Comportamento visibile

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Comportamento visibile
IL RUOLO DEL COMPORTAMENTO VISIBILE
NELLʼORGANIZZAZIONE DELLʼINTERAZIONE
SOCIALE
Adam Kendon
Versione italiana di Maria Graziano
Un adattamento di “The Role of Visible Behaviour in the Organization
of Social Interaction” in M. von Cranach e Ian Vine (a cura di) Social
Communication and Movement: Studies of Interaction and Expression in Man
and Chimpanzee. London: Academic Press, 1973, pp. 29-74.
Nota introduttiva: Da quando questo articolo è stato pubblicato sono stati fatti
moltissimi importanti studi in questo campo. Nonostante questo, le idee fondamentali
in esso espresso sono ancora valide. Non abbiamo fatto un aggiornamento completo,
però qua e là abbiamo aggiunto una nota per indicare i più importanti sviluppi che si
sono avuti negli anni successivi alla pubblicazione originale.
Nellʼadattamento fatto per la versione italiana alcune brevi parti sono state omesse
ma ne sono state aggiunte altre non comprese nellʼarticolo originale, per chiarire alcuni
concetti. Inoltre, alcuni termini e frasi sono stati modificati di comune accordo con
lʼautore affinchè il testo sia più idoneo allʼespressione italiana.
1 Introduzione
Supponiamo che John voglia parlare con Harry di qualcosa. Affinché ciò
possa accadere occorrono una serie di condizioni: John deve far percepire la
sua presenza a Harry, deve farsi identificare o essere identificabile, e deve far
capire che è con Harry, e non con Tom che è lì vicino, che vuole parlare; Harry
deve, dunque, essere d’accordo a partecipare alla conversazione con Tom e
deve manifestare tale consenso.
Nel corso della conversazione, entrambi i partecipanti devono organizzare
il proprio comportamento secondo certe regole. Ciascuno deve continuamente
mostrare che è presente come partecipante alla conversazione e deve mostrare
che la sua attenzione è rivolta principalmente alla conversazione e non a
qualcos’altro, deve parlare al proprio turno e quando parla deve fare capire a
chi si sta rivolgendo, quando ascolta deve indicare chi sta ascoltando. Durante
la conversazione, ogni partecipante deve dire cose pertinenti alla “cornice”
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o alla “definizione” prevalente della conversazione, e deve mostrare che non
è né troppo annoiato, né troppo agitato da ciò di cui si sta parlando. Inoltre,
ognuno deve rispettare l’accordo attraverso cui i ruoli dei partecipanti alla
conversazione sono definiti e mantenuti. In altre parole, nel partecipare ad una
conversazione, i partecipanti devono cooperare per mantenere un sistema di
relazioni, un’organizzazione in cui la conversazione, qualunque cosa concerna,
si possa compiere. Diremo che i partecipanti alla conversazione avviano e
mantengono un “consenso operativo” (working consensus) che specifica le
“regole basilari” per il comportamento da tenere nella conversazione.
Questi aspetti dell’organizzazione degli incontri faccia a faccia sono stati
descritti da Goffman in vari saggi (1955, 1957, 1961a – si veda Goffman
1988, 2003 per lw traduzioni italiane) in cui viene fatta un’analisi abbastanza
minuziosa dei requisiti della condotta conversazionale, ma non è presente
nessuna descrizione dettagliata dei tipi di comportamento che lo costituiscono.
Per esempio, nel suo saggio “Alienazione dall’interazione” (1957; trad. it.
Goffman 1988, pp. 123-150), Goffman descrive come spesso sia necessario
che i partecipanti alla conversazione siano completamente presi dal punto
focale d’attenzione ufficiale della conversazione e mostra cosa accade quando
questo requisito non viene rispettato, ma lascia che sia il lettore a capire cosa si
intenda per “essere presi completamente” in termini comportamentali.
Tuttavia, mentre la maggior parte di noi riesce a rendersi conto, con notevole
abilità, se qualcuno non si comporta in modo appropriato in una conversazione,
è tutt’altra faccenda essere in grado di dire precisamente cosa può o non può fare
una persona; similmente, mentre la maggioranza di noi è capace di partecipare
ad una conversazione, nessuno sarebbe in grado di dire come riesce a farlo,
se glielo si chiedesse. Eppure bisogna avere una conoscenza sistematica ed
esplicita di tutte le componenti del comportamento conversazionale per capire
come è fatto, perché alcune persone sbagliano e come le persone imparano tale
comportamento. L’abilità di conversare e dunque partecipare ad un’interazione
sociale è dopo tutto il fondamento della complessità della nostra vita sociale.
Comprendere questa abilità sembra essere essenziale ai fini della descrizione
di una teoria sulla natura del comportamento sociale umano.
In questo capitolo, si tenta di illustrare quegli aspetti del comportamento
dei partecipanti ad una conversazione che sembrano organizzare, determinare
e mantenere le conversazioni. Si cerca di indicare, per esempio, in che modo
le persone mostrano di conversare l’una con l’altra, in che modo mantengono
il “consenso operativo” e in che modo raggiungono un armonioso scambio
di enunciati. Ci occupiamo, dunque, non di cosa si dicono le persone ma di
come esse creano e mantengono le condizioni in cui possono dire le cose l’uno
all’altro. Ci occupiamo della natura dei canali della comunicazione faccia a
faccia e non del motivo per cui questi canali vengono utilizzati. Quindi, la nostra
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intenzione è evidenziare un aspetto dell’interazione che fino a poco tempo fa è
stato a malapena sfiorato. Gli studi classici sull’interazione, come quelli iniziati
da Bales e colleghi (si veda, per esempio, Hare, 1962; Hare et al., 1966), hanno
preso in considerazione quasi esclusivamente i messaggi che i partecipanti
alle riunioni conversazionali (i cosiddetti “piccoli gruppi”) comunicano l’uno
all’altro. E sebbene ci si fosse resi conto che nei raggruppamenti e nei gruppi
il flusso dei messaggi era differenziato lungo “canali” o “reti” (Bavelas,
1950; Bales et al., 1951; Bales, 1958; Shaw, 1964), non si prestò pressoché
nessuna attenzione a come questi canali erano organizzati naturalmente dai
partecipanti. Ed anche oggi che l’interesse sembra concentrarsi maggiormente
sul modo in cui le persone comunicano, l’enfasi sembra essere ancora posta
su quali messaggi ci si scambia, piuttosto che sulle condizioni in cui essi sono
scambiati. Per studiare la comunicazione dobbiamo occuparci sia dei canali
che dei messaggi, sebbene qui ci concentreremo sui canali.
Qui ci occuperemo solo del comportamento visibile (visible behaviour).
Questo perché quasi tutti gli studi riguardanti la questione di come sono
organizzate le conversazioni concernono questo aspetto. Le funzioni
organizzative del discorso ed altri tipi di vocalizzazione, così come quelle di
altri modi di comunicare come il tatto, sono state a lungo quasi completamente
inesplorate.1
Il comportamento visibile, come implica il termine stesso, si riferisce a
tutto ciò che un individuo fa e che è visibile agli altri. Dunque, esso include
il modo in cui una persona si muove nello spazio e la posizione spaziale che
può mantenere, sia rispetto alle caratteristiche di un dato luogo sia rispetto alle
altre persone presenti. Il comportamento visibile include la postura e tutti i tipi
di movimenti del corpo, quelli altamente specializzati per la comunicazione,
come i gesti o le espressioni facciali, e quelli meno specializzati, come i
cambiamenti della postura o il comportamento associato ai diversi tipi di
attività che bisogna svolgere. Includiamo anche l’aspetto dell’individuo – la
fisionomia, l’abito e il modo di presentarsi in pubblico – benché questi aspetti
non saranno trattati qui.
L’analisi che segue sarà divisa in tre sezioni. Nella prima, tratteremo di
quegli aspetti del comportamento nelle conversazioni che permangono per la
maggior parte dell’occasione. Descriveremo i diversi modi in cui i partecipanti
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Nota aggiunta nel 2004:. Le funzioni organizzative del discorso, incluso il problema del “turn
taking” e come i partecipanti ad una conversazione gestiscono (“micromanage”) lo scambia degli
enunciati, diventano oggetto di studio di grande importanza almeno dal 1974 quando fu pubblicato
il famoso articolo di Harvey Sacks, Emanuel Schegloff e Gail Jefferson “A simplest systematics
for the organization of turn taking in conversation” che possiamo dire avviano lo studio dell’
“analisi della conversazione” (“conversation analysis”). Se avessi scritto oggi un articolo come
questo, vi sarebbe un chiaro ed esplicito riferimento agli studi fatti finora, ma nel 1973 questo
non era ovviamente possibile! Per quanto riguarda, invece, le funzioni comunicatve di altri modi
comunicare come il tatto, non esistono ancora molti studi.
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alla conversazione tendono a disporsi nello spazio, le posture che assumono
e come queste li differenziano dai non-partecipanti alla conversazione;
mostreremo anche come questi modelli di disposizione nello spazio e le
posture possono riflettere gli aspetti del “consenso operativo” dell’occasione.
Ci riferiremo al modo più o meno permanente di disporsi nello spazio e di
assumere una certa postura con il termine configurazione dell’incontro: la si può
considerare come una messa in scena in cui i partecipanti possono cominciare
la fase dell’incontro in cui svolgere le attività di comune interesse.
Nella seconda sezione, passeremo in rassegna alcune caratteristiche del
comportamento visibile richiesto nell’organizzazione delle attività che
i partecipanti ad una conversazione svolgono insieme. Ciò include, per
esempio, la questione di come i partecipanti segnalano qual è la persona a cui
si stanno rivolgendo, come ci si scambi senza difficoltà il ruolo di parlante o
il turno di parola.
Nella terza sezione, ci concentreremo sul comportamento dell’individuo
– in particolare sul modo in cui organizza la sua rappresentazione sociale
(social performance).
Sebbene abbiamo cercato di riferirci alla maggior parte degli studi
sull’argomento, quello che segue non è il tentativo di una completa rassegna
della letteratura pertinente. Poiché pochi sono i lavori direttamente attinenti,
molti argomenti non sono stati presi in considerazione. Quindi, per ora, non
possiamo dire nulla sul modo in cui sono avviate le conversazioni né su come
vengono terminate, benché questa sia una questione molto importante. Solo
Goffman (1963) sembra aver prestato attenzione alla fase iniziale degli incontri
in modo sistematico ma le sue osservazioni riempiono solo poche pagine.2
Abbiamo dovuto trascurare anche l’analisi di come gli incontri sociali si
svolgono nel tempo. Molto poco è stato fatto su questo, forse perché è difficile
fare le osservazioni necessarie. Alcune osservazioni ed idee stimolanti sono
state avanzate da Pike (1954) e da Scheflen (1968, 1969, 1973), e possiamo
includere anche le osservazioni di Bales (1950), Heinicke (1960) ed altri che
hanno studiato gruppi in psicoterapia; ma, tuttavia, si è dovuto far affidamento,
molto più spesso di quanto si voglia, su osservazioni occasionali e sull’analisi
di singoli esempi ed alcune di queste analisi non sono ancora state pubblicate.
Comunque, l’intento è quello di fornire uno schizzo di come sono organizzate
le conversazioni ed illustrare i tipi di problemi che bisogna studiare. Se non si
è fornita una forte prova per ogni cosa che si è detta, si spera almeno di aver
stimolato l’idea per ulteriori indagini.
Prima di procedere bisogna fissare alcuni punti sulla terminologia. Useremo
il termine raggruppamento (gathering) per indicare un insieme di individui
co-presenti, cioè un insieme di individui che sono reciprocamente influenzati
Ma si veda Goffman (1971, capitolo 3) e Kendon e Feber (1973). Questi studi sono apparsi
quando è stato scritto quest’articolo.
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nel comportamento dalla loro mutua presenza. I raggruppamenti ricorrono
normalmente in uno spazio fisico più o meno ben definito, e useremo il termine
sito (site) per riferirci a questo spazio. I siti sono riconoscibili solamente l’uno
in relazione all’altro. Per esempio, a seconda dei nostri scopi, può essere
considerato un sito l’intera Galleria Umberto I a Napoli, oppure potremmo
considerare come siti separati aree più ristrette al suo interno.
