano costantemente l'organizzazione dello spazio pubblico, privo di qualsiasi elemento che possa essere in qualche modo portatore di un qualsiasi “accidente”. Come dire, il disegno dello spazio aperto/edificato si gioca lungo una linea di prevedibilità e di visibilità che non riserva alcuna sorpresa e che non mette apparentemente nessuno nelle condizioni di doversi assumere responsabilità specifiche in merito ad usi dello spazio più complessi che non il semplice attraversamento o la sosta. In questo senso, la declinazione dei caratteri e dei nessi tra privato e pubblico sembra tradursi nell'opposizione stretta di “privato, edificato, chiuso, recintato e ad uso esclusivo” e di “pubblico, inedificato, aperto, attraversabile e indifferenziato”, in una perfetta coincidenza tra titolo giuridico e modalità –individuali e collettive- di fruire lo spazio. Per come si presenta nei suoi esiti spaziali, la negoziazione tra governo pubblico e promotori privati ha favorito e prodotto un inesorabile impoverimento: l'organizzazione dello spazio che è intrappolata nelle previsioni e aspettative di un mercato che mira ad allocare al più presto e sulla carta i propri prodotti e per il quale qualsiasi requisito qualitativo al di là della valorizzazione stretta dell'immobile può diventare fonte di inutili 'complicazioni'. La regolazione 'stretta'degli ambiti pubblici e privati risulta oltremodo sistematica e i modi dell'organizzazione dei servizi e degli approvvigionamenti agli abitanti fanno emergere un profilo organizzativo fortemente accentrato, che lascia ben poca autonomia o possibilità di cambiamento e di auto organizzazione. Un esempio centrale è quello dell'Esselunga. Il supermercato costituisce l'unico riferimento per acquisti di qualsiasi natura. L'unicità di questo fornitore è, di fatto, l'esito della negoziazione con il governo della città che ha garantito formalmente una posizione di monopolio al soggetto privato, indicando una clausola che prevede che per un certo numero di anni sia vietato aprire attività commerciali di qualsiasi natura nell'ambito. Ne risulta una situazione fortemente contraddittoria proprio là dove la retorica dello sviluppo residenziale è stata centrata sulla libertà di scelta e il processo di riqualificazione ha seguito i dettami dell'urbanistica di un governo liberale. Nella Milano liberale un quartiere come questo sembra piuttosto “bulgaro”: nell'impianto, rigido e ripetitivo, nei prospetti da edilizia residenziale modesta del dopoguerra, nella disponibilità di un solo imprenditore per gli approvvigionamenti, i percorsi rigidamente segnati e gli spazi aperti sostanzialmente 'dismessi', privi di disegno, di attrezzature. 3 Massimo Bricocoli e Paola Savoldi La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani 2.2. Lo spazio urbano dismesso. Effetti di riduzione tra fallimento del mercato e governo fragile Il nuovo insediamento Santa Giulia a Milano è l'esito di un'operazione nata in un'epoca che pareva sancire un rinascimento della città di Milano, nata sotto la buona stella di un imprenditore immobiliare emergente, un 'uomo nuovo' che godeva dell'appoggio di una importante coalizione politica e finanziaria e sembrava agire diversamente dalle lobbies che avevano segnato la storia del mercato immobiliare milanese degli anni ottanta e novanta. Oggi la parabola di Santa Giulia è in fase discendente: la società immobiliare responsabile del progetto di trasformazione è fallita e rimane ancora inedificata la porzione dell'area che doveva ospitare funzioni strategiche. Le opere di urbanizzazione della porzione già edificata non sono ancora completate, mentre gli acquirenti si stanno trasferendo nei nuovi alloggi, per la maggior parte realizzati in regime di edilizia convenzionata da un consorzio di cooperative milanesi. Il progetto Santa Giulia è regolato dal 'Programma integrato di intervento Rogoredo-Montecity'e rappresenta la sperimentazione di un nuovo modello di governo delle trasformazioni urbane a Milano. L'ambito di trasformazione è un'area posta nella porzione sud-est del territorio comunale, in prossimità dello scalo ferroviario di Rogoredo (interscambio della linea metropolitana e stazione della linea ferroviaria ad alta velocità che collega Milano a Roma). Le promesse del progetto. Come recitavano i materiali promozionali, il nuovo insediamento 'è una città nella città che dista dieci minuti dal centro, otto fermate della metropolitana'. La fida sottesa al progetto è quella di farne un luogo centrale, una parte di città beata, vicina alla città consolidata, e quieta come molte parti di Milano non sono. Il progetto distingue due ambiti: a nord il complesso che accoglie funzioni commerciali e terziarie, un grande centro congressi, le residenze di lusso; a sud un insediamento residenziale che accoglie una quota maggioritaria di edilizia convenzionata e una quota residuale di edilizia in libero mercato. All'estremo sud chiudono e proteggono dal fronte prossimo alla ferrovia alcuni edifici adibiti a funzioni terziarie (parte dei quali oggi accolgono la sede di Sky) alle cui spalle, è prevista la realizzazione di una piccola quota di edilizia residenziale pubblica. A un'immagine di città aperta che fa di Santa Giulia non un semplice quartiere, ma un luogo eccellente della città, corrisponde un disegno introverso. Un baccello alle cui estremità sono collocate cortine dense e compatte che segnano il confine: con l'entropia dell'intermodalità ferroviaria e con la geografia frastagliata e scomposta dei quartieri più popolari. Alcune variazioni di quota generano piccoli bastioni apparentemente naturali, terreni scoscesi sulla cima dei quali sta il nuovo insediamento, mentre a valle rimane il vecchio mondo preesistente. Nel cuore del baccello, custodito gelosamente come fosse la corte interna di un edificio rinascimentale, il verde, quello che nel linguaggio progettuale è definito 'parco'. L'insediamento dell'edilizia convenzionata, disposto in forma di imbuto aperto verso il parco, guarda a un'opera di architettura contemporanea, progettata dall'architetto di fama Norman Foster, che non verrà mai realizzata, ma che avrebbe avuto la forma di una chiocciola, di una spirale che si chiude su se stessa producendo un ulteriore cuore al suo interno, ancor più qualificato e poco accessibile. Oggi Santa Giulia è un cantiere abitato. I pionieri di Santa Giulia sono coloro che sono stati costretti a trasferirsi prima della fine dei lavori perché spesso pressati dalla tempistica di vendita della casa in cui abitavano in precedenza. Le opere di urbanizzazione non sono ancora completate, ma alcune considerazioni su come gli spazi possano essere abitati sono già attendibili. Un primo ordine di considerazioni riguarda il trattamento degli spazi aperti. L'elemento che li accomuna è quello tipico di una superficie dura e scivolosa; spazi non porosi né plastici, spazi che è difficile usare in modi non pianificati, spazi che sembrano indurre usi e pratiche più tipici degli ambienti chiusi (il centro commerciale, lo spazio espositivo). Uno dei punti qualificanti della porzione di progetto già realizzata riguarda una varietà di trattamento delle superfici e dei volumi che è più difficile trovare altrove, a Milano, in operazioni grosso modo coeve. Le variazioni sono prevalentemente di carattere cromo-volumetrico. I colori di base sono chiari, ma nel prospetto fanno spesso irruzione colori più vivi. L'altra variabile di distinzione è quella della composizione dei volumi: alcuni corpi sono aggettanti o si alternano a vuoti che possono attraversare a tutta altezza il prospetto dell'edificio. Alla variazione di colori, volumi e aperture corrisponde una omogeneità nel trattamento dei fronti al piede degli edifici. La sequenza degli edifici rivolti verso il parco presenta in corrispondenza del piano terra una cortina continua, interrotta solo dagli ingressi principali agli edifici e da alcuni accessi di servizio, completamente priva di altre aperture e trattata con un bugnato rustico che ricorda i contrafforti di un maniero (Fig. 2). Se i prospetti sono progettati secondo un principio di varietà, questa si rompe in corrispondenza del punto attacco tra spazio privato e spazio pubblico, tra casa e strada. La razionalità sottesa potrebbe essere ricondotta a fattori diversi, concomitanti: la garanzia di un parcheggio individuale e coperto sotto casa, l'illusione di maggiore sicurezza, l'ottimizzazione in termini immobiliari degli spazi edificati: i piani terra destinati a residenza sono difficili da vendere, più proficuo destinarli è a spazi di parcheggio. 3. Cosa si scarica sul pubblico? Questioni emergenti nel governo della città Si fa strada, attraverso la ricerca sul campo, la visione di una città che si produce e si ri-produce in un quadro di governo « minimo », che lasciando il campo al mercato e alle convenienze politiche di breve termine, vede avanzare un governo che potremmo definire «millesimale» (Monteleone e Manzo, 2009) che misura peso e 4 Massimo Bricocoli e Paola Savoldi La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani rilevanza degli attori in corrispondenza delle loro quote proprietarie. Il compimento del progetto sembra corrispondere ad una realizzazione il cui disegno è totalizzante e non lascia spazio alcuno a forme di indefinitezza: ogni cosa al suo posto, un posto per ogni cosa e per ogni attore implicato. È ricorrente nei diversi ambiti di nuova edificazione presi in considerazione, il riferimento o l'inserimento di un grande parco e l'impiego della forza simbolica del parco (pubblico) quale argomento di legittimazione (chi potrebbe mai dissentire sull'importanza di produrre spazi verdi a fronte di nuove volumetrie?). Le aree verdi sono le uniche aree pubbliche in qualche modo aperte all'uso di cittadini che non siano residenti. Il pericolo, segnala Cristina Bianchetti è costituito da quelli che De Certau chiamerebbe «usi astuti», ovvero usi non previsti che sono accolti più difficilmente dallo spazio indurito della negoziazione e dalle sue logiche. Ne consegue che qualsiasi tipo di pratica di utilizzo non prevista faccia di per sé problema e sia recepita come deviante e lo spazio della città va riducendosi limitando il terreno sul quale una molteplicità d'usi degli spazi e di una varietà della presenza di cittadini sono possibili (Savoldi, 2006). Nell'aspirazione ad uno spazio piatto e liscio, privo di viscosità, qualsiasi uso non previsto e che risulta controverso non trova possibilità di mediazione e si traduce immediatamente in conflitti che sono rapidamente ricondotti a questioni di ordine pubblico (de Leonardis, 2008). A fronte di richieste e proteste, l'azione pubblica sembra in modo ricorrente essere chiamata ad modularsi in una modesta e silente prospettiva rimediale. Laddove in precedenza non ha orientato il processo e non ha governato la qualità degli esiti, l'intervento pubblico è reclamato a cose fatte, ad oneri già compensati. D'altra parte allo stato delle cose, chi può trovare convenienza in un lavoro preliminare sulle dimensioni problematiche? Non gli operatori, che sembrano tuttora confidare in un mercato generoso nell'acquistare senza avanzare attese di particolare rilievo alla dimensione urbana e che agiscono in una situazione di limitata turbativa da parte pubblica. Non i politici, che avanzano entro un orizzonte di breve e medio termine, entro il quale la soddisfazione delle attese e il successo di un operazione di sviluppo urbano si misurano nel completamento e nella consegna del programma, non nella sua messa in uso. Resta da questo punto di vista da indagare il passaggio complesso e non indolore di responsabilità che l'urbanistica riversa su altri soggetti dell'amministrazione pubblica, assai più prossimi alla dimensione quotidiana e alla dimensione di uso corrente dei diversi ambiti urbani (Bricocoli, Savoldi, 2008). I fatti, i luoghi dimostrano che non è la presenza di un investitore immobiliare o quella di un consorzio di cooperative edilizie a garantire il buon esito di un progetto: è certamente condizione necessaria, ma non sufficiente. Nessuno di questi soggetti è esperto o partigiano della qualità dell'interesse pubblico, come è normale che sia. La regia di un progetto di sviluppo urbano non può che far capo a un soggetto pubblico competente, capace di vegliare sui raccordi tra le parti che compongono un progetto, su tempi, modi di realizzazione e funzionamento delle infrastrutture di interesse collettivo. Bibliografia Libri Bolocan M., Bonfantini B., a cura di, (2007), Milano incompiuta. Interpretazioni urbanistiche del mutamento, Franco Angeli, Milano. Bricocoli M., Savoldi P. (2008), Villes en observation. Politiques locales de sécurité urbaine en Italie, Editions du Puca, Paris. Czarniawska B., Solli R. (Hrsg.) (2001), Organizing Metropolitan Space and Discorse, Liber Abstrakt, Malmoe. Lussault M. 2009, De la lutte de classe à la lutte des places, Grasset, Paris. Palermo P.C. (2004), Prove di innovazione, FrancoAngeli, Milano. Palermo P.C. (2006), Trasformazioni e governo del territorio, FrancoAngeli, Milano. Savoldi P. (2006), Giochi di partecipazione, FrancoAngeli, Milano. Žižek S. (2005), Distanza di sicurezza. Cronache del mondo rimosso, Manifestolibri, Roma. Articoli Bianchetti C., a cura di (2009), “Abitare la città contemporanea”, Archivio di Studi urbani e regionali, n. 94. Bricocoli M. e Scavuzzo L., Progetti e politiche di housing sociale a Vienna, Urbanistica, n. 140, pp. 7-35. Castel R. (2010), intervento in occasione del seminario Trieste 2010. Che cos’è la salute mentale, febbraio. Cefai D. (2006), "Due o tre cosette sulle associazioni... Fare ricerca su contesti ibridi e ambigui.", La Rivista delle Politiche Sociali, 3 (2). de Leonardis O. (2008), “Nuovi conflitti a Flatlandia”, in Grossi G. (a cura di), Conflitti contemporanei, Utet, Torino. Mayer M. 2008, “To what end do we theorize sociospatial relations?”, in Environment and Planning, volume 26. Mazza L. (2007), “Redesigning citizenship”, paper presentato alla Conferenza Isocarp, novembre, Antwerpen. Monteleone R., Manzo K. (2010), in Bricocoli M., Savoldi P., dir. (2010), Lieux, outils d’aménagement, sûreté. La production de nouveaux espaces urbains, rapport de recherche Puca, Paris. 5 Massimo Bricocoli e Paola Savoldi La nuova questione della casa tra leggi di mercato e produzione di spazi urbani Figura 1, Pru Pompeo Leoni, Milano: Via Spadolini: il verde come presa di distanza. Foto di Giovanni Hänninen Figura 2, PII Santa Giulia, Milano: fronte strada e piede degli edifici residenziali. Foto di Giovanni Hänninen Copyright: Immagini di Giovanni Hänninen: www.hanninen.it 6 Massimo Bricocoli e Paola Savoldi Appunti sulla sfida aspecifica del cohousing Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 Appunti sulla sfida aspecifica del cohousing Grazia Brunetta Dipartimento Interateneo Territorio Politecnico di Torino [email protected] Tel/fax 0115647492 - 0115647499 Stefano Moroni Dipartimento di Architettura e Pianificazione Politecnico di Milano [email protected] Tel/fax 0223995436 - 0223995435 Abstract L’interesse per il fenomeno del cohousing sta crescendo anche in Italia, accompagnato da molte voci entusiaste. L’unico modo per comprendere appieno tale fenomeno è inserirlo entro la più ampia realtà delle comunità contrattuali (Brunetta e Moroni, 2008). Presenteremo qui una teoria generale delle comunità contrattuali (§ 1), quindi considereremo in che senso il cohousing si inserisce all’interno di questa teoria (§ 2), per concludere con alcune raccomandazioni in proposito (§ 3). 1. Teoria generale delle comunità contrattuali 1.1. Elementi comuni Le comunità contrattuali sono forme aggregative/associative a base territoriale (ossia legate a una specifica porzione di territorio) a cui i membri aderiscono volontariamente sulla base di un contratto unanimamente sottoscritto e in vista dei benefici che ciò garantisce loro. Il contratto stabilisce i diritti e i doveri dei membri della comunità contrattuale: (i) tra i doveri rientrano il rispetto di regole di convivenza (regole d’uso del suolo e degli edifici e regole di condotta di carattere più generale), così come l’obbligo a versare una quota in un fondo comune per garantire il funzionamento della comunità contrattuale stessa; (ii) tra i diritti, la disponibilità di servizi di vario genere. Le comunità contrattuali sono dunque ‘associazioni non a scopo di lucro’. Di quel tipo particolare in cui la caratteristica centrale è la reciprocità (i membri si associano per portarsi mutualmente vantaggi) piuttosto che la solidarietà (i membri si associano per portare vantaggi a terzi). Ovviamente l’una caratteristica non esclude l’altra, ma le due possono essere presenti con diverso grado di pregnanza. Elementi comuni a tutte le comunità contrattuali sono dunque due. In primo luogo, una pluralità di individui che accettano volontariamente regole ed esborsi in vista di un fine condiviso: le forme organizzative private si distinguono dalle forme pubbliche basate sulla nozione di sovranità poiché sono fondate su ‘contratti volontari espliciti tra persone di uguale status legale’. In secondo luogo, una forma complessa di proprietà privata (che la proprietà privata possa prevedere forme molto articolate e differenti è sempre stato ovvio nel passato, prima della banalizzazione del problema della proprietà – e della demonizzazione dell’istituto della proprietà – nel novecento). Le comunità contrattuali presentano alcuni vantaggi e alcuni svantaggi o, quantomeno, rischi. Tra i vantaggi si possono sottolineare almeno i seguenti: (i) la piena e unanime volontarietà di adesione dei membri alla forma organizzativa in questione; (ii) il favorire una rinascita della responsabilità e della cura degli individui nei confronti del proprio ambiente di vita o di attività e, in certi casi, un rafforzamento del senso di comunità; (iii) l’esistenza di servizi più adeguati alle reali esigenze dei cittadini, in quanto forniti alla scala che si rivela più opportuna e scelti e discussi a contatto diretto con gli interessati (i servizi sono molto spesso forniti in modo più efficiente – e con una maggiore velocità di riadattamento ad esigenze e circostanze mutevoli – rispetto a quanto accade quando la fornitura è di carattere pubblico più tradizionale: Foldvary, 1994; Nelson, 2005); (iv) la garanzia, in molti casi, di una qualità del contesto insediativo più alta (questo accade, tra l’altro, perché le regole sono non solo opportunamente congegnate, ma, anche, particolarmente sentite e diffusamente rispettate dai destinatari che si considerano parte di un’impresa comune e hanno riacquistato consapevolezza della convergenza tra vantaggio collettivo e vantaggio individuale). Grazia Brunetta, Stefano Moroni 1 Appunti sulla sfida aspecifica del cohousing Tra gli svantaggi o i rischi uno in particolare merita di essere menzionato: la possibile tendenza alla segregazione e al reciproco isolamento dei vari gruppi della società, in termini fisici e sociali. Ciò, sia perché le varie associazioni, siano esse costituite prevalentemente dai soggetti più abbienti della società o meno, tendono a formarsi riunendo membri omogenei (ossia membri che condividono una certa idea di qualità ambientale e architettonica, una predilezione per determinati tipi di servizi, etc.), sia perché chi non entra a far parte di tali associazioni potrebbe ritrovarsi automaticamente collocato in aree ‘inintenzionalmente omogenee’ a loro volta. Tutto questo potrebbe portare alla parcellizzazione della società urbana in isole eccessivamente uniformi; con la conseguente riduzione dei benefici dell’‘effetto urbano’, ossia l’incontro continuo e fertile con la diversità: elemento che, da sempre, rappresenta un aspetto non solo positivo, ma, addirittura, costitutivo, della città (Jacobs, 1961, 1969; Ward, 1973; Sennett, 1992; Florida, 2005 e 2007). 1.2. Elementi di differenziazione 1.2.1. Criteri di primo livello È anzitutto possibile suddividere tipi di comunità contrattuali in base al differente regime proprietario (utilizzeremo questo come un criterio di primo livello); avremo così: (i) associazioni comunitarie; (ii) comunità proprietarie; (iii) cooperative residenziali. Il primo modello, l’associazione comunitaria, prevede un gruppo di cittadini che possiedono proprietà immobiliari singolarmente e un insieme di aree collettive in comune gestite da un corpo elettivo; i membri entrano automaticamente a fare parte dell’associazione all’atto stesso di acquisto di un immobile, accettando in tal modo regole unitarie relative all’uso e l’obbligo di versare periodicamente quote associative. Il secondo modello, la comunità proprietaria, prevede un proprietario unico di una porzione di territorio che, dopo averlo debitamente infrastrutturato e organizzato, ne affitta parti a individui disposti a versare un canone, continuando ad occuparsi della gestione del complesso. Il terzo modello, la cooperativa residenziale, prevede che l’intera proprietà immobiliare in questione sia posseduta collettivamente; in questo caso, è la cooperativa che è proprietaria del suolo, degli edifici, degli spazi e attrezzature comuni; i singoli non possiedono dunque beni immobiliari, ma quote della cooperativa stessa che danno ad essi il diritto – a certe condizioni – di usare i beni della cooperativa (ad esempio un appartamento). Il tipo di regime proprietario influisce anche su estensione e funzione della comunità contrattuale. Per fare due esempi: il modello della cooperativa residenziale (stante la proprietà collettiva di tutto) è adatto per piccole realtà residenziali, ma non per gestire complessi più ampi; il modello della comunità proprietaria è adatto soprattutto per realtà commerciali, uffici o sistemi misti, meno per realtà esclusivamente residenziali. 1.2.2. Criteri di secondo livello Individuiamo ora un insieme di criteri analitici di secondo livello per costruire sotto-tipologie di (forme di) comunità contrattuali. Un primo criterio fa riferimento al tipo di promotore dell’insorgere stesso della comunità (imprenditore privato, gruppo autonomo di cittadini, etc.). Un secondo criterio fa riferimento al processo di progettazione dell’insediamento della comunità contrattuale (tradizionale, partecipato, etc.). Un terzo criterio fa riferimento alla forma di chiusura della comunità contrattuale (aperta anche a estranei o meno; cintata o meno; con guardie o sistemi elettronici di riconoscimento all’ingresso…). Un quarto criterio fa riferimento al metodo di decisione (maggioritario semplice, maggioritario qualificato, unanimità…). 2. Il caso del cohousing I criteri di ‘secondo livello’ vengono qui applicati per analizzare e interpretare un fenomeno emergente dell’associazionismo residenziale – il cohousing – che, nell’ultimo decennio, sta conoscendo una dinamica crescente in tutta Europa. In particolare, ci concentriamo nel seguito sui casi di cohousing in Danimarca e negli Stati Uniti che rappresentano, per varietà e consistenza (tipologica e dimensionale), un campione significativo tra tutti quelli realizzati1. Anche se attualmente è piuttosto difficile fare una stima quantitativa precisa del fenomeno, possiamo affermare che questo presenta, sia in Europa sia negli Stati Uniti, una consistenza ancora modesta (in termini di unità e 1 Sebbene il cohousing affondi le sue radici in una storia secolare di proposte di comunità utopiche e riflessioni comunitarie, il primo insediamento nella forma attuale risale alla seconda metà del ventesimo secolo su proposta dell’architetto Jan Gødmand Høyer che nel 1964 avvia in Danimarca la realizzazione della comunità di Skråplanet. Si tratta di una particolare forma di vicinato, in cui alloggi privati e servizi comuni vengono combinati insieme per creare una comunità in equilibrio tra privacy e socialità (Bergamasco e Canossa, 2007; Lietaert, 2007; McCannet e Durett, 1994). A partire dagli anni Settanta, il cohousing cominciò a diffondersi, dapprima in Danimarca, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito e negli anni Novanta anche in Germania e poi nei paesi della sponda mediterranea, per arrivare, negli ultimi anni, anche in Italia (Baglione, 2009; Fromm, 2000). Grazia Brunetta, Stefano Moroni 2 Appunti sulla sfida aspecifica del cohousing abitanti), seppure con una dinamica in continua espansione. In particolare, in Europa, dove la diffusione è molto diversa da paese a paese, si stima una presenza rilevante soprattutto nella già citata Danimarca; negli Stati Uniti si registra, dal 2008, una dinamica di forte crescita (Breton, 2007). 2.1. Caratteristiche del cohousing: cosa emerge? I quattro criteri analitici definiti nel § 1.2.2. sono stati applicati ai casi danesi e statunitensi di cohousing. Vediamo di seguito che cosa emerge. 2.1.1 Promotore L’iniziativa è sempre promossa autonomamente da gruppi di individui che, nella gran parte dei casi, condividono principi e ragioni alla base della ricerca di ‘nuovi’ stili di vita comunitari e ‘ambientalmente sostenibili’. La rete di selezione dei membri è totalmente auto-organizzata e informale e può gestire in piena autonomia tutte le fasi – immateriali e materiali – di progettazione della comunità. In Danimarca i progetti di cohousing si distinguono per processi di promozione e formazione della comunità particolarmente efficaci. La gran parte delle iniziative può essere ricondotta al modello definito da Fromm (2000) di tipo ‘resident-driven’. Si tratta di una iniziativa immobiliare auto-gestita, in cui i membri del gruppo seguono l’intero processo di sviluppo che va dalla ricerca del sito, al finanziamento dell’investimento, alla ideazione del progetto, alla realizzazione dell'insediamento. Anche nel caso in cui i gruppi si rivolgono a consulenti, per ricevere assistenza tecnica nella progettazione, mantengono la regia e il controllo dell’iniziativa. Negli Stati Uniti, pur permanendo una quota significativa di casi completamente auto-organizzati, sono maggiori le situazioni in cui ci si è affidati sin dall’inizio a un profit-developer2. 2.1.2 Processo di progettazione Elemento comune alle diverse esperienze analizzate è la partecipazione auto-organizzata dei cohousers (anche) alla progettazione dell’insediamento. Come abbiamo detto, la partecipazione alla progettazione comincia con la fase di definizione dei valori alla base della costruzione del gruppo e prosegue con il contributo vero e proprio alla progettazione degli spazi individuali e comuni. Tale processo diviene componente fondamentale per lo sviluppo del senso di comunità e anche garanzia del massimo soddisfacimento delle esigenze dei cohousers. Non a caso la letteratura fa riferimento all’idea di ‘vicinato elettivo’ come metodo di scelta dei membri dell’insediamento. Tale meccanismo di selezione informale risulta essere una garanzia di responsabilizzazione dei futuri residenti riguardo al fatto che la scelta effettuata sia consapevole e sentita. D'altra parte il desiderio di conoscere i propri vicini, con cui in futuro intrecciare rapporti di amicizia, sembra una richiesta più che comprensibile, soprattutto se, come in questo caso, si tratta di sostenere un investimento (di vita e d’altro) così a lungo termine. Tenuto conto di questa premessa, si può osservare che in Danimarca e negli Stati Uniti la nascita delle comunità cohousing ha luogo prevalentemente con l'intenzione di favorire la socialità e, spesso, anche con il desiderio di raggiungere uno stile di vita improntato ai principi di ‘sviluppo sostenibile’ (ossia in grado di preservare e valorizzare le risorse ambientali). 2.1.3. Strutturazione nei confronti dell’esterno La volontà di essere una comunità più o meno chiusa spetta esclusivamente (e ovviamente) ai cohousers e si riflette sulla conformazione spaziale dell'insediamento, così come sulla scelta di dotarsi, o meno, di cancelli e barriere all'ingresso. Per quanto riguarda sistemi di sorveglianza e configurazione dei limiti fisici, la gran parte dei casi analizzati mostra che le comunità cohousing non possono essere considerate ‘insediamenti fortificati’. Nella maggior parte dei casi danesi e in vari casi statunitensi, infatti, le comunità cohousing non sono affatto comunità blindate, ma parzialmente aperte; gli outsider (i non residenti) possono attraversare alcune parti dell'insediamento senza nessun sistema particolare di controllo, e anche, in alcuni casi, venire coinvolti nelle attività organizzate dai cohousers. Va ribadito, però, che tale condizione non è elemento invariante, riscontrabile in tutti i casi di cohousing realizzati. Esistono infatti comunità cohousing dove l’accesso agli esterni non è consentito e questo si riflette di conseguenza anche sulla configurazione dei margini dell’insediamento. 2 Per una rassegna approfondita dei casi studio si veda ancora Baglione (2009). Grazia Brunetta, Stefano Moroni 3 Appunti sulla sfida aspecifica del cohousing 2.1.4. Metodo di decisione I membri che decidono di entrare a far parte dell’associazione residenziale cohousing hanno un ruolo fondamentale nella definizione del sistema di regole per l’organizzazione e la gestione della comunità. Tali regole di diritto privato vengono formalizzate nello Statuto costitutivo dell’associazione. Si tratta di un ‘pacchetto di regole’ che gioca un ruolo fondamentale a garanzia futura dell'investimento e dei diritti dei membri della comunità. La gestione successiva della comunità è affidata a tutti i cohusers o, nei casi di insediamenti più grandi (in termini di unità abitative), a specifici consigli di amministrazione che vengono nominati dai membri o definiti sulla base di turnazioni prestabilite. Il metodo decisionale adottato nella prevalenza dei casi è quello del consenso completo, attraverso la partecipazione paritaria di tutti i residenti e l'assunzione di decisioni unanimi (non vi è perciò una tipica struttura gerarchica piramidale, ma una forma di partecipazione diretta che garantisce pari diritti a tutti i membri). Un simile metodo risulta senz’altro dispendioso e complesso, ma può ovviamente garantire completa condivisione delle scelte. In alcuni casi specifici viene comunque adottato il metodo di decisione per maggioranze qualificate (supermaggioranze), in grado di accelerare i tempi del processo e di sciogliere gli eventuali conflitti insorti. 