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FATTO NOTORIO*
FATO NOTÓRIO
Andrea Panzarola**
RESUMO
O texto apresenta o tratamento dos fatos notórios no direito processual
europeu, apresenta seus fundamentos, com especial atenção ao seu tratamento legislativo na Itália, e sua utilização no momento decisório. Aponta
ao final uma série de referencias de consulta obrigatória para o trato da
temática.
Palavras-chave: Fato; Notório; Ciência privada; Prova; Decisão.
ABSTRACT
The text presents the treatment of notorious facts in the European Procedural
Law, including its grounds focusing specially on the legislative treatment in
Italy and its application in the decision moment. In the end, it indicates references which should be obligatory referred to when dealing with this subject.
Keywords: Fact; Notorious; Private science; Evidence; Decision.
1.
LA NOZIONE
Si inclina a credere che l’art. 115, co. 2, cod. proc. civ. descriva il cosiddetto
“fatto notorio”. Lo si rintraccia nella parte nella quale la norma richiama “le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Vi si riannoda il potere del
giudice di porle “a fondamento della decisione” “senza bisogno di prova”. Figurandovi la locuzione di “comune esperienza”, dalla definizione legislativa trapela
la nota essenziale del “notorio” italiano, che, per essere “comune”, non può che
avere origine extraprocessuale. Vi appartengono, allora, soltanto quei fatti della
vita sociale, umana o naturale che siano acquisiti – secondo quanto usa dire la
giurisprudenza – “alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da
apparire incontestabile”. Come vi restano estranee quelle nozioni di fatto conosciute soltanto da taluno (ad es. dal giudice in rapporto alla “esperienza” del processo,
* Texto com autorização de publicação no Brasil ofertada ao Prof. Dr. Dierle Nunes.
** Doutor em Direito Processual pela Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Professor Titutar da LUM – Libera Università Mediterranea “Jean Monnet” Bari – Itália. Advogado.
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quando si parla di Gerichtskundigkeit “in senso stretto”: infra § 5), così si presenta doveroso definire il trattamento del c.d. “notorio locale” (si rinvia al § 5).
Ma, a monte, si deve stabilire a quale “titolo” i fatti siano acquisiti, giacché, se
pure si constati che siano presenti ad una moltitudine, non per questo se ne può
predicare la notorietà. La quale ricorre solo alla condizione – rispecchiata nella
lettera dell’art. 115, co. 2, cit., e prima ancora lumeggiata dagli scrittori italiani in
studi fondamentali degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso – che quei fatti siano
conosciuti a titolo di normale “cultura” e non di mera informazione “contingente”
(sulla ratio del restringimento v. § 2; sulla appartenenza alla “cultura media” quale criterio per ammettere il notorio “locale” v. § 5).
Se è sicuro che non si esige una conoscenza “attuale” da parte del giudice del
“notorio” (sul requisito della “potenzialità” v. infra § 4), non è meno vero che un
fatto può reputarsi tale anche quando sia proprio della “cultura” di una collettività della quale quello non sia parte: purché non si tratti di un sapere specialistico
o tecnico, che certo non può ricondursi nei limiti della “comune esperienza” (propria, cioè, del cittadino medio) opportunamente segnati dal legislatore.
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E’ ancora sufficiente il riferimento al testo della norma (art. 115, co. 2, cit.)
per puntellare la diffusa persuasione circa l’estremo della “relatività”, che è stimato tipico del “notorio”: onde lo si apprezza nel tempo e nel luogo in cui avviene la
decisione. La “esperienza”, che ne è il sostrato, non è – per mutuare una felice espressione usata da Salvatore Satta in altro contesto – “che un’esperienza, e vale
finché non si formi un’esperienza contraria”. E’ poi una esperienza che, essendo
qualificata “comune”, richiede di essere specificata, commisurandola allo spazio, al
tempo, agli strati sociali, ecc., nei quali sia germogliata.
La formulazione della norma si fa pertanto apprezzare, tanto più quando sia
confrontata con le disposizioni poste da altri ordinamenti. Le quali, non di rado,
o sono generiche (v. per i sistemi austro-tedesco infra § 5); o paiono imprecise
(l’art. 281.4 della Ley de Enjuiciamiento Civil spagnola, ad es., stabilisce che “No
será necesario probar los hechos que” – cosa strana – “gocen de notoriedad absoluta
y general”); o sembrano comunque troppo legate ad una valutazione discrezionale del giudice (cfr., ad es., l’art. 61, n. 1, del Codice russo, per il quale “i fatti riconosciuti dal giudice come notori non hanno bisogno di prova”).
Il codice di rito italiano del 1940 pare invece aver messo a profitto l’ampia
elaborazione del concetto compiuta dalla dottrina (ed in primis da Piero Calamandrei) nel vigore del cessato codice di procedura civile, che non conteneva alcuna
previsione al riguardo.