In un raggruppamento possiamo trovare due tipi essenziali di unità di
partecipazione. Queste unità saranno chiamate singoli (solos) e insiemi
(withs). Un singolo è un individuo che non è, in un dato momento, connesso
con nessun altro in modo diretto. Ad esempio, un uomo che aspetta sua moglie
da solo è un singolo, però non appena sua moglie lo raggiunge, l’uomo diventa
parte di un insieme. I gruppi conversazionali sono degli insiemi, ma lo sono
anche i piccoli gruppi di persone, come un piccolo gruppo di studentesse
alla stazione ferroviaria, anche se stessero tutte dormendo. In un insieme,
può occorrere un’interazione esplicita o focalizzata, sebbene i membri degli
insiemi possano anche essere impegnati in interazioni non focalizzate, come
fanno, per definizione, tutti i singoli. Un’interazione focalizzata (focused
interaction) occorre quando due o più persone riconoscono esplicitamente un
punto focale d’attenzione mantenuto in comune, come fanno i conversatori di
qualunque tipo, i giocatori di carte o gli amici che si salutano da lontano. Ma
questo può non essere vero per un lustrascarpe e il suo cliente: il cliente può
essere assorto nel suo giornale mentre il lustrascarpe gli pulisce le scarpe; ma
non si può giocare a carte con qualcuno che legge il giornale. Un insieme di
individui impegnati in un’interazione focalizzata è definito raggruppamento
focalizzato (focused gathering). Poiché ci occuperemo perlopiù dei
raggruppamenti focalizzati, useremo il termine “raggruppamento” per riferirci
ad essi, ma quando si intenderà raggruppamento in senso generico questo
sarà specificato. Il termine “gruppo” non sarà utilizzato che per descrivere
un insieme di individui che hanno un rapporto organizzato siano essi in quel
momento riuniti o meno in un raggruppamento. Questa terminologia è tratta,
ovviamente, direttamente da Goffman (1961, 1963, 1971) e si è cercato si
seguire il più possibile il significato che l’autore stesso dà ai termini.
Ci occuperemo soltanto dei raggruppamenti focalizzati degli adulti, in cui
il principale mezzo attraverso cui il punto focale ufficiale è mantenuto è la
conversazione. Non si dirà nulla dei bambini, se non di sfuggita, e non si
tenterà di fare paragoni culturali […]. Il gruppo culturale di riferimento per
gli studi descritti in questo capitolo è, infatti, anglo-americano e appartenente
principalmente alla classe medio-alta.
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2 La configurazione
Qual è la differenza visibile tra un raggruppamento focalizzato ed uno
non focalizzato? Dalle figure 1 e 2, è evidente che una differenza esiste.
Nella figura 1, ventinove persone, tutte nella stessa stanza, sono impegnate
in undici diversi punti focali di interazione chiaramente distinguibili l’uno
dall’altro. Nella figura 2, nove persone siedono sotto un albero, ma nessuno è
impegnato in un’interazione focalizzata con un altro. Il contrasto tra la relativa
disposizione delle persone in queste due foto è chiaro. È possibile specificare
le caratteristiche distintive generali dei raggruppamenti focalizzati? Tranne in
ambienti in cui non c’è libertà di movimento (ad esempio in un affollatissimo
vagone ferroviario), si potranno incontrare le due seguenti condizioni con le
relative disposizioni spaziali:
a. La distanza tra i partecipanti sarà compresa in una limitata gamma
di distanze. La distanza dipende da numerosi fattori. Negli ambienti
affollati o “aperti” (pubblici) i partecipanti sono più vicini che negli
ambienti “chiusi” (privati). Inoltre, quanto più intima o esclusiva è
l’interazione, tanto più vicini saranno, probabilmente, i partecipanti.
b. I partecipanti orientano il proprio corpo l’uno in relazione all’altro in
modo che per ognuno, l’angolo con cui la testa dovrebbe ruotare dalla
sua orientazione sul piano sagittale del corpo verso un’orientazione in
cui sarebbe direttamente di fronte ad un altro partecipante sia minore
di novanta gradi. Se, per stare di fronte ad un altro, un individuo deve
girare la testa sul piano sagittale dell’orientazione con un angolo
maggiore di novanta gradi, allora è molto probabile che egli non
sia coinvolto in un’interazione focalizzata con un’altra persona. I
partecipanti manterranno tale disposizione spaziale ed orientazionale
per tutta la durata dell’incontro, ed ogni individuo, continuando ad
essere disposto in tal modo, mostra di essere un partecipante.
La disposizione spaziale ed orientazionale stabile che caratterizza un
incontro focalizzato sarà chiamata configurazione dell’incontro.3 Ipotizzeremo
che essa possa essere considerata un’evidente espressione del “consenso
operativo” dell’incontro. È mantenendo una particolare postura, orientazione
e posizione spaziale in relazione agli altri che un individuo indica agli altri
la sua continua partecipazione. La particolare forma che la configurazione
Nota aggiunta nel 2004: nelle pubblicazione successive verrà usato il termine “formazione”. Si
veda Kendon 1990, 1992 .
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Fig. 1. Interazioni focalizzati in un salotto. Fotografia di Paul Byers.
assume nel complesso riflette il tipo di occasione e il tipo di relazioni di ruolo
prevalenti nel raggruppamento. Se la configurazione è incostante o instabile
ciò riflette una fluidità o un’instabilità nel “consenso operativo” dell’occasione.
Un’analisi della formazione della configurazione, che comporti un dettagliato
esame delle manovre spaziali dei partecipanti, farebbe luce sul processo
attraverso cui si arriva al “consenso operativo”.
Inoltre, nella fig. 1 vediamo che in ognuno degli undici “nodi” conversazionali
i corpi dei partecipanti sono orientati l’uno verso l’altro, in modo che per
stare faccia a faccia con l’altro la testa possa ruotare con un angolo minore
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Fig. 2. Un raggruppamento non-focalizzato. Fotografia di Paul Byers.
di novanta gradi. Tuttavia, c’è un alto grado di similarità nella postura, e la
distanza tra le persone che si trovano all’interno delle configurazioni è minore
di quella tra le persone che si trovano nelle configurazioni adiacenti. Vedremo
anche che, sebbene in molti casi i partecipanti non si guardino, le loro teste
sono rivolte l’una verso l’altra e sono anche piegate un po’ in avanti.
Vedremo che attraverso questo modo di disporsi i partecipanti ai
raggruppamenti esprimono il proprio impegno comune, sia l’uno all’altro sia
a coloro che si trovano nelle vicinanze. Ciascun partecipante, mantenendo una
posizione spaziale, una postura e un’orientazione appropriate al ruolo che ha
nel raggruppamento, segnala agli altri che è coinvolto in un impegno comune
con loro. Così facendo segnala che reclama alcuni diritti e allo stesso tempo
che si assume degli obblighi. Rivendica il diritto di ascoltare e parlare, ma ha
anche il dovere di aspettare e di parlare quando ci si rivolge a lui e parlare in
modo che sia pertinente alla “cornice” prevalente del raggruppamento.
Si potrà anche osservare che la disposizione fisica dei membri di un
raggruppamento ha l’effetto di delimitare un’area che può essere chiamata
territorio dell’interazione (interaction territory) (Lyman e Scott, 1967),
che, poiché tende ad essere difesa da tutti i partecipanti contro l’intrusione
dei non-partecipanti, è anche generalmente rispettata dai non-partecipanti.
Quindi, laddove il punto focale dell’interazione è importante o impegnativo,
i partecipanti generalmente rinforzano le funzioni delimitative dei loro corpi
con delle barriere fisiche, come i muri. Per le conversazioni prolungate e
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impegnative le persone, generalmente, si chiudono in una stanza. Quando i
raggruppamenti focalizzati si formano all’aperto, gli altri normalmente evitano
di passarci in mezzo o di passarci accanto se passano per il sito. Si osserverà
che i non-partecipanti che passano molto vicino ad un raggruppamento, come
ad esempio in un ambiente piuttosto affollato, abbasseranno marcatamente
la testa. 4 Solo di rado i raggruppamenti si formano nei corridoi stretti o in
altri luoghi che normalmente funzionano da passaggi dove i non-partecipanti
potrebbero essere costretti a passare. In questi casi, oltre alla testa abbassata
si aggiunge generalmente una scusa verbale. Così come equivale ad insultare
i partecipanti al raggruppamento se i non-partecipanti non rispettano lo spazio
che esso occupa, allo stesso modo usare come territorio dell’interazione uno
spazio che normalmente è destinato ai passanti significa insultare i nonpartecipanti. I raggruppamenti nei corridori sono, dunque, generalmente molto
brevi.
Nel descrivere gli studi sulla configurazione, tratteremo separatamente la
disposizione spaziale, l’orientazione e la postura, sebbene questi tre aspetti
sembrino essere sistematicamente connessi. Per esempio, le orientazioni e le
posture assunte in una data configurazione sono probabilmente strettamente
dipendenti dal tipo di spaziatura utilizzato. Un altro fattore di notevole
importanza è, ovviamente, il numero dei partecipanti al raggruppamento.
Tuttavia, si sa poco dell’effetto che ciò ha sulla forma fisica del
raggruppamento.
2.1 Le disposizioni spaziali
In questo paragrafo saranno riassunte alcune caratteristiche generali riguardanti
la forma dei raggruppamenti.
Le configurazioni in cui i partecipanti si dispongono in cerchio sono quelle
in cui probabilmente tutti i membri hanno eguali diritti alla partecipazione.
Nelle configurazioni in cui uno o più membri sono differenziati nello spazio
rispetto agli altri, in modo che il modello si avvicini ad una forma triangolare,
semicircolare o a quella di un parallelogramma, i diritti alla partecipazione
nell’interazione non sono uguali. Una forma estrema di configurazione non
circolare potrebbe essere una lezione, in cui uno dei membri si trova all’apice
del triangolo rivolto verso gli altri, i quali sono disposti in file parallele alla
base del triangolo. In situazioni come questa il membro che si trova all’apice
ha il diritto (e l’obbligo) di parlare in modo continuativo, coloro che sono
disposti in modo parallelo alla base del triangolo, normalmente, hanno solo
il diritto di ascoltare. Le disposizioni spaziali intermedie tra il triangolo e
Osservazioni tratte da uno studio che è ancora in svolgimento con il Dr. A. E. Scheflen. Nota
agginuta nel 2004: Ma si veda Scheflen (1973, 1975)
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il cerchio tendono ad essere intermedie anche per il grado di diritto alla
partecipazione per il quale sono differenziati i diversi membri. Dunque, il
seminario tende ad avere una forma ovale con il leader alla punta dell’ovale
e la maggior parte degli altri rivolti verso di lui, in una disposizione che si
avvicina ad un semicerchio. I raggruppamenti non circolari tendono ad avere
una posizione “testa” in cui, generalmente, è situato il membro con maggiori
diritti alla partecipazione.
Sembra, quindi, che le persone che probabilmente devono avere un ruolo
dominante nell’interazione, devono probabilmente scegliere una posizione
adeguata dalla quale possano rivolgersi al maggior numero di partecipanti al
raggruppamento. Di conseguenza, in parte, è più facile per chi occupa una di
queste posizioni essere attivo, poiché può facilmente attrarre l’attenzione degli
altri; inoltre, poiché riesce a vedere tutti i membri del raggruppamento, si trova
nella posizione migliore per cogliere il momento adatto per iniziare un’azione.
Queste posizioni, per le loro stesse caratteristiche, sono tradizionalmente
considerate come posizioni di grande influenza, sono quindi assegnate a quei
membri del gruppo che eserciteranno più controllo. La “testa” della tavola è
normalmente occupata dal moderatore o dal leader.
Fin’ora ci siamo occupati solo della relazione tra la disposizione spaziale
e la differenziazione dei ruoli in un raggruppamento focalizzato. Alcuni dati
suggeriscono che il tipo di funzione interazionale assunta dal raggruppamento
sarà collegata anche alla disposizione spaziale. Ad esempio, Sommer
(1965) ha studiato la disposizione spaziale nei raggruppamenti diadici, ed
ha confrontato il tipo di disposizione assunta dai partecipanti quando si
trovano in competizione, quando cooperano o quando lavorano separatamente
ciascuno con un proprio compito (diadi “coattive”). L’autore ha osservato che
per le coppie in competizione, c’è una forte tendenza a sedersi l’uno di fronte
all’altro, mentre per le coppie che cooperano, coinvolte in una discussione su
un argomento di reciproco interesse o in una conversazione casuale, c’è una
tendenza a sedersi o uno accanto all’altro o, più normalmente, in posizione
diagonale rispetto all’altro, in modo che ciascuno dovrebbe girare la testa con
un angolo considerevole per guardarsi direttamente.
