ma gli sciamani volano davvero?

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ma gli sciamani volano davvero?
MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
E. DE MARTINO E L’ETNOMETAPSICHICA
di Piero Coppo
V
i sono argomenti che non possono non interessare chi lavori ai confini tra diverse visioni del mondo e pratiche di salute; chi, insomma,
accetti davvero la sfida che altri saper-fare portano alla tradizione che ci ha
formati e ai saper-fare che abbiamo ereditato dalla nostra storia. Questo è
uno di quelli: cosa fare di ciò che osserviamo e/o ci viene raccontato, come
giudicare pratiche che si riferiscono a dimensioni e universi che non fanno
parte della nostra cosmovisione, o che addirittura la nostra visione del
mondo ha fieramente negato, costruendosi proprio su questa negazione?
Con quale animo l’etnopsichiatra ascolta la verità del suo paziente, del suo
gruppo o del guaritore che lo accompagna, con quale animo consente o
addirittura prescrive una pratica di protezione, o usa una tecnica divinatoria, o un sacrificio riparatore? Con quale onestà, coerenza, cedimento o
tenuta epistemologica, con quale autoironia o convinzione, con quale adesione rispetto a ciò che sta dicendo o facendo?
Da anni l’antropologia medica e l’etnopsichiatria lavorano per dimostrare come vengono costruite tutte le concezioni e le pratiche relative alla
salute, come lavori l’azione terapeutica nei vari contesti. Oggi sappiamo
quale statuto epistemologico abbia una categoria nosografica nei vari settori della medicina, e cosa la accomuni ai nomi (a seconda dei casi, di
repertori o di categorie) che in altri sistemi di cura vengono dati ai fenomeni morbosi. Sappiamo anche che ogni atto terapeutico serio è una operazione tecnica costruita e codificata in base a una sua logica ed efficacia.
Questo statuto di parità tra i diversi saper-fare, già difficile da far davvero
proprio, diventa però insostenibile quando si confrontino i fondamenti epistemologici su cui i diversi sistemi si sono costruiti.
Per esempio: esistono davvero le entità invisibili che vengono evocate,
e hanno un così grande peso, nelle pratiche di cura e di salute della maggioranza degli umani? E cioè: il jinn e il virus hanno la stessa dignità in
quanto fenomeni della natura? Dove ci rifugiamo, noi, «figli dell’Occi-
«I
FOGLI DI ORISS»,
n. 21/22, 2003, pp. 179 - 207
PIERO COPPO
dente», quando siamo messi alle strette (come spesso accade a chi lavora
nel campo della cura) e siamo obbligati a confrontarci nell’azione con
sistemi che lavorano con diverse entità, e quando ne constatiamo, a volte,
l’efficacia?
Le risposte correnti (interpretazioni e riduzioni psicoanalitiche ed endopsicologiche; suggestioni e influenzamenti; efficacia simbolica; messe in
scena consapevoli; effetti della costruzione di senso condiviso; psicosomatica; neuropsicoimmunologia, ecc.) sono soddisfacenti e sufficienti? E
soprattutto, giustificano la scelta di alcuni terapeuti (per esempio, etnopsichiatri ed etnopsicologi) di adottare frammenti delle pratiche, anche «magiche», di guaritori di altri sistemi, senza sentirsi anche obbligati a prendere
posizione, senza risolvere la questione epistemologica posta al loro sistema
da ciò che fa da sfondo al sistema altro?
Oppure dobbiamo accettare anche in questo campo il pensiero debole
(e se due più due non facesse quattro?), il cedimento epistemologico, la
tendenza al bricolage terapeutico e mitologico che osserviamo ovunque
nel mondo?
Una corposa postfazione
Silvia Mancini (SM), storica delle religioni ed etnologa (Università di
Bordeaux II) ha scritto una lunga Postfazione (290 pagine!) all’edizione
francese de Il mondo magico (MM) di Ernesto de Martino (tradotto in
francese da Marc Baudoux ed edito da Les Empêcheurs de penser en rond,
Parigi, 1999).
Si tratta di una riflessione su alcuni aspetti dell’opera demartiniana, e più
precisamente sul periodo compreso tra il 1934 (data della sua prima pubblicazione scientifica) e il 1950, anno in cui, approssimativamente, si conclude, secondo SM, una fase del suo percorso intellettuale (abbandono
della tesi del magismo come età storica dello spirito e relative autocritiche;
adesione nel 1949 al Partito Comunista, prossimità alle tesi di Antonio
Gramsci, definizione di nuove priorità, suo impegno come «intellettuale
organico» a fianco delle classi diseredate del Sud Italia).
SM sceglie di guardare la trama dell’opera demartiniana da un particolare
punto di vista, seguendo il filo dell’interesse per la metapsichica, esplorandone il peso nella concezione del MM.
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Si tratta
« …di restituire a de Martino una dimensione intellettuale che è
stata senza dubbio sua, e che ha sempre assunto esplicitamente,
come dimostrano proprio i suoi numerosi lavori di etno-metapsichica. Ci sembra difficile sostenere, come è stato fatto, che de Martino ha cercato di dissimulare il suo interesse per questo campo, per
non si sa bene quali scrupoli o pudori. Quelli che provano un certo
imbarazzo ad affrontare questo capitolo della sua opera sono piuttosto i critici di de Martino, più disorientati da questo dossier che
dal suo passato di giovane “fascista di sinistra” degli anni trenta.
Questa reticenza nei confronti della componente metapsichica del
suo pensiero perdura malgrado la pubblicazione recente di scritti
inediti, realizzata dai ricercatori legati alla Fondazione de Martino.
Questi scritti offrono numerose piste che permettono di approfondire questo aspetto della sua opera.» (297-298)1
E’ forse per questo imbarazzo che i biografi di de Martino hanno evitato di analizzare le connessioni tra la metapsichica e lo sfondo filosofico
del pensiero demartiniano.
«L’ostacolo maggiore è stata certamente la difficoltà di conciliare la
concezione dello psichismo umano che sottintende le tesi del MM
con quelle delle scienze sociali e della psicoanalisi degli anni ‘50‘90. In effetti, la concezione di un inconscio quasi organico, pensato come un’energia dinamica-vitale, saturata di potenzialità demiurgiche e diretta dall’intenzionalità semi-conscia del soggetto, è molto
lontana dalla concezione di un inconscio-macchina, di un inconscio
impersonale al quale fanno riferimento le scienze psichiche e sociali, da Freud fino a Foucault e Lévi-Strauss. Di fatto, c’è un abisso tra
questo inconscio pensato come insieme delle leggi strumentali
oggettive che regolano il funzionamento dello psichismo (leggi e
funzioni indipendenti da ogni volontà soggettiva, e funzionalmente
sfalsate da essa) da una parte, e l’inconscio come lo pensa la metapsichica, dall’altra. Questo abisso separa in realtà un modello teorico storicamente “vincente” da un modello “perdente”.» (301)
1 D’ora in poi, le citazioni seguite solo dai numeri di pagina sono tratte da SM, op. cit.,
traduzione dal francese
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Secondo SM non c’è da un lato un de Martino che flirta con l’occulto,
e dall’altro un de Martino solare, storico della cultura, rigoroso e magistrale artigiano dello studio sul tarantismo. Non è sostenibile l’ipotesi di
un giardino segreto coltivato nell’ombra, in conflitto con gli ideali comunisti, quasi si trattasse di un errore di gioventù. Mettendo in luce l’interesse di de Martino per la metapsichica, gli si restituisce invece una dimensione che fu senza dubbio sua e che lui stesso ha assunto alla luce del sole,
come testimoniano i numerosi lavori che ha pubblicato.
In effetti, riflettere su questo aspetto del lavoro demartiniano sembra
anche utile per portare sull’area di lavoro nodi attuali e tuttora irrisolti, in
genere passati sotto silenzio quasi fossero imbarazzanti e sconvenienti (e,
di conseguenza, prendere le distanze da alcune riduzioni e ambiguità presenti anche nell’ambito dell’attuale etnopsichiatria2).
Prima di procedere, occorre però comprendere cosa era la metapsichica in quegli anni.
«Come si sa, o piuttosto come si dovrebbe sapere, il magnetismo e
la fenomenologia parapsichica che lo accompagna avevano costituito nel XIX secolo uno stimolante potente per tutte le scienze:
dalla biologia alla filosofia, dalle scienze psichiche alla fisiologia.
La questione che riguardava i rapporti tra spirito e materia, tra vita
biologica e vita psichica, tra i confini della coscienza e della
volontà e quelli dell’inconscio organico, non era considerata una
questione oziosa – e non soltanto negli ambienti caratterizzati da
un orientamento apertamente vitalista o spiritualista. Questo tipo
di questione, al contrario, era al centro degli interrogativi di filosofi e ricercatori curiosi, desiderosi di andare oltre l’intellettualismo
della filosofia accademica. Il fatto che H. Bergson, A. Lang, W.
