La casa dei rosmarini

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La casa dei rosmarini
IL ROMANZO
Il Tenente dei Carabinieri di Carrara Alfiero Bacciola oltre ad avere un innato talento
investigativo, possiede un’indubbia capacità persuasiva nei confronti del gentil sesso.
L’uomo, durante una vacanza in montagna sugli Appennini con la moglie e il figlio
neonato, si abbandona alla lettura della sua biografia. Nello scritto, racconta la sua
vita da scapolo quando nel 2007 decide di raggiungere la locanda di Karl, a
Fremulosa Alta, incuriosito dalle avance della moglie. La donna, di nome Erika, lo
aveva contattato in chat qualche mese prima perché insoddisfatta delle attenzioni del
marito, ormai inibito e impotente a causa di un profondo stato di depressione. Durante
il suo soggiorno, Alfiero scopre che l’ostello è appartenuto agli Hoffman, una ricca
famiglia di origine austriaca rimasta uccisa in circostanze misteriose. Incuriosito da
quella strana vicenda, il Tenente comincia a investigare sugli ospiti presenti, alcuni
dei quali si riveleranno gelosi guardiani di un passato terribilmente oscuro e
nebuloso...
L’AUTORE
Fabrizio Convalle è nato a Carrara nel 1956. Dopo gli studi artistici e di architettura si
è cimentato in molti lavori – manovale, operaio, geometra, agente immobiliare –
mentre assecondava la sua passione per la pittura che lo ha portato a vincere molti
concorsi in Italia e all’estero. La casa dei rosmarini è il suo primo romanzo, costato tre
anni e mezzo di lavoro di scrittura e riscrittura.
La casa dei rosmarini
di
Fabrizio Convalle
© 2014 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 9788898562275
Prima edizione eBook febbraio 2014
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volontà dell’autore.
La casa dei rosmarini
Due Ciliegi innamorati, che erano nati distanti, si guardavano senza potersi
toccare.
Li vide una Nuvola, che mossa a compassione, pianse dal dolore e agitò le loro
foglie... ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Li vide la Tempesta, che mossa a compassione, urlò dal dolore e agitò i loro
rami... ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Li vide una Montagna, che mossa a compassione, tremò dal dolore e agitò i loro
tronchi... ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.
Nuvola, Tempesta e Montagna ignoravano che sotto la terra, le radici dei Ciliegi
erano intrecciate in un abbraccio senza tempo.
[Anonimo Giapponese]
Cerreto Laghi (RE), Italia, 1261 Mt. s.l.m.
Domenica, 2 gennaio 2011
Ore 15.45
“Questa è l’ultima risalita!” sbottò l’addetto alla seggiovia vedendomi arrivare a
tutta velocità sugli sci.
Senza proferir parola, gli feci cenno d’aver capito.
“Ma porca trota! Era da quel primo pomeriggio che sembrava stizzito dal fatto che
sciassi da solo su quella pista. Ma che colpa ne avevo io se una corriera quella
mattina, slittando sul ghiaccio, si era messa di traverso poco prima del passo
impedendo agli altri sciatori di raggiungere gli impianti? Bah!” Mi rasserenai
scattando foto alla vetta imbiancata della Nuda colpita dagli ultimi, freddi, raggi di
sole, e mentre mi alzavo di quota con la seggiovia, l’addensarsi di scura nuvolaglia
all’orizzonte mi confermava le pessime previsioni per i giorni a venire.
Freddo e neve per tutta la settimana; ma non mi dispiaceva, anzi, era un’ottima
occasione per riposarmi e non sentirmi in colpa.
Rigettai uno sguardo in basso per vedere se l’omino spalava ancora neve, poi lo
allargai oltre la montagna e mi immaginai già seduto nella mia casetta con le gambe
distese davanti al camino, accanto a mia moglie e al mio bambino, a sorseggiare
grappa e a rileggere, finalmente in santa pace, il romanzo che avevo da poco
ultimato e che narrava l’incredibile storia che mi era capitata solo pochi anni prima.
Discesi la cima della Nuda passando dal Salto del Diavolo fino a immettermi nella
Zero. Di lì in poi la pista non era battuta e la neve fresca ne accentuava le difficoltà;
ma, pur non essendo un provetto sciatore, per me, quelle, non erano vere insidie, solo
divertimento allo stato puro.
D’altra parte, era stato proprio il mio strizza cervelli a consigliarmi di trascorrere le
vacanze natalizie in montagna con la famiglia per svagarmi e smetterla di pensare a
quella storia che per me era diventata una vera ossessione.
“Allora, l’ha finito il suo memoriale?” mi aveva chiesto durante l’ultima seduta
avvenuta nel suo ambulatorio neanche un mese prima.
Avevo annuito, tacendogli che non si trattava di un memoriale, ma bensì, di un
vero e proprio romanzo di oltre quattrocento pagine.
“Bene, allora quando deciderà, vorrei leggerlo anch’io! Ora le suggerisco una
bella vacanza in montagna: aria buona, lavoro di braccia, tanto sport, e vedrà che alla
fine si sentirà stare molto meglio.”
Visto che mentre scrivevo quel memoriale ero riuscito veramente a scaricare
molte tensioni e sentirmi effettivamente più sollevato, avevo deciso di seguire ancora
una volta i suoi preziosi consigli e così avevo preso in affitto, per un mese, una casa a
Cerreto Laghi.