Un punto alquanto simile, cioè che la distanza che separa due membri di
un raggruppamento è in parte collegata al tipo di interazione in cui essi sono
impegnati, è evidenziato anche da Hall (1966). Lo studioso ha suggerito che,
almeno per gli americani di influenza culturale nord europea, si possono
distinguere svariate gamme di distanze, ciascuna appropriata ad un diverso tipo
di interazione. Ad esempio, lo studioso afferma che esiste una distanza intima,
dove i partecipanti stanno a circa 18 pollici di distanza, per le interazioni
intime; una distanza casuale personale, a circa 5 piedi, per le conversazioni
casuali tra amici; una distanza socio-consultativa, che varia tra i 5 e i 10
piedi e che è usata per tipi di interazione più formali, come le discussioni o i
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colloqui; e una distanza pubblica, a più di 10 piedi, usata quando una persona
si rivolge formalmente ad un gruppo di persone. Hall mette in rilievo che i
sensi funzionano in modi diversi secondo le differenti distanze e che ciò avrà
conseguenze sui tipi di canali comunicativi che possono essere utilizzati. Ad
esempio, ad una distanza intima si possono usare il tatto, l’olfatto e il calore
per trasmettere informazioni da un individuo all’altro, ciascuno può osservare
i cambiamenti nel ritmo del respiro dell’altro o i cambiamenti nello stato
dei capillari epidermici. A distanze maggiori si possono usare solo la vista
e l’udito, e con l’aumentare della distanza questi diventano sempre meno
efficaci nel cogliere i dettagli più piccoli. Dunque, con l’aumentare della
distanza ci si affida di più ai modelli del linguaggio formale e il parlante si
affida di meno al comportamento degli ascoltatori, per esempio, i cenni con
la testa e i cambiamenti delle espressioni del volto che, in tipi di scambi più
intimi, giocano un ruolo importante nel processo interazionale.
I termini usati da Hall per le diverse distanze interpersonali derivano da Joos
(1962) che mise in evidenza che esistono diversi stili linguistici per i diversi
tipi d’interazione. Per esempio, secondo Joos, nella cosiddetta interazione
“casuale personale” il discorso dei partecipanti è costituito da frasi brevi, da
forme d’espressione dialettali, dunque una forma linguistica non “ufficiale”.
In questo tipo d’interazione si osserva, inoltre, l’uso di espressioni brevissime,
come “ah” “sì” “certo” ecc., che sono “segnali di ricezione da parte
dell’ascoltatore”,5 che servono appunto all’ascoltatore per segnalare che sta
ricevendo ciò che viene detto. In un’interazione “socio-consultativa”, invece,
i partecipanti usano frasi più lunghe, il discorso è costruito con una sintassi
più elaborata, in una lingua più “ufficiale” o più vicina alla lingua scritta e gli
ascoltatori non usano i “segnali di ricezione”.
Hall suggerisce, quindi, che esiste una distanza appropriata per ogni tipo
di conversazione. Tuttavia, non ha dato alcuna indicazione circa gli ambienti
in cui queste distanze sono adottate, benché due studi suggeriscano che
considerare ciò potrebbe essere molto importante (Sommer, 1961; Little,
1965). Per esempio, per conversazioni casuali o socio-consultative si possono
usare distanze più ridotte se i partecipanti si trovano in ambienti pubblici (come
un parco o una strada) rispetto a quando si trovano in ambienti privati (come
il soggiorno di una casa). Probabilmente il motivo di ciò è che la distanza
adottata nella conversazione non solo riflette qualcosa del tipo di interazione
impiegato dai partecipanti ma esprime anche la relazione tra l’incontro, come
sistema di cooperazione in sé, e le altre attività che si possono svolgere nello
stesso luogo. In ambienti pubblici una distanza più ridotta può, dunque, essere
Nota aggiunta nel 2004: Per descrivere questi “segnali di ricezione da parte dell’ascoltatore”
Kendon (1967) ha usato il termine “attention signals” ma nel 1972 Yngve ha coniato il termine
“back-channel”, un termine che negli anni successivi avrà una larga diffusione.
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adottata per le conversazioni perché per i partecipanti è necessario evidenziare
il loro “essere insieme” ma questo non è necessario in ambienti più piccoli
come un soggiorno o un ufficio.
Sarà chiaro da ciò che abbiamo detto sopra che il modo in cui un individuo
si dispone rispetto agli altri membri di un raggruppamento può essere un
mezzo attraverso cui può esprimere la sua posizione nel raggruppamento
stesso. Può scegliere una distanza e dunque segnalare il grado di intimità che
spera di mantenere nell’interazione. Può scegliere una collocazione (come
una posizione “testa”) per segnalare la sua richiesta di avere un particolare
tipo di ruolo nel raggruppamento. Tuttavia, la particolare collocazione che un
individuo occupa in un raggruppamento dipende chiaramente dalla particolare
collocazione occupata dagli altri membri. Quindi, affinché un individuo
possa mantenere una certa collocazione nel raggruppamento bisogna che
tutti i membri siano d’accordo circa le disposizioni spaziali da assumere.
Un raggruppamento in cui la disposizione spaziale è stabile, quindi, è un
raggruppamento con un consenso stabile circa il livello di intimità, la relativa
posizione dominante dei membri ed altre relazioni di ruolo tra i membri. I
cambiamenti della disposizione spaziale rifletteranno i cambiamenti di questo
consenso. Un’analisi del processo attraverso cui si arriva a tali disposizioni
stabili costituirebbe un’analisi del processo iniziale della negoziazione che
caratterizza gli stadi iniziali di tutti gli incontri focalizzati. Non ci sono ancora
studi che si siano interessati a come si formano le configurazioni.
2.2 L’orientazione
Abbiamo già suggerito che in un raggruppamento focalizzato i partecipanti
orienteranno i propri corpi in modo da poter ruotare la testa l’uno verso
l’altro girandola con un angolo minore di novanta gradi dal piano sagittale
dell’orientazione. Tuttavia, all’interno di questa fascia ci sono molte varianti
possibili, ed ora esamineremo il significato di alcune di esse.
Il principale modo in cui l’orientazione può variare è nel grado con cui la
testa, le spalle e i fianchi sono allineati l’uno rispetto all’altro, rispetto alla
superficie ventrale dell’individuo che è rivolto verso la superficie ventrale
del suo co-interagente. Il grado con cui gli individui stanno l’uno di fronte
all’altro può essere considerato come il grado con cui essi si trovano vis-àvis. In tutti gli esempi di interazione focalizzata ci sono momenti (per quanto
possano essere brevi) in cui le teste dei partecipanti sono orientate in questo
modo, ma le configurazioni variano molto nel grado col quale anche i corpi dei
partecipanti sono vis-à-vis. Queste orientazioni, tuttavia, sono normalmente
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associate all’interazione focalizzata tra coloro che sono orientati in questo
modo. Laddove, in un raggruppamento focalizzato, i partecipanti sono orientati
in modo parallelo l’uno rispetto all’altro, l’interazione è mantenuta non tra
coloro che si trovano in posizione parallela ma tra ogni singolo individuo ed
alcuni punti focali comuni. L’esempio più ovvio di questo tipo di disposizione
è una lezione o una rappresentazione teatrale. Qui ogni membro del pubblico
può essere considerato come un singolo partecipante rivolto verso il professore
o verso il palcoscenico.
Nei raggruppamenti focalizzati composti da due partecipanti, il grado con
cui essi si trovano vis-à-vis l’uno rispetto all’altro è probabilmente collegato
all’intensità del loro reciproco coinvolgimento e alla distanza che li separa. Ad
esempio, a distanze casuali personali o intime un’orientazione completamente
vis-à-vis indicherebbe un alto grado di coinvolgimento reciproco, mentre
ad una distanza di sette piedi e più, quella tipica delle interazioni socioconsultative, un’orientazione completamente vis-à-vis è molto più comune e
non riflette tale alto livello di coinvolgimento reciproco.
Le osservazioni finora descritte sull’orientazione derivano, per la maggior
parte da Scheflen (1964). Ciò che abbiamo suggerito circa la relazione tra la
distanza interazionale e l’orientazione si basa principalmente su osservazioni
informali. Tuttavia, alcune osservazioni sistematiche sull’orientazione del
corpo nell’interazione quotidiana sono state riportate da Sommer (1965). Lo
studioso ha osservato le posizioni assunte da alcuni studenti intorno al tavolo
rettangolare di una mensa ed ha osservato che quando una coppia di studenti
era seduta per fare una conversazione occupava normalmente i posti ai lati di
uno degli angoli. Ciò significa che la parte superiore dei loro corpi formava
un angolo retto con il corpo dell’altro e ad ogni turno di parola, per guardare
direttamente l’altro, occorreva che la testa ruotasse dal piano sagittale con un
angolo di quarantacinque gradi. Questa disposizione “a quarantacinque gradi”,
come la si potrebbe chiamare, sembra essere molto comune sia per le diadi che
stanno in piedi che per quelle che stanno sedute, ed è associata soprattutto alle
interazioni di tipo socio-consultative e casuale personale. Si può osservare che
in questa disposizione il grado con cui due persone possono trovarsi faccia a
faccia è considerevolmente flessibile. Per essere faccia a faccia con un altro
basta ruotare solamente la testa e ci si può voltare altrove senza muovere
il corpo. Se ci si sedesse o si stesse in piedi in una posizione in cui si è
completamente vis-à-vis, una riduzione del coinvolgimento reciproco, indicato
da una riduzione del reciproco guardarsi, richiederebbe una rotazione sia della
testa che del corpo, e in questo modo tale cambiamento sarebbe indicato con
più evidenza che se si girasse solo la testa.
La maggior parte delle osservazioni che abbiamo riassunto riguardanti
l’orientazione sono state fatte in riferimento a raggruppamenti diadici. In
14
Adam Kendon: Comportamento visibile
gruppi composti da più di due persone, il fenomeno dell’orientazione del
corpo diventa più complesso. Scheflen (1964) ha indicato la possibilità che un
partecipante possa dividere la sua orientazione. Così, in un raggruppamento di
tre persone, ad esempio, mentre A gira la testa e la parte superiore del corpo
verso B, può anche orientare la parte inferiore del corpo verso C, includendo
così anche quest’ultimo nel raggruppamento. Nei raggruppamenti triadici
non è insolito vedere orientazioni divise di questo tipo in cui ogni membro è
orientato verso gli altri due simultaneamente.
La direzione dell’orientazione dei fianchi e delle spalle, ed anche delle
braccia, cambia in modo relativamente lento, per questo motivo i cambiamenti
nell’orientazione del corpo possono avere un significato maggiore, in qualità di
eventi comportamentali, dei cambiamenti nell’orientazione della testa e degli
occhi. La testa e gli occhi, naturalmente, sono estremamente mobili e attimo
dopo attimo durante l’interazione, soprattutto per il parlante, la direzione
dell’orientazione cambia frequentemente. Il punto in cui una persona guarda
è il segno del suo immediato coinvolgimento e se orienta ripetutamente la
faccia o gli occhi verso uno specifico individuo indica che questa persona è
l’ “obiettivo” della sua attenzione. Vedremo in seguito come l’orientazione
della testa e degli occhi è usata per segnalare a chi è diretto il discorso di
un individuo e come la sua dettagliata variazione può giocare un ruolo nella
regolazione dello scambio degli enunciati.
È appropriato accennare qui al lavoro che è stato fatto sull’orientazione della
testa e degli occhi, o sguardo, come può più semplicemente essere descritto,
in cui il tema principale è stato quanto un individuo guarda un altro e come
ciò sia collegato al suo atteggiamento verso quella persona (Argyle e Kendon
1967, Diebold 1968, von Cranch 1968, Mehrabian 1969). In generale sembra
che in situazioni dove i partecipanti hanno uno stesso status e l’interazione è
cooperativa, le persone quanto più si piacciono tanto più si guardano. Tuttavia,
se il partecipante occupa una posizione non dominante nel raggruppamento
riceverà un minor numero di sguardi (Hearn, 1957; Efran, 1968), e Exline
(1963) riporta che quando i soggetti si trovano in discussioni competitive, se
hanno un “bisogno di affiliazione” non accentuato si guarderanno l’un l’altro
più di quanto farebbero in un’interazione non-competitiva. Quando i soggetti
hanno un grande “bisogno di affiliazione” questa relazione è capovolta.6 Non
Nota aggiunta nel 2004: Nel periodo in cui sono state condotte queste ricerche, in psicologia vi era un
forte interesse per una teoria della personalità descritta da Henry Murray dell’Università di Harvard,
secondo la quale le persone si differenziano l’una dall’altra per i loro “bisogni psicologici” (psychogenic
needs). Murray distinse ventisette “bisogni” – i più noti sono “Conquista” (need for achievement),
“Affiliazione” (need for affiliation) e “Dominio” o “Potere” (need for dominane or power). Insieme ai
suoi colleghi, Murray inventò degli strumenti per misurare questi bisogni, utilizzando specialmente il
cosiddetto “Thematic Apperception Test”. Al tempo della ricerca di Exline si cercava di trovare, nel
comportamento visibile, gli elementi che indicavano i diversi “bisogni”.