James o il premio Nobel C. Richet abbiano occupato delle posizioni ufficiali nelle Società di Metapsichica dei loro paesi rispettivi
2 Dal canto mio, ho cercato, per quel che ho potuto, di esorcizzare in Tra psiche e
culture. Elementi di etnopsichiatria il rischio di derive irrazionali e occultiste in etnopsichiatria (in sintonia col ritorno di un magismo d’accatto, fatto di frammenti banalizzati di saper fare d’importazione, come è tipico anche dei new-agers e degli psicomaghi) sottolineando la necessità di rendere disponibile una teoria generale delle culture che facesse da sfondo laico ai fenomeni umani studiati e trattati, superando però i
limiti del positivismo e del materialismo.
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(come in Italia de Martino e altri universitari) dovrebbe far riflettere.» (396-397)3
De Martino dava per certa la realtà di alcuni fenomeni paranormali. In
una recensione critica al libro di R. Cantoni I primitivi (de Martino 1942:
104), scriveva che si può considerare dimostrata sperimentalmente la
realtà della percezione extrasensoriale, sia sotto forma di chiaroveggenza
spaziale, che di telepatia e premonizione4. Contestava dunque l’ipotesi di
Cantoni, che il magismo sia soltanto una realtà psicologica e interna che
non acquisisce la pienezza dell’esistenza reale se non agli occhi dei soggetti. Cita, nella sua critica, i lavori di illustri metapsichici dell’epoca, ed
enumera i centri di ricerca che avevano prodotto risultati certi, a suo parere al di sopra di ogni sospetto, e i dati etnografici che testimoniano di eventi che appartengono alla sfera del paranormale. Si trattava dunque per lui
di un ambito della realtà da conoscere ed esplorare.
«Lavori recenti su de Martino tendono a dimostrare che si è lui stesso interessato al magismo e alla fenomenologia paranormale. E
questo, non passando per la via regale dell’insegnamento di Croce
e Omodeo, ma per altre vie che hanno meno a che fare con una tradizione di pensiero che con gli incontri personali che segnano la
vita di ogni ricercatore. La ricerca condotta da Riccardo Di Donato
sulla “preistoria” di Ernesto de Martino ha rivelato che all’epoca
della sua formazione universitaria, oltre a Omodeo, un’altra divi3 Circa la svolta epistemologica costituita in medicina e nelle scienze
dell’Occidente dall’avventura di Franz Anton Mesmer e dall’esito delle commissioni di
inchiesta sulle sue teorie e pratiche (Parigi 1784), si veda per esempio il bel saggio di
Isabelle Stengers, 1995. Da allora, nonostante le conclusioni di quelle inchieste e la
separazione tra una medicina capace di validare solo sé stessa e tutti gli altri saper-fare,
si continua ovunque a «guarire per cattive ragioni»: per ragioni cioè che non sono comprensibili alla razionalità scientifica.
4 La recensione citata è riprodotta, insieme ad altre di de Martino, in questo stesso
numero della rivista. Il fatto che, dopo più di mezzo secolo, nessun fenomeno paranormale sia stato dimostrato col metodo sperimentale, né usato sistematicamente nell’industria o a scopi militari e che molte esibizioni siano state in questo campo smascherate come artefatti o trucchi, consente oggi di dare di quei fenomeni una valutazione ben
più complessa e articolata, grazie anche al perfezionamento dei dispositivi sperimentali
di registrazione e controllo. A quel tempo era ancora legittimo un margine di incertezza
sui risultati degli accertamenti scientifici.
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nità tutelare vegliava sul futuro autore del MM. Si tratta di Vittorio
Macchioro. Questo archeologo d’origine ebrea, storico delle religioni e storico dell’arte, intrecciava interessi multipli e si era impegnato in ricerche tanto eccentriche quanto originali, dall’iconologia
alla filosofia religiosa, dalla psicopatologia e metapsichica all’etnologia.» (397)
Macchioro aveva vissuto durante la prima guerra mondiale un’esperienza spirituale intensa, «in una dimensione totalmente mistica» e da allora aveva sentito sempre più «l’esigenza di fare della vita religiosa il centro
stesso della sua esistenza di studioso e di uomo.» (Di Donato 1990, cit. in
SM: 398)
Conservatore dei musei reali e dei siti archeologici di Napoli, ebbe
l’occasione di alimentare la sua passione studiando gli affreschi della Villa
dei Misteri di Pompei e ne fece un libro, pubblicato nel 1930: Zagreus.
Studiando i Misteri antichi, Macchioro arrivò a interessarsi alla «filosofia
perenne» e insieme alla metapsichica, alla psicopatologia e all’etnologia,
trovando analogie tra ciò che avveniva durante la celebrazione dei Misteri e lo stato particolare osservato nei soggetti magnetizzati.
Agli inizi degli anni ’30, al tempo del suo primo incontro con Macchioro, de Martino era un giovane studente, fascista di sinistra. In sintonia
con le riflessioni di Giovanni Gentile sulla «religione civile», si interessava alla necessità di promuovere un sistema simbolico laico, alla «…tesi
della natura ineludibile e necessaria dei simboli, anche nella componente
laica della cultura occidentale – poiché i simboli hanno il potere di orientare le coscienze, sia individuali che collettive, verso dei valori. Il loro
ruolo è ora, per de Martino, quello di riflettere la vocazione laica e immanentista dell’Occidente, che ha storicamente rinunciato – e che deve continuare a rinunciare, per essere fedele alla sua propria storia e al suo orientamento culturale fondamentale – alle forme tradizionali del sacro. Si apre
dunque per lui, già da quel tempo, il tema del “simbolismo civile” inteso
come l’espressione di un umanesimo integrale.» (407)
L’incontro tra de Martino e Macchioro, nonostante alcune divergenze di
fondo, è molto forte e travalica i confini di un rapporto intellettuale. Quando de Martino ne sposa la figlia Anna, la relazione si salda ancora di più.
Quando poi i rapporti tra i due diventeranno difficili, de Martino si rivolgerà a Macchioro come a un padre, un maestro, uno che gli ha dato tutto,
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dalla laurea alla vita spirituale, dalle idee alla moglie. Progressivamente, de
Martino si allontanerà da Macchioro; ma la loro intensa relazione, durata
dieci anni, segna profondamente la sua storia di uomo e studioso.
«De Martino, che aveva colto la portata innovatrice del lavoro di
Macchioro, fissa così già nel 1933 un punto capitale della sua concezione del magismo inteso come una forma di esperienza, insieme
umana e storica, situata agli antipodi del misticismo. Il magismo, in
effetti, si presenta ai suoi occhi come un intervento attivo e rivendicatore dell’uomo sulla realtà circostante, azione che si propone di
promuovere, sviare e regolare l’azione delle forze oscure che interferiscono con la sua esistenza. Attraverso la magia, l’uomo si appropria o rende vani questi poteri e queste influenze che lo circondano e
lo minacciano. Il misticismo, invece, deriva da una attività storica e
culturale del tutto differente, perché è animato da una atteggiamento
di remissione passiva. Riposa su un processo di illuminazione interna suscettibile, certo, di procurare al soggetto delle conoscenze
metafisiche, ma resta profondamente estraneo alla pulsione operatoria che spinge l’uomo all’azione, alla creazione e all’affrontamento.
E’ proprio di questo aspetto del magismo inteso “come pensiero e
come azione” (e dunque come “storia”) dei primitivi, che de Martino voleva convincere Croce nella sua lettera.» (413-414)
La lettera a Croce è del 1940 (è riportata in Appendice alla Postfazione di SM). De Martino cerca di convincere il Maestro dell’interesse del
magismo, inteso come pensiero e come azione dei primitivi, e quindi come
possibile oggetto di studio storico. Si inoltra così per la via difficile che lo
porterà allo sforzo titanico di confrontare e integrare l’uno nell’altro il linguaggio dello storicismo e quello della metapsichica.
Fin dall’inizio del ‘900 l’organo ufficiale dei metapsichici italiani era
la rivista Luce e Ombra. La rivista ospita negli anni ’30 numerosi articoli
sulla filosofia della scienza, la biologia, l’etnologia, la psicologia e numerose controversie teoriche tra i sostenitori della tesi spiritistica e i suoi
detrattori. Gli articoli filosofico-letterari dedicati ai numi tutelari della
metapsichica (H. Bergson, A. Schopenhauer, W. James, E. Swedenborg,
C.G. Jung, V. Hugo, C. Flammarion, O. Lodge ecc.) si alternano a quelli
dedicati alla storia delle scienze e all’epistemologia. E’ solo a partire dagli
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anni ’50 che la rivista si orienta sempre più verso temi esoterici e occultisti, prendendo alla fine un orientamento apertamente irrazionalista.
«Durante gli anni ’30 e ’40, invece, le pagine di Luce e Ombra trattano piuttosto della filosofia di Schopenhauer e di Schelling, delle
teorie morfogenetiche di Hans Driesch, dei rapporti tra W. James e
H. Bergson, della metafisica animale e delle teorie bio-psichiche di
Lidio Ciprani, delle tesi di C. Richet, del carattere progressivo o
regressivo delle facoltà extrasensoriali, della questione delle personalità multiple, dei fenomeni di telecinesi, di materializzazione, di
visione attraverso corpi opachi. Numerosi articoli firmati da Emilio
Servadio fanno il punto sulle questioni teoriche relative ai rapporti
tra metafisica e psichiatria, parapsicologia e psicanalisi freudiana.
