Comportamento visibile
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Comportamento visibile
IL RUOLO DEL COMPORTAMENTO VISIBILE NELLʼORGANIZZAZIONE DELLʼINTERAZIONE SOCIALE Adam Kendon Versione italiana di Maria Graziano Un adattamento di “The Role of Visible Behaviour in the Organization of Social Interaction” in M. von Cranach e Ian Vine (a cura di) Social Communication and Movement: Studies of Interaction and Expression in Man and Chimpanzee. London: Academic Press, 1973, pp. 29-74. Nota introduttiva: Da quando questo articolo è stato pubblicato sono stati fatti moltissimi importanti studi in questo campo. Nonostante questo, le idee fondamentali in esso espresso sono ancora valide. Non abbiamo fatto un aggiornamento completo, però qua e là abbiamo aggiunto una nota per indicare i più importanti sviluppi che si sono avuti negli anni successivi alla pubblicazione originale. Nellʼadattamento fatto per la versione italiana alcune brevi parti sono state omesse ma ne sono state aggiunte altre non comprese nellʼarticolo originale, per chiarire alcuni concetti. Inoltre, alcuni termini e frasi sono stati modificati di comune accordo con lʼautore affinchè il testo sia più idoneo allʼespressione italiana. 1 Introduzione Supponiamo che John voglia parlare con Harry di qualcosa. Affinché ciò possa accadere occorrono una serie di condizioni: John deve far percepire la sua presenza a Harry, deve farsi identificare o essere identificabile, e deve far capire che è con Harry, e non con Tom che è lì vicino, che vuole parlare; Harry deve, dunque, essere d’accordo a partecipare alla conversazione con Tom e deve manifestare tale consenso. Nel corso della conversazione, entrambi i partecipanti devono organizzare il proprio comportamento secondo certe regole. Ciascuno deve continuamente mostrare che è presente come partecipante alla conversazione e deve mostrare che la sua attenzione è rivolta principalmente alla conversazione e non a qualcos’altro, deve parlare al proprio turno e quando parla deve fare capire a chi si sta rivolgendo, quando ascolta deve indicare chi sta ascoltando. Durante la conversazione, ogni partecipante deve dire cose pertinenti alla “cornice” 2 Adam Kendon: Comportamento visibile o alla “definizione” prevalente della conversazione, e deve mostrare che non è né troppo annoiato, né troppo agitato da ciò di cui si sta parlando. Inoltre, ognuno deve rispettare l’accordo attraverso cui i ruoli dei partecipanti alla conversazione sono definiti e mantenuti. In altre parole, nel partecipare ad una conversazione, i partecipanti devono cooperare per mantenere un sistema di relazioni, un’organizzazione in cui la conversazione, qualunque cosa concerna, si possa compiere. Diremo che i partecipanti alla conversazione avviano e mantengono un “consenso operativo” (working consensus) che specifica le “regole basilari” per il comportamento da tenere nella conversazione. Questi aspetti dell’organizzazione degli incontri faccia a faccia sono stati descritti da Goffman in vari saggi (1955, 1957, 1961a – si veda Goffman 1988, 2003 per lw traduzioni italiane) in cui viene fatta un’analisi abbastanza minuziosa dei requisiti della condotta conversazionale, ma non è presente nessuna descrizione dettagliata dei tipi di comportamento che lo costituiscono. Per esempio, nel suo saggio “Alienazione dall’interazione” (1957; trad. it. Goffman 1988, pp. 123-150), Goffman descrive come spesso sia necessario che i partecipanti alla conversazione siano completamente presi dal punto focale d’attenzione ufficiale della conversazione e mostra cosa accade quando questo requisito non viene rispettato, ma lascia che sia il lettore a capire cosa si intenda per “essere presi completamente” in termini comportamentali. Tuttavia, mentre la maggior parte di noi riesce a rendersi conto, con notevole abilità, se qualcuno non si comporta in modo appropriato in una conversazione, è tutt’altra faccenda essere in grado di dire precisamente cosa può o non può fare una persona; similmente, mentre la maggioranza di noi è capace di partecipare ad una conversazione, nessuno sarebbe in grado di dire come riesce a farlo, se glielo si chiedesse. Eppure bisogna avere una conoscenza sistematica ed esplicita di tutte le componenti del comportamento conversazionale per capire come è fatto, perché alcune persone sbagliano e come le persone imparano tale comportamento. L’abilità di conversare e dunque partecipare ad un’interazione sociale è dopo tutto il fondamento della complessità della nostra vita sociale. Comprendere questa abilità sembra essere essenziale ai fini della descrizione di una teoria sulla natura del comportamento sociale umano. In questo capitolo, si tenta di illustrare quegli aspetti del comportamento dei partecipanti ad una conversazione che sembrano organizzare, determinare e mantenere le conversazioni. Si cerca di indicare, per esempio, in che modo le persone mostrano di conversare l’una con l’altra, in che modo mantengono il “consenso operativo” e in che modo raggiungono un armonioso scambio di enunciati. Ci occupiamo, dunque, non di cosa si dicono le persone ma di come esse creano e mantengono le condizioni in cui possono dire le cose l’uno all’altro. Ci occupiamo della natura dei canali della comunicazione faccia a faccia e non del motivo per cui questi canali vengono utilizzati. Quindi, la nostra Adam Kendon: Comportamento visibile 3 intenzione è evidenziare un aspetto dell’interazione che fino a poco tempo fa è stato a malapena sfiorato. Gli studi classici sull’interazione, come quelli iniziati da Bales e colleghi (si veda, per esempio, Hare, 1962; Hare et al., 1966), hanno preso in considerazione quasi esclusivamente i messaggi che i partecipanti alle riunioni conversazionali (i cosiddetti “piccoli gruppi”) comunicano l’uno all’altro. E sebbene ci si fosse resi conto che nei raggruppamenti e nei gruppi il flusso dei messaggi era differenziato lungo “canali” o “reti” (Bavelas, 1950; Bales et al., 1951; Bales, 1958; Shaw, 1964), non si prestò pressoché nessuna attenzione a come questi canali erano organizzati naturalmente dai partecipanti. Ed anche oggi che l’interesse sembra concentrarsi maggiormente sul modo in cui le persone comunicano, l’enfasi sembra essere ancora posta su quali messaggi ci si scambia, piuttosto che sulle condizioni in cui essi sono scambiati. Per studiare la comunicazione dobbiamo occuparci sia dei canali che dei messaggi, sebbene qui ci concentreremo sui canali. Qui ci occuperemo solo del comportamento visibile (visible behaviour). Questo perché quasi tutti gli studi riguardanti la questione di come sono organizzate le conversazioni concernono questo aspetto. Le funzioni organizzative del discorso ed altri tipi di vocalizzazione, così come quelle di altri modi di comunicare come il tatto, sono state a lungo quasi completamente inesplorate.1 Il comportamento visibile, come implica il termine stesso, si riferisce a tutto ciò che un individuo fa e che è visibile agli altri. Dunque, esso include il modo in cui una persona si muove nello spazio e la posizione spaziale che può mantenere, sia rispetto alle caratteristiche di un dato luogo sia rispetto alle altre persone presenti. Il comportamento visibile include la postura e tutti i tipi di movimenti del corpo, quelli altamente specializzati per la comunicazione, come i gesti o le espressioni facciali, e quelli meno specializzati, come i cambiamenti della postura o il comportamento associato ai diversi tipi di attività che bisogna svolgere. Includiamo anche l’aspetto dell’individuo – la fisionomia, l’abito e il modo di presentarsi in pubblico – benché questi aspetti non saranno trattati qui. L’analisi che segue sarà divisa in tre sezioni. Nella prima, tratteremo di quegli aspetti del comportamento nelle conversazioni che permangono per la maggior parte dell’occasione. Descriveremo i diversi modi in cui i partecipanti 1 Nota aggiunta nel 2004:. Le funzioni organizzative del discorso, incluso il problema del “turn taking” e come i partecipanti ad una conversazione gestiscono (“micromanage”) lo scambia degli enunciati, diventano oggetto di studio di grande importanza almeno dal 1974 quando fu pubblicato il famoso articolo di Harvey Sacks, Emanuel Schegloff e Gail Jefferson “A simplest systematics for the organization of turn taking in conversation” che possiamo dire avviano lo studio dell’ “analisi della conversazione” (“conversation analysis”). Se avessi scritto oggi un articolo come questo, vi sarebbe un chiaro ed esplicito riferimento agli studi fatti finora, ma nel 1973 questo non era ovviamente possibile! Per quanto riguarda, invece, le funzioni comunicatve di altri modi comunicare come il tatto, non esistono ancora molti studi. 4 Adam Kendon: Comportamento visibile alla conversazione tendono a disporsi nello spazio, le posture che assumono e come queste li differenziano dai non-partecipanti alla conversazione; mostreremo anche come questi modelli di disposizione nello spazio e le posture possono riflettere gli aspetti del “consenso operativo” dell’occasione. Ci riferiremo al modo più o meno permanente di disporsi nello spazio e di assumere una certa postura con il termine configurazione dell’incontro: la si può considerare come una messa in scena in cui i partecipanti possono cominciare la fase dell’incontro in cui svolgere le attività di comune interesse. Nella seconda sezione, passeremo in rassegna alcune caratteristiche del comportamento visibile richiesto nell’organizzazione delle attività che i partecipanti ad una conversazione svolgono insieme. Ciò include, per esempio, la questione di come i partecipanti segnalano qual è la persona a cui si stanno rivolgendo, come ci si scambi senza difficoltà il ruolo di parlante o il turno di parola. Nella terza sezione, ci concentreremo sul comportamento dell’individuo – in particolare sul modo in cui organizza la sua rappresentazione sociale (social performance). Sebbene abbiamo cercato di riferirci alla maggior parte degli studi sull’argomento, quello che segue non è il tentativo di una completa rassegna della letteratura pertinente. Poiché pochi sono i lavori direttamente attinenti, molti argomenti non sono stati presi in considerazione. Quindi, per ora, non possiamo dire nulla sul modo in cui sono avviate le conversazioni né su come vengono terminate, benché questa sia una questione molto importante. Solo Goffman (1963) sembra aver prestato attenzione alla fase iniziale degli incontri in modo sistematico ma le sue osservazioni riempiono solo poche pagine.2 Abbiamo dovuto trascurare anche l’analisi di come gli incontri sociali si svolgono nel tempo. Molto poco è stato fatto su questo, forse perché è difficile fare le osservazioni necessarie. Alcune osservazioni ed idee stimolanti sono state avanzate da Pike (1954) e da Scheflen (1968, 1969, 1973), e possiamo includere anche le osservazioni di Bales (1950), Heinicke (1960) ed altri che hanno studiato gruppi in psicoterapia; ma, tuttavia, si è dovuto far affidamento, molto più spesso di quanto si voglia, su osservazioni occasionali e sull’analisi di singoli esempi ed alcune di queste analisi non sono ancora state pubblicate. Comunque, l’intento è quello di fornire uno schizzo di come sono organizzate le conversazioni ed illustrare i tipi di problemi che bisogna studiare. Se non si è fornita una forte prova per ogni cosa che si è detta, si spera almeno di aver stimolato l’idea per ulteriori indagini. Prima di procedere bisogna fissare alcuni punti sulla terminologia. Useremo il termine raggruppamento (gathering) per indicare un insieme di individui co-presenti, cioè un insieme di individui che sono reciprocamente influenzati Ma si veda Goffman (1971, capitolo 3) e Kendon e Feber (1973). Questi studi sono apparsi quando è stato scritto quest’articolo. 