Si aggiunga che, intorno al carattere “comune” della “esperienza” (art. 115,
co. 2, cit.), prende forma il tema del rapporto intercorrente fra il nostro e l’altro
istituto delle c.d. “massime di esperienza”. Sviluppando gli studi di Richard Schmidt, Friedrich Stein, nel suo celebre lavoro del 1893 sulla scienza privata del
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giudice (Das private Wissen des Richters), ha indicato la via. Non la si è sostanzialmente abbandonata negli anni avvenire, in un contesto pure proclive a relativizzare – a certi fini, almeno – la antitesi fortissima fra le due figure, che è in quel
libro. Se ne perpetua la lezione essenziale quando si prosegue ad insegnare che, se
entrambi sono capaci di riflettere le “esperienze” di una certa società in un certo
momento storico, fra fatti notori e “massime” residua una differenza di fondo:
soltanto le “massime d’’esperienza” (Erfahrungssätze, per stare alla definizione che
per primo ne diede lo Stein) consistono (se si eccettuano quelle che il giudice
adopera per l’interpretazione e specificazione della norma giuridica) in regole
logiche e di valutazione “critica” delle prove; al contrario, i “fatti notori” sono
specifici accadimenti o situazioni di fatto (che si esprimono in giudizi in facto
concreti ed individuali).
Non è che un altro modo di declinare la stessa distinzione, assunta stavolta
la prospettiva sillogistica di costruzione della decisione giudiziale, la corrente
affermazione che colloca le prime, in quanto “regole” (“forme” del ragionamento),
nella premessa maggiore di un sillogismo (“probatorio”, si affrettano a precisare
quanti riconoscono la autonomia della categoria); ed i secondi, per essere “fatti”
(“oggetti” del ragionamento), nella premessa minore: non diversamente da quel
che avviene d’ordinario, con le regole di giudizio che sono assegnate all’Obersatz
ed i fatti all’Untersatz.
Tra questi ultimi rientra il “notorio”, la cui ribadita indole “sostanziale” – perché stabilitasi prima e fuori del processo per ragioni di “cultura” –, mentre decreta il rigetto del legislatore italiano per il notorio “giudiziale” (infra § 5), è la premessa per la determinazione di un effetto (riflesso nel vecchio ditterio: notoria non
egent probatione) tipicamente processuale: per il notorio si fa eccezione, per espressa dichiarazione dell’art. 115, co. 2, cod. proc. civ., alla regola che vuole che il
giudice “secundum probata decidere debet”.
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Come l’esonero dalla prova consentito dalla norma è totale (non vi è “bisogno” di prove proposte dalle parti, dal p.m. agente o interveniente, disposte ex
officio dal giudice), allo stesso modo non pare lecito in linea di diritto (sulla situazione in concreto v. invece infra § 3) qualificare “notori” taluni fatti (quelli “secondari”) e non altri (i “principali”). Rimane controverso, nel silenzio del legislatore,
se, ancora sul fondamento del notorio, sia possibile derogare al principio che
vincola il giudice a decidere secundum allegata (§ 3).
2.
IL FONDAMENTO
Si sa che i conditores vollero “conservare” nel codice di procedura civile del
1940, quali “affermazioni di principio”, quegli “aforismi dell’antica sapienza” evocati alla fine del § prec. (cfr. par. 13 della Relazione al Re del Ministro Guardasigilli Dino Grandi). Sovente se ne conserva, peraltro, un ricordo incompleto: che tale
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resta sino a che al brocardo medioevale tramandato – “iudex secundum allegata et
probata decidere debet” – non si giustapponga il riferimento alla “coscienza” del
giudice (non “secundum conscientiam”). Per un tempo lunghissimo i due principi
hanno proceduto assieme; mentre lo si vincolava agli “allegata” e “probata”, si
impediva al giudice di interpellare la sua “coscienza”: gli si faceva divieto di decidere, per dirla in termini moderni, utilizzando la sua “scienza privata”.
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Se si riflette che, ai sensi dell’art.115, co. 2, cit., il “notorio” libera il giudice
dalla altrimenti doverosa aderenza al primo di quei due principi (recte: ai “probata”; v. § 3), non sfuggirà che in pari tempo chiama in causa il secondo, quando si
rammenti il rapporto di mutua implicazione che storicamente è interceduto tra
loro (“iudex secundum allegata e probata decidere debet, non secundum conscientiam”). In questa prospettiva, risalta allora l’inquadramento del fatto notorio
operato da chi vi ha scorto l’oggetto di una attività giudiziale che, nell’atto di assumerlo nella decisione della causa “senza bisogno di prova”, reca eccezione al
divieto di utilizzazione della “scienza privata” del giudice. Come ne rende manifesti i nessi con una esperienza secolare (sul principio quod non est in actis non est
in mundo v. infra § 3), così una tale sistemazione dell’istituto è capace di delucidare la ratio della deroga che pone a quel divieto: è stato detto che il giudice può
qui eccezionalmente attingere alla sua scienza privata perché, facendolo, non incorrerebbe nella incompatibilità psicologica che intercede fra la funzione di testimone e quella di colui a cui tocca di valutare la testimonianza.