Dei resoconti aggiornano ugualmente il lettore colto sulle pubblicazioni più recenti. Vi si trovano inoltre le relazioni dettagliate delle
esperienze condotte su dei soggetti “lucidi” nei grandi centri sperimentali diretti da E. Osty, A. v. Schrenck-Notzing, H. Bender, J. B.
Rhine, R. Warcollier, ecc. Il nome di de Martino non compare mai
tra i collaboratori di Luce e Ombra. Tuttavia, non ci sarebbe da
meravigliarsi scoprendo che ha regolarmente consultato la rivista
nel corso degli anni ’30. De Martino era lontano dalle posizioni del
comitato di redazione in cui, grazie all’influenza onnipresente di
Ernesto Bozzano, dominava la visione spiritista; ma era invece vicino alle posizioni di un piccolo nucleo di collaboratori della rivista,
tra i quali Emilio Servadio. Questa ala ribelle finì per fare secessione nel 1937 e fondare la Società Italiana di Metapsichica, nella
quale de Martino entrò nel 1940.» (417-419)5
La Società è riconosciuta pubblicamente con decreto Reale nel 1941,
5 «Lo psichiatra e psicanalista italiano Emilio Servadio (1904-1995) ha associato alle
sue ricerche nel campo della psicanalisi e della psichiatria una intensa attività in quello
della ricerca metapsichica. Gli si deve la diffusione, in Italia, della psicoanalisi freudiana,
che ha grandemente contribuito a far conoscere. Servadio è stato il solo italiano ad aver
pubblicato, nel 1935, un saggio nella rivista Imago, diretta da Freud stesso; lo stesso anno
fu ammesso all’Associazione Psicoanalitica Internazionale, in seguito alla pubblicazione
della sua piccola opera innovatrice La ricerca psichica, che fa il punto sulle questioni principali sollevate dalla ricerca metapsichica, campo nel quale ha continuato a lavorare fino
alla sua morte. Questa opera ha fatto conoscere le sfide e le implicazioni teoriche della
metapsichica al pubblico colto. Esemplare per la sua chiarezza e rigore, La ricerca psichi-
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XIX anno dell’era fascista. Il suo statuto insiste sul carattere pluridisciplinare e tra i membri fondatori figurano senatori, accademici, universitari
celebri, rappresentanti delle scienze biologiche, mediche, neurologiche,
fisiologiche, psichiatriche, psicologiche, fisiche, statistiche, tecniche. E’
riconosciuta dal Ministero dell’Educazione Nazionale e dalla Direzione
Generale di Salute Pubblica. La Società si smarcava esplicitamente dallo
spiritismo e da ogni fideismo metafisico e religioso, e pretendeva di avere
un carattere esclusivamente scientifico. Nel rapporto annuale della Società
del 1942, una nota riferisce che il socio corrispondente Ernesto de Martino si stava consacrando a una serie di ricerche sulle manifestazioni metapsichiche tra i popoli primitivi, e che il suo lavoro si era concretizzato in
ca circolava correntemente nelle biblioteche private e universitarie, come ho potuto constatare alla Biblioteca di Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, dove uno dei due
esemplari disponibili, dedicato dall’autore a Giovanni Gentile, proveniva appunto dai
fondi privati di quest’ultimo (Servadio era stato, nel 1932, redattore e collaboratore di Gentile, che a quell’epoca dirigeva l’Enciclopedia Italiana).” (418, nota 1)
A E. Servadio è dedicata anche una scheda nel libro Pionieri della psichedelia di G.
Camilla e F. Gosso (2004) di cui vale la pena citare i passi salienti. «Emilio Servadio aveva
iniziato a occuparsi di psicoanalisi per avere a disposizione uno strumento per interpretare
scientificamente quegli accadimenti psichici che, altrimenti, avrebbero continuato a essere territorio di frequentazione per la magia e l’occultismo. Egli si era sempre dichiarato
attratto dalle modificazioni della coscienza ordinaria, fossero prodotte dal sogno, dall’ipnosi, dalla trance, dalle pratiche logiche o dall’assunzione di LSD. (…) In questo vasto
interesse per gli stati di coscienza, non poteva mancare l’incontro e la sperimentazione con
le sostanze psicoattive. Servadio si dirà anzi convinto, con Freud, che la psicoanalisi sarà
in futuro soppiantata dai progressi delle neuroscienze e della psicofarmacologia. Servadio
utilizzò la psilocibina e l’LSD sia per un ciclo di sperimentazioni personali, sia nell’ambito della ricerca parapsicologica sia all’interno del setting analitico. Tra le esperienze personali, vanno annoverate quelle effettuate con i registi Gillo Pontecorvo e Federico Fellini per verificare la correlazione tra allucinogeni e processi creativi. Fu lo stesso Servadio,
in varie occasioni, a rivelare che in concomitanza a queste esperienze Pontecorvo realizzò
La battaglia di Algeri e Fellini Giulietta degli spiriti. Nel biennio 1967-68, in piena era psichedelica, Servadio partecipò a due memorabili convegni internazionali sul rapporto tra
psicofarmacologia e parapsicologia, convegni promossi dalla Parapsychology Foundation
(PF) di New York e che videro la partecipazione di personaggi come Albert Hofmann,
Charles Tart, Humphry Osmond ed altri. Fondatrice e presidente della PF era in quegli anni
una singolare, nonché fascinosa, figura di medium e di menager di origini irlandesi, Eileen
Garrett. Una donna dagli occhi penetranti, dall’intelligenza vivace, tanto disposta a farsi
studiare personalmente quanto abile e munifica nell’amministrare un organismo, la PF, che
si proponeva di promuovere la ricerca scientifica in parapsicologia. (…) La maggior parte
dei cultori italiani di etnologia ignora che fu grazie ai finanziamenti ottenuti dalla Garrett,
su interessamento di Servadio, se Ernesto de Martino riuscì a condurre la sua celebre ricerca nel sud dell’Italia.» (Camilla – Gosso 2004: 77-78).
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un articolo, pubblicato nella rivista Problemi di Metapsichica nel 1942,
col titolo «Lineamenti di etnometapsichica», vero e proprio manifesto del
nuovo approccio di cui era il promotore.
In quel testo, de Martino cerca di definire l’oggetto del nuovo campo di
ricerca e alcuni principi metodologici. Esistono prove certe della realtà dei
fenomeni paranormali nelle culture etnologiche? Quali sono i problemi
che l’etnologia e la metapsichica non riescono a risolvere senza l’apporto
dell’etnometapsichica? La fenomenologia paranormale è diversa nei
popoli primitivi e in quelli europei? E’ possibile una etnometapsichica
sperimentale e comparativa? Quale è il posto dell’etnometapsichica nel
quadro generale del sapere umano?
Tra il 1941 e il 1946, de Martino pubblica su Studi e Materiali di Storia
delle Religioni una serie di contributi e recensioni sul tema del magismo
etnologico e della etnometafisica.
«De Martino cerca dunque di aprirsi una via all’interno della metapsichica, persuaso di poter contribuire alla creazione di un nuovo
campo disciplinare. E’ “l’etno-metapsichica” che dovrebbe coniugare un ambito empirico di ricerche (la psicologia paranormale studiata nel quadro di esperienze di laboratorio) e una teoria rigorosa
della cultura e dello spirito, alimentata sia dall’etnologia che dalla
grande tradizione della filosofia critica. Questa articolazione a tre
dovrebbe permettere, secondo lui, di liberare definitivamente dalle
correnti spiritiste e occultiste il campo di ricerca della metapsichica, che lui stesso sta coltivando.» (426-427)
Nel nuovo ambito di ricerca si generano immediatamente degli interrogativi fondamentali, che a loro volta obbligano de Martino a trovare inediti approcci disciplinari.
«Lungi dal costituire una disciplina che si limita a passare in rassegna e a verificare i fatti paranormali segnalati qua e là nelle società
esotiche, il programma dell’etno-metapsichica deve, secondo de
Martino, sottolineare il fatto che queste attitudini parapsichiche si
trovano in Occidente in conflitto con la visione culturale dominante e che sono dunque divenute tra noi rare. Prendere in conto il contesto storico nel quale prosperano i fenomeni paranormali ci riman188
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da inevitabilmente al problema del loro significato storico e culturale. E qui, considera possibili due atteggiamenti. Il primo consisterebbe nel vedere in essi il residuo di uno psichismo de-funzionalizzato in seguito a un cambiamento del rapporto uomo/mondo, determinato dai cambiamenti dell’ambiente storico. Il secondo, invece,
consisterebbe nel vedervi i segni di un potenziale spirituale in grado
di inaugurare un nuovo corso della storia umana. De Martino, che
difende una concezione dialettica e progressiva dello sviluppo storico, sceglie evidentemente la prima soluzione...» (431-432)
In un testo successivo (Percezione extrasensoriale e magismo etnologico) de Martino esorta gli etnologi ad abbandonare una volta per tutte, nei
confronti del magismo, ogni posizione ambigua e contradditoria, insieme
agnostica e aprioristica: agnostica nella verifica dell’eventuale fondamento reale delle credenze magiche, aprioristica nel giudicare il magismo
come un grande delirio collettivo. E invita alla ricerca: solo l’osservazione di questi fenomeni in atto nella loro spontaneità storico-culturale permette all’etnologo di cogliere fino a che punto essi siano solidali con un
ambiente storico diverso dal nostro, con forme culturali dove l’ideologia
come le istituzioni, le concezioni, la vita sociale sono organicamente atte
all’esercizio dei poteri metagnomici. Comincia qui a configurarsi, secondo SM, «…l’affermazione, centrale nel MM, che il magismo è una Weltanschauung, una concezione del mondo e una pratica conforme ad essa.»