2 Adam Kendon: Comportamento visibile 5 nel comportamento dalla loro mutua presenza. I raggruppamenti ricorrono normalmente in uno spazio fisico più o meno ben definito, e useremo il termine sito (site) per riferirci a questo spazio. I siti sono riconoscibili solamente l’uno in relazione all’altro. Per esempio, a seconda dei nostri scopi, può essere considerato un sito l’intera Galleria Umberto I a Napoli, oppure potremmo considerare come siti separati aree più ristrette al suo interno. In un raggruppamento possiamo trovare due tipi essenziali di unità di partecipazione. Queste unità saranno chiamate singoli (solos) e insiemi (withs). Un singolo è un individuo che non è, in un dato momento, connesso con nessun altro in modo diretto. Ad esempio, un uomo che aspetta sua moglie da solo è un singolo, però non appena sua moglie lo raggiunge, l’uomo diventa parte di un insieme. I gruppi conversazionali sono degli insiemi, ma lo sono anche i piccoli gruppi di persone, come un piccolo gruppo di studentesse alla stazione ferroviaria, anche se stessero tutte dormendo. In un insieme, può occorrere un’interazione esplicita o focalizzata, sebbene i membri degli insiemi possano anche essere impegnati in interazioni non focalizzate, come fanno, per definizione, tutti i singoli. Un’interazione focalizzata (focused interaction) occorre quando due o più persone riconoscono esplicitamente un punto focale d’attenzione mantenuto in comune, come fanno i conversatori di qualunque tipo, i giocatori di carte o gli amici che si salutano da lontano. Ma questo può non essere vero per un lustrascarpe e il suo cliente: il cliente può essere assorto nel suo giornale mentre il lustrascarpe gli pulisce le scarpe; ma non si può giocare a carte con qualcuno che legge il giornale. Un insieme di individui impegnati in un’interazione focalizzata è definito raggruppamento focalizzato (focused gathering). Poiché ci occuperemo perlopiù dei raggruppamenti focalizzati, useremo il termine “raggruppamento” per riferirci ad essi, ma quando si intenderà raggruppamento in senso generico questo sarà specificato. Il termine “gruppo” non sarà utilizzato che per descrivere un insieme di individui che hanno un rapporto organizzato siano essi in quel momento riuniti o meno in un raggruppamento. Questa terminologia è tratta, ovviamente, direttamente da Goffman (1961, 1963, 1971) e si è cercato si seguire il più possibile il significato che l’autore stesso dà ai termini. Ci occuperemo soltanto dei raggruppamenti focalizzati degli adulti, in cui il principale mezzo attraverso cui il punto focale ufficiale è mantenuto è la conversazione. Non si dirà nulla dei bambini, se non di sfuggita, e non si tenterà di fare paragoni culturali […]. Il gruppo culturale di riferimento per gli studi descritti in questo capitolo è, infatti, anglo-americano e appartenente principalmente alla classe medio-alta. 6 Adam Kendon: Comportamento visibile 2 La configurazione Qual è la differenza visibile tra un raggruppamento focalizzato ed uno non focalizzato? Dalle figure 1 e 2, è evidente che una differenza esiste. Nella figura 1, ventinove persone, tutte nella stessa stanza, sono impegnate in undici diversi punti focali di interazione chiaramente distinguibili l’uno dall’altro. Nella figura 2, nove persone siedono sotto un albero, ma nessuno è impegnato in un’interazione focalizzata con un altro. Il contrasto tra la relativa disposizione delle persone in queste due foto è chiaro. È possibile specificare le caratteristiche distintive generali dei raggruppamenti focalizzati? Tranne in ambienti in cui non c’è libertà di movimento (ad esempio in un affollatissimo vagone ferroviario), si potranno incontrare le due seguenti condizioni con le relative disposizioni spaziali: a. La distanza tra i partecipanti sarà compresa in una limitata gamma di distanze. La distanza dipende da numerosi fattori. Negli ambienti affollati o “aperti” (pubblici) i partecipanti sono più vicini che negli ambienti “chiusi” (privati). Inoltre, quanto più intima o esclusiva è l’interazione, tanto più vicini saranno, probabilmente, i partecipanti. b. I partecipanti orientano il proprio corpo l’uno in relazione all’altro in modo che per ognuno, l’angolo con cui la testa dovrebbe ruotare dalla sua orientazione sul piano sagittale del corpo verso un’orientazione in cui sarebbe direttamente di fronte ad un altro partecipante sia minore di novanta gradi. Se, per stare di fronte ad un altro, un individuo deve girare la testa sul piano sagittale dell’orientazione con un angolo maggiore di novanta gradi, allora è molto probabile che egli non sia coinvolto in un’interazione focalizzata con un’altra persona. I partecipanti manterranno tale disposizione spaziale ed orientazionale per tutta la durata dell’incontro, ed ogni individuo, continuando ad essere disposto in tal modo, mostra di essere un partecipante. La disposizione spaziale ed orientazionale stabile che caratterizza un incontro focalizzato sarà chiamata configurazione dell’incontro.3 Ipotizzeremo che essa possa essere considerata un’evidente espressione del “consenso operativo” dell’incontro. È mantenendo una particolare postura, orientazione e posizione spaziale in relazione agli altri che un individuo indica agli altri la sua continua partecipazione. La particolare forma che la configurazione Nota aggiunta nel 2004: nelle pubblicazione successive verrà usato il termine “formazione”. Si veda Kendon 1990, 1992 . 3 Adam Kendon: Comportamento visibile 7 Fig. 1. Interazioni focalizzati in un salotto. Fotografia di Paul Byers. assume nel complesso riflette il tipo di occasione e il tipo di relazioni di ruolo prevalenti nel raggruppamento. Se la configurazione è incostante o instabile ciò riflette una fluidità o un’instabilità nel “consenso operativo” dell’occasione. Un’analisi della formazione della configurazione, che comporti un dettagliato esame delle manovre spaziali dei partecipanti, farebbe luce sul processo attraverso cui si arriva al “consenso operativo”. Inoltre, nella fig. 1 vediamo che in ognuno degli undici “nodi” conversazionali i corpi dei partecipanti sono orientati l’uno verso l’altro, in modo che per stare faccia a faccia con l’altro la testa possa ruotare con un angolo minore 8 Adam Kendon: Comportamento visibile Fig. 2. Un raggruppamento non-focalizzato. Fotografia di Paul Byers. di novanta gradi. Tuttavia, c’è un alto grado di similarità nella postura, e la distanza tra le persone che si trovano all’interno delle configurazioni è minore di quella tra le persone che si trovano nelle configurazioni adiacenti. Vedremo anche che, sebbene in molti casi i partecipanti non si guardino, le loro teste sono rivolte l’una verso l’altra e sono anche piegate un po’ in avanti. Vedremo che attraverso questo modo di disporsi i partecipanti ai raggruppamenti esprimono il proprio impegno comune, sia l’uno all’altro sia a coloro che si trovano nelle vicinanze. Ciascun partecipante, mantenendo una posizione spaziale, una postura e un’orientazione appropriate al ruolo che ha nel raggruppamento, segnala agli altri che è coinvolto in un impegno comune con loro. Così facendo segnala che reclama alcuni diritti e allo stesso tempo che si assume degli obblighi. Rivendica il diritto di ascoltare e parlare, ma ha anche il dovere di aspettare e di parlare quando ci si rivolge a lui e parlare in modo che sia pertinente alla “cornice” prevalente del raggruppamento. Si potrà anche osservare che la disposizione fisica dei membri di un raggruppamento ha l’effetto di delimitare un’area che può essere chiamata territorio dell’interazione (interaction territory) (Lyman e Scott, 1967), che, poiché tende ad essere difesa da tutti i partecipanti contro l’intrusione dei non-partecipanti, è anche generalmente rispettata dai non-partecipanti. Quindi, laddove il punto focale dell’interazione è importante o impegnativo, i partecipanti generalmente rinforzano le funzioni delimitative dei loro corpi con delle barriere fisiche, come i muri. Per le conversazioni prolungate e Adam Kendon: Comportamento visibile 9 impegnative le persone, generalmente, si chiudono in una stanza. Quando i raggruppamenti focalizzati si formano all’aperto, gli altri normalmente evitano di passarci in mezzo o di passarci accanto se passano per il sito. Si osserverà che i non-partecipanti che passano molto vicino ad un raggruppamento, come ad esempio in un ambiente piuttosto affollato, abbasseranno marcatamente la testa. 4 Solo di rado i raggruppamenti si formano nei corridoi stretti o in altri luoghi che normalmente funzionano da passaggi dove i non-partecipanti potrebbero essere costretti a passare. In questi casi, oltre alla testa abbassata si aggiunge generalmente una scusa verbale. Così come equivale ad insultare i partecipanti al raggruppamento se i non-partecipanti non rispettano lo spazio che esso occupa, allo stesso modo usare come territorio dell’interazione uno spazio che normalmente è destinato ai passanti significa insultare i nonpartecipanti. I raggruppamenti nei corridori sono, dunque, generalmente molto brevi. Nel descrivere gli studi sulla configurazione, tratteremo separatamente la disposizione spaziale, l’orientazione e la postura, sebbene questi tre aspetti sembrino essere sistematicamente connessi. Per esempio, le orientazioni e le posture assunte in una data configurazione sono probabilmente strettamente dipendenti dal tipo di spaziatura utilizzato. Un altro fattore di notevole importanza è, ovviamente, il numero dei partecipanti al raggruppamento. Tuttavia, si sa poco dell’effetto che ciò ha sulla forma fisica del raggruppamento. 2.1 Le disposizioni spaziali In questo paragrafo saranno riassunte alcune caratteristiche generali riguardanti la forma dei raggruppamenti. Le configurazioni in cui i partecipanti si dispongono in cerchio sono quelle in cui probabilmente tutti i membri hanno eguali diritti alla partecipazione. Nelle configurazioni in cui uno o più membri sono differenziati nello spazio rispetto agli altri, in modo che il modello si avvicini ad una forma triangolare, semicircolare o a quella di un parallelogramma, i diritti alla partecipazione nell’interazione non sono uguali. Una forma estrema di configurazione non circolare potrebbe essere una lezione, in cui uno dei membri si trova all’apice del triangolo rivolto verso gli altri, i quali sono disposti in file parallele alla base del triangolo. In situazioni come questa il membro che si trova all’apice ha il diritto (e l’obbligo) di parlare in modo continuativo, coloro che sono disposti in modo parallelo alla base del triangolo, normalmente, hanno solo il diritto di ascoltare. Le disposizioni spaziali intermedie tra il triangolo e Osservazioni tratte da uno studio che è ancora in svolgimento con il Dr. A. E. Scheflen. Nota agginuta nel 2004: Ma si veda Scheflen (1973, 1975) 4 10 Adam Kendon: Comportamento visibile il cerchio tendono ad essere intermedie anche per il grado di diritto alla partecipazione per il quale sono differenziati i diversi membri. Dunque, il seminario tende ad avere una forma ovale con il leader alla punta dell’ovale e la maggior parte degli altri rivolti verso di lui, in una disposizione che si avvicina ad un semicerchio. I raggruppamenti non circolari tendono ad avere una posizione “testa” in cui, generalmente, è situato il membro con maggiori diritti alla partecipazione. Sembra, quindi, che le persone che probabilmente devono avere un ruolo dominante nell’interazione, devono probabilmente scegliere una posizione adeguata dalla quale possano rivolgersi al maggior numero di partecipanti al raggruppamento. Di conseguenza, in parte, è più facile per chi occupa una di queste posizioni essere attivo, poiché può facilmente attrarre l’attenzione degli altri; inoltre, poiché riesce a vedere tutti i membri del raggruppamento, si trova nella posizione migliore per cogliere il momento adatto per iniziare un’azione. Queste posizioni, per le loro stesse caratteristiche, sono tradizionalmente considerate come posizioni di grande influenza, sono quindi assegnate a quei membri del gruppo che eserciteranno più controllo. La “testa” della tavola è normalmente occupata dal moderatore o dal leader. Fin’ora ci siamo occupati solo della relazione tra la disposizione spaziale e la differenziazione dei ruoli in un raggruppamento focalizzato. Alcuni dati suggeriscono che il tipo di funzione interazionale assunta dal raggruppamento sarà collegata anche alla disposizione spaziale. Ad esempio, Sommer (1965) ha studiato la disposizione spaziale nei raggruppamenti diadici, ed ha confrontato il tipo di disposizione assunta dai partecipanti quando si trovano in competizione, quando cooperano o quando lavorano separatamente ciascuno con un proprio compito (diadi “coattive”). L’autore ha osservato che per le coppie in competizione, c’è una forte tendenza a sedersi l’uno di fronte all’altro, mentre per le coppie che cooperano, coinvolte in una discussione su un argomento di reciproco interesse o in una conversazione casuale, c’è una tendenza a sedersi o uno accanto all’altro o, più normalmente, in posizione diagonale rispetto all’altro, in modo che ciascuno dovrebbe girare la testa con un angolo considerevole per guardarsi direttamente. Un punto alquanto simile, cioè che la distanza che separa due membri di un raggruppamento è in parte collegata al tipo di interazione in cui essi sono impegnati, è evidenziato anche da Hall (1966). Lo studioso ha suggerito che, almeno per gli americani di influenza culturale nord europea, si possono distinguere svariate gamme di distanze, ciascuna appropriata ad un diverso tipo di interazione. Ad esempio, lo studioso afferma che esiste una