6
Adam Kendon: Comportamento visibile
15
sembra possibile delineare un’esposizione semplice di ciò che si è osservato
sullo sguardo in relazione all’atteggiamento, in quanto sebbene “guardare”
un altro è sempre un segno di attenzione, il significato di questa attenzione,
e dunque il significato dell’atto del guardare, dipende dal contesto in cui ha
luogo.
Tutti gli studi sull’orientazione dello sguardo riguardano, per la maggiore
parte, raggruppamenti di due o tre persone soltanto. Tuttavia, qui possiamo
fare riferimento qui ad un’indagine non pubblicata condotta da Weisbrod
(1965), che rappresenta l’unica fino a questo momento in cui sono stati studiati
i modelli di sguardo in un raggruppamento composto da parecchi membri. In
questo studio, per ciascun membro di un seminario di sette persone, fu registrato
sistematicamente chi guardava chi nel corso di diverse sedute. Furono anche
raccolti dati circa le preferenze personali tra i membri del seminario, circa
il modo in cui i membri si percepivano l’un l’altro rispetto al modo in cui
contribuivano alla discussione, e dati sulla personalità dei partecipanti. Dalle
analisi di Weisbrod su chi guardava chi emerse molto chiaramente che ciò era
strettamente collegato ai modelli di relazioni di potere nel gruppo. Quindi,
la persona che veniva guardata di più mentre parlava era percepita dagli altri
membri del gruppo, e da se stessa, come la più influente nel gruppo. Emerse
anche che i sottogruppi di individui, in termini di reciproco sostegno percepito,
erano caratterizzati da modelli di scambio di sguardi. In questa situazione le
preferenze personali tra i membri non erano caratterizzate da sguardi reciproci
e mentre gli studi di altri hanno considerato le relazioni tra la quantità di
sguardi e tali variabili di personalità come “affiliatività” (affiliativeness”)
(ad esempio, Exline, 1963; Exline et al., 1965; Exline e Winters, 1965),
questa relazione non fu trovata nello studio di Weisbrod. Le scoperte della
studiosa indicano che prima di poter fare qualunque generalizzazione sul ruolo
dello sguardo nell’interazione sarà necessario analizzare come lo sguardo è
modellato naturalmente e come, in qualità di elemento del comportamento,
è collegato ad altri comportamenti nell’interazione e che deve anche essere
esaminato in una più ampia gamma di situazioni interazionali di quanto sia
stato fatto finora.
2.3 La postura
In un incontro, i partecipanti non solo si dispongono in una particolare
posizione e orientazione in relazione l’uno all’altro, ma tendono anche ad
assumere posture che, salvo alcuni cambiamenti, sono mantenute per la
maggior parte del tempo. I cambiamenti nella postura saranno esaminati in
seguito. Qui saranno considerate solo le posture mantenute e come ci possano
essere utili per la comprensione della configurazione.
16
Adam Kendon: Comportamento visibile
Nel considerare la postura dobbiamo occuparci di (a) quali tipi di posture
sono adottate nella configurazione, e (b) quali relazioni esistono tra le posture
e i vari partecipanti.
1.
Tipi di posture
Quando le persone si riuniscono per un’interazione dispongono i loro
corpi in un modo particolare. Possono stare in piedi, sedersi, inginocchiarsi,
accovacciarsi o anche, a volte, distendersi. Tra queste categorie generiche
ci possono essere molte possibili variazioni, sebbene solo alcune vengano
utilizzate. Alcune posizioni del corpo non sono usate perché sono difficili
da mantenere a lungo, ma anche tra la gamma delle posture possibili sembra
esserci una considerevole limitazione circa le posture utilizzate, e sembra
probabile che per un dato tipo di raggruppamento vi sia un particolare
repertorio posturale dal quale i partecipanti selezioneranno la postura. In alcune
situazioni, una persona assume certe posture in seguito ad ordini ben specifici,
come per esempio, le posture dell’ “attenti” e del “riposo” in una parata che
sono specificate e assunte in seguito ad un comando; similmente, nei rituali
religiosi le posture sono esplicitamente indicate nei manuali. Nella misura in
cui esistono delle posture appropriate ai vari tipi di raggruppamento, possiamo
dire che le posture “marcano” tali differenze tra i raggruppamenti e sono dei
segnali che gli altri possono usare per capire di che tipo di raggruppamento si
tratta. Come vedremo, le posture dei partecipanti in un dato raggruppamento
possono anche differire, e spesso si può dimostrare che queste differenze sono
sistematicamente collegate al ruolo che il partecipante ha nel raggruppamento
e forse a più sottili aspetti del suo atteggiamento verso il raggruppamento
stesso o verso gli altri partecipanti.
Finora si è prestata scarsa attenzione alla postura. Hewes (1955), che
ha studiato le varietà di posture assunte dalle persone in diverse culture,
ha scoperto che nelle diverse parti del mondo si usano repertori piuttosto
differenti. Per esempio, lo studioso ha scoperto che accovacciarsi, benché sia
molto diffuso altrove, è usato molto poco nel nord Europa. Ha scoperto che il
modo in cui le persone, generalmente, stanno in piedi è diverso da una cultura
all’altra. In certe zone dell’Africa, per esempio, la posizione “nilotica” è molto
usata dagli uomini; in questa posizione, la persona sta su una sola gamba, l’altra
è piegata al ginocchio con la pianta del piede appoggiata allo stinco. Hewes
osservò anche che c’erano alcune differenze nella postura assunta dagli uomini
e quella assunta dalle donne, e queste differenze erano molto diffuse. Quindi,
tutte le posture in cui le gambe sono mantenute in posizioni diverse erano
molto rare nelle donne ma comuni negli uomini. Hewes, sfortunatamente, non
ha tentato di stabilire il contesto sociale in cui le varie posture da lui catalogate
Adam Kendon: Comportamento visibile
17
occorrevano. Ma abbiamo già indicato che esistono, senza alcun dubbio,
relazioni sistematiche tra le posture assunte e il contesto sociale. Per esempio,
ad una conferenza o ad un seminario le persone di solito non si siedono a terra
o non si distendono, sebbene possano farlo durante un picnic. Almeno per
alcune classi sociali, esiste un modo “adeguato” di sedersi a tavola e i bambini
in questi gruppi sociali sono corretti frequentemente, li si educa su cosa è
accettabile e cosa non lo è. Noteremo anche che in molti raggruppamenti le
regole della postura sono usate in modo diverso dai vari partecipanti, secondo
il loro status. Goffman (1961b) riporta, per esempio, che negli incontri di
uno staff psichiatrico i partecipanti di grado inferiore sedevano in posizione
più diritta con le braccia incrociate, mentre i partecipanti di grado superiore
più spesso erano in posizione più “distesa”. Questa osservazione sembra
essere abbastanza generica. È come se le regole di postura fossero applicate
meno severamente per i membri del raggruppamento di grado superiore che
generalmente mostrano una più ampia gamma di posture rispetto ai membri di
grado inferiore.
Sarebbe utile intraprendere studi sistematici per osservare i tipi di posture
che si possono assumere nei vari ambienti sociali. Insieme ad A. E. Scheflen
abbiamo iniziato una raccolta delle posture che si utilizzano in svariate
situazioni. I risultati preliminari, dallo studio di tre ambienti pubblici – le strade
di una piccola città dove la gente si è raggruppata per una parata, un parco di
una piccola città con aree adibite a picnic e gli spazi aperti del campus di una
grande università – suggeriscono che i siti si differenziano per la gamma di tipi
di posture in essi osservate, e che ci sono relazioni coerenti tra i tipi di postura
assunta dagli individui e il tipo di attività in cui sono impegnati. Per esempio,
le persone in un ambiente pubblico o semi pubblico che non sono coinvolte
in un particolare punto focale d’attenzione ma che “osservano la scena”,
normalmente, stanno in piedi con il peso poggiato soprattutto su un solo piede
piuttosto che su tutti e due; generalmente non orientano la testa e il torso nella
stessa direzione. Le persone che stanno ai margini di un raggruppamento
focalizzato e ai margini della sede del raggruppamento stanno con le mani
sui fianchi più spesso di coloro che sono membri di un raggruppamento
focalizzato o di coloro che sono più vicini al centro del luogo dove si svolge
il raggruppamento. Le persone che o “guardano” o sono ai margini dei
raggruppamenti focalizzati o dei siti tendono a mantenere la testa eretta o
anche leggermente piegata all’indietro, rispetto a coloro che sono membri di
un raggruppamento i quali, come abbiamo accennato prima, tendono piuttosto
a piegare la testa leggermente in avanti. Inoltre, come abbiamo accennato, le
persone nell’attraversare o nel passare vicino al territorio interazionale (cioè
negli spazi usati per un raggruppamento) normalmente piegano la testa in
avanti in modo molto marcato.
18
Adam Kendon: Comportamento visibile
Le osservazioni fatte sopra sono molto provvisorie e necessitano ancora
una completa interpretazione. Sono riportate qui per illustrare il tipo di dati
che sono necessari per uno studio sistematico sul significato delle posture.
Si può aggiungere, comunque, che data l’esistenza dei diversi modelli di
posture a seconda delle situazioni, le posture assunte dai partecipanti in un
raggruppamento possono fornire informazione a tutti circa il tipo di attività
che si sta svolgendo nel raggruppamento e i diversi ruoli dei partecipanti.
Le posture del corpo giocano un importante ruolo in quei processi della
comunicazione attraverso cui gli altri possono capire cosa sta avvenendo in
una data situazione sociale. Le posture dei partecipanti possono indicare se
l’occasione è formale o informale, se l’occasione è facilmente accessibile
agli esterni o se questi ne sono esclusi, se ci sono dei ruoli ben definiti nella
situazione e così via. Quando le persone cominciano ad adattarsi ad una data
cultura, parte di ciò che devono imparare consiste proprio nel capire i vari
tipi di posture che le persone assumono normalmente in una data situazione e
come queste possono variare a seconda della situazione.7
2.
Relazioni tra le posture
Scheflen (1964) ha messo in evidenza che la relazione tra le posture dei
partecipanti spesso dipende da altri aspetti dell’interazione. Pertanto il modo in
cui un individuo collega la sua postura a quella del suo interlocutore può essere
un aspetto importante del suo comportamento comunicativo. In particolare,
Scheflen ha attirato l’attenzione su come le posture dei partecipanti possano
essere corrispondenti o non corrispondenti con quelle degli altri – cioè, i
membri di un raggruppamento possono avere le stesse posture o possono
mostrare notevoli differenze. Laddove le persone sono orientate in posizione
parallela, come ad una lezione o ad un concerto, laddove sono focalizzate tutte
su uno stesso centro d’attenzione, la similarità nella postura è molto comune.
Questo è in contrasto con situazioni in cui le persone non condividono lo
stesso punto focale d’attenzione, nel qual caso vi è una maggior diversità nella
postura. Quando le persone sono impegnate in un’interazione focalizzata,
e sono dunque fino ad un certo punto vis-à-vis, è molto comune mostrare
similarità nella postura, e il grado di tale similarità forse riflette la misura in
cui sono en rapport.
Nota aggiunta nel 2004: Per un’interessante ricerca sull’informazione che le posture forniscono,
che include uno studio di come sono utilizzate le posture dai pittori per dipingere i gruppi sociali,
si veda Spiegel e Machotka (1974). Si veda anche Schegloff (1998).
7
Adam Kendon: Comportamento visibile
19
La relazione tra il rapport e la congruenza posturale è stata studiata durante
delle sedute di psicoterapia da Charny (1966). Ne è emerso che quando lo
psichiatra e il paziente adottavano posture simili il paziente parlava in modo
oggettivo, mentre quando le loro posture erano diverse il paziente era più
restio e tendeva a manifestare maggiormente le sue emozioni. Charny notò
anche che i periodi di corrispondenza nella postura aumentavano man mano
che si svolgeva il colloquio. Dopo aver completato lo studio, Charny apprese
che il terapeuta della registrazione usata per lo studio, che era di convinzione
rogeriana, cercava volontariamente di far corrispondere la sua postura con
quella dei suoi pazienti e ciò faceva parte della tecnica che adottava per
stabilire un rapport con il paziente (Charny, comunicazione personale, 1967).
Ma lo studioso non analizzò quali posture il terapeuta cercava di rispecchiare.
Un esame del filmato ha suggerito che le posture adottate dalla paziente non
corrispondenti a quelle del terapeuta, erano posture che sono usate raramente
in un’interazione focalizzata, per esempio, nei momenti di non-corrispondenza
la paziente era seduta con le spalle curve e la testa abbassata in avanti.
