La Resistenza delle Donne il coraggio e la fantasia
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La Resistenza delle Donne il coraggio e la fantasia
Donatella Alfonso La Resistenza delle Donne il coraggio e la fantasia dell’esercito che nessuno aveva arruolato Quando ti raccontano, anche se sono passati sette decenni, che cosa sono stati i loro sedici o vent’anni di guerra, vedi un sorriso e gli occhi che se ne vanno indietro a ricordare. Ma la risposta, per tutte le donne che sono state partigiane – staffette o combattenti, la divisione dei ruoli almeno qui non conta – è la stessa: “Era quello che mi sono sentita di fare”. Hanno fatto molto, le donne partigiane. Molto di più di quello che non vogliano ammettere quelle tra loro che possono ancora raccontarlo. “Hanno cercato di fare più degli uomini, disponibili ad avere più impegni, più incarichi. Perché non chiedessero: ma qui cosa ci fai? Ed è un atteggiamento che ancora non è cambiato, nel lavoro e nella politica, anche”. Così Mirella Alloisio, “Rossella”, nata a Sestri Ponente, racconta oggi la sua esperienza di quando, diciassettenne, entrò a far parte della direzione del Cln. Lei che aveva in mano i documenti di tutto il vertice clandestino, e che sapeva i nomi di tutti: un ruolo delicatissimo, una figura scelta proprio perché la ragazzina con le trecce da studentessa modello non poteva dare nell’occhio ai nazifascisti. E proprio nel ponente di Genova, se si va a ben vedere, nasce dalle donne la prima reazione alla guerra, con la donna, ricoverata all’ospedale di Sampierdarena subito dopo il bombardamento navale inglese del 9 febbraio del 1941, che grida “pace, pace” a Mussolini in visita ai feriti. Ed è lo stesso capo del fascismo ad ammettere l’insofferenza delle donne verso la guerra in un discorso del 1942, nel corso del quale cita questo episodio. E subito dopo il 25 luglio ’43 le manifestazioni per la pace sono praticamente sempre guidate da donne. A La Spezia la polizia fascista uccide l’operaia sedicenne Nicolina Fratoni, che sventolava il tricolore in testa al corteo; l’11 settembre Cesarina Chiabrera, socialista, è uccisa sul pianerottolo della sua casa di Sestri ponente dopo che una spia ha rivelato ai fascisti che in un garage adiacente c’è un camion pieno di munizioni nascosto dagli antifascisti. “Aveva ragione Giorgio Bocca: dovevano essere ben spinti da qualcosa, quelli che sono andati in montagna – ragiona un’altra genovese, Carla Ferro di Sampierdarena – E ci sono andati volontariamente, non ce li ha mandati nessuno. Volevano far finire il fascismo, la guerra la fame … Io ritengo di non aver fatto che poco o nulla, ho portato dei pacchi, ho cercato di aiutare i veri partigiani: quelli che hanno combattuto, che ci hanno rimesso la vita. Ma adesso, dopo tanti anni, penso che aver partecipato – anche se, lo ripeterò sempre, molto marginalmente – al movimento della Resistenza per me ha significato mobilitarsi contro l’ingiustizia, E questo ti resta addosso”. Non è vero, come dice Carla minimizzando il suo ruolo nella lotta di Liberazione, che le donne abbiano fatto poco. E soprattutto, che siano state poche: perché in quell’esercito senza divise né stellette, un’azione di guerra poteva essere anche garantire un paio di pantaloni “borghesi” ad un militare in fuga, una pentola di minestrone o di castagne bollite ad un reparto di ribelli sui monti, una bicicletta con la quale trasportare documenti, giornali, armi smontate e nascoste tra i libri di scuola o le poche patate recuperate nei borghi dell’entroterra. Negli elenchi ufficiali dell’Anpi risultano 35 mila partigiane combattenti, 20 mila “patriote” con finzioni di supporto, 70 mila ragazze e donne inquadrate nei Gdd, i gruppi di difesa della donna (avviati a Milano nel novembre del ’43 da donne appartenenti ai partiti del Cln). Diciannove sono state le medaglie d’oro al valor militare concesse nel dopoguerra, 17 quelle d’argento. Ma sono un numero minimo: 2812 le donne fucilate o impiccate, 1070 cadute in combattimento, 2750 deportate nei campi di sterminio, 4653 arrestate e torturate, 891 (di cui 112 in Liguria) deferite al Tribunale Speciale. Ma gli esperti militari calcolano che furono circa un milione le donne coinvolte nella Resistenza. A vari livelli, con attività diverse: dalle contadine che prendevano l’iniziativa per aiutare i familiari fuggiti o nascosti alle operaie che guidano gli scioperi, sono le donne a cui nessuno ha imposto o chiesto di prendere u na posizione, di vestire una divisa piuttosto che un’altra: loro, semplicemente, l’hanno fatto. Ci sono le donne che costituiscono le loro brigate, come quella intitolata ad Alice Noli, giovane di Campomorone torturata e fucilata; la vicecomandante sarà “Tamara”, Vincenzina Musso che attraverso il suo banco lotto in piazza Vittorio Veneto saprà organizzare gli aiuti ai soldati che fuggono dopo l’8 settembre, facendoli uscire uno ad uno a braccetto con una donna, rivestiti nel retrobottega con gli abiti civili che le altre hanno portato. Lei che si ribella a quell’imposizione dettata dal perbenismo che albergava comunque anche tra i combattenti e che non vorrebbe che alla grande sfilata del primo maggio 1945 a Genova ci siano le donne, perché “non sta bene sfilare in pantaloni”: e allora, con tessuti militari, cuce e fa cucire ampie gonne color cachi o grigioverde, con cui le ragazze sfileranno orgogliose. Perché la Resistenza è la grande prova di cittadinanza delle italiane, la prima in assoluto in un’Italia arretrata anche sotto il profilo dei diritti civili e delle donne, a tutti i livelli. E non è un caso, come ricorda Lidia Menapace, partigiana, poi appassionata protagonista di una vita intera di impegno a favore delle donne e dei diritti, a ricordare che è stato per l’azione delle “madri” costituenti, le 21 deputate dell’Assemblea Costituente, se c’è un articolo tre, quello per cui la Repubblica rimuove gli ostacoli contro l’uguaglianza di genere, razza e religione. Non ancora pienamente fatto diventare realtà. La lotta delle donne, iniziata settant’anni fa, continua nel ricordo di quelle ragazze partigiane della porta accanto.