distanza intima, dove i partecipanti stanno a circa 18 pollici di distanza, per le interazioni intime; una distanza casuale personale, a circa 5 piedi, per le conversazioni casuali tra amici; una distanza socio-consultativa, che varia tra i 5 e i 10 piedi e che è usata per tipi di interazione più formali, come le discussioni o i Adam Kendon: Comportamento visibile 11 colloqui; e una distanza pubblica, a più di 10 piedi, usata quando una persona si rivolge formalmente ad un gruppo di persone. Hall mette in rilievo che i sensi funzionano in modi diversi secondo le differenti distanze e che ciò avrà conseguenze sui tipi di canali comunicativi che possono essere utilizzati. Ad esempio, ad una distanza intima si possono usare il tatto, l’olfatto e il calore per trasmettere informazioni da un individuo all’altro, ciascuno può osservare i cambiamenti nel ritmo del respiro dell’altro o i cambiamenti nello stato dei capillari epidermici. A distanze maggiori si possono usare solo la vista e l’udito, e con l’aumentare della distanza questi diventano sempre meno efficaci nel cogliere i dettagli più piccoli. Dunque, con l’aumentare della distanza ci si affida di più ai modelli del linguaggio formale e il parlante si affida di meno al comportamento degli ascoltatori, per esempio, i cenni con la testa e i cambiamenti delle espressioni del volto che, in tipi di scambi più intimi, giocano un ruolo importante nel processo interazionale. I termini usati da Hall per le diverse distanze interpersonali derivano da Joos (1962) che mise in evidenza che esistono diversi stili linguistici per i diversi tipi d’interazione. Per esempio, secondo Joos, nella cosiddetta interazione “casuale personale” il discorso dei partecipanti è costituito da frasi brevi, da forme d’espressione dialettali, dunque una forma linguistica non “ufficiale”. In questo tipo d’interazione si osserva, inoltre, l’uso di espressioni brevissime, come “ah” “sì” “certo” ecc., che sono “segnali di ricezione da parte dell’ascoltatore”,5 che servono appunto all’ascoltatore per segnalare che sta ricevendo ciò che viene detto. In un’interazione “socio-consultativa”, invece, i partecipanti usano frasi più lunghe, il discorso è costruito con una sintassi più elaborata, in una lingua più “ufficiale” o più vicina alla lingua scritta e gli ascoltatori non usano i “segnali di ricezione”. Hall suggerisce, quindi, che esiste una distanza appropriata per ogni tipo di conversazione. Tuttavia, non ha dato alcuna indicazione circa gli ambienti in cui queste distanze sono adottate, benché due studi suggeriscano che considerare ciò potrebbe essere molto importante (Sommer, 1961; Little, 1965). Per esempio, per conversazioni casuali o socio-consultative si possono usare distanze più ridotte se i partecipanti si trovano in ambienti pubblici (come un parco o una strada) rispetto a quando si trovano in ambienti privati (come il soggiorno di una casa). Probabilmente il motivo di ciò è che la distanza adottata nella conversazione non solo riflette qualcosa del tipo di interazione impiegato dai partecipanti ma esprime anche la relazione tra l’incontro, come sistema di cooperazione in sé, e le altre attività che si possono svolgere nello stesso luogo. In ambienti pubblici una distanza più ridotta può, dunque, essere Nota aggiunta nel 2004: Per descrivere questi “segnali di ricezione da parte dell’ascoltatore” Kendon (1967) ha usato il termine “attention signals” ma nel 1972 Yngve ha coniato il termine “back-channel”, un termine che negli anni successivi avrà una larga diffusione. 5 12 Adam Kendon: Comportamento visibile adottata per le conversazioni perché per i partecipanti è necessario evidenziare il loro “essere insieme” ma questo non è necessario in ambienti più piccoli come un soggiorno o un ufficio. Sarà chiaro da ciò che abbiamo detto sopra che il modo in cui un individuo si dispone rispetto agli altri membri di un raggruppamento può essere un mezzo attraverso cui può esprimere la sua posizione nel raggruppamento stesso. Può scegliere una distanza e dunque segnalare il grado di intimità che spera di mantenere nell’interazione. Può scegliere una collocazione (come una posizione “testa”) per segnalare la sua richiesta di avere un particolare tipo di ruolo nel raggruppamento. Tuttavia, la particolare collocazione che un individuo occupa in un raggruppamento dipende chiaramente dalla particolare collocazione occupata dagli altri membri. Quindi, affinché un individuo possa mantenere una certa collocazione nel raggruppamento bisogna che tutti i membri siano d’accordo circa le disposizioni spaziali da assumere. Un raggruppamento in cui la disposizione spaziale è stabile, quindi, è un raggruppamento con un consenso stabile circa il livello di intimità, la relativa posizione dominante dei membri ed altre relazioni di ruolo tra i membri. I cambiamenti della disposizione spaziale rifletteranno i cambiamenti di questo consenso. Un’analisi del processo attraverso cui si arriva a tali disposizioni stabili costituirebbe un’analisi del processo iniziale della negoziazione che caratterizza gli stadi iniziali di tutti gli incontri focalizzati. Non ci sono ancora studi che si siano interessati a come si formano le configurazioni. 2.2 L’orientazione Abbiamo già suggerito che in un raggruppamento focalizzato i partecipanti orienteranno i propri corpi in modo da poter ruotare la testa l’uno verso l’altro girandola con un angolo minore di novanta gradi dal piano sagittale dell’orientazione. Tuttavia, all’interno di questa fascia ci sono molte varianti possibili, ed ora esamineremo il significato di alcune di esse. Il principale modo in cui l’orientazione può variare è nel grado con cui la testa, le spalle e i fianchi sono allineati l’uno rispetto all’altro, rispetto alla superficie ventrale dell’individuo che è rivolto verso la superficie ventrale del suo co-interagente. Il grado con cui gli individui stanno l’uno di fronte all’altro può essere considerato come il grado con cui essi si trovano vis-àvis. In tutti gli esempi di interazione focalizzata ci sono momenti (per quanto possano essere brevi) in cui le teste dei partecipanti sono orientate in questo modo, ma le configurazioni variano molto nel grado col quale anche i corpi dei partecipanti sono vis-à-vis. Queste orientazioni, tuttavia, sono normalmente Adam Kendon: Comportamento visibile 13 associate all’interazione focalizzata tra coloro che sono orientati in questo modo. Laddove, in un raggruppamento focalizzato, i partecipanti sono orientati in modo parallelo l’uno rispetto all’altro, l’interazione è mantenuta non tra coloro che si trovano in posizione parallela ma tra ogni singolo individuo ed alcuni punti focali comuni. L’esempio più ovvio di questo tipo di disposizione è una lezione o una rappresentazione teatrale. Qui ogni membro del pubblico può essere considerato come un singolo partecipante rivolto verso il professore o verso il palcoscenico. Nei raggruppamenti focalizzati composti da due partecipanti, il grado con cui essi si trovano vis-à-vis l’uno rispetto all’altro è probabilmente collegato all’intensità del loro reciproco coinvolgimento e alla distanza che li separa. Ad esempio, a distanze casuali personali o intime un’orientazione completamente vis-à-vis indicherebbe un alto grado di coinvolgimento reciproco, mentre ad una distanza di sette piedi e più, quella tipica delle interazioni socioconsultative, un’orientazione completamente vis-à-vis è molto più comune e non riflette tale alto livello di coinvolgimento reciproco. Le osservazioni finora descritte sull’orientazione derivano, per la maggior parte da Scheflen (1964). Ciò che abbiamo suggerito circa la relazione tra la distanza interazionale e l’orientazione si basa principalmente su osservazioni informali. Tuttavia, alcune osservazioni sistematiche sull’orientazione del corpo nell’interazione quotidiana sono state riportate da Sommer (1965). Lo studioso ha osservato le posizioni assunte da alcuni studenti intorno al tavolo rettangolare di una mensa ed ha osservato che quando una coppia di studenti era seduta per fare una conversazione occupava normalmente i posti ai lati di uno degli angoli. Ciò significa che la parte superiore dei loro corpi formava un angolo retto con il corpo dell’altro e ad ogni turno di parola, per guardare direttamente l’altro, occorreva che la testa ruotasse dal piano sagittale con un angolo di quarantacinque gradi. Questa disposizione “a quarantacinque gradi”, come la si potrebbe chiamare, sembra essere molto comune sia per le diadi che stanno in piedi che per quelle che stanno sedute, ed è associata soprattutto alle interazioni di tipo socio-consultative e casuale personale. Si può osservare che in questa disposizione il grado con cui due persone possono trovarsi faccia a faccia è considerevolmente flessibile. Per essere faccia a faccia con un altro basta ruotare solamente la testa e ci si può voltare altrove senza muovere il corpo. Se ci si sedesse o si stesse in piedi in una posizione in cui si è completamente vis-à-vis, una riduzione del coinvolgimento reciproco, indicato da una riduzione del reciproco guardarsi, richiederebbe una rotazione sia della testa che del corpo, e in questo modo tale cambiamento sarebbe indicato con più evidenza che se si girasse solo la testa. La maggior parte delle osservazioni che abbiamo riassunto riguardanti l’orientazione sono state fatte in riferimento a raggruppamenti diadici. In 14 Adam Kendon: Comportamento visibile gruppi composti da più di due persone, il fenomeno dell’orientazione del corpo diventa più complesso. Scheflen (1964) ha indicato la possibilità che un partecipante possa dividere la sua orientazione. Così, in un raggruppamento di tre persone, ad esempio, mentre A gira la testa e la parte superiore del corpo verso B, può anche orientare la parte inferiore del corpo verso C, includendo così anche quest’ultimo nel raggruppamento. Nei raggruppamenti triadici non è insolito vedere orientazioni divise di questo tipo in cui ogni membro è orientato verso gli altri due simultaneamente. La direzione dell’orientazione dei fianchi e delle spalle, ed anche delle braccia, cambia in modo relativamente lento, per questo motivo i cambiamenti nell’orientazione del corpo possono avere un significato maggiore, in qualità di eventi comportamentali, dei cambiamenti nell’orientazione della testa e degli occhi. La testa e gli occhi, naturalmente, sono estremamente mobili e attimo dopo attimo durante l’interazione, soprattutto per il parlante, la direzione dell’orientazione cambia frequentemente. Il punto in cui una persona guarda è il segno del suo immediato coinvolgimento e se orienta ripetutamente la faccia o gli occhi verso uno specifico individuo indica che questa persona è l’ “obiettivo” della sua attenzione. Vedremo in seguito come l’orientazione della testa e degli occhi è usata per segnalare a chi è diretto il discorso di un individuo e come la sua dettagliata variazione può giocare un ruolo nella regolazione dello scambio degli enunciati. È appropriato accennare qui al lavoro che è stato fatto sull’orientazione della testa e degli occhi, o sguardo, come può più semplicemente essere descritto, in cui il tema principale è stato quanto un individuo guarda un altro e come ciò sia collegato al suo atteggiamento verso quella persona (Argyle e Kendon 1967, Diebold 1968, von Cranch 1968, Mehrabian 1969). In generale sembra che in situazioni dove i partecipanti hanno uno stesso status e l’interazione è cooperativa, le persone quanto più si piacciono tanto più si guardano. Tuttavia, se il partecipante occupa una posizione non dominante nel raggruppamento riceverà un minor numero di sguardi (Hearn, 1957; Efran, 1968), e Exline (1963) riporta che quando i soggetti si trovano in discussioni competitive, se hanno un “bisogno di affiliazione” non accentuato si guarderanno l’un l’altro più di quanto farebbero in un’interazione non-competitiva. Quando i soggetti hanno un grande “bisogno di affiliazione” questa relazione è capovolta.6 Non Nota aggiunta nel 2004: Nel periodo in cui sono state condotte queste ricerche, in psicologia vi era un forte interesse per una teoria della personalità descritta da Henry Murray dell’Università di Harvard, secondo la quale le persone si differenziano l’una dall’altra per i loro “bisogni psicologici” (psychogenic needs). Murray distinse ventisette “bisogni” – i più noti sono “Conquista” (need for achievement), “Affiliazione” (need for affiliation) e “Dominio” o “Potere” (need for dominane or power). Insieme ai suoi colleghi, Murray inventò degli strumenti per misurare questi bisogni, utilizzando specialmente il cosiddetto “Thematic Apperception Test”. Al tempo della ricerca di Exline si cercava di trovare, nel comportamento visibile, gli elementi che indicavano i diversi “bisogni”. 