La baita di legno nero come la pece che ci aveva proposto l’agenzia immobiliare e
che tutti lì chiamavano Dacia – perché il padre del proprietario, un ex capo partigiano
comunista fino al midollo, appena finita la guerra, se l’era fatta trasportare
direttamente dalla Russia – c’era parsa subito perfetta, in quanto, pur immersa in
un’abetaia talmente fitta e rigogliosa da farla sembrare completamente sperduta, in
realtà, distava neanche un centinaio di metri dal Passo del Cerreto e dalle sue attività
ricettive, che, anche se limitate a un bar-pensione, un ristorante e un distributore di
benzina, ci avrebbero assicurato un comodo approvvigionamento di viveri e di
carburante.
Da quel quindici dicembre, giorno in cui ne siamo entrati in possesso, avevo preso
ad alzarmi presto la mattina per spaccare legna da ardere e accendere il camino,
recarmi al vicino bar-pensione ad acquistare pane e cornetti appena sfornati, tornare
a preparare la colazione alla mia dolce metà e scaldare il biberon al mio pargoletto di
pochi mesi, per poi svegliarli, ricoprendoli di baci, mentre se ne stavano avvinghiati
come due Koala nel lettone.
Di lì in poi, però, si scatenava la baraonda. Il piccolino, appena apriva gli occhi,
iniziava ad alternare il pianto al riso in base alla considerazione che gli davamo; mia
moglie prendeva a mettermi e togliermi il bambino tra le braccia, a seconda se
piangeva o rideva, intanto che rassettava casa e cucinava.
Verso le undici e trenta scattava l’armistizio.
Appena finiva di poppare, il piccolino si riaddormentava e io ne approfittavo per
scambiare effusioni con mia moglie, pranzare, dirigermi di volata agli impianti per
acquistare un pomeridiano e poi lanciarmi con gli sci, giù per i ripidi pendii del monte
La Nuda.
L’impervia stradina di collegamento tra le piste Zero e Uno, decisi di farmela a
piedi perché effettivamente troppo pericolosa; risalii sugli sci solo nell’ultimo tratto di
quella pista battuta e superato l’uomo degli impianti che con un toboga sembrava
aspettarmi in quel punto di raccordo, con un improvvisato scodinzolo raggiunsi il
paese a valle.
Le luminarie dei negozi, offuscate da una leggera foschia, si riflettevano languide
nel piccolo specchio d’acqua incorniciato da residence e hotel, e mentre mi
avvicinavo a dove avevo parcheggiato la macchina solo tre ore prima, un crescente
chiacchiericcio mi pervenne dal vicino bar dell’Alpino.
Come di consuetudine, sistemati sci e scarponi nel bagagliaio della Jeep, mi ci
diressi per un caffè e acquistare le sigarette.
Entrando, fui accolto da un piacevole tepore aromatizzato da suadenti profumi di
cappuccini bollenti e vin brulé mischiati a quelli di formaggi fusi dei toast appena
sfornati, e visto che il bancone era presidiato dal personale degli impianti e dai militi
della pubblica assistenza, espresse le mie richieste al gestore, mi andai ad
accomodare a un tavolo nei pressi della grande stufa in maiolica ad aspettare che mi
servissero.
L’avvenente cameriera, una bella mora sui venticinque anni, mi raggiunse poco
dopo con le Marlboro Light e il caffè, e alla richiesta di un’altra bustina di zucchero,
mi si rivolse in maniera confidenziale come mai le era capitato prima.
“Carenza d’affetto?” mi domandò.
“Come scusi?” risposi sorpreso.
“Dicevo che due bustine di zucchero equivalgono a carenza d’affetto” ribadì quella
sorridendomi.
“Di carente ho solo gli zuccheri; d’affetto ne sono pieno, signorina” replicai.
“Mi scusi se mi sono permessa ma... in questi giorni l’ho sempre visto solo, e
credevo...”
“...Che fossi un uomo maturo a corto d’affetti?” la interruppi.
“Già! E visto che porta la fede nuziale, pensavo anche che lei fosse nel pieno di
una crisi coniugale” seguitò la ragazza visibilmente contrariata.
“Niente di tutto questo, anzi!” rimarcai ancor più stupito.
“Già! Invece io, è più di due mesi che dormo sola con il mio cagnolino di
peluche...” si lagnò la giovane, fissandomi languidamente negli occhi con aria
imbronciata.
“Allora beato il suo cagnolino!” ribattei divertito.
“Be’... se almeno per questa sera potessi sostituirlo con un bell’uomo come lei...”
aggiunse la ragazza, lasciando sospese le parole nell’aria intanto che, nell’abbassarsi a
raccogliere la tazzina del caffè, mi mostrava tutta la latteria.
“Lo sa cosa penso?” le dissi, inasprendo la voce e fissandola negli occhi.
“Penso che un uomo come me, sarà ben difficile che lo possa trovare nel suo
letto!”
La ragazza avvampò.
“A meno che, non gli dia subito il suo indirizzo preciso e il suo numero di cellulare”
aggiunsi con una fragorosa risata.
Le labbra della ragazza si schiusero in un radioso sorriso.
“Lasci perdere che stavo scherzando. Lei è molto carina, e non credo trovi
difficoltà ad accaparrarsi un bell’uomo... magari suo coetaneo” puntualizzai, intanto
che mi rinfagottavo per uscirmene fuori a fumarmi una sigaretta.