Per i fatti che non esibiscano i caratteri che sono propri del “notorio” (compresi i fatti noti ad una moltitudine a titolo di mera informazione contingente: v.
retro § 1), quella incompatibilità non tarderebbe a profilarsi, giustificando, se non
imponendo, la generale posizione del divieto a carico del giudice di usare, nel
decidere, la sua “scienza privata”, preservandone in pari tempo la imparzialità. Ma
quando si tratti di “nozioni comuni” ad un determinato gruppo sociale, rispecchiamento di una esperienza e di una critica collettive, il giudice che vi si riferisca
nella decisione, accogliendole senza che siano provate da alcuno, anziché cumulare nella sua persona due funzioni inconciliabili, procura di dichiarare frammenti di “vita vissuta” nella trama del processo, rinsaldando la funzione strumentale
del secondo in rapporto alla prima. In generale, ne esce rafforzata la connessione
con la “Comunità”, della quale all’alba del terzo millennio il giudice appare
l’espressione: questi assicura che la collettività, nel cui nome la decisione è pur
sempre resa, vi possa rinvenire la traccia immediata di una nozione che si è per
tempo fissata fra la moltitudine dei suoi membri.
Alla base della considerazione del notorio nel processo non sta soltanto
questo anelito – certo essenziale – alla adeguazione dei risultati della attività giurisdizionale a quei dati della esperienza extraprocessuale, altrettanto conosciuti
che verificabili dalla collettività, nel cui nome il giudice decide. Si indovinano altresì
motivi di economia processuale, i quali, se rilevanti da sempre, guadagnano oggi
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una dignità nuova nella tutela costituzionale della “ragionevole durata” del processo
(art. 111, co. 2, Cost.).
Le esigenze che premono per la libera utilizzazione giudiziale del “notorio”,
in definitiva, paiono tanto urgenti e diffuse che non può sorprendere che gli ordinamenti più diversi siano propensi a favorirla. Negli uni vi si provvederà sul
presupposto di una norma di legge che negli altri potrà mancare, certi ne dilateranno la nozione al punto di sussumervi il notorio c.d. “giudiziale”(§ 5), qualche
ordinamento (quello francese, ad es.) rinuncerà a porre il concetto che altrove
apparirà finemente cesellato: tutti quanti non potranno però ripudiarlo, perché,
mentre in una maniera o nell’altra si permetterà al giudice di usare il “notorio”, si
tenterà sempre di appagare un bisogno che non è di questo o quel luogo, di un
certo processo e non di un altro, ma che è, o almeno pare, perenne ed universale.
Non si esagera pensando ad una necessaria immanenza del fenomeno in qualunque ordinamento processuale, vuoi di civil law vuoi di common law (con l’istituto
della judicial notice).
3.
LA ALLEGAZIONE
La formulazione letterale dell’art. 115, co. 2, cod. proc. civ., insieme alla sua
stessa collocazione (nell’ambito di un articolo rubricato: “disponibilità delle prove”),
sembrano suggerire di limitare l’effetto processuale del fatto notorio alla dispensa
dalla prova: esso può essere assunto dal giudice nella decisione “senza bisogno di
prova”. La medesima norma non dice pure: “senza bisogno di allegazione”.
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Ma il silenzio serbato dal legislatore, al riguardo, ben di rado è parso decisivo
agli interpreti. Vi sono autori che reputano superflua quella allegazione di parte,
che altri continuano ad esigere. Tutti quanti, però, vogliono che sia rispettato il
principio della domanda (art. 99 c.p.c.), per il quale deve essere l’attore ad individuare il diritto fatto valere in giudizio. Ne discende allora, nell’ambito dei “fatti
principali”, che l’allegazione di parte si presenta indispensabile per i fatti costitutivi (di diritti c.d. eterodeterminati: v. infra in questo §).
Né sfuggirà che l’urgenza dell’interrogativo si attenua grandemente non
appena si sappia qual è il posto che more solito spetta al nostro istituto: anziché
concernere (come pure possibile: v. retro § 1) i fatti “principali”, sovente specifici
e puntualizzati, la notorietà – per quella essenziale schematicità del suo “profilo”,
capace di sollecitare la formazione di una “comune esperienza” – si appunta
d’ordinario sul fatto “secondario”. A coloro i quali ne esigono la affermazione ad
opera delle parti, che sarebbero liberate solo dal relativo onere probatorio, si contrappongono insomma quegli altri scrittori, che le solleverebbero da entrambi gli
oneri: così della prova come della allegazione.
