Il girone dei clandestini

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Il girone dei clandestini
Il girone
dei clandestini
di BARBARA SCHIAVULLI – foto di RICCARDO VENTURI
Alcuni erano partiti per il tradizionale pellegrinaggio musulmano
alla Mecca, altri per cercare un luogo in cui vivere senza guerra e
senza carestia. Tutti però sono finiti nelle mani dei trafficanti
yemeniti di esseri umani. E, dopo mille violenze e peripezie, oggi
sopravvivono nel limbo dei campi profughi. Queste sono le loro storie.
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REPORTAGE
YEMEN
A
bu Bakr si lascia andare
su una sedia con lo slancio di un elefante che si
tuffa in un lago. È un uomo esausto. Un uomo deluso. Un uomo che nella preghiera cerca la forza di affrontare quello che lo
circonda. Ha il carisma di quegli africani che non possono che essere dei capi. Lui è l’imam di una moschea in Etiopia. E fino a tre mesi fa aveva un sogno:
andare in pellegrinaggio alla Mecca.
Non è solo un desiderio da buon musulmano, è anche un dovere, uno dei
pilastri dell’islam, un viaggio che almeno una volta nella vita bisogna fare.
I desideri non conoscono confini, ma la realtà sì, e il visto per l’Arabia
Saudita, chiesto e richiesto per ben
quattro volte, gli è stato sempre negato. Non si capacita quell’omone di
mezz’età con il nome di uno dei migliori amici del profeta. «Ci volevo andare
legalmente, volevo fare le cose per bene, ma non mi è stato permesso. Le autorità saudite temono che uno dica di
voler andare alla Mecca e poi, invece,
In questa foto: Firdus, una
giovane madre di 23 anni,
con i suoi due figli nel
campo profughi di Kharaz,
nel Sud dello Yemen.
A sinistra, dall’alto: Safa,
31 anni, nel Centro per
donne maltrattate di Intersos,
a Sana’a; Eshete Ali, 17
anni, nel Centro assistenza
minori vittime del traffico
di esseri umani di Intersos.
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Dall’alto, in senso orario: gli uffici del Centro assistenza minori di Intersos; una donna nel campo profughi di
Kharaz; un ragazzo nel centro per minori; Akasak, una donna di 28 anni, nel Centro per donne maltrattate a Sana’a.
resti clandestino nel Paese, ma non era
il mio caso», ci racconta Abu Bakr, incastrato nel campo profughi di Harad, in
Yemen. «Poi una persona che credevo
amica mi ha suggerito di arrivare alla
Mecca illegalmente, che conosceva delle persone che potevano portarmi. Ho
raccolto i soldi, li ho pagati, mai avrei
pensato di ritrovarmi in un incubo».
Abu Bakr è solo uno dei migliaia di africani che ogni giorno lasciano la loro terra all’inseguimento di un sogno, alla ricerca della fede, di un lavoro, o di una
vita migliore, magari lontana dall’orrore della guerra. Ma nessuno di quelli
che parte ha idea di ciò che dovrà affrontare una volta che si mette nelle
mani dei trafficanti.
Sono due le tratte principali di profughi e immigrati clandestini che partono dall’Africa: la prima è quella che dal
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centro porta a nord verso l’Europa, attraversando il Mediterraneo per poi
spiaggiare, spesso, sulle coste italiane;
l’altra corre verso est, dal Corno d’Africa attraverso il golfo di Aden nel tentativo di raggiungere gli Emirati arabi passando per lo Yemen: un Paese debole, acciaccato da una rivoluzione che ha liquidato decenni di dittatura, facendo spazio a un Governo fragile e a tutto quello
che comporta la caduta di un regime
che teneva a freno rivalità tribali, una
guerra a Nord con il movimento sciita
degli Houthi, al Sud con i separatisti, facendo largo alla presenza di al-Qaeda
che per un anno ha imposto il suo emirato in alcune regioni, fino a che l’esercito
yemenita – sostenuto dai bombardamenti americani – ha fatto retrocedere i
militanti lasciandosi alle spalle solo morte e devastazione.
N
el Paese più povero e ignorante
del Medio Oriente non poteva
che fiorire un traffico di esseri
umani senza controllo. Non esiste neanche una legge contro i trafficanti in Yemen, eppure è qui che tutti i giorni approdano le vite perdute di migliaia di
persone e il loro orrore si compie. Di
nuovo, come se le loro esistenze non
fossero già martoriate, come se le loro
storie non fossero già intrise del sapore
amaro della guerra o della povertà. Nel
2011, 103 mila tra somali ed etiopi sono
arrivati sulla costa yemenita. «Il 25 per
cento riesce a tornare a casa, il 70 rimane», ci spiega Berhane Taklu Nagga, direttore dell’Ufficio Unhcr (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) ad Harad, «perché le condizioni in patria non
sono cambiate, mentre qui hanno servizi, pasti, assistenza, ma serve una politica
Dall’alto, in senso orario: una donna somala nel campo profughi di Kharaz tiene incatenato uno dei due figli; alcuni
rifugiati nello stesso campo; un ragazzo e le camerate del Centro assistenza minori vittime del traffico di esseri umani.
a lungo termine, serve anche stabilità
nel Paese, serve riconciliazione e lavoro». In poche parole, serve un futuro.