“Potrebbe aspettarmi qui un attimo per favore?” si affrettò a dirmi la giovane
inserviente. Poi si allontanò per tornare subito da me.
“Visto che oggi non l’ha ordinata, gliela offro io la sua grappa e, se vuole, ora
saprà anche dove trovarmi” mi annunciò gaudente, passandomi un bicchierino di
grappa Williams e un bigliettino con sopra scritto un indirizzo e il suo numero di
cellulare.
“Be’, allora, grazie mille, lei è veramente molto gentile, carina e... anche
generosa” le dissi, mentre accettavo per non contrariarla. Intatto che la giovane se ne
tornava giuliva alle proprie mansioni, lasciai il piumino appoggiato su una sedia e me
l’andai a sorseggiare accanto all’ampia vetrata con vista sul lago, rimuginando a
come il mondo ormai girasse alla rovescia.
Anche se non erano ancora le sedici e trenta, fuori era già buio pesto, e il volto
riflesso nei vetri di quella bella ragazza che continuava a fissarmi, mi riportò, come
rivivendolo in quel momento, a un ricordo lontano, quando, solo pochi anni prima,
partivo da casa mia per raggiungere un paesino nelle vicinanze di Chianciano.
Era una bellissima giornata estiva.
Fatta colazione nel piccolo bar della stazione di Carrara-Avenza, presi il treno delle
o diretto a Firenze SMN.
Sedutomi accanto al finestrino ripensai all’intrigante femmina che presto avrei
incontrato e mentre il paesaggio mi sfuggiva di lato, estrassi il cellulare per rileggere
l’ultimo sms ricevuto la sera prima. Era quello di un caro amico che, sconsigliandomi
di buttarmi in quella avventura, terminava le sue paterne raccomandazioni
ricordandomi un antico proverbio latino: quieta non movere et mota quietare.
“Non agitare ciò che è calmo, e calma ciò che si sta agitando” bisbigliai tra me... e
mentre riflettevo su quel motto, spesso utilizzato nella nostra compagnia per invitare
qualcuno a non creare confusione dove non c’era, avvertendo anche una sottile
invidia in quelle premurose parole, sereno e ancor più convinto, sospirai al pensiero di
quell’intimo incontro tanto bramato.
Avevo trascorso intere nottate a chattare con lei cercando di convincerla che
poteva fidarsi, che mai e poi mai le avrei creato problemi, e finalmente, dopo mesi di
lusinghe, ero riuscito a ottenere ciò che ambivo. Il sesso di certo non mi mancava...
anzi; ma quella era la prima volta che anziché preda mi sentivo un vero cacciatore.
Per conquistarla, piuttosto che la prestanza fisica, avevo dovuto sfoderare armi
seducenti che neanche immaginavo di possedere e che conferivano a quella tresca
un’irresistibile attrazione erotica mai assaporata in precedenza.
Giunsi a Firenze in perfetto orario e intanto che aspettavo la coincidenza, mi diressi
ad acquistare un quotidiano, una guida turistica e, accompagnato dalle mie dolci
fantasie, fino al bar della stazione a prendermi un caffè.
“Buongiorno” dissi, per attirare l’attenzione dell’affaccendata inserviente.
“Buondì, dica” rispose automaticamente la ragazza senza neppure rigirarsi.
“Un caffè e un bicchiere d’acqua minerale naturale... grazie.”
“Glielo macchio il caffè?” si informò la giovane, guardandomi distrattamente
negli occhi, mentre già esaudiva la mia richiesta.
“No, grazie” risposi.
“Ecco qua!”
“Quant’è?” le domandai, riversando tutti gli spiccioli che avevo sul bancone
assieme a una banconota da cinquanta euro.
“Be’, sarebbero un euro e cinquanta centesimi, ma visto che di moneta ha solo
quelli, per questa volta facciamo pure un euro e quaranta” avanzò la ragazza,
prendendosi gli spiccioli e soffermandosi ad ammirarmi come ammaliata.
“Eccone un’altra” pensai tra me.
La giovane, una bella mora sui trentacinque anni, fu molto gentile e carina con
me, e intanto che sedutomi in disparte mi documentavo sui luoghi che presto avrei
visitato, notai che non faceva altro che sbirciarmi di sottecchi.
Favorito da quel siparietto rosa, il breve intervallo di tempo passò in un baleno e
quando tornai al bancone per acquistare le sigarette, la ragazza sembrava non vedere
l’ora di parlarmi.
“Può darmi un pacchetto di Marlboro light, per favore” le chiesi, mentre mettevo
le solite cinquanta euro sul bancone.
“Morbide o... dure” avanzò lei, colorendosi contemporaneamente in volto come se
avesse detto qualcosa di peccaminoso.
“Sempre e solo dure, grazie” la stuzzicai con malizia.
La ragazza, che diventava sempre più rossa in viso, si fece coraggio.
“Scusi se mi permetto, ma lei è, o assomiglia tantissimo a quel famoso attore...”
“Quale attore?” la interruppi, facendo finta di cadere dal pero.
“Non mi prenda in giro,” disse lei, come offesa, “chissà in quanti glielo avranno
già detto... soprattutto donne” continuò, sfarfallando gli occhioni da cerbiatta.
“Veramente... non capisco.”
“Intendevo dire che se lei non è Alessandro Gassman, ne potrebbe essere la
controfigura” precisò la giovane, con gli occhi che ora prendevano a brillarle
dall’emozione.