Ad un tempo, però, la contrapposizione testé tracciata è il risultato in molti casi
di una riflessione risalente, che si inscriveva all’interno di un quadro in movimento.
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Basti osservare che la speculazione dottrinale sul tema generale della allegazione
dei fatti nel processo si è negli anni arricchita per numero di contributi e caratterizzata per novità di risultati. Oggi si tende a credere che i fatti secondari – ancorché siano normalmente allegati dalle parti – possono comunque emergere dagli
atti del processo. Se ne può inferire che quella contrapposizione – delineatasi nello
specifico campo del notorio – ha perso molto del suo rilievo: anziché di una deroga ad una regola generale di segno opposto, la proposta di prescindere dalla allegazione di parte (del fatto notorio “secondario”) rappresenterebbe una convalida
di un principio dell’ordinamento. Si noti pure che il medesimo inquadramento
riservato al fatto “secondario” è oggi esteso in dottrina, quanto ai fatti “principali”,
non solo alle eccezioni rilevabili d’ufficio, ma anche ai fatti “costitutivi” concorrenti (nei diritti c.d. “autodeterminati”): sia le prime sia i secondi potrebbero – per
convincimento diffuso – essere ex officio ricavati dagli atti del processo.
La tesi della superfluità della allegazione di parte del fatto “notorio” va perciò
rivisitata al lume della complessiva impostazione del tema della allegazione dei
fatti nel processo. La posizione che va imponendosi, mentre ammette con larghezza il rilievo officioso dei fatti, non disconosce, ed anzi con valorizza – con ottime
ragioni – l’importanza della assicurazione del contraddittorio.
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Con questo, il problema, se è avviato a soluzione, non è però ancora risolto.
Non sfugge che altra cosa è tecnicamente la allegazione di un fatto, altra cosa la
sua introduzione nel processo: può dunque darsi che, pur nei limiti nei quali si
convenga di prescindere dalla allegazione del “notorio” ad opera della parte, vi
potrà essere chi ne ritenga egualmente impossibile il rilievo officioso, quando di
esso gli atti di causa non rechino traccia. A coloro che propendano per tale soluzione, obbedendo al principio che quod non est in actis non est in mundo, si
opporrà che proprio per reagire al rigore probatorio sottinteso in questa formula
(ed in contemplazione di quell’altra locuzione considerata retro § 2) si provvide
nell’epoca di mezzo ad elaborare la categoria del “notorio”. Ad onta di ciò, il doveroso rispetto del principio del contraddittorio suggerisce di praticare l’altra
soluzione, che obiettivamente meglio assicura i diritti delle parti. Diversamente,
si esigerebbe che esse – per l’eventualità che il giudice intenda utilizzare un fatto
“notorio” non emergente ex actis – predispongano in anticipo le proprie difese.
4.
LA VERIFICA EVENTUALE
Il tema dei mezzi capaci di procurare nel giudice, ove occorrente, la conoscenza dei fatti notori sollecita da sempre l’attenzione degli interpreti: sin da quando, si direbbe, nell’epoca di mezzo si ammetteva la esperibilità, per iniziativa
dell’ufficio, della inspectio ocularis del notorium facti permanentis.
La posizione stessa del tema suppone oggi il riconoscimento nel “notorio”,
insieme alla nota della “relatività” (retro § 1), dell’estremo della “potenzialità”: con
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questo connotato si designa la possibilità che ne sia acquisita la nozione, la quale
non deve pertanto essere necessariamente presente al giudice per essere posta a
fondamento della decisione. Quando si concordi sull’inquadramento del “notorio”
in chiave di deroga al divieto per il giudice di decidere secondo la sua scienza
privata (retro, § 2), apparirà ineccepibile l’idea, del resto generalmente ammessa,
di consentirne oggi il reperimento tramite delle indagini private: ove ignori
l’esistenza di un fatto notorio, il giudice vi potrà liberamente dare corso; oltre che
sull’an, si dovrà dire di una libertà nel quomodo della investigazione (con il solo
limite della ragionevole affidabilità della fonte di informazione). Se questo è il
quadro, non vi è pertanto spazio per la elaborazione di una specifica regolamentazione giuridica dei mezzi funzionali alla verifica del notorio. Il quale, una volta
acquisito, per i caratteri che gli sono propri (retro, §§ 1e 2), sembra di massima
sottratto ad ulteriore verifica istruttoria.
5.
IPOTESI PARTICOLARI
A dispetto dell’accoglimento spesso di un concetto assai rigoroso di “notorietà” (retro § 1), trova ingresso in giurisprudenza il c.d. “fatto notorio locale”, vale a
dire “limitato ad una ristretta cerchia di soggetti”, alla condizione che sia entrato a
far parte della loro cultura media (e ad ulteriore dimostrazione della importanza
essenziale che si deve assegnare, per aversi “notorio”, al “titolo” della conoscenza: v.
ancora sub § 1). Non egualmente dicasi per il “notorio c.d. giudiziale”, intendendosi per tale quel fatto che, riferendosi alla sua attività ufficiale nel processo, sia
conosciuto dal giudice virtute officii.