6 Adam Kendon: Comportamento visibile 15 sembra possibile delineare un’esposizione semplice di ciò che si è osservato sullo sguardo in relazione all’atteggiamento, in quanto sebbene “guardare” un altro è sempre un segno di attenzione, il significato di questa attenzione, e dunque il significato dell’atto del guardare, dipende dal contesto in cui ha luogo. Tutti gli studi sull’orientazione dello sguardo riguardano, per la maggiore parte, raggruppamenti di due o tre persone soltanto. Tuttavia, qui possiamo fare riferimento qui ad un’indagine non pubblicata condotta da Weisbrod (1965), che rappresenta l’unica fino a questo momento in cui sono stati studiati i modelli di sguardo in un raggruppamento composto da parecchi membri. In questo studio, per ciascun membro di un seminario di sette persone, fu registrato sistematicamente chi guardava chi nel corso di diverse sedute. Furono anche raccolti dati circa le preferenze personali tra i membri del seminario, circa il modo in cui i membri si percepivano l’un l’altro rispetto al modo in cui contribuivano alla discussione, e dati sulla personalità dei partecipanti. Dalle analisi di Weisbrod su chi guardava chi emerse molto chiaramente che ciò era strettamente collegato ai modelli di relazioni di potere nel gruppo. Quindi, la persona che veniva guardata di più mentre parlava era percepita dagli altri membri del gruppo, e da se stessa, come la più influente nel gruppo. Emerse anche che i sottogruppi di individui, in termini di reciproco sostegno percepito, erano caratterizzati da modelli di scambio di sguardi. In questa situazione le preferenze personali tra i membri non erano caratterizzate da sguardi reciproci e mentre gli studi di altri hanno considerato le relazioni tra la quantità di sguardi e tali variabili di personalità come “affiliatività” (affiliativeness”) (ad esempio, Exline, 1963; Exline et al., 1965; Exline e Winters, 1965), questa relazione non fu trovata nello studio di Weisbrod. Le scoperte della studiosa indicano che prima di poter fare qualunque generalizzazione sul ruolo dello sguardo nell’interazione sarà necessario analizzare come lo sguardo è modellato naturalmente e come, in qualità di elemento del comportamento, è collegato ad altri comportamenti nell’interazione e che deve anche essere esaminato in una più ampia gamma di situazioni interazionali di quanto sia stato fatto finora. 2.3 La postura In un incontro, i partecipanti non solo si dispongono in una particolare posizione e orientazione in relazione l’uno all’altro, ma tendono anche ad assumere posture che, salvo alcuni cambiamenti, sono mantenute per la maggior parte del tempo. I cambiamenti nella postura saranno esaminati in seguito. Qui saranno considerate solo le posture mantenute e come ci possano essere utili per la comprensione della configurazione. 16 Adam Kendon: Comportamento visibile Nel considerare la postura dobbiamo occuparci di (a) quali tipi di posture sono adottate nella configurazione, e (b) quali relazioni esistono tra le posture e i vari partecipanti. 1. Tipi di posture Quando le persone si riuniscono per un’interazione dispongono i loro corpi in un modo particolare. Possono stare in piedi, sedersi, inginocchiarsi, accovacciarsi o anche, a volte, distendersi. Tra queste categorie generiche ci possono essere molte possibili variazioni, sebbene solo alcune vengano utilizzate. Alcune posizioni del corpo non sono usate perché sono difficili da mantenere a lungo, ma anche tra la gamma delle posture possibili sembra esserci una considerevole limitazione circa le posture utilizzate, e sembra probabile che per un dato tipo di raggruppamento vi sia un particolare repertorio posturale dal quale i partecipanti selezioneranno la postura. In alcune situazioni, una persona assume certe posture in seguito ad ordini ben specifici, come per esempio, le posture dell’ “attenti” e del “riposo” in una parata che sono specificate e assunte in seguito ad un comando; similmente, nei rituali religiosi le posture sono esplicitamente indicate nei manuali. Nella misura in cui esistono delle posture appropriate ai vari tipi di raggruppamento, possiamo dire che le posture “marcano” tali differenze tra i raggruppamenti e sono dei segnali che gli altri possono usare per capire di che tipo di raggruppamento si tratta. Come vedremo, le posture dei partecipanti in un dato raggruppamento possono anche differire, e spesso si può dimostrare che queste differenze sono sistematicamente collegate al ruolo che il partecipante ha nel raggruppamento e forse a più sottili aspetti del suo atteggiamento verso il raggruppamento stesso o verso gli altri partecipanti. Finora si è prestata scarsa attenzione alla postura. Hewes (1955), che ha studiato le varietà di posture assunte dalle persone in diverse culture, ha scoperto che nelle diverse parti del mondo si usano repertori piuttosto differenti. Per esempio, lo studioso ha scoperto che accovacciarsi, benché sia molto diffuso altrove, è usato molto poco nel nord Europa. Ha scoperto che il modo in cui le persone, generalmente, stanno in piedi è diverso da una cultura all’altra. In certe zone dell’Africa, per esempio, la posizione “nilotica” è molto usata dagli uomini; in questa posizione, la persona sta su una sola gamba, l’altra è piegata al ginocchio con la pianta del piede appoggiata allo stinco. Hewes osservò anche che c’erano alcune differenze nella postura assunta dagli uomini e quella assunta dalle donne, e queste differenze erano molto diffuse. Quindi, tutte le posture in cui le gambe sono mantenute in posizioni diverse erano molto rare nelle donne ma comuni negli uomini. Hewes, sfortunatamente, non ha tentato di stabilire il contesto sociale in cui le varie posture da lui catalogate Adam Kendon: Comportamento visibile 17 occorrevano. Ma abbiamo già indicato che esistono, senza alcun dubbio, relazioni sistematiche tra le posture assunte e il contesto sociale. Per esempio, ad una conferenza o ad un seminario le persone di solito non si siedono a terra o non si distendono, sebbene possano farlo durante un picnic. Almeno per alcune classi sociali, esiste un modo “adeguato” di sedersi a tavola e i bambini in questi gruppi sociali sono corretti frequentemente, li si educa su cosa è accettabile e cosa non lo è. Noteremo anche che in molti raggruppamenti le regole della postura sono usate in modo diverso dai vari partecipanti, secondo il loro status. Goffman (1961b) riporta, per esempio, che negli incontri di uno staff psichiatrico i partecipanti di grado inferiore sedevano in posizione più diritta con le braccia incrociate, mentre i partecipanti di grado superiore più spesso erano in posizione più “distesa”. Questa osservazione sembra essere abbastanza generica. È come se le regole di postura fossero applicate meno severamente per i membri del raggruppamento di grado superiore che generalmente mostrano una più ampia gamma di posture rispetto ai membri di grado inferiore. Sarebbe utile intraprendere studi sistematici per osservare i tipi di posture che si possono assumere nei vari ambienti sociali. Insieme ad A. E. Scheflen abbiamo iniziato una raccolta delle posture che si utilizzano in svariate situazioni. I risultati preliminari, dallo studio di tre ambienti pubblici – le strade di una piccola città dove la gente si è raggruppata per una parata, un parco di una piccola città con aree adibite a picnic e gli spazi aperti del campus di una grande università – suggeriscono che i siti si differenziano per la gamma di tipi di posture in essi osservate, e che ci sono relazioni coerenti tra i tipi di postura assunta dagli individui e il tipo di attività in cui sono impegnati. Per esempio, le persone in un ambiente pubblico o semi pubblico che non sono coinvolte in un particolare punto focale d’attenzione ma che “osservano la scena”, normalmente, stanno in piedi con il peso poggiato soprattutto su un solo piede piuttosto che su tutti e due; generalmente non orientano la testa e il torso nella stessa direzione. Le persone che stanno ai margini di un raggruppamento focalizzato e ai margini della sede del raggruppamento stanno con le mani sui fianchi più spesso di coloro che sono membri di un raggruppamento focalizzato o di coloro che sono più vicini al centro del luogo dove si svolge il raggruppamento. Le persone che o “guardano” o sono ai margini dei raggruppamenti focalizzati o dei siti tendono a mantenere la testa eretta o anche leggermente piegata all’indietro, rispetto a coloro che sono membri di un raggruppamento i quali, come abbiamo accennato prima, tendono piuttosto a piegare la testa leggermente in avanti. Inoltre, come abbiamo accennato, le persone nell’attraversare o nel passare vicino al territorio interazionale (cioè negli spazi usati per un raggruppamento) normalmente piegano la testa in avanti in modo molto marcato. 18 Adam Kendon: Comportamento visibile Le osservazioni fatte sopra sono molto provvisorie e necessitano ancora una completa interpretazione. Sono riportate qui per illustrare il tipo di dati che sono necessari per uno studio sistematico sul significato delle posture. Si può aggiungere, comunque, che data l’esistenza dei diversi modelli di posture a seconda delle situazioni, le posture assunte dai partecipanti in un raggruppamento possono fornire informazione a tutti circa il tipo di attività che si sta svolgendo nel raggruppamento e i diversi ruoli dei partecipanti. Le posture del corpo giocano un importante ruolo in quei processi della comunicazione attraverso cui gli altri possono capire cosa sta avvenendo in una data situazione sociale. Le posture dei partecipanti possono indicare se l’occasione è formale o informale, se l’occasione è facilmente accessibile agli esterni o se questi ne sono esclusi, se ci sono dei ruoli ben definiti nella situazione e così via. Quando le persone cominciano ad adattarsi ad una data cultura, parte di ciò che devono imparare consiste proprio nel capire i vari tipi di posture che le persone assumono normalmente in una data situazione e come queste possono variare a seconda della situazione.7 2. Relazioni tra le posture Scheflen (1964) ha messo in evidenza che la relazione tra le posture dei partecipanti spesso dipende da altri aspetti dell’interazione. Pertanto il modo in cui un individuo collega la sua postura a quella del suo interlocutore può essere un aspetto importante del suo comportamento comunicativo. In particolare, Scheflen ha attirato l’attenzione su come le posture dei partecipanti possano essere corrispondenti o non corrispondenti con quelle degli altri – cioè, i membri di un raggruppamento possono avere le stesse posture o possono mostrare notevoli differenze. Laddove le persone sono orientate in posizione parallela, come ad una lezione o ad un concerto, laddove sono focalizzate tutte su uno stesso centro d’attenzione, la similarità nella postura è molto comune. Questo è in contrasto con situazioni in cui le persone non condividono lo stesso punto focale d’attenzione, nel qual caso vi è una maggior diversità nella postura. Quando le persone sono impegnate in un’interazione focalizzata, e sono dunque fino ad un certo punto vis-à-vis, è molto comune mostrare similarità nella postura, e il grado di tale similarità forse riflette la misura in cui sono en rapport. Nota aggiunta nel 2004: Per un’interessante ricerca sull’informazione che le posture forniscono, che include uno studio di come sono utilizzate le posture dai pittori per dipingere i gruppi sociali, si veda Spiegel e Machotka (1974). Si veda anche Schegloff (1998). 