2.2. Il cohousing come comunità contrattuale: analogie e particolarità Dall’analisi effettuata risultano con chiarezza gli elementi caratterizzanti il fenomeno del cohousing, che emerge come una forma particolare di comunità contrattuale; nei termini dei criteri di primo livello, si può dire che i casi di cohousing sono riconducibili a più d’una delle forme-tipo definite dalla teoria generale, sebbene con una forte prevalenza dell’associazione comunitaria. Considerando i criteri di secondo livello, possiamo individuare gli elementi che distinguono questa particolare forma di comunità contrattuale dalle altre possibili (ad esempio, ove il modello sia quello dell’associazione comunitaria, questa particolare forma di associazione comunitaria rispetto alle altre). In particolare, possiamo osservare che il fenomeno che viene comunemente denominato cohousing è una forma di comunità contrattuale che si caratterizza (e differenzia da altre) per tre aspetti specifici: (i) l’iniziativa nasce generalmente dagli stessi membri della comunità; (ii) la partecipazione alla progettazione dell’insediamento è diretta; (iii) il metodo di decisione prevede generalmente l’unanimità (o la supermaggioranza). 2.3. Vantaggi e svantaggi del cohousing Nella prospettiva di ricerca avviata ci interessa segnalare vantaggi e svantaggi specifici di tale forma di comunità contrattuale. Tra i vantaggi, si colloca il forte senso di coesione comunitaria che riguarda queste iniziative residenziali, ciascuna legata alla definizione di propri valori identitari che derivano dalla libera iniziativa e capacità di sperimentare nuovi stili di vita da parte di chi decide autonomamente di aderire al progetto. Da questo punto di vista potremmo perciò chiederci se il cohousing non possa rappresentare un innesco di processi virtuosi di riqualificazione urbana, fermo restando però che la sua natura di comunità contrattuale non può prescindere dalla natura squisitamente volontaria di tale forma di associazione resideziale (non può perciò essere proposto e imposto secondo un modello top down). Tra gli svantaggi, segnaliamo, anzitutto, la criticità relativa alla stabilità nel tempo dei valori fondativi di ciascuna comunità cohousing. Nel momento in cui cambiano le attese dei residenti, ad esempio a causa di cessioni o del ricambio generazionale, può venire meno il sostegno totale agli obiettivi fondativi della comunità e questo può determinare il declino o, nella migliore delle ipotesi, la ri-progettazione della stessa da parte di chi rimane. Inoltre, va detto che le condizioni di base richieste (ad esempio la partecipazione al processo di progettazione) fanno sì che il cohousing possa riguardare solo un numero ridotto di membri e di unità abitative. Non va poi dimenticato il rischio, già segnalato per le comunità contrattuali complessivamente intese, di creare uno spazio urbano fatto di tante isole omogenee. 3. Prospettive In conclusione, si può osservare come il cohousing non sia altro che una sotto-tipologia possibile di comunità contrattuale. Nulla di rilevante o sorprendente riguarda il cohousing in quanto tale, se non come espressione del fenomeno più ampio delle comunità contrattuali. È il fenomeno delle comunità contrattuali complessivamente inteso a sollevare problemi nuovi e opportunità inedite, non singole manifestazioni dello stesso. È dunque sul fenomeno delle comunità contrattuali in sé che conviene concentrare l’attenzione. Grazia Brunetta, Stefano Moroni 4 Appunti sulla sfida aspecifica del cohousing È nostra opinione che favorire la più ampia formazione di comunità contrattuali sia utile e benefico, anche per la rinascita e la vitalità delle nostre città. Ferme restando le ineliminabili responsabilità pubbliche generali (dettare regole per l’intero territorio che siano valide per tutti, realizzare infrastrutture e spazi pubblici, etc.) (Brunetta e Moroni, 2008), due sembrano le strategie possibili per incrementare lo spazio e il ruolo delle comunità contrattuali nel nostro paese. In primo luogo, è immaginabile liberalizzare le forme di aggregazione residenziale rispetto alla forma principe (e pressoché obbligata) presente nei codici del nostro paese, ossia il condominio. Sarebbe a questo proposito interessante chiedersi sino a che punto la tipica litigiosità delle compagini condominiali italiane sia dipesa dalla standardizzazione di un modello che ha impedito differenziazioni e articolazioni maggiori, costringendo tutti ad accettare la medesima, ingessata forma di organizzazione della convivenza residenziale. In secondo luogo, è ipotizzabile introdurre degli sconti fiscali e/o incentivi per quei gruppi associati che sono in grado di fornirsi da soli determinati servizi collettivi che così potranno essere garantiti secondo un modello completamente volontario. Le comunità cohousing, così come tutte le forme di comunità contrattuali, potrebbero perciò integrare le municipalità locali per la fornitura di alcuni servizi territoriali locali contribuendo a realizzare l’ideale (tanto invocato) della sussidiarietà orizzontale. Bibliografia Libri Brunetta, G., Moroni, S. (2008), Libertà e istituzioni nella città volontaria, Bruno Mondadori, Milano. Florida, R. (2005), Cities and the Creative Class, Routledge, New York. Florida, R. (2007), The Flight of the Creative Class, Collins, New York. Foldvary, F. (1994), Public Goods and Private Communities, Edward Elgar, Aldershot. Articoli: Baglione, V. (2009), Il cohousing nella città volontaria, Tesi di Laura specialistica, I Facoltà di Architettura, Politecnico di Torino. Bergamasco, F., Canossa, G. (2007), “Jan Godmand Hoyer, l’ideatore del cohousing” in Lietaert, M. (a cura di), Cohousing e condomini solidali, Aam Terra Nuova, Perugia. Fromm, D. (2000), “American Cohousing: The First Five Years”, in Journal of Architectural and Planning Research, 17 (2), pp. 92-109. Jacobs, J. (1961), The Death and Life of Great American Cities, Random House, New York. Jacobs, J. (1969), The Economics of Cities, Random House, New York. Lietaert, M. (a cura di) (2007), Cohousing e condomini solidali, Aam Terra Nuova, Perugia. Grazia Brunetta, Stefano Moroni 5 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. Sarah Chiodi Dinse, Politecnico di Torino [email protected] 011.5644318 Abstract La tesi proposta si colloca nell’interfaccia tra le discipline delle scienze sociali e dell’urbanistica, e compete l’analisi delle nuove esigenze abitative e dell’offerta attuale della casa. L’argomentazione prende spunto da alcune questioni fondamentali: • Il processo di evoluzione e mutamento della famiglia in atto nel nostro paese. • La nuova morfologia del territorio disegnata dalla diffusione della mobilità. • Gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie nei trasporti, nel lavoro e nella casa sugli stili di vita e sullo spazio residenziale. La risposta a questa rinnovata domanda di casa impegna in prima linea sia il soggetto pubblico che i tecnici, attraverso la messa in atto di politiche pubbliche efficaci e la progettazione di spazi abitativi adeguati alle nuove esigenze. A partire dal caso di Torino si stanno mettendo in atto alcune iniziative interessanti in merito all’offerta abitativa che vedono la programmazione di politiche integrate tra il settore pubblico, quello privato e il terzo settore. Dunque la tesi sostenuta è che davanti a questo quadro esigenziale, da parte dell’offerta qualcosa sta cambiando. 1. Il trattamento dei bisogni abitativi tra passato e presente. L’articolazione complessa dei nuovi bisogni abitativi in Italia prende ragione dall’intersezione di una certa numerosità di fenomeni tra i quali si mettono in evidenza: il processo di evoluzione e mutamento della famiglia in atto nel nostro paese (e non solo), anche in virtù della presenza delle nuove culture migranti; la nuova morfologia del territorio disegnata dalla diffusione della mobilità; e gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie nei trasporti, nel lavoro e nella casa sugli stili di vita e sullo spazio residenziale. Questi sono solo alcuni dei temi che condizionano la questione abitativa, e già ne è evidente la ricchezza semantica; cercherò di affrontarli sistematicamente nei paragrafi successivi di questo contributo. Il riconoscimento dei nuovi bisogni abitativi tuttavia non implica di per sé una determinazione oggettiva delle risposte. Non si intende perciò qui proporre una semplificazione quantitativa di dati da trattare in termini amministrativi, ovvero secondo quel modello unitaristico e centralistico che Tosi (1994) ha definito “teoria amministrativa dei bisogni”1, quanto piuttosto si vuole delineare un quadro di riferimento della domanda abitativa attuale che sia capace di produrre alcuni orientamenti per le politiche della casa e per altre azioni mirate sul tema dell’abitare sociale di iniziativa non necessariamente amministrativa. I modi tradizionali di impostare i programmi abitativi dal dopoguerra fino a tutti gli anni ‘70 hanno seguito un orientamento prevalente di tipo centralistico e meramente quantitativo, che ha ridotto “l’abitazione ad un articolo di consumo e l’abitante ad un consumatore” (Habraken, 1972)2. È il cosiddetto fenomeno del mass housing, che si concreta in una sorta di modello universalistico dell’abitare che relega la processualità dell’abitare a mera funzione razionalizzabile. Nei casi più estremi, la casa è la riproduzione in serie di una “macchina per abitare”: standardizzazione di soluzioni ripetibili all’infinito in base alle dimensioni dell’insediamento che si vuole realizzare. Molte delle celebri realizzazioni dell’Ina-Casa e dei quartieri Cep, costruite in Italia a partire dal 1 Questa tradizione si richiama alle teorie evolutive della modernizzazione che assimilava lo sviluppo e la regolazione sociale alla progressiva generalizzazione e al consolidamento di uno stato organizzativo centrale predominante. (Tosi, 2007, p.39). Si è sviluppata con la crescita dell’intervento sociale dello stato e con la diffusione delle discipline normative. L’elemento critico di questa teoria, in parte già fallita presso le nostre amministrazioni, sta proprio nell’applicare la nozione di bisogno in termini semplificatori e riduttivi: ad ogni bisogno individuato dall’alto (definito dalle amministrazioni in modo autonomo e a distanza dagli utenti) viene fatto corrispondere un servizio “universale” che configura una serie di risposte di tipo quantitativo e a-specifico: edifici standard (pensati nei termini dell’unità abitativa propagandata dal movimento moderno) localizzati in luoghi assegnati e dotati di appropriate infrastrutture (laddove poi queste si sono potute realmente realizzare). 2 Cit. da Tosi, 2007, p.53. Sarah Chiodi 1 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. secondo dopoguerra, hanno corrisposto a questi criteri, e sono ben note le critiche giunte a questi progetti, sia da parte del mondo scientifico, che da parte degli stessi abitanti dei quartieri popolari. Questo approccio generalizzante è stato messo in discussione a partire dagli anni ’70 con la crisi della modernità e la decadenza dei paradigmi positivistici applicati nelle scienze urbane e sociali. A partire da questa sorta di rivoluzione culturale dell’abitare e degli abitanti (penso anche al cosiddetto periodo della “lotta per la casa”) si sono sviluppati nuovi modelli caratterizzati dalla crescita dell’importanza del locale (inteso come il livello scalare più vicino agli abitanti) e dell’informale (ciò che si muove parallelamente ai processi formali regolati dallo stato e dal mercato). (Cfr. Tosi, 1994, p. 91 sg.). Le teorie architettoniche del movimento moderno e i paradigmi positivistici delle scienze sociali vengono dunque messi da parte aprendo la strada ad una identificazione dei bisogni non più predeterminata dall’alto, ma centrata sull’attore sociale, dal basso: «alla riduzione quantitativa dei bisogni e delle soluzioni, una preferenza per i metodi qualitativi e partecipativi». (Tosi 1994, p.94). Questi principi (la partecipazione, l’auto-organizzazione e lo sviluppo locale) apriranno la strada ad una nuova urbanistica “sociale” che maturerà in seguito in Italia durante gli anni ’90 con i cosiddetti “programmi complessi”3 o integrati4 - in particolare, in ambito residenziale (sebbene non si tratti di politiche mirate alla casa), con quei filoni di programmi di tipo “urbanistico” e di “rigenerazione urbana”5– e con l’attività di associazioni e gruppi di ricerca attivi nella costruzione sociale del piano6. Nel quadro sopra delineato si sono sviluppate le politiche per la casa di “prima generazione” (dal secondo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’90)7: «si tratta di politiche di stampo chiaramente fordista, caratterizzate per la loro fissità e per la verticalità dell’approccio, che parte dal livello statale – attraverso i finanziamenti ERP – e arriva a concretizzarsi indistintamente sul territorio delle diverse città interessate. Tipici di questo periodo sono gli interventi di edilizia popolare volti a risolvere il problema della crescita quantitativa delle città». (De Luca, Governa, Lancione, 2007, p.55) L’ultimo decennio del secolo scorso rappresenta dunque una sorta di “periodo di transizione” nelle politiche generali per la casa. La vera trasformazione avverrà di conseguenza al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni (D.lgs 112/1998 “Riforma Bassanini”), con l’assegnazione dell’intero settore dell’edilizia residenziale pubblica alla competenza delle Regioni con attribuzione diretta dei fondi e in concessione agli Enti Locali. A seguito della riforma le Regioni provvedono a dotarsi di un corpo normativo proprio in materia e a riformare gli enti pubblici di gestione delle case popolari in aziende che operino con criteri di economicità (azione già introdotta dalla L.179/92). (Cfr. Gruppo 24 Ore, 2009, p.20) La progressiva riduzione delle risorse destinate dallo Stato all’edilizia residenziale pubblica e i mutamenti sociali della domanda della casa hanno reso necessario il sorgere di nuove politiche definite di “seconda generazione” capaci di dare risposta al mutato quadro esigenziale di social housing8. Due sono i punti fondamentali di questo nuovo orientamento: in mancanza di fondi governativi trovare delle risorse alternative per la produzione di edilizia residenziale a condizioni economiche più vantaggiose rispetto a quelle di mercato; e in considerazione di una domanda eterogenea, sia da un punto di vista del reddito (fino a quella nota soglia del 30% del peso dell’alloggio sul reddito complessivo), che dei gruppi sociali che la compongono (anziani, giovani, single di 3 I programmi complessi rientrano nel panorama delle innovazioni della pianificazione urbanistica degli anni Novanta. Il Comitato per l’edilizia residenziale (Cer), operante all’interno del Ministero, ha tentato di impostare procedure innovative volte al recupero e alla riqualificazione urbana dando luogo a strumenti (variamente denominati) generalmente conosciuti come “programmi complessi o integrati”: si intende fare riferimento a diverse famiglie di programmi che si richiamano alla nozione di integrazione degli interventi accumunati da un orientamento al locale come dimensione strategica e il riferimento al territorio come contesto del proprio sviluppo; sono gestiti da attori istituzionali e non; hanno un ampio spettro di contenuto: interventi produttivi, a sostegno sociale o dell’occupazione, azioni infrastrutturali, ambientali, ecc.; e sono attivati da proponenti diversi: ministeri, Unione Europea, una varietà di enti locali, istituzioni o forme di rappresentanza locale innovativa e partecipata. (Cfr. Cremaschi, 2001) 4 L’idea di integrazione sottolinea, da una parte, l’azione contemporanea su più fronti: quello della riqualificazione dell’ambiente fisico, quello dello sviluppo economico, quello del miglioramento della qualità della vita, ecc., cercando di puntare sulle sinergie tra ciascun tipo di progetto; dall’altra, si riferisce al tentativo di dar vita a rapporti di complementarietà tra gli attori pubblici, privati, e del terzo settore. 5 S.Saccomani (2004, p. 30) colloca nel filone “urbanistico” i Programmi Integrati di Intervento (PII, PRIN – art. 16, L.179/92), i Programmi di Riqualificazione Urbana (PRIU - art. 3, L.179/92), i Programmi di Recupero Urbano (PRU – art.11, L.493/93); e nel filone “rigenerazione urbana” i Contratti di Quartiere 1 (DM. LL.PP. 22 ottobre 1997), i CdQ 2 (L. 21/01, DM 27 dicembre 2001 e DM 23 aprile 2003), i programmi Urban 1 e 2 (Fse e Fesr 1994-99 e 2000-06), il Progetto Pilota Urbano (Fesr 1989-93 e 1997-99). 6 L’espressione “costruzione sociale del piano” è messa in evidenza da Ferraresi (1994, p.105) per sottolineare il distacco tra ciò che la “partecipazione” ha significato in Italia negli anni ’70 e ciò che vuole significare “oggi”: «intendo tutte quelle teorie, metodologie, pratiche che assumano come centrale l’attivazione del “terzo attore” nel processo di piano; che prevedano , in secondo luogo, una relazione interattiva tra terzo attore, stato e mercato; e che comportino, infine, una interferenza nei processi interattivi nella supposta autonomia tecnicoscientifica del planner». 7 Si precisa che nel periodo tra il 1978, anno della Legge 457 “Piano decennale per l’edilizia residenziale” (l’ultimo piano consistente ed organico per l’edilizia sociale), e il 1992, anno della legge 179 “Norme per l’edilizia residenziale pubblica” che introduce alcune norme fondamentali in merito alla riqualificazione urbana e introduce i Piani Integrati di Intervento, non è stata attivata a livello statale alcuna politica relativa all’edilizia sociale. In particolare a Torino, dal 1980 al 1995 non è stato indetto neppure un Bando generale per l’assegnazione di alloggi ERP (come si evince dai documenti del Comune del 2006 in merito alle “Caratteristiche e dimensioni della domanda abitativa” – reperibili sul Sito Ufficiale). 8 La definizione estensiva di “social housing” comunemente accettata è quella proposta da Cecodhas (Comitato europeo per la promozione del diritto alla casa): l’housing sociale è «l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari”». (Cittalia, Anci Ricerche 2008, p.45) Sarah Chiodi 2 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. ritorno, giovani coppie, immigrati, ecc.), offrire una riposta differenziata (non necessariamente in termini di politiche settoriali, ma rispetto alla possibilità di accesso per tutti questi soggetti così eterogenei). La Regione Piemonte ha approvato nel 2006 il “Programma Casa: 10.000 alloggi entro il 2012”, che prevede una serie di interventi nell’ambito del social housing in linea con quest’ottica. L’offerta da parte della Regione si concretizza in una serie di azioni differenziate (azioni di riqualificazione integrata, edilizia sovvenzionata, agevolata, sperimentale, ecc.), anche rivolte a soggetti specifici (giovani ed anziani), e il finanziamento di questi progetti prevede il concorso di soggetti privati e no profit attraverso la diffusione di operazioni di paternariato. Speciale attenzione poi viene rivolta all’edilizia sostenibile ovvero all’impatto ambientale degli interventi. In particolare, il Comune di Torino sta realizzando alcune significative esperienze di social housing: gruppi di coabitazione per giovani, anziani o famiglie; residenze collettive per singoli da sostenere e accompagnare; alberghi sociali per l’emergenza o brevi periodi; condomini solidali per il mutuo aiuto; coabitazioni solidali per l’accompagnamento sociale nei quartieri difficili di edilizia residenziale pubblica; aree per la realizzazione di alloggi in affitto per le famiglie a reddito moderato; e azioni di sostegno al credito per la prima casa per giovani con lavoro discontinuo. In questo contesto non si intendono approfondire le politiche della Regione Piemonte e del Comune di Torino poiché evinco che verranno già trattate da altri autori presenti all’atelier “Politiche abitative e nuova questione urbana”. Presenterò invece brevemente nell’ultimo paragrafo un progetto di ricerca innovativo - non promosso direttamente dalle amministrazioni, ma dal RE.Lab9 e Ires Piemonte in collaborazione con Equiter (gruppo Intesa San paolo) e The Carlyle Group – che è giunto alla proposta operativa di uno strumento metodologico chiamato “Social Housing 2.0” atto a fornire ai decisori gli elementi per valutare la qualità complessiva degli interventi finalizzati all’abitare sociale. 2. Il processo di evoluzione e mutamento della famiglia in atto nel nostro paese. La società contemporanea ha originato una complessa morfogenesi di famiglie. Uso il termine famiglia al plurale proprio per metterne subito in luce la numerosità dei significati che evoca. Non tutte le convivenze sono “famiglia”, ma una delle prime definizioni richiamate dalla sociologia è proprio quella di «gruppo di persone che vivono insieme sotto uno stesso tetto, l’ampiezza e la composizione di questo aggregato di co-residenti, le regole con le quali esso si forma, trasforma, si divide» (Barbagli, 2000, p.15). La famiglia perciò non ha solo una struttura compositiva rilevabile in termini statistici (numero dei componenti e il loro tipo di legame), ma si definisce anche in base a delle relazioni sociali tra i suoi membri: rapporti di autorità e di affetto, modalità di interazione, emozioni e sentimenti reciproci. I componenti della famiglia però possono anche non risiedere nella stessa casa, e avere tuttavia rapporti sociali intensi e frequenti in vista della conservazione e dell’accrescimento delle loro risorse economiche come del loro prestigio e potere. Il termine famiglia dunque non fa esclusivamente riferimento ad un aggregato domestico che dimora sotto lo stesso tetto, ma include tutta una serie di relazioni e di scambi tra i suoi membri che superano i confini della casa. In modo più appropriato l’inglese, così come il francese, distinguono l’espressione di “aggregato domestico” inteso anche come spazio fisico della convivenza (household e menage), da quella di family e famille, che non implicano necessariamente un fattore di convivenza tra i membri del gruppo familiare. La nostra epoca è contraddistinta da mutamenti radicali della famiglia rispetto a quella concezione tradizionale (e spesso patriarcale) di famiglia formata da un nucleo dove l’uomo lavora e la donna si occupa della casa e dell'educazione dei figli (e che ancora oggi viene spesso presa come riferimento ideale dalla propaganda politica). Questo mutamento coinvolge sia la tipologia della struttura compositiva della famiglia10, sia la tipologia relazionale e i ruoli dei suoi componenti (non necessariamente parenti tra l’altro). 9 RE. LAb è il laboratorio che la Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino ha attivato nel 2007 in collaborazione con il Politecnico di Torino con lo scopo di mettere a disposizione degli stakeholders pubblici e privati un luogo di scambio di conoscenze del settore del mercato del Real Estate. 10 Riguardo la struttura compositiva dell’aggregato domestico la manualistica (Barbagli, 2000; Saraceno, Naldini, 2001) è concorde nel distinguere ancor oggi le cinque categorie fondamentali di strutture di convivenza familiare proposte da Laslett (1977, p.34 sg.): 1. Gruppi domestici “semplici”: genitori/genitore solo con figli o coppia senza figli; e preciserei, coniugate o non coniugate: coppie sposate o non possono avere le medesime caratteristiche relazionali e simili prassi di convivenza poiché la legittimità del legame non determina la modalità di fruizione dello spazio abitativo. È quella che si solito viene chiamata “famiglia nucleare”, famiglia elementare o biologica, o ancora “unità familiare coniugale”. 2. Gruppi domestici “multipli”: dove sono presenti più nuclei coniugali uniti da relazioni di parentela (perciò si può articolare lungo l’asse generazionale) o di matrimonio. All’interno dell’aggregato ci sarà un nucleo primario che comprende il capofamiglia e una o più unità familiari satellite secondarie. Questo gruppo viene anche detto “famiglia congiunta” 3. Gruppi domestici “estesi”: famiglia semplice o nucleare con cui convivono parenti di primo grado ascendenti, discendenti o collaterali che non formano un secondo nucleo; 4. Gruppi domestici “senza struttura”: convivenze senza chiari rapporti di generazione o di coppia, ma che possono anche avere legami di parentela (fratelli, sorelle) o addirittura senza legami apparenti (persone che si limitano a condividere un’abitazione: pigionanti o lodger o semplicemente coinquilini, inmates che sono considerati membri di una stessa houseful). 5. Famiglie uni-personali di tipo “solitario” composte da un solo componente senza figli. Sarah Chiodi 3 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. I dati statistici (Censimento Istat 2001) rilevano nel nostro paese un aumento del numero di famiglie superiore a quello dell’incremento della popolazione, il che denota la tendenza ad una certa nuclearizzazione dell’aggregato domestico, l’allungamento della durata media della vita e una generale riduzione delle nascite (che porta alla diminuzione dell’ampiezza delle famiglie). Le famiglie quindi crescono in numero, ma ne diminuisce l’ampiezza media: è il cosiddetto processo di “contrazione della famiglia” (Donati, 2006, p.250). Esistono poi delle tendenze che vanno in direzione opposta alla progressiva contrazione della famiglia e che non vengono rilevate dalle statistiche ufficiali. Queste recenti tendenze portano alla formazione di nuove strutture di convivenza: 1. Famiglie ricostituite o ricomposte che si formano a partire da altri gruppi familiari (senza legami di parentela reciproci tra i due gruppi precedenti) e che spesso portano con sé i figli avuti dalla precedente relazione componendo così un nuovo aggregato domestico. In questo caso almeno uno dei due genitori della famiglia ricostituita è separato o divorziato. 2. Nuove tipologie di famiglia estesa che diffondono un modello di tipo “coniugale neolocale” (Barbagli, 2000): non più casi tradizionali di giovani coppie che convivono con i genitori, ma casi di ricoabitazione di genitori soli o anziani con i figli magari separati. 3. “La famiglia lunga” (Scabini, Cigoli, 1997) caratterizzata dalla copresidenza di genitori e figli “giovani adulti”, ovvero quei soggetti che vivono un tempo della vita di passaggio tra le due condizioni apparentemente contraddittorie di giovinezza (una fase ancora di crescita) e dell’età adulta (lo stato di crescita ultimata). 4. “Famiglie estese modificate” (Donati, 2006), cioè famiglie nucleari legate da vincoli di parentela che abitano “a distanza” (per ragioni di mobilità sia geografica sia sociale) ma che hanno una densità elevata di scambi reciproci sostenuta anche dall’impiego di nuove tecnologie di comunicazione. Le strutture familiari sono in parte modificate anche da un generale aumento dell’indice di invecchiamento della popolazione italiana. Questo implica alcune osservazioni significative: che l’età media elevata dei componenti della famiglia comporta un’evidente rimodulazione dei bisogni; e che si genera un forte squilibrio nei rapporti generazionali dovuto alla massa crescente degli anziani e alla minoranza dei giovani (anche per riduzione della natalità). Tra gli anziani inoltre esistono alcune forme di provvisorietà di convivenza motivate da situazioni di convenienza: il matrimonio tra persone anziane infatti spesso porta alle perdita di alcuni benefici economici (assegni di pensione o altro) o anche il titolo di affitto della casa. Le conseguenze di tutto ciò toccano ovviamente anche la ristrutturazione degli spazi abitativi generando nuove esigenze: di spazi di privacy (tra generazioni o tra semplici co-abitanti), di spazi dedicati all’assistenza domiciliare, di accessibilità fisica ed economica degli alloggi, ecc. Il fenomeno del “pendolarismo familiare” (Saraceno, Naldini, 2001, p.45) rappresenta un’altra forma di destabilizzazione della forma tradizionale famiglia. Questo fenomeno coinvolge circa un quarto della popolazione italiana e riguarda tutte quelle persone che continuano a mantenere la residenza anagrafica presso la casa dei genitori, ma vivono stabilmente altrove o trascorrono lunghi periodi in altre città: sono gli studenti fuori sede, giovani lavoratori, figli piccoli di genitori separati o divorziati, ecc. Di conseguenza si assiste alla formazione di aggregati domestici temporanei che producono nuovi modelli di residenza: case per studenti, cohousing in affitto, convivenze del tipo “senza struttura”, ecc. La diffusione di questi fenomeni di mutamento della forma della famiglia consegue il fabbisogno di nuove case: se la famiglia di sdoppia anche le case dovranno divenire due; se la famiglia si ricostituisce lo spazio abitativo dovrà essere sufficiente ad ospitare i nuovi membri, perciò facilmente si genererà il bisogno di un alloggio più grande o con una diversa struttura; se la famiglia si riduce l’alloggio precedente potrebbe non essere più sostenibile in termini economici o semplicemente inadatto all’utenza rinnovata. Una tipologia esaustiva di tutte le nuove forme familiari certo non è possibile, tuttavia alcuni studiosi hanno cercato di distinguere alcune categorie significative (Donati, 2006, p.41): • le forme neo-strutturali come la famiglia a doppia carriera o con una divisione del lavoro intra ed extra familiare più interscambiabile che in passato tra uomo e donna; • le forme neo-comunitarie caratterizzate da un ethos di solidarietà, sia nelle relazioni interne che in quelle di partecipazione a comunità scelte; • le forme ricostituite a seguito del divorzio/separazione; • le forme alternative come le famiglie ad un solo genitore per scelta di un adulto o le unioni libere. Tutti questi nuovi tipi di famiglia dunque danno luogo a numerose e differenziate forme dell’abitare che ridisegnano la forma, la funzione, l’uso e la struttura dello spazio urbano e della casa. I mutamenti della famiglia italiana infine vanno considerati parallelamente all’entrata dei flussi migratori che determinano condizioni di ulteriore varianza della forma della famiglia, perché portatori di tradizioni, culture e modelli di vita anche profondamente differenti dai nostri. Il numero di cittadini stranieri residenti in Italia è pressoché triplicato tra il censimento del 1991 e quello del 2001, e l’allargamento dell’Unione europea nel 2004 e nel 2007 ha avuto un forte impatto sulla composizione per provenienza dei flussi migratori nel nostro paese, mostrando così la rilevanza del fenomeno dell’immigrazione. Considerato poi che la quota più consistente dei nuovi immigrati è costituita da popolazioni provenienti da paesi a basso grado di sviluppo, quasi sempre si Sarah Chiodi 4 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. generano fenomeni di segregazione residenziale: quella «a base etnica – e, dunque, fondata sulle differenze relative alle tradizioni, ai costumi e agli stili di vita di gruppi con diversa origine etnica e geografica – e quella a base socioeconomica – e, dunque fondata sulle differenze di reddito e di status sociale». (Mela, 1996, p.218). Il fenomeno della segregazione porta di conseguenza alla formazione di enclave, involontarie e non, all’interno delle città, “ghetti” che si possono evitare soltanto attraverso la realizzazione di schemi di distribuzione residenziale caratterizzati da una certa mescolanza dei gruppi etnici e sociali. Si pongono dunque importanti problemi di integrazione territoriale, la cui risoluzione coinvolge anche la questione della distribuzione socioterritoriale degli abitanti nelle politiche della casa . Studiare le trasformazioni dell’habitat quindi non significa soltanto studiare le trasformazioni della famiglia sulla base del numero dei componenti del nucleo familiare, programmando un certo numero di alloggi sulla base di parametri prettamente quantitativi11, poiché il mutamento dell’abitare contemporaneo è un fenomeno complesso che incrocia con numerosi altri fattori che vedremo qui di seguito, tra i quali abbiamo summenzionato quello della mobilità fisica e sociale e quello del cambiamento dello stile di vita indotto anche dalla diffusione delle nuove tecnologie. 