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Altrove, soprattutto nei sistemi processuali tedesco (§ 291 Zivilprozessordnung
– ZPO) ed austriaco (§ 269 ZPO), la notorietà “giudiziale” ha potuto essere riconosciuta in corrispondenza di previsioni di legge ben altrimenti generiche di
quella del nostro codice. Avviene allora che, nella assenza di una espressa definizione legislativa dei “fatti notori”, si forgi una categoria generale di “notorietà”
(Offenkundigkeit) all’interno della quale si isolano le due figure della Allgemeinkundigkeit e della Gerichtskundigkeit: con quest’ultima espressione che denota quei
fatti conosciuti dal giudice per ragioni di ufficio. In un simile ordine di idee paiono muoversi, quale più quale meno, altri ordinamenti: il polacco e l’ungherese, il
bulgaro e lo svedese, il finlandese, il ceco ed il norvegese, ecc. Il § 179 della legge
processuale giapponese, con il riferimento (che è nella seconda parte della disposizione) ai fatti notori senza ulteriore specificazione, pone le premesse perché sia
seguito, anche su questo punto, il modello tedesco.
Inversamente, si è veduto (retro § 1) che in Italia contro la notorietà “giudiziale” sta l’art. 115, co. 2, cit., che evoca i soli fatti che siano racchiusi “nella comune esperienza”. In astratto ben si può ipotizzare peraltro, al di fuori di questo
precetto generale, la esistenza di specifiche disposizioni di legge che, volta a volta,
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facoltizzino il giudice a ritenere la verità di un fatto, che pur non essendo stato
provato (ed al limite neppure affermato dalle parti: retro § 3) gli sia noto in dipendenza della sua esperienza d’ufficio. In concreto, non sfuggirà che le ipotesi più
rilevanti, che nel tempo sono state addotte per comprovarne la vigenza, quando
si prescinda da quelle di portata schiettamente processuale (artt. 273, 274 c.p.c.),
o sono parse di dubbia interpretazione o sono state abrogate (ad es. l’art. 688 cod.
comm., prima, l’art. 6 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, poi, nella parte nella quale vi era
contemplata la dichiarazione d’ufficio del fallimento, possibile – secondo taluni
– anche in base agli elementi derivanti da altri giudizi dei quali il giudice avesse
notizia; o – nel quadro del cessata normativa sul decreto ingiuntivo di avvocati,
notai, ecc. – la condizione soggettiva del professionista abilitato ad iniziare il procedimento monitorio “puro”: detta condizione, quantunque dovesse essere in
principio provata, avrebbe potuto – per certa dottrina – essere verificata d’ufficio
dal giudice, in accordo con i postulati del “notorio giudiziale”).
Dai repertori di giurisprudenza traspare un’attitudine circospetta della giurisprudenza: la quale suole dire che il fatto notorio, apportando deroga al principio dispositivo delle prove e soprattutto al principio del contraddittorio, va inteso
in senso rigoroso; ed inoltre – quale corollario – che non vi può essere spazio per
quelle conoscenze che derivino al giudice “dalla pregressa trattazione di analoghe
controversie”.
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Più ampiamente, contro la pretesa esistenza di un principio che consenta il
ricorso al notorio giudiziale nei processi ispirati alla tecnica c.d. inquisitoria, vale
addurre che le regole del contraddittorio sono cogenti e debbono esservi comunque osservate, come lo sono del resto nell’esperimento delle prove che vi sono
disposte d’ufficio. Non pare profilarsi, in conclusione, altra soluzione che questa:
se con la espressione di “notorio giudiziale” si denota ciò che in veste ufficiale il
giudice abbia conosciuto al di fuori del processo che conduce, ecco che torna ad
avere pieno vigore il divieto di utilizzazione della scienza privata (retro § 2), con
la quale quella nozione speciale di notorio finisce per confondersi.
Su basi differenti va invece impostato il problema che denomineremmo del
“notorio arbitrale”. Quando fosse ammesso, in accordo con gli auspici di una
dottrina autorevole, si noterebbe che questo concetto potrebbe procurare una
dilatazione della categoria del “notorio”, quale emergente dall’art. 115, co. 2, cit.:
con l’arbitro in condizione di attingere autonomamente pure a quelle nozioni di
fatto comprese nel patrimonio comune di conoscenze “dell’ambiente in cui opera”.