7 Adam Kendon: Comportamento visibile 19 La relazione tra il rapport e la congruenza posturale è stata studiata durante delle sedute di psicoterapia da Charny (1966). Ne è emerso che quando lo psichiatra e il paziente adottavano posture simili il paziente parlava in modo oggettivo, mentre quando le loro posture erano diverse il paziente era più restio e tendeva a manifestare maggiormente le sue emozioni. Charny notò anche che i periodi di corrispondenza nella postura aumentavano man mano che si svolgeva il colloquio. Dopo aver completato lo studio, Charny apprese che il terapeuta della registrazione usata per lo studio, che era di convinzione rogeriana, cercava volontariamente di far corrispondere la sua postura con quella dei suoi pazienti e ciò faceva parte della tecnica che adottava per stabilire un rapport con il paziente (Charny, comunicazione personale, 1967). Ma lo studioso non analizzò quali posture il terapeuta cercava di rispecchiare. Un esame del filmato ha suggerito che le posture adottate dalla paziente non corrispondenti a quelle del terapeuta, erano posture che sono usate raramente in un’interazione focalizzata, per esempio, nei momenti di non-corrispondenza la paziente era seduta con le spalle curve e la testa abbassata in avanti. Sembrerebbe che valga la pena di portare avanti l’idea che, quando qualcuno cerca di costruire un rapport con un altro, la persona può tentare di rispecchiare solo una limitata gamma di posture dell’altro, poiché in un’interazione, solo assumendo un determinato tipo di posture, l’uno rispetto all’altro, può avere luogo uno scambio su un argomento in comune. Laddove c’è una marcata incongruenza nelle posture, questo spesso riflette nette differenze nelle relazioni di ruolo nel raggruppamento. Quindi in una lezione, per esempio, il professore sta in piedi mentre tutti i membri dell’uditorio sono seduti, generalmente in modo molto simile. Le incongruenze nella postura possono anche riflettere una distanza psicologica tra i partecipanti. Questo è forse esemplificato nella fig. 3, un’immagine tratta da un filmato realizzato nel 1965 da Sander Kirsch, nell’atrio del dormitorio delle donne di una grande università dove gli uomini aspettavano per incontrare le loro ragazze. Nel disegno, mentre la ragazza è girata verso l’uomo, l’uomo rimane rivolto stabilmente verso l’esterno con il braccio disposto a mo’ di barriera tra se stesso e la ragazza. L’uomo gira la testa verso la ragazza di tanto in tanto quando parla, ma altrimenti la sua disposizione posturale è quasi invariabile. Questa scena dura circa otto minuti, poi un’altra ragazza entra e l’uomo si alza ed esce con lei. Sembra probabile che, attraverso la sua postura, egli stesse esprimendo il fatto che non doveva essere legato alla ragazza con cui parlava e che lei non doveva essere considerata la sua ragazza. Oltre allo studio di Charny citato sopra, Scheflen (1964, 1965) è la maggiore fonte di osservazione per le relazioni posturali. Tuttavia, c’è ancora molto bisogno di osservazioni sistematiche dettagliate prima che il significato della postura nella configurazione sia completamente compreso. 20 Adam Kendon: Comportamento visibile Fig. 3. Un immagine da un film di Sander Kirsch che mostra incongruenze nelle posture. Questa discussione sulla configurazione, sebbene in parte alquanto speculativa, dovrebbe suggerire come la disposizione nello spazio, l’orientazione e la postura possono riflettere una gran quantità di complesse informazioni circa il modo in cui i partecipanti sono collegati l’uno all’altro e all’incontro nel complesso. Arrivare alla configurazione, cioè il processo attraverso cui i corpi dei partecipanti al raggruppamento arrivano ad essere disposti in modo che possono cominciare la fase della conversazione in cui gli argomenti per loro importanti possono essere trattati, spesso richiede una serie complessa di negoziazioni, condotte per lo più interamente in silenzio. Un’analisi di queste manovre dovrebbe rivelarci molto sul processo attraverso cui si arriva al “consenso operativo”. 3 Dinamiche dell’incontro La configurazione, abbiamo suggerito, fornisce una cornice nella quale i partecipanti possono svolgere un’attività di comune interesse. Nell’osservare un incontro mentre si sviluppa nel tempo, si può distinguere una fase in cui i partecipanti si spostano qua e là fino a trovare un posto gradevole per tutti in cui stare in piedi o seduti; ci si aspetta che essi non si occupino dello Adam Kendon: Comportamento visibile 21 scopo ufficiale dell’incontro finché la configurazione non sia formata. Negli incontri formalmente organizzati questo è molto esplicito. Il presidente non introduce l’ordine del giorno finché tutti non abbiano preso posto e comincino a fare silenzio. Similmente, in situazioni meno formali le conversazioni collegate al punto focale ufficiale del raggruppamento non iniziano finché tutti i partecipanti non hanno preso posto. I dettagli di come, in questi raggruppamenti formalmente meno organizzati, i partecipanti “sanno” quando è il momento appropriato per cominciare, non sono ancora stati esaminati. È possibile che ciascun partecipante assuma una certa postura ed orientazione per indicare che è pronto. In questa sezione saranno esaminate alcune caratteristiche dell’organizzazione della fase dell’incontro in cui i partecipanti sono d’accordo circa argomento di comune interesse. In particolare, considereremo come sono organizzati i turni di parola e come i partecipanti impegnati in un discorso indicano a chi è indirizzato il loro discorso. Quando una persona parla in un raggruppamento o invia messaggi espliciti in altri modi, questi messaggi sono sempre indirizzati. Cioè, il parlante indirizza sempre il suo discorso o a qualche persona specifica nel raggruppamento o a più persone, o al raggruppamento nel suo insieme. Come descriveremo, ci sono aspetti del comportamento del parlante che sembrano avere la funzione di indicare a chi è diretto il discorso. Se guardiamo gli altri partecipanti (quelli che non stanno parlando) quando il parlante rivolge il suo discorso ad uno specifico individuo, si osserverà che la persona che è il diretto destinatario del discorso del parlante tende a comportarsi in modo diverso dagli altri partecipanti. Infatti, sembra esserci una particolare relazione tra il comportamento del parlante e l’individuo a cui si sta rivolgendo, relazione che si non trova tra il parlante e gli altri partecipanti presenti. Si mostrerà ora in che modo il parlante segnala a chi è indirizzato il suo discorso e come il comportamento del diretto destinatario differisce da quello degli altri partecipanti. Si darà un esempio del modo in cui si stabilisce la relazione tra il parlante e il diretto destinatario e si daranno maggiori dettagli sul comportamento del parlante e degli ascoltatori; si presterà particolare attenzione alla questione di come il parlante e gli ascoltatori si scambiano il turno di parola. 3.1 Caratteristiche della relazione tra il comportamento del parlante e dell’ascoltatore Innanzitutto descriveremo il caso in cui il parlante si rivolge ad un unico individuo direttamente. Non si tenterà di dare una descrizione esaustiva delle proprietà di questa relazione ma di metterne in evidenza gli aspetti più comunemente osservati. 22 Adam Kendon: Comportamento visibile Normalmente, sia il parlante sia il diretto destinatario sono orientati l’uno verso l’altro. Di norma si guardano ripetutamente, di quando in quando i loro sguardi si incrociano. Quest’orientazione della testa e degli occhi rivolti verso l’altro, con lo sguardo a tratti puntato direttamente sull’altro, è uno dei principali modi attraverso cui una persona segnala a chi sono rivolti i suoi messaggi. È possibile notare che quando si “punta lo sguardo sull’altro” la testa del parlante ritorna sempre alla stessa posizione e poi si ferma. Quando il parlante non guarda il proprio destinatario, guarda in alto o in basso o a lato, ma non guarda nessun altra persona. Quando si rivolge a più persone allo stesso tempo, il suo sguardo sarà puntato alternativamente sui diversi destinatari del suo discorso. I movimenti della testa hanno una relazione sistematica con l’organizzazione del suo discorso. Di questo si discuterà nella prossima sezione. Per ciò che concerne l’ascoltatore, se è il diretto destinatario del discorso, può essere distinto dagli altri nel raggruppamento attraverso l’elevata corrispondenza tra la sua postura e quella del parlante; la sua testa è solitamente leggermente “piegata” da un lato, e la sua attenzione visiva è rivolta più costantemente verso il parlante che si sta rivolgendo a lui di quella degli altri ascoltatori. Inoltre, il diretto destinatario, a differenza degli altri ascoltatori, tende ad esibire una particolare gamma di gesti, come cenni del capo ed anche alcuni cambiamenti nell’espressioni facciale, che sembrano fungere talvolta da commenti a ciò che il parlante dice. In particolare i cenni della testa e l’equivalente espressione verbale (“Capisco”, “Mmh-mmh”, ecc. – a volte ritenuti “segnali d’attenzione”) sono prodotti in momenti specifici in relazione al comportamento del parlante. Questo sarà descritto dettagliatamente nella prossima sezione. È stato anche dimostrato che il parlante e il suo diretto destinatario tendono a mostrare una coordinazione nei movimenti del corpo che non si riscontra tra il parlante e gli ascoltatori a cui egli non si rivolge. È stato osservato che il diretto destinatario può riprendere alcuni aspetti dei movimenti del parlante e si muove in modo simile e in sincronia con lui. Questo può essere illustrato da un’analisi (Kendon, 1970) condotta allo scopo di studiare la relazione tra i movimenti del parlante (T) e quelli del suo destinatario (B) (fig. 4), confrontandoli poi con i movimenti di un altro ascoltatore (GI). In questa sequenza, B fa una domanda a T e T risponde con un discorso che dura circa trenta secondi. Il gruppo in questione stava discutendo gli aspetti della vita familiare inglese e la discussione era coordinata da B che fungeva da moderatore. Quando B pone la domanda a T si trova faccia a faccia con lui e lo indica con il braccio disteso, T si fa avanti sulla sedia, e due secondi dopo, quando siede con la schiena contro la sedia, nel preciso momento in cui B ha terminato la domanda, inizia a rispondere. Il cambiamento di postura è l’immediata risposta alla domanda di B e B si muove non appena T cambia la Adam Kendon: Comportamento visibile 23 Fig. 4. Disegno dal fotogramma No. 87630 del film TRD 009. Si vede la disposizione delle persone nella sequenza in cui è stato studiato il rapporto tra i movimenti di T e B. Disegno tratta da Kendon (1970). sua posizione: si appoggia lentamente ed alza la testa, poi sta fermo e rimane così finché T comincia a parlare. Non appena T pronuncia le prime due frasi, muove la mano sinistra verso sinistra e poi la riporta sul grembo; poi piega la testa a sinistra. In precisa corrispondenza con questi movimenti, B muove la mano destra, che era ancora distesa verso T, verso destra e poi la riporta indietro; poi piega la testa a destra. Dopo di che si mette la pipa in bocca e la mantiene con la mano destra e resta fermo così finché T pronuncia le ultime due frasi del suo discorso, eccetto i movimenti degli occhi, della bocca e delle dita della mano destra, ed un cenno della testa ripetuto più volte. Possiamo vedere che dal momento in cui T inizia a rispondere alla domanda di B fino a che B si mette la pipa in bocca, B si muove a tempo con T in modo da riflettere i movimenti di T. B si muove al passo con T e nello stesso modo: egli “danza la danza di T”. Durante le due ultime frasi del discorso di T, B comincia a muoversi di nuovo in modo molto evidente – questa volta piegandosi a sinistra, poi abbassando la testa in avanti e poi piegandola di nuovo a sinistra. Questi movimenti, sebbene ritmicamente coordinati col discorso di T, nel momento in cui iniziano, non 24 Adam Kendon: Comportamento visibile sono collegati nella forma ai movimenti che fa T. Quindi, B piega la testa a sinistra e l’abbassa in avanti mentre T muove la testa all’indietro e verso sinistra. Quindi la testa e i movimenti del corpo di T diventano simili a quelli di B: dunque T inizia a danzare la danza di B – il contrario di ciò che era successo quando T aveva cominciato a parlare. Queste osservazioni, insieme ad altri esempi riportati con maggiori dettagli altrove (Kendon, 1970), illustrano ulteriormente il fenomeno della “sincronia interazionale” riportata per la prima volta da Condon e Ogston (1966, 1967). Tuttavia, riteniamo che il rispecchiamento piuttosto evidente descritto sopra non occorra continuamente. Lo si osserva generalmente sia all’inizio sia verso la fine di un enunciato. La nostra ipotesi è che nell’uguagliare i movimenti dell’altro, l’ascoltatore manifesta di prestare completamente attenzione al parlante. Tuttavia, una volta stabilito ciò il destinatario ha bisogno solo di rimanere in una “postura da ascolto” e di manifestare segnali di attenzione intermittenti. Laddove, come nel caso di B e T, il destinatario risponde, tendiamo a trovare evidenti relazioni tra i movimenti anche alla fine dello scambio. Ciò può sia segnalare chiaramente al parlante che l’ascoltatore desidera parlare sia far determinare facilmente il momento preciso in cui l’altro può assumere il ruolo di parlante, un po’ come quando un musicista batte con maggiore amplitudine il tempo esattamente prima che arrivi il suo turno di suonare. Sembra dunque che ci siano modelli di comportamento specifici attraverso cui un parlante stabilisce a chi sta rivolgendo le sue osservazioni; sembrano esserci anche dei modelli attraverso cui distinguere gli ascoltatori a cui ci si rivolge direttamente dagli altri ascoltatori. Dunque il parlante e l’ascoltatore a cui ci si rivolge