Manifesto programmatico

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Manifesto programmatico
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Sevizie e delitti ai danni di donne sono ormai ordinari, quasi sfociati nel territorio epidermico dell’intrattenimento. D’altra parte
sono così tanti, reali e fictional, crudi o estetizzati, che alla fine ci
ritroviamo tutti in un generale stato di assuefazione, in una narrativa confusa in cui realtà e finzione si mescolano. Seni mutilati,
vulve cucite, stupri di gruppo impressionano poco.
Vili taglietti sulla minchia fanno invece inorridire. Per non parlare di alcune pratiche tribali sul pene, o dei testicoli estratti dallo
scroto, come in una scena di 2666 di Bolaño.
La parte dei delitti, in 2666, suscita un raccapriccio speciale quando si legge dell’evirazione dell’assassino in carcere. Il tutto in un
libro pieno zeppo di resoconti di uccisioni e torture a donne e ragazze e dove di atti di violenza strettamente sessuale subiti da un
uomo ce n’è appena un paio, attuati da altri uomini.
Le storie, ambientate da Bolaño a Santa Teresa, ricalcano fedelmente il femminicidio di Ciudad Juárez, il centro messicano ai confini del deserto di Sonora che, insieme alla città texana di El Paso,
costituisce la maggiore area metropolitana binazionale sul confine
fra Messico e Stati Uniti. Dal 1993 è famosa proprio per via di rapimenti, torture e omicidi perpetrati ai danni di giovani donne, di
solito operaie delle fabbriche alle soglie del primo mondo, le cosiddette maquiladoras.
Nel libro, di uccisioni e tormenti inflitti alle donne si legge quasi
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con un senso di ordinarietà, anche se, o forse proprio perché, si
sanno basate sulla realtà. Si sopportano anche le battute goliardiche dei poliziotti, forse complici, forse solo conniventi, sulle vittime brutalizzate.
Non è paranoia. Ne ho dibattuto con diversi amici, femmine e
maschi, ma soprattutto maschi. Gente colta e sensibile che però vive
in questo mondo, calata in questa cultura per la quale la violenza
di un uomo su una donna è in qualche modo “normale”, ascrivibile a un’intrinseca gerarchia basata sulla forza fisica, a un più ampio
“ordine naturale”, che si pretende sia lo stesso in virtù del quale il
leone mangia la gazzella. In fondo sta alla gazzella scappare.
Ho letto su internet un’intervista in cui Alicia Giménez-Bartlett
racconta che quando ha pubblicato Messaggeri dell’oscurità – nel
quale arriva in commissariato un pacchetto contenente un pene
amputato, e nel corso del romanzo ne verranno tagliati alcuni altri – ha ricevuto svariate critiche sulla verosimiglianza di una tale
circostanza. Un chiaro esempio di rimozione, si direbbe in psicoanalisi, tanto più che, come ha rivelato la scrittrice, la narrazione
muove da un fatto di cronaca. Tra l’altro, un rapporto del dipartimento di giustizia americano, citato in un vecchio giallo che ho
letto per caso, riporta che i maschi non sono soltanto i principali
perpetratori di violenza, ma anche le vittime privilegiate di crimini violenti. Solo che era un rapporto del 1988, è possibile che da allora le cose siano cambiate.
In ogni caso, non mi risulta invece che il problema della verosimiglianza sia stato posto a Bret Easton Ellis che, in American Psycho,
si è sbizzarrito a far commettere i più efferati e paradossali crimini sessuali al suo triste Bateman, un Edipo non risolto a orologeria.
Da qualche tempo sto maturando una consapevolezza riguardo
alla mia missione esistenziale: riequilibrare la percezione di normalità dell’abuso sessuale fra i due generi. Con questo non intendo dire che stuprerò e sevizierò maschi a casaccio, o che a ogni
violenza sessuale ai danni di una donna riportata sul giornale farò
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corrispondere una violenza sessuale su un uomo. Stuprare non è
da me, e poi devo ammettere che da sola sarebbe troppo faticoso.
Non posso neanche attribuirmi un profilo da giustiziera, perché
finora non ho avuto a che fare con stupratori o assassini comprovati, ma unicamente con coglioni maschilisti o compiaciuti sciovinisti che disprezzano ogni forma di alterità, che parlano con compiacimento di mutilazioni genitali femminili salvo poi condannarle
come barbarie ed ergersi a salvatori della dignità delle donne quando si tratta di dichiarare gli altri “inferiori”.