In effetti, è lecito immaginare che le parti si determinino a scegliere uno o più
arbitri anche, se non solo, al lume del possesso di nozioni di fatto consimili. Sicché,
anziché meravigliare, parrà naturale che, all’atto di decidere, sia permesso loro di
ritenerne la verità “senza bisogno di prova” (e allegazione, nei limiti tracciati sub
§ 3). Con questo, evidentemente, l’attività degli arbitri non cesserebbe di integrare una deviazione, sia pure motivata, dalla opposta regola che vincola anch’essi a
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decidere iuxta (allegata et) probata (secondo quanto chiarito retro, spec. §§ 1-3):
s’intende allora l’importanza del richiamo al controllo delle parti nelle forme di
un penetrante contraddittorio.
6.
IL SINDACATO
In applicazione dell’art. 115, co. 2, c.p.c. il magistrato enuncia giudizi di fatto
individuali (retro, § 1). Ovvio che si ponga il problema della loro rivedibilità,
quando l’impugnazione sia limitata dalla legge ai profili in jure della decisione.
Negheranno viceversa il problema quanti, con Enrico Allorio, vorranno
segnalare la affinità che legherebbe la conoscenza dei fatti notori con la conoscenza del diritto, estendendo a quelli il trattamento che è di questo. Ma quando si
rifiuti – come la rifiutano la totalità della giurisprudenza e la dottrina di gran
lunga prevalente – l’idea alloriana (che la notorietà rientri, come fatto di cultura,
nella “scienza ufficiale” del giudice), ecco che il tema del sindacato dinanzi alla
Corte di cassazione del “notorio” torna a farsi incalzante. Perché è la collocazione
del notorio nell’ambito della quaestio facti a rappresentare lo sfondo della restrittiva giurisprudenza del Supremo Collegio.
La quale si innesta sull’idea che la posizione di un fatto come notorio nella
pronunzia impugnata con ricorso per cassazione, in tanto può essere controllata,
in quanto il ricorrente si dolga dell’accoglimento (da parte del giudice inferiore)
di una inesatta nozione (nel senso chiarito retro § 1) di notorio. Colui che propone il ricorso non potrebbe perciò limitarsi a negare semplicemente la notorietà del
fatto ritenuta dal giudice a quo (ma, per una eccezione, v. infra, in fine di questo
§). Caso mai – si preoccupa di aggiungere la giurisprudenza – la non veridicità del
(preteso) fatto notorio potrebbe essere denunziata con il distinto rimedio della revocazione, entro gli spazi (che sappiamo angusti) dell’errore di fatto c.d. “revocatorio”
(art. 395 n. 4, c.p.c.).
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D’altronde, nell’attimo stesso in cui la Corte Suprema dichiara che il giudice
non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda la determinazione assunta
(circa il carattere notorio di un fatto), si comprende che non vi può essere posto
di norma per il controllo della motivazione.
Si situa in questo contesto la questione ulteriore, se il giudice sia tenuto a
porre a base della decisione i fatti notori. L’opinione positiva, che è diffusa fra gli
scrittori, deve confrontarsi con la diversa posizione della giurisprudenza, propensa ad assegnare al giudice un potere discrezionale al riguardo, in principio
insindacabile.
Si noti infine che il rapporto «Cassazione-fatto notorio» si porge alla osservazione anche da un punto di vista differente da quello – sin qui considerato – del
sindacato della prima sulla affermazione – intorno al secondo – di altro giudice.
Si domanderà, dunque, se la Corte Suprema possa autonomamente conoscere un
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fatto come notorio. Ammettendolo, si porranno le basi per riconsiderare anche i
limiti del suo sindacato, allorché i fatti ritenuti notori dal giudice a quo fuoriescano – per dirla con Satta – “dai limiti di una ragionevole credibilità”. In tal caso, il
controllo della Cassazione dovrà essere pieno. Occasionalmente se ne mostra
persuaso pure il Supremo Collegio; quasi intuisse che, rinserrando il suo sindacato nei limiti consueti, le ragioni stesse di una disciplina del “notorio” nel processo
(quali evidenziate retro, § 2) sarebbero d’un colpo cancellate.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Il fondamentale lavoro di F. STEIN, Das private Wissen des Richters. Untersuchungen zum Beweisrecht beider Prozesse, Leipzig, 1893, rist. Aalen, 1969 (sub C.,
§ 8 ss., spec. p. 138 ss.), merita di essere considerato (per riconoscimento dello
stesso Stein, che vi si riferisce nella “introduzione” del suo libro) insieme allo scritto
di poco precedente (luglio 1892) sulle “osservazioni stragiudiziali del giudice”; di
R. SCHMIDT, Die außergerichtlichen Wahrnehmungen des Prozeßrichters, in Sächsisches
Archiv für bürgerliches Recht und Prozeß, 1892, vol. II, p. 265 ss. (pure pubblicato in
edizione speciale, Leipzig, 1892). Il saggio di J. KOHLER, Ueber notorische Thatsachen,
in Gesammelte Beiträge zum Civilprocess, Berlin, 1894 (rist. Aalen, 1980, Gesammelte Beiträge zum Zivilprozess), pp. 68-72, è il primo fra quelli nei quali la distinzione
tracciata da Stein – fra fatti notori e massime di esperienza – è criticata.