(436) Ecco perché, nella nostra cultura, i fenomeni metagnomici prodotti
artificialmente nei setting sperimentali, separati dai riferimenti ideologici
e affettivi che normalmente li circondano, si rivelerebbero «tecnicamente
inautentici», e anche storicamente inautentici, dato che l’ambiente culturale dove il soggetto manifesta queste facoltà è dissonante e distonico
rispetto al soggetto stesso6.
«E cioè, la produzione di questi fenomeni è direttamente in rapporto col sistema di valori culturali circostante, suscettibile di renderli
rari ed episodici quando sono scoraggiati dalla cultura, o manifesti e
6 Ciò solleva anche la questione, come vedremo, di cosa divenga una esperienza extraordinaria quando avvenga in un contesto incapace di lavorarla per farne qualcosa che non
sia una malattia.
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proliferanti quando non lo sono, e quando sono resi funzionali all’universo storico dove si inseriscono. Per de Martino, insomma, le
facoltà psichiche sembrano funzionare meno come strutture formali che come “organi naturali” a geometria variabile, adattabili alle
condizioni ambientali e procedenti in accordo con esse. Due fattori
condizionano dunque lo psichismo. Prima di tutto, le condizioni
concrete dell’ambiente (modi di produzione, regimi esistenziali nel
senso più largo) dove gli individui sono immersi e che suscitano dei
problemi, delle contraddizioni, delle crisi di adattamento caratteristiche di un’epoca data. Poi, il sistema di rappresentazioni culturali
adattate e conformi a questi problemi e contraddizioni.» (437)
Nel nostro mondo, il sensitivo può diventare certo un oggetto di ricerca scientifica, ma mai si potrà costituire in soggetto della cultura stessa,
«…come un organo vitale del suo organismo in funzione.» (de Martino
1942: 9) Fa notare giustamente SM quanto il linguaggio di de Martino sia
impregnato di risonanze vitalistiche e organiciste, dovute all’influenza di
filosofi vitalisti (Driech, Bergson, Scheler) ma anche degli etnologi funzionalisti (Malinowski, Shirokorogoff) che in quel periodo leggeva. Tuttavia de Martino non si identifica mai con quelle posizioni: in lui lo storicismo italiano (Vico, Croce, Gentile e Omodeo) agisce come un vero e
proprio antidoto; la sua visione progressista lo porta sempre a considerare
ogni ritorno verso l’indifferenziato come regressivo, una caduta verso le
forme inferiori, quasi organiche, dell’attività spirituale. Tuttavia questa
inferiorità non è assoluta, non implica giudizi di valore; deve piuttosto
essere giudicata col metro storico.
«All’epoca del MM, la concezione filosofica di de Martino, allora
ancora vicina alle posizioni attualiste di Omodeo e Gentile, riposava su dei presupposti apertamente hegeliani. Come abbiamo visto,
lo Spirito non gli si presenta come una entità trascendente le forme
concrete e obiettive. E’ piuttosto la figurazione di un principio dinamico immanente che fonda e guida il processo della realtà, individuandosi in forme empiriche, naturali, o storiche ed umane. Tutte
queste forme condividono dunque una radice comune, e sono organizzate secondo dei gradi crescenti di coscienza. Questa gerarchizzazione, tuttavia, non procede per evoluzione meccanica o per salti
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(dall’inorganico all’organico, dal naturale allo storico-culturale) ma
per complessificazione, accumulazione e ramificazioni successive.
(…) Questa idea di uno slancio creatore, situato a monte del processo storico e che forgia le civilizzazioni, affiora chiaramente in
Naturalismo e storicismo nell’etnologia come negli scritti degli
anni 30 e 40. Resta tuttavia il fatto che l’anti-naturalismo della filosofia di Croce che de Martino aveva ereditato, lo obbliga a una serie
di correzioni che lo porteranno a orientare altrimenti questa sua
visione. Presente in autori come Driesch, Scheler o Bergson, la teoria dello “slancio” deve venire metamorfosata in qualcosa d’altro.
Di fatto, applicata al problema del magismo, l’antitesi naturalismo/storicismo, che fonda la tematica dell’opera del 1941, permette a de Martino di effettuare la transizione, e nello stesso tempo
mette a nudo un punto nevralgico della disciplina antropologica. E
cioè, l’adeguatezza delle categorie cognitive dell’etnologia alla
realtà storica e culturale studiata.» (445 – 446)
Secondo SM, questa sensibilità di de Martino al problema dell’adeguatezza delle categorie cognitive usate rispetto all’oggetto studiato non
deriva dalla sua pratica etnologica.
«A mio parere, la focalizzazione della sua attenzione sul problema della pertinenza delle categorie cognitive rispetto all’oggetto studiato è dovuta essenzialmente al fatto che si è confrontato
ai problemi tecnici ed epistemologici dibattuti nel seno della
metapsichica, visto che l’etnologia dell’epoca era ben lontana
dal porsi questioni di questo genere. A ben vedere, questo stesso
problema, che prendeva la forma di una contraddizione tra l’esigenza di una verifica sperimentale dei problemi parapsichici e
la non pertinenza delle categorie concettuali usate per questa
verifica, era stata spesso affrontata dai metapsichici, e considerata come insolubile.» (446)
De Martino, costretto dalla constatazione che la natura dell’oggetto che
ha scelto di indagare è irriducibile agli strumenti disciplinari di cui dispone, si adopera per costruire una teoria della conoscenza capace di integrare questa contraddizione superandola.
191
PIERO COPPO
«La sua teoria prevede che le concezioni culturali e le forme storiche dell’esperienza siano in grado di influenzare la produzione fisica di certi fenomeni, poiché un profondo isomorfismo esiste tra l’obiettività del mondo storico-empirico e la soggettività delle
coscienze che vi si iscrivono.» (446)
SM inserisce qui in nota: «Una tale prospettiva, dalle risonanze empiriste e pragmatiste, è apertamente riaffermata in La Terra del Rimorso – a
margine, questa volta, dei fenomeni paranormali. In quest’opera, de Martino afferma che le concezioni, i discorsi e le pratiche sviluppate dalla cultura
sapiente attorno al fenomeno del tarantismo hanno condizionato le interpretazioni che, di volta in volta, essa ne ha dato. Afferma anche che queste concezioni, questi discorsi e queste pratiche attorno al fenomeno hanno “scolpito” il fenomeno stesso, modificandone de facto la forma, il senso, l’evoluzione, fino a farlo sparire progressivamente. Ciò che equivale a dire che
l’influenza di una Weltanschauung non riguarda solo le rappresentazioni
ideologiche, ma possiede una efficacia “realizzante”.» (446-447, nota 1)
Se le rappresentazioni e le pratiche della cultura dominante hanno il
potere di scolpire l’esistente, realizzandolo, anche il modo di esserci-nelmondo delle individualità è determinato dalle caratteristiche dell’ambiente in cui evolvono. Entra qui in gioco la nozione di «presenza», che de
Martino deriva, secondo SM, da un lato dalla psicopatologia e dalla metapsichica, dall’altra dall’idealismo critico.