Sembrerebbe che valga la pena di portare avanti l’idea che, quando qualcuno
cerca di costruire un rapport con un altro, la persona può tentare di rispecchiare
solo una limitata gamma di posture dell’altro, poiché in un’interazione, solo
assumendo un determinato tipo di posture, l’uno rispetto all’altro, può avere
luogo uno scambio su un argomento in comune.
Laddove c’è una marcata incongruenza nelle posture, questo spesso
riflette nette differenze nelle relazioni di ruolo nel raggruppamento. Quindi
in una lezione, per esempio, il professore sta in piedi mentre tutti i membri
dell’uditorio sono seduti, generalmente in modo molto simile. Le incongruenze
nella postura possono anche riflettere una distanza psicologica tra i partecipanti.
Questo è forse esemplificato nella fig. 3, un’immagine tratta da un filmato
realizzato nel 1965 da Sander Kirsch, nell’atrio del dormitorio delle donne
di una grande università dove gli uomini aspettavano per incontrare le loro
ragazze. Nel disegno, mentre la ragazza è girata verso l’uomo, l’uomo rimane
rivolto stabilmente verso l’esterno con il braccio disposto a mo’ di barriera tra
se stesso e la ragazza. L’uomo gira la testa verso la ragazza di tanto in tanto
quando parla, ma altrimenti la sua disposizione posturale è quasi invariabile.
Questa scena dura circa otto minuti, poi un’altra ragazza entra e l’uomo si alza
ed esce con lei. Sembra probabile che, attraverso la sua postura, egli stesse
esprimendo il fatto che non doveva essere legato alla ragazza con cui parlava
e che lei non doveva essere considerata la sua ragazza.
Oltre allo studio di Charny citato sopra, Scheflen (1964, 1965) è la maggiore
fonte di osservazione per le relazioni posturali. Tuttavia, c’è ancora molto
bisogno di osservazioni sistematiche dettagliate prima che il significato della
postura nella configurazione sia completamente compreso.
20
Adam Kendon: Comportamento visibile
Fig. 3. Un immagine da un film di Sander Kirsch che mostra incongruenze
nelle posture.
Questa discussione sulla configurazione, sebbene in parte alquanto
speculativa, dovrebbe suggerire come la disposizione nello spazio,
l’orientazione e la postura possono riflettere una gran quantità di complesse
informazioni circa il modo in cui i partecipanti sono collegati l’uno all’altro
e all’incontro nel complesso. Arrivare alla configurazione, cioè il processo
attraverso cui i corpi dei partecipanti al raggruppamento arrivano ad essere
disposti in modo che possono cominciare la fase della conversazione in cui
gli argomenti per loro importanti possono essere trattati, spesso richiede una
serie complessa di negoziazioni, condotte per lo più interamente in silenzio.
Un’analisi di queste manovre dovrebbe rivelarci molto sul processo attraverso
cui si arriva al “consenso operativo”.
3 Dinamiche dell’incontro
La configurazione, abbiamo suggerito, fornisce una cornice nella quale i
partecipanti possono svolgere un’attività di comune interesse. Nell’osservare
un incontro mentre si sviluppa nel tempo, si può distinguere una fase in
cui i partecipanti si spostano qua e là fino a trovare un posto gradevole per
tutti in cui stare in piedi o seduti; ci si aspetta che essi non si occupino dello
Adam Kendon: Comportamento visibile
21
scopo ufficiale dell’incontro finché la configurazione non sia formata. Negli
incontri formalmente organizzati questo è molto esplicito. Il presidente non
introduce l’ordine del giorno finché tutti non abbiano preso posto e comincino
a fare silenzio. Similmente, in situazioni meno formali le conversazioni
collegate al punto focale ufficiale del raggruppamento non iniziano finché
tutti i partecipanti non hanno preso posto. I dettagli di come, in questi
raggruppamenti formalmente meno organizzati, i partecipanti “sanno” quando
è il momento appropriato per cominciare, non sono ancora stati esaminati. È
possibile che ciascun partecipante assuma una certa postura ed orientazione
per indicare che è pronto.
In questa sezione saranno esaminate alcune caratteristiche dell’organizzazione
della fase dell’incontro in cui i partecipanti sono d’accordo circa argomento
di comune interesse. In particolare, considereremo come sono organizzati i
turni di parola e come i partecipanti impegnati in un discorso indicano a chi è
indirizzato il loro discorso.
Quando una persona parla in un raggruppamento o invia messaggi
espliciti in altri modi, questi messaggi sono sempre indirizzati. Cioè, il
parlante indirizza sempre il suo discorso o a qualche persona specifica nel
raggruppamento o a più persone, o al raggruppamento nel suo insieme. Come
descriveremo, ci sono aspetti del comportamento del parlante che sembrano
avere la funzione di indicare a chi è diretto il discorso. Se guardiamo gli altri
partecipanti (quelli che non stanno parlando) quando il parlante rivolge il suo
discorso ad uno specifico individuo, si osserverà che la persona che è il diretto
destinatario del discorso del parlante tende a comportarsi in modo diverso
dagli altri partecipanti. Infatti, sembra esserci una particolare relazione tra il
comportamento del parlante e l’individuo a cui si sta rivolgendo, relazione che
si non trova tra il parlante e gli altri partecipanti presenti.
Si mostrerà ora in che modo il parlante segnala a chi è indirizzato il suo
discorso e come il comportamento del diretto destinatario differisce da quello
degli altri partecipanti. Si darà un esempio del modo in cui si stabilisce la
relazione tra il parlante e il diretto destinatario e si daranno maggiori dettagli
sul comportamento del parlante e degli ascoltatori; si presterà particolare
attenzione alla questione di come il parlante e gli ascoltatori si scambiano il
turno di parola.
3.1 Caratteristiche della relazione tra il comportamento del parlante
e dell’ascoltatore
Innanzitutto descriveremo il caso in cui il parlante si rivolge ad un unico individuo
direttamente. Non si tenterà di dare una descrizione esaustiva delle proprietà di questa
relazione ma di metterne in evidenza gli aspetti più comunemente osservati.
22
Adam Kendon: Comportamento visibile
Normalmente, sia il parlante sia il diretto destinatario sono orientati l’uno
verso l’altro. Di norma si guardano ripetutamente, di quando in quando i loro
sguardi si incrociano. Quest’orientazione della testa e degli occhi rivolti verso
l’altro, con lo sguardo a tratti puntato direttamente sull’altro, è uno dei principali
modi attraverso cui una persona segnala a chi sono rivolti i suoi messaggi. È
possibile notare che quando si “punta lo sguardo sull’altro” la testa del parlante
ritorna sempre alla stessa posizione e poi si ferma. Quando il parlante non
guarda il proprio destinatario, guarda in alto o in basso o a lato, ma non guarda
nessun altra persona. Quando si rivolge a più persone allo stesso tempo, il suo
sguardo sarà puntato alternativamente sui diversi destinatari del suo discorso.
I movimenti della testa hanno una relazione sistematica con l’organizzazione
del suo discorso. Di questo si discuterà nella prossima sezione.
Per ciò che concerne l’ascoltatore, se è il diretto destinatario del discorso,
può essere distinto dagli altri nel raggruppamento attraverso l’elevata
corrispondenza tra la sua postura e quella del parlante; la sua testa è solitamente
leggermente “piegata” da un lato, e la sua attenzione visiva è rivolta più
costantemente verso il parlante che si sta rivolgendo a lui di quella degli altri
ascoltatori. Inoltre, il diretto destinatario, a differenza degli altri ascoltatori,
tende ad esibire una particolare gamma di gesti, come cenni del capo ed anche
alcuni cambiamenti nell’espressioni facciale, che sembrano fungere talvolta
da commenti a ciò che il parlante dice. In particolare i cenni della testa e
l’equivalente espressione verbale (“Capisco”, “Mmh-mmh”, ecc. – a volte
ritenuti “segnali d’attenzione”) sono prodotti in momenti specifici in relazione
al comportamento del parlante. Questo sarà descritto dettagliatamente nella
prossima sezione.
È stato anche dimostrato che il parlante e il suo diretto destinatario tendono
a mostrare una coordinazione nei movimenti del corpo che non si riscontra
tra il parlante e gli ascoltatori a cui egli non si rivolge. È stato osservato che
il diretto destinatario può riprendere alcuni aspetti dei movimenti del parlante
e si muove in modo simile e in sincronia con lui. Questo può essere illustrato
da un’analisi (Kendon, 1970) condotta allo scopo di studiare la relazione
tra i movimenti del parlante (T) e quelli del suo destinatario (B) (fig. 4),
confrontandoli poi con i movimenti di un altro ascoltatore (GI).
In questa sequenza, B fa una domanda a T e T risponde con un discorso che
dura circa trenta secondi. Il gruppo in questione stava discutendo gli aspetti
della vita familiare inglese e la discussione era coordinata da B che fungeva
da moderatore. Quando B pone la domanda a T si trova faccia a faccia con
lui e lo indica con il braccio disteso, T si fa avanti sulla sedia, e due secondi
dopo, quando siede con la schiena contro la sedia, nel preciso momento in cui
B ha terminato la domanda, inizia a rispondere. Il cambiamento di postura è
l’immediata risposta alla domanda di B e B si muove non appena T cambia la
Adam Kendon: Comportamento visibile
23
Fig. 4. Disegno dal fotogramma No. 87630 del film TRD 009. Si vede la disposizione delle persone nella sequenza in cui è stato studiato il rapporto tra i
movimenti di T e B. Disegno tratta da Kendon (1970).
sua posizione: si appoggia lentamente ed alza la testa, poi sta fermo e rimane
così finché T comincia a parlare. Non appena T pronuncia le prime due frasi,
muove la mano sinistra verso sinistra e poi la riporta sul grembo; poi piega
la testa a sinistra. In precisa corrispondenza con questi movimenti, B muove
la mano destra, che era ancora distesa verso T, verso destra e poi la riporta
indietro; poi piega la testa a destra. Dopo di che si mette la pipa in bocca e la
mantiene con la mano destra e resta fermo così finché T pronuncia le ultime
due frasi del suo discorso, eccetto i movimenti degli occhi, della bocca e delle
dita della mano destra, ed un cenno della testa ripetuto più volte.
Possiamo vedere che dal momento in cui T inizia a rispondere alla domanda
di B fino a che B si mette la pipa in bocca, B si muove a tempo con T in modo
da riflettere i movimenti di T. B si muove al passo con T e nello stesso modo:
egli “danza la danza di T”.
Durante le due ultime frasi del discorso di T, B comincia a muoversi di nuovo
in modo molto evidente – questa volta piegandosi a sinistra, poi abbassando la
testa in avanti e poi piegandola di nuovo a sinistra. Questi movimenti, sebbene
ritmicamente coordinati col discorso di T, nel momento in cui iniziano, non
24
Adam Kendon: Comportamento visibile
sono collegati nella forma ai movimenti che fa T. Quindi, B piega la testa
a sinistra e l’abbassa in avanti mentre T muove la testa all’indietro e verso
sinistra. Quindi la testa e i movimenti del corpo di T diventano simili a quelli di
B: dunque T inizia a danzare la danza di B – il contrario di ciò che era successo
quando T aveva cominciato a parlare.
Queste osservazioni, insieme ad altri esempi riportati con maggiori dettagli
altrove (Kendon, 1970), illustrano ulteriormente il fenomeno della “sincronia
interazionale” riportata per la prima volta da Condon e Ogston (1966, 1967).
Tuttavia, riteniamo che il rispecchiamento piuttosto evidente descritto sopra
non occorra continuamente. Lo si osserva generalmente sia all’inizio sia verso
la fine di un enunciato. La nostra ipotesi è che nell’uguagliare i movimenti
dell’altro, l’ascoltatore manifesta di prestare completamente attenzione al
parlante. Tuttavia, una volta stabilito ciò il destinatario ha bisogno solo di
rimanere in una “postura da ascolto” e di manifestare segnali di attenzione
intermittenti. Laddove, come nel caso di B e T, il destinatario risponde,
tendiamo a trovare evidenti relazioni tra i movimenti anche alla fine dello
scambio. Ciò può sia segnalare chiaramente al parlante che l’ascoltatore
desidera parlare sia far determinare facilmente il momento preciso in cui
l’altro può assumere il ruolo di parlante, un po’ come quando un musicista
batte con maggiore amplitudine il tempo esattamente prima che arrivi il suo
turno di suonare.