“Senta... potrei farmi una foto con lei?” mi chiese all’improvviso... e prima che
potessi darle l’assenso, tirò fuori uno smartphone, sgattaiolò fuori del bancone e,
approfittando della momentanea assenza d’altri avventori, mi abbracciò stretto e la
scattò.
“Chissà quando la vedranno le mie amiche” commentò, entusiasta.
“Se le fa così piacere, ce ne possiamo fare anche un’altra di profilo” le proposi,
divertito.
La ragazza era talmente impegnata a controllare se la fotografia fosse venuta
bene, che neanche mi rispose.
“Be’, faccia lei” borbottai intanto che lei esultava. “Senta, mi farebbe il favore di
passarmi le sigarette che il mio treno sta per partire” le chiesi impaziente.
“Ah già! Mi scusi... me ne ero già dimenticata” si giustificò la donna, tornando
velocemente nella sua postazione. “Ecco qua! Questa volta però niente sconto” disse,
con tono birichino, intanto che mi avvolgeva nel suo accattivante sorriso rosso fuoco.
Poi si guardò attorno e, accostandosi al bancone per accaparrarsi la banconota che vi
avevo appoggiato, mi fece un cenno con la mano per farmi avvicinare.
“E lo lasci partire questo treno, no!” sussurrò. Poi, guardandosi attorno continuò:
“Tra pochi minuti esco dal lavoro e magari, se lei non avesse altri impegni,
potremmo approfittarne per conoscerci meglio...” continuò a bisbigliare
maliziosamente, passandomi le sigarette e ricacciandomi indietro anche i soldi.
“Secondo me lei vale almeno qualcosina in più di un semplice pacchetto di
sigarette, signorina! E mi dia pure il resto che come detto, vado di fretta” aggiunsi,
con fare indignato.
“Be’... credevo, cioè speravo semplicemente che potessimo pranzare insieme...
Non vorrei che mi avesse fraintesa.”
“Sì... come no! Magari potremmo pranzare insieme quando ripasserò tra qualche
giorno.” Poi, la guardai intensamente e seguendone le rotondità del corpo come a
volerla spogliare con gli occhi, le sussurrai: “Be’, un bel fine settimana con una gran
bella ragazza come lei lo passerei volentieri, ma, purtroppo, ora devo proprio andare,
arrivederci e buona giornata signorina.”
“Aspetti...” mi disse ringalluzzita dal mio esplicito riferimento. “Prenda almeno il
mio numero di cellulare. Non si sa mai che se veramente dovesse ripassare da queste
parti non le venga in mente di telefonarmi. E grazie... per la bella ragazza. Buon
viaggio” chiosò infine la giovane dagli intensi occhi scuri, mentre già mi allontanavo
e lei prendeva a smanettare con il suo cellulare.
“Ma cosa farò mai alle donne?” pensai. “Eppure... a parte essere alto un metro e
ottantacinque, avere un fisico atletico, tonico e muscoloso ma non palestrato, spalle
larghe, mascella volitiva, capelli riccioluti con occhi verdi su carnagione olivastra...
non mi sembra d’avere altro di particolarmente interessante!”
Presi il treno delle undici e tredici diretto verso Orvieto.
Sopra al regionale c’era pochissima gente e vedevo gli sparuti passeggeri salire e
scendere alle successive fermate senza degnarsi minimamente di transitare per la
mia carrozza.
Impiegai il tempo a leggere e rileggere il giornale, consultare il cellulare, sfogliare
la guida turistica, asciugarmi il sudore, osservare le frequenti stazioni deserte, finché,
per distrazione, quasi riuscii a scendere a quella giusta.
Ringraziai con il pensiero il ripetitivo speaker per avermela più volte annunciata e,
raccolti i bagagli alla rinfusa, mi catapultai giù dalla carrozza proprio nel momento in
cui, il capo treno, ne ordinava la ripartenza.
Sceso sul marciapiede mi adattai lo zaino sulle spalle e nell’attraversare il bar della
piccola stazione diedi il buongiorno al suo giovane gestore che, impegnato com’era in
una rincuorante conversazione telefonica, ricambiò il mio saluto con un solo cenno
del capo. Uscito nel prospiciente parcheggio mi prese lo sconforto. Non c’era niente e
nessuno, tutto deserto. Solo un autobus di linea locale sostava in lontananza, dalla parte
opposta della piazza, adombrato dalle fronde di un imponente ippocastano.
Mi addentrai in quella rovente arena come dovendo attraversare la Death Valley, e
quella demotivante sensazione mi abbandonò solo quando, avvicinatomi a quel
mezzo, avvertii che aveva il motore accesso e che c’era qualcuno all’interno.
Bussai insistentemente alla sua porta anteriore, finché, aprendosi, non fui investito
da una bolla d’aria gelida e umida che mi appannò istantaneamente i Ray -Ban.
“Mi scusi” mi rivolsi all’autista, intanto che mi adattavo gli occhiali sulla fronte.
“Sì?” rispose lui con una vocina che contrastava con la sua mole spropositata.
“Dovrei chiederle un’informazione.”
“Mi dica” squillò l’uomo come se, tutto d’un tratto, avesse ingoiato una trombetta.
“Dovrei raggiungere questa locanda” gli anticipai intanto che salendo sul suo
mezzo, gli allungavo una mappa della zona con sopra stampate delle generiche
indicazioni. Poi vedendo che se la prendeva comoda, continuai: “Potrebbe indicarmi
come posso arrivarci?”