3. La nuova morfologia del territorio disegnata dalla diffusione della mobilità. La città post-industriale è caratterizzata da un consistente aumento degli spostamenti dei residenti fuori e dentro le “mura”, e i suoi spazi abitativi e di relazione sono usati secondo modalità nuove: spazi di transito, spazi di segregazione, spazi gentrificati, aree dismesse e vuoti urbani di incerta interpretazione e destino, ecc. La città occupa il territorio in modo frammentato: «si abita in un luogo di cui si ignorano gli altri abitanti, si passa il tempo libero con parenti o amici che vivono in posti diversi, si frequentano ritrovi o associazioni dispersi in un vasto raggio, si lavora, talvolta in luoghi molto lontani dalla propria residenza o, addirittura, si svolgono più lavori delocalizzati con un effetto di stiramento nel tempo e nello spazio (Giddens, 1994).» (Gazzola, 2003, p.14) Attualmente i flussi in uscita dalla città non sono legati esclusivamente agli spostamenti per il lavoro, piuttosto tale scelta sembra condizionata dai vantaggi offerti per la casa: si cercano alloggi adeguati alle proprie esigenze limitatamente alla loro accessibilità economica e fisica (disponibilità dell’auto privata e/o collegamento ai mezzi pubblici). (cfr. Davico, Mela, 2002, p.81 sg.). Inoltre «la forza dei processi di privatizzazione, razionalizzazione e riallocazione tende a sganciare dalla residenza un numero crescente di attività necessarie alla vita quotidiana.» (Borlini, Memo, 2008, p.97). Beni e servizi vengono ridimensionati dalla diffusione a scala di quartiere alla concentrazione in grandi centri commerciali, ridisegnando il territorio e trasformando gli stili di vita degli abitanti. La percezione degli spazi della città e il loro uso tende dunque a cambiare. Le distanze fisiche tra i luoghi sono spesso compensate da una buona rete di trasporti e telecomunicazioni; ma tutto questo si traduce nell’esperienza di un quotidiano sparpagliato sul territorio e in una forte dipendenza dal funzionamento di “sistemi astratti” (Giddens, 1990) di carattere impersonale (vulnerabili e difficilmente governabili), quali i mezzi di trasporto collettivi e i sistemi di circolazione delle automobili. La mobilità individuale tipica della città fordista, caratterizzata da una certa regolarità nei flussi pendolari casalavoro e nell’uso di beni e servizi di prossimità (si pensi al tessuto fitto del commercio che era tradizionalmente presente nei quartieri), è stata ormai sostituita da una mobilità erratica ed irregolare di soggetti sempre più svincolati dai contesti locali: «ciascuno, dunque, vive un’esperienza urbana “individualizzata”, sempre più povera di riferimenti collettivi». (Mela, 1996, p.177). L’esperienza urbana degli individui segue un andamento discontinuo e zigzagante (Nuvolati, 2002) e nasce l’esigenza di confrontarsi con popolazioni urbane sempre più numerose (Martinotti, 1993). I rischi e gli svantaggi generati dalla crescita della città diffusa (è il cosiddetto fenomeno dello sprawl12 urbano) e dunque da uno stile di vita ad elevata mobilità sono stati messi in evidenza da molti autori (cito solo alcuni nomi italiani: Detragiache, Mela, Nuvolati, Salzano, ecc.). L’insostenibilità di questo modello di sviluppo ha portato la ricerca a proporre alcune strategie alternative che implicano il concetto di “sostenibilità dell’abitare” agendo non tanto a livello “micro”, come per le trasformazioni dell’alloggio presentate in precedenza, ma a livello “macro” includendo la dimensione complessiva dell’insediamento13. 11 Di fatto non è neppure proponibile un’automatica corrispondenza tra la tipologia della casa e la tipologia della famiglia: innanzitutto per la ridotta permanenza media di una famiglia in uno stesso alloggio, e in generale per la ridotta adattabilità tra l’alloggio e il nucleo familiare, che si modifica più velocemente e facilmente della casa. La struttura rigida della casa infatti è sempre pensata e realizzata come un prodotto di durata medio-lunga poiché la sua realizzazione richiede spesso investimenti ingenti che vanno ammortizzati sul lungo periodo. (Tosi, Rossetti, 1991, p.107) 12 Sprawl letteralmente si traduce “adagiamento disordinato”, ma la sua traduzione più appropriata è quella di “dispersione insediativa”. Esistono numerose varianti lessicali e altre traduzioni del termine (spread city, ville eclatèe, città dispersa, ecc.), ma sostanzialmente con sprawl si identifica il fenomeno della deconcentrazione della popolazione dalla città compatta verso localizzazioni diffuse sul territorio. 13 Per intenderci si tratta della dimensione territoriale definita dall’ambito di quartiere: lo spazio in cui i residenti trovano un insieme di servizi di uso quotidiano, ma nel quale possono anche collocarsi strutture di livello urbano, e che include sia l’ambito residenziale largo (che Sarah Chiodi 5 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. Una è la strategia di ricompattazione della città che spinge alla produzione di abitazioni capaci di riprodurre i vantaggi della residenza nella città diffusa (la sostenibilità economica dei costi per l’alloggio, un adeguato livello di privacy, buone condizioni di sicurezza, disponibilità di alloggi adatti alle specifiche esigenze sociali, ovvero la presenza di spazi verdi e servizi) e di contrastarne gli aspetti negativi. Una seconda strategia a contrasto della città diffusa è quella rivolta all’articolazione degli insediamenti in quartieri che garantiscano un certa “chiusura dei cicli” in modo tale da raggiungere una certa autosufficienza energetica complessiva capace di ridurre significativamente l’impronta ecologica di ciascun insediamento. Questa strategia si presta soprattutto alla progettazione di nuovi insediamenti residenziali, più facilmente extraurbani, ma non necessariamente: molti spazi urbani riqualificati o dismessi da installazioni destinate a funzioni produttive industriali infatti possono essere riprogettati secondo questo criterio. Di fatto, molte proposte di intervento di sostenibilità urbana si basano sulla combinazione di queste due strategie, introducendo il concetto di “decentralised-centralisation”, «che chiama l’idea di una crescita urbana che non necessariamente si limita al perimetro della città compatta, ma che, all’esterno di esso, punta sulla realizzazione di una rete di insediamenti a loro volta densi, imperniati attorno ad alcune funzioni centrali e connessi alla rete di trasporti pubblici». (Davico, Mela, Staricco, 2009, p.73). In ogni caso, per il progetto di uno spazio residenziale “sostenibile” occorre che siano rispettate alcune condizioni fondamentali: l’accessibilità fisica (in particolare la connessione con il trasporto pubblico), la varietà tipologica dell’alloggio e la varietà funzionale degli spazi comuni, l’attenzione alle valenze strettamente ambientali (risorse energetiche, materiali bio-compatibili, riduzione degli agenti inquinanti, ecc.), la qualità della progettazione e la piacevolezza estetica del costruito, la coerenza con il paesaggio, l’accessibilità economica e dunque sociale degli alloggi. La dimensione sociale in particolare necessita di un forte grado di attenzione poiché presenta numerosi rischi, come sono stati messi in evidenza in numerosi progetti di quartieri residenziali suburbani (si pensi al fenomeno delle “gated communities” criticato da molta letteratura sociologica)14 seppure ecologicamente virtuosi (ad esempio i quartieri legati al movimento “New Urbanism” o al caso celebre di Ecolonia 15 progettato da Lucien Kroll). Questa logica di omogeneizzazione sociale non può che essere contrastata da un adeguato controllo pubblico della varietà sociale negli interventi di nuova urbanizzazione. 4. Gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie nei trasporti, nel lavoro e nella casa sugli stili di vita e sullo spazio residenziale. L’innovazione tecnologica gioca un ruolo molto importante nella questione abitativa sotto numerosi aspetti. Innanzitutto, in relazione a quanto è stato sopra osservato, sull’incremento della velocità dei trasporti che permettono la percorrenza di distanze elevate in tempi ridotti, facendo così accrescere la mobilità individuale con tutti i vantaggi e gli svantaggi ad essa connessi in termini di sostenibilità dell’abitare. Si rifletta sul caso degli insediamenti residenziali periurbani staccati dai servizi e dai luoghi di lavoro: questi ultimi vengono sì raggiunti quotidianamente e in tempi relativamente brevi in virtù di efficienti (non sempre) arterie di connessione, spesso però questa tipologia di insediamento implica costi di trasporto che eccedono il risparmio avuto sull’acquisto dell’abitazione e genera un rilevante squilibrio sociale, specialmente per chi è costretto ad una mobilità ridotta per ragioni economiche, fisiche o di età. Le infrastrutture e le tecnologie del trasporto tuttavia possono essere avvantaggiate dall’innovazione tecnologica anche in termini di sostenibilità: per esempio migliorando e diversificando la rete dei trasporti pubblici (specie su rotaia) o diffondendo modalità di trasporto alternative all’automobile, o ancora riducendo l’impatto di questa sulla città (sia in termini di inquinamento che di ingombro, secondo un modello di sviluppo dell’autoveicolo ormai seguito dalla maggior parte delle aziende automobilistiche). Si è ipotizzato inoltre che lo sviluppo tecnologico in futuro possa consentire di compiere molte attività quotidiane restando a casa, a partire dal lavoro stesso, incidendo così sulla mobilità in senso opposto a quello appena descritto. Si pensi ad esempio al fenomeno del telelavoro, ovvero la possibilità di lavorare in contatto con altri restando in casa; «un numero crescente di operazioni commerciali, finanziarie o amministrative già può essere effettuato da qualsiasi computer collegato in rete; la pay-tv permette di assistere alle partite senza andare allo stadio; la telemedicina potrà (almeno in parte) sostituire il contatto diretto con il medico, ecc.» (Davico, Mela, 2002, p.110) In ogni caso il telelavoro potrà interessare solo determinati settori professionali, di conseguenza non si può pensare di settorializzare una quota di alloggi solo per chi svolge particolari attività lavorative. Inoltre sembra ancora scarsamente plausibile la diffusione su vasta scala del telelavoro a domicilio, e quindi questa prospettiva rende trascurabili conseguenze dirette sulla conformazione delle nuove abitazioni. (Tosi, Rossetti, 1991, p.102) comprende, oltre all’abitazione, gli spazi privati di uso comune), sia l’ambito di prossimità immediata (lo spazio della via, del microquartiere, in cui prevalgono rapporti di vicinato basati sulla conoscenza diretta. (Cfr. Bourdin, 2005) 14 Critiche dei sociologi italiani al fenomeno “gated” si rilevano ad esempio in: Gazzola (2003), Borlini, Memo (2008). 15 In proposito Fratini (2000), Ciaffi, Mela (2007). Sarah Chiodi 6 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. La telecomunicazione in particolare ha portato alla formazione di luoghi e comunità virtuali che hanno una rilevanza sempre crescente, ma che tuttavia non produce necessariamente uno svuotamento delle relazioni faccia a faccia. Perciò il valore simbolico dei luoghi fisici della città e della casa resta importante nonostante il problema dell’impoverimento simbolico di molti luoghi residenziali urbani. (Cfr. Davico, Mela, 2002, p.112) L’introduzione di nuove tecnologie riguarda da vicino anche l’alloggio attraverso sistemi innovativi di controllo e automazione della casa (si pensi anche alla domotica). Sebbene questi abbiano alti costi iniziali possono essere ammortizzati rapidamente grazie all’aumentata efficienza e produttività dell’edificio. Permangono in ogni caso molte diffidenze nell’inserire nuove tecnologie nell’ambiente domestico, stratificato e consolidato nelle abitudini e negli schemi. Oltre alla diffidenza degli utenti poi si rileva anche una certa inerzia nel settore delle costruzioni verso l’applicazione di sistemi costruttivi che facciano uso delle nuove tecnologie: dato che la domanda è ancora molto scarsa è evidente che pochi rischiano questa strada in vista di costi alti e profitti scarsi. (Tosi, Rossetti, 1991, p.108) Ad oggi comunque sia il mercato che i progettisti sembrano avviarsi lungo questa traiettoria, specie verso una “nova alleanza con la Natura”16 in un contesto urbano divenuto ormai insostenibile. Questa nuova coscienza della “sostenibilità” però resta soprattutto sul piano teorico17 ed è quasi sempre associata alla sola dimensione ambientale, ma almeno, o meglio soprattutto, in ambito internazionale non mancano esempi virtuosi di insediamenti sostenibili su tutte le tre dimensioni (economica, sociale, ambientale). 5. “Social Housing 2.0”: un modello integrato multidimensionale per l’abitare etico. RE.Lab SAA ed Ires Piemonte hanno svolto un lavoro di ricerca congiunto mirato alla creazione di un modello multidimensionale integrato per la valutazione dei progetti di social housing, ovvero dell’offerta abitativa rivolta a quella fascia di popolazione definita “zona grigia”: vale a dire chi non è in grado di sostenere il costo degli immobili dettato dal libero mercato e che non ha accesso prioritario all’edilizia sociale. A partire dall’analisi delle best practices europee, l’approccio multidimensionale del modello è dato dalla messa a sistema di quattro componenti fondamentali con la finalità di creare nuova ricchezza: Ruoli e Responsabilità; Ricerca, Progettualità e Innovazione; Capitali Finanziari; Capitale Umano. I Ruoli e le Responsabilità sono quelli messi in gioco nel progetto da parte di tutti gli attori coinvolti, siano essi del settore pubblico, privato o non profit. Il pubblico, responsabile della leadership politica a livello territoriale e locale, è il soggetto regolatore e garante del progetto, portatore della visione strategica che lo accompagna, e affidatario della partecipazione locale della popolazione coinvolta. I ruoli e le responsabilità del soggetto privato riguardano i finanziatori, i promotori, i progettisti e i costruttori dell’intervento edilizio; essi attuano le attività di sviluppo immobiliare con il sostegno di strutture di management e organizzative con competenze specialistiche. I soggetti del no-profit sono le cooperative, i gruppi di co-housing, i gruppi di autocostruzione, i comitati di abitanti, gli inquilini, e tutti coloro che a vario titolo contribuiscono alla visione strategica del progetto, alla proposizione dei progetti e alle nuove forme abitative. La Ricerca, la Progettualita’ e l’Innovazione riguardano la definizione di metodi e parametri di valutazione premianti la progettazione e la produzione di nuove modalità costruttive low-cost ma di qualità, volte al risparmio e all’ottimizzazione dei costi diretti ed indiretti. Il progetto quindi deve garantire adeguata sicurezza fisica e funzionale dei contenitori edilizi, il contenimento dell’impatto ambientale dell’intervento anche mediante la limitazione del consumo di suolo, deve prevedere la riqualificazione e la rifunzionalizzazione ambientale degli edifici e delle aree abitative esistenti. La componente dei Capitali Finanziari inerisce l’individuazione dei profili di investimento, delle formule di sostegno e di garanzia più adatte per attrarre capitali privati negli investimenti di social housing. Con il Capitale Umano si identificano i percorsi formativi e di ricerca a sostegno della creazione delle nuove figure manageriali specialistiche multidisciplinari necessarie per studiare, progettare e governare tutte le fasi del processo di sviluppo e i percorsi formativi a sostegno dei settori produttivi coinvolti nell’innovazione tecnica e tecnologica. Attraverso queste risorse sarà altresì possibile l’adattamento dei principi contenuti nelle linee guida del modello alle specifiche esigenze di ogni intervento in accordo con le associazioni di categoria. 16 Lo slogan si riferisce al Manifesto di Torino siglato nell’ambito del XXIII Congresso mondiale degli architetti svoltosi nel 2008. In una recente indagine condotta tra gli iscritti dell’Ordine degli architetti di Torino, solo il 18% degli intervistati ha indicato la sostenibilità come uno dei tre aspetti importanti per un buon progetto architettonico. Vedi: Crivello, Davico (2007) 17 Sarah Chiodi 7 La domanda sociale della casa: orientamenti per le politiche urbane. Bibliografia Baldini M.R. (1998), Il significato dell’abitare, Alinea, Firenze. Barbagli M. (2000), Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino. Borlini B., Memo F. (2008), Il quartiere nella città contemporanea, Milano, Bruno Mondadori. Bourdin A. (2005), La métropole des individus, La Tour d’Aigues, De l’Aube. Ciaffi D., Mela A. (2007), “Sociologia e progettazione urbanistica: un confronto a livello paradigmatico come possibile strumento per l’interpretazione di progetti urbani”, Appunti di Politica Territoriale, n. 13, Torino, Celid, pp. 11-50. Cittalia - Fondazione Anci Ricerche (2008), I comuni e la questione abitativa. Le nuove domande sociali, gli attori e gli strumenti operativi, Roma. Crivello S., Davico L. (2007), Qualità dell’architettuta torinese. La parola ai protagonisti, Torino, Celid. Davico L., Mela A. (2002), Le società urbane, Roma, Carocci. Le Bussole. Davico L., Mela A., Staricco L. (2009), Città sostenibili. Una prospettiva sociologica, Roma, Carocci. Quality Paperbacks. De Luca A., Governa F., Lancione, M. (2007), Torino. Il problema abitativo come problema di giustizia sociale. Esperienze utili per ripensare le politiche della casa, Rapporto di ricerca Eupolis- SiTi, Torino. Donati P. (2006), Manuale di sociologia della famiglia , Roma, GLF editori Laterza. Fratini F. (2000), Idee di città. riflettendo sul futuro, Milano, Franco Angeli. Gazzola A. (2003), Trasformazioni urbane. Società e spazi di Genova, Napoli, Liguori Giddens A. (1990), The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity Press (trad. it. Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna, Il Mulino, 1994). Giddens A. (1994), Modernity and Self-Identity, London, Polity Press. Gruppo 24 Ore (2009), Il Social housing. Analisi e prospettive, Il Sole 24 Ore, Milano. Habraken N.J. (1972), Supports. An alternative to mass housing, London, The Architectural Press. (cit. in Tosi, 2007, p.53) Laslett P. (1972), Famiglia e aggregato domestico, in M. Barbagli (a cura di), Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, pp.30-54. Martinotti G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Bologna, Il Mulino. Mela A. (1996), Sociologia delle città, Roma, Carocci. Nuvolati G. (2002), Popolazioni in movimento nella città in trasformazione: abitanti, pendolari, city users, uomini d’affari e flâneurs, Bologna, Il Mulino. Rossi G., Bramanti D., Famiglie al confine tra familiare e comunitario, in Donati P. (a cura di) (2007), Riconoscere la famiglia: quale valore aggiunto per la persona e la società?, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pp.132-178. Saraceno C., Naldini M. (2001), Sociologia della famiglia, Bologna, Il mulino. Scabini E., Cigoli V. (1997), Famiglie con giovani adulti. Un rallentamento evolutivo o una interruzione nel passaggio generazionale?, in Scabini E., Rossi G. (a cura di), Giovani in famiglia tra autonomia e nuove dipendenze, in “Studi interdisciplinari sulla famiglia”, 16, Vita e pensiero, pp.19-43. Tosi A. (1994), Abitanti. le nuove strategie dell’azione abitativa, Bologna, Il Mulino. Ricerca. Tosi A. (2007), Case, quartieri, abitanti, politiche. Seconda edizione, Libreria Clup, Milano. Tosi F., Rossetti F. (1991), L' intelligenza della casa : nuove tecnologie e mutamenti sociali, Firenze, Alinea. Sarah Chiodi 8 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. Giovanni Laino Università di Napoli Federico II, Facoltà di Architettura Abstract L’esistenza e la necessità di risanare una quota di patrimonio abitativo costituito da abitazioni malsane a piano terra nelle città meridionali è una questione trattata già dalla seconda metà dell’Ottocento. Da otto anni la Regione Campania e il Comune di Napoli hanno dato mandato alla società Sirena Città Storica di realizzare uno studio di fattibilità e di progettare un programma di intervento per una zona pilota interna ai Quartieri Spagnoli, nel centro urbano. Avendo partecipato alla redazione di una parte delle indagini per elaborare il programma pilota, presento la proposta offrendo alcune considerazioni critiche che attengono anche ad una diversa cultura del progetto e della pianificazione di operazioni complesse, che hanno la pretesa di avere un valore più generalizzabile anche se andranno necessariamente approfondite. . 1. La questione abitativa nelle grandi città italiane Torna l’attenzione sulla questione abitativa. Per molti ricercatori, giustamente, si tratta di mettere in luce una visione plurale dell’abitare (Bianchetti 2003, Tosi 2006, Lanzani 2006, Multiplicity.lab. 2007, AA.VV. 2009), non intesa quindi solo come disponibilità di un alloggio ma come insieme di capacità (Sen, Nussbaum) effettivamente disponibili, agibili, per varie categorie di abitanti. Gli approcci sono diversi e mettono in luce questioni e aspetti differenti. La questione abitativa nelle città italiane viene rivista considerando, con prospettive diverse, differenti facce di un variegato prisma. Sullo sfondo è evidente che, nella trasformazione di cui siamo protagonisti e osservatori, cambia il peso della stanzialità e dell’unicità dell’abitare. Anche in Italia è in corso un processo di mutamento dei modelli di convivenza, con una progressiva riduzione della dimensione media dei nuclei di persone che convivono per tempi diversi, secondo formule non omologhe ne del tutto stabilizzate. Diversi tipi di popolazione negli ultimi anni hanno avuto numerose occasioni per fare esperienza della pluralità dell’abitare nel senso che le funzioni prima più accentrate in mura domestiche ora sono distribuite fra diverse case, localizzate in parti differenti di città e/o in differenti aree di una o più conurbazioni. Emerge una maggiore rilevanza dell’abitare altri luoghi, quelli ove si lavora, ci si incontra, ci si sposta, si fanno – o si assiste al fare - spese insieme ad esperienze di socializzazione, consumando paesaggi, prodotti turistici, eventi offerti per valorizzare città. Rispetto a tali dinamiche, il patrimonio abitativo è stato trasformato – con forza emerge il tema del frazionamento e del riuso – ma, soprattutto in alcune aree, si evidenziano segnali di tensione abitativa, in presenza di una segmentazione dei mercati in cui attori in condizioni diverse ottengono risultati differenti nella divisione sociale dello spazio. Secondo i dati del Ministero dell’Interno nel 2008 in Italia sono stati eseguiti venticinquemila sfratti su 51390 provvedimenti emessi. Rispetto al 2007 – pur con dati incompleti – vi è stato un incremento dell’11,25%, mentre le richieste di esecuzione sono aumentate del 26,13 %. Del complesso dei provvedimenti circa il 40% si riferisce a sfratti per morosità o altra causa. Le tabelle ministeriali rivelano che il fenomeno è concentrato e più grave in alcune aree urbane. Altre indagini rivelano che è in crescita la morosità nel pagamento dei canoni di affitto, anche per gli alloggi pubblici a costi molto contenuti, come la domanda di sussidi per gli affitti nelle città in cui le amministrazioni locali hanno previsto tali interventi. Si consolida e cresce il numero di nuclei ospitati in alloggi temporanei (a Roma 1240 famiglie vivono in residence1), abitazioni improprie, fabbricati occupati. 1 Cfr. Dossier “Roma: l’emergenza abitativa e il problema casa” a cura di Fabrizio Sartori,, Nov. 2008, ripreso dalla stampa e dalla TV a Gennaio 2009. Sulla povertà abitativa a Roma cfr. anche l’articolo di Lucciarini S. e Violante A. (2006), in cui viene riportato il dato di circa centomila persone coinvolte nella capitale. Giovanni Laino 1 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Aumenta anche il numero di nuclei che hanno presentato le domande di alloggi pubblici 2 avendo i requisiti per meritare l’inserimento in graduatoria, anche con punteggi alti. Nel paese con un alto tasso di alloggi in proprietà, un noto sottodimensionamento degli alloggi pubblici a canone sociale, la quasi inesistenza di strutture (come i foyer francesi) per persone sole e giovani fuoriusciti dalla famiglia, soprattutto nei grandi capoluoghi di regione ma anche in alcuni capoluoghi di provincia, torna l’evidenza di una emergenza abitativa, articolata e stratificata3. La recente crisi ha costretto alla cassa integrazione, con riduzione, incertezza o perdita del reddito, decine di migliaia di lavoratori, alcuni dei quali, avevano fatto un progetto abitativo con un mutuo che ora non riescono a pagare regolarmente. Nelle città sedi di università è fiorente il mercato – prevalentemente informale – di alloggi e camere locate a studenti fuori sede. Non meno consistenti e significativi sono invece i segmenti di mercato rivolti agli immigrati, dai pochi alloggi in proprietà o del patrimonio di edilizia sociale che alcuni hanno ottenuto sino alle sistemazioni incivili dei centri di permanenza temporanea o degli accampamenti occasionali. Vi sono poi una serie di strati sociali più in ombra che faticano a pagare un canone oneroso per il loro livello di reddito e/o non trovano alloggi dignitosi per le loro esigenze abitative. Alcuni di questi, senza assimilarsi per tutti gli aspetti alle condizioni degli homeless, vanno ad infoltire le truppe dei senza fissa dimora sempre più composte da migranti molto precari e persone, spesso sole, che vivono percorsi di precipitazione nella povertà. Credo che senza sminuire l’attenzione per l’approfondimento di dimensioni qualitative delle variegate forme dell’abitare, il mondo della ricerca ha il dovere etico di non delegare i giornalisti o le Caritas a produrre documentate indagini e inchieste su queste forme del disagio che secondo alcuni analisti (Harvey, Sassen) sono costitutive della città contemporanea. Con la crescente presenza dei migranti nel centro urbano, la progressiva valorizzazione delle aree centrali della città e la persistenza di condizioni di degrado, a Napoli l’uso di migliaia di bassi ripropone una delle facce dell’emergenza abitativa nella più grande (estesa e affollata) conurbazione meridionale. Una dimensione che richiama le difficoltà di sopravvivenza quotidiana di decine di migliaia di persone che sono ai confini o ben oltre le soglie di povertà, e che cercano di partecipare dei benefici delle centralità urbane, svolgendo un ruolo di mano d’opera per basse qualifiche e servizi la cui funzionalità viene ribadita ed estesa nella città contemporanea (Sassen 2006). Da tempo c’è meno impegno negli studi quantitativi e qualitativi, del patrimonio immobiliare residenziale e delle dinamiche con cui si possono interpretare le pratiche d’uso dello stock. Il conflitto per la divisione sociale dello spazio e del patrimonio viene considerato ancora essenzialmente secondo le dinamiche si occupazione, sostituzione areale di parti di città, anche se, almeno per la città meridionale, a mio avviso, la trasformazione non sembra rappresentabile secondo dinamiche di gentrificazione4. E’ evidente però la necessità di fare indagine su almeno alcune dimensioni qualitative visto che, anche solo con l’analisi delle variazioni degli indici di affollamento del patrimonio edilizio dei quartieri consolidati si vede che non solo cambiano i mix di tipi di popolazione presente ma che, tutti i ceti e le nazionalità, nel tempo, se possono, tendono a cambiare forme dell’abitare, anche ampliando e migliorando gli spazi (l’ampiezza, la taglia, la localizzazione) che ritengono necessari per abitare. Il frazionamento degli alloggi, la varietà degli usi abitativi (migranti, studenti, city user, single, ect.), anche ad uno sguardo superficiale, rivelano che pur permanendo una condizione di tensione abitativa, molti gruppi sociali hanno conquistato più spazio (metri quadri e vani per abitante) e/o migliore qualità abitativa, mentre alcuni restano o si ritrovano costipati quando non delocalizzati nei quartieri enclave delle cinture. 