Sembra dunque che ci siano modelli di comportamento specifici attraverso
cui un parlante stabilisce a chi sta rivolgendo le sue osservazioni; sembrano
esserci anche dei modelli attraverso cui distinguere gli ascoltatori a cui ci si
rivolge direttamente dagli altri ascoltatori. Dunque il parlante e l’ascoltatore
a cui ci si rivolge direttamente mostrano una connessione speciale che li
contraddistingue dagli altri membri del raggruppamento. Quando ciò accade
possiamo dire che esiste un asse d’interazione (axis of interaction) tra i
partecipanti (Watson e Potter, 1962). Un asse d’interazione generalmente
contiene una relazione tra due persone, un parlante e l’ascoltatore a cui ci si
rivolge direttamente, che qui sarà definito ascoltatore assiale (axial listener).
Possiamo dire che un asse d’interazione tra due persone persiste finché si
osserva la connessione comportamentale che abbiamo descritto, sebbene
la persona che occupa il ruolo di parlante e quella che occupa il ruolo di
ascoltatore assiale possano cambiare. Quindi se A si rivolge a B e B risponde
ad A e così via, diremo che esiste un asse d’interazione tra A e B e continuerà ad
esistere fino a quando uno dei due smetterà di rivolgersi all’altro. Lo scambio
dei ruoli in un asse sarà definito cambio di polo (pole shift). Quando un asse
finisce e ne comincia un altro parleremo di cambio dell’asse d’interazione. I
membri di un raggruppamento che non partecipano all’asse in corso saranno
chiamati partecipanti non-assiali (non-axial participants).
Adam Kendon: Comportamento visibile
25
Possiamo vedere che l’asse d’interazione è un’unità pubblica di connessione
comportamentale. Quindi, quando in un incontro, ciascun parlante si rivolge in
modo specifico a chi presiede l’incontro e la connessione che abbiamo descritto
si mantiene tra il parlante e chi presiede, supporremo ancora che esiste un asse
d’interazione tra il parlante e chi presiede, sebbene le osservazioni del parlante
siano un contributo alla discussione dell’incontro. L’asse d’interazione è
dunque una possibile unità per l’analisi dell’organizzazione di un incontro. Di
solito la sua integrità è rispettata dai partecipanti non-assiali. È raro che questi
partecipanti inizino un discorso rivolto o al parlante o all’ascoltatore assiale.
Gli assi d’interazione generalmente si susseguono e, almeno negli incontri che
si svolgono in modo armonioso, in genere essi non sono interrotti. Prima che
un nuovo asse possa essere stabilito, sia il parlante che l’ascoltatore assiale
devono smettere di comportarsi in modo da creare un asse d’interazione.
Le due prossime sezioni contengono esempi che illustrano il processo
attraverso cui gli assi d’interazione possono essere stabiliti; e descriveremo il
comportamento che coordina il cambio di ruolo del parlante e dell’ascoltatore
assiale in un asse.
3.2 La coordinazione dei movimenti e l’avvio degli assi d’interazione
Nella sezione precedente abbiamo considerato in che modo i movimenti
del parlante e dell’ascoltatore assiale sono collegati, e come questo fenomeno
non sia presente tra il parlante e gli ascoltatori non-assiali. In questa sezione
descriveremo un esempio di come le persone tendono a coordinare i loro
movimenti immediatamente prima di cominciare una conversazione che
stabilisce un asse d’interazione tra loro. Illustreremo come la coordinazione
dei movimenti può fungere da scambio di informazione “non ufficiale” o
“non esplicito”, permettendo ad ogni partecipante di sapere che l’altro intende
iniziare un asse d’interazione. Il nostro assunto è che le sottili risposte,
che ciascun partecipante invia all’altro, siano un fenomeno molto diffuso
nell’interazione e che abbia un importante funzione nella coordinazione del
comportamento.
L’esempio è tratto da un filmato di un seminario psichiatrico8 in cui cinque
psichiatri e un assistente sociale si incontrano per discutere un caso. Uno degli
psichiatri (D) fa da moderatore, un altro presenta il caso, ed anche l’assistente
sociale (F), una donna, prende parte alla presentazione del caso. Lo scambio di
cui ci interessiamo si svolge tra D e F. D entra e si unisce agli altri partecipanti
che sono già seduti e lo aspettano. Non appena si siede comincia con
alcune osservazioni introduttive che sono rivolte al gruppo nel suo insieme,
Osservazioni tratte da uno studio in corso fatto in collaborazione con il Dr. Aviva Menkes. Il
filmato è girato alla velocità di 24 fotogrammi al secondo.
8
26
Adam Kendon: Comportamento visibile
sull’oggetto dell’incontro e sul modo in cui deve essere condotto. Fatto ciò
guarda a turno tutti i membri; da tutti, quando li guarda, riceve in risposta un
breve cenno della testa. Qui, ognuno presumibilmente conferma che ha capito
le sue osservazioni e allo stesso tempo gli dà via libera per procedere alla
fase successiva. Una volta ricevuto il cenno della testa dall’ultimo membro
del seminario che ha guardato, D abbassa la testa e si piega in avanti verso il
tavolino per prendere una tazza di caffè. Durante questa azione non è impegnato
in nessun discorso: in quel momento la sua attenzione è completamente
rivolta alla tazza di caffè. Comunque, la struttura della situazione è tale che si
supponga sia lui il prossimo a parlare. Alcuni istanti dopo che la sua mano ha
raggiunto la tazza di caffè e prima che la prenda e si appoggi all’indietro sulla
sedia, gira la testa a destra e guarda F; poi si rivolge a lei con una domanda.
È opportuno notare che D non inizia a parlare con F fino a quando la sua testa
non è orientata verso di lei, e ciò illustra un punto molto generico e cioè che
prima che il discorso inizi il corpo è, generalmente, posto in una posizione
appropriata. Tuttavia, ciò che è sorprendente qui è che precisamente nel
momento in cui D comincia a girare la testa verso F, F comincia la sequenza di
movimenti con i quali si gira per guardare D. Ciascuno si orienta verso l’altro
in un asse d’interazione e ciascuno comincia l’orientazione del movimento
simultaneamente. È come se F sapesse in anticipo di essere il destinatario del
discorso di D.
Se esaminiamo i movimenti di F, tuttavia, e il modo in cui sono collegati
a quelli di D, ci accorgiamo che F si muove sincronicamente a D anche
prima che D cominci ad orientarsi verso di lei. Quindi nel momento in cui D
guarda F, quando guarda il gruppo dopo le osservazioni introduttive, F alza
leggermente le sopracciglia, abbassa la testa e guarda alla sua sinistra, non
in direzione di D. Si gira poi a guardare D quando lui si volta verso un altro
membro del gruppo. F muove di nuovo la testa verso sinistra e D si piega in
avanti e stende la mano verso la tazza di caffè. La testa di F è piegata in avanti
mentre D compie questo movimento e così lei sembra seguire i movimenti di
D con gli occhi e col movimento della testa segue il ritmo con cui D si muove.
La nostra ipotesi è che nel muoversi in sincronia con D, F mostra che gli sta
prestando attenzione, e ciò ha la conseguenza di attrarre l’attenzione di D su
di lei. Forse muovendosi a ritmo con D, mostrando di prestargli attenzione, F
aumenta la possibilità che D si rivolga a lei quando parlerà. Una volta che D
ha deciso di rivolgersi a lei, l’asse tra loro può essere stabilito simultaneamente
perché F ha già acquisito, nei suoi movimenti, il ritmo di D. La relazione che
abbiamo descritto tra il comportamento di D e di F è illustrato nella fig. 5 (a-d),
una sequenza di disegni tratti dal filmato ISP 001 63 per mostrare la relazione
tra i movimenti di D e F fino al punto in cui tra i due si stabilisce un asse
d’interazione. Si potrà vedere che nessuno degli altri partecipanti coordina il
proprio comportamento con D nel modo in cui lo fa F.
Adam Kendon: Comportamento visibile
27
5(a) D guarda l’uomo alla sua sinistra e F guarda D (fotogramma 05368)
5(b) D abbassa la testa e si piega in avanti per prendere la tazza di caffè e F gira la testa
mentre D compie questi movimenti. (fotogramma 05403)
5(c) F guarda in basso la sua tazza di caffè mentre D si piega per prendere la sua tazza
di caffè (fotogramma 05433)
5(d) D gira la testa verso F e lei abbassa la mano spostandola dalla tazza di caffè e gira
la testa verso D (fotogramma 05446)
Fig. 5 Sequenza di disegni tratti dal filmato ISP 001 63 per mostrare la relazione tra i
movimenti di D e F fino al punto in cui tra i due si stabilisce un asse d’interazione .
28
Adam Kendon: Comportamento visibile
L’esempio descritto sopra non è che uno dei molti che abbiamo raccolto
da numerose registrazioni, in cui, prima di costituire un esplicito asse
d’interazione, le persone coinvolte si muovono in modo coordinato, e in tutti
i casi un solo individuo comincia muoversi in modo coordinato con un altro.
La nostra ipotesi è che muoversi in sincronia con un’altra persona rappresenti
una delle tecniche attraverso cui una persona può indicare all’altro che
desidera stabilire un asse con lui senza fare richieste esplicite. Avviare un asse
d’interazione con un’altra persona è sempre un’operazione alquanto rischiosa,
poiché c’è la possibilità che l’altra parte non voglia ricambiare. Una persona
può stabilire una connessione con l’altro semplicemente prendendo il ritmo
del movimento dell’altro senza che ciò sembri un’esplicita richiesta. Se dopo
essersi uniti al ritmo di un altro non viene compiuto un movimento reciproco,
è possibile continuare la conversazione come se non ci fosse stato nessun
tentativo di cominciare un asse.9
3.3 Ulteriori dettagli sul comportamento dei parlanti e degli ascoltatori
assiali
Come affermato prima, una delle principali caratteristiche di un asse
d’interazione è che l’ascoltatore assiale gira la testa e gli occhi verso il
parlante e di tanto in tanto fa dei cenni con la testa e dà altri espliciti “segnali
d’attenzione”; il parlante gira continuamente la testa nella posizione dalla
quale può “puntare lo sguardo” verso l’ascoltatore assiale. Questi fenomeni
sono stati esaminati in dettaglio nei raggruppamenti diadici da Kendon
(1967) e i risultati di questo studio sono descritti con maggiori dettagli sotto,
poiché sono molto attinenti alla coordinazione del comportamento in un asse
d’interazione.
In questo studio, sette paia di individui furono filmati mentre conversavano
in un incontro informale. Nessuno dei soggetti si era mai incontrato in
precedenza e furono lasciati insieme per mezz’ora affinché “facessero
conoscenza”. Le conversazioni furono registrate in modo che, attraverso l’uso
di specchi, fosse possibile vedere, nel filmato, il viso di entrambi i partecipanti
l’uno accanto all’altro (benché fossero invece faccia a faccia). Fu eseguita
un’analisi dettagliata del modello di orientazione della testa e degli occhi in
Si veda Goffman (1963, pp. 91-95; in Goffman 1971, pp. 93-98) che discute la funzione del
“cogliere l’occhiata” all’inizio dell’interazione focalizzata. Lo studioso mette in evidenza come
lo sguardo di chi inizia “può essere sufficientemente esitante ed ambiguo per permettergli di
agire come se non intendesse cominciare, se sembra che il suo inizio non sia desiderato”. Noi
supponiamo che questo valga ancor più quando colui che inizia segnala con la coordinazione dei
movimenti il suo intento di impegnare l’altro in un asse d’interazione.
9
Adam Kendon: Comportamento visibile
29
relazione alle frasi pronunciate e alla loro struttura interna. Ciò fu fatto per
sedici minuti di una conversazione, e per estratti che duravano cinque minuti
per ciascuna delle restanti sei.
I risultati principali possono essere riassunti brevemente. Innanzitutto, è
emerso che il periodo di tempo in cui ciascun membro della diade guardava
il suo partner variava molto sia durante la conversazione della stessa diade
sia confrontando la conversazione di una diade con un’altra. Tuttavia, si è
osservato che l’ascoltatore guardava il parlante per un periodo più lungo,
mentre il parlante tendeva ad alternare momenti in cui guardava verso
l’ascoltatore a periodi in cui guardava altrove. Per quelle frasi che duravano
cinque secondi o più, fu fatta un’analisi dettagliata della relazione tra
“guardare” e parlare. Risultò che il parlante tendeva a non guardare il suo
partner quando iniziava a parlare e in molti casi un po’ prima di farlo, e che
guardava di nuovo il suo partner generalmente durante l’ultima frase, e che
continuava a guardare il suo partner per un po’ di tempo dopo aver finito di
parlare. Risultò che normalmente in un discorso lungo il parlante guardava il
suo partner verso la fine di ogni frase, ma che guardava di nuovo altrove un po’
prima che riprendesse a parlare. Nei periodi di esitazione il parlante guardava
sempre altrove.