direttamente mostrano una connessione speciale che li contraddistingue dagli altri membri del raggruppamento. Quando ciò accade possiamo dire che esiste un asse d’interazione (axis of interaction) tra i partecipanti (Watson e Potter, 1962). Un asse d’interazione generalmente contiene una relazione tra due persone, un parlante e l’ascoltatore a cui ci si rivolge direttamente, che qui sarà definito ascoltatore assiale (axial listener). Possiamo dire che un asse d’interazione tra due persone persiste finché si osserva la connessione comportamentale che abbiamo descritto, sebbene la persona che occupa il ruolo di parlante e quella che occupa il ruolo di ascoltatore assiale possano cambiare. Quindi se A si rivolge a B e B risponde ad A e così via, diremo che esiste un asse d’interazione tra A e B e continuerà ad esistere fino a quando uno dei due smetterà di rivolgersi all’altro. Lo scambio dei ruoli in un asse sarà definito cambio di polo (pole shift). Quando un asse finisce e ne comincia un altro parleremo di cambio dell’asse d’interazione. I membri di un raggruppamento che non partecipano all’asse in corso saranno chiamati partecipanti non-assiali (non-axial participants). Adam Kendon: Comportamento visibile 25 Possiamo vedere che l’asse d’interazione è un’unità pubblica di connessione comportamentale. Quindi, quando in un incontro, ciascun parlante si rivolge in modo specifico a chi presiede l’incontro e la connessione che abbiamo descritto si mantiene tra il parlante e chi presiede, supporremo ancora che esiste un asse d’interazione tra il parlante e chi presiede, sebbene le osservazioni del parlante siano un contributo alla discussione dell’incontro. L’asse d’interazione è dunque una possibile unità per l’analisi dell’organizzazione di un incontro. Di solito la sua integrità è rispettata dai partecipanti non-assiali. È raro che questi partecipanti inizino un discorso rivolto o al parlante o all’ascoltatore assiale. Gli assi d’interazione generalmente si susseguono e, almeno negli incontri che si svolgono in modo armonioso, in genere essi non sono interrotti. Prima che un nuovo asse possa essere stabilito, sia il parlante che l’ascoltatore assiale devono smettere di comportarsi in modo da creare un asse d’interazione. Le due prossime sezioni contengono esempi che illustrano il processo attraverso cui gli assi d’interazione possono essere stabiliti; e descriveremo il comportamento che coordina il cambio di ruolo del parlante e dell’ascoltatore assiale in un asse. 3.2 La coordinazione dei movimenti e l’avvio degli assi d’interazione Nella sezione precedente abbiamo considerato in che modo i movimenti del parlante e dell’ascoltatore assiale sono collegati, e come questo fenomeno non sia presente tra il parlante e gli ascoltatori non-assiali. In questa sezione descriveremo un esempio di come le persone tendono a coordinare i loro movimenti immediatamente prima di cominciare una conversazione che stabilisce un asse d’interazione tra loro. Illustreremo come la coordinazione dei movimenti può fungere da scambio di informazione “non ufficiale” o “non esplicito”, permettendo ad ogni partecipante di sapere che l’altro intende iniziare un asse d’interazione. Il nostro assunto è che le sottili risposte, che ciascun partecipante invia all’altro, siano un fenomeno molto diffuso nell’interazione e che abbia un importante funzione nella coordinazione del comportamento. L’esempio è tratto da un filmato di un seminario psichiatrico8 in cui cinque psichiatri e un assistente sociale si incontrano per discutere un caso. Uno degli psichiatri (D) fa da moderatore, un altro presenta il caso, ed anche l’assistente sociale (F), una donna, prende parte alla presentazione del caso. Lo scambio di cui ci interessiamo si svolge tra D e F. D entra e si unisce agli altri partecipanti che sono già seduti e lo aspettano. Non appena si siede comincia con alcune osservazioni introduttive che sono rivolte al gruppo nel suo insieme, Osservazioni tratte da uno studio in corso fatto in collaborazione con il Dr. Aviva Menkes. Il filmato è girato alla velocità di 24 fotogrammi al secondo. 8 26 Adam Kendon: Comportamento visibile sull’oggetto dell’incontro e sul modo in cui deve essere condotto. Fatto ciò guarda a turno tutti i membri; da tutti, quando li guarda, riceve in risposta un breve cenno della testa. Qui, ognuno presumibilmente conferma che ha capito le sue osservazioni e allo stesso tempo gli dà via libera per procedere alla fase successiva. Una volta ricevuto il cenno della testa dall’ultimo membro del seminario che ha guardato, D abbassa la testa e si piega in avanti verso il tavolino per prendere una tazza di caffè. Durante questa azione non è impegnato in nessun discorso: in quel momento la sua attenzione è completamente rivolta alla tazza di caffè. Comunque, la struttura della situazione è tale che si supponga sia lui il prossimo a parlare. Alcuni istanti dopo che la sua mano ha raggiunto la tazza di caffè e prima che la prenda e si appoggi all’indietro sulla sedia, gira la testa a destra e guarda F; poi si rivolge a lei con una domanda. È opportuno notare che D non inizia a parlare con F fino a quando la sua testa non è orientata verso di lei, e ciò illustra un punto molto generico e cioè che prima che il discorso inizi il corpo è, generalmente, posto in una posizione appropriata. Tuttavia, ciò che è sorprendente qui è che precisamente nel momento in cui D comincia a girare la testa verso F, F comincia la sequenza di movimenti con i quali si gira per guardare D. Ciascuno si orienta verso l’altro in un asse d’interazione e ciascuno comincia l’orientazione del movimento simultaneamente. È come se F sapesse in anticipo di essere il destinatario del discorso di D. Se esaminiamo i movimenti di F, tuttavia, e il modo in cui sono collegati a quelli di D, ci accorgiamo che F si muove sincronicamente a D anche prima che D cominci ad orientarsi verso di lei. Quindi nel momento in cui D guarda F, quando guarda il gruppo dopo le osservazioni introduttive, F alza leggermente le sopracciglia, abbassa la testa e guarda alla sua sinistra, non in direzione di D. Si gira poi a guardare D quando lui si volta verso un altro membro del gruppo. F muove di nuovo la testa verso sinistra e D si piega in avanti e stende la mano verso la tazza di caffè. La testa di F è piegata in avanti mentre D compie questo movimento e così lei sembra seguire i movimenti di D con gli occhi e col movimento della testa segue il ritmo con cui D si muove. La nostra ipotesi è che nel muoversi in sincronia con D, F mostra che gli sta prestando attenzione, e ciò ha la conseguenza di attrarre l’attenzione di D su di lei. Forse muovendosi a ritmo con D, mostrando di prestargli attenzione, F aumenta la possibilità che D si rivolga a lei quando parlerà. Una volta che D ha deciso di rivolgersi a lei, l’asse tra loro può essere stabilito simultaneamente perché F ha già acquisito, nei suoi movimenti, il ritmo di D. La relazione che abbiamo descritto tra il comportamento di D e di F è illustrato nella fig. 5 (a-d), una sequenza di disegni tratti dal filmato ISP 001 63 per mostrare la relazione tra i movimenti di D e F fino al punto in cui tra i due si stabilisce un asse d’interazione. Si potrà vedere che nessuno degli altri partecipanti coordina il proprio comportamento con D nel modo in cui lo fa F. Adam Kendon: Comportamento visibile 27 5(a) D guarda l’uomo alla sua sinistra e F guarda D (fotogramma 05368) 5(b) D abbassa la testa e si piega in avanti per prendere la tazza di caffè e F gira la testa mentre D compie questi movimenti. (fotogramma 05403) 5(c) F guarda in basso la sua tazza di caffè mentre D si piega per prendere la sua tazza di caffè (fotogramma 05433) 5(d) D gira la testa verso F e lei abbassa la mano spostandola dalla tazza di caffè e gira la testa verso D (fotogramma 05446) Fig. 5 Sequenza di disegni tratti dal filmato ISP 001 63 per mostrare la relazione tra i movimenti di D e F fino al punto in cui tra i due si stabilisce un asse d’interazione . 28 Adam Kendon: Comportamento visibile L’esempio descritto sopra non è che uno dei molti che abbiamo raccolto da numerose registrazioni, in cui, prima di costituire un esplicito asse d’interazione, le persone coinvolte si muovono in modo coordinato, e in tutti i casi un solo individuo comincia muoversi in modo coordinato con un altro. La nostra ipotesi è che muoversi in sincronia con un’altra persona rappresenti una delle tecniche attraverso cui una persona può indicare all’altro che desidera stabilire un asse con lui senza fare richieste esplicite. Avviare un asse d’interazione con un’altra persona è sempre un’operazione alquanto rischiosa, poiché c’è la possibilità che l’altra parte non voglia ricambiare. Una persona può stabilire una connessione con l’altro semplicemente prendendo il ritmo del movimento dell’altro senza che ciò sembri un’esplicita richiesta. Se dopo essersi uniti al ritmo di un altro non viene compiuto un movimento reciproco, è possibile continuare la conversazione come se non ci fosse stato nessun tentativo di cominciare un asse.9 3.3 Ulteriori dettagli sul comportamento dei parlanti e degli ascoltatori assiali Come affermato prima, una delle principali caratteristiche di un asse d’interazione è che l’ascoltatore assiale gira la testa e gli occhi verso il parlante e di tanto in tanto fa dei cenni con la testa e dà altri espliciti “segnali d’attenzione”; il parlante gira continuamente la testa nella posizione dalla quale può “puntare lo sguardo” verso l’ascoltatore assiale. Questi fenomeni sono stati esaminati in dettaglio nei raggruppamenti diadici da Kendon (1967) e i risultati di questo studio sono descritti con maggiori dettagli sotto, poiché sono molto attinenti alla coordinazione del comportamento in un asse d’interazione. In questo studio, sette paia di individui furono filmati mentre conversavano in un incontro informale. Nessuno dei soggetti si era mai incontrato in precedenza e furono lasciati insieme per mezz’ora affinché “facessero conoscenza”. Le conversazioni furono registrate in modo che, attraverso l’uso di specchi, fosse possibile vedere, nel filmato, il viso di entrambi i partecipanti l’uno accanto all’altro (benché fossero invece faccia a faccia). Fu eseguita un’analisi dettagliata del modello di orientazione della testa e degli occhi in Si veda Goffman (1963, pp. 91-95; in Goffman 1971, pp. 93-98) che discute la funzione del “cogliere l’occhiata” all’inizio dell’interazione focalizzata. Lo studioso mette in evidenza come lo sguardo di chi inizia “può essere sufficientemente esitante ed ambiguo per permettergli di agire come se non intendesse cominciare, se sembra che il suo inizio non sia desiderato”. Noi supponiamo che questo valga ancor più quando colui che inizia segnala con la coordinazione dei movimenti il suo intento di impegnare l’altro in un asse d’interazione. 