2. I bassi a Napoli Dalla metà dell’Ottocento le cattive condizioni abitative del centro urbano di Napoli sono trattate in romanzi, inchieste giornalistiche, diari di viaggio. In tutti questi testi vi sono ampi riferimenti alle precarie condizioni 2 A Roma risultano in graduatoria per gli alloggi popolari 45.000 nuclei, almeno 3000 dei quali con punteggi molto alti. A Napoli i nuclei presenti in graduatoria sono circa 10.000 mentre a Torino a fine 2007, hanno partecipato al bando per gli alloggi pubblici più di 9.900 famiglie, di queste 6 su 10 non avevano mai fatto richiesta di casa popolare prima di allora e il 40% presentava nello stesso periodo domanda di partecipazione anche al Fondo per il sostegno alla locazione erogato dal Comune attraverso bandi pubblici. 3 In un articolo di molti anni fa su Urbanistica, per richiamare la difficoltà di stabilire classificazioni non troppo mutevoli e soddisfacenti dei diversi segmenti della domanda inevasa di abitazioni, Bernardo Secchi richiamava una fantasiosa classificazione degli animali riportata da Jorge Luis Borges, nel saggio intitolato "L'idioma analitico di John Wilkins", contenuto nella raccolta Altre inquisizioni, originariamente pubblicata nel 1952, edita in Tutte le opere. Volume I. Milano: Mondadori. 1984. p. 1004-1005. 4 Per la gentrification cfr. Glass R. 1964, Zukin S. 1987, Gaeta A. 2009, Laino G. 2007. Giovanni Laino 2 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . abitative della città con specifico riferimento ai fondaci e ai bassi5. Si tratta di una condizione abitativa presente anche in altre città del Mezzogiorno. Il fenomeno è presente anche in altre città, da Palermo, a Bari a Firenze 6, ove sono interessati soprattutto, ma non solo, gli immigrati. La più recente inchiesta realizzata sui bassi in città, con metodi affidabili, è stata quella coordinata da Lello Mazzacane, realizzata negli ultimi mesi del 1977, con un gruppo di giovani laureati in sociologia. Con quella indagine, che non era riferita a tutti i quartieri della città storica, venivano censiti 6931 bassi. Anche solo con una stima realistica e contenuta, si può dire che ad oggi, nel comune di Napoli i bassi così intesi, sono certamente più di diecimila, forse dodicimila. Quindi almeno 30.000 persone, fra cui i migranti sono in crescita, abitano in alloggi considerati impropri, dal piano regolatore e dalle normative7. Si tratta di un mondo di mondi per la varietà di condizioni fisiche e sociali storicamente determinate. Nelle insule connotate dalla presenza prevalente dei ceti popolari e sottoproletari, sono migliaia i nuclei che vivono in tali condizioni, anche con bambini: abitazioni improprie collocate in anfratti umidi o poco soleggiati, vicoli segregati che non di rado però sono nei pressi di monumenti e di strade di straordinario pregio storico artistico o ambientale. A parte le strade ove i locali a piano terra sono destinati prevalentemente a funzioni commerciali, nei quartieri popolari della città, i bassi connotano il paesaggio urbano. Se da un lato esistono delle tane invivibili d’altra parte, in diversi quartieri, ci sono anche bassi che, per consistenza, caratteri architettonici e localizzazione, di fatto, sono delle abitazioni molto piccole, che trovano però una consistente richiesta nel mercato abitativo. 3. I contenuti del programma pilota Sirena La società Sirena8 è nota a Napoli perché ha realizzato un programma di incentivi per lavori di riqualificazione dei fabbricati residenziali con diverse edizioni di bandi cui hanno partecipato con successo oltre mille condomini (per 64 milioni di contributi assegnati al luglio 2009), localizzati in diversi quartieri della città. Pur trattandosi di una politica che non ha favorito al meglio condomini in condizioni più disagiate, (non avendo assunto alcun criterio di discriminazione positiva nella selezione dei beneficiari), è stata forse l’unica iniziativa con cui il Comune è riuscito a coinvolgere finanziamenti privati (quelli dei proprietari degli alloggi ubicati negli edifici beneficiari degli interventi) per realizzare una politica territoriale. Anche per queste buone credenziali dal 2001 la Regione e il Comune hanno affidato alla società il compito di elaborare un programma pilota per il recupero dei bassi in città, a partire da un’area campione che presenta condizioni ritenute favorevoli per la prossimità con la via Toledo che è una delle principali strade vetrina della città storica, per il buon esito di alcuni interventi realizzati con il PIC Urban 1, nonché per la prossima apertura di una stazione della nuova metropolitana con una uscita che entra nell’area dei quartieri spagnoli. In realtà l’iter di elaborazione del programma è stato abbastanza lungo (iniziato nel 2001), rallentato soprattutto per i tempi lunghi delle amministrazioni che, in diversi passaggi, hanno frenato il percorso. Va anche ricordato che per alcuni attori locali l’interesse per la trasformazione di un’area dei Quartieri Spagnoli a ridosso di via Toledo non è recente visto che all’epoca della redazione della prima variante per il centro storico fu ipotizzato un ambito di trasformazione urbanistica poi non approvato per diverse resistenze9. Il programma pilota è stato ideato a partire da (e via via ha elaborato) una vision: trasformare l’area in “un distretto urbano del commercio e dell'artigianato” con atelier per giovani artisti e attività culturali nell'area del largo Baracche10 enfatizzando le potenzialità multiculturali – anche per la significativa presenza di immigrati in zona – prevedendo di coinvolgere i giovani nel progetto. 5 Per basso si intende “un qualsiasi terraneo adibito ad abitazione, indipendentemente dalla sua ubicazione (sulla strada o all’interno di cortili e androni), purchè non presenti le caratteristiche di un vero e proprio appartamento localizzato a livello stradale” (Mazzacane, p.14). Mentre nelle città del Mediterraneo il fondaco è stato un edificio di origine medievale, che nelle città di mare svolgeva funzioni di magazzino e, spesso, anche di alloggio per i mercanti stranieri, a Napoli, con la costipazione di popolazione povera nei bassi fondi della città storica, il fondaco costituisce un budello di strada e/o un cortile comune di una serie più o meno numerosa di alloggi ultrapopolari e case malsane. A parte la memoria dei luoghi conservata nei toponimi, in città vi sono ancora alcune decine di casi riferibili a questa condizione abitativa. La questione del risanamento dei bassi viene trattata già in autori nella seconda metà dell’Ottocento cfr. Turchi, Fucini, Mario, Serao. 6 Nel 2006 e nel Novembre 2009 le pagine locali del giornale La Repubblica hanno trattato di circa 200 o 300 «bassi» usati come abitazioni, ottenuti dalla trasformazione impropria dei fondi abbandonati. Cfr. La Repubblica Firenze, 21 marzo 2006 e 7 Novembre 2009. 7 Il PRG per il Centro storico individua e disciplina le unità edilizie di base. La normativa stabilisce che i piani terra sono abitabili solo nel caso in cui l’accesso è dall’interno del fabbricato. Pertanto, in termini abbastanza vincolistici, non molto aderenti alla realtà di fatto, il piano propone una prospettiva che sarà di difficile attuazione almeno nei prossimi venti anni. 8 La S.I.RE.NA. città storica S.C.p.A. (Società per le Iniziative di Recupero di Napoli) senza scopo di lucro è stata costituita nel 2001 dal Comune di Napoli e dall' Associazione Costruttori Edili della Provincia di Napoli. Nel 2002 hanno fatto ingresso nella società la Regione Campania e l'Unione Industriali. La società ha lo scopo di promuovere elaborare e realizzare piani di recupero urbano, programmi a finalità pubblico sociale, studi e ricerche per la valorizzazione dei centri storici, dei tessuti storici e delle aree urbane degradate. La principale attività svolta negli anni e in corso consiste nella promozione e nell'assistenza al programma di recupero delle parti comuni degli edifici con contributi a fondo perduto del Comune di Napoli. La società ha redatto anche lo studio di fattibilità finalizzato all'avvio di un programma pilota d'intervento per la riconversione dei terranei attualmente destinati ad abitazione ("bassi") ricadenti nell'area a monte di via Toledo nei Quartieri Spagnoli. Cfr. http://www.sirena.na.it/ 9 Cfr. “L'inutile caso dei quartieri” di Francesco Barbagallo, La Repubblica Napoli, 8 novembre 2000, p.I Giovanni Laino 3 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Il programma da realizzare in quattro anni, prevede complessivamente una spesa di quasi quarantuno milioni di Euro di cui quindici investiti dai privati e gli altri ventisei dalla Regione (fondi POR e ERP) e dal Comune11. L’area pilota interna ai Quartieri Spagnoli prescelta per il programma L’insieme del processo ideato dal programma prevede sette azioni che dovrebbero essere governate e attuate da un unico soggetto di scopo: 1) riqualificazione aree pubbliche (strade e piazze interessate), con nuovo arredo urbano, rifacimento di reti e illuminazione pubblica; 2) interventi per le parti comuni dei fabbricati ubicati nelle strade interessate, con particolare cura della zoccolatura commerciale e delle facciate; 3) costituzione di un incubatore di impresa diffuso con circa quindici bassi, appositamente riqualificati (cinque già di proprietà comunale e dieci da acquisire) da riutilizzare per nuove attività sostenute dall’assistenza tecnica di un consorzio costituito dalle confederazioni dell’artigianato e del commercio, che hanno già manifestato interesse in tal senso. Il programma prevede quindi l’emanazione di un unico bando di incentivi, complesso, rivolto a diverse categorie di beneficiari: 4) Interventi mirati per gli attuali abitanti dei bassi, appartenenti a categorie svantaggiate (anziani e disabili) con l’acquisto di abitazioni da offrire in cambio della liberazione del basso abitato; 5) incentivi per favorire la libera adesione di proprietari che, anche grazie all’incentivo (circa 550 euro mensili per 4 anni, erogabili anche in un'unica soluzione, anche per l’acquisto di una abitazione)12 offerto agli inquilini finalizzato a trovare una casa, possano decidere di offrire sul mercato del fitto per usi non abitativi il locale, oppure farsi imprenditori di una nuova iniziativa anch’essa incentivata da localizzare nel basso reso libero; il bando prevede il trattamento differenziato di categorie che si trovano in condizioni diverse, con l’offerta di un’opera di mediazione culturale e di sostegno all’affitto di pochi altri alloggi per i diversi nuclei di immigrati presenti nei bassi. Per tale segmento in verità l’investimento sembra sottodimesionato; 6) incentivazione di lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria per rendere i locali liberati idonei per nuove funzioni (circa 15.000 euro per ogni basso); 7) incentivi per l’ avvio di nuove attività nei bassi liberati dall’uso abitativo e ristrutturati (circa 11.000 euro per basso); 8) incentivi per la riqualificazione e la crescita di attività economiche già presenti in altri locali nella zona. 10 La piazzetta, già oggetto di intervento di riqualificazione del Pic Urban, ha un locale interrato affidato ad una associazione di giovani artisti che nel tempo ha realizzato degli interventi di animazione di arte pubblica in loco. Tale esperienza viene considerata dal programma pilota una precondizione favorevole per alimentare la vision. 11 Sirena Città storica, (a cura di) 2008 12 Si tratta evidentemente di un contributo significativo che (sommato al canone di fitto già pagato per il basso – circa 300 – 400 euro mensili ) da un lato consentirebbe ai locatari dei bassi di cercare una abitazione nella prima o seconda periferia implicando d’altro lato un costo medio complessivo di 26.400 euro di contributo pubblico per liberare ogni singolo basso: complessivamente per Napoli occorrerebbe una cifra vicina ai 260 milioni di euro solo per liberare almeno 10.000 bassi. Inoltre è abbastanza dubbia l’esistenza in città di 10.000 abitazioni medio piccole libere e destinabili a questi nuovi inquilini. Giovanni Laino 4 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Esiti attesi e quota di costi pubblici per gli interventi previsti dal programma Riqualificazione urbana (reti, pavimentazioni, illuminazione, arredo urbano ecc. su 10.000 Mq di strade e piazze) Progetto Sirena parti comuni ai Quartieri Spagnoli (per 86 edifici) Investimenti immobiliari (acquisto alloggi e bassi) Contributi a proprietari e inquilini residenti per lasciare il basso abitato (550 euro al mese per 4 anni; trasformazione di 84 bassi in locali per attività artigianali o commerciali) Contributi a cofinanziamento per avvio o sviluppo attività produttive (88 nuove attività nei bassi liberati – con 246 nuovi occupati – e sviluppo di più di 100 attività già insediate) Spese di gestione del progetto Quota di spesa pubblica per l’investimento complessivo Fonte: Sirena Città Storica 2008, p.9 4.200.000 4.500.000 3.600.000 2.200.000 9.500.000 2.000.000 26.000.000 Per riassumere, per ogni basso da liberare si immaginano incentivi per ricollocare l’attuale abitante, cofinanziare i lavori di riqualificazione edilizia e avviare una qualche attività commerciale o artigianale, prevedendo un tetto massimo del cumulo dei diversi benefici, lasciando comunque la proprietà al privato. L’insieme degli investimenti è distribuito in un paio di fasi, nei quattro anni e stimato secondo una previsione realistica di parziale adesione dei proprietari e degli abitanti. Complessivamente con gli oltre quaranta milioni di euro, oltre ai cospicui interventi sulle aree pubbliche e sugli edifici, si prevede di riqualificare e riconvertire l’uso di una ottantina di bassi oltre a dinamizzare le attività di oltre cento altre attività esistenti. Indubbiamente il programma, per cui si impone un progetto esecutivo meglio dettagliato13, esplicita una strategia di tipo integrato, consensuale, fondata sull’appetibilità degli incentivi per lasciare l’uso abitativo dei bassi e per attrarre investimenti dei privati per avviare nuovi negozi. Un progetto che tenta di aver cura della varietà delle condizioni con un’iniziativa che assimila liberazione dei bassi dall’uso abitativo e rigenerazione complessiva del tessuto urbano. La conoscenza approfondita e dettagliata della zona, come di altre aree simili su cui con attività didattiche ho cercato di fare qualche simulazione14, insieme all’esperienza fatta con l’ideazione e il coordinamento di alcune misure del Pic Urban nella stessa zona15, come pure all’insieme dell’esperienza di progettazione di procedure complesse di riqualificazione economico sociale, sono il retroterra per fare una proposta diversa, anche se non antagonistica a quella elaborata da Sirena. Un approccio più pragmatico e articolato che mi sembra sia necessario anche per trattare con speranze di efficacia meglio fondate anche altre dimensioni dell’emergenza abitativa nelle nostre città. Il programma è stato ideato dai tecnici della società con il contributo di esperti di diverse discipline. Ho collaborato coordinando un gruppo di tre architetti, per realizzare l’indagine di campo 16. Nell'area pilota composta da 56 isolati con 124 edifici, sono stati censiti 135 terranei adibiti ad usi artigianali o commerciali e 118 bassi (62 abitanti da immigrati, 46 da napoletani e 10 vuoti). Nei bassi è stata stimata una presenza di 261 persone (2,4 ab/basso, 62% immigrati). Mentre in oltre il 90% di questi bassi è stata riscontrata la fornitura elettrica e dell’acqua, solo nel 5% dei casi vi è l’allacciamento alla rete del gas metano. Destinazioni d’uso a piano terra rilevati nella zona prescelta per il programma Bassi (di cui 62 abitanti da immigrati, 46 da napoletani e 10 vuoti). Solo 5 bassi di proprietà comunale Accessi per abitazioni rialzate (20), portoncini plurifamiliari (4) e portoni condominiali (120) Attività commerciali Attività artigianali Ristoranti, trattorie, pizzerie e cornetterie (10), bar (7) vinai (1) Depositi 118 144 82 53 18 64 13 Nella relazione generale è scritto “il valore sperimentale del progetto, ragione per la quale tutte le previsioni, le stime, il dimensionamento degli interventi stessi, sono da intendersi come indicazione iniziale da sottoporsi a verifiche successive” p.9, e “in sede di attuazione del programma ciascun locale coinvolto nel processo di riconversione verrà opportunamente rilevato” p. 20 Vol R1. 14 Cfr. Tesi di laurea di Cammardella I, Massa A. 2009. 15 In merito alla valutazione di tali misure cfr. le considerazioni della Corte dei Conti riportate in Laino 2006 16 Cfr. Laino 2008 e l’appendice curata da Laino “Indagine sugli usi dei locali ai piani terra”, in Sirena Città Storica 2008, Vol. M1, appendice 2, pp.1-23. All’indagine hanno collaborato i dottori di ricerca Daniela De Leo, Sergio Salomone e Maria Teresa Sepe. Giovanni Laino 5 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Locali vuoti Altre attività Vani tecnici Box auto Totale destinazioni d’uso ai p.t. rilevati nella zona Fonte: Sirena Città Storica 2008, p.39 36 11 8 36 570 Lo studio fatto da Sirena ha messo insieme anche altre indagini: catastali, ricerche di mercato, cenni di analisi di impatto della normativa per la localizzazione di attività particolari nei locali a piano terra (ristorazione). Con l’indagine di mercato si è stimato che per un basso di 30-35 mq viene pagato un canone medio mensile di circa 400 euro con un valore medio di 2028 Euro al metro quadro nelle compravendite. Quindi un basso medio piccolo di 30 mq è valutato a circa 60.000 Euro17. Nell’insieme della costruzione del progetto vi sono alcuni passaggi meno convincenti che non posso discutere in questa sede18. In generale il programma esprime un approccio che ritengo vada almeno in parte superato. Si esplicita una visione d’insieme che è di tipo sistemico, olimpico, supponendo di poter controllare ogni attore per ogni specifica opzione, per intervenire su buona parte dell’insieme del patrimonio censito. Si sorvola sulla diffusa e reiterata presenza – o prevedibilità - di inerzie di diversa fonte – anche degli attori pubblici – che rendono abbastanza irrealistica la previsione di fare tutto in quattro anni, con buon grado di efficacia. In realtà, poi, per il contenimento delle risorse e l’inevitabile previsione di una percentuale di attori che comunque per vari motivi non vorrà o potrà aderire, l’insieme del notevole investimento potrà produrre una riqualificazione dell’ambiente fisico edilizio, accanto alla liberazione di una quota di bassi, ma la felice corrispondenza fra la taglia e la consistenza di questi locali, le intenzioni degli specifici proprietari e l’effettiva sostenibilità di nuovi investimenti per localizzare nuove funzioni (p.e. ristoranti, locali di ritrovo, atelier, negozi attrattivi e con congiuntura commerciale favorevole) è ben più incerta. Dall’indagine diretta risulta che diversi bassi sono in condizioni strutturali e ambientali tali da rendere abbastanza difficile la localizzazione di una nuova attività attrattiva e remunerativa per i gestori. La destinazione a depositi sempre richiesti in queste zone e/o piccoli garage, soprattutto per motocicli, sembra ben più probabile, soprattutto per i locali di una certa taglia e per quelli ubicati nelle strade più distanti da via Toledo. Lo stesso risultato però potrebbe essere conseguito in altro modo e forse con una spesa ben più contenuta. La considerazione approfondita della proposta mette in luce due obiettivi, legittimi e associabili: la liberazione dall’uso abitativo dei bassi per far migliorare la condizione abitativa degli abitanti anche se con una emigrazione volontaria dal quartiere e la rivitalizzazione commerciale e artigianale della zona con la localizzazione di queste nuove funzioni nei bassi liberati. Si tratta però di due obiettivi che possono avere una rilevanza diversa entro differenti calibrature e orientamenti di politiche. La sola delocalizzazione degli abitanti in altre case, che loro potrebbero voler cercare e fittare anche grazie all’incentivo di sostegno all’affitto, potrebbe essere trattata entro una prospettiva più semplice e meno onerosa. Non è dimostrato che l’investimento privato, da parte dei proprietari e/o degli operatori che vogliano localizzare nei bassi liberati nuove funzioni sia sufficientemente prevedibile solo se attratto da altri investimenti pubblici tesi ad una più ampia rigenerazione della zona. Inoltre va detto che il programma è nato e si propone come pilota, nel senso di una sperimentazione che con pochi adattamenti possa essere adottata per le altre decine di borghi della città ove è significativa la presenza dei bassi. Se il programma ideato da Sirena comporta investimenti per complessivi 41 milioni per riconvertire meno di cento bassi, quale sostenibilità potrà avere una prospettiva di estensione della procedura all’insieme di questa quota di patrimonio abitativo ? La giusta scelta, non scontata, di operare assumendo la libera adesione degli abitanti di fatto lascia buone possibilità di avere anche dopo la realizzazione del programma l’esistenza di bassi abitati. Allora quindi questa evenienza potrebbe essere assunta come una delle possibilità già nell’impostazione dell’iniziativa, che sarà sviluppata in diversi anni, evitando dichiarazioni di principio che possono essere ipocrite. Secondo l’indagine solo 11 bassi sono abitati da proprietari o da loro discendenti. Ma il 57% delle compravendite è stato fatto negli ultimi dieci anni. Questo dato con il tasso di alta utilizzazione di questi locali è indicativo della normalità con cui questa quota di patrimonio viene utilizzata come abitazione svolgendo una funzione vitale anche in anni recenti. 17 Cfr.Sirena Città Storica (2008), relazione, p. 28 Per stimare il grado di adesione da parte dei proprietari alle diverse ipotesi, ad esempio, è stato utilizzato un campione del tutto casuale di 22 intervistati, evidentemente troppo poco significativo per la rappresentatività delle loro risposte – oltretutto estemporanee - per l’insieme dell’universo considerato. Anche il grado di trasformabilità dei bassi per localizzare in essi altre funzioni, è stato stimato in termini ottimistici, senza uno studio caso per caso, delle taglie, delle possibili aggregazioni di bassi fra loro confinanti e della reale idoneità di ciascuno a specifiche funzioni artigianali e/o commerciali. 18 Giovanni Laino 6 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . 4. Il contributo di un orientamento diverso Innanzitutto, come è stato fatto per la misura di incentivazione delle attività artigianali con il Pic Urban, è indispensabile mobilitare una pattuglia di agenti locali di sviluppo che, con competenza, svolgano una funzione di mediatori seri e gentili verso i soggetti locali (abitanti, proprietari, operatori economici, stakeholder), e per l’interfaccia fra costoro e gli altri attori esterni19. Questi professionisti, facilitatori locali, potranno studiare, ancor più da vicino la situazione e trattare, secondo regole certo non opportunistiche e/o ineguali, le riutilizzazioni quasi caso per caso. In tal modo, si potrebbero individuare e sostenere anche poche decine di soluzioni puntuali, eventualmente geograficamente concentrate, comunque sostenibili entro una procedura di evidenza pubblica, che in modo meno costoso e più realistico potrebbe avviare un processo di liberazione, riqualificazione e riuso dei bassi meglio destinabili ad altre funzioni. D’altra parte, il mandato potrebbe invece essere quello di liberare i bassi ove le persone vivono in condizioni peggiori. Accanto alla condivisibile strategia già assunta nel programma per costituire un piccolo patrimonio di locali da offrire all’incubatore diffuso di imprese, con una modalità abbastanza simile, i tecnici della piccola agenzia locale potrebbero individuare e sostenere una serie di interventi che potrebbero avere poi un ruolo di volano anche per sollecitare iniziative di altri proprietari e abitanti e/o altri potenziali investitori, locali e non. Il caso mi sembra molto interessante anche come seria esercitazione di progettazione sociale, di tipo complesso. Assumendo responsabilmente gli assunti e gli obiettivi dichiarati del programma, come per altre questioni abbastanza complesse in cui è richiesta la responsabilità di una competenza pianificatoria e gestionale, emerge con forza una domanda: è pensabile un trattamento unitario, globale, del problema, con un programma che, anche solo per una città, si proponga di dare un'unica risposta complessiva, con oneri forse insostenibili, o è preferibile e probabilmente più efficace un programma locale e contingente, dichiaratamente esplorativo, che, assumendo che si tratta di una questione non risolvibile in pochi anni, esprima una strategia di tipo enzimatico (Branzi 2006), grazie alla quale il governo locale cerchi di sollecitare, sostenere e tendenzialmente guidare le pratiche degli attori privati ? Facendo tesoro di diversi contributi, provenienti dalla planning theory come da altri campi di ricerca (Branzi 2006), ritengo interessante pensare, disegnare e attuare (un modo di progettare le) politiche con interventi capaci di essere reversibili, evolutivi, enzimatici, capaci cioè di inserirsi nei processi di trasformazione della società civile del territorio, avendo abbandonato la pretesa di un governo olimpico, sistemico, forte, integrato degli attori, dei processi e del mutamento 20. Penso a strategie che pur avendo un quadro dell’insieme del contesto, senza prescindere da una conoscenza accurata delle dinamiche in corso, non pretenda di poter realizzare un trattamento che presume di controllare bene le diverse fonti di incertezza. Mi riferisco ad un approccio che superi un’impostazione fondamentalmente ideativa della prefigurazione del futuro. Un modo di immaginare e proporre frame composti con una utilizzazione sbrigativa, suggestiva quanto superficiale di associazioni e nessi casuali, prescindendo dalle tante fonti di inerzia e da (quella che per i progettisti sembra) irragionevolezza, che comunque condizionano con forza gli attori e i contesti. Le vision che certamente devono poter scommettere anche sull’innovazione per il futuro per evitare la stanca riproduzione dello status quo, troppo spesso vengono costruite e assunte con questi atteggiamenti mentali che risultano contraddetti dalle vicende dei programmi. Credo sia ben più affidabile e responsabile un approccio che, oltre ad una particolare cura nello studio della fattibilità dei programmi, pur senza riuscire necessariamente a mettere in luce o prevedere l’insieme del quadro dei vincoli e delle possibilità, può costituire tuttavia una base affidabile per alimentare una cultura del progetto con una grande valenza esplorativa, creativa, anche arrivando a generare nuove considerazioni del contesto. Un modo di lavorare nelle situazioni che richiama l’attività di sensemaking che da tempo viene evocata anche nel campo della pianificazione (Weick 1995). In territori (questioni) particolarmente complessi, mi sembra più responsabile e accurata una impostazione consapevole di agire in compresenza di altri attori, alcuni dei quali seguono logiche e regole piuttosto differenti, anche in modo opaco, nel pluralismo dei calendari, ancor più se in contesti turbolenti. Molte esperienze ci consentono di condividere una visione dei contesti che coglie i loro caratteri plurali, a tratti caotici, indisciplinati, pur se agiti dentro e con sistemi di regole e invarianti. Certo si tratta di una impostazione più modesta, con molti dei rischi che vegono attribuiti all’incrementalismo che non sollecita abbastanza le trasformazioni. Ma si tratta di un approccio per cui si è consapevoli della necessità di tener conto e di convivere con diversi ritmi, calendari, culture e opportunismi del tempo. Penso ad un’impostazione che si propone di considerare i limiti e le diverse fonti di difficoltà per realizzare pratiche sostenibili e condivise. Una logica di produzione di politiche e di costruzione di progetti capace di cooperare, canalizzare le energie, anche quelle meno incisive e organizzate, secondo una logica debole e diffusa (Branzi 2006). 19 Su mio suggerimento e con la mia cooperazione in realtà la società SIRENA ha fittato un basso a piano terra da destinare ad ufficio, sportello per il programma ma, per prudenza, in realtà tale sede non è stata ancora attivata. 