Si suggerì che questo tipo di comportamento, sebbene potesse avere funzioni
importanti per il parlante, forse in relazione al bisogno di trarre informazioni
dal suo interlocutore, o al bisogno di ridurre la quantità di informazioni
provenienti dall’interlocutore stesso mentre elabora le componenti del suo
discorso, potesse anche essere un mezzo di comunicazione. Si suggerì che
guardando altrove, proprio prima di parlare, il parlante poteva segnalare la sua
intenzione di reclamare la parola; guardando altrove dopo la fine di ogni frase
il parlante poteva segnalare la sua intenzione di continuare a parlare; mentre
guardando il suo partner, e continuando a guardarlo mentre stava per finire la
frase, poteva segnalare la sua intenzione di terminare e questo poteva essere un
segnale per il suo partner per prendere la parola.
Si tentò di verificare l’ultima parte di questa interpretazione. Per fare ciò,
si esaminò il lasso di tempo che B impiegava per rispondere agli enunciati
di A, in tutti i casi in cui A non alzava gli occhi, quando arrivava alla fine
dell’enunciato e fu confrontato con quello che impiegava quando A alzava
gli occhi, quando aveva finito di parlare. Risultò che quando A terminava il
discorso guardando B, questi o non rispondeva o ritardava un po’ nella risposta
nel 29% dei casi; mentre quando A terminava il discorso senza guardare B,
questi o non rispondeva o ritardava un po’ nella risposta nel 71% dei casi.
Ulteriori analisi furono condotte per esaminare la relazione tra l’occorrenza
dei segnali d’attenzione di B e il coincidente comportamento del parlante.
Risultò che il maggior numero di segnali d’attenzione occorrevano durante
quelle pause che si trovavano tra le frasi del discorso di A, mentre occorrevano
30
Adam Kendon: Comportamento visibile
molto meno durante il discorso fluente o durante le pause d’esitazione.
Riassumendo, i risultati descritti sopra suggeriscono che il modo in cui
un parlante struttura lo sguardo in relazione al suo discorso potrebbe avere
la funzione di indicare al suo interlocutore come comportarsi. Guardando
altrove il parlante segnala la sua intenzione di continuare a parlare e quindi
di precedere qualunque tentativo d’azione da parte del suo interlocutore.
Guardando il suo partner, se lo fa brevemente a metà dell’enunciato, segnala
soltanto che continuerà a parlare. Se guarda il suo partner in modo continuativo
quando ha finito di parlare ciò indica all’altro che può iniziare a parlare.
I risultati di queste analisi necessitano ulteriori conferme. È auspicabile che
ulteriori ricerche sullo sguardo siano condotte in altri tipi di incontri. Ciò che
abbiamo suggerito è che i cambiamenti nell’orientazione della testa e degli
occhi sono regolarmente strutturati in rapporto alla struttura del discorso
del parlante (Kendon, 1967, 1972; Kendon e Cook, 1969; Nielsen, 1962;
Scheflen, 1964), ma questo modello sarà diverso da situazione a situazione.
Ad esempio, analizzando una seduta di psicoterapia, Scheflen (1964) ha
riportato che la psicoterapeuta guardava regolarmente altrove mentre il suo
paziente parlava, ma tornava a guardarlo quando era lei a parlare. In questa
situazione, ovviamente, esisteva una netta differenziazione di ruolo che si
rifletteva nel tipo di enunciati che ciascuno produceva e questo potrebbe essere
collegato ai diversi modi in cui lo sguardo era modellato (alcuni dati rilevanti
su questo punto si trovano in Kendon,1967, pp. 42-47). Inoltre, nello studio
non pubblicato di Weisbrod (1965) è stato rilevato che i partecipanti guardano
gli altri per il 70% del tempo in cui parlano, mentre gli ascoltatori guardano
il parlante solo per il 47% del tempo in cui ascoltano. Ciò è collegato, senza
dubbio, ai risultati citati prima secondo cui in un raggruppamento il principale
mezzo attraverso cui segnalare a chi è rivolto il discorso è guardare il
destinatario. Nei raggruppamenti di più di due persone è necessario specificare
a chi è rivolto un discorso, dunque, in queste circostanze ci si aspetterebbe
un maggior numero di sguardi mentre si parla. I dati che mostrano che le
persone, quando ascoltano, tendono a non guardare il parlante più di quanto
non lo facciano nei raggruppamenti diadici, derivano probabilmente dal fatto
che nella maggior parte dei casi in questi gruppi vi è un unico destinatario.
Tuttavia, nella sua analisi, Weisbrod non operò una distinzione tra ascoltatori
assiali e ascoltatori non-assiali. Supponiamo che in un raggruppamento
costituito da più persone, gli ascoltatori assiali guarderanno il parlante più di
quanto faranno gli altri ascoltatori.
Adam Kendon: Comportamento visibile
31
3.4 Aspetti dell’organizzazione della rappresentazione sociale
(“social performance”)
Un partecipante ad un raggruppamento manifesta la sua partecipazione,
come abbiamo visto, attraverso la vicinanza fisica agli altri membri ed anche
attraverso particolari modelli di orientazione. Abbiamo osservato come
un partecipante può assumere il ruolo di parlante, di destinatario attivo, di
ascoltatore non assiale o come può temporaneamente ritirarsi dall’interazione
pur restando un membro del raggruppamento. Abbiamo anche detto qualcosa
circa il modo in cui il suo comportamento differisce a seconda del modo in cui
egli partecipa e abbiamo anche detto qualcosa, sebbene molto poco, circa il
modo in cui i partecipanti assumono ruoli diversi nel raggruppamento e come
queste differenze si manifestano in termini di comportamento visibile. In
questa sezione cercheremo di ampliare un po’ la descrizione di questi aspetti.
Scheflen (1964, 1965) ha suggerito che si può osservare che l’esecuzione
di un partecipante ad un raggruppamento è organizzata in una gamma di
unità gerarchicamente collegate. Queste unità sono unità di comunicazione.
Scheflen ha il merito di aver illustrato come queste unità sono caratterizzate
da posizioni del corpo o posture contrapposte, e come i confini tra un’unità
e l’altra possano essere caratterizzati da cambiamenti nelle posizioni del
corpo. Secondo la gerarchia proposta da Scheflen, al livello più alto possiamo
distinguere la presentazione (presentation), che comprende il periodo di
tempo in cui un individuo è presente come partecipante alla configurazione.
Quest’unità è caratterizzata da una posizione fisica relativamente stabile ed è
delimitata da cambiamenti notevoli in questa posizione. La presentazione di
un individuo è pressappoco equivalente a ciò che talvolta viene chiamato il
suo ruolo situazionale.
All’interno della presentazione di un individuo, cioè all’interno del periodo
in cui è presente come partecipante al raggruppamento, si può dire che un
individuo assume una o più posizioni. Normalmente, ogni partecipante ad
un raggruppamento tende ad avere un limitato repertorio di tali posizioni.
Ciascuna di queste posizioni, come ha osservato Scheflen, è contraddistinta da
una diversa disposizione posturale, e il cambiamento da una posizione all’altra
è caratterizzata da un cambiamento nella postura.
Questo può essere illustrato meglio con un esempio (dato non pubblicato,
Oxford, 1965). Un professore è stato osservato durante una lezione informale
e la sua performance può essere suddivisa nelle seguenti quattro unità
principali, o posizioni: una posizione di professore, durante la quale parla
32
Adam Kendon: Comportamento visibile
in modo continuativo al suo pubblico; una posizione di formulazione di una
domanda, durante la quale invita le persone a fare domande; una posizione
di ricezione di una domanda, durante la quale ascolta mentre gli viene posta
una specifica domanda; una posizione di risposta ad una domanda, durante la
quale risponde alla domanda. Ciascuna di queste diverse posizioni si distingue
dalle altre non solo per il modo in cui il professore parla ma anche per la
disposizione posturale che egli assume. Il cambiamento da una posizione
all’altra è caratterizzato, o potremmo dire annunciato, da un cambiamento
nella postura. Per tutta la durata della sua presentazione, cioè per tutto il
tempo in cui ha svolto il ruolo di professore, era seduto sul tavolo di fronte al
gruppo dondolando le gambe. Durante la lezione, era seduto con la colonna
vertebrale un po’ curva, le braccia ferme sulle cosce, le mani mollemente
intrecciate. Finita la lezione, mise le mani sotto le cosce, con il palmo sul
tavolo e alzò un po’ la testa, guardando il gruppo con le sopracciglia alzate
a mo’ di domanda. Nella posizione successiva, cioè quella in cui pone una
domanda, il professore si limitava a guardare il gruppo con le sopracciglia
alzate. Non appena qualcuno iniziava a porre una domanda allungava il collo
in avanti, girava la testa da un lato leggermente piegata, alzava completamente
le sopracciglia e guardava colui che stava facendo la domanda con la coda
dell’occhio. Questa era la posizione di ricezione della domanda. Alla fine
della domanda, il professore girava la testa rapidamente di nuovo di fronte al
gruppo, spingeva il collo in avanti, inarcava le spalle e raddrizzava le braccia e
generalmente aumentava il livello di tensione della postura. Manteneva questa
postura per tutta la durata della risposta, la posizione di risposta alla domanda
era caratterizzata dal cambiamento della postura e della posizione.
All’interno di ogni posizione, si possono distinguere altre unità che Scheflen
chiama punti. Ad esempio, durante la lezione, un professore fa una serie di
affermazioni che compongono l’intero discorso. In un discorso continuo, come
una lezione, i segmenti corrispondono probabilmente ad una serie di punti che
il professore costruisce mentre parla. Uno psicoterapeuta, nell’interpretare,
può inizialmente fare un riassunto di ciò che il suo paziente ha detto, prima
di darne un’interpretazione. Sebbene non si sia ancora riusciti a definire cosa
sia un punto, Scheflen suggerisce che uno dei modi in cui si può distinguere
un punto è il cambiamento della posizione della testa. Scheflen riporta (1964)
che gli interagenti in una psicoterapia normalmente mostrano un repertorio
che va da tre a cinque diverse posizioni della testa che si ripetono. Lo studioso
fa un esempio di due punti usati ripetutamente da una terapeuta durante lo
scambio con un paziente mentre assume la posizione di “interpretazione”.
Mentre ascoltava il suo paziente, la terapeuta aveva la testa leggermente
abbassata, piegata da un lato, con gli occhi distolti dal paziente. Alla fine
di ogni punto alzava la testa, la manteneva in posizione eretta e guardando
Adam Kendon: Comportamento visibile
33
direttamente il paziente produceva un’osservazione interpretativa. Terminata
l’interpretazione, girava la testa a destra senza guardare il paziente e poi
riassumeva la posizione del punto d’ascolto.
Finora nessuno ha tentato di ampliare le nozioni di Scheflen o di fare
osservazioni sistematiche per confermarle, sebbene esista un progetto che mira
a questo.10 Tuttavia, esiste un’indagine (Kendon, 1972) che si basa su alcune
delle osservazioni di Scheflen, ma sembra dimostrare che la gerarchia delle
unità di comunicazione da lui proposta, per quanto fondamentalmente valida,
è probabilmente più complessa di quanto indichi la sua prima formulazione. In
questo studio si è eseguita una dettagliata analisi della relazione tra il discorso
di un individuo e il movimento del corpo ad esso coincidente. L’analisi,
realizzata tramite un filmato, fu eseguita su un discorso semi-pubblico di un
uomo in un raggruppamento composto da più o meno undici partecipanti. La
parte analizzata comprende solo i primi due minuti del discorso. In questo
discorso sono state distinte 48 frasi ed è risultato che esse potevano essere
raggruppate in 18 gruppi, pressappoco l’equivalente di un periodo,11 che qui
chiamiamo locuzioni (locutions). Queste locuzioni sono state a loro volta
raggruppate in 11 gruppi di locuzione (locution groups) (o “sotto-paragrafi”),
e questi sono stati raggruppati in tre insiemi di gruppi di locuzioni (locution
group clusters) (o “paragrafi”).
È stato riscontrato che per ogni livello dell’organizzazione del discorso
esiste un modello di movimento del corpo specifico attraverso cui ogni
unità a quel livello è contraddistinta dai livelli adiacenti. Quindi, per l’intero
discorso (discourse) (il gruppo di unità del discorso di livello più alto, usato
qui), il parlante mantiene una postura diversa da quella che ha quando ascolta
qualcuno prima che inizi a parlare. Rispetto ad ogni insieme di gruppi di
locuzioni o “paragrafi” del discorso, il parlante usava le mani o le braccia
per gesticolare in modo differente. Sulla prima di queste unità del discorso
gesticolava solo con il braccio destro, sulla seconda gesticolava solo con
il braccio sinistro, mentre sulla terza gesticolava con entrambe le braccia.