9 Adam Kendon: Comportamento visibile 29 relazione alle frasi pronunciate e alla loro struttura interna. Ciò fu fatto per sedici minuti di una conversazione, e per estratti che duravano cinque minuti per ciascuna delle restanti sei. I risultati principali possono essere riassunti brevemente. Innanzitutto, è emerso che il periodo di tempo in cui ciascun membro della diade guardava il suo partner variava molto sia durante la conversazione della stessa diade sia confrontando la conversazione di una diade con un’altra. Tuttavia, si è osservato che l’ascoltatore guardava il parlante per un periodo più lungo, mentre il parlante tendeva ad alternare momenti in cui guardava verso l’ascoltatore a periodi in cui guardava altrove. Per quelle frasi che duravano cinque secondi o più, fu fatta un’analisi dettagliata della relazione tra “guardare” e parlare. Risultò che il parlante tendeva a non guardare il suo partner quando iniziava a parlare e in molti casi un po’ prima di farlo, e che guardava di nuovo il suo partner generalmente durante l’ultima frase, e che continuava a guardare il suo partner per un po’ di tempo dopo aver finito di parlare. Risultò che normalmente in un discorso lungo il parlante guardava il suo partner verso la fine di ogni frase, ma che guardava di nuovo altrove un po’ prima che riprendesse a parlare. Nei periodi di esitazione il parlante guardava sempre altrove. Si suggerì che questo tipo di comportamento, sebbene potesse avere funzioni importanti per il parlante, forse in relazione al bisogno di trarre informazioni dal suo interlocutore, o al bisogno di ridurre la quantità di informazioni provenienti dall’interlocutore stesso mentre elabora le componenti del suo discorso, potesse anche essere un mezzo di comunicazione. Si suggerì che guardando altrove, proprio prima di parlare, il parlante poteva segnalare la sua intenzione di reclamare la parola; guardando altrove dopo la fine di ogni frase il parlante poteva segnalare la sua intenzione di continuare a parlare; mentre guardando il suo partner, e continuando a guardarlo mentre stava per finire la frase, poteva segnalare la sua intenzione di terminare e questo poteva essere un segnale per il suo partner per prendere la parola. Si tentò di verificare l’ultima parte di questa interpretazione. Per fare ciò, si esaminò il lasso di tempo che B impiegava per rispondere agli enunciati di A, in tutti i casi in cui A non alzava gli occhi, quando arrivava alla fine dell’enunciato e fu confrontato con quello che impiegava quando A alzava gli occhi, quando aveva finito di parlare. Risultò che quando A terminava il discorso guardando B, questi o non rispondeva o ritardava un po’ nella risposta nel 29% dei casi; mentre quando A terminava il discorso senza guardare B, questi o non rispondeva o ritardava un po’ nella risposta nel 71% dei casi. Ulteriori analisi furono condotte per esaminare la relazione tra l’occorrenza dei segnali d’attenzione di B e il coincidente comportamento del parlante. Risultò che il maggior numero di segnali d’attenzione occorrevano durante quelle pause che si trovavano tra le frasi del discorso di A, mentre occorrevano 30 Adam Kendon: Comportamento visibile molto meno durante il discorso fluente o durante le pause d’esitazione. Riassumendo, i risultati descritti sopra suggeriscono che il modo in cui un parlante struttura lo sguardo in relazione al suo discorso potrebbe avere la funzione di indicare al suo interlocutore come comportarsi. Guardando altrove il parlante segnala la sua intenzione di continuare a parlare e quindi di precedere qualunque tentativo d’azione da parte del suo interlocutore. Guardando il suo partner, se lo fa brevemente a metà dell’enunciato, segnala soltanto che continuerà a parlare. Se guarda il suo partner in modo continuativo quando ha finito di parlare ciò indica all’altro che può iniziare a parlare. I risultati di queste analisi necessitano ulteriori conferme. È auspicabile che ulteriori ricerche sullo sguardo siano condotte in altri tipi di incontri. Ciò che abbiamo suggerito è che i cambiamenti nell’orientazione della testa e degli occhi sono regolarmente strutturati in rapporto alla struttura del discorso del parlante (Kendon, 1967, 1972; Kendon e Cook, 1969; Nielsen, 1962; Scheflen, 1964), ma questo modello sarà diverso da situazione a situazione. Ad esempio, analizzando una seduta di psicoterapia, Scheflen (1964) ha riportato che la psicoterapeuta guardava regolarmente altrove mentre il suo paziente parlava, ma tornava a guardarlo quando era lei a parlare. In questa situazione, ovviamente, esisteva una netta differenziazione di ruolo che si rifletteva nel tipo di enunciati che ciascuno produceva e questo potrebbe essere collegato ai diversi modi in cui lo sguardo era modellato (alcuni dati rilevanti su questo punto si trovano in Kendon,1967, pp. 42-47). Inoltre, nello studio non pubblicato di Weisbrod (1965) è stato rilevato che i partecipanti guardano gli altri per il 70% del tempo in cui parlano, mentre gli ascoltatori guardano il parlante solo per il 47% del tempo in cui ascoltano. Ciò è collegato, senza dubbio, ai risultati citati prima secondo cui in un raggruppamento il principale mezzo attraverso cui segnalare a chi è rivolto il discorso è guardare il destinatario. Nei raggruppamenti di più di due persone è necessario specificare a chi è rivolto un discorso, dunque, in queste circostanze ci si aspetterebbe un maggior numero di sguardi mentre si parla. I dati che mostrano che le persone, quando ascoltano, tendono a non guardare il parlante più di quanto non lo facciano nei raggruppamenti diadici, derivano probabilmente dal fatto che nella maggior parte dei casi in questi gruppi vi è un unico destinatario. Tuttavia, nella sua analisi, Weisbrod non operò una distinzione tra ascoltatori assiali e ascoltatori non-assiali. Supponiamo che in un raggruppamento costituito da più persone, gli ascoltatori assiali guarderanno il parlante più di quanto faranno gli altri ascoltatori. Adam Kendon: Comportamento visibile 31 3.4 Aspetti dell’organizzazione della rappresentazione sociale (“social performance”) Un partecipante ad un raggruppamento manifesta la sua partecipazione, come abbiamo visto, attraverso la vicinanza fisica agli altri membri ed anche attraverso particolari modelli di orientazione. Abbiamo osservato come un partecipante può assumere il ruolo di parlante, di destinatario attivo, di ascoltatore non assiale o come può temporaneamente ritirarsi dall’interazione pur restando un membro del raggruppamento. Abbiamo anche detto qualcosa circa il modo in cui il suo comportamento differisce a seconda del modo in cui egli partecipa e abbiamo anche detto qualcosa, sebbene molto poco, circa il modo in cui i partecipanti assumono ruoli diversi nel raggruppamento e come queste differenze si manifestano in termini di comportamento visibile. In questa sezione cercheremo di ampliare un po’ la descrizione di questi aspetti. Scheflen (1964, 1965) ha suggerito che si può osservare che l’esecuzione di un partecipante ad un raggruppamento è organizzata in una gamma di unità gerarchicamente collegate. Queste unità sono unità di comunicazione. Scheflen ha il merito di aver illustrato come queste unità sono caratterizzate da posizioni del corpo o posture contrapposte, e come i confini tra un’unità e l’altra possano essere caratterizzati da cambiamenti nelle posizioni del corpo. Secondo la gerarchia proposta da Scheflen, al livello più alto possiamo distinguere la presentazione (presentation), che comprende il periodo di tempo in cui un individuo è presente come partecipante alla configurazione. Quest’unità è caratterizzata da una posizione fisica relativamente stabile ed è delimitata da cambiamenti notevoli in questa posizione. La presentazione di un individuo è pressappoco equivalente a ciò che talvolta viene chiamato il suo ruolo situazionale. All’interno della presentazione di un individuo, cioè all’interno del periodo in cui è presente come partecipante al raggruppamento, si può dire che un individuo assume una o più posizioni. Normalmente, ogni partecipante ad un raggruppamento tende ad avere un limitato repertorio di tali posizioni. Ciascuna di queste posizioni, come ha osservato Scheflen, è contraddistinta da una diversa disposizione posturale, e il cambiamento da una posizione all’altra è caratterizzata da un cambiamento nella postura. Questo può essere illustrato meglio con un esempio (dato non pubblicato, Oxford, 1965). Un professore è stato osservato durante una lezione informale e la sua performance può essere suddivisa nelle seguenti quattro unità principali, o posizioni: una posizione di professore, durante la quale parla 32 Adam Kendon: Comportamento visibile in modo continuativo al suo pubblico; una posizione di formulazione di una domanda, durante la quale invita le persone a fare domande; una posizione di ricezione di una domanda, durante la quale ascolta mentre gli viene posta una specifica domanda; una posizione di risposta ad una domanda, durante la quale risponde alla domanda. Ciascuna di queste diverse posizioni si distingue dalle altre non solo per il modo in cui il professore parla ma anche per la disposizione posturale che egli assume. Il cambiamento da una posizione all’altra è caratterizzato, o potremmo dire annunciato, da un cambiamento nella postura. Per tutta la durata della sua presentazione, cioè per tutto il tempo in cui ha svolto il ruolo di professore, era seduto sul tavolo di fronte al gruppo dondolando le gambe. Durante la lezione, era seduto con la colonna vertebrale un po’ curva, le braccia ferme sulle cosce, le mani mollemente intrecciate. Finita la lezione, mise le mani sotto le cosce, con il palmo sul tavolo e alzò un po’ la testa, guardando il gruppo con le sopracciglia alzate a mo’ di domanda. Nella posizione successiva, cioè quella in cui pone una domanda, il professore si limitava a guardare il gruppo con le sopracciglia alzate. Non appena qualcuno iniziava a porre una domanda allungava il collo in avanti, girava la testa da un lato leggermente piegata, alzava completamente le sopracciglia e guardava colui che stava facendo la domanda con la coda dell’occhio. Questa era la posizione di ricezione della domanda. Alla fine della domanda, il professore girava la testa rapidamente di nuovo di fronte al gruppo, spingeva il collo in avanti, inarcava le spalle e raddrizzava le braccia e generalmente aumentava il livello di tensione della postura. Manteneva questa postura per tutta la durata della risposta, la posizione di risposta alla domanda era caratterizzata dal cambiamento della postura e della posizione. All’interno di ogni posizione, si possono distinguere altre unità che Scheflen chiama punti. Ad esempio, durante la lezione, un professore fa una serie di affermazioni che compongono l’intero discorso. In un discorso continuo, come una lezione, i segmenti corrispondono probabilmente ad una serie di punti che il professore costruisce mentre parla. Uno psicoterapeuta, nell’interpretare, può inizialmente fare un riassunto di ciò che il suo paziente ha detto, prima di darne un’interpretazione. Sebbene non si sia ancora riusciti a definire cosa sia un punto, Scheflen suggerisce che uno dei modi in cui si può distinguere un punto è il cambiamento della posizione della testa. Scheflen riporta (1964) che gli interagenti in una psicoterapia normalmente mostrano un repertorio che va da tre a cinque diverse posizioni della testa che si ripetono. Lo studioso fa un esempio di due punti usati ripetutamente da una terapeuta durante lo scambio con un paziente mentre assume la posizione di “interpretazione”. Mentre ascoltava il suo paziente, la terapeuta aveva la testa leggermente abbassata, piegata da un lato, con gli occhi distolti dal paziente. Alla fine di ogni punto alzava la testa, la manteneva in posizione eretta e guardando Adam Kendon: Comportamento visibile 33 direttamente il paziente produceva un’osservazione interpretativa. Terminata l’interpretazione, girava la testa a destra senza guardare il paziente e poi riassumeva la posizione del punto d’ascolto. Finora nessuno ha tentato di ampliare le nozioni di Scheflen o di fare osservazioni sistematiche per confermarle, sebbene esista un progetto che mira a questo.10 Tuttavia, esiste un’indagine (Kendon, 1972) che si basa su alcune delle osservazioni di Scheflen, ma sembra dimostrare che la gerarchia delle unità di comunicazione da lui proposta, per quanto fondamentalmente valida, è probabilmente più complessa di quanto indichi la sua prima formulazione. In questo studio si è eseguita una dettagliata analisi della relazione tra il discorso di un individuo e il movimento del corpo ad esso coincidente. L’analisi, realizzata tramite un filmato, fu eseguita su un discorso semi-pubblico di un uomo in un raggruppamento composto da più o meno undici partecipanti. La parte analizzata comprende solo i primi due minuti del discorso. In questo discorso sono state distinte 48 frasi ed è risultato che esse potevano essere raggruppate in 18 gruppi, pressappoco l’equivalente di un periodo,11 che qui chiamiamo locuzioni (locutions). Queste locuzioni sono state a loro volta raggruppate in 11 gruppi di locuzione (locution groups) (o “sotto-paragrafi”), e questi sono stati raggruppati in tre insiemi di gruppi di locuzioni (locution group clusters) (o “paragrafi”). È stato riscontrato che per ogni livello dell’organizzazione del discorso esiste un modello di movimento del corpo specifico attraverso cui ogni unità a quel livello è contraddistinta dai livelli adiacenti. Quindi, per l’intero discorso (discourse) (il gruppo di unità del discorso di livello più alto, usato qui), il parlante mantiene una postura diversa da quella che ha quando ascolta qualcuno prima che inizi a parlare. Rispetto ad ogni insieme di gruppi di locuzioni o “paragrafi” del discorso, il parlante usava le mani o le braccia per gesticolare in modo differente. Sulla prima di queste unità del discorso gesticolava solo con il braccio destro, sulla seconda gesticolava solo con il braccio sinistro, mentre sulla terza gesticolava con entrambe le braccia. Così ogni locuzione era distinta da un diverso modello di movimenti delle mani e delle braccia. Dunque, nel secondo insieme di gruppo di locuzioni o “paragrafo”, sulla prima locuzione il parlante usava movimenti chiari ed ampi dell’intero braccio; sulla seconda usava solo movimenti del polso e delle dita; sulla terza piegava il braccio al gomito poi lo abbassava, e così via. Ad un livello ancora più basso di organizzazione risultò che ogni frase era distinta da quella successiva da un altro diverso modello di movimento. Sulla prima frase, per esempio, il parlante muoveva il braccio in fuori, e poi lo muoveva in dentro Progetto del Dr.C. Beels e il Dr. Jane Ferber, Bronx State Hospital. La ragione per cui scegliamo il termine “locuzione” (“locution”) ecc. è che la segmentazione del discorso è stata fatta su base fonetica, in termini di modelli di intonazione, ma ciò non corrisponde necessariamente alle stesse unità dell’analisi grammaticale o semantica. “Periodo” e “paragrafo” sono termini sintattici ma non si riferiscono a unità del discorso. 