24
La dottrina italiana, pur nutrendosi degli apporti della letteratura tedesca
(“veramente notevole sul tema della prova”, ebbe a dire F. CARNELUTTI, La prova
civile. Parte generale. Il concetto giuridico della prova, Roma, 1915 – rist. Milano,
1992 –, pp. 9-10, menzionando, fra gli altri, proprio il libro di Stein; che è richiamato, insieme al saggio di Schmidt, da G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, rist. inalterata, Napoli, 1980, con prefazione di V. Andrioli, p. 733 e nota
1), presenta lo stesso sul tema caratteri di forte originalità: cfr. P. CALAMANDREI, Per
la definizione del fatto notorio; in Riv. dir. proc. civ., 1925, parte I, p. 273 ss. (ripubblicato, dapprima, in ID., Studi sul processo civile, vol. II, Padova, 1930, p. 289 ss.;
poi in ID., Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. V, con presentazione di
T. Carnacini, Napoli, 1972, p. 425 ss.); G. CHIARELLI, La definizione del fatto notorio,
in Arch. giur., 1927, p. 227 ss.; E. ALLORIO, Osservazioni sul fatto notorio, in Riv. dir.
proc. civ., 1934, parte II, p. 3 ss. (nonché in ID., Problemi di diritto, vol. I, L’ordinamento
giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, Milano, 1957, p. 361
ss.); G. MAZZARELLA, Appunti sul fatto notorio, in Riv. dir. proc. civ., 1934, parte II,
p. 65 ss.; G. CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova,
1937 (rist. Padova, 1964), spec. pp. 70 ss., 104 ss., 167 ss. (in accordo con la critica
radicale che l’autore muove al c.d. logicismo processualistico); G. PAVANINI, Massime di esperienza e fatti notori in Corte di cassazione, in Riv. dir. proc. civ., 1937,
parte I, p. 247 ss.; G.A. MICHELI, Sulla nozione di fatto notorio, in Giur. compl. Cass.
Civ., 1945, II quadrimestre, pp. 286-287; L. MONTESANO, Osservazioni sui «fatti
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Fatto notorio
notori», in Giur. compl. Cass. civ., 1947, III quadrimestre, p. 222 ss.; V. DENTI, Ancora sulla nozione del fatto notorio, in Giur. compl. Cass. civ., 1947, III quadrimestre,
p. 264 ss.; G. DE STEFANO, Il notorio nel processo civile, Milano, 1947 (cui adde,
senza sostanziali cambiamenti, ID., voce Fatto notorio – dir. priv. -, in Enc. dir., XVI,
Milano, 1967, p. 999 ss.; nonché, per un profilo specifico, ID., Osservazioni sulla
censurabilità del notorio in Cassazione, in Giur. it., 1955, I, 1, c. 777 ss.); C. LEONE,
Contributo allo studio delle massime di esperienza e dei fatti notori, Bari, 1951 (estr.
dagli Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Bari, Nuova
Serie, vol. X, 1950); F. CARNELUTTI, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. dir.
proc., 1959, p. 639 ss.; G. De STEFANO, Note minime sulla cosiddetta notorietà locale,
in Giur. it., 1959, I, 1, c. 99 ss.; S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile,
lib. I, Disposizioni generali, Milano, 1959, p. 460 ss.; M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità. Contributo alla teoria della utilizzazione
probatoria del sapere delle parti nel processo civile, Milano, 1962, vol. I, pp. 57-58,
350-351; vol. II, p. 663; M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970,
pp. 48, 53, 197 ss., 246; E. GRASSO, Dei poteri del giudice, in Commentario del cod.
di proc. civ., diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973, p. 1308 ss.; V. ANDRIOLI, voce
Prova (diritto processuale civile), in Noviss. Dig. It., vol. XIV, Torino, 1967, p. 279
ss.; S. PATTI, Prove, disposizioni generali, in Commentario del codice civile ScialojaBranca, 1987, pp. 10-11 (nonché ID., voce Prova. I) Diritto processuale civile, in
Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XXV, Roma, 1991); G. VERDE, voce Prova (dir.
proc. civ.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, pp. 618-619; B. CAVALLONE, Il
giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991 (in alcuni dei saggi che vi sono
raccolti, spec. pp. 137 ss., 202 ss., 244 ss., 297 ss.); D. BUONCRISTIANI, L’allegazione
dei fatti nel processo civile, profili sistematici, Torino, 2001, spec. 125 ss.
25
Fra gli scrittori italiani ha mostrato favore per il “notorio giudiziale” G.A.