L’autista, con gli occhi impastati più dalla pigrizia che dal sonno, si rigirò la cartina
tra le mani senza quasi capirne il verso. Poi, adattando la vista all’abbagliante
riverbero esterno e schiarendosi la voce con un colpo di tosse, mi guardò e con voce
che man mano si adeguava alla sua stazza, farfugliò: “Casa Hoffman? Ah sì, so
dov’è! Si trova lassù, sulla collina di fronte a noi. A sinistra e appena sotto il paesino di
Fremutola Alta.”
“Come... Fremutola Alta? A me hanno detto che la locanda si trova a Fremutola, e
basta” replicai, interdetto.
“A Fremutola c’è già! Se lei vuole raggiungere Casa Hoffmann, deve salire fin
lassù, a Fremutola Alta!”
“Ho capito. Va bene! Allora, per caso il suo bus ci va?”
“No, purtroppo il mio bus non ci va e, da quanto ne so io, sono anche molti anni
ormai che nessun mezzo pubblico compie quella tratta.”
“Be’, ci sarà pure un modo... non so, un taxi?” lo imbeccai speranzoso.
“No... mi spiace, l’unico taxi in servizio è appena partito con un cliente sceso poco
fa dal mio autobus, e da quanto m’è sembrato di capire, se lo farà, rientrerà solo nel
tardo pomeriggio!” sentenziò l’autista con quel mutevole timbro di voce che man
mano si era trasformato in cavernoso tendente allo scocciato.
Trattenendomi dall’imprecare, mi limitai a replicare a quella funesta precisazione
con composta indifferenza, e mentre le porte del bus, sfiatando, si richiudevano alle
mie spalle, non fidandomi per nulla di quelle fin troppo pessimistiche informazioni,
ritornai sui miei passi a cercar conferme all’interno del bar della stazione, dove,
anche lì, almeno apparentemente, sembrava non esserci più nessuno.
“Ma in che posto sono capitato?” rimuginai intanto che, non capendo bene da dove
provenisse, sentivo la voce del barista che interloquiva con qualcuno in privato. Mi
spostai di qualche passo e capii che la voce proveniva da dietro una porta socchiusa a
lato del bancone, e una volta individuata, mi ci avvicinai per attirare la sua attenzione.
“Sì è arrivato ora” sentii che diceva. Poi i diversi secondi di silenzio mi fecero
capire che parlava con qualcuno che non era presente in quella stanza.
“È al telefono” pensai tra me, intanto che quello si infervorava con quello all’altro
capo.
“Come faccio ad esserne sicuro se non l’ho mai visto prima” ribatté scocciato al
suo interlocutore.
Poi a monosillabi, e poi compiutamente, rispose ancora: “Sì... sì... sì... no! Sarà alto
più di un metro e ottanta, almeno uno e ottantacinque, direi.”
“Cacchio di Buddha! Se non fossi sicuro di averlo detto solo ai miei amici d’essere
venuto fin qui, penserei che stiano parlando proprio di me” rimuginai stupefatto.
“Credo due ore... al massimo due ore e mezza” continuò intanto quello. Poi, dopo
diversi secondi d’assoluto silenzio, sbottò: “E che vuole che ne sappia io se ha già
mangiato”. Dopodiché proseguì: “Senta, è lei che vuol fare una sorpresa a suo cugino
mica io, quindi se non intende che si faccia un mazzo tanto dovrebbe saperlo lei come
comportarsi”.
Rimasi ancora un po’ a origliare, poi, rinfrancato dal non essere sicuramente io il
cugino di quel qualcuno, e approfittando del prolungarsi del loro silenzio, decisi di
prendere la palla al balzo: “Ehilà, c’è nessuno?” esclamai tanto forte da farmi sentire
anche da quello che era a lui collegato.
Il presunto barista, infatti, senza neanche scusarsi chiuse di colpo la telefonata.
“Devo andare” sentii che diceva, intanto che mi riposizionavo velocemente di fronte
al bancone del bar.
Alfredo, così aveva scritto il barista sul suo cartellino di riconoscimento appuntato
nel petto, sbucando ancora alterato dal retro del locale e stirandosi
contemporaneamente il panciotto color vinaccia, tornò velocemente alle sue
mansioni e non mostrò alcuna sorpresa, quando, anziché una bevanda o un altro
alimento, gli chiesi informazioni su come potessi raggiungere quel paesino
abbarbicato sulla collina.
Invertendo repentinamente la sua direzione di marcia, il giovane barista mi
precedette fuori del locale e con scelta quasi autolesionista, anziché fermarsi
all’ombra della pensilina, oltrepassandola, si impettì nel bel mezzo del piazzale, sotto il
sole cocente.
Lo seguì controvoglia, e a quel punto, associandolo più a un insensato che ad altro,
ascoltai distrattamente le sue conferme a quanto mi aveva già riferito l’autista e gli
aggiuntivi commenti sulla scarpinata che dovevo sciropparmi per raggiungere la mia
meta.
Nel ringraziarlo, rimasi impalato e con sguardo afflitto a vederlo rientrare nel
locale, poi, voltandomi nella sua direzione, squadrai con occhi bellicosi quella collina
che mi si ergeva di fronte sorniona; e in quell’istante, mentre le borse degli occhi mi
scendevano come due yo-yo fino alle ginocchia, compresi che la fatica che mi
attendeva non era esattamente paragonabile a quella di bersi una granita in una
spiaggia di Copacabana.