10 11 34 Adam Kendon: Comportamento visibile sulla seconda frase, e così via. Scendendo dalla frase alla sillaba ed anche ai foni, come Condon e Ogston (1966, 1967) hanno mostrato, possiamo trovare ancora dei cambiamenti specifici nei movimenti del corpo. Risultò anche che la testa si muoveva in modo regolare strutturato in relazione alle unità del discorso. Quindi, all’inizio di ogni locuzione, la testa era o eretta o piegata a destra. Man mano che le locuzioni si susseguivano la testa era spostata a sinistra e poi abbassata, cosicché alla fine dell’ultima frase la testa era sia abbassata che girata a sinistra. Durante la pausa che seguiva, tra la fine dell’ultima e l’inizio della locuzione successiva, la testa ritornava alla posizione iniziale, cioè eretta o piegata a destra. Questi ripetuti movimenti della testa in rapporto con le locuzioni successive sono chiaramente molto simili a quelle che Scheflen (1964) ha chiamato marcatori di punti e sono probabilmente strettamente collegati ai modelli di cambiamenti ciclici dello sguardo in rapporto agli enunciati, come descritto da Kendon (1967) e come mostrato sopra.12 Riformulando ciò che abbiamo detto, unendo le osservazioni di Scheflen (1964) con quelle di Kendon (1972), se osserviamo un partecipante ad un’interazione dobbiamo probabilmente osservare che disporrà il proprio corpo in una serie di diverse posture e che ognuna di esse sarà associata ad un diverso tipo di attività. Egli avrà un gamma di posture associate al parlare, un’altra associata all’ascoltare e a seconda dei diversi tipi di discorso, come fare domande, discorrere, dare ordini, possiamo aspettarci una postura distinta. Mentre parla, il flusso del discorso è organizzato in una serie di unità a diversi livelli di integrazione. Si osserverà un movimento della testa ciclico e ripetitivo, che demarcherà o sarà associato alle unità successive di discorso ad un livello medio di organizzazione, probabilmente quelle unità di discorso che portano distinti “pensieri” di unità di contenuto. Se osserviamo più in dettaglio il flusso del discorso e come il movimento del corpo è organizzato in relazione ad esso, troviamo che ad ogni livello di organizzazione nel discorso c’è un corrispondente livello in cui si possono distinguere modelli di movimento del corpo contrastanti. Ciò che abbiamo descritto, abbozzando queste osservazioni sulla posture, sui cambiamenti della postura e sui modelli di movimento del corpo in relazione alle unità di comunicazione, ci consente di dire che uno dei modi Nota aggiunta nel 2004: I dettagliati studi, a cui abbiamo fatto riferimenti qui, su come il movimento del corpo è organizzazto in rapporto al discorso verbale sarebbero diventati il punto di partenza per il lavoro successivo sui “gesti” e il loro rapporto con il discorso. Questo lavoro è stato sviluppato dapprima da Kendon (1980), e poi in modo cospicuo da David McNeill (1985, 1992), che ha mostrato che lʼintima integrazione tra il discorso e il movimento del corpo, evidente nel suo lavoro, poteva essere interpretata in base alla teoria secondo cui lʼespressione delle parole e lʼespressione dei gesti derivano dagli stessi processi cognitivi. Lo studio dei gesti in relazione al discorso è diventato da allora il maggiore aspetto di ciò che oggi è chiamato “studio della gestualità” (gesture studies). La letteratura su questo argomento è molto ampia, per gli studi recenti si veda Kendon (1997), Campbell and Messing (1999) McNeill (2000), Beattie (2003). 12 Adam Kendon: Comportamento visibile 35 attraverso cui l’individuo può segnalare le unità di comunicazione è la postura o gli spostamenti o i cambiamenti della posizione del corpo. Ma non ci siamo occupati della questione di come queste diverse unità si distinguono l’una dall’altra. Come arriviamo ad etichettarle come “chiedere”, “ordinare”, “esporre” e così via? Ci sono davvero specifiche posture per il “domandare”, posture per il “comandare”, ecc. o le posture e i movimenti hanno la funzione di mostrare i contrasti tra le funzioni nelle sequenze conversazionali? L’ipotesi di Scheflen è che esiste una gamma limitata di modi di presentarsi agli altri, sebbene né lui né altri abbiano catalogato questi modi. Ciascun modo di presentarsi è, comunque, caratterizzato da una serie di proprietà, sebbene non sia certo che riusciremo infine a definire le caratteristiche di tutte queste proprietà, poiché questo dovrebbe sempre essere fatto in termini di modellamento del comportamento in questione e del rapporto tra l’unità e il suo contesto più ampio. Tuttavia, suggeriamo quanto segue. Innanzitutto, sembra probabile che esistano una serie di differenti posture che “stanno per” differenti modi di presentarsi. […] Probabilmente tutti noi abbiamo un’idea di quale sia una posizione di “sfida”, di “seduzione” ecc. Ciò di cui abbiamo bisogno è un criterio secondo cui le unità di postura potrebbero essere distinte. Quindi abbiamo bisogno di sviluppare descrizioni puntuali di quante più unità riusciamo a trovare, e poi fare molte osservazioni precise per delimitare i contesti in cui le diverse unità occorrono. In questo modo possiamo imparare molto rapidamente qualcosa di più sulla postura. In secondo luogo, un dato tipo di presentazione può essere accompagnato da una caratteristica serie di modelli di comportamento. Questo è quanto suggerisce, tra l’altro, il lavoro di Rosenfeld (1966, 1967), che istruì alcuni soggetti a comportarsi in modo che le altre persone li trovassero piacevoli o insopportabili, e mostrò che c’erano particolari differenze nella quantità di sorrisi, di gesti, ecc. In terzo luogo, con tutta probabilità ci sono delle differenze nel modo in cui una persona relaziona il suo comportamento a quello degli altri, a seconda della posizione che mantiene più a lungo. Ovviamente chi “fa lezione” ha la parola per tutto il tempo dell’interazione. Per fare un esempio più sottile, una delle caratteristiche di un individuo che tenta di occupare un ruolo più importante è che non adatta il suo passo d’azione a quello di coloro che stanno intorno a lui; sono gli altri, piuttosto, a dover adattare il proprio passo al suo (dati non pubblicati provenienti da filmati di psicoterapia e di gruppi di discussione). In quarto luogo, le presentazioni e le posizioni differenti sono caratterizzate da diversi stili di discorso e quindi diverse forme linguistiche. C’è un lavoro notevole sull’intonazione, per esempio, in cui i modelli di intonazione sono distinti a seconda dei diversi atteggiamenti che essi esprimono (Crystal, 1969). Dunque è necessario tentare di elencare le proprietà di comunicazione che è possibile distinguere. Ciò richiede un approccio che necessita un gran numero 36 Adam Kendon: Comportamento visibile di descrizioni precise e che riconosce che un’unità di comunicazione, quale che possa essere, non deve essere definita come un unico mezzo di comunicazione, ma si può manifestare in diversi modi attraverso varie modalità. 4. Conclusioni Nello studio dell’organizzazione del comportamento nell’interazione possiamo considerare da un lato, cosa trasmettono gli interagenti l’uno all’altro, dall’altro come si dispongono le persone quando hanno il ruolo di individui comunicanti, rendendo quindi possibile la trasmissione dei contenuti. Ad esempio, due uomini adulti dello stesso ceto sociale possono impegnarsi in una conversazione e possono discutere di pesca o dell’ultimo scandalo politico o della loro vita privata; ma, indipendentemente dall’argomento di cui parlano, essi si organizzano in un raggruppamento conversazionale e lo fanno in modo molto simile in ciascun caso. Adottano una disposizione spaziale, orientazionale e posturale tipica della conversazione e nel condurre la conversazione organizzano il loro comportamento in un certe unità di comportamento comunicativo, le quali si susseguono in una serie di relazioni organizzate secondo dei modelli, indipendentemente dall’argomento discusso. È di queste forme di comportamento conversazionale che ci occupiamo. È stato fatto un tentativo di comprendere come gli aspetti visibili del comportamento servano a stabilire e mantenere un’occasione conversazionale. Nota aggiunta nel 2004: Ai tempi in cui questo articolo è stato pubblicato esso rappresentava uno di primi tentativi di fornire una descrizione integrata dei sistemi d’interazione che rendono possibile l’esecuzione di occasioni interazionali come la conversazione. Negli anni successivi sono apparse moltissime altre discussioni su questi sistemi, però ciò che abbiamo descritto qui sugli aspetti spaziali ed orientazionali resta per la maggiore parte valido, sebbene ci siano stati alcuni cambiamenti nella terminologia e qualche miglioramento nella descrizione e nell’analisi (si veda in particolare Kendon 1990, 1992). I principali sviluppi in questo campo si sono avuti in rapporto all’analisi della struttura della conversazione (si veda Duranti 2000 che è un buon punto di riferimento per gli studi recenti) e nello studio della gestualità (si veda la nota 12 per una breve bibliografia). Come abbiamo detto nella nota all’inizio di questo articolo, qui possiamo solo indicare i riferimenti bibliografici attraverso i quali si può cominciare ad approfondire questo campo di studio. I paragrafi che erano inclusi nella conclusione originale sono stati omessi perchè risultano ora obsoleti. In essi si esprimeva l’auspicio di sviluppare una descrizione sistematica del comportamento interazionale e siamo ancora di questa opinione, anche per quanto riguarda la necessità di sviluppare delle tecniche che consentano Adam Kendon: Comportamento visibile 37 di raccogliere esempi di comportamento interazionale in ambientazioni quanto più naturali è possibile, la cui analisi deve essere affrontata con lo stesso spirito con cui l’etologo si avvicina al suo materiale quando cerca di capire i sistemi di comunicazione utilizzati dagli animali. La conclusione originale dell’articolo, invece, ci sembra ancora efficace e per questo preferiamo terminare con quelle stesse parole. Grande sarà la ricompensa per una tale descrizione dei sistemi di comunicazione utilizzata dall’uomo. Non solo si fornirà una solida base per comprendere come si porta a termine un’interazione e permetterci così di fare un resoconto molto più preciso della socializzazione e di avere una migliore comprensione degli individui socialmente malfunzionanti, ma ci aiuterà anche ad affrontare il compito di un’analisi comparativa del comportamento umano e capire così, più pienamente di adesso, la natura della nostra eredità evolutiva e cosa è specifico della specie Homo sapiens. Ringraziamenti. Quando questo articolo è stato scritto l’autore faceva parte del Progetto sulla Comunicazione Umana al Bronx State Hospital, Bronx, N. Y. Questo è patrocinato dall’Albert Einstein College of Medicine dal Jewish Family Service, Inc., e sostenuto dallo State of New York, NIH Grant No. 15977-02, e dalla Van Amerigan Foundation. Vorrei ringraziare Dr. Israel Zwerling, Direttore del Bronx State Hospital, per aver messo a disposizione le attrezzature. Il Sig. Robert McMillan ha fornito validi commenti sulla prima versione dell’articolo. Sono grato anche ai Drs. Aviva Menkes, Andrew Ferber e C. Christian Beels per le utili discussioni. La versione italiana è stata realizzata con la collaborazione indispensabile di Maria Graziano. 38 Adam Kendon: Comportamento visibile Bibliografia Argyle, M. and Janet Dean (1965). Eye-contact, distance and affiliation. Sociometry, 28:239-304. Argyle, M. and A. Kendon (1967). The experimental analysis of the social performance. In L. Berkowitz (a cura di) Advances in Experimental Social Psychology Vol. 3, pp. 55-98. London and New York: Academic Press. Altman, S. A. (1968). Primates. In T. Sebeok (a cura di) Animal Comunication: Techniques of Study and Results of Research. Bloomington: Indiana University Press, pp. 466-522. Bales, R. F. (1950). Interaction Process Analysis. Reading, MA: AddisonWesley. Bales, R. F. (1958). Task roles and social roles in problem-solving groups. In E. Maccoby, T.M. 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