MICHELI, Corso di diritto processuale civile, I, Parte generale, Milano, 1959, p. 231 e,
prima ancora, in termini più ampi, ID., L’onere della prova, Padova, 1942 (rist. Padova, 1966), p. 120 ss. Sulla esperienza tedesca della Gerichtskundigkeit – oltre ai
lavori menzionati di F. STEIN (che vi riserva il § 10. III. della sua opera: pp. 157-162)
e di R. SCHMIDT (op. cit., spec. pp. 273 e 277) – si può ancora proficuamente consultare R. SCHULTZ, Die Gerichtskundigkeit von Tatsachen, in Festgabe für Richard Schmidt zu seinem siebzigsten Geburtstag 19. Januar 1932 überreicht von Verehrern und
Schülern, Leipzig, 1932 (rist. Aalen, 1979), vol. I (Straf- und Prozessrecht), p. 283 ss.
Sui rapporti fra arbitrato e “notorietà”, v. G. VERDE, Lineamenti di diritto
dell’arbitrato, 2ª ed., Torino, 2006, pp. 124-125.
Sulla origine storica dell’istituto del “notorio” (che nel tempo si è presentato
– oltre che come notorium facti, distinto in permanentis, transeuntis e interpolati
– nella forma o del notorium iuris o del notorium praesumptionis,) si continua a
guardare a C. LESSONA, Trattato delle prove in materia civile, vol. I, Parte generale, 3ª
ed., Firenze, 1922 (rist. ed. 1914), p. 297 ss.; nonché all’opera di G.W. WETZELL,
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System des ordentlichen Zivilprozesses, 3ª ed., Leipzig, 1878 (rist. Aalen, 1969), p.
179 ss. (ancorché qua e là se ne rifiutino i risultati). Cfr. anche, sul punto, L. FERRARA, Relatività del notorio, in Foro it., 1940, I, c. 965 ss.; C. GHISALBERTI, La teoria del
notorio nel diritto comune, in Annali di storia del dir., I, 1957, p. 403 ss. (con speciale considerazione per i due più importanti lavori sul notorio nel diritto comune,
quello di Antonio da Budrio e l’altro di Benedetto Capra); ID., voce Fatto notorio
(storia), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 995 ss. L’esperienza canonistica è rivisitata, in particolare, da R. BERTOLINO, Il notorio nell’ordinamento giuridico della
Chiesa, Torino, 1965, p. 115 ss. (in “Università di Torino. Memorie dell’Istituto
Giuridico. Serie II, Memoria CXX”). Per i riflessi della teoria del notorio nell’ambito
della ricusazione, v. A. PANZAROLA, La ricusazione del giudice civile. Il problema della
impugnabilità della ordinanza, Bari, 2008, pp. 127, 130, 141, 148, 154.
In generale, sul problema (che ha affaticato i giuristi per oltre sei secoli: cfr.
R. SCHMIDT, op. cit., spec. p. 279 ss.) se il giudice debba decidere secundum allegata ovvero secundum conscientiam, cfr. K.W. NÖRR, Zur Stellung des Richters im
gelehrten Prozess der Frühzeit: Iudex secundum allegata non secundum conscientiam iudicat, München, 1967 (in “Münchener Universitätsschriften. Reihe der
Juristischen Fakultät”, vol. 2). Da ultimo v. A. PADOA SCHIOPPA, La coscienza del
giudice, in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, 2003, p. 251 ss. Sul
problema del giudice-testimone cfr. pure A. PANZAROLA, op. cit., p. 319.
26
Il collegamento del giudice con la “Comunità” (sul quale v. N. PICARDI, La
giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano, 2007, spec. pp. 183 ss., 132 ss., 88
ss.) potrebbe offrire nuovi elementi per impostare la questione del fondamento
del “notorio”.
Sul trattamento del “notorio” nelle legislazioni europee qualche utile indicazione è rintracciabile in AA.VV., Beweis – Preuve – Evidence. Grundzüge des zivilprozessualen Beweisrechts in Europa, Baden-Baden, 2003, a cura di H. Nagel e E.-M.
Bajons. Sulla legislazione giapponese v. Das Japanische Zivilprozeßrecht. Zivilprozeßgesetz und Zivilprozeßverordnung nach der Reform von 1996, a cura di C. Heath
e A. Petersen, Tübingen, 2001, p. 79. Sulla insoddisfacente definizione del notorio
che è nella legge spagnola cfr. J. MONTERO AROCA, in AA.VV., Derecho jurisdiccional,
II, Proceso civil, 11ª ed., Valencia, 2002, p. 252. Quanto alla norma russa cfr. in
Codice di procedura civile della Federazione Russa 2003 (Italiano-Inglese-Russo), a
cura di N. Picardi e R. Martino, Bari, 2007, p. 123.
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