Mi ritrovai nel bel mezzo del piazzale a non sapere se ridere o piangere, e
appurando dall’orologio appeso fuori della stazione che erano già le tredici e
venticinque, e associando quel mio demenziale comportamento a un imminente
crollo degli zuccheri, decisi di concedermi almeno un energetico spuntino prima di
strapparmi tutti i capelli.
Rientrato nel bar mi alleggerii dei bagagli, ordinai all’insensato una birra alla spina
e una schiacciata con prosciutto cotto e pomodori e, sedutomi a un tavolo a pochi
metri dal bancone, aspettai che mi servisse.
Alfredo non mi fu di nessuna compagnia e utilità, visto che alla mia richiesta di un
passaggio rispose che non poteva darmelo perché era in motorino e così, ultimato il
frugale pasto, presi da un espositore refrigerato una birra in lattina e due bottigliette
d’acqua gelata e, pagato il conto, lo salutai per uscire all’aria aperta a fumarmi una
sigaretta.
Erano le ore quattordici e cinque locali, fuori non c’era anima viva, l’autobus era
partito, non si muoveva un filo d’aria, faceva un caldo boia, e per un attimo pensai di
tornarmene anche a casa.
“Sì, però... sai che palle gli amici!” valutai, deglutendo amaramente nel
prospettarmi un futuro inglorioso.
Quale estremo tentativo d’evitarmi la scarpinata, mi diressi al telefono pubblico
appeso fuori della stazione. Sapevo che non mi avrebbero risposto perché ci avevo
provato diverse volte con la speranza di sentire almeno la voce, ma decisi di ritentare
lo stesso.
Impugnai la cornetta, mi concentrai come a voler invertire l’incontrovertibile
destino, digitai il numero della locanda ma, inesorabilmente, mi rispose la solita voce
femminile: “Il cliente selezionato non è abilitato al servizio richiesto”.
“Porca trota!”
Prima d’avventurarmi, riguardai quella collina come se fosse l’Himalay a, e
seguendone l’aspro e assolato percorso mi auto-motivai sciorinandogli contro un
rosario d’improperi.
Non avevo alternative e ruppi gli indugi, e dirigendomi nella sua direzione, cercai
d’equiparare quell’improba fatica a qualche ora di sana e gratuita attività fisica.
Nonostante cercassi d’addolcirmi la pillola, non fui per nulla rinfrancato da
quell’espediente e...
“SCUSI! Guardi che qui dentro NON SI FUMA!”
“Oh porco cane!” mormorai di riflesso.
“FELPA AZZURRA! Mi sente?”
“Per la miseria... ce l’hanno proprio con me” arguii, intanto che con la mente
rientravo precipitosamente nel locale. “Mi sono acceso una sigaretta senza neanche
accorgermene” costatai, nel vedermela fumante tra le dita; e dovevano avermelo
ripetuto anche più volte, visto che nel girarmi all’interno del bar, assieme allo sguardo
divertito degli altri avventori, vedevo quello spazientito del gestore che si apprestava a
lasciare il bancone per avvicinarmi.
“Oh cavolo! Scusatemi... ma ero sopra pensiero” farfugliai, guardandoli in faccia
a uno a uno intanto che non sapendo dove spegnerla, mi dirigevo verso l’uscita.
“Faccia con comodo e prenda la sua giacca a vento che fuori fa freddo!” sentii
dirmi dalla premurosa cameriera mentre già aprivo la porta.
Tornai indietro, mi infilai il piumino, ringraziai la bella cameriera con un sorriso e
me ne uscii all’aperto per finire di fumarmela sotto il porticato.
“Che figura del piffero” pensai mentre l’aspiravo.
Fuori faceva un freddo becco e la leggera foschia s’era trasformata in fitta nebbia.
A un tratto, dalle parti degli impianti, un gatto delle nevi avviò il motore; lungo il
camminamento che abbracciava il lago, un cane, abbaiando all’improvviso rumore,
sopravanzò di scatto i suoi padroni e mentre una macchina proveniente dal passo si
avvicinava lentamente, una donna infreddolita entrò nel negozio di generi alimentari
al mio fianco.
Appena quella vettura giunse in mia corrispondenza, rallentò fin quasi a fermarsi e
un vecchio, tutto imbacuccato, guardandomi attraverso il finestrino, sorrise.
Ricambiai istintivamente quel gesto che immaginai di sola cortesia, e, mentre
quella macchina sviliva nel grigiore, rabbrividii nel vedere che si trattava di un
vecchio modello di Mercedes con targa straniera; e di colpo, quel volto e quel sorriso
non mi parvero più né cortesi né estranei.
La seguì girare intorno alla rotonda di fronte al lago e poi, d’improvviso, tornare
verso di me accelerando.
Mi sfrecciò davanti come se la guidasse un pazzo, per poi sparirmi nuovamente in
direzione del passo.
“Non poteva che esser lui” pensai esterrefatto.
Al sol pensiero mi mancò il fiato ma, anche se non era lui, ormai il dubbio mi si
era insinuato.