Così ogni locuzione era distinta da un diverso modello di movimenti delle
mani e delle braccia. Dunque, nel secondo insieme di gruppo di locuzioni o
“paragrafo”, sulla prima locuzione il parlante usava movimenti chiari ed ampi
dell’intero braccio; sulla seconda usava solo movimenti del polso e delle dita;
sulla terza piegava il braccio al gomito poi lo abbassava, e così via. Ad un
livello ancora più basso di organizzazione risultò che ogni frase era distinta da
quella successiva da un altro diverso modello di movimento. Sulla prima frase,
per esempio, il parlante muoveva il braccio in fuori, e poi lo muoveva in dentro
Progetto del Dr.C. Beels e il Dr. Jane Ferber, Bronx State Hospital.
La ragione per cui scegliamo il termine “locuzione” (“locution”) ecc. è che la segmentazione del
discorso è stata fatta su base fonetica, in termini di modelli di intonazione, ma ciò non corrisponde
necessariamente alle stesse unità dell’analisi grammaticale o semantica. “Periodo” e “paragrafo”
sono termini sintattici ma non si riferiscono a unità del discorso.
10
11
34
Adam Kendon: Comportamento visibile
sulla seconda frase, e così via. Scendendo dalla frase alla sillaba ed anche ai
foni, come Condon e Ogston (1966, 1967) hanno mostrato, possiamo trovare
ancora dei cambiamenti specifici nei movimenti del corpo.
Risultò anche che la testa si muoveva in modo regolare strutturato in
relazione alle unità del discorso. Quindi, all’inizio di ogni locuzione, la testa
era o eretta o piegata a destra. Man mano che le locuzioni si susseguivano la
testa era spostata a sinistra e poi abbassata, cosicché alla fine dell’ultima frase
la testa era sia abbassata che girata a sinistra. Durante la pausa che seguiva,
tra la fine dell’ultima e l’inizio della locuzione successiva, la testa ritornava
alla posizione iniziale, cioè eretta o piegata a destra. Questi ripetuti movimenti
della testa in rapporto con le locuzioni successive sono chiaramente molto
simili a quelle che Scheflen (1964) ha chiamato marcatori di punti e sono
probabilmente strettamente collegati ai modelli di cambiamenti ciclici dello
sguardo in rapporto agli enunciati, come descritto da Kendon (1967) e come
mostrato sopra.12
Riformulando ciò che abbiamo detto, unendo le osservazioni di Scheflen
(1964) con quelle di Kendon (1972), se osserviamo un partecipante ad
un’interazione dobbiamo probabilmente osservare che disporrà il proprio
corpo in una serie di diverse posture e che ognuna di esse sarà associata
ad un diverso tipo di attività. Egli avrà un gamma di posture associate al
parlare, un’altra associata all’ascoltare e a seconda dei diversi tipi di discorso,
come fare domande, discorrere, dare ordini, possiamo aspettarci una postura
distinta. Mentre parla, il flusso del discorso è organizzato in una serie di unità
a diversi livelli di integrazione. Si osserverà un movimento della testa ciclico e
ripetitivo, che demarcherà o sarà associato alle unità successive di discorso ad
un livello medio di organizzazione, probabilmente quelle unità di discorso che
portano distinti “pensieri” di unità di contenuto. Se osserviamo più in dettaglio
il flusso del discorso e come il movimento del corpo è organizzato in relazione
ad esso, troviamo che ad ogni livello di organizzazione nel discorso c’è un
corrispondente livello in cui si possono distinguere modelli di movimento del
corpo contrastanti.
Ciò che abbiamo descritto, abbozzando queste osservazioni sulla posture,
sui cambiamenti della postura e sui modelli di movimento del corpo in
relazione alle unità di comunicazione, ci consente di dire che uno dei modi
Nota aggiunta nel 2004: I dettagliati studi, a cui abbiamo fatto riferimenti qui, su come il
movimento del corpo è organizzazto in rapporto al discorso verbale sarebbero diventati il punto
di partenza per il lavoro successivo sui “gesti” e il loro rapporto con il discorso. Questo lavoro è
stato sviluppato dapprima da Kendon (1980), e poi in modo cospicuo da David McNeill (1985,
1992), che ha mostrato che lʼintima integrazione tra il discorso e il movimento del corpo, evidente
nel suo lavoro, poteva essere interpretata in base alla teoria secondo cui lʼespressione delle parole
e lʼespressione dei gesti derivano dagli stessi processi cognitivi. Lo studio dei gesti in relazione
al discorso è diventato da allora il maggiore aspetto di ciò che oggi è chiamato “studio della
gestualità” (gesture studies). La letteratura su questo argomento è molto ampia, per gli studi
recenti si veda Kendon (1997), Campbell and Messing (1999) McNeill (2000), Beattie (2003).
12
Adam Kendon: Comportamento visibile
35
attraverso cui l’individuo può segnalare le unità di comunicazione è la
postura o gli spostamenti o i cambiamenti della posizione del corpo. Ma non
ci siamo occupati della questione di come queste diverse unità si distinguono
l’una dall’altra. Come arriviamo ad etichettarle come “chiedere”, “ordinare”,
“esporre” e così via? Ci sono davvero specifiche posture per il “domandare”,
posture per il “comandare”, ecc. o le posture e i movimenti hanno la funzione
di mostrare i contrasti tra le funzioni nelle sequenze conversazionali? L’ipotesi
di Scheflen è che esiste una gamma limitata di modi di presentarsi agli altri,
sebbene né lui né altri abbiano catalogato questi modi. Ciascun modo di
presentarsi è, comunque, caratterizzato da una serie di proprietà, sebbene
non sia certo che riusciremo infine a definire le caratteristiche di tutte
queste proprietà, poiché questo dovrebbe sempre essere fatto in termini di
modellamento del comportamento in questione e del rapporto tra l’unità e il
suo contesto più ampio. Tuttavia, suggeriamo quanto segue.
Innanzitutto, sembra probabile che esistano una serie di differenti posture
che “stanno per” differenti modi di presentarsi. […] Probabilmente tutti noi
abbiamo un’idea di quale sia una posizione di “sfida”, di “seduzione” ecc. Ciò
di cui abbiamo bisogno è un criterio secondo cui le unità di postura potrebbero
essere distinte. Quindi abbiamo bisogno di sviluppare descrizioni puntuali di
quante più unità riusciamo a trovare, e poi fare molte osservazioni precise
per delimitare i contesti in cui le diverse unità occorrono. In questo modo
possiamo imparare molto rapidamente qualcosa di più sulla postura.
In secondo luogo, un dato tipo di presentazione può essere accompagnato
da una caratteristica serie di modelli di comportamento. Questo è quanto
suggerisce, tra l’altro, il lavoro di Rosenfeld (1966, 1967), che istruì alcuni
soggetti a comportarsi in modo che le altre persone li trovassero piacevoli
o insopportabili, e mostrò che c’erano particolari differenze nella quantità di
sorrisi, di gesti, ecc.
In terzo luogo, con tutta probabilità ci sono delle differenze nel modo in cui
una persona relaziona il suo comportamento a quello degli altri, a seconda della
posizione che mantiene più a lungo. Ovviamente chi “fa lezione” ha la parola
per tutto il tempo dell’interazione. Per fare un esempio più sottile, una delle
caratteristiche di un individuo che tenta di occupare un ruolo più importante
è che non adatta il suo passo d’azione a quello di coloro che stanno intorno a
lui; sono gli altri, piuttosto, a dover adattare il proprio passo al suo (dati non
pubblicati provenienti da filmati di psicoterapia e di gruppi di discussione).
In quarto luogo, le presentazioni e le posizioni differenti sono caratterizzate
da diversi stili di discorso e quindi diverse forme linguistiche. C’è un lavoro
notevole sull’intonazione, per esempio, in cui i modelli di intonazione sono
distinti a seconda dei diversi atteggiamenti che essi esprimono (Crystal, 1969).
Dunque è necessario tentare di elencare le proprietà di comunicazione che è
possibile distinguere. Ciò richiede un approccio che necessita un gran numero
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Adam Kendon: Comportamento visibile
di descrizioni precise e che riconosce che un’unità di comunicazione, quale che
possa essere, non deve essere definita come un unico mezzo di comunicazione,
ma si può manifestare in diversi modi attraverso varie modalità.
4. Conclusioni
Nello studio dell’organizzazione del comportamento nell’interazione
possiamo considerare da un lato, cosa trasmettono gli interagenti l’uno
all’altro, dall’altro come si dispongono le persone quando hanno il ruolo di
individui comunicanti, rendendo quindi possibile la trasmissione dei contenuti.
Ad esempio, due uomini adulti dello stesso ceto sociale possono impegnarsi
in una conversazione e possono discutere di pesca o dell’ultimo scandalo
politico o della loro vita privata; ma, indipendentemente dall’argomento di
cui parlano, essi si organizzano in un raggruppamento conversazionale e
lo fanno in modo molto simile in ciascun caso. Adottano una disposizione
spaziale, orientazionale e posturale tipica della conversazione e nel condurre
la conversazione organizzano il loro comportamento in un certe unità di
comportamento comunicativo, le quali si susseguono in una serie di relazioni
organizzate secondo dei modelli, indipendentemente dall’argomento discusso.
È di queste forme di comportamento conversazionale che ci occupiamo. È stato
fatto un tentativo di comprendere come gli aspetti visibili del comportamento
servano a stabilire e mantenere un’occasione conversazionale.
Nota aggiunta nel 2004: Ai tempi in cui questo articolo è stato
pubblicato esso rappresentava uno di primi tentativi di fornire una descrizione
integrata dei sistemi d’interazione che rendono possibile l’esecuzione di
occasioni interazionali come la conversazione. Negli anni successivi sono
apparse moltissime altre discussioni su questi sistemi, però ciò che abbiamo
descritto qui sugli aspetti spaziali ed orientazionali resta per la maggiore
parte valido, sebbene ci siano stati alcuni cambiamenti nella terminologia e
qualche miglioramento nella descrizione e nell’analisi (si veda in particolare
Kendon 1990, 1992). I principali sviluppi in questo campo si sono avuti in
rapporto all’analisi della struttura della conversazione (si veda Duranti 2000
che è un buon punto di riferimento per gli studi recenti) e nello studio della
gestualità (si veda la nota 12 per una breve bibliografia). Come abbiamo detto
nella nota all’inizio di questo articolo, qui possiamo solo indicare i riferimenti
bibliografici attraverso i quali si può cominciare ad approfondire questo campo
di studio.
I paragrafi che erano inclusi nella conclusione originale sono stati omessi perchè
risultano ora obsoleti. In essi si esprimeva l’auspicio di sviluppare una descrizione
sistematica del comportamento interazionale e siamo ancora di questa opinione,
anche per quanto riguarda la necessità di sviluppare delle tecniche che consentano
Adam Kendon: Comportamento visibile
37
di raccogliere esempi di comportamento interazionale in ambientazioni quanto
più naturali è possibile, la cui analisi deve essere affrontata con lo stesso spirito
con cui l’etologo si avvicina al suo materiale quando cerca di capire i sistemi di
comunicazione utilizzati dagli animali.
La conclusione originale dell’articolo, invece, ci sembra ancora efficace
e per questo preferiamo terminare con quelle stesse parole. Grande sarà la
ricompensa per una tale descrizione dei sistemi di comunicazione utilizzata
dall’uomo. Non solo si fornirà una solida base per comprendere come si porta a
termine un’interazione e permetterci così di fare un resoconto molto più preciso
della socializzazione e di avere una migliore comprensione degli individui
socialmente malfunzionanti, ma ci aiuterà anche ad affrontare il compito di
un’analisi comparativa del comportamento umano e capire così, più pienamente
di adesso, la natura della nostra eredità evolutiva e cosa è specifico della specie
Homo sapiens.
Ringraziamenti. Quando questo articolo è stato scritto l’autore faceva parte del Progetto sulla
Comunicazione Umana al Bronx State Hospital, Bronx, N. Y. Questo è patrocinato dall’Albert
Einstein College of Medicine dal Jewish Family Service, Inc., e sostenuto dallo State of New
York, NIH Grant No. 15977-02, e dalla Van Amerigan Foundation. Vorrei ringraziare Dr. Israel
Zwerling, Direttore del Bronx State Hospital, per aver messo a disposizione le attrezzature. Il Sig.
Robert McMillan ha fornito validi commenti sulla prima versione dell’articolo. Sono grato anche
ai Drs. Aviva Menkes, Andrew Ferber e C. Christian Beels per le utili discussioni. La versione
italiana è stata realizzata con la collaborazione indispensabile di Maria Graziano.
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