Siné Mupenzi ha 29 anni e la voce
di un angelo. Morbida, dolce, piena, ferma. Sembra che possa pronunciare solo
cose buone, invece le sue parole sono
lame affilate. «Nel 2010 ho lasciato il
mio Paese, il Congo, perché c’era la
guerra. Io sono tutsi», ci dice Siné che
non riesce a controllare le lacrime che
le riempiono gli occhi. «Un giorno un
gruppo di uomini è arrivato a casa mia.
Hanno ucciso mio marito e poi mia figlia. Poi hanno ucciso mia sorella incinta
e le hanno tagliato la pancia ed estratto
mio nipote non ancora nato. Sua figlia è
corsa dalla madre e loro l’hanno presa
per la testa e l’hanno sbattuta a terra.
Dopo essere stata violentata da quegli
uomini, sono riuscita a prendere mia ni-
pote e mio figlio e siamo scappati. Ora
siamo qui, ma la vita è dura».
S
iné è ospite a Sana’a di un centro
antiviolenza messo in piedi da Intersos, l’unica Ong italiana presente in Yemen con una serie di progetti
che variano dall’assistenza alle donne
che hanno subito violenza, ai minori abusati, al sostegno degli sfollati delle guerre
interne. Una goccia nel mare di follia che
circonda questa gente, ma della quale
non si può fare a meno. «Cerchiamo di
evitare con la nostra presenza un disastro umanitario in questo Paese, le persone devono sapere che non sono sole»,
ci dirà poco più tardi Naveed Hussain, il
rappresentante dell’Unhcr in Yemen.
Siné, come tutti gli altri che partono alla volta dello Yemen, si è rivolta a
dei trafficanti. Ma il viaggio non è come ci
si immagina. In patria, si contatta – in genere attraverso il passaparola – la prima
banda di trafficanti, che si fa pagare circa
600 dollari per arrivare alla spiaggia di Gibouti; poi altri 1.200 per attraversare il
mare e poi una terza tranche da pagare
per essere portati a nord, al confine con
l’Arabia Saudita. «Quello che molti non
sanno», ci spiega Naveed, «è che il viaggio finisce qui. Immigranti e sfollati vengono presi in Yemen, tenuti in ostaggio, picchiati e violentati fino a quando non chiamano a casa e le famiglie non trovano i
soldi per pagare il riscatto. Se poi sono
fortunati vengono abbandonati sul confine, sennò vengono dati ad altre bande e
si ricomincia tutto da capo».
Eshete Ali è il più grande di sei figli.
Quando suo padre è morto, ha cercato
un lavoro nel suo Paese, l’Etiopia, ma i
salari erano troppo bassi: «Dovevo fare
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Un ragazzo nel Centro assistenza minori. Chi volesse aiutare le donne e i bambini in Yemen può andare sul sito
www.intersos.org e fare un versamento sul c.c. postale n. 87702007 intestato a Intersos, via Aniene 26/A Roma.
qualcosa, ero responsabile per la mia famiglia e così ho venduto quello che avevamo: un po’ di terra e due macchine
per pagare i trafficanti». Eshete ha lo
sguardo di un vecchio, di chi ha già vissuto e visto troppo, eppure ha solo 17 anni. «Eravamo in 115 su una barchetta, ci
abbiamo messo sette ore ad attraversare il mare. Quando il barcone ha cominciato a muoversi troppo perché le onde
erano diventate alte, i trafficanti hanno
cominciato a buttare in mare un po’ di
persone. Non si è salvato nessuno di loro. Credevo di non poter avere più paura di così. Quando siamo arrivati alla
spiaggia, ci aspettavano alcune macchine,
gli autisti erano armati, ci hanno costretto a salire, ci hanno portato in una casa e
ci hanno detto che dovevamo chiamare
i nostri familiari e chiedere altri soldi. Ho
provato a resistere, ma mi hanno picchiato tanto che ho creduto di morire».
Eshete mostra le cicatrici delle botte, le bruciature delle sigarette sulla sua
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pelle nera. Le lacrime gli scendono lungo le guance anche se tenta di resistere:
«Sentivamo le donne urlare, sapevamo
che le stavano violentando, ma nessuno
di noi le poteva difendere perché le tenevano lontano». Ha chiamato a casa, lo
picchiavano mentre parlava al telefono
con sua madre che ha subito venduto i
mobili e spedito cinquecento dollari. «Il
ragazzo che mi stava vicino è morto dalle botte, ci picchiavano uno per volta e
quando si stancavano di prenderci a calci, si fermavano e poi riprendevano». Lo
hanno tenuto per settimane, poi lo hanno lasciato andare. È stato preso dalla
polizia e portato nell’unico centro minori di Harad (nel Nord dello Yemen),
sempre gestito da Intersos. «La notte
non riesco ancora a dormire, sento le urla nella testa, ma qui sto bene: mangio
tre volte al giorno, ho un letto, mi trattano bene, voglio solo tornare a casa».
