Effetti sanitari - Centrale di Manfredonia

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Effetti sanitari - Centrale di Manfredonia
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ETA - MANFREDONIA
CENTRALE ELETTRICA A FONTI RINNOVABILI
EFFETTI SANITARI: PAURE INGIUSTIFICATE
Nel linguaggio comune gli impianti di termovalorizzazione dei rifiuti vengono ancor oggi spesso indicati come “inceneritori”. Ma i due termini, in realtà, non sono sinonimi ed ogni accostamento non rende
giustizia ad un’evoluzione tecnologica che negli ultimi decenni è avvenuta proprio all’insegna della
minimizzazione degli impatti ambientali.
Rispetto ai vecchi inceneritori, il plus offerto dai moderni termovalorizzatori non è dato, infatti, solo
dalla circostanza di aver aggiunto alla funzione dell’incenerimento dei rifiuti quella essenziale del recupero energetico, realizzando in tal modo, con l’economia di un solo processo industriale, un doppio
risultato. È dato anche, e soprattutto, dalla presenza di una serie di garanzie derivanti dall’utilizzo di
tecnologie fortemente innovative, grazie alle quali l’impatto ambientale di questi impianti risulta ora
estremamente contenuto ed il rischio sanitario eventualmente conseguente si presenta, pertanto,
del tutto remoto ed assolutamente trascurabile sia in termini quantitativi (numero di patologie) che
qualitativi (tipo di patologie).
Proprio in rapporto a queste considerazioni, il fatto che in Italia la progettazione di questi impianti continui ad essere spesso fortemente osteggiata dalle popolazioni territorialmente interessate è qualcosa che
rappresenta una vera anomalia. Soprattutto nel contesto europeo dove non si segnalano su questo tema
episodi di accesa contestazione e dove, anzi, questo tipo di impianti (come è accaduto a Vienna, a Berlino, a Barcellona, ad Amburgo o a Londra) sono stati addirittura realizzati all’interno dell’area urbana.
Le cifre, del resto, parlano chiaro. Contro una media europea della termovalorizzazione dei rifiuti che
si è portata oggi intorno al 21,5% rispetto al totale della raccolta, la percentuale italiana, sulla base degli
ultimi dati, non arriva al 12%. Ed è curioso che nei confronti di quei Paesi europei che vengono spesso
additati in Italia per la loro vocazione ambientale, si trascuri sempre di citare il dato relativo al loro ricorso alla termovalorizzazione. Nella “verdissima” Danimarca, ad esempio, viene inviato a questo tipo
di impianti ben il 55% dei rifiuti urbani prodotti. In Svezia questo valore arriva al 46,9% e in altri Paesi,
come Francia, Belgio e Olanda, la quota della termovalorizzazione si attesta su livelli superiori al 30%.
Allarmismi sconfessati dalla comunità scientifica internazionale
Se al di fuori dell’Italia non si segnalano crociate ideologiche contro i moderni termovalorizzatori, la
ragione è semplice: questi impianti sono ritenuti utili e compatibili con le esigenze di tutela ambientale
ed il rischio sanitario teorico ad esso eventualmente associabile è giudicato irrilevante o, comunque
ed in ogni modo, assolutamente accettabile dalla società moderna. Di più, contrariamente a quanto
sostengono coloro che si oppongono a questa tecnologia, i termovalorizzatori continuano ad essere
costruiti anche in quei Paesi considerati virtuosi come la Germania. In tutta Europa, del resto, questi
impianti possono essere autorizzati e costruiti solo sulla base del rispetto di una normativa che, con
riguardo alle emissioni prodotte, ha fissato i limiti più rigorosi al mondo. Ne deriva che, proprio per
ottemperare a queste prescrizioni, le nuove progettazioni (come è il caso dell’impianto di Manfredonia)
possono essere concepite soltanto sulla base delle migliori tecnologie disponibili (BAT – Best Avai-
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lable Technologies) che, garantiscono quindi in modo assoluto circa il contenimento degli impatti, sia
ambientali che eventualmente e conseguentemente sanitari.
A conferma di quanto esposto, gli allarmismi sulla salute non trovano riscontro nella comunità scientifica internazionale; infatti, gli studi condotti dai più autorevoli organismi concordano sul fatto che,
se la progettazione e la gestione ordinaria e straordinaria degli impianti di termovalorizzazione è
operata correttamente, non ne discendono minacce significative né per l’ambiente, né quindi per la
salute umana.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel marzo del 2007 a Roma, ha presentato in un workshop i dati
scientifici emersi da numerosi studi sulla salute della popolazione in relazione alla gestione dei rifiuti.