Sicuramente la causa di tutto doveva essere della ragazza dell’Alpino che con il suo
atteggiamento spregiudicato mi aveva riportato a quel ricordo lontano o forse qualche
ragione l’aveva pure il mio medico curante che mi aveva avvisato che potevo
vederlo raffigurato in altre persone. A ogni modo, per dormire sonni tranquilli,
dovevo assolutamente accertarmi che non era lui. D’altra parte mi avevano detto che
era morto, non che lo avevo visto di persona, e da quella specie di demonio mi potevo
aspettare di tutto.
Balzai sulla Jeep, misi in moto, e come un automa mi lanciai al suo inseguimento.
I due chilometri che mi separavano dal passo e dalla mia famiglia li feci in un
baleno, e allentai il piede sull’acceleratore solo quando intravidi le luci smorte del
distributore di benzina nei pressi di casa mia.
Della macchina inseguita neanche l’ombra, finché, con una stretta al cuore, non la
vidi ferma proprio a far rifornimento.
Entrai nella piazzola di servizio mentre Ercole, il pompista, usciva dal suo casotto
per servirla. A quel punto avanzai lentamente fino fermarmi al suo fianco, dalla parte
libera delle pompe.
L’uomo, che nel frattempo era sceso dalla sua vettura, si stava salutando con
Ercole come fossero grandi amici.
Il vecchio non era poi così bacucco; anzi, sembrava svelto e pimpante, e oltretutto
indossava anche il completo da sci dei maestri del Cerreto. Origliando, lo sentii
raccontare a Ercole che era già passato poco prima lì davanti, ma che solo quando
era giunto in paese si era accorto d’essere in riserva.
Nel vederli così sorridenti e scherzosi, mi rilassai.
“Visto che non era lui?” sembrava sussurrarmi la voce cavernosa del mio medico
curante.
“Maledetta mente bacata!” sbottai, accennando a voler colpire il volante con una
capocciata.
Ultimato il suo rifornimento, quel baldo signore, risalì sulla sua vettura, mise in
moto e se ne tornò di gran carriera verso il lago.
Ero sempre assorto nelle mie congetture, quando mi appare aldilà del finestrino la
massiccia figura del benzinaio. Gli passai i venti euro sufficienti a rabboccarmi il
pieno e, mentre vi provvedeva, scesi dalla Jeep per cercare di saperne di più da lui su
quello strano personaggio che oltretutto sembrava anche ben conoscere.
“Mi scusi Ercole. Lei sa chi è quel signore?” gli domandai d’acchito.
“Certo! È il responsabile dei maestri di sci del Cerreto” rispose, intanto che
controllava l’avanzare degli euro sulla pompa.
“E quella macchina... è una di quelle da collezionista, vero?” continuai.
“Sì, è una Mercedes SL190 degli anni sessanta. Il signor Ariodante è sempre stato
un appassionato di macchine d’epoca; ne possiederà almeno una decina. Le acquista
per pochi soldi, si diverte a rimetterle a posto e poi le rivende.”
“E dove le troverebbe tutte queste macchine?”
“Sui siti Internet... perché, interessano anche lei? Se vuole, glielo posso
presentare...”
“No, no... piacciono anche a me, però non sono granché appassionato.”
“Ah! Pensi che quella l’ha comprata in Germania, in una cittadina sul lago di
Costanza ai confini con l’Austria. Era talmente ben tenuta che è bastato che gli desse
una bella ripulita per farla tornare nuova fiammante come l’abbiamo vista” aggiunse
Ercole.
“E ti pareva che non ci fosse sotto qualcosa di strano. Stai a vedere che se mi
metto a indagare, scopro che quella macchina proviene da Lindau e che era proprio
la vecchia macchina di quell’insano di mente” rimuginai tra me.
“E del tempo che mi dice?” gli domandai, per cambiare discorso e non fargli
accorgere della tensione che tornava a rodermi.
“Be’... già stasera dovremmo aspettarci una bella nevicata. Poi, sarà bufera per
tutta la settimana. Mi sa che ve ne dovrete restare chiusi in casa per un bel po’ lei e
sua moglie” profetizzò Ercole.
“A proposito di bufera. Mi farebbe il favore di chiedere a quel suo amico dello
spazzaneve se prima dell’epifania può passare a ripulirci la stradina e lo spiazzo
davanti a casa?” gli domandai.
“Certo che sì; appena domani mattina passa, glielo chiederò. Non si preoccupi.
Verrà.”
Salutai Ercole, e mentre m’immettevo nella strada principale iniziava già a
nevicare. Cento metri più avanti, raggiunsi il valico e svoltai a sinistra, e poi di nuovo
subito a sinistra per imboccare la stradina sterrata che finiva contro casa mia.
Superata la selva d’abeti che la nascondeva dalla statale, parcheggiai nello slargo
antistante la baita e guardando attraverso le sue finestre illuminate gli interni
addobbati a festa, valutai che non fosse proprio il caso d’informare mia moglie
dell’accaduto e di quanto mi frullava per la testa.
“Ehilà, di casa!” esclamai chiudendomi l’uscio alle spalle.
C.d.p. mi venne incontro con il nostro pargolo tra le braccia che, appena mi
inquadrò, non trovò di meglio da fare che mettersi a strillare come un’aquila.
“Ehi... non piangere, sono io, il tuo babbino” gli dissi togliendosi il cappello di lana
per farmi riconoscere.
“Mi vedi? Sai chi sono? Chi sono?” lo provocai accarezzandogli il nasino intanto che
il farabutto tramutava il pianto in mestolino.