«La tesi centrale del MM consiste nell’affermare che la preservazione della presenza costituisce, nelle civilizzazioni magiche, una
necessità umana vitale e incomprimibile. Anteriore a ogni attività
intellettuale e pratica, e condizione di possibilità di questa, la presenza si identifica con questo substrato psichico o “sentimento elementare di sé” situato alla radice esistenziale della vita culturale che
assicura il suo dispiegamento. Nel MM essa è “energia vitale” o
“slancio fondatore” che permette all’umanità di elevarsi dalla nebbia
della natura organica e preculturale, per realizzarsi nell’opera umana
qualificata culturalmente perché orientata da dei valori. (…) tuttavia,
se essa si radica nella vitalità organica che rileva della natura, è
anche l’istanza che assicura il passaggio dal livello biologico-vitale,
regno della necessità, al livello della cultura, regno della libertà. La
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
crisi di questa energia fondatrice, che de Martino intende come una
categoria antropologica universale, costituisce dunque il rischio
supremo contro il quale il magismo, in quanto istituzione culturale,
si mobilizza. La crisi della presenza, nel MM, è concepita come un
cedimento di questa energia sintetica, la caduta della facoltà di
messa a distanza senza la quale il soggetto ricadrebbe in uno stato
psichico indifferenziato, fondendosi col mondo circostante. In
breve, regredirebbe a uno stato di identificazione passiva dell’Io col
fondo biopsichico, oscuro e ribollente, della natura.» (449)
Sono evidenti qui, secondo SM, le influenze delle teorie metapsicologiche e psicopatologiche dello psichismo umano diffuse all’epoca in certe
correnti culturali, e che danno alle categorie della presenza e della sua crisi
una colorazione vitalista e organicista che de Martino cercherà di cancellare, dopo le critiche ricevute, introducendo a partire dal 1951 l’idea che si
tratti di una struttura trascendentale dello spirito, in modo di iscriverla
nella grande tradizione dell’idealismo critico. SM illustra le sorgenti di
questa prima intuizione demartiniana (Pierre Janet, Bergson, Max Scheler
e altri) e prende l’occasione per sottolineare come la visione di de Martino
sia incompatibile con le posizioni relativiste e nichiliste, perché lo studioso cercava un modello cognitivo forte dei fondamenti dell’umano: «De
Martino è un intellettuale che si interessa alle radici dell’umano, è tormentato dal problema filosofico dei fondamenti: è già stato detto ed è una
evidenza. Ciò che è meno evidente, è che su questa ricerca dei fondamenti riposa il suo rapporto con la metapsichica: cerca, a partire da questo
campo di ricerca, delle vie nuove per esplorare la vita multiforme dello
spirito, compreso questo luogo di confine dove i limiti tra umano e subumano si confondono.» (452)
«Anche se il concetto bergsoniano di slancio vitale, così come il
principio animico di Driesch, sono agli occhi di de Martino inutilizzabili così come sono, per via del condizionamento biologico che
li sottende, non esita a invocare l’autorità di questi autori nei suoi
lavori e nelle sue corrispondenze che precedono il 1948. Come già
abbiamo visto, criticando l’idea di popoli di natura adottata dall’etnologia tedesca che implicava un dualismo irriducibile tra natura e
storia, de Martino riaffermava il principio monista di uno Spirito
193
PIERO COPPO
che si sviluppa attraverso una pluralità di “centri di individuazione
storica”. L’idea di uno Spirito (o di una Umanità nel senso più
largo) che si sviluppa mentre si differenzia in una pluralità di formazioni specifiche permetteva a de Martino di situare la sua ricerca
nel quadro di una storia generale delle culture: tuttavia questa storia, animata da una dinamica ascendente e cumulativa, non può
essere descritta in termini di evoluzione unilineare, solidale e omogenea, pur integrando l’idea di progresso, inteso come una accumulazione “complessa e diversificata di sviluppi che non possono
essere previsti in anticipo”. Insomma, si tratta qui di una concezione molto vicina a quella evolutiva di Bergson.» (455)
Ora, la teoria morfogenetica spostata dalla biologia alle culture (che, a
partire da una matrice unica, si sarebbero individuate per variazioni e differenziazioni successive), già circolava nell’ambito dell’antropologia filosofica, della biologia e della metapsichica. Le teorie del filosofo, biologo
e metapsichico Hans Driesch ipotizzavano per esempio un tutto psico-biologico indifferenziato, caricato di enormi potenzialità, situato a monte di
ogni materia animata, capace poi di individuarsi nelle singole forme.
«Da questo fondo, da questo magma non specializzato e non individuato ma gravido di facoltà biologiche latenti, si attualizzerebbero, in circostanze ambientali precise, delle facoltà e delle funzioni
determinate – proprio come, dice, avviene nelle manifestazioni
paranormali in cui il soggetto rivela una padronanza sorprendente
di lingue a lui sconosciute, ma conosciute dai suoi antenati in epoche passate. E’ proprio come se, in un fondo psichico indifferenziato e soggiacente allo psichismo singolarizzato di ogni individuo,
sussistesse la traccia mnestica di forme realizzate storicamente, ma
poi risprofondate in uno stato di latenza.» (456)7
7 Questa concezione torna nelle teorie attuali della psicologia umanistica e transpersonale (si vedano, per esempio, Stan Grof e il paradigma olografico, Grof 1985, e Ken Wilber, 1985) e anche dell’etnopsichiatria. Per esempio in Tobie Nathan, e proprio a partire
dalla storia del magnetismo: «La nostra rapida descrizione dell’esperienza di Puységur ci
ha fornito un’ipotesi, così formulabile: dietro le apparenze del mondo, esisterebbe un retromondo etereo, dai contorni imprecisi, nel quale tutti gli umani sarebbero collegati da un
fluido. Si può anche facilmente immaginarne il meccanismo: io condivido la mia acqua, la
stessa acqua, con tutti gli esseri viventi del pianeta. L’acqua contenuta nel mio corpo ne
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
De Martino condivide con Driesch e Bergson, secondo SM, l’idea di
uno psichismo organizzato per strati sempre più coscienti, sullo sfondo di
uno psichismo collettivo indifferenziato.
«Variante morfogenetica della soluzione al problema dei rapporti
tra totalità e individualità, la tesi di Driesch, che portava acqua al
mulino di molti metapsichici, si accordava altrettanto bene con
l’hegelismo di de Martino. Riposava sull’idea che il tutto vince
sulle parti come ogni parte contiene il tutto, e che la parte è animata, come il tutto, da un principio psico-organico dinamico, capace di
ricreare, in ogni frammento, la totalità dell’organismo. Formato alle
problematiche espresse dalla filosofia romantica della storia, de
Martino è anche lui intrigato dalla questione dei rapporti tra il tutto
e le parti, tra universalità e individualità. La risolve appellandosi
alla nozione hegeliana di individualità come universale concreto.
(…) De Martino coglie in queste tematiche dei tratti che può recuperare e integrare nella sua cultura di appartenenza. Numerosi temi
del neovitalismo finiscono così per confondersi con quelli dello storicismo idealista: il rapporto tra le parti e il tutto, tra fenotipo e
genotipo, tra forma e contenuto; l’idea della specializzazione e dell’individuazione progressiva degli organismi viventi; il monismo
fondamentale del reale, la sua natura profondamente spirituale (o
psichica).» (458-459)
Oltre all’idea dello «slancio vitale» e a quella della coscienza organizzata per strati, una terza, proveniente sempre dalla metapsichica e dalle
filosofie vitaliste, sembra a SM fare da sfondo alla nozione demartiniana
esce sotto forme diverse: lacrime, sudore, urina, feci, poi va a raggiungere un’altra acqua,
un’altra grondaia, un ruscello, un fiume che alla fine si getterà in mare. Poi l’evaporazione riprenderà una parte di questa acqua, la farà piovere in un altro punto, dove alimenterà
una falda acquifera da cui questo altro a me ignoto prenderà l’acqua che berrà. La mia
acqua, che ha transitato per il mio corpo, andrà dunque a irrigare il corpo dell’altro – la stessa acqua! Chissà che l’acqua versata dalle lacrime di Giulietta non sia stata, un giorno,
sotto altra forma, nel corpo di Romeo… (…) Poiché è la stessa acqua a essere condivisa da
tutti i viventi, forse condividiamo anche altri fluidi, dalla natura meno precisa, onde,
magnetismo… Se questa ipotesi fosse vera, si potrebbe immaginare che certe persone,
forse rese particolarmente fragili dalla malattia, siano capaci di penetrare in questo spazio
generale e fluidico e di riportarne delle informazioni.» (Nathan 2001: 121)
195
PIERO COPPO
della presenza. E’ la volontà, intesa come voler essere presenti al mondo.
Anche per Driesch la materia organica e «animica» è animata da un principio vitale immanente che la mantiene in rapporto col tutto, ma che anche
la spinge verso l’individuazione. Un fattore naturale individualizzante agirebbe come se volesse qualcosa, e come se sapesse come realizzare ciò che
vuole: una specie di sapere mai imparato. Anche le teorie di Pierre Janet si
intravedono dietro le categorie demartiniane di presenza e di crisi della
presenza. In particolare l’idea che la regressione a stadi inferiori liberi
delle istanze sottogiacenti, e che quindi lo studio delle personalità multiple
e dei fenomeni dissociativi consenta di mettere in luce gli stadi primitivi e
i sedimenti della personalità; e quella che la malattia possa costituire un
laboratorio naturale in grado di amplificare e rendere visibili certi processi della vita psichica normalmente non percepibili. L’idea janetiana che la
crisi psicologica sia una dissoluzione dell’ordine delle funzioni che rende
possibile la sintesi psicologica, percorre l’opera demartiniana.
«Tuttavia, la qualificazione di questa dissoluzione come fatto morboso o patologico – qualificazione che in Janet era implicita – si
affermerà in de Martino solo nei lavori degli anni ’50 e ’60, e in particolare in La fine del mondo. In quest’opera, in effetti, la dissociazione della personalità o crisi della presenza è piuttosto pensata
come una regressione radicale nei confronti dell’ordine umano,
dove il soggetto in crisi è pensato più come l’automata catatonico di
Janet, all’ultimo grado della caduta delle funzioni psicologiche, che
come un individuo in rapporto deformato con gli altri e col mondo.