L’aspetto fondamentale associato agli impianti di termovalorizzazione emerso dal meeting riguarda la
sostanziale differenza tra gli impianti moderni e quelli di vecchia generazione in termini di emissioni di
diossina.
Gli ultimi studi sono difficilmente comparabili ai precedenti a causa delle differenti tecnologie tra gli
impianti. Il WHO (OMS) ha concluso infatti, che, grazie all’adozione delle BAT, le “best available technologies”, le tecnologie imposte dall’UE, gli effetti sulla salute della popolazione residente in prossimità
di impianti di nuova generazione stanno divenendo sempre meno probabili e conseguentemente del
tutto trascurabili ai fini del giudizio di compatibilità e sostenibilità ambientale.
Gli equivoci che purtroppo ancora oggi vengono a crearsi poggiano sul fatto che la maggioranza degli
studi esistenti riguarda infatti impianti di prima generazione, caratterizzati da scarsa tecnologia e basse
temperature di combustione che comportano alti livelli di emissioni (come afferma anche nel 2004 lo
studioso Franchini1 che dal 1987 al 2003 ha analizzato gli articoli pubblicati sull’argomento).
In merito ai nuovi impianti esiste un importante caso studio redatto a Barcellona2 sul 90% dei rifiuti
prodotti in Catalogna, dal quale emerge come i livelli di diossina presenti nel sangue non possano essere
attribuiti alle emissioni degli impianti ma probabilmente ad altre cause non certe.
Ciò è dimostrato anche da studi sugli impianti portoghesi (di Lisbona e Madeira) dai quali sono risultate statisticamente insignificanti le differenze tra i livelli di diossina nel sangue tra soggetti residenti
nei pressi degli impianti stessi ed altri soggetti. Lo studio è facilmente reperibile e riguarda il workshop
tenutosi a Roma il 29-30 Marzo 2007 (Report – WHO – Workshop, “Population health and waste mana-
Franchini M. (2004). Health effects of exposure to waste incinerator emissions: a review of epistemiological studies.
Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, 40(1):101-115.
2
Gonzales CA (2000). Biomonitoring study of people living near or working at a municipal solid-waste incinerator before
and after two years of operation. Archives of environmental Health, 55(4):259-267.
Gonzales CA (2001). Increase of dioxin blood levels over the last 4 years in the general population in Spain. Epidemiology, 15(5):529-535.
3
Waste Incineration - A Potential Danger?Bidding Farewell to Dioxin Spouting, Settembre 2005.
1
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gement: scientific data and policy options”, World Health Organization).
Esiste anche uno studio del Ministero dell’Ambiente tedesco3 che prende in esame il periodo che va
dal 1990 al 2000. In quegli anni le normative europee e tedesche hanno imposto l’adeguamento degli
impianti di termovalorizzazione alle migliori tecnologie disponibili (passaggio dalla prima alla seconda
generazione). Il risultato della ricerca è stato che le emissioni di inquinanti da termovalorizzatori si sono
ridotte di ben tre ordini di grandezza (1000 volte) rispetto al livello precedente.
Gli studi nazionali
Per quanto riguarda l’Italia, la posizione espressa nell’aprile 2008 da un organismo particolarmente qualificato ad intervenire nel dibattito sul tema, qual è certamente l’Associazione Italiana di Epidemiologia, dovrebbe rappresentare oramai un punto fermo nel dibattito in corso. Il documento redatto da
questa Associazione, dopo aver anch’esso evidenziato la notevole riduzione delle concentrazioni di molti
inquinanti nelle emissioni prodotte dagli impianti di nuova generazione, osserva che questi valori non
sono dissimili e risultano, anzi, in alcuni casi inferiori a quelli riconducibili ad altre sorgenti emissive
(in particolare traffico e insediamenti industriali ecc.) presenti nella stessa area.
Riguardo poi al rischio sanitario che viene paventato, l’affermazione è netta. La valutazione delle osservazioni epidemiologiche disponibili - conclude il documento dell’Associazione - “non depone per un
incremento del rischio per la salute umana del trattamento dei rifiuti mediante incenerimento in
impianti basati sulle migliori tecnologie”.