Per questo non metterò in pratica violenze a sfondo specificamente sessuale ai danni di nessuno, ma mi limiterò a spaventare
tali individui che forse semplicemente non hanno avuto la possibilità di riflettere, di abbandonare neanche temporaneamente l’idea
che hanno di se stessi e di provare quindi empatia per gli altri. Mi
limiterò a spaventarli immobilizzandoli e leggendo loro i miei esercizi letterari di sevizia, quelli che tengo nel cassetto, il cassetto dove
gli altri tengono un romanzo o un generico sogno. I miei esercizi
su Marinetti, Ellis, Bolaño.
Quando riconoscerò in loro l’acme del terrore, o quando il mio
repertorio scenico e letterario si esaurirà, se non saranno già svenuti, darò loro una botta in testa, gli inietterò una bomba di estrogeni a rilascio lento (l’equivalente di tre mesi di pillola contraccettiva di quelle potenti, quelle sperimentali degli anni Cinquanta) e,
se mi nasceranno scrupoli di natura etica all’idea che cresceranno
loro le mammelle (nel caso non le avessero già belle protuberanti, data la diffusa lipomastia causata forse dall’eccessivo consumo
di carne industriale), li placherò senza difficoltà richiamando alla
memoria le circostanze che hanno portato le cosiddette vittime al
mio cospetto. Insieme agli estrogeni, e questo è un regalo, inietterò loro anche dell’ossitocina, l’ormone dell’amore, il peptide prodotto dai nuclei ipotalamici e secreto dalla neuroipofisi, la sostanza chimica dell’orgasmo e della generosità.
È così che si dovrebbe condurre la guerra per la pace, non con i
missili e le granate.
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Alla fine li abbandonerò, sostanzialmente intatti, sul ciglio di qualche carreggiata di campagna fuori Milano. Non li uccido, non li mutilo. Se possibile non farò loro nemmeno un graffio. Voglio terrorizzarli soltanto, li farò sentire deboli e vulnerabili. Impartirò loro una
lezione di compassione e li rinnoverò, li ricreerò biochimicamente.
Non è che abbia traumi da superare o stupri da vendicare. Non
personalmente, almeno.
Ma ogni volta che rientro a casa la notte e ho paura, che rifletto sull’opportunità di andare a correre sola a parco Sempione e mi
dico “meglio di no perché è buio”, che decido di non mettere i tacchi o le scarpe blu, che adoro ma mi vengono un po’ strette e non
mi permetterebbero di correre in caso di pericolo, se so che dovrò
percorrere un tratto di strada isolato, mi sento violata.
Ognuna di noi ha di che essere esasperata quando – in un articolo relativo all’assassinio di una donna da parte di un fidanzato,
o marito, o convivente, o ex di qualunque tipo, o anche solo spasimante – venti righe su trenta parlano di lei, delle sue nuove abitudini che rendevano lui geloso, dei nuovi amici, di un possibile
amante, o semplicemente della sua avvenenza. E le dieci righe restanti raccontano di lui che si è lasciato prendere da un umano scatto di nervi, da una crisi di insicurezza. Un raptus, un momento di
follia dettato dallo sfinimento.
Ogni donna ha di che sviluppare avvilimento, alienazione, frustrazione, rabbia quando, sull’ennesimo trafiletto che parla di una
vittima di violenza domestica, metà dello spazio è occupato dalla foto d’archivio, quasi glamour, di una ragazza in sottoveste, accovacciata in un angolo e in posizione di difesa, uno scatto che significativamente è la soggettiva dell’uomo assassino. Nei casi più
drammatici compare la foto di una volante, di un poliziotto o di un
carabiniere: una specie di marketing istituzionale che ci dice che in
fin dei conti tutto è sotto controllo. Ma l’assassino non è mai l’oggetto dello sguardo, forse perché sarebbe meno carino della vittima e avrebbe la faccia normale del mio bancario, del mio fruttivendolo, del mio commercialista, di quel coglione di mio fratello.
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E parlo di donne esasperate e forse sbaglio, perché in teoria non
avresti bisogno di essere femmina per sentirti offeso e disgustato.
Ma hai certamente bisogno di una sensibilità speciale se la pelle
non è la tua, se la cultura ti rassicura nel ruolo tutto sommato meno
pericoloso del potenziale carnefice, ruolo in apparenza meno umiliante di quello della vittima predestinata di una violenza sessuale.
Insomma, da donne, non c’è bisogno di essere state aggredite
per essere logorate. Basta la possibilità di esserlo, basta sentire la
propria libertà limitata.
Non ho traumi personali da superare, fino ad ora. Ma ognuna di
noi ha di che incazzarsi nel sentirsi in qualche modo una vittima
designata nella generale indifferenza e in dovere di avere paura.
Dover convivere fin da piccole con una minaccia, anche solo implicita, non è forse già subire una violenza?
Non ho stupri personali da vendicare.
O forse, alla fine, sì.
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