20 Per un contributo molto affine in altro ambito della pianificazione cfr. Laino 2010. Giovanni Laino 7 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Dal modesto ma significativo patrimonio di pratiche di cui sono stato partecipe, con altri, anche entro programmi delle amministrazioni pubbliche, desumo una impostazione che si propone di essere più accurata, attenta a questioni anche di piccola scala, con la migliore attenzione possibile alla fattibilità, al confronto con le attrezzature mentali e gli interessi dei diversi attori, evitando le mille ricorrenti trappole del pensiero ideativo che suggerisce corrispondenze e determinazioni tanto chiare alle menti degli architetti quanto improbabili nei contesti interattivi e ambigui in cui si trasformano molti territori. Un approccio che richiede una particolare presenza del portatore di competenze nel contesto oggetto della trasformazione. Si possono proporre e condividere criteri di efficacia (Laino 2001 e 2003) ma vanno quasi sempre declinati – e innovati - nel contesto. Il planner in questo caso deve necessariamente essere partecipe di una squadra di agenti locali che hanno il mandato di realizzare determinate azioni, cercando un significativo rapporto con la popolazione locale. Un rapporto che eviti le semplificazioni dottrinarie di molti testi sulla democrazia partecipativa per sollecitare cantieri di costruttiva democrazia associativa. Sul versante teorico generale si intravede quindi un modo di progettare scelte e costrutti che intendono essere anche esplorativi di contesti che non si presume – e ne quindi si pretende – di controllare con un master plan o con un bando. Senza per questo escludere che può essere di grande utilità un master plan e uno o più capitolati, purchè siano ben fatti e accurati. Questa indagine, a mio avviso, promette di offrire un utile contributo anche sul versante delle politiche di trattamento del disagio abitativo nei contesti in cui è forte la tensione abitativa. Anche per il programma che a Napoli risulta già finanziato e, pur se lentamente, procede, è più credibile una strategia di questo tipo più che una di tipo olistico e sistemico. Bibliografia AA.VV.(2009) Abitare, numero monografico di “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, n. 62, 2009. Sirena Città storica, (a cura di, 2008)Programma pilota di intervento per la riconversione dei bassi ricadenti nell’area dei Quartieri Spagnoli a monte di via Toledo, 4 vol, Edizioni Graffiti, srl, testo definitivo stampato nel dicembre 2009. Bianchetti C. (2003)Abitare la città contemporanea, Milano, Skira Brandolini A., Saraceno C., Schizzerotto A. (a cura di, 2009), Dimensioni della disuguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione, il Mulino, Bologna. Branzi A. (2006) Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo. Skira edizioni, Milano. Cammardella I, Massa A. (2009) Il recupero dei bassi nel centro storico: il caso del programma pilota Sirena e una simulazione più semplice al Cavone. Tesi di laurea triennale UPTA, Facoltà di Architettura Napoli, relatore Giovanni Laino Fucini R.(1877) , Napoli a occhio nudo: lettere ad un amico, Cfr. edizione Einaudi, 1976Torino Gaeta L. (2009) “ La gentrification che non ti aspetti” in Diappi L. Rigenerazione urbana e ricambio sociale. Gentrification in atto nei quartieri storici italiani, Franco Angeli, Milano Glass R. (1964) “Introduction: aspects of change”, in Centre for Urban Studies (ed,) London: aspects of ch’ange. MacGibbon and Kee, London Gnocchi R. (a cura di), Homelessness e dialogo interdisciplinare, Carocci, Roma. Laino G. (1984) Il Cavallo di Napoli: i Quartieri Spagnoli. Franco Angeli Editore, Milano Laino G. (2001) Condizioni per l’efficacia dei programmi di riqualificazione nell’ottica dello sviluppo locale. In Franz G.(a cura di) Trasformazione, innovazione, riqualificazione urbana in Italia. F.Angeli, Milano, pp.137165. 2001. ISBN 88-464-3224-X Pubblicato anche in Archivio di studi urbani e regionali, N.70, 1999. Laino G. (2003) Politiche per le periferie dalla periferia delle politiche. In “I nuovi soggetti della pianificazione”. Atti della VI conferenza nazionale SIU. Moccia F.D. e De Leo D., (a cura di, 2003), Franco Angeli, Milano, PP.390-412. . ISBN: 8846444671ù Laino G. (2006) Lo sfogo di un coordinatore attivista, in Esperienze di valutazione urbana (D. Patassini, a cura di) AIV, Franco Angeli, Milano pp.259-266 Laino G.(2007) Abitare le differenze, in Balducci A. e Fedeli V. (a cura di) I territori della città in trasformazione. Tattiche e percorsi di ricerca. Pp.91-103, ISBN 13: 9788846490766 Laino G. (2008) How to transform Naples old city centre: a proposal for an enzymatic strategy to recover the “bassi”. In Learning Cities in a knowledge based society. Cd of paper XI EURA Conference, Milano, 9-11 Ottobre, 2008, Maggiori Editore, RN. ISBN 978-88-387-4313-4 Laino G. (2010) The Waste Crisis in Naples. The need for a rationality that is pluralist, hybrid and contingent, as well as responsible and detailed. In disP, The Planning Review, n. 180 – 1/2010 Lanzani A., Granata E., Novak C. (2006), Esperienze e paesaggi dell’abitare, Associazione Interessi Metropolitani, Abitare Segesta Cataloghi, Milano Lucciarini S., Violante A. (2006) Il modello mediterraneo di housing e welfare e il caso di Roma, in Rivista delle politiche sociali», n.3, pp. 115-135 Giovanni Laino 8 Innovazione delle politiche per l’abitare: una strategia enzimatica per il programma di recupero dei bassi a Napoli. . Mario J. W. (1877), La miseria in Napoli, Napoli Mazzacane L.(a cura di, 1978), I”bassi” a Napoli, Guida Editori. Indagine svolta dalla Cooperativa Ipotesi per l’Amministrazione Provinciale di Napoli Multiplicity.lab. (2007), Milano cronache dell’abitare, Bruno Mondadori, Torino Pasqui G. (2008) Città, popolazioni, politiche, Jaca Book, Milano Sassen S. (2006) Perché le città sono importanti. In Catalogo della 10 mostra biennale di Architettura di Venezia, Marsilio, Venezia Sepe M.T. (2004) Carriere abitative degli immigrati e traiettorie di sviluppo dei Quartieri Spagnoli a Napoli. Elementi per l’interpretazione, Tesi di Dottorato, Dottorato in Urbanistica e Pianificazione Territoriale, Università Federico II di Napoli, novembre 2004 Serao M.(1884), Il ventre di Napoli, Napoli Tosi A. (1994), Abitanti. Le nuove strategie dell’azione abitativa, il Mulino, Bologna Tosi A. (2006), Povertà e domanda sociale di casa: la nuova questione abitativa e le categorie delle politiche, in «Rivista delle politiche sociali», n.3, pp. 61-78. Turchi M. (1866) Notizie e documenti riguardanti le condizioni igieniche della città di Napoli nelle 12 sezioni, Napoli Weick, Karl E. 1993 - "Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi", Isedi Weick, Karl E. 1995 - "Senso e significato nell'organizzazione", Raffaello Cortina Editore, Torino Zukin S. (1987) “Gentrification: Culture and Capital in the Urban Core”, Annual Review of Sociology, vol. 13, Giovanni Laino 9 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna Lina Scavuzzo Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano, [email protected] +39-347-0480668 Abstract L’esperienza viennese racconta di un contesto in cui l’iniziativa pubblica è centrale nell’orientare e guidare lo sviluppo urbano e in cui la residenza è uno dei materiali principali con cui costruire la città. Questo contributo propone una lettura di questo fenomeno alla luce del progressivo mutamento del ruolo pubblico nella produzione di abitazioni sociali in Europa che ha determinato la ridefinizione degli assetti, delle strategie e degli strumenti operativi all’interno delle politiche nazionali e locali che può, con qualche generalizzazione, essere collegato ad una restrizione dell’intervento pubblico diretto e alla comparsa di nuovi attori impegnati nella produzione di housing sociale. Il testo si configura come una riflessione critica su quale ruolo si prospetta per l’attore pubblico nello sviluppo dei progetti di social housing, su quale legame intercorre tra la responsabilità pubblica e i luoghi prodotti, sulla possibilità che il pubblico possa continuare a rivestire un ruolo attivo, senza necessariamente essere l’unico attore preposto alla costruzione di politiche abitative. 1. Premessa L’abitare, grande protagonista dell’architettura e dell’urbanistica moderna, per buona parte del secolo scorso, si è affermato come ambito di ricerca e ha rappresentato il terreno intorno al quale si sono volte le principali sperimentazioni sulla città (Di Biagi, 2001). Uno sguardo ai luoghi (e a ciò che in essi si sedimenta) consente di riconoscere frammenti differenti di un’indagine ancora in corso, connessa alla forma dello spazio urbano, alla complessità dei sistemi sociali, alla struttura degli apparati economici e produttivi. Tuttavia, la pluralità delle forme dell’abitare non permette di individuare un percorso lineare, in cui intravedere evoluzioni e sviluppi. Anche per l’abitare, come per altre questioni, il tracciato è articolato, esistono “molti inizi” per “molte storie” 1. Dentro ogni storia convivono contraddizioni, differenze, similitudini ed è difficile trovare una sequenza temporale o tematica, poiché anche le idee, i dibattiti, le sperimentazioni, le riflessioni si sovrappongono, proprio come le tante storie sulla casa di cui il territorio quotidianamente narra. Si possono delineare ampi sfondi tematici all’interno dei quali, come una sovrapposizione di layers, alcune questioni vengono portate in rilievo in modo più evidente rispetto ad altre. Oppure si possono rintracciare elementi di novità, questioni inedite, che progressivamente prendono corpo all’interno della molteplicità dei processi abitativi. In ogni caso, si tratta di vicende tutt’altro che uniformi, le cui intersezioni non necessariamente rappresentano un concetto unitario. Queste possono essere lette da diversi punti di vista e, anche se lette dallo stesso, possono offrire immagini differenti. Tornando ad osservare i luoghi dell’abitare che hanno caratterizzato la modernità non si può fare a meno di affermare che “le condizioni sono cambiate” (Secchi, 1984). I temi della casa sociale e della città pubblica non hanno più un ruolo tecnico e morale nella riflessione e nella ricerca progettuale di architetti e urbanisti, come scrive Paola Di Biagi raccontando la modernità (Di Biagi, 2001). Dai primi anni ’70 si è aperta una nuova fase per l’edilizia residenziale pubblica. Generalizzando tematiche ben complesse, questa nuova fase può essere ricondotta al crollo del welfare sociale, che nei paesi dell’Europa occidentale dagli anni ’70 in poi ha segnato profondamente i modelli d’azione pubblica (Castel, 2008), coinvolgendo l’intero apparato istituzionale (Bifulco, 2009). Ad essere messe in discussione sono state le npolitiche centraliste, improntate su un concetto funzionalista di “bisogno casa” 2, le modalità di gestione del 1 Dal Co F., Tafuri M., Architettura contemporanea Electa, Milano 1976. Antonio Tosi scrive in merito: “Attorno al trattamento dei bisogni si è consolidato un complesso di nozioni, concetti, procedure conoscitive, metodi di ricerca che costituiscono quella che possiamo definire una teoria amministrativa dei bisogni. Essa si è sviluppata con la crescita dell’intervento sociale dello stato e delle discipline normative al servizio dello stato. Tratto fondamentale di questo sistema è la semplificazione della realtà di cui si parla attraverso la nozione di bisogno. La semplificatività è inerente alla natura operativa della categoria. La nozione di bisogno è un elemento fondamentale della cultura amministrativa della riduzione, la riduttività rinvia alla collocazione pratica del processo amministrativo. Ovviamente il problema è quali riduzioni vengono operate”, (Tosi, 2004). 2 Lina Scavuzzo 1 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna patrimonio pubblico, diventato eccessivamente dispendioso per le finanze pubbliche, il carattere burocratico degli interventi, la formulazione dei criteri di assegnazione e la promozione dei programmi di edilizia sociale (Tosi, 2004). Il tema centrale è quello delle nuove forme di governance e dell’allargamento dei soggetti mobilitati per il trattamento della questione abitativa, che ha visto una sostanziale riduzione dell’intervento degli stati e un progressivo orientamento verso il mercato privato nella promozione e gestione delle residenze sociali (ibid.). Dentro questo movimento si colloca il ricorso alla formula del social housing, oggi ampiamente diffusa in Europa, dentro la quale possono essere ricondotte tutte quelle soluzioni abitative che rispondono a bisogni specifici, connessi sia a problemi di ordine economico, ovvero all’impossibilità delle famiglie di sostenere la spesa dell’affitto di mercato, sia all’assenza di offerta di soluzioni adatte per dimensioni, tipologia, servizi integrativi, tipo di contratto, etc. L’approccio promosso dal social housing ha ampliato il modo di intendere la questione abitativa e i problemi ad essa collegati, innanzitutto proponendo un diverso orientamento verso i destinatari delle politiche, meno caratterizzato in senso assistenzialista e più disponibile a considerare i cittadini in cerca di casa come soggetti portatori di una capacità di scelta propria. Il nuovo concetto di social housing, se da una parte ha permesso di ampliare il campo di riferimento per l’edilizia sociale, dall’altro ha creato qualche fraintendimento. Non di rado la locuzione social housing viene usata come sinonimo di social housing policies, anche se la fornitura di residenze sociali è solo uno degli strumenti per l'attuazione di politiche abitative e necessita di un quadro più ampio di riferimento e di una riflessione sul ruolo della casa pubblica in termini di politiche abitative e sociali. In secondo luogo, in assenza di un assetto di politiche abitative, il campo di riferimento risulta poco chiaro. Quali interventi appartengono al campo del social housing, quali al settore privato? A chi si rivolge l’offerta di social housing? (Allen et al., 2009). Ad esempio in Italia nel campo delle politiche abitative il centro sembra essere il privato (profit e noprofit), visto come condizione sine qua non per la buona riuscita degli interventi. Sebbene la costruzione di una nuova edilizia sociale significhi oggi coinvolgere differenti operatori e risorse, promuovere partnership e negoziazione tra pubblico, privato e terzo settore, “la strada della pluralizzazione incontra almeno due difficoltà: la debolezza del terzo settore e l’incertezza sul contributo che il mercato può effettivamente dare alla produzione di alloggi sociali” (Balducci et al., 2007). Inoltre, come mette in risalto Massimo Bricocoli, la locuzione social housing viene utilizzata “in modo quasi compulsivo” (Bricocoli, 2009), come se la sua semplice formulazione bastasse a trattare le problematiche connesse all’abitare, le articolazioni della domanda e a promuovere progetti residenziali innovativi e di qualità. All’interno di un panorama complesso le questioni che riguardano l’abitare continuano ad essere trattate in termini quantitativi, senza una strategia progettuale che affronti gli aspetti qualitativi e sociali. Quest’ultima questione apre un altro importante tema. Nel campo dell’architettura, oggi, in Italia, i progetti contemporanei sul tema dell’housing riflettono ancora gli esiti delle sperimentazioni moderniste che tentano di dare risposte in termini di tipologie edilizie e modelli insediativi e di ricondurre l’analisi della domanda dentro categorie di utenza, pur avendo, tuttavia, abbandonato la volontà di offrire una risposta di carattere universale ai bisogni primari dell’uomo. Questi nuovi paesaggi offrono una scarsa innovazione progettuale riguardo ai luoghi dell’abitare, al disegno dello spazio urbano, al manufatto edilizio. Ciò più che riflessioni innesca domande. Gli interventi di social housing, realizzati negli ultimi decenni, sono stati in grado di rispondere all’articolazione e alla complessità delle domande abitative? Che tipo di abitabilità c’è dietro queste operazioni? Purtroppo i risultati appaiono modesti. Progetti e politiche, come scrive Maria Chiara Tosi, sembrano aver “rinunciato a misurarsi con obiettivi di maggiore qualità diffusa”(Tosi, 2009). Troppo spesso i luoghi della residenza (pubblica e privata) rimangono oggetto di una qualche contrattazione tra developers e istituzioni senza alcun tipo di riflessione sulla qualità dello spazio fisico. Nelle pagine che seguono si propone una riflessione sul ruolo dell’attore pubblico, poiché, sebbene il dibattito attuale sulle politiche abitative in Italia e in Europa veda la promozione di social housing quale formula che colloca l’attore pubblico in una posizione in cui è solo uno tra i molti attori che concorrono alla produzione di edilizia sociale (Bricocoli et al., 2009), la tesi qui sostenuta è che in questo ambito l’iniziativa pubblica possa invece avere un ruolo primario. A tal fine si propone un’esplorazione all’interno delle politiche e dei progetti di social housing a Vienna, mettendo in rilievo il modo in cui la Municipalità viennese ha saputo coniugare politiche della casa e progetti di architettura di grande qualità3, con la finalità di ampliare e argomentare una riflessione critica su come il disegno 3 Questo contributo è frutto di un lavoro di ricerca svolto da Lina Scavuzzo (dal 2007 al 2009) durante la tesi di Dottorato in Pianificazione Urbana Territoriale e Ambientale (Politecnico di Milano - DiAP), Il progetto come campo di sperimentazione per le politiche pubbliche. L’esperienza di Social Housing a Vienna. Il lavoro di ricerca, seguito da Massimo Bricocoli (DIAP- Politecnico di Milano), parte da un’ipotesi articolata intorno a due costrutti strettamente connessi riguardanti le modalità di indagine della domanda e il ruolo dell’azione pubblica nella promozione, formulazione e gestione dei progetti abitativi. La prima parte dell’ipotesi ritiene la sperimentazione un dispositivo rilevante per rintracciare diversi modi di abitare, proporre alternative plurime e diversificate, orientare domande. Il secondo costrutto sostiene che il pubblico possa oggi avere utilmente un ruolo da protagonista all’interno del processo di sperimentazione del progetto residenziale e che attraverso queste sperimentazioni si possano promuovere politiche pubbliche innovative. A supporto della tesi nell’ottobre del 2008 è stato organizzato il Seminario Politiche e progetti della casa a Vienna, che ha rappresentato un momento di confronto con la realtà milanese e un’occasione per presentare all’interno del dibattito italiano una riflessione su un caso emblematico e innovativo come quello viennese. Lina Scavuzzo 2 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna di politiche possa dialogare con il disegno delle trasformazioni fisiche. Un dialogo dove il pubblico mantiene un ruolo protagonista seppur all’interno di logiche di mercato. 2. Progetti e politiche della casa a Vienna tra socialdemocrazia e libera concorrenza. Percorrendo le vie di Vienna non si può fare a meno di notare che la maggior parte degli edifici residenziali mostra uno stemma bianco con una croce rossa, quello della Municipalità viennese, con accanto la scritta «Errichtet von der Gemeinde Wien in den Jahren... », traducibile in italiano con la frase «Costruito dalla Municipalità di Vienna nel...». Passando di strada in strada, di quartiere in quartiere, nei prospetti cambiano i caratteri delle scritte e le date (dal 1919 fino ad oggi), come una sorta di stratigrafia, dove emergono le tracce di una città che ha fatto delle proprie politiche pubbliche il perno dell’azione di governo e della residenza uno dei materiali principali con i quali consolidarne il valore sociale. Oggi le condizioni politiche sono mutate rispetto al periodo della cosiddetta Vienna Rossa (tra il 1919 e il 1934), sono altresì cambiate le istanze sociali rispetto alla ricostruzione post-bellica e dagli anni ’80 anche a Vienna la pianificazione urbana è stata orientata al coinvolgimento di attori privati. Tuttavia, la Città e le forze socialdemocratiche al suo governo hanno potenziato, innovato e riformato gli strumenti d’azione pubblica, mantenendo un ruolo da protagonista nella formulazione di politiche per la città, orientando le proprie azioni su qualità urbana, sostenibilità ambientale, efficienza dei servizi, cultura, istruzione, concetti questi che si intrecciano ai fini di un’orditura complessiva: la qualità dell’abitare. Con uno sfondo di riferimento nuovo e pur contraendo l’intervento diretto, la Municipalità si è dimostrata capace di garantire sia il livello quantitativo che qualitativo delle proprie politiche abitative, trasferendo gli strumenti acquisiti nel corso della storia in nuove politiche, trasformando le proprie modalità di intervento da azione diretta a gestione dei processi e promozione di politiche, ridisegnando per l’Amministrazione stessa un ruolo di regia e coordinamento4 (Scavuzzo, 2009b). Oggi la Municipalità promuove la costruzione di 5.000/7.000 alloggi all’anno, intervenendo direttamente nella costruzione di edilizia residenziale, coordina gli interventi di social housing e definisce le regole dentro le quali operano i promotori immobiliari. Attualmente circa il 60% della popolazione viennese vive in una casa sociale o sovvenzionata tramite risorse pubbliche. La Municipalità rappresenta il maggior proprietario immobiliare della città con circa 220.000 appartamenti, anche se negli ultimi anni la maggior parte dei progetti di social housing sono stati realizzati dall’azione di cooperative, associazioni no-profit e promotori immobiliari5. Queste hanno l’obbligo di costruire secondo regole ben specifiche e sono impegnate a farsi carico della gestione degli immobili e a reinvestire i profitti in altri progetti di housing6 (Förster, 2009). La Municipalità svolge un ruolo fondamentale in materia di finanziamenti indirizzati al sostegno del sistema di edilizia sociale, di regolamentazione per la fornitura e assegnazione degli alloggi e di definizione di standard minimi per l’abitabilità degli edifici. A metà degli anni ’90, attraverso un sistema di finanziamento pubblico (Wohnbauförderung), sono state raddoppiate risorse e programmi, indirizzati alle nuove edificazioni di social housing (raggiungendo circa 10.000 unità per anno), al risanamento degli edifici esistenti e al sostegno finanziario diretto delle famiglie a basso reddito7 (Ibid.). Questo significa qualcosa in più della semplice costruzione di un gran numero di abitazioni, è indice di un progetto più ampio, che vede la Municipalità in prima linea nella definizione delle proprie politiche abitative. La regia della Città si esprime anche nella gestione dei suoli, nella individuazione delle aree che siano funzionali agli obiettivi strategici di sviluppo urbano e nella acquisizione e promozione delle aree stesse tramite le attività del WSBF, (Wiener Bodenbereitstellungs und Stadterneurungsfonds) il Fondo Viennese per la Politica Fondiaria e il Rinnovamento Urbano8, un’agenzia a maggioranza pubblica che gestisce aree di proprietà comunale e l’acquisizione di aree di altri enti pubblici (statali e para-statali)9. 4 La decentralizzazione a livello locale delle Politiche Abitative e la costituzione di nove stati-federali (tra cui Vienna è una città-stato) ha consentito una maggiore autonomia all’Amministrazione pubblica nel formulare le proprie politiche di housing. 5 Attualmente in Austria ci sono 200 associazioni che si occupano di progetti abitativi; a Vienna le associazioni del settore sono proprietarie e gestiscono circa 136.000 appartamenti. 6 Gli affitti vengono regolati dal Comune; il costo mensile dell’affitto per gli appartamenti sovvenzionati va da 3,54 euro/mq a 5-6 euro/mq da: Report, The demand for additional supply with housing space, Vienna Housing Research, 2006. 7 La Municipalità amministra una quota fissa derivante dalle tasse nazionali (imposta sul reddito) che ammonta a circa 450 milioni di euro per anno, designata esclusivamente ai progetti di housing e distribuita (attraverso un programma specifico di sovvenzionamento) ai promotori immobiliari appartenenti al Non-profit Housing Act impegnati nella produzione di social housing. Ciascun progetto oggetto di finanziamento pubblico, diretto o indiretto, viene valutato da una commissione o sottoposto a procedura concorsuale. 8 Il WBSF è stato fondato nel 1984, su una decisione del Consiglio comunale di Vienna. Questa politica è nata con il Fondo Imperiale per l’Assistenza Alloggi che viene trasformato in Fondo Comunale per l’Edilizia dal SPÖ (Partito Socialdemocratico Operaio) dopo la prima guerra mondiale (Tafuri M., Vienna Rossa, Electa, Milano 1980). Le funzioni del WBSF sono di governare l’assegnazione dei contributi per i restauri e di vigilare, sulle attività dei compratori e venditori, all’interno del mercato fondiario dei terreni destinati alla costruzione di edifici residenziali sovvenzionati. 9 Nello specifico, il WBSF acquista aree agricole di proprietà privata (a valore di mercato) che successivamente rende edificabili per la costruzione di edilizia residenziale sociale. Si occupa inoltre di governare l’assegnazione dei contributi per i restauri e l’attuazione di misure Lina Scavuzzo 3 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna Inoltre la Municipalità si è fatta promotrice di sperimentazioni progettuali coniugando politiche attente ai cambiamenti sociali e progetti d’architettura innovativi, inserendo i singoli interventi in un quadro di pianificazione generale in cui sono previste le connessioni alla rete infrastrutturale, la raggiungibilità dei servizi, la fruibilità delle aree verdi, tutti fattori che influiscono in maniera determinante sulla qualità dell’abitare (Scavuzzo, 2009a). Vienna da oltre quindici anni rappresenta uno straordinario laboratorio di sperimentazioni progettuali sulla casa. Ha investito sulla qualità del progetto architettonico e urbano, incentrando la riflessione progettuale sui molteplici ed eterogenei modi di abitare, sul confort, sui cambiamenti della città contemporanea e sulla necessità di riformulare politiche attente alla sostenibilità ambientale ed economica degli interventi. Le prime sperimentazioni significative sono state introdotte dall’esperienza dei progetti a tema (Themenstädte), progetti pilota a carattere tematico, attraverso i quali indagare ambiti problematici, tra cui: abitare e mobilità; abitare e proprietà di genere; abitare comunitario; abitare gli spazi aperti; abitare il quartiere e la casa; abitare la città; abitare e giovani. Sulla base dell’esperienza dei progetti a tema è stata avviata una nuova stagione di sperimentazione progettuale, che ha coinvolto progettisti, imprenditori, associazioni no-profit in un processo guidato dall’Amministrazione stessa, che nel 1995 ha ideato un nuovo strumento di promozione di edilizia sovvenzionata: i concorsi-appalto (Bauträgerwettbewerb) per investitori-imprenditori. La procedura dei concorsi mette a bando l’acquisto dell’area da parte dei costruttori, richiede la cooperazione tra i costruttori e i progettisti già in fase di offerta concorsuale, il calcolo preventivo e vincolante dei costi di costruzione, un programma di gestione dell’intervento di housing sociale e una stima dei canoni d’affitto e di vendita per i futuri inquilini. Le procedure differiscono in base al tipo di concorso e i progetti vengono giudicati con un complesso sistema di criteri valutativi, riferiti alla qualità architettonica e urbana, alla sostenibilità economica e alle prestazioni ecologiche (ibid.). I progetti promossi negli ultimi quindici anni rispondono ai cambiamenti della società, al ruolo della donna, ai mutamenti della struttura familiare, come nel caso della Frauen-Werk-Stadt I (1993-1997), un progetto concepito per dare risposte alle difficoltà quotidiane delle famiglie nella conduzione domestica. Prevedono opportunità di condivisione e coabitazione tra persone non appartenenti allo stesso nucleo familiare (studenti, giovani, donne sole, anziani, minori), favorendo la commistione di popolazioni e di usi: ne sono un esempio il progetto Compact City (1993-2001) e le linee guida della riqualificazione della Stazione Nord (1993-2025), dove alloggi per giovani coppie, appartamenti per studenti, comunità alloggio per famiglie monoparentali e per anziani condividono spazi aperti e servizi. La Municipalità ha inoltre sostenuto sperimentazioni inedite sul piano della sostenibilità ambientale sia per gli aspetti edilizi che urbani, come il quartiere senz’auto Autofreie Mustersiedlung (1995-1997) oppure ha messo in atto interventi volti a prevenire (per quanto possibile) la ghettizzazione nel rispetto delle diversità culturali e allo stesso tempo fornire agli abitanti servizi adeguati, diretti alla mediazione dei conflitti, in modo da rafforzare la coabitazione nelle aree urbane 10, tra questi l’Interkulturelles Wohnen (1993-1996), promosso dall’associazione no-profit GEWOG, e l’Integrative Wohnen (2002-2004). Le sperimentazioni realizzate lavorano per migliorare la qualità degli spazi dell’abitare e contemporaneamente mettono in campo decisioni a livello urbano, sociale e ambientale. Sono progetti che mettono in campo politiche (Cassese, 2008), vengono intesi come complessi sistemi di azioni che coinvolgono molteplici attori e dinamiche sociali ed utilizzati non come soluzione ma come strumento di indagine (Lanzara, 1985) capaci di fare emergere bisogni, rintracciare e orientare domande. Gli esiti possono essere di varia natura, assumono molteplici conformazioni ed esplorano differenti “forme del progetto” (Infussi, 2008). 3. Il progetto come campo di sperimentazione: l’esempio del quartiere AutoFreie Questo contributo propone di mettere sotto osservazione uno dei tasselli più importanti dell’innovazione abitativa viennese, il complesso AutoFreien Mustersiedlung, provando ad intercettare relazioni possibili tra iniziativa pubblica e innovazione progettuale, con l’obiettivo di sondare le modalità con le quali il progetto, inteso nella sua accezione più ampia, possa diventare un campo di sperimentazione per le politiche pubbliche. AutoFreie Mustersiedlung significa letteralmente “quartiere modello senz’auto” e corrisponde ad un complesso residenziale in cui gli abitanti hanno scelto di abitare senz’auto per contratto11, dove le risorse normalmente utilizzate per la realizzazione dei parcheggi sono state trasferite nella costruzione di infrastrutture alternative e servizi, come la ciclo-officina, gli spazi comuni, l’internet- cafè, i tetti giardino, gli spazi per il gioco dei bambini, il servizio car-sharing e altro. per il rinnovamento urbano, di vigilare sulle attività dei compratori e venditori all’interno del mercato fondiario dei terreni destinati alla costruzione di edifici residenziali. 