A conclusioni analoghe è giunto anche il rapporto “Recupero di energia dai rifiuti: la pratica, le implicazioni ambientali, l’impatto sanitario” condotto da vari esperti di chiara fama, tra cui l’oncologo Umberto
Veronesi, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2007 in “Quaderni di Ingegneria Ambientale”.
Questo imponente lavoro, perché effettuato sulla base di una revisione degli studi condotti in materia
negli ultimi 20 anni, ha portato gli autori del rapporto ad osservare che “…i dati di mortalità per tutte
le cause e per i tumori, di morbilità o per affezioni delle vie respiratorie e di possibile incremento di effetti
sulla riproduzione, sono del tutto inconsistenti e pertanto non provano l’esistenza di un qualsiasi
nesso causale tra le presenza di inceneritori di RSU e rischio per la salute di popolazioni residenti
nel raggio di caduta delle loro emissioni”.
Nell’ambito del dibattito aperto sui possibili effetti sanitari dell’attività dei termovalorizzatori trovano
oggi risonanza, infine, anche quelle argomentazioni che sollevano la problematica delle polveri ultrafini, spesso anche meglio note, e a dire il vero confuse, come “nanopolveri”. Si tratta di un tema, però, che
allo stato delle conoscenze (che sono ancora assolutamente scarse e frammentarie) non può portare ad
alcuna conclusione avvalorata sul piano scientifico.
In questa situazione, infatti, attribuire maggiori responsabilità della produzione di nanopolveri ad una
fonte piuttosto che ad altra sarebbe un’operazione totalmente arbitraria considerando - come si sottolinea, ad esempio, nel rapporto “Ambiente Italia 2009” la difficoltà di distinguere gli effetti delle emissioni dei termovalorizzatori da quelle di altre fonti.
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Ciò ben si evince anche da uno studio recentissimo, promosso fra gli altri da Federambiente, condotto
dal Laboratorio Energia e Ambiente di Piacenza, Consorzio partecipato dal Politecnico di Milano e
coordinato dai professori Stefano Cernuschi e Michele Giugliano del DIIAR del Politecnico di Milano
e dal Professor Stefano Consonni del Dipartimento di Energia del Politecnico di Milano. Lo studio, in
particolare, arriva a tale conclusione: la combustione è una delle tante attività che, assieme ad una serie
di fonti naturali, emettono anche il particolato ultrafine (incluso le cosidette nanopolveri).
Secondo lo studio “per ciò che riguarda le combustioni fisse gli elementi che regolano l’emissione di
PU sono principalmente la qualità del combustibile (si va dalla legna con emissioni importanti fino al
gas che mostra i valori più bassi) e l’esistenza di apparati per la rimozione del particolato fine che, in
presenza di filtri a manica, mostrano ottime prestazioni anche per le PU”. Questi filtri sono ovviamente
presenti nei termovalorizatori di ultima generazione insieme ad altri dispositivi di contenimento delle
emissioni.
Lo studio ha interessato i termovalorizzatori di Milano, Brescia e Bologna ed ha rilevato come “non esistano allo stato attuale elementi scientifici, né probanti né sospetti, per escludere a priori questa tecnica
di smaltimento e recupero di energia a causa del ruolo presunto delle emissioni sulle presenze atmosferiche del particolato fine e delle nanopolveri”.
“Ferma restando” prosegue lo studio “la doverosa attenzione al ruolo ambientale del particolato ultrafine ed ai suoi componenti, dall’analisi delle implicazioni tossicologiche degli studi nel settore non emergono indicazioni di rischi particolari attribuibili alle PUF provenienti da combustione dei rifiuti, purché
in linea con la migliore tecnologia disponibile”.
In ogni caso, con riferimento all’impianto di Manfredonia, anche questa problematica non riveste alcun interesse particolare sotto il profilo dell’impatto sanitario, perché la localizzazione della centrale
– lontana da ogni centro abitato, in un comprensorio caratterizzato da una presenza estremamente
limitata di popolazione – non può che determinare una irrilevante contaminazione ambientale da
cui deriverebbe un potenziale ed eventuale contributo all’esposizione generale della popolazione
del tutto negligibile rispetto al fondo esistente, privando quindi di ogni significato quei livelli di
inquinamento eventualmente riconducibili all’esercizio dell’impianto.
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