Invece, i lavori di etnometafisica di de Martino (MM compreso)
l’avevano portato all’affermazione inversa: questi stati psichici
legati alla crisi dell’unità sintetica dell’Io costituiscono il perno
stesso di intere civilizzazioni. E questo, perché questi lavori sono
stati concepiti in un periodo in cui i rapporti di de Martino con la
metapsichica lo portavano a considerare sotto una luce non totalmente regressiva (poiché suscettibile di creazioni culturali e di una
canalizzazione socialmente costruttiva) queste espressioni non
ordinarie dello psichismo umano.» (466)
La logica mitico-rituale che sottintende fenomeni culturali precisi,
come la transe sciamanica, favorisce una forma di coscienza tipica, una
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
dissociazione nel regime di esistenza ordinario della coscienza (la «presenza»). La produzione controllata della dissociazione secondo forme stereotipate e sovraoindividuali (e cioè la crisi della presenza indotta artificialmente nel contesto rituale) sarebbe destinata, secondo de Martino, a
reintegrare e stabilizzare la presenza stessa in un orizzonte istituzionale
definito. Il rito diventa allora una mimesi cerimoniale della regressione
morbosa, una messa in scena della crisi. «Certo, questa riproduce formalmente la regressione psicopatologica (o il suo rischio). Tuttavia, nella
misura in cui il rischio è mimato, è anche padroneggiato e esorcizzato, ciò
che permette al soggetto di reintegrare la personalità normale.» (472)
«La visione dello psichismo umano di de Martino è certo, e lo
resterà sempre, molto lontana dalle prospettive della psicoanalisi.
E’, come abbiamo visto, legata a una concezione fisiologica e organica dello psichismo. E questo, nonostante che a partire dagli anni
’50, come lo segnalano diversi autori, la psicoanalisi abbia offerto
altri modelli interpretativi. De Martino, lui, è restato fedele a una
concezione dello psichismo vicino a quella di Bergson, Richet,
Driesch e Janet. Non ha mai lasciato questa concezione in nome di
una visione dinamica dell’inconscio. Janet e de Martino riconoscono in effetti in esso il luogo della persistenza subliminale di condotte primitive, di strati psichici primari, idea inizialmente legata all’eredità del magnetismo, poi integrata dalla metapsichica. Insomma,
le critiche rivolte da Croce al MM hanno finito per spingere de Martino a identificare sempre di più la crisi della presenza a un dato psicopatologico immediato – ciò che in definitiva lo ha portato ad
avvicinarsi alle posizioni di Janet. Ma è solo dopo le critiche di
Croce che de Martino sembra rinunciare all’eredità vitalista e funzionalista. Proprio quella che l’aveva portato a vedere nella dissociazione della personalità, e nei fenomeni parapsichici che le sono
legati, altrettanti luoghi produttori di senso, sorgenti di storia e di
forme culturali compiute.» (473-474)
SM poi, nella terza parte della sua Postfazione, descrive e analizza le
critiche, autocritiche e la prosecuzione dell’opera demartiniana, citando
fatti e documenti poco conosciuti e interessanti. Posso solo qui riprendere un aneddoto, pertinente al percorso che mi interessa. Nell’ambito
197
PIERO COPPO
della controversia con Eliade (espressa anche nei loro rispettivi interventi al colloquio di Royaumont dedicato alla parapsicologia nel 1956),
torna la questione della realtà dei fenomeni paranormali. Per de Martino è ineludibile per noi, «figli dell’Occidente», se non vogliamo tradire
la nostra stessa storia e cultura. «In quanto filosofo e storico, voglio
poter emettere un’opinione sia su questo fenomeno del volo dello sciamano, sia sul suo significato (…) Eliade ci dice che lo storico delle religioni dovrebbe accontentarsi di analizzare la visione, il sogno dello sciamano, senza il criterio della realtà o del valore culturale, perché ciò non
avrebbe nessun senso. Ora, questo valore stabilito secondo i criteri di
realtà non è mai stato estraneo a un qualsivoglia storico. Perché dovrebbe allora risultare estraneo a uno storico delle religioni?» (de Martino
1956: 106, cit. in SM: 524, nota 1) D’altro canto, il disinteresse di Eliade per i fondamenti empirico-sperimentali di questi fenomeni non datava da molto tempo. Durante gli anni ’30, aveva sostenuto una posizione
diametralmente opposta: alcune concezioni primitive e folkloriche riposerebbero su un fondamento paranormale reale. La criptestesia pragmatica, o l’esistenza di un fluido che collega gli umani agli oggetti che toccano (teoria centrale in molte pratiche magiche) potrebbero essere reali,
e quindi devono essere oggetto di studio.
Come abbiamo visto, dopo le critiche di Croce e le accuse dei suoi
nuovi compagni di colludere con gli orientamenti decadenti di discipline quali la psicoanalisi, l’etnologia e la storia delle religioni (accuse alle
quali si sentiva particolarmente esposto per essersi avviato con Cesare
Pavese sul terreno minato della «Collana Viola»), de Martino fa autocritica, cercando di liberarsi una volta per tutte dal sospetto di irrazionalismo e postula in altro modo le categorie di presenza e di crisi della presenza. Ma il suo rapporto con la metapsichica e il suo interesse per l’aspetto demiurgico dello spirito inteso come forza energetica che mette in
forma, dai confini fluttuanti, continuano, secondo SM, almeno fino al
1963, data del suo ultimo scritto sulla questione. Si tratta del testo di un
intervento all’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma:
L’approccio etnologico della fenomenologia paranormale, dove pone
come prioritaria la questione della metodologia di ricerca in quest’ambito. Alcune allusioni lasciano capire che, se non era più membro attivo
della Società Italiana di Metapsichica, assisteva comunque alle riunioni
e ne seguiva attività e pubblicazioni.
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
«De Martino dubita che una scienza parapsicologica possa esistere
in quanto scienza autonoma. O delle ricerche in questo campo sono
condotte in una prospettiva scientifica, e allora esse utilizzano una
metodologia particolare, che è quella di una delle scienze della
natura o dell’uomo già esistenti; oppure sono condotte in una prospettiva non scientifica, ed è il caso quando pretendono di costituirsi come scienza autonoma – ciò che situa spesso queste ricerche
fuori dalla scienza tout court. Questa polemica con gli parapsicologi “puri” permette a de Martino di riaffermare le sue convinzioni
relative alla portata culturale dei fenomeni metapsichici, e di ricordare l’incidenza del condizionamento storico-sociale nella loro produzione. A suo parere, l’etnologia può dire molto in questo campo,
in particolare per ciò che riguarda i punti nodali. Sottolinea prima di
tutto il condizionamento culturale dei fatti metapsichici e denuncia
le insufficienze di un approccio esclusivamente naturalista. Inoltre,
l’approccio etnologico costituisce un eccellente antidoto a ogni
forma di sovranaturalismo che possa insinuarsi nel campo della
parapsicologia. De Martino è persuaso in effetti che l’esclusivismo
così tenace dei metodi naturalisti ha per effetto, in questo campo di
studi, di suscitare e alimentare, per reazione, interpretazioni mistiche, occultiste, spiritiste, ecc.
L’approccio culturale può fornire una soluzione anche a certi problemi coi quali lo studio scientifico della paranormalità si è confrontato, da Richet ai giorni nostri. Molta energia è stata sprecata
per stabilire se i fenomeni paranormali esistono davvero o no, e i
risultati, sempre rimessi in discussione, sono relativamente modesti. “Il destino di Sisifo sembra così pesare sulle nostre ricerche,
poiché il discorso è continuamente riportato al suo punto di partenza, e cioè alla questione di sapere se questi fenomeni esistono davvero o no.” Ora, l’etnologia, in quanto approccio culturale dalla
questione, è in grado di avanzare l’ipotesi seguente: in Occidente, la
scienza della natura ha elaborato i suoi metodi nel quadro di una
polemica antimagica costante e, pertanto, rifiutando la paranormalità che può essere coesa alle concezioni culturali magiche. Al
medium in transe la scienza occidentale ha opposto, fin dalle sue
origini, la figura dell’uomo di scienza ben sveglio e presente a sé
stesso. Allo sciamano e allo stregone che proiettano sul mondo
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PIERO COPPO
esterno le loro passioni e i loro conflitti, ha opposto l’idea di un
sapere che cancella sistematicamente queste proiezioni e che
cerca, nei limiti del possibile, di mettere a nudo il suo oggetto. Infine, a un sapere occulto privilegiato, non comunicabile a tutti –
come la magia – ha sostituito un sapere democratico, intersoggettivo, pubblico nei suoi risultati e suscettibile, almeno in teoria, di
essere diffuso a tutti i livelli della società. Ecco perché, da quando
si è voluto applicare ai fenomeni paranormali i metodi forgiati
dalle scienze della natura, si è generata una impasse i cui effetti
durano tuttora. Affrontati con i metodi naturalisti, questi fenomeni non potevano entrare completamente nella sfera d’applicazione
dei metodi meccanicistici e quantitativi, poiché sono per natura
legati a dei condizionamenti culturali che quei metodi vogliono
ignorare.» (549-550)
Alcuni documenti (lettere personali tra de Martino e Giulio Einaudi,
Antonio Banfi, Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Ernesto Bozzano) e
alcuni estratti di articoli e scritti sono riportati come annessi. Infine, una
bibliografia di Ernesto de Martino e su di lui conclude la Postfazione.