10 L’Amministrazione ha costituito un’agenzia - Wien Gebietsbetreuung - che si occupa della mediazione dei conflitti tra gli abitanti. 11 Il complesso è dotato di 400 posti bici, 1 posto auto ogni 10 appartamenti situati nel parcheggio sotterraneo con accesso da Nordmanngasse e l’introduzione del sistema car-sharing a disposizione 24 ore al giorno, che consente ai residenti di utilizzare un automobile in qualsiasi momento e a basso costo. Lina Scavuzzo 4 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna Il complesso è collocato a circa 6 Km dal centro di Vienna sul lato orientale del Danubio, ai confini dello storico quartiere di Florisdorf, un agglomerato eterogeneo di abitazioni di varie epoche e densità, che nel passato ha sofferto di una stigmatizzazione negativa per essere collocato sul ‘lato sbagliato del fiume’ (l’area cosiddetta Transdanubien). Il sedime del lotto dichiara le sue origini agricole, si tratta di un tassello stretto e lungo, compreso tra due strade carrabili (a nord e sud) e confinante (a est e a ovest) con lotti di egual natura. In ingresso è collocato un cartello in cui è rappresentata la planimetria del complesso e i nomi delle cooperative-gestori della struttura, posizionati lì a ricordare che l’AutoFreie Mustersiedlung è l’esito di un concorso-appalto per investitori, promosso dalla Municipalità, vinto dalle associazioni non-profit GEWOG12 e DOMIZIL13 e progettato dallo studio viennese s&s architekten. Il complesso è composto da 9 edifici articolati intorno a due corti di dimensioni simili tra loro che insieme allo spazio aperto esterno (il giardino d’accesso) costituiscono una sequenza di tre aree verdi. Nonostante l’altezza dei singoli edifici (6 piani ciascuno)14, la disposizione planimetrica ha garantito una buona illuminazione degli immobili e ha permesso la realizzazione di corti luminose ricche di vegetazione, di aree verdi con biotipi umidi e piante intensive, uno spazio aperto fruibile e arricchito dagli orti collocati in copertura15. L’AutoFreie Mustersiedlung si presenta come un laboratorio di sperimentazioni a diversi livelli, capaci di innescare processi di innovazione all’interno delle politiche pubbliche. Testimonia un approccio più ampio in cui la sostenibilità ambientale è riferita alla mobilità quotidiana e diventa un espediente progettuale per attribuire nuovi significati all’abitare in relazione alla città. All’aspetto di performance dell’involucro edilizio e di uso energetico si associa una ricerca indirizzata a promuovere e facilitare quei comportamenti quotidiani che concorrono a costruire un’idea di abitare sostenibile. Tra questi aspetti la mobilità rappresenta uno degli argomenti più rilevanti e il caso dell’AutoFreie Mustersiedlung testimonia una strategia progettuale radicale: abitare contesti periferici senza l’ausilio dell’automobile. Il processo che ha portato alla costruzione del complesso parte da questa sollecitazione di carattere politico che incontra un primo ostacolo di natura legislativa, la normativa regionale prescrive una dotazione minima di un posto auto per ogni alloggio per gli interventi di nuova costruzione. In questo caso, la sperimentazione progettuale è diventata un dispositivo per rivedere regole e norme che pongono vincoli all’innovazione dei progetti e quindi un’occasione per produrre un nuovo quadro di riferimento giuridico16. Infatti, per consentire la fattibilità dell’intervento, la Municipalità ha introdotto in un primo momento un’eccezione e successivamente una deroga al regolamento edilizio, eliminando la realizzazione obbligatoria di posti auto in complessi di nuova edificazione che rispondano a determinati requisiti ambientali, mostrando una forte capacità di controllo da parte dell’Amministrazione stessa. 4. L’attore pubblico al centro della sperimentazione. Una riflessione a partire da Vienna Se il progetto di edilizia residenziale svolge una funzione prioritaria nei processi di trasformazione urbana, al pubblico spetta il ruolo da protagonista nel coordinare questi processi. La città si rinnova e l’azione pubblica è al centro di questo rinnovamento. Da questa esperienza si può imparare la capacità di un’amministrazione di ridefinire in parte il proprio ruolo istituzionale e al tempo stesso investire nella qualità progettuale come scommessa per dare risposte valide ed efficaci rispetto ai bisogni abitativi. Nei progetti viennesi il disegno di politiche dialoga con il disegno delle trasformazioni fisiche e degli strumenti per attuarle. Queste due dimensioni si alimentano a vicenda, mostrando da parte della Municipalità una rilevante capacità di controllo e di regia delle operazioni, di lettura dei fenomeni di trasformazione della società locale. L’Amministrazione promuove temi, cambia le regole, guida i processi, innova le politiche. Non necessariamente è chiamata a coordinare direttamente processi e progetti nella loro interezza, ad esempio può agire illustrando la costruzione di un problema, descrivendo i tratti di un possibile cambiamento (Infussi, 2008); oppure può 12 GEWOG Gemeinn.tzige Wohnungsbau Ges.m.b.H. DOMIZIL Bautr.ger GmbH insieme al Wiener Wohnbauförderung 14 La scelta di valorizzare i suoli verdi ha orientato l’intervento verso uno sviluppo verticale di 6 piani fuori terra con una superficie coperta di circa 4.679 mq su una superficie complessiva di 11.382 mq. Il complesso (27.744 mq di superficie costruita) ospita diversi spazi comuni e un totale di 244 alloggi con un’offerta tipologica eterogenea, ad esempio, gli alloggi al piano terra sono dotati di giardino privato, alcuni appartamenti sono stati pensati per ospitare anziani soli e nella corte a sud si trova una comunità alloggio per bambini con difficoltà familiari. 15 La progettazione degli spazi aperti, elaborata dalla paesaggista Maria Auböck, ha visto la partecipazione degli abitanti nel tracciare i principali itinerari, organizzare la gerarchia di percorrenza e caratterizzare le funzioni. Da questa interazione è nato un progetto paesaggistico che alterna suoli duri e verdi, zone umide e giardini coltivati, impiegati come elementi di regolazione microclimatica (filtro contro l’inquinamento, schermatura dal vento) e come fattori di qualificazione ambientale. 16 A partire da questa esperienza, a Vienna altri progetti hanno ripreso l’idea del quartiere senz’auto, proponendo un’adeguata compensazione di servizi e strutture per i residenti. Tra questi il recente Bike City, all’interno del programma di riqualificazione della Stazione Nord, propone un modello di abitare dove l’uso della bicicletta sostituisce l’automobile. Nell’edificio è stata realizzata una zona interamente dedicata al noleggio, alle riparazioni e al deposito biciclette; sono state progettate cabine-ascensore per portare le bici negli appartamenti e un servizio di car-sharing. 13 Lina Scavuzzo 5 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna orientare i progetti futuri attraverso la costruzione di regole e norme17; può intervenire attraverso sanzioni positive 18, cioè attraverso incentivi che mirano a promuovere il compimento di determinate azioni. Questa esperienza non è significativa solamente per la capacità di mettere in opera decisioni, quanto aprire un processo che permette di mobilitare, articolare e creare risorse. L’innovazione dell’offerta pubblica ha innescato un processo di apprendimento all’interno delle istituzioni stesse, del terzo settore e della cultura architettonica e urbanistica, inoltre l’elevata qualità dei nuovi progetti di housing sovvenzionato ha portato alcuni investitori privati a promuovere sperimentazioni significative all’interno del libero mercato. In questo senso l’innovazione dell’offerta pubblica può essere letta come motore dell’innovazione dell’offerta abitativa in generale, aspetto non del tutto nuovo dato che l'edilizia sociale, nella storia del ‘900, ha spesso avuto un ruolo pionieristico 19. Questo ruolo del soggetto pubblico è favorito da alcune specifiche contingenze. Il pubblico si muove in un campo d’azione ampio, gestisce risorse economiche e spaziali, formula le regole entro le quali operare, non deve sottostare a necessità di mercato. Il mercato in larga misura è reazionario in quanto condizionato dai timori del ‘non venduto’, per cui preferisce reiterare strategia (commerciali) consolidate piuttosto che esplorarne di nuove. L’Amministrazione diversamente può esporsi a rischi di sperimentazioni inefficaci, mettere in discussione i regolamenti, facendo in modo che condizioni auspicabili abbiano la meglio su realizzazioni possibili. Può costruire nuovi scenari, indagare problemi, identificare temi d’azione, apportare nuove competenze professionali, ricercare gli strumenti necessari per garantire la qualità del progetto, del processo e della gestione degli interventi. Affrontare il tema dell’abitare nelle città e nei territori europei significa interrogarsi, ancora una volta, su questioni fondamentali della contemporaneità. L’abitare e in particolar modo le politiche abitative possiedono una relazione densa con quello che ruota intorno ai nuovi assetti di governance. Un ragionamento sull’abitare pone interrogativi sul tipo di città prodotta e a quali costi, non può rimanere scisso da una preoccupazione sul depotenziamento del pubblico, sulla relazione che intercorre tra responsabilità pubblica e progetto urbano, su quello che Lavinia Bifulco ha definito “futuro incerto della governance” (Bifulco, 2008). La questione non è tanto nel determinare una sorta di equilibrio tra intervento pubblico e interesse privato, quanto la necessità di una riflessione sul territorio e sui progetti che concorrono a definirne i caratteri, da parte delle istituzioni pubbliche, le uniche tuttora democraticamente titolate a mediare le contraddizioni socio-politiche e culturali di un determinato contesto. Bibliografia Allen J. (et al.) (2005), Housing and Welfare in Southern Europe, Blackwell Science, Oxford. Balducci A., Tosi A. (2007), Introduzione: le criticità del quadro, in Rabaiotti G., Ritorno a casa, Città Aperta Edizioni, Troina (En). Bärnthaler C., Philipp E. (1999), Nuovi strumenti della politica residenziale Viennese, in Casabella n. 665. Bianchetti C. (2008), Urbanistica e sfera pubblica, Donzelli Editore, Roma. Bifulco L. (2008), Gabbie di vetro. Burocrazia, governance e libertà, Bruno Mondadori, Milano. Bricocoli M., Scavuzzo L. (2009), (a cura di), Housing sociale a Vienna. Innovare le politiche abitative a partire dal progetto, Urbanistica, n.140. Bricocoli M. (2009), I luoghi e le politiche. L’housing sociale sotto osservazione, Urbanistica, n.140. Castel R. (2008), La crisi del welfare tradizionale, intervento al World Social Summit di Roma del 30 settembre, (la versione integrale si trova dal web blog TAU ZERO a cura di Gianni Silei). Di Biagi P. (2001), (a cura di), La città pubblica e l’Ina-Casa, in La grande ricostruzione. Il Piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, Donzelli Editore, Roma. Förster W. (2005), 80 Years of Social Housing in Vienna, Documento Comune di Vienna. Förster W. (2009), Le politiche abitative a Vienna: continuità nell’innovazione e prospettive, Urbanistica, n.140. Lanzara G. F. (1985), La progettazione come indagine: modelli cognitivi e strategie d’azione, Rassegna Italiana di Sociologia, 26-3, pp. 335-368. 17 Sui termini regola e norma, la tesi coglie l’occasione per citare le definizioni di Norberto Bobbio in Teoria generale del diritto, Torino, 1993 e termine “norma” in vol 9 Enciclopedia Einaudi, Torino 1980, riprese da Franco Infussi durante il Corso “Forma del piano e del progetto” nell’ambito delle lezioni di Dottorato in Pianificazione e Governo del Territorio, (Politecnico di Milano, Marzo 2009). Per Bobbio le norme sono imperativi o comandi, intesi come “proposizioni prescrittive”, vanno distinte dalle regole o uniformità di comportamento, come pure dalle regole tecniche. Le norme sono delle proposizioni, hanno a che fare con forme d’obbligo che intendono modificare il comportamento dei soggetti. Le regole si riferiscono ad un insieme di comportamenti ricavati dall’esperienza o fissati per convenzione e hanno a che fare con cosa è necessario. 18 Bobbio, N., Dalla struttura alla funzione, Nuovi studi di teoria del diritto. Edizioni di Comunità, Milano, 1977, pp. 7-8. Bobbio indica la presenza negli ordinamenti contemporanei di tecniche di incoraggiamento, come funzione promozionale del diritto, definite azioni che il diritto svolge attraverso lo strumento delle sanzioni positive, cioè attraverso meccanismi, generalmente compresi col nome di incentivi, che mirano a promuovere il compimento di atti socialmente desiderabili. 19 Le innovazioni nel campo dell’edilizia residenziale sono state strettamente connessa a programmi di edilizia sociale. Basta ricordare gli sviluppi delle città giardino in Inghilterra, gli edifici della scuola di Amsterdam nei Paesi Bassi, i progetti residenziali dal 1920 in poi in città come Berlino, Francoforte o la stessa Vienna, le HLM in Francia, o gli alloggi sociali nel secondo dopoguerra in Svezia e Finlandia. Lina Scavuzzo 6 L’azione pubblica alla prova. L’esperienza di social housing a Vienna Infussi F. (2008), Progetti per decidere: velocità, scopi e forme, in Bruzzese A., Longo A., Oltre la company town. Piani e progetti per San Donato Milanese, Urbanistica, n.136. Pinson G. (2009), Il progetto come strumento d’azione pubblica urbana) in Lascoumes e Le Gales, Gli strumenti per governare, Bruno Mondadori, Milano. Secchi B. (1984): Le condizioni sono cambiate, Casabella, n. 498/9. Scavuzzo L. (2009 a), Il progetto della residenza: temi e luoghi della sperimentazione, Urbanistica, n.140. Scavuzzo L. (2009 b), L’housing sociale a Vienna. Progetti e politiche abitative tra innovazione e continuità storica, in Delera A. (a cura di), Ri-pensare l’abitare. Politiche, progetti e tecnologie verso l’housing sociale, Hoepli, Milano. Tosi A. (2004) Case, quartieri, abitanti, politiche, Libreria Clup, Milano. Tosi M.C., (2009) La fatica di abitare; per una città confortevole, sana e sicura, in Lo spazio del welfare in Europa, in Munarin S., Tosi M.C., (a cura di), Lo spazio del welfare in Europa, Urbanistica n.139. Lina Scavuzzo 7 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative Autore Justyna Soltysiuk Dottorato in Sviluppo Urbano e del Territorio, Facoltà di Economia di Ferrara/ Facoltà di Architettura di Ferrara, Laboratorio CITER Università degli Studi di Ferrara, [email protected] Tel/0532293626 Premessa: Perché Varsavia? La Polonia l’anno scorso ha celebrato due anniversari: l’entrata nell’Unione Europea il 1 maggio del 2004 e l’avvio delle trattative della Tavola Rotonda di Lech Wałesa il 6 febbraio 1989. Oggi, a 5 anni dall’accesso nella Comunità Europea e dopo venti dall’inizio della fase di transizione è possibile fare una prima analisi delle trasformazioni avvenute in questo periodo in Polonia. L’argomento principale che verrà affrontato in questo paper è la coesistenza nella città di Varsavia dei residui del vecchio modello di governo e di quello nuovo (a partire dal 1989) nell’ambito dell’housing. Varsavia, essendo la capitale della Polonia, potrebbe rappresentare un campione sia di quello che è avvenuto e che sta avvenendo nelle aree urbane polacche ma anche di quello che è successo ai margini delle città dell’Est in generale. 1. Inquadramento “Varsavia città con l’anima, capitale moderna con uno sviluppo dinamico, hub culturale e finanziario del Centro d’Europa, città con un’alta qualità di vita”: così viene definita la capitale polacca nel suo Piano Strategico 2004-2020. E’ una descrizione molto lontana da quella di: “governo centralizzato, edilizia prefabbricata, omogeneità e controllo” relativa agli anni antecedenti l’89 poiché, senza dubbio, la Polonia e la sua capitale, sono cambiate drasticamente negli ultimi vent’anni. La mentalità e lo stile di vita degli anni del dopoguerra fino al 1989 sono ormai dimenticati dalla nuova generazione immersa nella carriera e interessata più allo sviluppo individuale che a quello della comunità. Sono bastati vent’anni per cambiare la società, le abitudini, l’economia e la politica del paese ma effettivamente cosa significano per un territorio vent’anni e per una città vent’anni sono tanti o pochi per trasformarsi, per darsi una forma nuova? Nel dopoguerra l’espansione a “macchia d’olio” relativa allo sviluppo delle periferie residenziali ha contrassegnato praticamente tutte le città europee cominciando dalle ZUP francesi (Garano et al., 1990), all’edilizia economica olandese (Housing 1, 1987) o italiana poiché lo scopo principale di quei anni era “comune” sia per l’Est che l’Ovest d’Europa: “fornire maggior numero di alloggi”. Tuttavia, dalla fine degli anni ’70, nell’Europa occidentale la forma dell’edilizia economica si è sviluppata anche attraverso modelli, urbani e tecnologici, più flessibili a scala più umana, mentre in Polonia la “Wielka Plyta”(Grande Pannello) con la sua tecnica del prefabbricato ha dominato il paesaggio urbano delle città fino all’89. Justyna Soltysiuk 1 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative Figura 1 (Centro di Varsavia. Grattacieli all’interno dei quartieri residenziali) A Varsavia, lo scontro tra l’edilizia antecedente il 1989 e quella degli anni ’90 e 2000 era ed è inevitabile non solo per la differenza di forme architettoniche ed urbane ma soprattutto per il cambiamento dello stile di vita di una popolazione nuova che ha dato una dinamicità particolare allo sviluppo urbano delle città polacche. Purtroppo le trasformazioni avvenute negli ultimi vent’anni non sono state sempre positive: grattacieli che soffocano l’edilizia del centro (Figura 1) della città, i nuovi quartieri residenziali che non sempre si integrano con i quelli costruiti negli anni ’70-’80 anzi spesso vengono concepiti come delle nuove gated communities. Attualmente la città cresce ancora internamente, consumando le aree libere ma nello stesso tempo si sta verificando il fenomeno dello sprawl urbano che fino a pochi anni fa era una caratteristica attribuita solo alle città occidentali. 2. Le città e le direttive per uno sviluppo urbano sostenibile Questi ultimi vent’anni sono stati importanti non solo per i paesi dell’Est, poiché è un periodo in cui si è dovuto ripensare ad un nuovo equilibrio mondiale nel senso politico ed economico; ma sono anche anni in cui sono state avviate procedure e stesi programmi per la salvaguardia del pianeta e per incrementare la qualità della vita dei suoi residenti. A livello mondiale vennero elaborati: Agenda 21 (1992), Habitat Agenda(1996), Protocollo di Kyoto(1997) e a quello Europeo: Strategia di Lisbona e Goteborg (2004) e Carta di Lipsia (2007). Sono documenti, accordi che definiscono delle linee guida per uno sviluppo sostenibile di tutte le aree urbane e rurali che dovrebbero tradursi nei singoli paesi in legislazione nazionale o locale. La Polonia e la sua capitale, senza dubbio hanno accolto le politiche per lo sviluppo sostenibile presenti in questi documenti di indirizzo, poiché il concetto della sostenibilità è nominato sia nel Piano per lo Sviluppo Nazionale (SRK) sia nella documentazione programmatica del Comune di Varsavia (Piano Strategico, Strategia di sviluppo sostenibile del trasporto locale, POR regionale), ma nello stesso tempo osservando il caotico espandersi della nuova edilizia residenziale, intorno a quartieri prefabbricati degli anni passati, senza un progetto urbano reale e concertato si può pensare ad una mancanza di un controllo effettivo sulle continue trasformazioni del territorio. Probabilmente si tratta di una assunzione dei principi della sostenibilità urbana, a livello generale, ma che ancora non riesce a tradursi in un effettivo controllo delle espansioni residenziali, condizionate fortemente dalle politiche del real estate. 3. Politiche abitative e modelli Alla fine del XIX secolo, dopo la grande industrializzazione e l’aumento della popolazione nelle città principali è avvenuta una delle più grandi crisi delle aree urbane sulle quali, gli urbanisti, sociologi, economisti iniziano a riflettere e suggeriscono nuovi modelli di sviluppo urbano e nuove politiche abitative. La fine dell’800 e la nascita del ‘900 offrono alla popolazione europea, anche attraverso i progetti utopici, un nuovo sguardo sulla città, città non più solo della segregazione di classi sociali e dei privati, ma al contrario comincia l’epoca della città pubblica, della città sociale. All’inizio del ‘900 l’Europa guarda verso il risanamento e l’igienizzazione dei quartieri abitativi. Si sviluppano nuove tipologie edilizie nelle quali, come ci ricorda Giuseppe Samonà, si mira ad ottenere le tre principali fonti di qualità: aria, luce e verde. In Polonia è il momento del funzionalismo e di Justyna Soltysiuk 2 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative conferenze nazionali sul housing, promosse da grandi cooperative edilizie come la WSM (di Varsavia), che provano ad elaborare principi per la costruzione di nuovi quartieri residenziali (Janikowska, 2004). Dopo la II Guerra Mondiale molte città europee ripartono dallo stesso punto: la ricostruzione. Ogni paese deve affrontare gli stessi problemi: la rimozione delle macerie, la riedificazione e la questione della nuova edilizia residenziale per gli sfollati. La Francia lancia il programma delle ZUP, la Polonia quello dell’edilizia OW-T/67 (Oszczednie, Wydajnie, Tanio- efficientemente, efficacemente, a basso costo), l’Italia l’innovativo programma INA-casa. L’esigenza alla base di questi programmi è sempre la medesima: costruire il maggior numero di alloggi per la nuova popolazione urbana. La città sociale comincia a svilupparsi in Europa attraverso il public housing, riducendo le differenze sociali e culturali della popolazione residente, poiché la “distribuzione sociale della città non è stata lasciata unicamente all’operare delle forze del mercato“ (Petrillo, 2000) ma sopratutto al pubblico. Come accennato prima le strade dei paesi europei e delle loro capitali, cominciano a dividersi alla fine degli anni ’70 quando l’ovest dell’Europa sviluppa nuove più flessibili soluzioni abitative, mentre nei paesi dall’altra parte del Muro di Berlino si prosegue con le vecchie politiche per la casa, casa che diventa sempre più irraggiungibile per un abitante medio, privo di una posizione politica “adeguata”. La situazione cambia di nuovo con l’arrivo del 1989 che è l’anno in cui per alcuni “finisce il ‘900”, poiché è il momento del riadattamento dell’equilibrio economico, sociale ed politico a livello mondiale. Quando termina un secolo si spera di entrare in un altro più innovativo, più saggio ed equilibrato ma gli “anni zero” sono stati veramente così oppure come sostiene Agostino Petrillo ci sono problematiche urbane che ci fanno pensare al “ritorno all’ Ottocento”? 4. Polonia: dalla città pubblica alla città privata La politica abitativa in Polonia è sempre stata legata fortemente alle cooperative edilizie che si svilupparono autonomamente alla fine del ‘800, nel tempo della spartizione tra Prussia, Russia ed Impero Austro-Ungarico, per ridurre il disagio abitativo di quel periodo. Nel Primo dopoguerra venne istituito il Fondo Nazionale per le Costruzioni e l’aiuto alle cooperative edilizie che ha dato la possibilità alle cooperative di svilupparsi appoggiandosi sui prestiti statali. Nel 1948 le cooperative cominciarono ad indebolirsi poiché lo Stato ridusse il loro ruolo a quello della gestione e si appropri del loro patrimonio edilizio. Lo Stato privo dell’esperienza nel campo del housing nel 1956 stabilì le nuove regole della politica abitativa, presentate durante il X Incontro del Comitato Centrale: “Lo Stato non è in grado di superare le difficoltà abitative con le proprie forze. Non esiste neanche la prospettiva che lo Stato senza l’aiuto dei cittadini risolva le difficoltà abitative. (...) Per incrementare la costruzione di alloggi nel prossimo futuro, per rispondere alle quantità relative alle necessità degli operai e degli intellettuali, lo stato deve ottenere il loro aiuto(...)” (Janikowska, 2004) Le cooperative edilizie vennero riproposte e rese, questa volta, obbligatorie (operai e lavoratori pubblici costretti a versare una quota) e vennero sottoposte alle regole del governo centrale riguardanti innanzitutto l’edilizia economica. Dopo l’89 le cooperative si ridussero drasticamente poiché le problematiche legate all’assegnazione degli alloggi e il libero mercato influenzarono maggiormente lo sviluppo dell’edilizia privata. Dal 2000 le cooperative ricominciarono a svilupparsi contemporaneamente all’edilizia detta in Polonia: developeriana. Questa breve analisi delle politiche abitative permette di capire le lacune a livello nazionale per quanto riguarda l’housing, soprattutto nel campo dell’innovazione e l’articolazione delle strategie abitative. Nel 1989 si è verificato un crollo del mercato immobiliare causato dal ritiro dei finanziamenti e degli aiuti dello stato finalizzati sia all’edilizia di cooperative che a quella privata. Le persone in poco tempo, a causa dell’aumento dei costi di costruzione, persero la speranza di avere una nuova casa. Negli anni ’90 il governo provò a definire nuove politiche per la casa ma il risultato complessivo di questi programmi furono solo leggi isolate: legge sulle case comunali del 1990 e sull’edilizia sociale (TBS) del 1995, legge sull’ isolamento termico del 1998 e del 2008. Sono direttive che sicuramente aiutano ad ottenere un’ alloggio, specialmente per le persone con un reddito basso, ma il problema però non è solamente la mancanza del potere d’acquisto della casa, ma soprattutto l’insufficienza dell’articolazione delle politiche abitative e di una complessiva politica della casa che controlli anche il mondo dei costruttori. 5. Abitare a Varsavia I developers a Varsavia per edificare hanno pochissime limitazioni non solo a livello nazionale ma anche a livello locale: avvalendosi della regola del “vicinato” (se nella vicinanza esiste un altro palazzo della stessa altezza possono costruire un altro palazzo uguale o di dimensioni simili) e rispettando il numero di parcheggi previsti per una certa quantità di alloggi, i costruttori sono liberi di edificare nella forma che preferiscono. In confronto alla legislazione francese o quella irlandese che implica una percentuale di edilizia sociale nella nuova costruita o quella olandese dove l’edilizia a canone agevolato e quella a risparmio energetico sono sostenute Justyna Soltysiuk 3 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative dallo stato, la situazione in Polonia e nella sua capitale sembra essere lontana dalle direttive mondiali ed europee sullo sviluppo sostenibile. Sicuramente la mancanza di esperienza dell’Amministrazione Pubblica e l’assenza delle normative adeguate per controllare il mondo dei developers non aiuta a determinare o indirizzare lo sviluppo della città verso le direttive europee. I modelli di intervento sembrano più indirizzati verso dinamiche immobiliari tipiche delle città nord americane dove “80% degli americani viveva già negli anni ’90 in segregated neighborhoods” (Petrillo, 2000) o delle metropoli emergenti dell’America Latina e dell’Oriente dove ai margini delle favelas sorgono i muri che delimitano le gated communites, che non i modelli incentrati sulla riqualificazione delle metropoli dell’Europa Occidentale (es. Parigi, Berlino, ecc.). Le nuove forme urbane che vengono edificate sono spesso quartieri chiusi con i propri servizi: negozi, asili nido, parchi gioco per bambini, piscine e palestre disponibili solo per i residenti del quartiere. Il fenomeno della “chiusura” in Polonia si è sviluppato sempre di più nel corso degli anni: iniziando dalle sbarre sulle finestre delle case unifamiliari e al piano terra delle case popolari, dall’inserimento di citofoni all’entrate degli stessi palazzi, dall’inserimento delle sbarre di accesso non solo sui viali dei nuovi quartieri ma anche di quelli degli anni ’70-’80 e infine introducendo la recinzione per interi quartieri con una guardia giurata all’entrata.