Tutti vogliono tornare a casa. Ma il viaggio di ritorno ha i tempi della burocrazia.
S
ofia Muhammad, invece, non sa
neanche più quale sia casa sua. È
arrivata in Yemen alcuni anni fa,
per andare in Arabia Saudita. «Dovevo
lavorare, invece sono stata presa dai
trafficanti, non avevo soldi per pagare il
riscatto e nessuno che potesse aiutarmi. Mi hanno torturato per mesi, mi minacciavano con un coltello, usavano
l’elettricità, poi mi hanno portato in Arabia Saudita e consegnato a una famiglia
come domestica. In realtà, ogni sera il
padrone entrava in camera e mi iniettava qualcosa con una siringa e, quando
mi risvegliavo, ero nuda».
Wazira Jamal, 20 anni, non sa che
fare, guarda il suo pancione e scuote la
testa. «I trafficanti mi hanno lasciato andare quando hanno scoperto che ero
incinta. Erano in tre, mi hanno tenuta
prigioniera per 12 settimane, non so chi
sia il padre e non so cosa racconterò a
questo bambino. Volevo solo un lavoro, una vita normale, aiutare la mia fami-
questo non sia normale per gli altri.
Non dovrà mai essere normale per la
gente comune, per quella che sta bene,
il fatto che ci siano dei profughi nel mondo». Perché la normalità è parente stretta dell’assuefazione e dell’indifferenza.
Ci si sposta a sud, nel campo di
Kharaz (18 mila presenze, la maggior
parte somali), non lontano da Aden,
una deliziosa città portuale, centro di tutti i traffici yemeniti. Ci sono spesso attentati: al-Qaeda, respinta indietro, è tornata alle vecchie tecniche del terrorismo,
in attesa di tentare una nuova conquista.
A
In queste due immagini: scene di vita quotidiana nel campo profughi
di Kharaz, che sorge nello Yemen meridionale, non lontano da Aden.
glia in Etiopia e ora non posso tornare
perché mio figlio non verrebbe accettato. Odio me stessa, tra poco dovrò partorire e ho molta paura: non so che ne
sarà di me, di noi». Wazira piange, ma
ha il coraggio di una leonessa: ha trovato una casa e con i soldi che le danno gli
italiani paga l’affitto, poi cercherà un lavoro nella sua comunità.
È una vetrina di dolore che sfila davanti a chi ascolta, il centro di Harad.
Volti distesi di vite accartocciate dove la
gioia è nelle piccole cose che si conquistano ogni giorno. Non si può dimentica-
re mai, a volte neanche quando si dorme, perché i sogni diventano incubi.
«Non bisogna aver solo pietà di loro,
meritano il nostro rispetto, hanno una
grande dignità e forza», mi dice Maimuna Mohamud, un’operatrice di Intersos,
somala americana. Sa bene che poteva
essere dall’altra parte, invece la sua famiglia è stata più fortunata, è scappata in
America, l’ha fatta studiare e ora lei è andata in Yemen per dedicarsi alla sua comunità. «C’è un momento in cui bisogna restituire la fortuna che si è avuta»,
dice. «Il mio obiettivo è far sì che tutto
lcuni residenti del campo sono lì
da vent’anni – sono fuggiti dalla
Somalia in guerra e non possono ritornare –, altri sono appena arrivati. C’è un uomo con una ragazzina di dieci anni che stanno interrogando: lui dice
di essere lo zio, ma gli operatori umanitari sospettano che sia un trafficante e
quindi incrociano le storie, non sarebbe
la prima volta. I trafficanti sono fuori dal
centro. Aspettano che qualcuno esca e
abbia voglia di fuggire, di tentare la fortuna, ma lì le storie girano: sono disperati,
non sprovveduti. Rahman Muhammad,
30 anni, ha perso l’uso delle gambe per
le violenze subite. Anche lei era scappata dalla guerra, ma non ci è riuscita: un’altra guerra si è avventata su di lei, quella
dei trafficanti, e oggi si ritrova con sei figli nati dalla violenza. Ha perso la testa
per poter sopravvivere.
In una capanna vicina, un’altra ragazza viene dalla Somalia, ha 28 anni, un
figlio in braccio e un altro di sei anni legato a una catena. «Lo devo tenere legato
per la sua sicurezza, qui nel campo un
uomo ha abusato di lui, io non voglio
che esca, non voglio che succeda ancora». La paura fa anche questo, trasforma
una madre che ha subito violenza in una
carceriera, pur di salvare il figlio. Si cerca
la chiave, si sollevano materassi, vestiti lisi, pentole impilate, alla fine il piccolo viene liberato. Ma è solo l’euforia di un attimo, tutti sanno che fuori c’è l’inferno
che aspetta.
l
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