Una polemica su L’Homme
Sulla prestigiosa rivista francese L’Homme è comparso nel 2001 un
commento di Giordana Charuty8 (dal titolo «Il ritorno dei metapsichici»)
a proposito della Postfazione di SM e di un testo di Bertrand Méheust,
Somnambulisme et médiumnité (1784-1930), stampato nel 1999. La Charuty riconosce a B. Méheust il merito di aver svolto un lavoro importante raccogliendo le testimonianze sui conflitti istituzionali e disciplinari
che hanno accompagnato per oltre un secolo e mezzo la costituzione delle
scienze psicologiche. Critica duramente, però, l’intenzione che, a sua
parere, anima l’Autore: riaprire una vecchia questione, attribuendo ai
fenomeni paranormali (in particolare al magnetismo) il potere di rimette8 Directeur d’étude alla Sorbona (Parigi), si occupa di etnologia religiosa dell’Europa
e fa parte del Comitato consultivo internazionale di AM, Rivista della Società Italiana di
Antropologia Medica. Ha curato il volume Nel paese del tempo. Antropologia dell’Europa cristiana, edito da Liguori, Napoli, nel 1955.
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
re in causa il paradigma delle scienze naturali. Questo approccio oggettivista, naturalista, porterebbe nel migliore dei casi a un vicolo cieco, a una
ripetizione inutile; nel peggiore, a rievocare le forze oscure dell’irrazionalismo e dell’occultismo. E questo proprio quando, secondo la Charuty,
gli approcci dell’antropologia culturale della tarda modernità (euristici,
capaci di cogliere i meccanismi dell’efficacia simbolica e delle costruzioni di senso condiviso), permetterebbero di trattare i fenomeni cosìdetti paranormali e delle relative credenze senza tornare all’opposizione tra
una scienza miope che si difende e una realtà capace di metterne in crisi
gli assunti obbligandola ad aprirsi e rivoluzionare i suoi paradigmi. Quanto al lavoro di SM, Giordana Charuty lo interpreta nella stesso senso. La
preoccupazione di affermare la possibilità empiricamente constatabile di
stati fisiologici e mentali che sembrano sospendere radicalmente le leggi
naturali, ha nella preistoria dell’etnologia religiosa europea le sue radici;
e sono proprio queste che la Postfazione vorrebbe rivalutare. Con questo
obiettivo SM riattualizza, secondo Charuty, la volontà di storicizzazione
delle magie primitive di de Martino; ma, a dimostrazione della sua parzialità, non dedica abbastanza attenzione alle ragioni e ai modi coi quali
de Martino ha preso distanza dopo il 1950 dalle posizioni espresse nel
MM e insieme dalle credenze relative ai fenomeni parapsichici.
La stessa rivista ha poi pubblicato, nel 2002, la risposta di SM e B.
Méheust: risposta articolata e a tratti, come si conviene in questi casi, un
po’ velenosa. «Dei positivisti ritardatari, in una posizione epistemologica
superata, impegnati in una lotta di retroguardia, ma anche degli irrazionalisti che potrebbero preparare l’installazione di forze oscure: ecco a
grandi linee il ritratto, in verità alquanto contradditorio, che Giordana
Charuty fa di noi.» (Mancini – Méheust 2001: 225). Secondo loro, è
prima di tutto la posizione istituzionale di Giordana Charuty a motivare la
tortuosità del suo discorso. Le costrizioni alle quali è sottoposta la rendono ambigua e, in un certo senso, inutilmente sottile; come i discorsi di
buona parte dell’etno-antropologia attuale, quando si confronta con questo tema. E questo perché «[s]i è costretti a ripudiare la nozione naturalista di “mentalità primitiva”, e a considerare che l’uomo “ha sempre pensato in modo altrettanto valido”, ma nondimeno si è obbligati a vedere
nella magia e in tutto ciò che l’accompagna una illusione tramontata di
cui la psicoanalisi freudiana avrebbe fornito le chiavi. Questo requisito è
particolarmente obbligante: ogni fallo rischia di essere sanzionato da un
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PIERO COPPO
rifiuto da parte della comunità pensante, come lo dimostra d’altra parte il
processo per scorrettezza politico-epistemologica che ci è intentato.»
(idem: 226) Gli Autori sottolineano questo arrangiamento, obbligatorio
per chi è legato alle dinamiche istituzionali, ma che comporterebbe,
secondo loro, una resa epistemologica, un pasticcio ambiguo che ha
come solo scopo quello di evitare il conflitto, la rimessa in discussione
dei paradigmi della Scienza9; ma che in definitiva impedisce proprio l’apertura (il trauma) capace di consentire quel salto epistemologico senza
il quale non c’è reale evoluzione e guadagno di conoscenza. «In effetti,
a forza di dedicarsi alla filosofia del linguaggio e all’ermeneutica, l’antropologia attuale rischia di dissolversi, e per questo converrebbe zavorrarla con (o collegarla a) una filosofia della natura; da qui l’interesse a
una sua rigenerazione attraverso contatti per esempio con filosofi come
Cornelius Castoriadis o Gilbert Simondon, che si sforzano di articolare
filosofia della natura, scienza e antropologia.» (Mancini – Méheust
2001: 233) E’ in fondo la stessa via che aveva intrapreso de Martino,
quando si rivolgeva a filosofi ed etnologi incitandoli a liberarsi delle ipoteche dovute alle loro abitudini professionali rispettive. In definitiva, si
domandano gli Autori nella loro risposta, la questione della comprensione dei fenomeni paranormali è superata perché è stata soddisfacentemente chiusa sul piano scientifico, o la si considera superata solo perché
non interessa più la sensibilità contemporanea, pur non essendo davvero
risolta sul piano scientifico? «Ora, se noi non affermiamo, se noi non
abbiamo mai affermato, che i fatti della metapsichica sono provati, consideriamo invece che la questione resta aperta e che è intellettualmente
stimolante.» (idem: 236)
A questa replica risponde indirettamente la Charuty: non commenta; a
suo parere, la replica non fa che confermare la sua analisi.
Gli etno-antropologi che leggessero i testi finora citati troverebbero
certo ben più da dire: molti sono i riferimenti a questioni disciplinari che
un profano come me non può cogliere e decifrare.
9 Sottolineo qui una accezione che condivido: Scienza con la S maiuscola è l’ideologizzazione di un sistema di pensiero e di conoscenza come detentore della verità, che però
ha in questo caso più a che fare coi sistemi religiosi che con il metodo scientifico. Scientista è ogni affermazione propriamente ascientifica, perché fa derivare il suo credito di verità
dal riferirsi alla Scienza come ideologia, e non dai risultati dell’applicazione rigorosa del
metodo scientifico.
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
Laicizzare l’invisibile
De Martino aveva voluto, secondo SM, applicare lo «storicismo assoluto» (o, come lui stesso lo chiama, lo storicismo eroico) a un ambito fino allora trascurato dallo storicismo classico. L’approccio è a doppio taglio: riguarda indissolubilmente l’oggetto di studio e il soggetto che lo studia, inteso
come l’insieme di strumenti materiali e cognitivi di cui egli dispone. Ora è
proprio dallo «scandalo etnografico», dall’incontro con l’altro insistente
nella sua diversità, che si genera «l’esame di coscienza più radicale», la
rimessa in discussione della posizione e degli strumenti del soggetto osservante. Questo effetto si trova enormemente amplificato quando l’incontro è
con alterità estreme, quali quelle numinose o psicopatologiche. Allora sono
i criteri di realtà stessi a essere messi sotto tensione e a vacillare.
Il compito con cui si è misurato de Martino è immenso: in definitiva,
si tratta di colmare il fossato che separa religioni e scienza per giungere in
prospettiva a una conoscenza capace di comprenderle entrambe. Ma è possibile «laicizzare l’invisibile» senza ridurlo, banalizzarlo e tradirlo? E’
possibile, d’altra parte, dare dignità al «sacro» senza cadere nell’irrazionalismo e nel «torbidume arcaicizzante»?
Credo di sì, ma a certe condizioni e con alcune conseguenze.
La prima è quella di accettare che esiste un limite oltre il quale la conoscenza umana diretta, anche strumentata, non può e non potrà andare. C’è,
cioè, un’area di mistero destinata a restare tale. Una volta riconosciuto ciò,
dobbiamo trovare un approccio ai fenomeni di questo mondo che hanno a
che fare con ciò che sta oltre il limite e che non sono trattabili dal metodo
scientifico: non per questo non sono reali, non hanno dignità di esistenza.
