Mario Melazzini e Marisa Valesio: le straordinarie

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Mario Melazzini e Marisa Valesio: le straordinarie
Mario Melazzini e Marisa Valesio: le straordinarie testimonianze di due
disabili gravi che amano la vita
di Sabrina Pietrangeli Paluzzi
Febbraio, mese della vita. Nel mio
lungo peregrinare su e giù per l’Italia
(vita da pro-lifer), mi cullo nell’illusione
di andare ai vari convegni, conferenze,
incontri nelle parrocchie, per poter
donare qualcosa di mio, senza rendermi
conto che quello che ricevo dagli altri è
infinitamente maggiore.
Succede sempre, ed è successo ancora qualche giorno fa. Ad un corso di formazione
per operatori sanitari, nella giornata che aveva come tema La disabilità e la non
autosufficienza, ho potuto ascoltare la profonda esperienza di vita e di fede del dott.
Mario Melazzini. Molti già conoscono la sua storia, ma per me è stato un nuovo sentire,
più che un sentire nuovamente.
Quest’uomo straordinario, che nei suoi primi cinquant’anni di vita ha collezionato
successi come medico (oncologo) e come persona, grande sportivo, marito e padre,
bello, attivo, pieno di vita, si è ritrovato ad essere prigioniero del suo corpo, vittima
di una delle malattie più terribili ed invalidanti del nostro tempo: la sclerosi laterale
amiotrofica, altrimenti nota come SLA. Il piombare nella disperazione più nera, il
desiderio di morire è stato un percorso doloroso e naturale. L’uscirne fuori, frutto
della grazia più pura. “Ad un certo punto ho smesso di concentrarmi su quello che
non avrei più potuto fare, per pensare a quanto avevo ancora da dare”. Alla faccia di
coloro che vivono nell’apparenza e che fondano le loro sicurezze su telefonini di
ultima generazione e automobili di lusso…
“Ho avuto la sfortuna di arrivare un po’ in ritardo a conoscere le persone con
disabilità – ha raccontato Melazzini – per quanto le avessi incontrate attraverso il
volontariato, e sebbene fossi un credente, le guardavo con una forma di affettuosa
superficialità, senza aver cura di relazionarmi in modo profondo con loro”.
Melazzini ha citato un pezzo del libro Il corpo di Umberto Galimberti, che recita: “Lo
sguardo medico non incontra il malato, ma la sua malattia, e nel suo corpo egli non legge una
biografia, ma una patologia”; ha commentato questo, ricordando che nella nostra
società, parlare di disabilità o malattia crea disagio, perché quando si è sani queste
due condizioni non ci appartengono, e anzi suscitano una sorta di malcelato
pietismo per quel poverino al quale disgraziatamente è capitato di averle. Ma dobbiamo
cominciare ad integrare il pensiero della disabilità e della malattia nel nostro sistema
di vita, non soltanto perché potrebbe capitare a chiunque di noi, ma perché non si
deve guardare ad un disabile come a qualcosa di anormale, ma come ad uno di noi.
Affermazione rincarata dall’intervento della dott.ssa Mirella Ricci, vicepresidente
della Provincia di Arezzo, grande volontaria della vita, la quale ha ricordato che
bisognerebbe iniziare a quantificare non il deficit di una persona, ma la risorsa. Saper
quindi entrare in punta di piedi nella vita degli altri, riuscire ad entrare
profondamente nel mondo della sofferenza, aiuta ad aver paura di ben poche cose!
Secondo un’indagine Istat, i disabili in Italia sono circa 2.600.000, cioè il 4,8% della
popolazione, non tenendo conto dei minori di 6 anni che sono circa 200.000. Cosa
può donare dignità a queste persone fragili, vittime di un’instabilità clinica, spesso di
una dipendenza funzionale, oppure di una ridotta sopravvivenza o di percorsi di
cura ancora non individuati? L’amore. L’amore di chi ha cura di loro, perché “la
dignità sta nello sguardo del datore di cure” (Dignity and the eye of the beholder, H.M.
Chocinov JCO 2004). Concetti meravigliosi e fondati che ritroviamo nel libro di
Melazzini Ma che cosa ho di diverso? (San Paolo, 2008) che invitiamo caldamente a
leggere.
Ma non è finita lì… dovevo ancora vedere ed ascoltare altro. Ad esempio la
presidentessa
della AISLA di Arezzo, la grande Marisa Valesio. In quel corpo anziano, oramai
completamente prigioniero della malattia, immobile su una carrozzella con tanto di
respiratore meccanico, lo sguardo vivo, attento e sorridente di una persona che il
cervello ce lo ha sveglio, eccome! Ma soprattutto ha sveglio lo spirito; dinanzi a sé,
una speciale macchina che traduce in lettere e poi in parole, lo sguardo che si sposta
per dettare quanto vuole dire attraverso il movimento degli occhi. Accanto a sé,
l’amore di un marito che si prodiga non per sforzo, né per costrizione, ma per un
puro e semplice servizio, reso da un amore che ha qualcosa di sovrumano. Quel
servire con gioia, che solo un cuore grande può mettere in pratica. Ho immediatamente
pensato che essere amate così, pur nella totale impossibilità di cucinare, lavare il
bucato, stirare la camicia del proprio marito, essere amate solo perché esistiamo,
significa essere amate per davvero.
Ed ecco la frase di saluto di Marisa, attesa con religioso ed irreale silenzio da oltre
cento persone che hanno rinunciato all’allegro cicaleccio per meditare
rispettosamente sul paradosso di una vita straordinariamente serena, in totale antitesi
con l’effettiva situazione fisica: “Vi saluto tutti con gioia, sono contenta di essere tra voi. Non
ero così… la malattia ricevuta è un dono di Dio che porto avanti con la serenità e la forza che mi
dà tutti i giorni il Signore, con la quale vado avanti perché mi ha concesso di conoscere quanto è
importante la vita”. Silenzio, poi applauso scrosciante… e qualche lacrima. Quanta
sapienza, e quanto vuota mi sono sentita io, truccata e funzionante, ma dal cuore
spesso privo di questo spessore, di questo amore…
E poi Marisa è rimasta attenta, con gli occhi incollati al dott. Melazzini, oggi
presidente della Aisla-Milano, per lei amico e fratello, compagno di avventura, più
che di sventura. Ed ogni tanto, un breve dettato alla macchina, per scrivere “naso”, e
subito veder accorrere il marito una, due, tre volte, ad asciugare chi come tutti
risente degli sbalzi di temperatura, e si concede il lusso di un normale naso che cola.
Ecco, quel giorno io ho conosciuto l’Amore, quello vero, quello che non finisce,
quello che non si chiede cosa l’altro può dare, ma chi l’altro è, realmente, con la
capacità di gioire semplicemente per la sua presenza, senza quantificarne la
funzionalità, senza chiedere nulla in cambio. Esattamente come si fa con un dono
prezioso.