(Figura 2) Mentre alcune di queste azioni sono legate alla percezione di sicurezza urbana e possono essere in qualche modo giustificate e legittime da applicare, altre sembrano riferirsi solamente all’isolamento e alla semplice separazione sociale. Un’ ulteriore causa della chiusura dei quartieri potrebbe essere la forte percezione del concetto di “privato” che si sviluppò all’inizio degli anni novanta come una reazione ai tempi difficili della epoca del governo centralizzato, dove il concetto di collettività era imposto, e che portò successivamente alla ricerca di protezione ed isolamento dello proprio spazio. Senza dubbio le “blokowiska” - quartieri di blocchi prefabbricati- costruiti prima del 1989 non hanno mai avuto una buona reputazione sopratutto per la loro organizzazione urbana, che non ispira sicurezza, e la loro monotonia, ma questi quartieri rappresentano circa il 30% degli alloggi costruiti nelle aree urbane della Polonia (Zaniewska et al., 2005), il che implica una riflessione sulla dimensione delle “blokowiska” e sul loro futuro. Avendo a disposizione questi dati viene automatico pensare alla riqualificazione di suddetti quartieri, ma senza un’ “effettiva” legge sul recupero urbano e con poca esperienza nel campo del partenariato pubblico-privato tali operazioni di riqualificazione del patrimonio abitativo non risultano facili. Justyna Soltysiuk 4 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative Figura 2 (Quartiere Bemowo. Gated communities ) 6. Quartiere Ursynow Il quartiere di Ursynow , situato a sud di Varsavia, rappresenta in parte lo stato dell’housing e delle politiche abitative nella capitale polacca. Ursynow è un quartiere popolare della metà degli anni ’70 ed è stato ideato con maggiore flessibilità rispetto ad altre periferie di quei tempi poiché negli anni della sua realizzazione si sono evolute nuove tecnologie di costruzione e poiché il quartiere, chiamato successivamente “della intellighenzia” era destinato in gran parte alla popolazione con una posizione sociale alta (es. ministri del tempo del comunismo) (Weclawowicz et al., 2003). Nonostante l’area residenziale fosse meno monotona e più rinomata rispetto ad altri quartieri popolari, la rigida disposizione delle funzioni e la mancanza di un efficace sistema di trasporto pubblico trasformò Ursynow in breve tempo in un semplice quartiere dormitorio. La svolta avvenne negli anni ’90 quando la liberalizzazione del mercato introdusse le funzioni e i servizi mancanti in forma privata. (Figura 3) Così molti piani terra dei palazzi residenziali si trasformarono in uffici, asili nido, negozi e persino banche. Il secondo radicale mutamento avvenne nella metà degli anni ’90 quando arrivò nel quartiere la metropolitana. Ursynow divenne un’area estremamente attraente sia per i residenti che per i developers, poiché la durata del viaggio dal quartiere al centro della metropoli si ridusse notevolmente. Iniziò la densificazione residenziale: l’area venne arricchita di nuovi spazi pubblici, negozi “veri”, centri commerciali, cinema, bar, ristoranti, banche e nuove scuole e parcheggi che in qualche modo vengono attualmente “barattati” con gli spazi verdi esistenti poiché i progetti degli anni ’70 prevedevano ampie aree verdi tra gli edifici residenziali. (Weclawowicz et al., 2003). Figura 3 (Casa popolare nel quartiere Ursynow. Inserimento spontaneo di servizi al piano terra) Questo scambio di “beni urbani” tra la nuova residenza e quella esistente è estremamente positiva ma nonostante tutto, il futuro del quartiere sembra essere compromesso poiché i costruttori, in nessun modo vincolati dal Comune nelle forme e nelle tipologie edilizie, tendono a sviluppare “villaggi residenziali” chiusi L’isolamento della residenza esistente sembra essere un problema tabù, che non interessa a nessuno, ma passeggiando per il quartiere si percepisce il disagio di una convivenza forzata che privilegia i nuovi residenti. Un’altra questione importante sono gli spazi verdi che essendo in gran parte di proprietà private sono destinati alla nuova edificazione. La paura dei residenti, del vecchio quartiere Ursynow, è di essere privati del più rilevante se non unico valore dell’area. Il Comune di Varsavia non ha purtroppo gli strumenti adatti per controllare questi fenomeni poiché la “proprietà”, come accennato prima, dal 1989 è praticamente intoccabile, inoltre le scelte del governo attuale sembrano ancora una volta favorire più gli affari dei costruttori e assecondare l’andamento del mercato immobiliare che la qualità urbana e la qualità della vita dei residenti. Justyna Soltysiuk 5 Varsavia: strategie metropolitane e politiche abitative 7. Conclusioni La debole politica abitativa in Polonia è il risultato non solo dell’autoritarismo del sistema centrale degli ’50-‘80 ma anche di una fase di transizione degli ultimi vent’anni del sistema politico concentrata non sulle esigenze degli abitanti ma sul libero mercato. L’attuale dinamismo dell’economia nazionale, anche in questo periodo di crisi, è dovuto ad uno sviluppo delle politiche a sostegno dei investimenti nazionali e ai finanziamenti europei che comprendono però in piccola parte le ricerche e le azioni per uno sviluppo sostenibile del territorio inserite nella programmazione internazionale come Agenda 21, Protocollo di Kyoto, Habitat Agenda o Carta di Lipsia. La mancanza di una legislazione nazionale e regionale nel campo del recupero urbano e l’insufficienza di essa per quanto riguarda il nuovo edificato, indirizza infatti lo sviluppo di Varsavia e di altre città polacche verso i modelli nordamericani o dell’America Latina dove domina l’individualismo e la separazione per classi sociali. La tendenza delle gated communites non è solo una caratteristica della nuova edilizia poiché la chiusura dei cortili interni dei palazzi esistenti o dei quartieri di case unifamiliari già esistenti, attraverso la sbarra di accesso sulla strada interna sono fenomeni che si stanno sviluppando sempre di più in Polonia. La ghettizzazione, l’isolamento, la separazione sono questioni sociali che limitano la comunicazione, la collaborazione e di conseguenza non possono essere la base di una comunità urbana sostenibile, cosciente del proprio spazio e della propria gestione. La convivenza dei nuovi modelli residenziali con quelli esistenti è essenziale per procedere verso uno sviluppo urbano equilibrato e consapevole. Gli architetti ed urbanisti polacchi attualmente sollecitano il governo perché sviluppi una vera politica abitativa, che finalmente indirizzerebbe lo sviluppo delle città polacche verso un’economia dinamica ma nello stesso tempo rispettosa del territorio e dei suoi abitanti, semplicemente verso un XXI secolo innovativo. Bibliografia Avermaete, T. (2007), Another The post-war architecture and urbanism of Candilis-Josic-Woods, Nai Publishers, Rotterdam di Biagi, P.(2008), La città pubblica. Edilizia sociale e riqualificazione urbana a Torino, Allemandi, Torino Garano, S. cura di (1990), La riqualificazione delle periferie nella città europea, Politiche, strumenti, esperienze, Edizioni Kappa, Roma Housing 1.(1987), Progetto della residenza nei primi anni ’80, Politecnico di Milano Farinella R., Ronconi M.(2006), Politiche dell’abitazione e qualità urbana. Esperienze Europee, rapporto CITER UNIFE Franz G. (2005), La riqualificazione continua. Strumenti, pratiche e problemi della trasformazione urbana in Italia, Alinea editrice, Firenze Janikowska, K. cura di (2004), Housing Co-Operatives in Poland, Bydgoszcz Molski P. (1988), Mieszkalnictwo a przemiany przestrzenne miasta. Warszawa 1945-1980, PWN, Warszawa Lorens,P. (2007), Rewitalizacja miast w Polsce: pierwsze doswiadczenia, Urbanista, Warszawa SAIE ’78 , Housing in Europa prima parte 1900-1960, Edizioni Luigi Parma, Bologna SAIE’79, Housing in Europea seconda parte 1960-1979, Edizioni Luigi Parma, Bologna Samonà,S. , Mario Manieri – Elia cura di, (1973) La casa popolare degli anni’30, Marsilio editori, Venezia Spagnoli L. cura di (1976), Olanda ’76 politica della casa, industrializzazione edilizia e qualità ambientale, Edizioni Luigi Parma, Bologna Śliwa, Z.(2008), Housing Co-opeartives in Poland, Bydgoszcz Petrillo, A.(2000), La città perduta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Edizioni Dedalo, Bari Rogers R, Power A., (2000), Urban Task Force, Cities for a small country, London Weclawowicz, G. , Kozlowski, S., Bajek,R. (2003), Large housing estates in Poland. Overview of developments and problems in Warsaw. RESTATE Restructuring Large-scale Housing Estates in European Cities. Good Practices and New Visions for Sustainable Neighbourhoods and Cities, Utrecht Weclawowicz, G., et al. (2009), Atlas Warszawy. Zeszyt 11. Warszawa w swietle Narodowego spisu Powszechnego 2002, PAN IGiPZ, Warszawa Zaniewska H.et all, (2005), Mieszkalnictwo dla ubogich w zrownwazonym rozwoju miast: społeczna, integracyjna i urbanistyczna polityka mieszkalnictwa: stan i kierunki działań, Kraków Justyna Soltysiuk 6 Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio Anna Todros Abstract A partire del rapporto tra una società sempre più individuale e frammentata e la persistente ricerca di nuovi modi di vivere insieme, il mio testo pone, attraverso l’esplorazione di tre casi studio, alcune questioni sul ruolo dello spazio nel generare un legame tra individualità e stare assieme. La tesi che vorrei discutere è che nuove ed interessanti forme di convivenza hanno luogo entro l’abitare contemporaneo. E, rovesciando la prospettiva, che sia possibile usare la nozione, plurale e in un certo senso opaca, di convivenza per sondare e comprendere più a fondo l’abitare contemporaneo e le culture progettuali che ad esse si rapportano. Questa mia esplorazione ha portato all’identificazione di tre differenti forme di convivenza. Riscritture della nozione di comunità contraddistinte da alcuni caratteri propri, riconducibili a figure idealtipiche, costruite attraverso dispositivi specifici e portatrici di diversi gradi di innovazione. 1. La nostra società viene descritta come una società individualizzata, i cui membri sono singoli individui impegnati nella realizzazione di istanze particolari. Il passaggio dal mondo della produzione, ove ciascun individuo considerato singolarmente non può che risultare incompleto, all’universo del consumo, ove il ruolo della socializzazione viene ridotto al minimo e ciò che conta è la singola esperienza (Bauman, 2008), porta al centro della scena sociale l’individuo senza più quei legami forti che in passato lo posizionavano ben saldo nella società. Nonostante questi consistenti processi di individualizzazione e frammentazione, non appare altresì difficile cogliere una tensione verso forme di condivisione e convivenza. Uno «stare fianco a fianco e marciare allo stesso passo» che non necessariamente assume i caratteri duri di alcuni approcci neo-comunitaristi, dove il legame è ancora quello tra «sangue e suolo». Né si tratta soltanto delle implicazioni del multiculturalismo, poiché lo stare assieme sembra avere ragioni che vanno al di là di specificità etniche o religiose e mettere al centro valori che non si esauriscono nella tolleranza. Ancora non si esplicita unicamente nell’espressione di comunità volontarie, in quanto il desiderio di vivere insieme non sempre è esito di una scelta e raramente coinvolge un intero progetto di vita. Assistiamo piuttosto a forme più leggere di aggregazione locale, ad una nuova necessità e a una ritrovata fiducia nei vantaggi della vicinanza, e ad una persistente ricerca di nuovi modi di vivere «individualmente insieme». Nuove forme dello stare insieme possono darsi in modi e su piani diversi. Quelle che vorrei osservare attengono l’abitare contemporaneo. Sebbene questo termine circoscriva uno spazio concettuale e di pratiche assai ampio, costituisce nondimeno un campo delimitato entro il quale condurre la ricerca. Il tema dell’abitare è qui inteso in un’accezione estesa (che va al di là delle sue politiche e dei meccanismi di produzione della casa) ed è osservato dall’angolazione delle pratiche, intese come “ciò che la gente fa”. L’abitare è, in questa ottica, la capacità di insinuarsi in uno spazio dato, rendendolo proprio; di introdurvi una creatività, pur senza travalicarne i confini. Entro questa prospettiva, l’abitare coincide con un atto, una relazione complessa con l’ambiente, una capacità di risposta a condizioni date che va dalla ricezione passiva, subita, indifferente, fino a quella ostile e conflittuale. Manovre tattiche (De Certeau, 1990), capaci con le proprie astuzie di approfittare delle occasioni e utilizzare ciò che viene imposto per comporre storie originali e produrre spazio. Le tematiche dell’abitare sono recentemente tornate a catalizzare l’attenzione all’interno delle nostre discipline, dopo un periodo in cui sembravano aver perso parte della propria rilevanza. Una fiducia, a partire dal dopoguerra, relativa al progressivo miglioramento delle condizioni abitative e l’allargamento delle classi proprietarie (fenomeno ben visibile, ad esempio, nel diffondersi della dispersione insediativa) hanno per alcuni anni offuscato la centralità del tema. Rispetto al passato le condizioni appaiono assai mutate e diverse ricerche hanno mostrato come oggi si abiti in modo diverso: assistiamo ad una pluralità di forme – di comportamenti, abitudini e immaginari dei più svariati – 1 Anna Todros Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio che rendono difficile, e forse poco significativo, ogni tentativo di categorizzazione. Non vi è più, ad eccezione dei casi di maggior disagio, una corrispondenza netta tra le forme dell’abitare e i profili sociali. Diventa sempre più complesso individuare uno spazio dell’abitare unitario e condiviso, laddove sono sempre più numerosi coloro i quali – per motivi dei più svariati: lavoro, studio, salute, divertimento – si spostano ed abitano più luoghi, dando origine a particolari soluzioni biografiche. I consueti modelli dell’abitare, sistemi rigidi che rimandano ad una concezione della casa come luogo separato, depositario dei valori della famiglia e prodotto entro un meccanismo di mercato tradizionale, non sembrano essere più adeguati. Cambia la famiglia, il lavoro, la relazione con i luoghi, le forme di mobilità e con essi le pratiche dell’abitare. Entro questo panorama è però possibile osservare una discrasia tra la molteplicità delle forme e la rigidità entro cui queste sono trattate: la casa sembra rimanere pressoché immutata, codificata in un modello ormai formalizzato da tempo, mentre il mutamento delle pratiche abitative si realizza essenzialmente attraverso una diffusa attività di reinterpretazione degli spazi, di piccoli adattamenti, di recupero di spazi “altri”. La pluralità delle forme pone problemi di compatibilità/incompatibilità, riconfigurazione e tolleranza. Può venir espressa attraverso nuove forme di convivenza e diventa dunque fertile terreno di indagine entro cui interrogarsi sulla possibilità di instaurare un collegamento tra individualità e stare assieme. 2. La tesi che vorrei discutere è che nuove ed interessanti forme di convivenza hanno luogo entro l’abitare contemporaneo. E, rovesciando la prospettiva, che sia possibile usare la nozione, plurale e in un certo senso opaca, di convivenza per sondare e comprendere più a fondo l’abitare contemporaneo e le culture progettuali che ad esse si rapportano. Il tema di ricerca è stato, da subito, indagato attraverso l’esplorazione di alcuni casi studio. Situazioni sintomatiche che permettono di aprire interrogativi e riformulare domande. Sono casi tra loro molto diversi, che appartengono a contesti specifici e non hanno nulla in comune per moltissimi aspetti. Tre modalità dello stare assieme; tre consistenze dello spazio; tre forme del progetto e delle politiche. Sono altresì situazioni capaci di esprimere nuove forme di convivenza, permettendo dunque di sollevare alcune questioni di interesse. Questa mia esplorazione ha portato all’identificazione di tre differenti forme di condivisione. Riscritture della nozione di comunità contraddistinte da alcuni caratteri propri, riconducibili a figure idealtipiche, costruite attraverso dispositivi specifici e portatrici di diversi gradi di innovazione. Nomino queste forme come convivenza per separazione, per contrapposizione e per differenza. Si tratta di tre forme di distinzione: la prima mette in evidenza una chiusura e una presa di distanza rispetto ad un “esterno” che svela omogeneità interne; la seconda una contrapposizione forte rispetto ad un corpo sociale più esteso; la terza una condizione consapevole ma non omogenea di alterità. Per illustrare queste tre condizioni è utile richiamare molto brevemente le situazioni nelle quali sono indagate e riassumerne poi le connotazioni nei quattro punti sopra richiamati: caratteri, figure, dispositivi e gradi di innovazione. 3. Comunità per separazione Spina 3 – con una superficie di 1.002.956 mq, ossia circa sei volte quella occupata dallo stabilimento Fiat Lingotto e un terzo dell’intera Fiat Mirafiori – rappresenta il principale ambito di trasformazione del Piano Regolatore della Città di Torino. Si tratta del vecchio distretto delle Ferriere, sorto a cavallo del fiume Dora a nord-ovest della città, in adiacenza al centro storico. Un’area che fino a qualche tempo fa era interamente occupata dalle acciaierie ed ora costituisce, per estensione e ancor più per concentrazione di diritti edificatori, quasi la metà dell’intero asse di rinnovamento costituito dalla Spina Centrale, di cui è parte integrante. Caratteri_ In questa nuova parte di città, costruita nel giro di pochissimi anni e subito popolata da nuovi residenti, per quanto fatichino a formarsi relazioni dense tra abitanti, pratiche e spazi, non si può dire che non vi sia alcun senso di condivisione e di comunanza. Qualcosa di simile è rintracciabile: generato quasi sempre dalla scelta di abitare in questa parte della città. E’ un vedersi assieme negli stessi luoghi, un riconoscersi. Qualcosa di diverso dall’appartenere ad un’unica comunità. Piuttosto un essere-in-comune che a Spina 3 si gioca principalmente sugli stessi tempi di arrivo ed è rafforzato da aspetti generazionali, tipologie familiari e analogie di reddito. Abitare a Spina 3 sembra per molti rappresentare un fattore di definizione della propria identità e posizione sociale. Si tratta di comunità a tempo, quelle che Bauman chiama «comunità gruccia», fondate su preoccupazioni condivise: qualcosa su cui appoggiare inquietudini vissute individualmente. Nelle palazzine denominate Isole che si differenziano una dall’altra unicamente per variazioni cromatiche, nella sequenza verticale dei balconi dei grattacieli sui quali è attrezzato il medesimo posto a tavola, ripetuto e assolutamente individuale, si coglie la volontà di trovare temporaneo rimedio ai disagi dell’incertezza eliminando le differenze, riducendo le possibilità di incontrarne, garantendosi «un livello minimo di varietà in un mare di identicità». Le insicurezze si traducono, 2 Anna Todros Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio nell’esperienza quotidiana, in un aumento del valore del luogo dove si vive. E la difesa del luogo diventa il mezzo per raggiungere la sicurezza. E’ un’unitarietà incentrata sulla divisione, sulla segregazione, sul mantenere le distanze. Una comunità che si forma per separazione, piuttosto che per contrattazione. Spina 3 rimanda dunque ad una definizione debole di comunità che gioca su soddisfazione e fiducia e si protende verso il futuro. Figure_E’ il pioniere, colui che apre la via nell’esplorazione di nuove terre, che va incontro a difficoltà e disagi per essere il conquistatore di una nuova parte di città. Il senso di comunanza si esprime allora nella condivisione di quelle piccole astuzie a cui si è costretti per vivere in un luogo che è solo parzialmente definito, per essere i pionieri della nuova Torino. Costretti ad una sorveglianza fai-da-te (come succede in via Val della Torre, in cui gruppi di condomini si ritrovano la sera per ispezionare gli spazi comuni) che è anche espressione del sentirsi abbandonati in una parte di città per molti aspetti ancora incerta. Lo zig-zag tra le lamiere dei cantieri, la scoperta dei percorsi più brevi per oltrepassare le recinzioni, le forme minute di appropriazione dello spazio. Si tratta di condividere esperienze analoghe, ma soprattutto spazi di vita egualmente strutturati. Dispositivi_ A spina 3 è il mercato ad aver determinato la configurazione dello spazio, così come la selezione degli abitanti. Uno spazio rigidamente scandito, dove le grandi corti interne agli edifici sono aree collettive chiuse e rigidamente definite, a loro volta circondate e separate da una bordura di piccoli spazi privati, microscopici giardini, depositi di giochi, spazi di servizio, trattati come estensione dell’appartamento e ancora più rigidamente sottratti a violazioni e intrusioni. Un pezzo di città progettato come quartiere a mezzo di un disegno insediativo completamente rivolto al proprio interno, che non tenta una ricucitura con il tessuto urbano circostante, ma anzi si direbbe guidato dai principi di autonomia e autosufficienza dell’ideologia funzionalista dei primi decenni del dopoguerra (tanto che, nelle sue rappresentazioni, sparisce tutto ciò che riconduce alla sua posizione nella città). Risultato di una trasformazione che ha imposto continue delimitazioni e confini, il cui prodotto è la frammentazione. Una frammentazione poco porosa, più simile a un puzzle dove le tessere coincidono. Gradi di innovazione_ La condivisione che si è generata a Spina 3 è strettamente legata all’abitare in un complesso ben riconoscibile. I differenti comprensori che compongono l’area sono distinguibili l’uno dall’altro e rispetto alla città circostante per l’autorevolezza del progettista, per i caratteri morfologici, per essere il prodotto di determinate politiche. Il generarsi di una comunità non sembra, in questo caso, legata alle condizioni della città contemporanea (che ne è lo sfondo, ma non l’innesco), ma rimanda alla politica, non certo innovativa, del grande quartiere di trasformazione e ai suoi materiali (i complessi residenziali più o meno firmati). Comunità per contrapposizione A Ginevra, il quartiere di Les Grottes è un’area adiacente la stazione ferroviaria, territorialmente circoscritta, che è stata testimone, negli ultimi quarant’anni, dell’appropriazione abusiva di molti degli alloggi. In una prima fase parzialmente regolarizzata dall’amministrazione (che, in assenza di un’urbanistica alternativa, pone l’accento sul carattere sperimentale, attribuendo un valore), oggi la crisi immobiliare che attraversa la città rende il processo più complesso. Caratteri_Gli accessi a Les Grottes sono duramente segnati. Entrando nel quartiere dalla Rue de la Servette (che, più a nord, prende il nome di Rue de Meyrin e costituisce una della principali vie di ingresso alla città), ma anche più a sud, dalla stazione, la presenza di dissuasori, il cambio di pavimentazione, così come la segnaletica che preannuncia norme comportamentali specifiche, marcano una differenza di questo luogo rispetto a ciò che gli sta intorno. Il suolo appare modellato: la frequente presenza di dislivelli, rampe e gradini contribuiscono alla perdita della percezione della consueta inclinazione del suolo, che a Ginevra declina verso il lago, lasciando invece cogliere una maggiore articolazione. Il complesso degli Schtroumpfs, che si riconosce per le coperture tondeggianti e le forme irregolari, è costituito da appartamenti di taglie e composizioni diverse, personalizzate in funzione di chi ci vive. Queste sono alcune delle caratteristiche che ci permettono di individuare a Les Grottes una riconoscibilità che si dà per differenza e che si manifesta per sottrazione rispetto alla altre parti della città. Una sovrascrittura del luogo che si mostra attraverso l’uso della vegetazione e l’enfasi nel definire delle soglie. La marcata esibizione di un’eccezionalità a cui si somma una volontà di difesa nei confronti dell’intorno ci porta ad individuare a Les Grottes un forte senso di appartenenza nei confronti del proprio territorio da parte di chi vi abita. Territorio espressamente scelto per condividere beni comuni, per declinarvi un’idea del buon vivere, aspetti di socialità che non sono del resto della città. Una riconoscibilità rispetto al resto della città che non è separazione, bensì contrapposizione intesa come affermazione di una differenza culturale: diversamente da quanto accade altrove, la comunità di Les Grottes sembra essere una comunità non solo scelta in modo consensuale e dove al giudizio degli altri ci si sottopone volontariamente, ma anche specificatamente sorta sotto la bandiera di ideali comuni, dove il vivere insieme e secondo determinati modelli ha innanzitutto una forte valenza politica. Un’eccezionalità dunque che, nelle modalità di trattamento dello spazio, viene apertamente esibita e che mostra la volontà di Les Grottes di distinguersi del resto del territorio ginevrino. Una definizione forte di comunità che gioca sull’alterità orgogliosa e mette al centro i caratteri di reciprocità. Figure_ L’Urban Bricoleur, così come descritto dall’Everyday Urbanism, è colui che crea il proprio spazio, «che 3 Anna Todros Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio partecipa, si immerge in un progetto senza fine, dove c’è sempre spazio per esprimere se stessi» (Houghton, 2008). Colui che attraverso gesti ripetitivi e banali solleva richieste ed esprime desideri che, se non possono essere soddisfatti, si faranno voce politica e porteranno a cambiamenti sociali. «Raccontando attraverso le scelte che opera tra un numero limitato di possibili il carattere e la vita del suo autore, pur senza mai riuscire ad adeguare il suo progetto, il bricoleur vi mette sempre qualcosa di sé» (Lévi-Strauss, 1962). Dispositivi_ In questo caso non sembra essere lo spazio ad avere contribuito a creare legami, ma, al contrario, esso sia stato modellato per ospitare le esigenze di una determinata comunità. Uno spazio dunque scelto proprio perché non ancora del tutto strutturato, che ben si presta ad essere riscritto poiché non cristallizzato nei propri valori, dove è possibile avere ancora libertà di movimento per dar corpo alla propria idea di comunità. Evidente il paradosso di un luogo siffatto nel cuore della città. Lo spazio qui è costruito come performance: in senso teatrale o artistico, come espressione di improvvisazione e coinvolgimento, ciò che non può essere progettato, ma lasciato libero di trovare la propria forma spaziale. Gradi di innovazione_ L’idea di comunità espressa a Les Grottes appare strettamente conservativa. Vi si ritrovano numerosi punti di contatto con le posizioni espresse, anche di recente, dall’Everyday Urbanism. Il testo di John Chase, Margareth Crawford e Jal Kalinski, ripubblicato in una versione ampliata nel 2008, propone situazioni abitative del tutto simili a quelle di Les Grottes. Panche nel giardino, vegetazione spontanea, uso “domestico” dello spazio di tutti, sono giocati contro il disegno dello spazio pubblico tradizionale. Sulla distinzione specifico-generico, in favore di una riscrittura forte dello spazio. In una prospettiva, venata da un certo idealismo, attorno ai temi della social equity, della cittadinanza e della partecipazione. Comunità per differenza San Salvario è una porzione della città di Torino posta a ridosso del centro storico: un rettangolo lungo e stretto definito alla base dall’asse di corso Vittorio, e compresso sui due lati dalla stazione di Porta Nuova e dal parco del Valentino. Al centro corre via Madama Cristina, strada commerciale che si estende verso sud, sino a raggiungere la zona degli ospedali. Caratteri_ Gli abitanti di San Salvario, così come le loro attività, sono contraddistinti da un notevole livello di mixitè, anche a causa di un effetto di sostituzione sempre graduale e parziale della popolazione. All’interno di un unico comparto risiedono anziani proprietari di abitazioni di pregio, studenti in coabitazione, artigiani, commercianti, famiglie di stranieri ormai integrate e immigrati irregolari spesso risucchiati da circuiti malavitosi, contribuendo a comporre un tessuto sociale particolarmente variegato e vitale, e a definire un’abitare, che nelle sue specificità, appare fortemente connotato. Nel corso degli anni novanta il quartiere si è posto al centro dell’attenzione per una situazione diffusa di criminalità e insicurezza, noto come luogo di spaccio di stupefacenti e prostituzione, sede del progressivo degradarsi dell’ambiente urbano, nonché teatro di conflitti tra residenti e frequentatori del quartiere e interventi repressivi da parte delle forze dell’ordine. A quindici anni di distanza l’immagine di San Salvario è considerevolmente mutata: i prezzi degli appartamenti sono cresciuti; molte attività commerciali sono state inaugurate; nuove popolazioni hanno scoperto e ripopolato il patrimonio edilizio; gli storici abitanti hanno ricominciato (chi più timidamente chi meno) a percorrere sereni le vie del proprio quartiere. Tanto che, recentemente, San Salvario è tornato ad occupare la prima pagina della cronaca cittadina: ad essere al centro della contestazione questa volta è il rumore, gli schiamazzi provenienti dai locali notturni. Il fatto che siano stati due eventi mediatici a consacrare San Salvario come luogo di criminalità e insicurezza dieci anni fa e come polo della vita notturna oggi è innanzitutto indicativo del cambiamento, messo eloquentemente in evidenza da conflitti di così diversa natura, da uno slittamento di campo. Se in una prima fase i problemi erano legati alla concentrazione di pratiche illegali, oggi rimandano a quelli che Gorz definirebbe «problemi ecologici». Dal rumore alla pulizia, quei problemi che scassano l’habitat e la quotidianità. E’ la rottura di una routine, di quelle «forme dell’agire collettivo le cui regole vengono date per scontate fintantoché funzionano», e che, una volta spezzate, conducono all’insorgere di conflitti e alla necessità di un riorientamento dell’agire. Portano ad un uso politico delle pratiche quotidiane. San Salvario non mostra né separazione, né contrapposizione con il resto della città, ma appare segnata da un grado di turbolenza interna che distingue questa situazione da altre, anche agli occhi di chi sceglie di abitarvi. La varietà, la mescolanza sociale che ha sempre caratterizzato questa parte di città adiacente la stazione, è diventata, nel corso degli ultimi anni, carattere distintivo. Sfoggiato dagli abitanti con un certo orgoglio nella misura in cui sottende la capacità di convivere con culture differenti. Una convivenza che, attraverso scambi fitti e intensi, diventa spesso comunanza, senza per questo escludere un certo grado di conflittualità. E’ apprezzamento di quei caratteri specifici dell’abitare che sono generati dalla mixitè, senza essere esenti da contrapposizione e conflitto. Dove la presenza del conflitto non allontana come in passato, ma è intesa come espressione di una connotazione sociale apprezzabile. San Salvario rimanda ancora ad una definizione debole di comunità che gioca sull’articolazione interna. Dove l’aspetto importante appare l’espressione di ritmi individuali e disordinati entro configurazioni collettive, quelli che Barthes definisce «idiorritmi». 