Appoggiati gli scarponi da sci su un giornale di fianco al camino e appeso la giacca
accanto alla porta d’ingresso, tornai verso di loro.
“Me lo puoi tenere un attimo che vado in bagno?” mi chiese C.d.p. accorciando le
distanze.
Intanto che mi passava la nostra creatura, la baciai appassionatamente, e lei
rispose con un tale trasporto e ardore che l’amico mio si gonfiò all’istante nella patta
dei miei pantaloni.
Alle diciotto e trenta avevamo già finito di cenare e anche di sparecchiare.
Il pargolo se la dormiva beatamente e Coda Di Puzzola, che avevo denominato
così da quando, giunti lì, forse perché ispirata da quello splendido tramonto,
guardandomi con infinita dolcezza negli occhi aveva declamato mai notte sarà così
lunga da non permettere al sole di sorgere, uscendo dalla cucina, lo sollevò dalla sua
culla in salotto per sistemarlo nel lettone della nostra camera.
Quando facevamo all’amore le scocciava farlo davanti al pargolo e quella
premura includeva sicuramente quel suo intimo intendimento.
C.d.p. curava quella vecchia baita di legno come una bomboniera e malgrado
fosse molto spaziosa, non voleva assolutamente che la aiutassi a sbrigare le faccende
domestiche.
“L’uomo deve essere uomo!” mi ripeteva a ogni piè sospinto.
Be’, in effetti, tra piccole manutenzioni, rifornimenti di gasolio per la caldaia,
spaccare legna da ardere, mantenere acceso e pulire il camino, coccolare lei e il
bambino, anche io avevo il mio bel daffare.
Intanto, C.d.p., riapparve sulla porta della nostra camera sfoggiando il completo
sexy, comprensivo di boa, che le avevo regalato a Natale, e dimenando i fianchi
come una ballerina di Can-can, mi invitò a una sorta di danza tribale che ebbe
l’effetto contrario a quello da lei certamente sperato.
Mi ci avvicinai, le spostai le mutandine e... la copulazione durò al massimo una
trentina secondi, che però furono sufficienti a farci rallegrare d’aver scelto quella
baita tanto isolata.
“Vado a letto; sono stremata” mormorò, uscendo dal bagno con aria stralunata.
La seguii inoltrarsi come una zombie nella penombra della stanza, e neanche un
minuto dopo già ronfava come un tasso.
Era stupenda la mia C.d.p. e, sembrerà strano, ma veramente io me ne sono
innamorato ancor prima di conoscerla.
Sapeva che ero molto impegnato a completare un libro perché non facevo altro
che chiedergli consigli e opinioni su tempi, verbi e termini più appropriati; poi, quando
non le chiesi più niente, probabilmente, doveva aver pensato che l’avevo ultimato, e
di seguito, vedendomi trafficare in taverna con fogli, morsetti, taglierine, bostik e
seghetti, che stavo cercando di impaginarlo e rilegarlo, e ora sapeva solo che lo
volevo rileggere in santa pace prima di donarlo ad amici e parenti che ci sarebbero
venuti a trovare per la sera dell’Epifania. All’inizio aveva cercato di estrapolarmi
qualcosa con piccoli stratagemmi, ma da quando le avevo spiegato che doveva
essere una sorpresa anche per lei, si era messa il cuore in pace e non era più tornata
sull’argomento.
Era orgogliosa del rispetto che mi portava; ci eravamo incontrati un po’ avanti con
l’età, ciascuno con le proprie esperienze di vita, ma, indubbiamente, eravamo fatti
per stare insieme.
Pensando alla mia dolce metà, mi spostai in veranda per prendere l’unico di quei
libri che non avevo impacchettato.
Fuori dalle vetrate nevicava ormai copiosamente, e per un po’ rimasi incantato a
seguirne i fiocchi scendere lenti come a non volersi far sentire. Poi tornai in salotto e
mi accomodai nella sedia a dondolo davanti al camino.
Appoggiato il libro sul tavolino al mio fianco, mi versai della grappa di mirtilli in un
bicchierino, e mentre la assaporavo perdendomi nella luce delle fiamme, mi
immaginai le facce che avrebbero fatto amici e parenti quando si sarebbero accorti
di quel che narrava e chi n’era l’autore.
Quel romanzo l’avevo letto e riletto un’infinità di volte al computer, ma da
impaginato e rilegato doveva essere tutta un’altra cosa.
Posai il bicchierino sul tavolo, presi il libro e me lo rigirai tra le mani.
Era venuto talmente bene che stentavo a crederci anche io.
Per la prima di copertina avevo scelto una foto scattata alla casa privata adiacente
alla locanda, o casa dei rosmarini come poi l’avrei denominata.
Nella seconda di copertina vi avevo inserito un breve sunto del romanzo, tanto per
dar l’idea di quel che narrava; nella terza una mia foto con biografia e nella quarta
alcuni passaggi salienti del romanzo.
A vederlo sembrava un libro vero.
“Proprio come quelli comprati in libreria” pensai.
Mi accesi una sigaretta, come avevo visto fare a uno scrittore al termine della sua
fatica letteraria in un film che mi era piaciuto tanto, poi mi aggiustai nella sedia a
dondolo, distesi i piedi davanti al camino, sorvolai le pagine introduttive e appunto
dondolando, mi calai nella rilettura di quel romanzo che parlava della nostra vita.
La strada polverosa s’inerpicava per la dolce...