De Martino suggerisce l’approccio culturale: certo esso porta avanti (in
particolare segnalando la continuità tra fenomeni e ambiente) perché dissolve la pretesa naturalizzante e consente una maggiore operatività; ma non
può neppure esso essere esaustivo. Il limite resta: e forse è questo a essere
insopportabile per una visione del mondo (una Welthanshauung che ha una
intenzione «realizzante») che non riesce a pensarsi limitata. Per questa ottusità e presunzione, per questa vera e propria malattia dell’Occidente, il
lavoro onesto e aperto con l’alterità radicale può essere la cura che ci vuole.
C’è quindi un mondo sul quale possiamo solo fare ipotesi e al quale
sono inapplicabili misure e statistiche. Con quel mondo – con quella
dimensione – possiamo entrare in contatto solo uscendo da quello ordina203
PIERO COPPO
rio della misura e della razionalità. Lì valgono altri criteri; lì le catene
causa-effetto non sono sole a spiegare ciò che avviene; lì alle classi si
sostituiscono repertori; lì i simboli non sono astrazioni, segni di cose,
realtà diminuite, ma entità piene, dotate di autonomia sovraindividuale e
di una propria efficacia. Il passaggio tra un mondo, una dimensione, e l’altra (o le altre) è facilitato e incoraggiato in certe società («polifasiche») e
scoraggiato e patologizzato in altre («monofasiche»).
E’ anche sull’esperienza del contatto con quest’altra dimensione, quella «dell’invisibile», (oltre che sulla paura e sulla speranza) che si organizzano le costruzioni religiose. Laicizzare l’invisibile vuol dire prima di
tutto sottrarre l’esperienza immediata di questa alterità (il «sentimento
oceanico» di cui parla S. Freud10) a una sovrainterpretazione, una affabulazione rassicurante e abusiva almeno altrettanto alienante e riduttiva di
quella operata dallo scientismo: quella religiosa. Vuol dire innanzitutto
rispettarne l’autonomia, l’incommensurabilità, l’indicibilità; pur riconoscendo il senso e la dignità delle narrazioni che ne fanno le varie culture.
Su questa dimensione si possono infatti fare solo ipotesi: metafisiche, religiose, vitaliste, psicoanalitiche, olografiche, eccetera; ma nel momento
stesso in cui vengono formulate, esse appaiono passate, insoddisfacenti e,
in fondo, i semplici espedienti che sono.
Se volessimo avvicinarci davvero a questo altro mondo, dovremmo
procedere non per discorsi, ma per entusiasmi e intuizioni; o interrogare
gli esperti: esoteristi, mistici, visionari, medium, «meditanti maturi» e iniziati. Anche chi ha vissuto quella esperienza in situazione di debolezza,
riuscendo poi a ritrovare la propria presenza critica, può testimoniare su
cosa significhi stare oltre il limite: si tratta spesso di persone alle quali la
psichiatria ha attribuito il giudizio di psicopatologia.
Sporgendosi oltre il limite, gli umani provano ad agire sull’invisibile;
poiché non possono manipolarlo direttamente, cercano di influenzarlo con
pratiche lanciate nel buio, per poi osservarne le ricadute in questo mondo.
10 All’amico Rolland che gli chiedeva, commentando L’avvenire di un’illusione, se il
sentimento oceanico non potesse essere all’origine dell’elaborazione religiosa, Freud
risponde di non averlo mai sperimentato e sviluppando il tema ne Il disagio della civiltà. In
definitiva, il sentimento oceanico sarebbe per lui un’esperienza immatura, infantile e primitiva, segno di non avvenute strutturazioni e differenziazioni. Con simili posizioni (che
erano pertanto quelle degli scienziati più audaci e innovativi dell’epoca) dovevano confrontarsi (e a volte allearsi) de Martino e altri come lui.
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MA GLI SCIAMANI VOLANO DAVVERO?
Da qui formulano teorie, fissano procedure, diffondono risultati. In alcuni casi questi sono valutabili statisticamente; di altri, proprio le caratteristiche interne al sistema impiegato rendono impossibile la standardizzazione necessaria a quel tipo di valutazione.
Gli sciamani, i maghi, i guaritori, gli iniziati, i medium stanno proprio
sulla soglia, sono i traghettatori, i «signori del limite». Mentre vivono
esperienze di contatto con ciò che c’è oltre, si adoperano per fare sì che ciò
che hanno appreso migliori la loro operatività da questa parte. In questa
traduzione si accorgono spesso di tradire la qualità dell’esperienza e ciò
che hanno esperito, ma non è per loro grave perché comunque sanno ciò
che cercano di dimostrare e utilizzare. Non credono: sanno. Svelarne i
trucchi, le imperfezioni delle pratiche, le metafore, le messe in scena, le
incoerenze nelle tecniche e nelle teorie non toglie nulla alla realtà e all’intensità del loro vissuto, alla straordinarietà del loro lavoro di esploratori e
cercatori di porte, di vie di comunicazione tra il mondo ordinario e gli altri,
tra visibile e invisibili. In questo senso è del tutto irrilevante (tranne per chi
desideri appropriarsene per vie improprie) decidere se le straordinarie
performance e i fenomeni meravigliosi raccontati siano reali o no; e
comunque non sarebbero valutabili col metodo scientifico che misura,
ripete, esporta, isola, standardizza, valuta attraverso criteri statistici11.
Accettare tutto ciò non significa considerarsi soddisfatti, lasciare i rappresentanti dello scientismo delle religioni o dell’occultismo tranquilli
nella loro presunzione di verità, né, per converso, rinunciare a ogni giudizio di efficacia, coerenza, competenza.
In anni di lavoro con guaritori e iniziati non ho mai osservato o filmato eventi capaci di sovvertire le leggi della fisica; né so di altri che l’abbiano fatto. Tuttavia, in questo tempo ho imparato almeno che il meraviglioso e il mistero sono intanto godibili ed esplorabili fuori dalle tende dei
circhi e dallo sguardo degli strumenti di controllo e registrazione. E poi ho
imparato, seguendo la prescrizione di de Martino, a spostare continuamente lo sguardo dall’oggetto esotico a quello famigliare, e viceversa.
Allora, domandarsi se il volo dello sciamano è reale significa anche
11 Mi piace pensare che Mircea Eliade abbia modificato il suo atteggiamento in proposito, come risulta dalla polemica citata da SM con de Martino (Colloquio di Royaumont), perché, nel frattempo, aveva vissuto una esperienza iniziatica.
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PIERO COPPO
domandarsi se gli angeli, o i Santi Cosma e Damiano, o la Madonna possono davvero librarsi nel cielo; interrogarsi sulla telecinesi significa interrogarsi anche sui miracoli; domandarsi cosa sia la telepatia vuol dire
domandarsi cosa sia e come funzioni la preghiera, e perché tanti umani la
praticano, oppure in cosa consista l’Annunciazione. Se il dio dell’acqua
dei Dogon è una invenzione, una credenza, perché non lo sarebbe il dio dei
cristiani, quello degli ebrei e musulmani? Ecco che domandarsi se gli sciamani volino davvero finisce per portarci a chiederci, nell’Italia cattolica,
se «esiste» dio, cosa inghiottano realmente i comunicandi, se il sangue di
S. Gennaro si liquefi realmente oppure no. Forse, chi suppone di rappresentare un sistema laico, la Scienza, ha dato di tutto ciò (e delle pratiche e
teorie della stragrande maggioranza degli umani) interpretazioni troppo
sbrigative. Quanto una visione del mondo, un tempo giustamente reattiva
e liberatoria, quella dei «materialisi atei», sia divenuta oggi un limite al
progresso della conoscenza e all’evoluzione del rapporto tra Specie umana
e ciò che la circonda, è sotto gli occhi di tutti. Ecco un bell’esempio, a noi
vicino, di «weltanschauung realizzante»: adottare come cosmovisione
quella di un mondo privo di anime significa fare di tutto per disanimarlo
davvero. Anche questo divenire è sotto gli occhi di tutti.
Purtroppo, non è possibile accertare se dio c’è o no, ed eventualmente
di quale dio si tratti; il fatto non è accertabile proprio perché non è un fatto.
Piuttosto che ostinarsi in quella direzione, mi sembra molto più interessante valutare quali conseguenze abbiano sulla qualità della vita (umana)
sulla terra e sulla operabilità nelle situazioni di crisi le diverse teorie che
gli umani formulano sull’inconoscibile.
D’altronde i tempi in cui la Scienza, o una Religione, eliminavano
dalla storia ciò che non potevano comprendere sono per fortuna passati.
E allora, cosa rispondere, sia pur provvisoriamente, a chi volesse sapere se gli sciamani volano davvero? Non chiedetelo a ornitologi, ingegneri
o controllori di volo; né a filosofi, antropologi, etnologi, etnopsichiatri.
Se volete scoprirlo davvero provate a diventare voi stessi sciamani.
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