4 Anna Todros Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio Figure_In questo caso identificare un idealtipo appare più complesso e credo possa essere utile far riferimento a più di una figura: sono il cosmopolita ed il locale, così come li descrive Hannerz (nel testo La diversità culturale, facendo riferimento a Merton). Il cosmopolita fa un uso selettivo dello stare in un posto; il locale no. Al primo il luogo serve per tenere aperto l'orientamento espansivo verso il mondo esterno; il secondo vi è radicato. Il primo vive la casa solo come "una delle svariate fonti del proprio universo significante personale non tanto diverso da altri e si compiace della propria abilità sia di arrendervisi sia di padroneggiarlo". Ciò che è interessante è come sia l’insieme di queste due figure che “garantisce un certo grado di coerenza”. “A casa”, nel luogo dove abita il cosmopolita, la maggior parte degli altri si compone di locali. La fiducia, tra i due, non è accordata normalmente, ma si basa su prospettive condivise, ma, al contempo, è la loro separazione che permette ad entrambe di trarre profitto. Dispositivi_ La conformazione ottocentesca del tessuto edilizio – in cui ogni edificio racchiude una serie di spazi molto differenti tra loro: dalle botteghe artigiane a piano terra, alle mansarde nel sottotetto, passando per le grandi metrature del piano nobile – ha favorito la commistione di abitanti dalle origini culturali, etniche e sociali delle più diverse. Il sovraffollamento di alcune soffitte convive con le stanze vuote di alloggi abitati da coppie senza più figli, e ancora con la suddivisione di alcuni appartamenti ad opera di giovani che li adattano alle loro esigenze di coabitazione. La permeabilità agli usi del tessuto residenziale è dunque il dispositivo che contribuisce a costruire le modalità di interazione. Gradi di innovazione_ Nel corso di dieci anni San Salvario è stato protagonista di un processo di riqualificazione che ha visto nascere molteplici nuove attività e sviluppare potenzialità attrattive nei confronti di diverse fasce della popolazione, senza per questo cambiare radicalmente la sua natura. Ciò a cui assistiamo sembra essere una diversa forma di gentrification, meno aggressiva e avvolgente di quella descritta da Ruth Glass negli anni sessanta e che siamo ormai abituati a riconoscere in molte aree centrali delle nostre città. Un cambiamento della popolazione graduale, che avviene a partire dalla porosità del tessuto edilizio, capace di accogliere intrusioni minute, esito di azioni incrementali e individuali. Se spesso si investe nella riqualificazione edilizia nella speranza di innescare anche una riqualificazione sociale, a San Salvario è, per certi versi, avvenuto il contrario: ha avuto luogo una mineralizzazione del cambiamento sociale. Il depositarsi di una trasformazione attraverso una riqualificazione puntuale degli spazi dell’abitare e dei luoghi del commercio. 4. La convivenza in una società individuale è una condizione, per alcuni versi contraddittoria, che può essere considerata acquisita e su cui numerosi studi hanno insistito. Rimane tuttavia poco esplorato un aspetto rilevante che ritengo possa essere utilmente indagato: quanto lo spazio ed il progetto che lo assume come oggetto entrino nella definizione di nuove forme dello stare insieme. Quanto essi siano in grado di rendere visibili ed intellegibili le nuove forme di convivenza. I casi che ho brevemente esposto aprono alcune questioni inerenti il mio tema di ricerca. Portano ad interrogarsi su quale sia il ruolo dello spazio: quanto la morfologia interagisca, quanto competa al progetto. Ancora, portano a ragionare sulle culture progettuali – intese come insieme di opzioni, convinzioni e argomenti che orientano l’azione – sulle modalità entro cui queste trattino (generino e siano generate da) nuove forme dello stare insieme. Spina 3 aiuta a mettere a fuoco una dinamica che certo non è nuova, mettendo in evidenza come la tipologia entri come elemento rilevante nel creare condizioni di comunanza, offrendo elementi di riconoscibilità entro strategie di distinzione (Bourdieu 1983). In questo caso sembra essere il mercato ad aver determinato la selezione degli abitanti, così come a segnarne le modalità di interazione. Les Grottes è dimora di una comunità radicale, i cui membri condividono beni comuni. Una pluralizzazione fortemente connessa all’indignazione e alla delusione legate ai primi movimenti d’occupazione. Lo spazio conquistato è uno spazio morbido, scelto dagli abitanti proprio per la sua conformazione, malleabile abbastanza da permetter loro di vivere come comunità. San Salvario e la sua vicenda rammentano come il conflitto possa essere «produttore efficiente di integrazione e di coesione» (Hirschman, 1994). Una condivisione degli spazi indizio di una’abitare fortemente connotato, dove è la mixitè che diventa elemento di comunanza. Le mie conclusioni attengono dunque le modalità entro cui viene coinvolto lo spazio. Nel primo caso lo spazio conta. Ma relativamente. Ci si trova a condividere traiettorie a partire da scelte mediate dal mercato. Nel secondo conta infinitamente di più. Lo spazio è spazio appropriato, riscritto. La comunità non può che essere situata qui. Nel terzo è il conflitto sullo spazio che genera coesione, per quanto lo spazio stesso finisca per divenire lo sfondo e altre condizioni appaiono altrettanto rilevanti nel generare turbolenza. 5 Anna Todros Tre differenti forme di convivenza: una lettura a partire dallo spazio Bibliografici Bauman Z., (2008). Individualmente insieme. A cura di C. Leccardi. Reggio Emilia, Diabasis. Bauman Z., (2001). Voglia di comunità, Laterza, Bari. Bianchetti C., Todros A. (2009). “Processi di trasformazione e difficoltà del progetto urbano”. In: AA. VV. Torino che cambia. Dalle Ferriere alla Spina 3. Una difficile transizione. Edizioni Angolo Manzoni, Torino. Bianchetti C., a cura di (2009), “Abitare la città contemporanea”, Archivio di Studi urbani e regionali, n. 94. Bourdieu P., (2001). La distinzione. Critica sociale del gusto. Il Mulino, Bologna. (ed. or. 1979). Chase J., Crawford M., Kaliski J. (2008), Everyday Urbanism, The Monacelli Press, New York. Crosta P.L., (2007). “Interrogare i processi di costruzione di ‘pubblico’, come ‘prove’ di democrazia”, in Pellizzoni L., Democrazia locale. Apprendere dall’esperienza, ISIG, Gorizia,. Crosta P.L.,(2006). “L’abitare itinerante come ‘pratica dell’abitare’: che costituisce territori e costituisce popolazioni. Politicità delle pratiche”, dattiloscritto. de Certeau M., (2001). L’invenzione del quotidiano, Edizioni del lavoro, Roma, (ed. or. 1990). Gorz A., Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009. Hannerz U. (2001), La diversità culturale, Il Mulino, Bologna (ed. Or. 1996). Lévi-Strauss C., (1996). Il pensiero selvagio, EST, Milano, (ed.or. 1962). 6 Anna Todros Ristrutturare la metropoli: energia, stili di vita, mixité Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza Roma, 25-27 febbraio 2010 Planum - The European Journal of Planning on-line ISSN 1723-0993 Ristrutturare la metropoli: energia, stili di vita, mixité Paola Viganò Dipartimento di urbanistica, Università Iuav di Venezia Iuav, [email protected] Premessa Tre temi principali definiscono probabilmente oggi una nuova “questione urbana”1, tre situazioni di crisi connesse alla progressiva crescita delle distanze sociali; all’estremizzarsi dei rischi ambientali, alla crisi profonda nella quale versano molte economie locali e globali. La questione è urbana perché essa assume grande evidenza in ambiente urbano; ma è certamente urbana perché tale è la condizione nella quale vive la maggioranza della popolazione mondiale e perché è sempre più raro che le pratiche non lo siano, anche quando investono territori che apparentemente non lo sono. La prima crisi solleva un problema di giustizia spaziale, di equità, di localizzazione e distribuzione geografica, di posizione nello spazio, di forme e figure spaziali che introducono differenze, isolano o distanziano; un tema che da qualche tempo riemerge nel dibattito accademico2 e che eredita, in un contesto del tutto diverso, le riflessioni di Henri Lefebvre e della geografia radicale degli anni ’70. La crisi ambientale porta allo scoperto il problema di una sua soluzione democratica (environmental justice) con una particolarità: se è vero che esistono popolazioni in aree a maggiore rischio, è altrettanto vero che la sua soluzione o sarà allargata al più grande numero, o non sarà. La terza crisi è da mettere in relazione alle forme più aggressive dell’economia neo-liberista ed è risultato ed espressione anche di un profondo malessere politico: richiede un nuovo impegno del progetto nell’arena pubblica capace di apportare nuova conoscenza. 1. Concentrazioni e nuove marginalizzazioni [paris ricchi e poveri] Le grandi aree metropolitane si trovano oggi al centro del dibattito. Che si tratti di Pechino, della Randstad o delle nuove metropoli emergenti, esse sono l’esito di un progetto economico e politico di nuova concentrazione, di mezzi, ricchezza, opportunità, a discapito del resto del territorio. Queste nuove aree di concentrazione hanno caratteri diversi, ma è possibile riconoscere somiglianze ed alcune famiglie3: due sono forme del passato, Parigi, capitale del XIX secolo, la città compatta e radioconcentrica che si propone come nuova natura; Hong Kong, capitale del XX secolo, la città verticale ad altissima densità, che al contrario di Parigi costruisce una relazione drammatica, ma sempre presente, con il contesto naturale. Due sono forme più recenti, anche se affondano le proprie ragioni nella storia lunga del territorio: la megacity del XXI secolo è il risultato di un lungo processo di 1 E’ a partire da questa constatazione che ha inizio la nostra ricerca sul Grand Paris. Dal maggio 2008 ad aprile 2009 dieci équipes multidisciplinari internazionali hanno affrontato lo studio dell’agglomerazione parigina e, allo stesso tempo, sono stati invitati a riflettere sulla metropoli del XXI secolo, “dopo Kyoto”: un compito complesso e non facile da definire. Sono molti i modi nei quali la ricerca svolta può essere raccontata ed uno di questi è partire dalle ipotesi progettuali avanzate da una delle équipes selezionate: dal progetto di una “metropoli porosa”, che favorisce la percolazione della biodiversità e della società all’interno dei suoi spazi, che utilizza le potenzialità di una città di strati e che si trasforma per stratificazione. STUDIO 09 Bernardo Secchi, Paola Viganò con A. Calò, D. Ming Chang, T. Cos, N. Fonty, A.Pagnacco; L. Fabian, E. Giannotti, P. Pellegrini, IUAV; Ingenieurbüro Hausladen GMBH (G. Hausladen, J. Bauer, C. Jacobsen , C. Bonnet, R. Fröhler); MIT and P-REX/ Clemson and P-REX, A. Berger, C. Brown; MOX, A. Quarteroni, P. Secchi, C. D’Angelo, F. Nobile, F. Della Rossa; PTV France, F. Reutenauer, F. Prybyla, M. Lenz; European Master in Urbanism (EMU), Fall semester Design Studio, 2008-2009, Università IUAV di Venezia, guidance B. Secchi, P. Viganò. In questo testo riprendo anche le mie conclusioni all’IFOU Symposium, TU Delft, novembre 2009. 2 Justice spatiale/spatial justice n.1, settembre 2009, in particolare si vedano i testi di Edward Soja, Susan Feinstain, Peter Marcuse. Si veda anche Pirie G H, 1983, "On spatial justice", in Environment and Planning A n.15 (4). Recentemente Bernardo Secchi nel testo della relazione al Swiss Spatial Sciences Framework (ETH, Zurich, 19 Novembre 2009) scrive “ricchi e poveri non sono categorie che si specchino. Cio’ che definisce la ricchezza ed il suo spazio non è sempre cio’ che definisce, in senso negativo, la povertà ed il suo spazio. Paradossalmente cio’ che definisce lo spazio della povertà è spesso irrilevante per la definizione spaziale della ricchezza. Non solo, lo spazio in-between, fisico e sociale, ha come è noto un ruolo importante nell’occultare situazioni estreme” “I dispositivi fisici e le politiche spaziali costruiscono diversi capitali spaziali per i diversi gruppi sociali.” 3 Secchi B., Viganò P., I rapporto Paola Viganò 1 Ristrutturare la metropoli: energia, stili di vita, mixité trasformazione territoriale interpretato, all’inizio del XX secolo, introducendo un nuovo termine, conurbation, poi megalopolis, zwischenstadt, città diffusa, territori della dispersione insediativa…. Di questa nuova metropoli possiamo riconoscere almeno due diverse configurazioni. La prima è interconnessa e infrastrutturata alla scala regionale: la North Western Metropolitan Area ne è un esempio. L’idea moderna di gerarchia e di razionalizzazione vi si sono realizzate in modi estesi. Il prezzo pagato è stato la perdita di connessioni orizzontali, la zonizzazione radicale, la forte specializzazione, clusterizzazione e segregazione dello spazio. La seconda configurazione della nuova megacity è quella di territori meno o poco infrastrutturati, che possono contare su un supporto meno gerarchizzato ed orizzontalmente connesso. Appartengono a questa declinazione, spesso interpretata nei termini di sottosviluppo, alcuni territori europei (tra questi numerosi italiani) e molti non europei4. Le due forme della metropoli del XXI secolo sono oggi poste di fronte a diversi e consistenti paradossi. L’ipotesi che abbiamo avanzato nella ricerca sul territorio del Grand Paris è che solo le metropoli capaci di reagire alle crisi prima richiamate continueranno ad essere attrattive e competitive in futuro. Le quattro diverse forme di metropoli stanno approntando strategie e richiederanno approcci specifici: è nelle metropoli e nelle megacities del XXI secolo che la nuova condizione urbana potrà essere sperimentata. Tuttavia, il risultato del processo di concentrazione in corso è la creazione di nuove marginalità: marginalità interne alle metropoli, come ben mostra il caso del Grand Paris, ma anche nuovi territori marginali collocati al loro esterno. La conseguenza della forte attrazione di persone, flussi ed investimenti nelle grandi metropoli è la marginalizzazione di vasti territori inclusi nel passato nelle politiche di redistribuzione e di equità territoriale: le aree montane, ad esempio, di frontiera, le aree poco popolate… La concentrazione di investimenti nella città capitale o nelle maggiori aree metropolitane dei diversi paesi è considerata da molti esponenti dell’ondata neoliberista il solo modo per mantenere attrattività e partecipare alla competizione globale: dimenticando il ruolo dei centri secondari, pivots di ristrutturazioni più a mpie, o delle città medie ad esempio in una megacity come la Randstad5. Provando ad andare oltre queste critiche vorrei sostenere che nella condizione allo stesso tempo locale e globale nella quale ci troviamo, l’intero territorio ha un ruolo cruciale da svolgere. Non esiste solo un problema di equità e di redistribuzione, ma anche di sopravvivenza di territori, della necessità di mantenere il “lavoro morto” appoggiato, conficcato e stratificato in ogni territorio. Penso alle reti di irrigazione e di drenaggio, ad esempio, che potrebbero essere supporti di strategie innovative per affrontare la crisi ambientale e le conseguenze del cambiamento climatico6. Non possiamo accettare con tranquillità l’idea che una larga parte del nostro continente divenga semplicemente leisure, resort, attrazione turistica, perché ciò significa semplicemente ammetterne la dipendenza culturale ed economica, contribuire all’impoverimento e alla perdita del loro supporto spaziale e sociale. L’altra faccia delle politiche di investimento metropolitano e dei sempre più forti processi di polarizzazione in atto7 è il disinvestimento, l’abbandono, la ritrazione da altri luoghi. Un movimento circolare e perverso del quale solo in parte ci stiamo occupando e che richiederebbe molti più sforzi e risorse. Esso riporta in superficie concetti come quello di capitale fisso sociale, così come definito da Hirschman negli anni ’50, un capitale in questo caso fissato in un luogo, ma anche stabile, resistente, sul quale una popolazione può contare e che costruisce le condizioni per la riproduzione sociale, per potere, ad esempio, continuare ad abitare in quello stesso luogo8. Una grande parte delle agglomerazioni urbane sono oggi polarizzate, separate, divise da infrastrutture; sempre più profonde differenze sociali si rappresentano nello spazio e ampi territori, allo stesso tempo, si ritraggono. La concentrazione di risorse e di immaginazione nelle aree metropolitane rischia di nascondere la debolezza di altri territori, la fragilità degli elementi fondamentali del loro supporto, il loro difficile rapporto con pratiche che stanno mutando e talvolta li abbandonano. Credo che una critica più stringente dell’inevitabilità di questi fenomeni sia necessaria e possibile. 4 Pinzon Cortes C., Mapping Urban Form, Tesi di dottorato, TU Delft 2009 Rosemann, J., 2009, «Introduction», e Ovink H.W.J., 2009, Dutch Spatial Planning and Hierarchy in Rosemann J., Sepulved D., The New Urban Question, Urbanism beyond Neo-Liberalism, Ifou Rotterdam. 6 Si veda a questo proposito il paper Fabian, Pellegrini, Viganò nell’atelier 2. Progetti urbani, mobilità sostenibile e mercato immobiliare. 7 Si veda per il caso danese: Anne Tietjen, Towards an urbanism of entanglement, Tesi di dottorato, School of Architecture, Aarhus 2009 8 L’ipotesi, coltivata in alcune ricerche, è che la relazione tra gli elementi del supporto territoriale e le pratiche di uso quotidiane, il modo nel quale il territorio è usato, sia di fronte a grandi cambiamenti e che il progetto territoriale sia oggi uno degli strumenti fondamentali per ridefinire il territorio dell’architettura e dell’urbanistica. Si veda: Viganò P., 2008, "Water and Asphalt, The Project of Isotropy in the Metropolitan Region of Venice", Architectural Design, vol. 78; Viganò P. et al, 2009, Paesaggi dell’acqua/Landscapes of water, Risma, Pordenone. Si veda anche il caso di smart shrinking descritto da Hidetoshi Ohno in Fibercity as a Paradigm Shift of Urban Design, in The New Urban Question, cit. 5 Paola Viganò 2 Ristrutturare la metropoli: energia, stili di vita, mixité 2. Ecology and democracy [paris 100% recycle] L’emergenza ambientale non distingue tra aree ricche e quelle povere, anche se le sue ricadute non sono omogenee nelle diverse parti del territorio. Nella prospettiva del “dopo Kyoto”, questa condizione mette in luce un dilemma: non esistono soluzioni elitiste e limitate dei problemi ambientali, esse non avrebbero conseguenze durature e generali, se non allargate, comprensive, oltre che sistemiche e non frammentarie. Il punto è quindi la necessaria democratizzazione delle proposte e delle azioni che riguardano i temi ed i rischi ambientali. Fino a che punto è possibile rovesciare la questione ecologica in questione democratica? Per Saskia Sassen9 le « emerging globalities » sono la sfida ambientale e la « civic society ». Nella sua ipotesi di « delegare alla natura », l’ambiente urbano diventa un ponte tra ecologie multiple, non in opposizione, ma elemento di connessione, qualcosa di simile a ciò che gli ecologi immaginano sia la relazione tra città e biodiversità. La localizzazione della città è sempre stata, per ragioni ovvie, proprio nel bel mezzo delle aree più ricche di biodiversità, dove i suoli, l’acqua, il clima, la quota permettono alle diverse specie di svilupparsi. E’ proprio lì che le regioni urbanizzate si sono estese maggiormente e dove potrebbero essere ricercati i legami più forti tra dinamiche naturali e ambiente urbano. Un programma di ricerca, questo, oggi solo agli inizi e che porterebbe a modificare molte delle nostre pratiche progettuali10. In questo contesto, Saskia Sassen propone di utilizzare il cambiamento climatico come « connector », un rischio globale capace di definire nuove relazioni ed approcci: un catalizzatore concettuale, tecnico, sociale e politico. Così la complessià urbana ed ecologica diventa l’occasione di sviluppare « self sustaining homeostatic physical structures », trovate in natura e messe a contatto diretto con l’urbano, utilizzando la capacità di organismi viventi di mantenere un equilibrio stabile, al mutare delle condizioni esterne. La ricerca, tecnologica e scientifica, non è un revival dell’approccio organicista: la città non è un corpo, sebbene processi naturali coesistano ed intervengano accanto ad altri dinamiche, tra queste quelle sociali con le quali interagiscono. Gli scenari a proposito dell’acqua, dell’energia e della biodiversità costruiti nel corso della ricerca sul Grand Paris risentono di queste riflessioni e della difficoltà a coniugare sfida ambientale e soluzione democratica. Immaginare forme di mobilitazione individuale è forse uno dei modi, certamente non il solo e non da solo, per allargare ad un numero il più vasto possibile responsabilità e ricadute di azioni pensate per ridurre rischi e rafforzare l’ambiente. In ogni caso non si potrà trattare solo di iniziative top down. 3. Strategie: 100% recycle I maggiori consumi energetici in Ile de France sono associati agli edifici e al riscaldamento degli alloggi. Gli studi mostrano anche che l’ipotesi di concentrare gli sforzi sulle nuove costruzioni avrà effetti del tutto marginali sulla riduzione del consumo e l’immissione di CO2 in atmosfera.. Anche procedere per demolizioni e ricostruzioni non sarà la mossa più efficace dal punto di vista energetico, poiché l’energia grigia contenuta negli edifici esistenti andrebbe persa. Il grande progetto innovativo di miglioramento delle prestazione energetiche degli edifici è invece quello che immagina la ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente, la più estesa e radicale possibile. Non si tratta solo, come recitava uno slogan di alcuni anni fa, di costruire la città sulla città esistente, ma di una posizione di riuso radicale che può essere definita in estrema sintesi: 100% recycle. E’ questo lo scenario che abbiamo immaginato per il Grand Paris, indagando la possibilità di assorbire i nuovi alloggi richiesti da qui al 2030 in un progetto di riqualificazione e ristrutturazione dei tessuti esistenti, includendo anche le aree produttive in un nuovo progetto di mixité. L’obiettivo da raggiungere è l’autosufficienza energetica, perseguito attraverso strategie di riduzione del consumo e la produzione di energie rinnovabili. Se lo scenario mostra l’impossibilità dell’Ile de France a raggiungere l’autonomia entro i suoi confini, osservare la città da questo punto di vista mette in luce i diversi gradi di porosità dei tessuti, la loro disponibilità e predisposizione ad essere ripensati, adeguati, modificati. Non è importante solo la porosità di frattura, le grandi e piccole discontinuità che si aprono nel tessuto e originate dalle trasformazioni dei modi della produzione, o dell’abitare, ma la porosità di materiale, la capacità di accogliere e di adattarsi non solo a nuovi parametri energetici, ma a stili di vita, pratiche diverse dal passato. Il progetto di “città porosa” assume la sfida energetica come occasione straordinaria di adeguamento dei propri tessuti alle evoluzioni degli stili di vita e alla possibile compresenza di nuove e diverse attività. Si tratta di un grande progetto costituito di una miriade di piccoli e meno piccoli interventi, la realizzazione del quale richiede una mobilitazione generale e che non potrà motivarsi se non entro un’idea più ampia di ricostruzione del proprio “cadre de vie”. 9 Sassen S., 2009, intervento all’Ifou Symposium e Bridging the Ecologies of Cities and Nature, in The New Urban Question, cit. Il famoso progetto 7000 Eichen di Josef Beuys per Documenta 7, con il rifiuto di portare all’esterno della città i 7000 alberi e ben ricostruito in JOLA, n.8 autunno 2009, costituisce un riferimento. 10 Paola Viganò 3 Ristrutturare la metropoli: energia, stili di vita, mixité 1 i pavillonnaires Le case isolate con giardino costituiscono una parte molto estesa ed importante del tessuto insediativo del Gran Paris. I pavillonnaires sono tessuti spesso poco porosi, in ogni caso poco permeabili, ma che hanno la capacità di assorbire il cambiamento. Immaginiamo operazioni che migliorino le loro prestazioni energetiche e allo stesso tempo che li adattino spazialmente alle nuove esigenze. Nelle ampie zone di casette, i tessuti potrebbero allora entrare in operazioni allargate di riqualificazione e, se collocati in aree di esondazione della Senna, di soft shrinking. 2 l’habitat collectif Meno malleabile dei pavillonnaires, ma nel quale è più semplice intervenire, l’habitat collectif ha prestazioni energetiche diverse in relazione al periodo di costruzione e alla qualità dei materiali. Spesso richiede ristrutturazioni radicali, come interventi minuti. Inoltre una nuova accessibilità mediante trasporto pubblico diffuso (i tramways proposti dal progetto di “città porosa”) rafforzerà le possibilità della loro riqualificazione. 3 i grands ensembles I grands ensembles hanno bisogno di stratificazione e non di essere modificati radicalmente; di un adeguamento generalizzato dei propri spazi e della loro riappropriazione da parte degli stessi abitanti. Gli obiettivi di riduzione del consumo energetico degli edifici, insieme al progetto che riguarda il trasporto pubblico, sono l’occasione di ripensarne la qualità. 4 le zone produttive Le aree industriali sono il luogo di un possibile progetto di ristrutturazione che si faccia carico non solo delle questioni energetiche, ma che sperimenti la mixité. I nuovi caratteri delle aree della produzione rendono oggi realistici anche progetti di mescolanza funzionale spinta, di sinergia tra le aree industriali, che spesso forniscono una produzione di calore residuo e la residenza che potrebbe utilizzarlo. Nella regione parigina, i territori industriali in corso di riconversione, spesso lungo i fiumi e nuovamente porosi, sono molto ampi e potrebbero costituire il terreno di azioni innovative. Il progetto di una metropoli consapevole del tema energetico è dunque un progetto di stratificazione che porta in superficie la porosità dei diversi materiali e tessuti urbani, la loro capacità di assorbire trasformazioni spaziali e costruttive. Le difficoltà di rilavorare in profondità il tessuto esistente ci sono chiare; l’ipotesi può apparire pretenziosa ed astratta, non solo dal punto di vista della sua attuazione, dell’incontro con l’inerzia al cambiamento, della mancanza di immaginazione che ci coglie quando gli scenari sembrano modesti. In realtà non abbiamo teorie che possano sostenere una mossa 100% recycle, certamente non quelle che hanno informato la modernità aggressiva e trionfante della tabula rasa, ma neppure quelle della decrescita che spesso tendono ad un ritorno all’indetro, più che a indagare le nuove forme della città. Ancora: un progetto per strati, così estensivo e omnicomprensivo, deve legittimarsi non solo sulla base del risparmio energetico. E’ tempo di prendere in considerazione le mutazioni avvenute negli stili di vita, la necessità di mix funzionali e spaziali. di trasformare la questione energetica in una occasione formidabile per ripensare la città ed introdurre nuove dinamiche nelle sue parti. La casa isolata e l’abitare collettivo accolgono da tempo le più diverse attività, oltre alla residenza di famiglie che stanno invecchiando e di nuclei variegati; nelle aree produttive la porosità di frattura va letta insieme al residuo, all’abbandono, provando ad immaginare le sinergie che forme estreme di prossimità e di mescolanza funzionale possono generare. Nella metropoli del dopo-Kyoto la riduzione delle emissioni di CO2 e la diminuzione dei consumi energetici implicano il riuso radicale e della città esistente ed insieme la mobilizzazione di tutti di suoi abitanti. 4. Conclusioni La funzione di scenari come quello qui illustrato è di dilatare il campo entro il quale si costruisce la nostra riflessione sulla città a partire dall’ipotesi dell’emergere di una nuova questione urbana. In momenti di dissoluzione di paradigmi, diventa urgente ripensare le nostre aspettative per il futuro e la costruzione di scenari è uno strumento importante per riconcettualizzare temi e problemi. Il futuro è inteso come possibile oggetto di costruzione, un aspetto che dovrebbe costantemente e coraggiosamente essere ripreso. La ricerca si svolge utilizzando il progetto, nelle sue diverse forme, come produttore di conoscenza 11, non astratta, ma specifica e situata. A questa capacità del progetto è affidata, io credo, la possibilità di ridiscutere l’attuale marginalità del nostro contributo intellettuale.. Il progetto è, nel nostro campo, lo strumento principale di ricerca e di produzione di conoscenza; uno strumento che investiga un contesto e aggiunge materiali alla conoscenza esistente, svolgendo un ruolo critico tra attori, soggetti e luoghi. Non si tratta solo di story telling, ma della capacità di elaborare e di comunicare una visione critica del mondo. 11 Viganò P., Il progetto come produttore di conoscenza, in corso di pubblicazione, Officina, Roma. Paola Viganò 4 Ristrutturare la metropoli: energia, stili di vita, mixité Così la nuova questione urbana non è forse importante che sia nuova, che si presenti come una novità, ma sapere che ci attende, è nel futuro. La “prossima” questione urbana pone con chiarezza il problema del futuro come preoccupazione continua, ma anche “habit of inquiry” entro una visione del mondo come un grande laboratorio12. 12 Wells H.G, 1902, The Discovery of the Future, A.C. Fifield, London, 1913. Paola Viganò 5